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Libreremo

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Giovanni Arrighi

I c ic li SISTEMICI
DI ACCUMULAZIONE
Le trasformazioni egemoniche
dell’economìa-mondo capitalistica

Rubbettino
1999
Il volume raccoglie le lezioni tenute al dottorato di ricerca in "Scienza,
tecnologia e società" presso il dipartimento di sociologia e di scienza
politica dell'università della Calabria. Il testo non è stato rivisto dal­
l'autore.

Giovanni Arrighi è docente di sociologia alla Johns Hopkins Universi­


ty di Baltimora (Usa).

Haimo collaborato alla realizzazione del testo i dottorandi Giuseppe Capa-


relli, Paolo Caputo, Francesco De Àngelis, Elisabetta Della Corte, Anna
Elia, Vincenzo Fortunato, Walter Greco, Giap Parini, Giovanni Passarelli,
Silvia Sivini.

Collana diretta da Giordano Sivini, coordinatore del dottorato di ri­


cerca in "Scienza, tecnologia e società", dipartimento di sociologia e
di scienza politica, università della Calabria (e-mail sivini@umcal.it)

© 1999 - Rubbettino Editore


88049 Sovena Mannelli (Catanzaro) * Viale dei Pini, 10
Tel. (0968) 662034 (4 linee r.a.)
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Verso un nuovo ordine mondiale

Interpretazioni delia globalizzazione

Quello di globalizzazione è un termine nuovo che, per quanto


ne sappia, è entrato in uso negli ultimi dieci anni; infatti venticin­
que, trenta anni fa, si parlava ancora di imperialismo. Successiva­
mente, però, questo termine è entrato in disuso e, per circa dieci
anni, si è parlato di egemonie mondiali. Il termine globalizzazione
è diventato infine popolare, in particolare modo negli USA, dopo
la fine della guerra fredda, con il crollo dell'URSS.
Subito dopo la fine della guerra fredda, all'inizio degli anni
'90, vi è stata, promossa dagli USA e sotto l'egida delle Nazioni
Unite, la guerra del Golfo, ed è proprio in questi anni che il presi­
dente Bush, comincia a parlare di luì nuovo ordine mondiale. Si
consideri che la guerra fredda costituiva una specie di ordine
mondiale fondato sulla contrapposizione tra mondo comunista e
mondo non comunista. All'interno di questi due sistemi contrap­
posti c'erano alleanze tra stati, e l'egemonia di uno stato guida, gli
USA da una parte, e l'URSS dall'altra. Le vicende politiche, sia a
livello nazionale che globale, venivano generalmente impostate in
riferimento a questo confronto, ossia alla lotta ideologica tra 1 due
cosiddetti sistemi. Ragion per cui anche la politica italiana era
governata da questa contrapposizione, e si esprimeva nella lotta
politica tra partito comunista e democrazia cristiana, ciascuno con
i propri alleati; le linee da seguire all'interno del paese erano sem­
pre determinate dalle alleanze precostituite all'interno dei due
blocchi.
Nel momento in cui c'è il crollo dell'URSS, cessano di operare
anche i precedenti tipi di allineamenti, ed è a questo punto che si
comincia a parlare di globalizzazione. Non che il sistema della
guerra fredda non fosse un sistema globale; però a questo punto si

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comincia a diffondere l'idea che tutti i paesi del mondo, nessuno
escluso, fanno parte di un sistema unico, in cui gli stati sono sog­
getti a una disciplina di mercato, in un modo che non ha prece­
denti. Gli stati sono in concorrenza reciproca, in mercati mondiali
sempre più integrati e, appunto, questa disciplina globale dei mer­
cato è uno degli elementi centrali dell'idea di globalizzazione.
L'idea di sistema globale è perciò strettamente connessa all'idea
degli stati che si trovano in reciproca concorrenza per attirare capi­
tali, tecnologie, investimenti ecc.

Alarne controversie

1) Chi ha vinto in guerra fredda?

All'interno di questo discorso sulla globalizzazione sono pre­


senti vane controversie. La prima questione controversa, posta in
termini molto semplici, riguarda la configurazione di potere emer­
sa con la fine della guerra fredda, ossia la risposta alla domanda
su chi abbia vinto la guerra fredda. In primo luogo, possiamo
affermare che, di certo, non ha vinto l'URSS, che è crollata. Per que­
sto, molti esperti ritengono che la guerra fredda sia stata vinta
dagli USA, in quanto sono stati gli antagonisti principali dell'URSS.
Ciò li porta, inoltre, a sostenere che oggi vi sia un sistema unipola­
re, con gli USA come unico polo di dominio a livello mondiale, con
i propri alleati, ossia con l'alleanza della NATO (sorta nel contesto
della guerra fredda). Questa è già una ragione per cui oggi si parla
di globalizzazione: mentre prima ii mondo era diviso in due poli
opposti, con m più il mondo dei non allineati (il Terzo Mondo),
oggi esiste un solo polo, gli USA con i loro alleati.
Occorre però sottolineare che il fatto che una nazione vinca
nella concorrenza internazionale, di per sé non vuol dir nulla dal
punto di vista delle condizioni di vita sociali e materiali della
popolazione delia nazione stessa; se per battere ia concorrenza
internazionale bisogna fare enormi sacrifici, tutto ciò non ha senso.
Un elemento fondamentale della globalizzazione, ossia l'insisten­
za dei gruppi dominanti sul fatto che "siamo tutti nella stessa bar­
ca" e che "se si vince nella concorrenza internazionale vivremo
tutti meglio" è un'affermazione storicamente falsa, infatti per le
popolazioni, per gli strati subalterni, il dominio mondiale del pro­
prio paese può non avere alcun significato. Oggi i gruppi domi­
nanti continuano ad insistere sui sacrifici per battere la concorren­

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za sin mercati mondiali, ma della distribuzione dei benefici futuri.,
non se ne paria affatto. Nei discorsi sulla globalizzazione questo,
aspetto viene taciuto, perché, in effetti, esiste un problema di
mobilitazione delle classi subalterne in uno sforzo dal quale non si
sa se trarranno mai dei benefici.
Per quanto riguarda altri possibili candidati alla vittoria della
guerra fredda, in America, subito dopo la fine della guerra fredda,
esisteva un'opinione diffusa secondo la quale ad aver vinto erano
stati l'Europa e il Giappone. Si diceva: "noi abbiamo fatto io sforzo
economico, politico, ecc. per disintegrare l'URSS, però non ne
abbiamo tratto i maggiori benefici". Si consideri che, alla fine della
guerra fredda, gli USA erano il paese più indebitato del mondo e,
del resto, io sono tuttora. Questo debito è in gran parte il prodotto
degli anni 'SO, quando l'amministrazione Reagan, per vincere con­
tro l'URSS, ha agito simultaneamente in due direzioni: da un lato,
ha provocato una escalation delle spese militari che l'URSS non
poteva sostenere e, dall'altro, ha tagliato le tasse (per assicurarsi i
favori della popolazione). Il risultato è stato un aumento del debi­
to pubblico americano che non ha precedenti storici. Gli USA sono
risultati vincitori, ma indebitati, addirittura senza soldi per fare la
guerra, per utilizzare il proprio apparato militare (si rammenti che
la guerra del Golfo è stata fatta a spese di altri paesi). Ragion per
cui, secondo questa ipotesi, non erano stati gli USA ad aver vinto
la guerra fredda ma i paesi che, mentre gli USA portavano sulle
proprie spalle il carico delia difesa, ecc., nel frattempo si arricchi­
vano. Gli US \ hanno vinto militarmente, ideologicamente, politi­
camente, ma. non economicamente.
Un problema che gli USA incontrano in questi tempi nel fare la
guerra consiste nei fatto che la condizione per cui viene dato il
consenso è che non vi siano morti tra i soldati americani. L'intero
intervento in Bosnia è stato orchestrato, con una serie di accordi,
per fare in modo che nessuno morisse. Questa è ia cosiddetta sin­
drome della guerra del Vietnam. Infatti, dopo ia sconfitta nella
guerra del Vietnam, i tipi di guerre che gli USA hanno fatto, da
Granada, a Panama, alla guerra dei Golfo, agli interventi in So­
malia, sono sempre state condizionate da tale aspetto: gli USA non
possono permettersi che un numero rilevante di propri soldati
muoia in guerra. È chiaro che, a queste condizioni, le guerre non si
fanno; ciò che si può fare sono quel tipo di dimostrazioni di fuochi
d'artificio a distanza, tipo guerra dei Golfo, che però non risolvono
nulla; nei senso che, non più tardi di sette anni dopo ia fine della
guerra, gli USA non riescono ancora ad imporre i propri dettami a

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Saddam Hussein, perché nei momento m cui hanno minacciato di
usare nuovamente la forza, immediatamente, tutti gii altri paesi si
sono dileguati. In sostanza, il potere degli Stati Uniti è più appa­
rente che reale.
Anche per queste ragioni, negli USA, alla fine della guerra
fredda, molti dicevano che in realtà la guerra era stata vinta dai-
l'Europa, che si stava avviando al mercato unico e, quindi, a di­
ventare il più esteso mercato del mondo, in realtà, nel momento in
cui si è giunti all'unione monetaria si è constatato come l'Europa
non sia in grado, poiché ampiamente divisa al proprio interno, di
dettare legge a nessuno. Perfino la Germania, che era la potenza
finanziaria del continente e che dettava legge agli altri paesi,
attualmente ha problemi nel rispettare le regole che aveva dettato
agli, altri. In conclusione, l'Europa, lungi dal dettare legge al mon­
do, presenta gravi problemi interni, per cui non si può dire che
nemmeno lei abbia vinto la guerra fredda.
Il Giappone, invece, mentre gli USA e I'URSS si combattevano,
soprattutto nella fase della seconda guerra fredda {dalla fine degli
anni '70 agii anni '80), conosce mia grande ascesa economica. Pur
essendo un paese che non è di nessuna importanza militare, in
quanto protettorato militare degli USA, sviluppa una potenza eco­
nomica, finanziaria, commerciale di primo piano. È importante
tenere presente che il segreto di Reagan, per cui poteva determina­
re Yescaìation militare e tagliare le tasse, consisteva nella disponibi­
lità del Giappone (dell'alta finanza giapponese) a finanziare il
debito pubblico americano; questo perché il Giappone accumulava
sovrappiù finanziari enormi, che venivano investiti nelle obbliga­
zioni dei Tesoro americano. Inoltre, gli USA aprivano sempre di
più le loro frontiere alle importazioni giapponesi per ridurre 1 costi
interni e, quindi, il Giappone sviluppava enormi sovrappiù nella
bilancia dei pagamenti che, appunto, venivano investiti nelle
obbligazioni americane.
Il denaro giapponese che entrava in America creava una specie
di panico, perché le compagnie giapponesi compravano un po' di
tutto. Ma questo panico è stato di breve durata perché, nel giro di
un paio di anni, più o meno al tempo della guerra dei Golfo, la
Borsa di Tokyo ha registrato un crollo clamoroso (i valori azionari
della Borsa si sono ridotti del 55 per cento), mentre proprio m que­
st'epoca comincia il grande boom a Wall Street. Dai punto di vista
della produzione, però le imprese giapponesi si espandevano sem­
pre di più; si espandeva tutta la regione dell'Asia orientale e co­
struiva un apparato commerciale, di estensione considerevole. Un

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numero crescente di paesi dell'Asia orientale veniva immesso in
queste reti, generando una specie di rinascita economica che
cominciava a diventare il laboratorio e la banca del mondo.
Nonostante tutto, comunque, la questione di chi abbia vinto la
guerra fredda resta aperta. Esiste incertezza su quale potenza pos­
sa emergere oggi per ricostituire le condizioni di un ordine mon­
diale. Il problema dell'economia mondiale è sempre quello di crea­
re condizioni in cui gli stati possano cooperare tra loro in un siste­
ma di commercio, ma non si riesce ad identificare quale stato nelle
condizioni presenti possa assumere Ja leadership nella formazione
di un nuovo ordine mondiale.

2) Debolezza degli stati: vittoria del mercato?

Il secondo punto controverso consiste nel fatto che, siccome


non si riesce a vedere quale stato o quali stati siano emersi come
possibili teaders dopo la fine della guerra fredda, ha cominciato a
diffondersi l'opinione che, in realtà, nessuno stato abbia vinto, ma
che abbiano vinto forze impersonali di mercato. Pertanto esistereb­
be un'egemonia dei mercati, i quali dettano legge, subordinando
gli stati stessi.
Questa è una delle idee centrali della globalizzazione. Ma
l'idea che gli stati siano in difficoltà non è affatto nuova; infatti era
già emersa alla fine degli anni '60, nel momento in cui le multina­
zionali americane avevano cominciato a invadere l'Europa conti­
nuando ad espandersi a livello mondiale, e i paesi europei stessi
cominciavano a generare al loro interno imprese multinazionali.
Ciò che si produceva era una rete sempre più diffusa di imprese,
che non operavano piu soltanto a livello nazionale, ma sovrana-
zionale. Già da allora si sosteneva che questa proliferazione dei
numero di imprese multinazionali operanti a livello mondiale
metteva in crisi gii stati, perché se gli stati seguivano politiche di
alti salari, oppure mettevano delie restrizioni per la protezione
dell'ambiente superiori a quelle esistenti altrove, le multinazionali
rispondevano trasferendo gli impianti in altri paesi.
Il numero di queste imprese è progressivamente aumentato. Si
consideri che negli anni '70 ce n'erano alcune migliaia, negli anni
'80 10.000 e alla fine degli anni '80 circa 30.000. Alla fine degli anni
'60, però, questo non veniva presentato come un fenomeno di glo­
balizzazione. L'idea delia globalizzazione emerge soltanto 20 anni
dopo, a partire dagli anni '80, quando si verifica anche l'esplosione

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dei mercati finanziari. Il problema non sorge dal fatto che ie multi­
nazionali trasferiscono le imprese da un paese all'altro a seconda
delle diverse condizioni, ma perché disinvestono dalla produzione
e dal commercio per mantenere i loro fondi liquidi m mercati
finanziari che nessuno stato controlla.
Una tendenza dì questo tipo sta alle origini del mercato del­
l'eurodollaro. Le multinazionali, soprattutto quelle americane, che
realizzavano dei profitti in Europa, tendevano a non rimpatriare i
profitti in America, dove sarebbero stati tassati e soggetti a vane
regolamentazioni, ma li depositavano in banche europee mante­
nendoli m dollari, per cui non potevano essere controllati dalle
autorità monetane locali. Le banche europee, naturalmente, utiliz­
zavano questi depositi per fare prestiti, e creavano così nuova
moneta.
La massa di depositi monetari non soggetti ad alcun controllo
si è fatta sempre più ingente; nessuna autorità pubblica poteva
controllarli e, quindi, sono cresciuti m maniera sproporzionata
rispetto ai livello della produzione e degli scambi. Inoltre, si è
determinata una concorrenza accentuata tra gli stati per creare
situazioni volte a catturare questo tipo di depositi; è il noto feno­
meno della deregulation. Più gli stati praticano questo tipo di con­
correnza e più, naturalmente, tali mercati crescono. Negli anni '80,
quando gli stessi USA cominciano a praticare, per attirare i capita­
li, la politica di escalation dei debito pubblico e di deregulation, il
fenomeno diventa incontrollato.
Si fece strada l'idea che tutta la politica degli stati si stesse
smembrando di fronte a queste forze finanziane ed economiche
che subordinano gli stati ai loro interessi.
In realtà, dietro a questa accentuata concorrenza, che è un ele­
mento realmente operante, vi sono gli stati stessi che l'accentuano
ulteriormente. La concorrenza non è imposta da un'entità metafi­
sica, ma è un fenomeno che viene sempre attivato dai concorrenti
stessi. Naturalmente, poi, quando il processo è attivato, diventa
difficile disattivarlo, perché a questo punto nessuno ne ha più ii
controllo. Quindi si vengono a creare fenomeni di concorrenza
sempre più intensa, che determinano un'altra questione controver­
sa: in che misura questo fenomeno è nuovo, oppure è qualcosa che
c'è sempre stato e che si ripete oggi così come si è avuto m altri
periodi storici? E, inoltre, questa è una situazione permanente
oppure temporanea?
George Soros, uno dei più grandi finanzieri della nostra epoca,
ha scritto un famoso articolo dove dice: "Io ho fatto fortuna nei

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mercati finanziari, ma ora devo dire che il nemico più grosso delle
democrazie non è più il comuniSmo, che è finito, ma il capitali­
smo." E afferma che questo fenomeno di compieta deregulation, di
assenza di ogni forma di governo dell'economia mondiale, soprat­
tutto per quel che concerne il settore finanziano, è un fenomeno di
estrema instabilità, che crea reazioni delle popolazioni contro i
mercati, contro la concorrenza; il nemico è lo stesso capitalismo.
Per i mercati, diventa evidente che il poter sopravvivere e il
poter rimanere attivi dipende sempre più dai problema che occor­
rono strumenti di regolazione mondiale e che, quindi, questa corsa
alla deregulation deve essere arrestata, altrimenti rischiano di auto­
distruggersi. Ne abbiamo avuto un esempio di recente con il crollo
dei mercati azionari e valutari in Asia orientale, con tutti gli effetti
su scala mondiale che dò ha provocato.
Concludendo, ia seconda questione controversa ò che ci sono
coloro i quali affermano che non sono più gli stati ma 1 mercati che
comandano; e coloro che, invece, sostengono che i mercati, di per
sé, non comandano nulla perché si autodistruggono, a meno che
gli stati stessi non diano una forma di regolamentazione a livello
internazionale (così come esisteva negli anni della guerra fredda
fino a circa il 1960, quando i mercati finanziari internazionali era­
no regolati, sotto l'egemonia americana, dalle banche centrali).

3) Rapporto tra capitale e lavoro: quale redistribuzione?

La terza questione controversa riguarda non il rapporto tra capi­


tate e stato, ma il rapporto tra capitale e lavoro. Esiste una contro­
versia sul fatto se, in questo periodo di globalizzazione, vi sia stato
un forte spostamento di rapporti di forza e, allo stesso tempo, una
redistribuziòne massiccia dì redditi dai lavoro ai capitate. Mentre
negli anni '60 e '70, fino a circa la metà degli anni '70, si è avuto un
periodo in cui, grosso modo, i salari crescevano m proporzione ai
profitti e, spesso, anche più rapidamente dei redditi da capitale,
negli anni 'SO e '90 vi è stata un'inversione a livello mondiale, per
cui i redditi da capitale sono cresciuti molto più rapidamente dei
redditi da lavoro. In generale, vi è stato un indebolimento delle
organizzazioni operaie e delle forze che si rifacevano a ideali di
socialismo, che o sono state eliminate dalla concorrenza, oppure
hanno dovuto trasformarsi adeguandosi all'idea dei "sacrifici",
Oggi l'idea dominante sostiene che, poiché gli stati sono debo­
li, non possono fornire più alle forze dì lavoro la protezione di pri­

ll
ma, quindi o a causa delle trasformazioni dei capitale che viene
disinvestito dalla produzione e diventa speculativo, o a causa
degli stati che vengono indeboliti rispetto ad esso, esiste un feno­
meno di indebolimento delle classi lavoratrici rispetto al capitale.
Tuttavia ci sono anche controversie sia sull'effettivo indeboli­
mento delie classi lavoratrici, sia su quali siano le eventuali cause
di questo fenomeno. Per quanto riguarda il primo punto, mentre è
vero che in alcuni luoghi le classi operaie e le loro organizzazioni,
così come esistevano fino agli anni '70, sono state indebolite o
sono scomparse dalla circolazione, in altre parti del mondo si stan­
no formando nuove classi operaie, che sono ancor più grandi,
anche numericamente, delle classi operaie così come esistevano
nei punti in cui oggi si hanno fenomeni di deindustrializzazione.
La deindustrializzazione di paesi come l'Europa e gli USA, avve­
nuta negli ultimi 25 anni, con una conseguente riduzione dei
numero della forza lavoro operaia e con un indebolimento struttu­
rale di queste forze, è stata accompagnata da un aumento massic­
cio di forza lavoro operaia altrove. Basti considerare che l'aumento
delle forze lavoro operaie in Cina è stato, negli ultimi 15-20 anni,
dell'ordine di 100 milioni, che è l'equivalente di tutta la classe ope­
raia dell'Europa o dell'America del Nord. La prova se esista un
indebolimento o un rafforzamento dipende, in gran parte, da dove
si osserva: se guardiamo a paesi come il Brasile, il Sudafrica o la
Corea si nota che, mentre si indebolivano le classi operaie dei pae­
si ricchi, queste si rafforzavano in altri paesi. Quindi esiste un gran
rimescolamento, ma è difficile dire che cosa effettivamente stia
succedendo; quel che è certo è che esiste una massiccia redistribu­
zione dai redditi di lavoro a quelli di capitale connessa ai problemi
di indebolimento degli stati e alla cosiddetta egemonia dei merca­
ti, ma non sappiamo quanto permanente e quanto diffuso sia que­
sto fenomeno.
Ài di là del fatto che, spesso, quel che si osserva non è l'inde­
bolimento delle forze di lavoro in generale, ma è un indebolimen­
to delle particolari figure sociali che costituivano le classi operaie
dell'epoca precedente, con i fenomeni di terziarizzazione, di ri­
strutturazione. Alcuni sostengono che, mentre nella fase di svilup­
po industriale ia forma principale di trasformazione era quella del
contadino che diventava operaio, nelle nuove forme di post-indu­
strialismo il movimento principale è quello delle donne che si spo­
stano dalle case agli uffici e che ciò, di per sé, sta creando delle tra­
sformazioni sociali i cui effetti si vedranno tra 20, 30, 40 anni e che
questo fenomeno, dai punto di vista qualitativo e quantitativo,

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non è meno importante della trasformazione degli uomini conta­
dini in uomini operai. Il problema è che gli effetti non si sono
ancora visti, o si stanno vedendo solo in America.
Quindi, la terza questione controversa è in che misura tutte que­
ste trasformazioni che stiamo osservando si traducono effettiva­
mente in un rafforzamento del capitale nei confronti delle forze di
lavoro, quanto generale e quanto permanente sia questo fenomeno.

4) L'ascesa dell'Asia orientale: quale significato?

L'ultima questione controversa è il significato che può assume­


re l'ascesa del l'Asia orientale. Questo perché, all'interno delle tra­
sformazioni che si sono osservate nel mondo moderno, nei secoli
passati esisteva sempre un cambiamento che era interno al mondo
occidentale. Un paese guida come l'Olanda venne sostituito da un
altro paese guida come l'Inghilterra, la quale venne a sua volta
sostituita da un paese guida come gli USA. Oggi, invece, si osserva
l'emergenza, a livello di processi di accumulazione su scala mon­
diale, di paesi che non fanno parte del mondo occidentale, e da qui
sorge la questione di quale sia il significato di questo spostamento;
se sia il preludio di uno scontro tra le civiltà, oppure di un nuovo
rapporto tra queste, diverso da quello di predominio occidentale
esistito fino ad oggi.
Lo sviluppo del capitalismo, come sviluppo del sistema econo­
mico mondiale, è stato fino ad oggi un fenomeno prevalentemente
occidentale. Ha avuto inizio nelle città-stato italiane del Rinasci­
mento ed è continuato nei secoli fino a raggiungere le dimensioni
globali del XIX secolo. Quello che è successo verso la fine della
guerra fredda è che sono emersi, soprattutto m Asia orientale,
nuovi centri capitalistici estremamente dinamici, i quali non fanno
parte della civiltà occidentale così come si era formata negli ultimi
400-500 anni, ma hanno una civiltà propria con caratteristiche pro­
prie, diverse da quelle occidentali. Il problema del rapporto tra le
civiltà si pone quindi in modo nuovo. Fino alla fine del secolo
scorso il rapporto tra civiltà era un rapporto tra conquistatori e
conquistati, colonizzatori e colonizzati. Questo processo di conqui­
sta/colonizzazione culminò alla fine del secolo XIX e all'inizio del
XX, quando praticamente l'intero globo era stato conquistato e
colonizzato, in parte direttamente dagli europei e in parte da
popoli di estrazione europea, come gli americani e gli australiani.
Le uniche eccezioni, come vedremo, si trovavano in Asia orientale.

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Già a partire da prima degli anni '20 e '30 ha inizio, a livello
mondiale, un movimento di ribellione contro l'Occidente e di riaf­
ferra azioni di civiltà non occidentali, che richiedono l'autodetermi-
nazione e, quindi, la decolonizzazione. Immediatamente dopo la
fine della seconda guerra mondiale, con l'istituzione delle Nazioni
Unite, si forma una nuova società delle nazioni in cui sia gli USA
che l'Unione Sovietica, cioè le due grandi potenze, appoggiano ia
decolonizzazione. La più grossa trasformazione del periodo della
guerra fredda è, appunto, questa decolonizzazione generalizzata.
Fino agli anni '70 si continua però a parlare di neocolomaìi-
smo. Nonostante l'indipendenza polìtica, l'acquisizione della so­
vranità nazionale e dell'autodeterminazione da parte degli stati
dell'Africa e dell'Asia, questi rimangono economicamente e politi­
camente dipendenti dalle vecchie potenze coloniali. Questo rap­
porto di dipendenza non è piti di tipo politico-militare, così come
era avvenuto nei secoli precedenti, ma una nuova forma di dipen­
denza.
Il Giappone, nonostante non abbia alcun significato dai punto
di vista militare, viene indicato come uno dei paesi vincitori della
guerra fredda, proprio perché nel periodo in cui lo scontro ideolo­
gico, politico e finanziario tra l'Unione Sovietica e gli USA aveva
raggiunto il culmine, emerge come la più grande potenza finanzia­
ria mondiale. Oltre al Giappone, c'è una serie di piccoli stati, quali
Singapore e Hong Kong, che, pur non essendo neppure stati
nazione (sono delle città-stato, simili a quelle del rinascimento ita­
liano), emergono come enormi contenitori di capacità finanziane
ed economiche. L'insieme di questi paesi, all'interno dei quali
bisogna considerare anche Taiwan, rappresenta un fenomeno di
industrializzazione regionale. Mentre l'espansione produttiva m
Europa e negli USA ristagna, nell'Asia orientale si ha ia formazio­
ne di un enorme apparato regionale di produzione, che collega
paesi ricchi e paesi poveri e che diventa estremamente competitivo
all'interno dei mercati mondiali.
Ciò ci porta a concludere che l'indebolimento degli stati nei
confronti del capitale è collegato ad un processo di emergenza di
stati, nuovi e non, nell'Asia orientale, che sono estremamente con­
correnziali e competitivi sui mercati mondiali. Sono in grado di
produrre a costi molto inferiori, o con qualità migliore, rispetto ad
altre regioni dei mondo.
La situazione non è molto dissimile rispetto a quella dell'inizio
dell'era moderna. Nei secoli XII e XIII, poco prima dei Rinasci­
mento italiano, il centro dell'economia mondiale non era nell'occi­

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dente ma in Asia orientale. I maggiori centri produttivi si trovava­
no m India e in Cina, ed i maggiori centri commerciali erano situa­
ti, soprattutto, negli interstizi tra le varie economie centrate sulla
Cina e sull'India. I paesi dell'Asia orientale erano economicamente
m grado di generare eccedenze commerciali, a livello mondiale,
superiori a quelle dei paesi occidentali, cioè esportavano più di
quanto importassero. L'altra faccia della medaglia di questa situa­
zione era che i paesi occidentali, avevano un costante disavanzo
nella bilancia dei pagamenti con l'Asia orientale. Pur essendo un
fenomeno intermittente, già dai tempi dell'Impero Romano esiste­
va un deficit cronico nella bilancia dei pagamenti europei rispetto
ai paesi asiatici.
Quello che emerge oggi è una specie di rinascimento asiatico-
onentale, nel senso che quella che era una capacità e una caratteri­
stica dell'Asia orientale dell'epoca premoderna sta riemergendo e
sembra creare una situazione di nuovi equilibri di potere tra le
civiltà. L'Occidente, che per tre o quattro secoli ha conquistato e
unificato il mondo, si trova in una situazione in cui le conquiste
sono andate perdute sotto la spinta delle rivolte contro il dominio
occidentale, e si è entrati in uno stadio in cui iì mercato mondiale è
molto più denso e compatto di quanto non fosse mai stato in pre­
cedenza.
Riemerge una competitività dei paesi asiatici, che i paesi euro­
pei, o di estrazione europea, hanno difficoltà a sostenere. Pertanto,
il problema è quello di trovare un nuovo equilibrio o un mutamen­
to nei rapporti tra mondo occidentale e mondi non occidentali.
Anche questa, però, è una questione controversa, m quanto c'è
chi sostiene che questi paesi sperimentano una fase di sviluppo
economico semplicemente per raggiungere i livelli dell'Occidente,
ragion per cui non sta cambiando nulla; altri invece affermano che
se questi paesi, demograficamente molto vasti, acquistassero lo
stesso peso economico per abitante di quelli occidentali, raggiun­
gerebbero una potenza estremamente elevata.
Tra l'altro, questo ha importanti implicazioni ecologiche. Se il
modello consumistico occidentale, che si è sviluppato in paesi
come gii USA, ad alta intensità di risorse naturali, venisse ripro­
dotto in paesi ad aita concentrazione umana, come l'India e la
Cina, chiaramente creerebbe squilibri ecologici tali per cui si
potrebbero verificare catastrofi eccezionali. Il problema è che il
modello occidentale, cosi come si è sviluppato tramite il dominio
dei mondo, non ha creato modelli di consumo riproducibili su sca­
ia universale.

15
Alcuni studiosi parlano di uno scontro delle civiltà. Samuel
Huntington, scienziato politico americano, è il maggiore esponen­
te di questo punto di vista. Secondo lui l'Occidente non è in grado
di fermare lo sviluppo economico della Cina e, d'altra parte, se io
sviluppo continuerà ad avere questi ritmi, nei giro di 20-30 anni, la
Cina avrà un'economia superiore a quella americana e, pertanto
sarà sempre meno obbediente ai dettami USA, anzi imporrà a noi
le regole, e ciò porterà ad uno scontro tra le civiltà. Altri autori
dicono, invece, che non c'è nessuna ragione che possa portare ad
uno scontro delle civiltà, ma che il problema è soltanto di mutuo
adattamento: bisogna trovare il modo di giungere ad una coesi­
stenza pacifica tra le civiltà. Da qui hanno origine poi tutti i pro­
blemi connessi di sviluppo e sottosviluppo, emigrazione e immi­
grazione.
Il punto fondamentale è che, rispetto ai secoli precedenti, oggi
esiste un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra il mondo
occidentale e gli altri mondi, che costituisce una continuazione m
forme nuove di quella che è stata la rivolta nei confronti dell'Oc­
cidente a partire dalla prima metà di questo secolo ma che sembra
proseguire in nuove forme: da un lato, espansione economica e
finanziaria di alcuni centri e, dall'altro, pressione demografica, cor­
renti migratone da altre zone del mondo che non si stanno espan­
dendo verso i vecchi centri occidentali. C'è una lenta inversione di
rapporti che, però, è difficile calcolare e identificare esattamente.

La necessità di una prospettiva storica

Tutti i problemi che abbiamo visto possono essere compresi nel­


la loro realtà e nella loro evoluzione soltanto se adottiamo una pro­
spettiva storica di lungo periodo, che ci permetta di vedere i muta­
menti dei giorni nostri come il culmine di tendenze che operano da
tre o quattrocento anni e che oggi sembrano cambiare direzione. Il
senso del mutamento appare infatti diverso a seconda della pro­
spettiva temporale all'interno della quale viene esaminato. Que­
stioni tipo mondializzazione, globalizzazioire, ecc., che si riferisco­
no a queste trasformazioni, chiaramente vanno osservate in una
prospettiva storica di lungo periodo.
La nostra analisi parte dalie cosiddette grandi scoperte che sia
Adam Smith quanto Karl Marx ritenevano essere un punto centra­
le, un momento di svolta decisivo nella formazione del mercato
mondiale. All'inizio dell'era moderna, e per secoli poma, esisteva

16
uno squilibrio strutturale nella bilancia dei pagamenti europei
rispetto alle Indie, di cui la Cina, nella concezione del tempo, face­
va parte. Esisteva il problema che in Europa 1 beni prodotti in
Oriente erano in domanda molto superiore rispetto alla domanda
in Oriente di beni prodotti m Europa. II risultato dello squilibrio
strutturale nella bilancia dei pagamenti si traduceva, m Europa,
nell'invio di mezzi di pagamento, flussi di metalli preziosi con cui
acquistare i beni prodotti m Oriente.
L'Europa era in costante ricerca di fonti di metalli preziosi. In
Europa, inoltre, esisteva una situazione politica frammentata, in
estremo fermento, la presenza di principati, città-stato, reami in
formazione, imperi in disgregazione, il papato ecc. Questo creava
una condizione di estrema disorganizzazione, ma anche di estre­
ma concorrenza e competitività tra i gruppi dominanti europei,
continuamente alla ricerca di mezzi di pagamento per far fronte
alle spese necessarie per sostenere la lotta reciproca.
Da questa situazione avevano origine anche le continue guerre
tra stati, che erano anche guerre commerciali, volte soprattutto al
controllo degli scambi con l'Oriente, in modo tale da averne un
controllo monopolistico e, quindi, da divenire più potenti all'inter­
no della lotta m Europa. Tutti i tentativi fatti per cercare nuove rot­
te per l'Oriente, dal punto di vista dei finanziatori, avevano uno
scopo commerciale e, precisamente, quello di rompere il monopo­
lio che Venezia, con una rotta che passava attraverso i! mondo
Arabo, era riuscita a stabilire con i mercati orientali. Come si dice­
va allora, chi riusciva a controllare il commercio con l'Oriente
avrebbe avuto anche il controllo dell'Europa. Quindi era la lotta
interna all'Europa che spingeva gli europei a cercare di mettere le
mani sul commercio con l'Oriente e a rompere il monopolio altrui
per stabilire il proprio.
Grazie allo sbaglio di calcolo di Cristoforo Colombo, la Spagna
incappa in un continente di cui gli Europei non conoscevano resi­
stenza. L'Europa arriva in America e vi trova oro e argento, cioè
mezzi di pagamento, m quantità tale da sembrare una fonte ine­
sauribile: alcuni, come gli spagnoli, li estraggono direttamente,
altri invece cercano dì catturarli attraverso il commercio, cioè pro­
ducendo beni che la Spagna paga m argento, il quale può essere
utilizzato per stabilire un controllo sul commercio con l'Oriente.
Nel senso letterale dei termine, questo è un primo fenomeno di
globalizzazione.
È solo con le scoperte e con l'integrazione dell'America nei cir­
cuiti dei commerci mondiali (che già legavano l'Estremo Oriente

17
all'India, al Medio Oriente e all'Europa, e che ora vengono a com­
prendere anche le ricchezze minerarie delle Americhe), che gli
europei acquistano, finalmente, i mezzi necessari per penetrare
sempre più a fondo nei commerci con l'Oriente, e per finanziare
una commercializzazione sempre piu estesa delle reciproche guer­
re. Queste risorse vengono mobilitate sempre più massicciamente
in una vera e propria corsa agli armamenti. Le fortune di Milano,
nei Rinascimento, per esempio erano strettamente legate alia pro­
duzione di armi. Successivamente, il centro della loro produzione
si sposterà nei Paesi Bassi, e da ciò ne derivano le fortune.
ìn tutta la storia moderna esiste una continua lotta per il potere
tra gli stati e una mobilitazione crescente di risorse pecuniarie per
sovvenzionare queste lotte, le quali, del resto, sono una fonte ine­
sauribile di innovazioni, innanzi tutto militari, ma che poi diventa­
no anche innovazioni commerciali e industriali.
La stona del mondo moderno è la storia di una corsa costante
agli armamenti, prima tra le città-stato, che riuscivano a finanziare
le innovazioni tecnologiche nella conduzione della guerra, ma che
successivamente non riuscivano più a sostenere perché subentrava­
no stati più forti. Le città-stato italiane, che nel 400 erano grandi
potenze militari a livello europeo, credevano, con ie continue lotte
reciproche, di poter invitare grandi stati nazione che stavano emer­
gendo oltralpe a venire in loro soccorso, senza che cambiasse nulla.
Per un pp' di tempo questo è avvenuto ma successivamente gli
stessi stati nazione cominciano a intravedere le potenzialità delle
tecnologie più avanzate, e ad assoldare gli italiani per introdurle su
scala molto superiore. Cambia il gioco e le città-stato vengono eli­
minate dalla lotta per il potere, mentre si ha la formazione di stati
sempre più potenti, sia militarmente che finanziariamente. Sì viene
a creare un nuovo equilibrio tra Francia, Spagna e Inghilterra. La
riproduzione di questo equilibrio costituisce io stimolo continuo
per innovazioni tecniche nella costante corsa agli armamenti.
Net resto del mondo, invece, non esiste una situazione di con­
correnza bellica spietata, ma grandi imperi che nessuno può sfida­
re, oppure una frammentazione molto più estesa. Per cui, mentre
all'interno dell'Europa si rigenera un equilibrio a livelli sempre
superiori, nello stesso tempo si genera uno squilibrio tra il potere
militare occidentale e quello delle altre civiltà. L'Occidente può
usare questa superiorità per stabilire un dominio, ed estrarre risor­
se da mobilitare nella lotta all'interno dell'Europa.
Se il mondo economico si sta effettivamente nncentrando sul­
l'Oriente, è chiaro che prima o poi la storia mondiale verrà riscrit-

18
ta; i problemi e i temi che, negli ultimi cento anni, hanno occupato
le menti degli scienziati sociali occidentali verranno completamen­
te ridimensionati o interpretati in maniera diversa. Ovviamente,
per esempio, se si riesamina la storia mondiale dal punto di vista
cinese, ia transizione dal feudalesimo al capitalismo è di importan­
za quasi irrilevante e, allo stesso modo, dal punto di vista del­
l'Asia orientale e della Cina, i fenomeni di formazione di un'eco­
nomia globale appaiono in modo completamente diverso.
Chiaramente, oggi viviamo m una fase di transizione di cui
non conosciamo, e non possiamo sapere, gli sviluppi e il modo in
cui verrà organizzato il mondo. Però è evidente come il modo di
pensare a cui siamo stati abituati, fortemente influenzato dall'Il­
luminismo così come è stato trapiantato negli Stati Uniti ed è rie­
merse come teoria della modernizzazione del mondo sul modello
americano, stia per essere completamente ridefinito.

19
2

L'Economia-Moiïdo:
dalla formazione alla crisi attuale

L'espansione europea in Occidente e in Oriente

Nello spiegare l'espansione e globalizzazione del sistema di


dominio e accumulazione europeo a partire dal 1500 circa dobbia­
mo focalizzare la nostra attenzione su due effetti del peculiare
equilibrio di potere che esisteva tra gli stati europei: uno prevalen­
temente politico-tecnologico e l'altro prevalentemente economico-
finanziario.
Per quanto concerne il primo, la continua lotta per il potere tra
gli stati alimenta una corsa agli armamenti, che costituisce una
costante nella storia della globalizzazione del sistema. Uno degli
effetti è il continuo flusso di innovazioni tecnologiche che, pur
essendo inizialmente innovazioni belliche, trovano successiva­
mente iì modo di essere applicate anche nei campo civile. La conti­
nua ricerca di armamenti sempre più efficaci, è sempre più costosa
ed implica una continua escalation nei costi, con pesanti implica­
zioni economico-finanziarie.
Come già Max Weber aveva sottolineato, le opportunità più
importanti per il capitalismo occidentale di espandersi e di diven­
tare una forza globale sono state create dalla continua concorrenza
tra gli stati per il capitale mobile. Mettendo a confronto la situazio­
ne del Tardo Medioevo e quella dell'antichità, Weber aveva rileva­
to che nell'antichità le città erano centri di ingente accumulazione
di capitali, però finivano per venire sempre sottomesse al dominio
di imperi che si appropriavano delle risorse e provocavano, cosi,
la decadenza delle città stesse in quanto centri di accumulazione.
Nell'era moderna, invece, le città, contenitori di capitale, non veni­
vano più conquistate, perché, falliti i tentativi di ricostituire lTm-

21
pero Romano, gii stati erano in una situazione di estrema fram­
mentazione e di intensa concorrenza. I detentori di denaro erano
favoriti, perché senza la loro assistenza, i sovrani in reciproca con­
correnza non erano in grado di acquistare i nuovi strumenti tecno­
logici di guerra.
In conclusione, la spinta innovativa dell'occidente, del capitali­
smo occidentale è sempre stata, fino ai giorni nostri, collegata alla
lotta per il potere tra gli stati, più o meno in equilibrio tra di loro.
Questa, contemporaneamente, favoriva i detentori di capitale e,
quindi, era un fenomeno militaristico e allo stesso tempo capitali­
stico.
L'idea di raggiungere l'Oriente era strettamente collegata a que­
sta lotta intestina, ai crescenti costi finanziari della lotta per il potere,
perché in Oriente c'erano economie più sviluppate. Esisteva la con­
sapevolezza che chiunque avesse controllato il commercio con que­
sti paesi più ricchi, o comunque avesse ottenuto una parte di questi
commerci, avrebbe potuto appropriarsi di risorse finanziarie supe­
riori rispetto a quelle dei propri concorrenti da mobilitare nella lotta
per il potere. La ricerca di un aggancio con 1 commerci dell'Oriente
costituiva un aspetto integrale della lotta per il potere tra gli stati del
mondo Occidentale. Inoltre, vi era la tendenza, da parte degli euro­
pei, di giungere in questi mercati ricchi con mezzi tecnologici e for­
me organizzative, di guerra e di violenza, sempre più avanzati e
perciò, sempre meno contrastabili.
L'episodio centrale di questo processo consiste nella scoperta
delle Americhe. Nei momento in cui gli europei approdano nelle
Americhe si trovano di fronte a civiltà totalmente impreparate net
far fronte alla loro invasione, non solo tecnologicamente e organiz­
zativamente, dai punto di vista del fare la guerra, ma anche biolo­
gicamente (si considerino tutti i nativi morti a causa di malattie ed
epidemie portate dagli europei). Queste civiltà sono spazzate via,
favorendo la colonizzazione delle Americhe e la loro trasformazio­
ne in un grosso contenitore delle eccedenze demografiche dell'Eu­
ropa, e un ulteriore momento di sviluppo dei commerci europei.
Con l'acquisizione di questi nuovi continenti, che sono fonte
inesauribile di mezzi di pagamento, gli europei acquistano la pos­
sibilità di espandere il proprio commercio, e di far quadrare ia
propria bilancia dei pagamenti con l'Asia, che era sempre stata in
cronico disequilibrio.
La prospettiva di sfruttamento delle nuove terre conquistate
presentava il problema della scarsità di manodopera, in primo
luogo perché le popolazioni indigene erano state sterminate. L'ec-

??
cedente demografico che proveniva dall'Europa, m buona parte
costituito da lavoratori semi-forzati, è quello su cui contava, ini­
zialmente, la produzione delle miniere e delle piantagioni. Però, la
vastità del territorio permetteva agli europei arrivati di fuggire, e
di diventare essi stessi proprietari. La soluzione a questo problema
fu di portare gli africani: lavoratori forzati che non potevano scap­
pare perché facilmente riconoscibili dal colore della pelle.
Da qui ha origine, all'interno del sistema, una dimensione raz­
zista dello sfruttamento delle forze di lavoro, ed è su questi lavora­
tori forzati di colore che si costruiranno ie fortune del commercio
atlantico. Basta ricordare che il cotone diventa la materia prima
essenziale della prima fase della rivoluzione industriale inglese.
Con il commercio degli schiavi, si instaura un processo di com­
mercio atlantico che diventa un eccezionale meccanismo di accu­
mulazione e di sviluppo della produzione e del commercio all'in­
terno dei paesi europei stessi. Questo meccanismo è noto come
commercio triangolare: dall'Europa (armi, tessuti ed attrezzi vari),
all'Africa (schiavi), alle Americhe (prodotti tropicali, come io zuc­
chero, che viene introdotto tra le classi operaie europee come ele­
mento energetico, il tabacco e il cotone). Le navi sono sempre pie­
ne, vi è un profitto per ciascun passaggio, per ciascun lato dei
triangolo.
La cosa più importante è che m Europa si vengono a creare
centri commerciali e industriali in forte espansione che producono
armi e tessuti, più ie navi necessarie per i commerci. E che impor­
tano zucchero, tabacco e cotone, i quali diventano materie prime
della produzione industriale, oppure nuovi beni di consumo per le
popolazioni europee. Il meccanismo del commercio triangolare,
nei Seicento e nel Settecento (soprattutto nella prima metà del
Settecento) è decisivo nella formazione di quei centri che divente­
ranno la base della successiva rivoluzione industriale.
In questo stesso periodo, inizia il processo di colonizzazione e
penetrazione dell'Asia. Nascono compagnie, per metà stati e per
metà imprese, formate col proposito esplicito di penetrare i merca­
ti dell'Asia senza dover esportare nulla dall'Europa, o per ridurre
la quantità dei mezzi di pagamento da dover utilizzare.
L'innovazione organizzativa che permette agli europei di pe­
netrare in Asia orientale è data dalla formazione delle Compagnie
delle Indie, con diritto esclusivo di operare all'interno di una certa
area. Le Compagnie hanno i loro eserciti, le loro armi ed il diritto
di agire come stati ai di fuori dei mondo occidentale. Due Com­
pagnie avranno un grande successo commerciale: ia prima è la

23
Compagnia delle Indie Orientali olandese, che è la prima ad ope­
rare in Asia nel secolo XVII {si stabilisce in quella che oggi è
l'Indonesia), l'altra è la Compagnia delle Indie Orientali inglese,
che opera nell'Impero indiano.
Contrariamente al commercio triangolare che si viene a stabili­
re nell'Atlantico, il successo di queste Compagnie (parliamo in­
nanzitutto del commercio olandese, quello delle spezie) non deri­
va dai rapporti commerciali tra queste zone e l'Europa, sebbene
facciano anche questo, ma dai fatto di diventare i protagonisti dei
commercio orientale. Le spezie erano una merce importante anche
nell'Asia orientale, e più che in Europa; quindi chi ne controllava
la produzione e il commercio riusciva anche a controllare altri
commerci.
Ciò che si viene a determinare è già un processo di globalizza­
zione, nel senso che partì del mondo, che prima erano reciproca­
mente isolate, o perlomeno avevano rapporti intermittenti e di­
scontinui con le altre parti del mondo, cominciano ad avere rap­
porti commerciali e d'altro tipo sempre più densi e continui. Il Sei­
cento e il Settecento sono il periodo di formazione iniziale dei mer­
cato mondiale, che è un altro modo per definire quello che oggi
viene chiamato fenomeno della globalizzazione. Occorre sempre
ricordare che la spinta di questo processo è la concorrenza tra gli
stati in cerca di mezzi di pagamento per finanziare una corsa agli
armamenti esponenzialmente costosa ma che, allo stesso tempo,
permette di introdurre innovazioni che forniscono un vantaggio
nella lotta per il potere con le altre civiltà.

VIndia e /'egemonia inglese

Facciamo un passo indietro. I Portoghesi, che erano stati i pri­


mi ad arrivare nell'Oceano Indiano, bene o male, non erano mai
riusciti a monopolizzare il controllo dell'offerta di nessuna merce
e, quindi, erano finiti con il diventare un'altra delle potenze del­
l'Oceano Indiano, anche se m possesso di mezzi navali un po' più
potenti degli altri. Gli Olandesi, invece, seguono ima strategia
completamente diversa: invece di disperdere le loro energie in cro­
ciate a sfondo religioso, si concentrano nel perseguimento del pro­
fitto, cercando di monopolizzare il più possibile la produzione dì
spezie, e il tutto con un'efficienza e una determinazione ecceziona­
li. Conquistano tutte le isole principali produttrici di spezie, e poi
creano una specie di divisione del lavoro per cui ciascuna isola

24
viene, più o meno forzatamente indotta a specializzarsi nella pro­
duzione di determinate spezie. La Compagnia delle Indie Orien­
tali olandese controlla tutti gli scambi tra queste isole e il resto del
mondo, riesce con l'uso della forza, a monopolizzare gli scambi di
spezie e, pertanto, a forzare il proprio ingresso in tutta una serie di
commerci asiatici e ad accumulare profitti elevatissimi in questo
commercio con l'Europa.
Questo fa della Compagnia una delle imprese capitalistiche di
più grande successo nella storia. Essa diventerà il fondamento
stesso della Borsa di Amsterdam, che si forma e diventa il centro
della finanza europea tra il 1600 e l'inizio del 1700.
Verso la fine dei secolo XVIII Amsterdam cessa di essere il cen­
tro dell'economia mondiale centrata sull'Europa. Il centro si sposta
su un'altra città europea, che rimane tale dalla fine del secolo
XVIII fino alla grande crisi del 1929-30. Questo nuovo centro è
Londra. La potenza economica di Londra e dell'Inghilterra si reg­
ge su una combinazione di fattori di vario tipo tra 1 quali due, in
particolare, sono decisivi. Il primo è la rivoluzione industriale che
avviene tra fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX. L'industria
manifatturiera, già relativamente sviluppatasi nei secoli preceden­
ti, subisce delle trasformazioni tecnologiche importanti che condu­
cono a vane forme di meccanizzazione e di uso di nuove fonti di
energia, che permettono un'espansione senza precedenti della pro­
duzione industriale. L'Inghilterra diventa l'officina del mondo.
Sulla base di questa superiorità tecnologica-industriaie gradual­
mente comincia ad aprire il proprio mercato interno alte importa­
zioni da tutto il mondo e, prevalentemente, a quelle di materie pri­
me {cotone greggio e, successivamente, prodotti agricoli alimenta­
ri, e così via).
L'Inghilterra diventa sempre più dipendente da queste impor­
tazioni di beni agricoli e materie prime che vengono trasformate al
proprio interno e poi, m gran parte, esportate nel resto del mondo
sotto forma di manufatti e di macchinari. Nel XIX secolo si osserva
un tipo di organizzazione dell'economia mondiale con un proprio
centro costituito dall'Inghilterra e, all'interno di essa, Londra che
diventa il nodo centrale del commercio mondiale. Tutto il mondo
esporta verso l'Inghilterra quantità crescenti di materie prime,
compresi prodotti agricoli, mentre dal l'Inghilterra si hanno flussi
m senso opposto di prodotti industriali. Questi flussi sono globali.
Quando si paria di globalizzazione, come di un sistema di pro­
duzione che si basa su materie prime che provengono da tutti i pae­
si del mondo e si dirigono verso un centro, e da qui processati e

25
rivenduti in tutto il resto dei mondo, bisogna ricordare che l'econo­
mia mondiale dei XIX secolo costituisce già un'economia globale.
Per poter produrre per il mercato centrale tutti i paesi più o
meno periferici dovevano fare ingenti investimenti in infrastruttu­
re (porti, trasporti interni, ferrovie, navi sempre più potenti e velo­
ci). Infrastrutture che, a loro volta, richiedevano ingenti investi­
menti di capitali, molti dei quali erano forniti dalia stessa Inghil­
terra. I capitalisti inglesi fornivano credito, o investivano capitali
in questi vari centri che, gradualmente, creavano una rete globale
di porti e trasporti meccanizzati e altre infrastrutture, che permet­
tevano il flusso delle merci. La rivoluzione industriale (che deter­
mina una grande espansione delle capacità produttive) dell'Inghil­
terra è un primo elemento della formazione dell'economia globale
del XIX secolo.
Il processo di globalizzazione è graduale, progressivo, cumula­
tivo; avviene per stadi in cui le interconnessioni tra i vari paesi dei
mondo diventano sempre più dense e solide. A partire dalla metà
dei secolo scorso l'Inghilterra persegue una politica dì libero scam­
bio per facilitare i flussi di merci e materie prime. Tale politica pre­
senta però alcuni problemi connessi con ia bilancia dei pagamenti.
Il problema fondamentale era che l'Inghilterra aveva sempre,
prima e dopo il perseguimento di politiche di libero scambio, un
deficit nella bilancia commerciale; importava sempre più di quan­
to non esportasse, eppure non solo continuava a importare sempre
di più e ad aumentare la produzione ma, ai tempo stesso, esporta­
va capitali crescenti nel resto del mondo. Tutto ciò poteva avvenire
perché il deficit cronico veniva pagato dalle colonie, e in particola­
re modo da una, l'India, che forniva all'Inghilterra i mezzi di pa­
gamento necessari per bilanciare il proprio commercio con l'estero
e per investire nel resto del mondo.
L'India era una colonia conquistata gradualmente, e fin dal­
l'inizio offriva un contributo enorme alle finanze inglesi tramite
l'attività della Compagnia delle Indie Orientali inglesi. A partire
dalla metà dei XVIII secolo la Compagnia aveva perso nella con­
correnza con la Compagnia olandese per ia monopolizzazione del
mercato delle spezie, e aveva così cercato un proprio spazio nel
subcontinente indiano cercando di controllare sempre di più la
produzione tessile indiana. Questa era allora la più avanzata e
concorrenziale nel mondo, tant'è che l'industria inglese stessa ave­
va tariffe altissime per proteggersi dalla concorrenza indiana.
L'obiettivo non era però così facile come monopolizzare il com­
mercio delle spezie. L'industria tessile indiana si fondava su basi

26
artigianali enormi e estremamente frammentate, con reti comples- :
sissime; un’enorme industria informale, di piccola media produ­
zione, e con un grande numero di commercianti che facevano da
intermediari tra i vari stadi della produzione.
La Compagnia inglese, che era, come le altre compagnie, anche
uno stato, si coinvolge sempre di più nella politica del subconti­
nente indiano, in quel momento in crisi politica profonda, dopo il
crollo deirimpero Moghuì. Avvantaggiandosi delle tecnologie
militari europee più avanzate e, allo stesso tempo, utilizzando
indiani come manodopera militare, a poco a poco la Compagnia
diventa sempre di più l'organizzazione politica centrale dei sub­
continente indiano, fino a diventare il nuovo centro dell'Impero.
Riesce così a centralizzare sempre di più nelle proprie mani la pro­
duzione tessile, e nel contempo diventa il centro tributario del
continente, che impone tasse sempre più elevate. A partire dal
1757 flussi tributari sempre maggiori, a spese della popolazione
indiana, vengono dirottati verso le finanze inglesi sotto varie for­
me: dividendi e prodotti della Compagnia, eccedenze nella bilan-
cai dei pagamenti dell'India e così via.
L'economia indiana viene sempre più organizzata in modo da
ridurre le importazioni ed aumentare le sue esportazioni. Gra­
dualmente, nei cento anni che vanno dalla metà del secolo XVII
alla metà del secolo XIX l'India diventa il grande finanziatore delle
politiche commerciali e finanziane dell'Inghilterra nel resto dei
mondo.
L'Inghilterra, quindi, può permettersi questo sbilancio cronico
e allo stesso tempo investire nel mondo perché controlla l'enorme
crescente sovrappiù della bilancia commerciale con l'India. La
politica di libero scambio e la possibilità dì creare un sistema com­
merciale mondiale in espansione sempre più integrato e sempre
più denso si regge sull'Impero che gli inglesi creano in India, e sul­
le trasformazioni che vengono avviate qui, di graduale deindu­
strializzazione, con la produzione che viene indirizzata ad una
sene di materie prime per il commercio mondiale.
Le fortune dell'Inghilterra durano finché durante la prima
guerra mondiale non si sviluppano circostanze storiche m cui i
costi di protezione dell'Impero indiano cominciano a superare i
benefici che l'Inghilterra ne trae.

27
Dall'egemomn inglese all'egemonia statunitense

Per capire se la globalizzazione, così come si manifesta attual­


mente, è un fenomeno più o meno permanente e stabile dobbiamo
vedere quali sono state le forze polìtiche, economiche e sociali che
hanno provocato la crisi della globalizzazione sotto egemonia ingle­
se, domandandoci se gli stessi fenomeni possono o meno presentarsi
anche oggi, nella fase di globalizzazione sotto l'egemonia americana.
Quali sono state le tendenze della fine del secolo scorso che
hanno provocato la disintegrazione dell'egemonia inglese? I fattori
sono molti. Una prima questione è quella dei rapporti tra gii stati.
È chiaro che i conflitti tra gli stati e l'indebolimento relativo dell'In­
ghilterra è un elemento importante nella disintegrazione del siste­
ma globalizzato.
L'Inghilterra in quanto centro industriale del mondo e princi­
pale potenza imperialistica occupa una posizione dominante nei
confronti degli altri stati. La tendenza ad imitarla è uno dei fattori
decisivi che porta ad una intensificazione della concorrenza tra gli
stati. Essi cercano di trovare zone nel mondo che possano essere
utilizzate per la propria industria; cercano di diventare essi stessi
centri industriali di importanza mondiale per eguagliare il potere
dell'Inghilterra o superarlo.
Esiste in particolare da parte della Francia, della Germania e
degli USA una tendenza a introdurre innovazioni tecnologiche sia
belliche che industriali. Si registra un processo di industrializza­
zione rapidissima nella seconda metà del XIX secolo al di fuori
dell'Inghilterra, che è tirata in gran parte dalla concorrenza degli
stati nella lotta per il potere. Il risultato è una ulteriore spinta al­
l'espansione a costi crescenti su scala mondiale, ma anche la disor­
ganizzazione del sistema.
Negli USA, in Occidente, nell'URSS, in Oriente, si creano nuovi
colossi militari industriali con cui le vecchie potenze europee,
compresa l'Inghilterra, non possono concorrere né militarmente né
industrialmente. Si sviluppano anche nuove forme di organizza­
zione delle imprese capitalistiche in questi stessi territori, partico­
larmente m America, che diventavano colossi industriali, con cui
le imprese europee sono in difficoltà nel concorrere. Si configura
così un sistema bipolare di superpotenze e la globalizzazione di
vecchio tipo scompare a tutti gli effetti, per quanto riguarda i rap­
porti tra gli stati.
In questo processo, in cui è rilevante l'importanza dell'indu­
stria nel determinare i rapporti tra i gruppi di potere e tra gli stati,

28
si ha la formazione dì nuovi classi sociali, in particolare di una
classe operaia industriale concentrata nelle zone urbane, che svi­
luppa un notevole potere sociale nei confronti delle classi domi­
nanti airinterno di ciascun paese. C'è la formazione di partiti co­
munisti, socialisti, socialdemocratici. Anche dove non esistono
partiti socialisti, come negli USA, il potere del proletariato indu­
striale cresce in questo periodo di forte concorrenza tra gli stati. La
classe operaia si mobilita per ottenere una fetta crescente del pro­
dotto in espansione e, quindi, pone limiti sulla parte del prodotto
che può essere appropriato da parte dei capitalisti e trasformato in
ulteriore investimento.
Altri grossi movimenti sociali che si sviluppano sull'onda di
questo sono i movimenti di liberazione nazionale dei paesi del ter­
zo mondo.
Questi fenomeni creano una tendenza dell'economia mondiale
a frammentarsi sempre di più in economie nazionali, e inducono i
due stati più potenti che emergono a porsi come modelli per gli
altri.
Alla fine del processo di disintegrazione dell'egemonia inglese
gli USA emergono come potenza mondiale ai di sopra di tutte le
altre, con un apparato produttivo colossale, con riserve finanziane
enormi, e al tempo stesso con un gran numero di imprese di tipo
nuovo: società per azioni specializzate, integrate verticalmente con
una loro burocrazia manageriale e capacità di operare su scala
mondiale. Dopo la seconda guerra mondiale si ha la riorganizza­
zione del mondo, da parte degli USA, in due blocchi, con il cosid­
detto mondo libero strutturato in modo tale che le multinazionali
possano operare su scala sempre più allargata, e che le imprese si
riorganizzino sotto forma multinazionale. È questo uno dei feno­
meni più importanti nel creare le nuove condizioni di globalizza­
zione della fine dei secolo XX, che determina una situazione diver­
sa da quella del XIX secolo.

La crisi dell'egcmoiiìa statunitense

La globalizzazione, così come la si osserva oggi, è il risultato di


un lungo processo, durato secoli, che comincia ai tempi delle gran­
di scoperte, continua poi nei secoli XVI-XVIII in forme particolari
che portano, nel XIX secolo, alla formazione di un mercato mon­
diale unico con il suo centro in Londra e nell'Inghilterra, che ha
come suo fondamento la rivoluzione industriale inglese, la politica

29
di libero scambio e un Impero britannico che comprende terre un
po' in tutto il mondo 6/ in particolare, l'India. All'interno di questo
sistema economico mondiale vi erano contraddizioni, tra cui la
concorrenza tra gli stati, 1 quali, tendendo ad imitare l'Inghilterra,
generavano una tendenza alla disorganizzazione del sistema.
La concorrenza tra gli stati e la diffusione della rivoluzione
industriale, sempre più essenziale anche per l'industria degli ar­
mamenti e per le innovazioni tecnologiche che permettevano agli
stati di confrontarsi l'un con l'altro, creavano nei paesi europei
nuove classi sociali, m particolare la classe operaia industriale, che
diventavano basi sociali di movimenti che rivendicavano una fetta
più grande della produzione complessiva. Ai tempo stesso i paesi
conquistati dagli europei e trasformati in colonie rivendicavano
l'indipendenza politica, in modo da poter avviare processi di
modernizzazione, nella speranza di eguagliare ia ricchezza e il
potere delle nazioni europee.
La concorrenza tra gli stati, l'industrializzazione generalizzata,
la formazione di classi operaie nei paesi centrali, la formazione di
movimenti di liberazione nazionale nelle colonie, creano nella pri­
ma metà del nostro secolo una serie di grandi terremoti sociali su
scala globale: guerre, rivoluzioni, esplosioni di movimenti operai,
una grande depressione (1929), due guerre mondiali combattute
con mezzi tecnologici sempre più potenti e distruttivi.
Alla fine della II guerra mondiale gli USA emergono detenen­
do un potere che permette, sotto forma di guerra fredda, di riorga­
nizzare il sistema in sfere d'influenza, con formazioni politico-eco­
nomiche che permettono l'espansione delle multinazionali ameri­
cane. Il Mercato Comune Europeo è appunto uno spazio politico-
economico unificato adeguato alla scala delle grandi società ame­
ricane.
Questa riorganizzazione produce una redistribuzione massic­
cia di risorse finanziane mondiali. Nel giro di 20-30 anni l'Europa
Occidentale e il Giappone riescono a raggiungere gli standard di
ricchezza degli USA. Al resto dei mondo invece viene promesso
che ci vorrà più tempo. Col termine Global New Deal si definisce
l'obiettivo di pieno impiego e consumi di massa elevati nei paesi
occidentali e nel Giappone; e di sviluppo, per raggiungere questi
livelli m un futuro più lontano, nei resto del mondo. Questa è la
risposta alle rivoluzioni e ai movimenti anticapitalistici che si era­
no sviluppati nella prima metà del secolo, offerta in alternativa
all'esperienza sovietica, paese arretrato all'inizio del secolo, che
nel giro di treni'anni era emerso come una superpotenza, e aveva

30
creato all'interno anche condizioni di avanzamento sociale per le
classi subalterne.
In termini generali, quello che avviene in questo periodo è
simile a quello che era avvenuto nella metà del secolo scorso, ossia
un fenomeno di crescente integrazione dell'economia mondiale.
Oltre all'integrazione commerciale, già raggiunta nel secolo scor­
so, si ha anche un'integrazione di tipo nuovo, quella delle multi­
nazionali, che, a poco a poco, centralizzano nelle loro mani e pro­
muovono flussi sempre maggiori di capitali da un paese all'altro. I
profitti fatti da una multinazionale in un paese non debbono esse­
re reinvestiti nei paese stesso, ma in qualsiasi paese del mondo,
dove i profitti sono più elevati. Fin dall'inizio, quindi le multina­
zionali operano in una visione globale.
Con la risposta competitiva del capitale europeo e di quello
giapponese, e via via di tutta una sene di altri paesi, si ha una pro­
liferazione nel numero delle multinazionali. Molte importazioni
non sono più scambi commerciali, ma trasferimenti interni alle
multinazionali che passano attraverso i confini degli stati. Pare che
qualcosa come il 30 o il 40 per cento dei commercio internazionale
e delle importazioni in USA siano trasferimenti interni alle multi­
nazionali, ed è chiaro che questo tipo di scambi non possono esse­
re regolati come il commercio vero e proprio.
Questo è un primo aspetto di diversità dell'economia globale
attuale rispetto a quella del XIX secolo, dove la produzione era
effettivamente nazionale. Le multinazionali sono una rete organiz­
zativa, che crea agli stati grandi difficoltà nei controllare i flussi m
entrata e in uscita. Non esiste più per essi la possibilità di dire qua­
le sia effettivamente la propria produzione nazionale. Quindi, si
ha un processo di integrazione che non si regge più soltanto su
trattati tra gli stati o sul fatto che un paese come l'Inghilterra apre i
propri mercati a tutto il mondo, ma diventa sempre più comples­
so; una integrazione, in cui gli stati sono in difficoltà crescente nei
controllare i livelli di produzione, i livelli commerciali, ecc.
Dobbiamo però stare attenti al fatto che si è venuta a creare
una situazione di crescente concorrenza non solo tra gli stati (come
ducente l'egemonia inglese alla fine dell'espansione della metà del
secolo scorso), ma anche tra le multinazionali stesse, che sono for­
temente cresciute in numero. Questo crea una pressione sui profit­
ti, ed è ciò che succede tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi
degli anni Settanta.
In questo stesso periodo tale pressione era tanto più forte in
quanto avveniva in un contesto di potenti movimenti sociali, sia nel

31
Terzo Mondo che nei mondo occidentale. L'evento centrale è la
guerra del Vietnam/ che costituisce l'elemento catalizzatore di tutti i
movimenti di ribellione a livello globale. Si ha una situazione m cui
il paese dominante, la potenza militare senza uguali nella storia
mondiale, vuole piegare uno dei paesi più poveri dei mondo, ma
senza riuscirci. ÌJescaintion del numero di soldati americani che
muoiono nel Vietnam crea un movimento poderoso negli USA con­
tro la guerra, e la resistenza vietnamita diventa un elemento cataliz­
zante anche dei movimenti dei paesi centrali.
Questa guerra porta a costi sociali crescenti, creando la cosid­
detta crisi fiscale dello stato americano, che viene accentuata dalle
politiche delle multinazionali. Queste, lungi dall'appoggiare finan­
ziariamente lo sforzo dello stato americano, incominciano a dirot­
tare 1 loro profitti sempre di più in mercati extra territoriali, come
quello dell'eurodollaro, che lentamente mina il sistema di Bretton
Woods.
Una delle ragioni per cui gli USA debbono riconoscere la scon­
fitta e ritirarsi dal Vietnam va vista in un contesto in cui vi sono tre
attori: i vietnamiti, in primo luogo, le masse studentesche negli
USA che si opponevano alla guerra insieme alle masse studente­
sche nel mondo; ma anche le multinazionali, che invece di rimpa­
triare 1 profitti dove sarebbero stati tassati, preferivano tenerli
liquidi nei mercati dell'eurodollaro. Il risultato è una crisi dell'ege­
monia americana.

Considerazioni condìisive

I crolli finanziari che stanno accadendo in Asia orientale, e che


si stanno trasmettendo da un paese all'altro, non sono che un sin­
tomo dei fenomeni di instabilità tipici delle fasi di espansione
finanziaria, che seguono tutte le fasi di espansione commerciale e
produttiva, quando il capitale, sotto la spinta di una caduta del
tasso di profitto, tende a disinvestire dalla produzione e dal com­
mercio e ad investirsi nella speculazione finanziaria.
La questione di fondo, per quanto riguarda il futuro, è: cosa
possiamo attenderci da questa turbolenza? Senz'altro che questa
fase di espansione finanziaria, prima o poi, finisca. Per fare un
ragionamento molto semplice: la produzione mondiale negli anni
'80 e '90 è cresciuta ad un tasso medio dei 2 per cento, i redditi di
capitale sono cresciuti del 15-20 per cento, com'è possibile? È pos­
sibile solo con una redistribuzione massiccia, dalla maggioranza

32
della popolazione mondiale, lavoratrice o meno, a coloro che con­
trollano il capitale liquido, monetario. Ora è chiaro che ciò crea
tutta una serie di tensioni sociali, ed anche di tensioni tra gli stati.
Queste accumulazioni crescenti hanno chiaramente limiti so­
ciali e politici; possono continuare solo finché esiste la possibilità
di mantenere il consenso di chi perde in queste redistribuzioni. Poi
si arriva al punto in cui o non c'è più nulla da redistribuire e i con­
sumi popolari sono ridotti al minimo, oppure si manifesta una
resistenza crescente da parte di chi perde in questa redistribuzione
che destabilizza socialmente e politicamente il sistema. A questo
punto crolla questo castello di carta su scala globale che si è accu­
mulato sulla base delle aspettative di una continuazione di questa
redistribuzione. Questo è già successo nei 1929.
Oggi il sistema, così com'è istituito, sta diventando sempre più
instabile, e la fine della guerra fredda, da questo punto di vista, ha
peggiorato le cose. Non si può più invocare lo spettro del comuni­
Smo e dell'URSS per mobilitare le forze sociali o per creare condi­
zioni dì cooperazione tra gli stati.
Le promesse del Gìobni New Deni erano difficili, impossibili, a
quanto sembra, da mantenere da parte del sistema capitalistico
mondiale, perché non appena i livelli di consumo di massa sono
aumentati e i paesi del Terzo Mondo hanno cominciato ad indu­
strializzarsi rapidamente, si sono venute a creare situazioni di
competitività e di pressione sulle risorse, naturali e non. Invece di
avere un'ulteriore espansione della produzione mondiale, si è avu­
ta una contrazione e una redistribuzione m favore del capitale. I
problemi di fondo però sono rimasti. Le forze sociali, sia nei paesi
ricchi che m quelli poveri, non hanno rinunciato assolutamente
all'idea di una redistribuzione più equa di questa ricchezza mon­
diale che si era espansa in modo straordinario negli anni '50 e '60.
Gli USA non sono più m grado dì garantire il tipo di direzione
che davano prima perché, nonostante il crollo deìl'URSS, si sono
indebitati a! punto tale da non avere le capacità di riorganizzare
l'economia mondiale e di dare una direzione. I mercati però non
sono mai autoregolantisì; hanno sempre bisogno di una certa mi­
sura di regolazione che contrasti le tendenze a forti fluttuazioni e
grandi turbolenze, come quelle die si osservano oggi. Hanno cioè
bisogno di organizzazioni politiche egemoniche, oggi inesistenti.
Nel passato, queste emergevano dopo lunghi periodi di caos
generalizzato, e probabilmente questo è necessario anche nei
nostro futuro: che emergano nuove forze m grado dì riorganizzare
il sistema in modo tale da permettere una nuova espansione.

33
È molto probabile che questa fase di globalizzazione così come
l'abbiamo conosciuta negli anni '80 e '90 finisca presto, cioè nel giro
di cinque, dieci anni. Dopo non sappiamo esattamente che cosa suc­
cederei. Possiamo attenderci, e già se ne vedono i sintomi, la riemer­
genza di movimenti sociali di vano tipo, che chiederanno interventi
di vano tipo per ristrutturare il sistema in modo meno instabile, rea­
gendo alle redistribuzioni su cui si regge l'espansione finanziaria.
Ma è difficile prevedere come i movimenti saranno strutturati.
Ci sono anche molte probabilità che questa fase di globalizzazio­
ne finisca, come la precedente, in un periodo di cataclismi sociali e
economici su scala mondiale, tuttavia è improbabile che si arrivi allo
stesso tipo di violenza generalizzata nelle lotte tra gli stati simile a
quella che si è avuta nella prima metà di questo secolo.
In primo luogo, sebbene gli USA non abbiano il potere finan­
ziano necessario a riorganizzare il mondo in modo che vi sia una
nuova espansione, il loro potere militare sui piano globale è così
centralizzato e assoluto, che è inimmaginabile che possa emergere
un altro stato a sfidare gli USA sul piano militare. Quindi la guer­
ra, come modo di regolazione tra gli stati capitalistici, che è stata
una costante del passato, da questo punto di vista, probabilmente
è superata.
In secondo luogo, l'economia di guerra e le guerre tra gli stati
capitalistici erano sempre fondate sulla possibilità di organizzare
le economie nazionali in maniera relativamente autarchica, in reci­
proca contrapposizione; il fatto che la produzione su scala globale
sia organizzata da multinazionali che operano in vari stati rende
molto difficile la riorganizzazione delle economie nazionali in
unità autarchiche.
In terzo luogo, l'esperienza della guerra del Vietnam e i vincoli
sociali sulla capacità degli stati capitalistici avanzati di fare la
guerra restano estremamente vincolanti. Se gli stati capitalistici
non sono in grado di sopportare socialmente che una parte ingen­
te della propria popolazione possa morire in guerra, possiamo sta­
bilire che c'è un'alta probabilità che le guerre non vengano fatte.
Inoltre gli USA hanno anche vincoli finanziari che non permettono
loro di fare la guerra.
, In quarto luogo è mutato il rapporto tra il mondo occidentale e
gli altri mondi, a cui il mondo occidentale non è più in grado di
imporre, come faceva nel secolo scorso, il bello e il brutto tempo su
scala globale. L'integrazione dell'economia globale deve sempre
più reggersi su rapporti tra uguali, piuttosto che su rapporti tra
potenze imperiali e stati che vengono conquistati, colonizzati.

34
AI di sotto di tutto questo esiste il problema fondamentale del
rapporto tra umanità e natura. I modelli dì consumo che erano sta­
ti promessi dal nuovo corso globale sponsorizzato dagli USA pone
problemi di distruzione della natura e dell'ambiente tali che è
comunque irrealizzabile. Già stanno facendo disastri ecologici con­
siderevoli, anche se è stato effettivamente generalizzato a non più
del 15-20 per cento della popolazione mondiale. Che cosa succede­
rebbe se venisse generalizzato a paesi come l'India o la Cina?
Comporterebbe distruzioni tali della natura da provocare un disa­
stro generale. È quindi chiaro che qualsiasi ordine mondiale che
emergerà dopo il caos prossimo venturo dovrà affrontare questo
problema, del rapporto tra umanità e natura.

35
3

L'espansione sistemica

Le teorizzazioni del sistema-mondo

Affronteremo innanzitutto alcune questioni di metodo e, m


particolare, le differenze fra diversi tipi di macrosistemi. All'inter­
no di questo discorso vedremo le differenze tra l'approccio che
viene qui proposto e quello di Wallerstein nell'analisi dei processi
di trasformazione dei sistema mondiale.
Il primo problema è quello della scelta del tipo di unità di ana­
lisi che si intende adottare nello studio dei problemi del mutamento
sociale. Si può infatti analizzare lo sviluppo dei capitalismo in due
modi diversi: come sistema mondiale oppure come sistema nazio­
nale. Nei primo caso si considera il sistema capitalistico come una
formazione socio-economica su scala mondiale, e che richiede l'esi­
stenza di un sistema di stati, ed ha perciò una struttura politica
frammentata. Nel secondo caso, invece, si considera i! capitalismo
come un sistema nazionale, guardando all'interno di confini nazio­
nali. Naturalmente ci possono essere altre differenze, ma riguarda­
no la microsociologia, mentre noi parliamo di macrosociologia.
Un altro problema è quello della scelta dell'angolo visuale. È
possibile distinguere tra chi concepisce il capitalismo come modo
di scambio e produzione e chi, invece, lo concepisce come modo di
accumulazione e dominio.
Non è possibile affermare in modo assoluto che una particola­
re unità di analisi o un particolare angolo visuale sia migliore di
un altro; la scelta dipende sempre dallo scopo dell'analisi.
Le scelte relative all'unità di analisi ed all'angolo visuale posso­
no essere utilizzate per mostrare alcune differenze tra le diverse teo­
rie dello sviluppo del capitalismo e dei sistema degli stati ffig. 1).
Possiamo classificare le teorie di Wallerstein e di Brenner nelle
prime due caselle: la differenza tra il primo e il secondo (e in un certo

37
Fig. 1 - Schema delle unità di mintisi secondo ¡'angolo visuale

U n ità d i a n a lis i

C a p ita lis m o co m e C a p ita lis m o co m e


s is te m a m o n d ia le s is te m a n a z io n a le

C a p ita lis m o c o m e
A n g o lo W a lle r s te m B ren n er
m o d o d i s c a m b io
V is u a l e
e p ro d u z io n e

C a p ita lis m o c o m e
B rau d el T illy
m o d o di
(A rrig h i, 1! lu n g o
a c c u m u la z io n e
X X secolo )
e d o m in io

senso anche tra Sweezy e Do'bb) attiene all'unità di analisi. Brenner


studia lo sviluppo del capitalismo nei modi in cui avviene m In­
ghilterra, Francia, Polonia e in vari altri paesi dell'Europa e li con­
fronta tra di loro. I capitalismi, quindi, sono intesi come sistemi
nazionali, oggetto di analisi comparata. Wallerstem invece, analizza
il capitalismo come sistema mondiale die comprende una moltepli­
cità di stati ma che ha una propria unità definita da una divisione del
lavoro.
Ci sono, quindi, teorie che considerano gli stati come unità di
analisi e li studiano individualmente (sviluppo del capitalismo in­
dustriale inglese), o in modo comparato (sviluppo del capitalismo
in Inghilterra, confrontato con quello in Francia). Dall'altra parte,
ci sono teorie che studiano il capitalismo come sistema mondiale,
in cui la Francia, l'Inghilterra, la Polonia sono considerate parti di
una totalità.
A partire da queste due posizioni è possibile evidenziare vari
fenomeni di riduzionismo che nascono dalla mancanza di coscien­
za dei limiti di queste analisi.
Da una parte, Brenner vuole capire il sistema capitalistico co­
me sistema mondiale, partendo dalie unità nazionali. Lo sviluppo
del capitalismo in Inghilterra, quindi, ha certe caratteristiche e
condizioni che non esistono in Francia né in Polonia. In questo
senso, rileva un diverso tipo di sviluppo nei tre paesi. Il capitali­
smo mondiale nasce, così, dall'unione di questi differenti tipi di
sviluppo. I tre paesi sono in concorrenza l'uno con l'altro, per cui

38
io sviluppo ineguale a livello mondiale viene spiegato sulla base
di una dinamica nazionale. Questa è una forma di riduzionismo,
in quanto si tenta di spiegare il capitalismo come sistema mondia­
le partendo da sistemi nazionali.
Wallerstein, a sua volta, vorrebbe spiegare quello che accade in
Polonia, in Inghilterra e in Francia prendendo in considerazione la
logica del sistema capitalistico mondiale, ed opera un altro tipo di
discutibile riduzionismo.
Charles Tilly, quando affronta la questione dei capitalismo, è
interessato alla formazione degli stati europei, alle varie combina-
ziom nell'uso di capitale e di coercizione nella formazione degli
apparati statali. Non considera, invece, quasi mai il capitalismo
come modo di scambio e produzione. Il capitalismo viene concepi­
to semplicemente come un modo di accumulazione e dominio.
Questa posizione ha la stessa genealogia di quella di Brenner, in
quanto Tilly non studia lo sviluppo di un sistema capitalistico
mondiale ma fa analisi comparate fra i diversi stati e poi nota co­
me queste varie forme prima divergono e poi convergono in quel­
lo che chiama coercizione capitalizzata (capitale e coercizione si
uniscono per formare strutture statali). Tilly viene posto nella stes­
sa colonna di Brenner per la sua analisi del capitalismo in quanto
sistema nazionale. Tuttavia, si differenzia da quest'ultimo perché
l'angolo visuale che adotta non è quello del capitalismo come
modo di produzione e scambio, bensì di accumulazione e domina­
zione.
Passiamo a Braudel. Nel primo volume della sua trilogia que­
sto autore paria del modo di produzione, poi, man mano che va
avanti e che arriva ai terzo volume, il concetto scompare. La sua è
un'analisi del capitalismo come modo di accumulazione e domi­
nio e che riguarda, in particolar modo, i rapporti tra stato e capita­
le. A differenza di Tilly, Braudel non è interessato a come il capita­
lismo si sviluppa m particolari posti o ad un'analisi comparativa
dei vari sistemi. Come Wallerstein (che prende la nozione di eco­
nomia-mondo da Braudel), guarda al fenomeno dello sviluppo
capitalistico di un sistema mondiale. I circuiti dell'accumulazione
del capitale tipica delle città-stato italiane non sono considerati
come elementi che si possono analizzare singolarmente, ma come
reti e circuiti globali, che connettono una molteplicità di stati.
All'interno di questa classificazione, non è possibile affermare
che un approccio sia migliore di un altro: tutto dipende da che cosa
si intende ricercare e capire. In ogni caso, se concepiamo il sistema
capitalistico come un modo di produzione, immediatamente

39
restringiamo l'orizzonte di osservazione, lì lungo XX secolo si colloca
nella stessa casella di Braudei. Infatti, è proprio a partire dalla con­
cezione braudeliana del capitalismo come sistema mondiale, come
modo di accumulazione e dominio, che questo libro è stato scrìtto.

Teoria e stona

Il lungo XX secolo presenta una serie di ipotesi connesse e


sovrapposte; per capire più a fondo la dinamica presente, occorre
analizzare una sene di casi passati. L'idea non è quella di mostrare
come si ripete la storia. Piuttosto, per poter identificare il più pre­
cisamente possibile che cosa c'è di nuovo, bisogna, innanzitutto,
identificare quello che nuovo non è.
Per fare un esempio, negli anni 'SO esplode l'espansione finan­
ziaria, e si scopre il fenomeno della globalizzazione, che porta alcu­
ni studiosi ad ipotizzare l'emergenza di un nuovo mondo: le stesse
cose, però, venivano dette cento anni prima. L'elemento da cogliere
è che l'espansione finanziaria rappresenta la fine di un ciclo.
Facciamo adesso un confronto tra l'approccio di Wallerstem ed
il mio. Va visto, anche qui, sulla base dell'analisi storico-empirica.
Diamo per scontata l'esistenza di un'organizzazione sistemica,
dotata di proprietà specifiche. 11 sistema è organizzato in un certo
modo, ha certi tipi di unità (gli stati), una certa divisione dei lavo­
ro, ecc. L'organizzazione sistemica non è un soggetto: chi agisce
non è il sistema, ma le sue unità. Si tratta, tuttavia, di unità all'in­
terno di un'organizzazione sistemica, per cui si hanno certi risulta­
ti a livello delle unità e altri risultati a livello del sistema.
Il problema dei determinismo e deH'indeterminismo struttura­
le ha a che fare con il rapporto che noi ipotizziamo esistere tra
l'organizzazione sistemica ed i soggetti. Il determinismo concepi­
sce il sistema come capace di determinare tutti i comportamenti: i
soggetti, gii individui, le unità non hanno scelta. L'organizzazione
sistemica determina cosa fanno le unità (approccio di Wallerstem).
Se si adotta il metodo deterministico-strutturaie di Wallerstem,
secondo cui l'organizzazione sistemica ha una propria logica di
riproduzione e determina completamente ciò che succede a livello
delle unità, non è possibile spiegare il mutamento strutturale. Esso
può solo avvenire in modo esogeno, dal di fuori del sistema, e ciò
conduce ad un completo volontarismo.
Per spiegare endogenamente il mutamento strutturale, le unità,
ed i processi a livello delle unità, devono avere capacità di trasfor­

40
mare il sistema. In questa prospettiva, anziché dire che l'organizza­
zione sistemica determina il comportamento dei soggetti, si può
affermare che io condiziona, ma sono le azioni ed i comportamenti
delle unità che trasformano l'organizzazione sistemica.
Il lungo XX secolo è fondato su una concezione di questo tipo.
La struttura è sempre definita in termini di azione di soggetti defi­
niti.

La sorpresa interstiziale

Ogni ciclo storico è un momento in cui una particolare unità,


sempre costituita da un insieme di entità governative e imprendi­
toriali m rapporto le une con ie altre, crea una nuova organizzazio­
ne sistemica. Il sistema si può espandere da una emergenza inter­
stiziale e creare una nuova organizzazione dei sistema mondiale.
Di fondamentale importanza in questo processo e ciò che Michael
Mann definisce interazione tra istituzionalizzazione e sorpresa
interstiziale. Gli interstizi sono parti di sistemi non bene integrate.
Nessun sistema è così istituzionalizzato, così integrato, da non
permettere l'emergenza, nei suoi interstizi, di sorprese, che porta­
no una sfida alle strutture dominanti.
Sta qui, storicamente ed empiricamente, il grande vantaggio
della casella di Braudei, che anche II lungo XX secolo occupa: quando
si analizza lo sviluppo dei capitalismo partendo dalle grandi unità
(come la Francia o l'Inghilterra), si dimentica che esso avviene sem­
pre interstizialmente. Questo è vero all'epoca del Rinascimento ita­
liano e nel sistema delle città-stato, ma vale anche oggi per il capita­
lismo asiatico, L'Asia orientale è infatti un arcipelago capitalistico
che assomiglia molto ai capitalismo dell'inizio del sistema, con isole
capitalistiche che sono formazioni interstiziali.
Da un punto di vista metodologico, occorre dunque mettere ai
centro dell'analisi l'aspetto del capitalismo come formazione inter­
stiziale. L'idea di Braudei è quella di un sistema capitalistico che è
entbedded, incorporato, in diverse forme di organizzazione. All'ini­
zio, in un sistema di città-stato (con diaspore mercantili e capitali­
stiche). È così che il capitalismo nasce. Poi, per tutta una serie di
circostanze fra cui le scoperte, il capitalismo riceve uno stimolo
potentissimo e si crea una nuova organizzazione. Un'altra forma­
zione interstiziale, l'Inghilterra, che pure dai punto di vista com­
merciale non poteva concorrere con l'Olanda e da quello ferri tona­
le non poteva concorrere con la Francia, diventa dominante.

41
La spiegazione non è deterministica; consiste nei capire l'e­
spansione dei sistema capitalistico da fenomeno locale qual era in
partenza nei termini di una serie di sorprese interstiziali, che pro­
ducono successive emergenze di complessi egemonici. Essi danno
una nuova organizzazione al sistema capitalistico, che gli permette
di espandersi materialmente e finanziariamente. L'espansione
finanziaria rappresenta l'autunno del ciclo di una particolare for­
mazione egemonica. L'ordine si disintegra e un nuovo ordine si
forma, dapprima interstizialmente, per poi diventare nuova orga­
nizzazione sistemica.

Le transizioni egemoniche

Confronto ora il modello di Wallerstem ed il nostro, che è un


modello di mutamento sistemico che si sviluppa grazie all'azione
di complessi egemonici emergenti.
Nel modello che Wallerstein sintetizza m un saggio intitolato
The Threc lnstnnces of Hegemomy in thè Histori/ ofthe Capitolisi World-
Economy, il sistema è sempre in espansione competitiva. Tutti gli
stati sono m concorrenza tra loro; uno di essi, il più competitivo e
produttivamente più efficiente, tra i paesi centrali diventa domi­
nante. La concorrenzialità produttiva gli permette di acquisire un
primato commerciale e, conseguentemente, quello finanziano. Il
primato è‘ fenomeno strettamente economico, una concentrazione
di competitività, della produzione, dei commercio e della finanza,
tutte in una particolare nazione.
Nello schema di Wallerstein sono tre gli stati che diventano
egemoni: l'Olanda, l'Inghilterra e gli USA. Nel momento in cui uno
stato concorrenziale emerge in tutti i campi rispetto agli altri pro­
voca un confronto, una guerra mondiale, con cui consolida econo­
micamente e politicamente l'egemonia (si pensi alla guerra dei
Trent'anni, alle guerre Napoleoniche ed alla prima e seconda guer­
ra mondiale).
Questo rafforzamento si traduce in un liberalismo globale, e
questo, a sua volta, ha una influenza contraddittoria sulla concor­
renzialità del paese che detiene il primato. Il libero scambio crea,
da un Iato, la diffusione delle tecnologie (che erano in precedenza
monopolio del paese egemone) minando la competitività del lea­
der; e, dall'altro Iato, aumenta i redditi dei quadri e dei lavoratori
della potenza egemonica. Queste due tendenze portano ad una
nuova situazione di rivalità, con conseguente perdita di competiti­

42
vita prima nella produzione, poi nel commercio e nella finanza,
che porta, alla fine dei ciclo, ad una espansione competitiva di
un'altra potenza.
È, questo, uno schema tipico dei determinismo strutturale.
L'egemone è nient'altro che l'unità all'interno del sistema che vin­
ce la concorrenza: il meccanismo si ripete contìnuamente senza
trasformazione sistemica.
Il nostro invece è un modello completamente diverso, e riguar­
da la transizione egemonica, dove quest'uitima è costruita teorica­
mente ed empiricamente come un momento di trasformazione del
sistema.
Il carattere egemonico di uno stato si ha quando esso detiene
una leadership e dirige il sistema m una particolare direzione. Nel
senso gramsciano, lo stato è egemone quando si presenta con cre­
dibilità, come il portatore di interessi più generali rispetto a tutti
gli altri stati che ambiscono alla sovranità. Ma quando si parla di
leadership bisogna riferirsi non solo alla direzione dei sistema, ma
anche al l'emulazione. Se la prima è un fenomeno che rafforza il
potere del paese egemone, la seconda crea concorrenti, e ne dimi­
nuisce la competitività. Le due cose combinate provocano l'espan­
sione sistemica, che è espansione in senso materiale.
Quindi, mentre per Wallerstein l'espansione è una cosa che
nasce da sé, nella nostra prospettiva è il risultato dell'attività dello
stato egemone tesa a riorganizzare il sistema e di dettare te condi­
zioni dell'espansione, e dell'emulazione degli altri stati nei suoi
confronti.
L'espansione a sua volta crea le condizioni per la transizione
ad un'altra egemonia. Ogni transizione egemonica è caratterizzata
prima da una crisi egemonica poi da un crollo egemonico. Infatti,
il sistema, lungi dall'essere stabile come sosteneva Wallerstein, è
più spesso in trasformazione e la sua forza è data dalla capacità di
adattarsi a nuove condizioni, che non sono create una volta per
tutte.
L'espansione crea sempre tre fenomeni, che si combinano m
modi diversi: un aumento della rivalità tra stati e della concorren­
za tra imprese, una escalation dei conflitti sociali, e l'emergenza,
più o meno interstiziale, di nuove configurazioni di potere. Questi
tre fenomeni mettono in crisi l'egemonia esistente e, col tempo,
portano al crollo egemonico. Il caos sistemico che caratterizza il
crollo egemonico tende anche a creare le condizioni dell'emergen­
za di una nuova egemonia tramite la centralizzazione delle capa­
cità sistemiche in uno stato, che, per la sua posizione particolare ai

43
margini del sistema, beneficia del caos. La centralizzazione crea
quella che possiamo chiamare offerta di egemonia. Ma il caos crea
le condizioni di domanda di egemonia; nel senso che più diffuso e
generalizzato è il caos del sistema, più forte è la domanda dei
gruppi dominanti degli stati del sistema di un ordine qualsiasi.
Rispetto allo schema presentato, la situazione attuale si pone
più o meno nel punto del passaggio dalla crisi egemonica al crollo
egemonico. Si può rileggere la crisi degli ultimi 25 anni, compresa
l'espansione finanziaria, come una riedizione degli stessi fenomeni
che si potevano osservare nelle transizioni precedenti. In questo
senso, la questione fondamentale oggi è se stiamo entrando in una
fase di caos sistemico e di centralizzazione di capacità sistemiche
di nuovo tipo, che creeranno le condizioni per una nuova riorga­
nizzazione sistemica ed una nuova espansione. Oppure, e questa è
l'altra ipotesi, ci si può domandare se questo tipo di modello abbia
creato condizioni per cui non si possa passare ad una nuova rior­
ganizzazione.
La globalizzazione, e tutto quello che è successo negli ultimi 25
anni, lungi daìl'essere una nuova fase dei capitalismo, ripete in ordi­
ne diverso molte delle cose che succedevano nelle precedenti crisi
egemoniche, anche se nel nostro modello, accanto ad elementi di
ricorrenza e di evoluzione (il sistema alla fine non è lo stesso
dell'inizio), c'è l'anomaiia, intesa come fatto nuovo che non rientra
né nella ricorrenza e neanche neH'evoiuzione. Nelle precedenti crisi
egemoniche si poteva subito identificare uno stato che, anche se non
ancora dominante finanziariamente, io poteva diventare. Oggi esi­
ste una concentrazione militare neìl'egemone declinante degli Stati
Uniti e un'accumulazione di sovrappiù m Asia orientale. Nelle pie­
cedenti transizioni i conflitti sociali seguivano sempre le rivalità e le
concorrenzialità; in questa crisi sono arrivati subito. Un'altra ano­
malia è costituita dalle multinazionali: nonostante quello che dice
Wallerstein, esse creano nuove forme di organizzazione.
La identificazione delle anomalìe serve per cercare di fare pre­
visioni. Wallerstein si preclude la possibilità di spiegare endogena­
mente il cambiamento. Il sistema secondo lui si è espanso ad un
punto tale che ha ormai raggiunto il suo limite. Subentrano forze
esogene (e non è chiaro da chi esse siano rappresentate), che pos­
sono creare un nuovo sistema; ma può anche accadere che le classi
dominanti restaurino il tutto. Il suo modello è irrilevante per pre­
vedere cosa succede; subentra 1'indeterminismo. Dal nostro punto
di vista si tratta invece di costruire un modo di percepire ia realtà
che permetta di far previsioni sui futuro.

44
4

Gli stati e il capitale finanziario

Stati egemoni e sistemi di stati

Le espansioni sistemiche (dei capitaie nella sua totalità mate­


riale) finiscono storicamente per generare due tendenze, l'intensi-
ficazione della rivalità tra le grandi potenze, e l'emergenza, che in
genere avviene con un certo ritardo, di nuovi "centri" di potere ai
margini del raggio di azione del potere egemonico esistente.
L'intensificazione delle rivalità permette a nuovi centri di pote­
re di emergere e, allo stesso tempo, è anche il fattore che crea le
condizioni di domanda dell'espansione finanziaria centrata sui
vecchio paese egemone.
L'espansione finanziaria tende a provocare un'ulteriore desta­
bilizzazione del sistema, creando un'intensificazione delle lotte di
potere tra gli stati, lotte favorite dall'emergenza dei nuovi centri di
potere. A sua volta questa emergenza è un elemento che crea le
basi di una futura centralizzazione di capacità militari e finanzia­
rie nello stato egemone emergente. La disintegrazione dell'orga­
nizzazione sistemica esistente corrisponde al caos, che crea una
domanda di egemonia. Ciò permette allo stato egemone emergen­
te di riorganizzare il sistema in modo nuovo e, la centralizzazione
delle capacità militari e finanziarie in quest'ultimo crea le condi­
zioni di offerta di una nuova egemonia.
Questo è il modello di ricorrenza delle transizioni egemoniche,
così come le si osserva dall'angolo visuale della geopolitica, della
lotta per il potere tra gli stati. È un modello di ricorrenza che ha ai
suo interno anche una componente di evoluzione, nel senso che
quando il sistema viene riorganizzato sotto la nuova egemonia, la
nuova organizzazione è diversa rispetto a quella della fase prece­
dente perché deve permettere ai sistema di inglobare quello che
Durkheim chiamava un aumento in "volume e densità dinamica

45
della società". Crescono infatti sia il numero di unità del sistema
socialmente rilevanti d'espansione sistemica risulta come aumento
del numero degli attori: più stati, imprese, classi sociali, ecc.), sia il
numero e la varietà di transazioni tra queste unità. Nuove unità
del sistema hanno capacità di sfruttare le contraddizioni meglio
delle unità preesistenti, diventando nuovi centri di potere ai mar­
gini dei raggio d'azione della potenza egemone.
L'intensificazione di rivalità, in combinazione con l'intensifica­
zione della concorrenza tra organizzazioni capitalistiche, creano
un'espansione finanziaria centrata sul vecchio stato egemone.
Siamo all'autunno dell'egemonìa quando questo stato raccoglie i
frutti del suo dominio ma al tempo stesso destabilizza il sistema
ulteriormente tramite redistribuzioni massicce di risorse a suo
favore, che portano ad una escalation delle lotte tra gli stati ed ai
caos sistemico.
L'egemone emergente è sempre lo stato che è più in grado di
beneficiare del caos sistemico. Ma la transizione egemonica si
risolve e finisce solo quando ci sono le condizioni per dare una
nuova organizzazione che permette al sistema di operare in condi­
zioni di aumentato volume e densità dinamica. Il vecchio soggetto
egemone aveva una capacità di organizzazione dei sistema che era
legata ad un più ridotto volume e densità dinamica del sistema.
L'espansione provoca un aumento di volume e densità dinamica e,
quindi, per avere una nuova espansione, occorre che vi sia un sog­
getto, capace di creare le condizioni di un sistema a più grande
volume e a più grande densità dinamica. Quando ciò avviene, si
creano appunto le condizioni per una nuova espansione sistemica
ad un nuovo livello.
Questo modello di ricorrenza e di evoluzione vale quando si
osserva la transizione daH'egemonia olandese a quella inglese, e
dall'egemonia inglese a quella americana: grosso modo, ritrovia­
mo tutti questi aspetti, m questo ordine. La ricorrenza è anche evo­
lutiva perché c'è una centralizzazione crescente di capacità militari
e finanziarie che portano ad un sistema più vasto, organizzato da
un paese egemone più potente rispetto ai precedente; un sistema
sempre più voluminoso, sempre più denso transazionalmente, e
sotto la direzione di un egemone sempre più potente, sia finanzia­
riamente sia militarmente.

46
L'attuale crisi egemonica

A questo punto si pongono alcune questioni: siamo alla vigilia


di una nuova escalation della lotta per il potere tra gli stati, con la
solita guerra distruttrice, ecc., oppure questo sistema di ricorrenza
non si verificherà?
Dobbiamo fare attenzione alle anomalie. Se tutto fosse effetti­
vamente com'era prima, in termini di schema di ricorrenza ed
evoluzione, dovremmo attenderci i soliti processi. Ma le anomalie
rendono problematica la risposta. Probabilmente non ci saranno
guerre tra le grandi potenze. Ma questo vuol dire che non vi sarà
una nuova fase di caos sistemico, con la disintegrazione dell'orga­
nizzazione sistemica esistente? E qui invece c'è probabilità di una
risposta positiva.
Si tratta di giustificare queste previsioni. Prima di far questo è
bene, tuttavia, fare un passo indietro, per discutere la questione
della sovranità, della crisi dello stato, che viene presentata come
una novità della nostra epoca. In effetti, in ognuna delle transizio­
ni egemoniche vi era una crisi degli stati; soio che quelli che entra­
vano in crisi erano diversi, e venivano eliminati dai nuovi prota­
gonisti della politica mondiale. La crisi attuale degli stati riguarda
i colossi che sono emersi dal processo di continua centralizzazione
delle capacità finanziarie e militari. Inoltre, la formazione di nuovi
centri di potere in Asia orientale è estremamente nuova in con­
fronto alle precedenti centralizzazioni. La questione importante è
capire come l'equilibrio del potere tra gli stati del sistema possa
ricrearsi. Questa era effettivamente la condizione iniziale dei trat­
tati di Westfalia: gli stati si riconoscevano una sovranità reciproca,
in fondo, però, nessuno si fidava di nessuno; il riconoscimento era
puramente legale. Il trattato non era ancora stato firmato che già si
verificarono attentati alle sovranità degli stati. Di fatto, la sovra­
nità degli stati sarebbe stata garantita dall'equilibrio dei poteri. Si
trattava di un principio m cui, in un sistema composto da tre o più
stati, se uno di essi tendeva ad aumentare il proprio potere al pun­
to tale da minacciare la sovranità fattuale degli altri, questi si allea­
vano per contrastarlo e ridimensionarlo.
Quando emerge l'Inghilterra come potenza egemone, il bilan­
ciamento del potere cessa di funzionare come sistema, e opera
invece come politica di potenza. In altre parole non c'è più equili­
brio di potere tra gli stati, ma estremo disequilibrio. Il potere che
l'Inghilterra accumula in questo periodo è estremamente elevato
rispetto a tutti gli altri paesi. L'equilibrio di potere diventa politica

47
di potenza, per tenere gli altri stati sottoposti al proprio dominio.
La nuova potenza crea un bilanciamento dei poteri in Europa con­
tinentale per controllare l'Europa. A livello mondiale, poi, si allea
con gli Stati Uniti in modo da tenere l'Europa fuori dall'America.
Quindi, la bilancia del potere diventa una politica della potenza
egemone per contrastare gli altri paesi.
L'industrializzazione dei commercio mondiale (la rivoluzione
dei trasporti) e la guerra creano le condizioni sia per l'espansione
dei potere inglese sia per l'emergenza di nuove rivalità. Si arriva ai
punto {con la Germania di Bismark) in cui l'Inghilterra non con­
trolla più gli equilibri di potere in Europa, viene sfidata, da un iato
dall'emergenza dei potere tedesco in Europa, dall'altro da quello
statunitense nelle Americhe e, a poco a poco, deve ripiegarsi sui
propri possedimenti imperiali.
A questo punto si ha una nuova riorganizzazione del sistema,
nella quale il meccanismo di garanzia non è più un bilanciamento di
potere ma il terrore (armi nucleari e conquista dello spazio) tra le
due grandi potenze che ne possiedono i mezzi. La sovranità, ormai,
è diventata un fatto puramente giuridico; a livello dì potere mon­
diale non esiste più nessun equilibrio, a parte quello del terrore.
Qui si ha la sorpresa interstiziale: l'anomalìa. Durante lo scon­
tro tra questi colossi militari, emergono negli anni 'SO le potenze
finanziane in Asia orientale, che creano una situazione non dissi­
mile da quella che esisteva ai tempi dell'Olanda. Sono stati ano­
mali, la cui potenza è esclusivamente finanziaria, e non esiste nes­
suna possibilità che essi competano sui piano militare, perché la
loro forza deriva proprio dal fatto che hanno completamente dele­
gato agli altri i problemi del potere, concentrandosi su quelli del
profitto. Le grandi potenze militari sono invece in ristrettezze
finanziane crescenti.
Mentre nelle altre transizioni i nuovi centri di potere emerge­
vano sia finanziariamente che militarmente come più potenti e con
capacità riorganizza tive del sistema superiori a quello precedente;
adesso le capacità organizzative e militari sono sempre piti concen­
trate nella potenza egemone declinante, mentre quelle finanziane
sono nelle mani di questi stati anomali, senza interesse di diventare
potenze militari e, allo stesso tempo, senza capacità di riorganizzare
il sistema. Questa scissione è anomala. Da un lato, non esiste il peri­
colo di unfescalation della lotta per il potere tra gii stati più potenti
che si trasformava in guerre cataclismiche. D'altra parte, non esiste
nessuna potenza che possa riorganizzare il sistema m modo da
contenere o risolvere il crescente caso sistemico. Quello che sta

48
accadendo è che gli Stati Uniti continuano a guidare il mondo,, ma
lo guidano verso l'abisso. Non è più una leadership che porta
l'espansione, ma una leadership che ricerca il rafforzamento della
propria posizione in un sistema che si disintegra.
li punto è che nel passato si aveva una concentrazione di capa­
cità militari e finanziarie in un solo stato; adesso, invece, non è
così. Alcuni stati detengono tutto il potere militare, altri, che non
hanno nessun potere militare, detengono il potere finanziano.
Questa situazione non ha precedenti nella storia moderna. Ab­
biamo da un lato potenze imperiali (gli USA, la Cina) che sono im­
peri regionali trasformati, dall'altro città-stato, stati semisovrani, la
cui potenza è data semplicemente dal fatto di avere quantità enor­
mi di sovrappiù, che si traduce in liquidità. Oggi è chiaro che l'ele­
mento di fondo degli stati che emergevano e che concentravano i
sovrappiù ha raggiunto il limite, e non sembra tradursi inun ordi­
ne mondiale. Scartando l'ipotesi dell'autodistruzione del sistema,
si dovrebbe andare verso una sua nuova riorganizzazione sotto un
nuovo tipo di egemonia, basata su scambi politici fra potenze
mondiali e città-stato.
Gli Stati Uniti ricevono i soldi per finanziare il proprio debito
pubblico dal Giappone, dalla Cina e dai Paesi dell'Asia orientale,
che possiedono le loro riserve in obbligazioni americane: è una
situazione tipica dell'egemone dominante che non ha più il potere
dì dirigere il sistema verso un'espansione, ma ha ancora un estre­
mo potere di ricatto. Ciò che lo sostiene ancora è il fatto che il
sistema è basato su reti di potere di cui tutti sono prigionieri. Sto­
ricamente invece ie nuove potenze emergenti nascono ed acquista­
no egemonia quando la vecchia gabbia è crollata sotto il peso delle
proprie contraddizioni.
Un altro aspetto è quello della regionalizzazione dell'espansio­
ne. Nei caso dell'Asia si manifesta con la formazione di un sistema
produttivo regionale che incorpora stati sempre nuovi (ad esem­
pio Cina e Vietnam). È possibile che quello che stiamo osservando
sia l'emergenza di un'egemonia non più fondata su un singolo
stato, ma su un nucleo regionale di produzione e scambio.

Capitale finanziano e capitale produttivo

Un problema fondamentale nella definizione e analisi del capi­


talismo come fenomeno storico riguarda i principi che definiscono
la figura del capitalista. Tutta la storiografia, tanto marxista quanto

49
weberiana, porta avanti l'idea che il capitalista sia un essere un po'
stupido che continua a reinvestire i profitti nella produzione anche
se i profitti cominciano a cadere e la concorrenza diventa sempre
più intensa. Wallerstein, per esempio, dice esplicitamente che,
quando il sistema è capitalistico, si ha una spinta irrazionale che
porta a un'accumulazione senza fine. Questo tipo di ipotesi è
penetrata così profondamente nelle scienze sociali, per cui se un
capitalista non investe nella produzione non è più tale. Si fanno,
così, una serie di distinzioni per cui, per poter parlare di capitali­
smo, ci deve necessariamente essere un capitalista che investe in
forza lavoro. Un sistema dove non esiste una larga massa di capi­
talisti che non investono nella produzione non è ritenuto un siste­
ma capitalistico. Questo assunto estremamente diffuso a mio
modo di vedere impedisce di capire il capitalismo come formazio­
ne storica, in cui il capitalista è sì, in certa misura irrazionale, ma
non così stupido come è rappresentato dai marxisti e weberiam.
Marx stesso quando tratta del capitale finanziario e dei sistema
del credito si contraddice. Da un lato, dice che fanno parte del­
l'accumulazione originaria, dove il capitale riesce a riprodursi con­
tinuamente - senza dover incorrere nei problemi dell'investimento
per la produzione - tramite quella che chiama la forma abbreviata
del capitale. Accanto alla formula D-M-D!, in cui il denaro viene
investito m merce, compresa la forza lavoro, e da questo investi­
mento deriva l'incremento del capitale, esiste quindi la forma
abbreviata D-D1 senza il passaggio per la merce, tramite prestiti,
speculazioni e, soprattutto, il credito pubblico. Attraverso que-
st'uitimo, Io stato diventa meccanismo centrale áeH'accumuIazio-
ne del capitale, incaricandosi di estrarre plusvalore dalla forza la­
voro. Il capitalista acquista obbligazioni, io stato paga un interesse
sul prestito: l'accumuiazione avviene, così, tramite un meccanismo
di credito allo stato. Una forma abbreviata che Marx dà come for­
ma dell'accumulazione originaria. In termini braudeliani è quello
che permette al capitale di non perdere la mobilità.
Dall'aitro iato Marx presenta questo tipo di accumulazione
come un fenomeno ricorrente tramite il quale pesi capitalistici
emergenti possono evitare l'accumulazione originaria, o per lo
meno renderla meno problematica. Così, Venezia, nel momento in
cui aveva raggiunto la sua maturità come stato, accumulava masse
ingenti di denaro senza avere la capacità di reinvestire continua-
mente nella produzione e nel commercio. Questi flussi di denaro
andarono a finanziare l'espansione del capitalismo in Olanda,
dove veniva investito in merci. La stessa cosa succede, a partire

50
dal XVII secolo, per gii olandesi: i capitali si accumulano in una
massa enorme e non riescono più ad ottenere un profitto all'inter-
no dei circuiti nazionali, per cui vengono dirottati verso l'Inghil­
terra in imprese commerciali. Le stesse cose succedono con l'In­
ghilterra nei confronti degli USA nel XIX secolo.
Se guardiamo al capitalismo dal punto di vista delia totalità
degli stati capitalistici, questa accumulazione è fenomeno ricorren­
te che non è soio precondizione deiraccumulazione capitalistica,
ma diventa anche il suo punto finale. Questo, naturalmente, Marx
non lo sviluppa mai interamente e lascia aperto il problema dei
legami tra gli stati e della formazione del mercato mondiale.
Il-primo punto da tenere presente è che, se è vero che la formu­
la D-M-D1 è la formula distintiva del capitalismo, essa ha tuttavia
due facce: la faccia dell'investimento finanziario (storicamente mol­
to più importante) e quella dell'investimento nella produzione.
Se analizziamo il capitalismo soltanto come modo di produzio­
ne, immediatamente ci precludiamo ogni possibilità di vedere le
forme storicamente più importanti: di lì la differenza tra Braudel e
Wallerstein. Braudel dà maggiore importanza ai capitale finanzia­
rio e al capitalismo come modo di dominio e di accumulazione,
piuttosto che come modo di produzione e dì scambio.
Se vogliamo analizzare il processo di formazione delle classi
sociali in territori particolari bisogna analizzare il capitalismo co­
me modo di produzione, ma se vogliamo vederlo come formazio­
ne storica, che nel corso di quattro o cinque secoli diventa forma di
dominio globale, dobbiamo abbandonare questa visione.
La questione odierna dell'Asia orientale è importante perché
anomala. Il meccanismo per cui la potenza economica dominante
di una data epoca, quando raggiunge i limiti, investe nei processi
dì accumulazione di una nuova potenza emergente oggi sembra
essersi bloccata. Invece dì essere gli USA ad investire massiccia­
mente nell'Asia orientale, dove si hanno fenomeni di espansione
produttiva, è l'Asia orientale che investe nei debito pubblico ame­
ricano.
Tutti i periodi di crisi sono momenti di sovraccumulazione di
capitale, che non può essere reinvestito nei normali canali produt­
tivi e commerciali per realizzare tassi di profitto soddisfacenti. An­
zi si hanno forme di disinvestimento massicce, e conseguente tra­
sferimento dall'investimento nella produzione alle attività di spe­
culazione. La concorrenza tra gli stati per ottenere questo capitale
in forma liquida crea le condizioni per la realizzazione della for­
mula abbreviata D-D1. In altre parole, ò con questo meccanismo di

51
stati in concorrenza fra loro per il capitale mobile che si ha l'espan­
sione finanziaria.
L'espansione sistemica è un'espansione materiale del commer­
cio e della produzione in una situazione di cooperazione fra stati.
Quando l'espansione materiale raggiunge i suoi limiti ed il capita­
le viene disinvestito, iniziano momenti in cui la rivalità tra essi
crea una domanda crescente di capitale. Quando la concorrenza
tra gli stati diventa particolarmente intensa è il momento m cui
l'espansione finanziaria decolla e crea massicci profitti finanziari.
Storicamente le condizioni di offerta si sono verificate prima
delle condizioni della domanda, e possiamo dire che le prime ten­
dono a creare le seconde. Gli stati abituati a introiti fiscali crescenti
durante l'espansione materiale, nel momento in cui il capitale vie­
ne dirottato dalla produzione ai mercati finanziari, cominciano a
sperimentare situazioni di crisi fiscale. Per poter contare sulla cre­
scita delle loro entrate, devono allora farsi concorrenza per ottene­
re il capitale finanziario. Questo spiega perché da tutte le crisi di
sovraccumulazione, che si ripetono dopo periodi di forte espansio­
ne del commercio e della produzione mondiale, nel volgere di die­
ci o ventanni vengono create le condizioni della domanda di capi­
tale finanziano.
Il periodo della creazione delle condizioni della domanda di
capitale finanziano storicamente vana molto. L'Olanda agli inizi
del secolo XVIII si trovava con una sovrabbondanza di denaro non
impiegato nella produzione, che portò a creare una sezione specia­
le della Borsa di Amsterdam per il finanziamento delle imprese
inglesi. Braudei afferma che l'espansione vera e propria comincia
nei 1740 con la fine della pace dei trentacinque anni tra le potenze
europee, e l'inizio di una nuova serie di guerre e di rivalità tra le
grandi nazioni. È a questo punto che la concorrenza per il capitale
mobile tra l'Inghilterra e ia Francia, le due potenze principali, crea
le condizioni di domanda per finanziare le loro imprese.
L'Olanda, che ormai era un paese di scarsa importanza geopo­
litica, improvvisamente gode di un periodo di rinascita finanzia­
ria. Ai termine delle guerre Napoleoniche si verifica una forte con­
trazione e depressione delle attività, proprio perché legate a scopi
militari. Successivamente, solo dopo il 1848, le innovazioni indu­
striali diventano una forza integrativa su scala mondiale, con ia
rivoluzione dei trasporti che provoca un'espansione globale fino ai
1870, seguita dal complessivo ristagno dal 1870 al 1948. All'interno
del ristagno vi sono tuttavia fenomeni di forte espansione indu­
striale come in Germania e negli Stati Uniti. Seguono poi periodi

52
di redistribuzione, m cui, in effetti, si ha espansione, ma non del­
l'ordine del periodo precedente. Dopodiché c'è una forte concen-'
trazione delle capacità produttive negli Stati Uniti ai danni del­
l'Europa, e la ricostruzione di un ordine in cui si creano le condi­
zioni per un nuovo gioco a somma positiva.
Le espansioni finanziane si collocano sempre in una sorta di
"autunno" non solo dello sviluppo capitalistico su scala mondiale,
ma anche della potenza egemone in declino. Questa, che è in diffi­
coltà a mantenere le condizioni di predominio, si trova a godere di
una temporanea rifioritura. È quello che oggi sta succedendo agii
Stati Uniti: negli anni 70 erano in grossa crisi, mentre dagli anni 80
con il decollo dell'espansione finanziaria registrano un ritorno
dell'egemonia che rivitalizza la potenza m declino, in concomitan­
za con il crollo dell'URSS.
L'aspetto interessante di queste espansioni di capitale è che
mostrano la vera natura del capitalismo su scala mondiale. In effetti,
i periodi m cui il capitale opera su scala mondiale con la formula D-
M-D1sono limitatissimi. Mentre su scala nazionale questa formula è
pienamente valida, su scala mondiale negli ultimi duecento anni la
liquidità è stata reinvestita soprattutto in espansione del commercio
e della produzione solo per circa ventanni nel XIX secolo (gli anni
1850-1860 che Hobsbawm chiama l'età aurea del capitale), e per altri
vent'anni, nel secolo XX la cosiddetta "età dell'oro", degli anni 1950-
1960. Quindi, la formula D-M-D1 per quanto riguarda il capitalismo
a livello mondiale è un fenomeno limitato.
Empiricamente il capitalismo a livello mondiale è in gran parte
un gioco a somma zero o negativa. Tra i periodi di gioco a somma
positiva, in cui tutti o quasi, beneficiano dell'espansione, e ci sono
forti aumenti di produttività complessiva, esistono, dal 1870 al
1950, ottantanni a somma negativa, in quanto l'espansione finan­
ziaria si regge su forme di redistribuzione massiccia.
Lo stato è egemone quando è in grado di dirigere il sistema
verso un gioco a somma positiva, quando è in grado di mobilitare
il consenso degli altri stati per il suo dominio. Quando questa for­
ma di espansione del potere nello spazio finisce, inizia la concor­
renza tra gli stati che attiva l'espansione finanziaria. Questo è un
momento in cui l'accumulazione diventa in gran parte fenomeno
di redistribuzione tra gli stati ed all'interno dì essi. La redistribu­
zione favorisce io stato egemone in declino, in quanto resta
momentaneamente il centro organizzativo dell'alta finanza inter­
nazionale, con accesso privilegiato alle eccedenze che si accumula­
no nei mercati finanziari mondiali.
5

Le imprese

Concorrenza o cooperazione

Storicamente, l'espansione sistemica porta sempre ad una inten­


sificazione della concorrenza tra imprese. In questo schema, il capi­
talismo concorrenziale non è uno stadio che precede il capitalismo
monopolistico. La dicotomia importante non è tra monopolio e con­
correnza, bensì tra cooperazione e concorrenza delle imprese al­
l'interno di una certa divisione del lavoro, sotto una determinata
egemonia. Tra le imita del sistema mondiale esiste sempre concor­
renza o cooperazione, siano esse stati oppure imprese.
L'età dell'oro degli anni '50 e '60 di questo secolo si è conclusa
con un'intensificazione della concorrenza tra le imprese, comprese
le grandi multinazionali il cui numero è aumentato in modo espo­
nenziale, da poche centinaia negli anni '50 a decine di migliaia. Il
cosiddetto capitale monopolistico, alla fine dell'espansione degli
anni '50 e '60, si trasforma m un aumento nel numero e nella con­
correnza reciproca tra le imprese capitalistiche, anche le più gran­
di. Questo fenomeno è tipico di tutte le transizioni egemoniche;
era già avvenuto nella transizione dall'egemonia olandese a quella
inglese, e poi, successivamente, nella fase di transizione dall'ege­
monìa inglese a quella americana.
L'intensità della concorrenza non dipende dalla dimensione
delle imprese. L'intensificazione della concorrenza tra imprese
capitalistiche, insieme all'intensificazione delle rivalità tra le gran­
di potenze, è un chiaro segno della crisi egemonica, ed è la tenden­
za che crea le condizioni di offerta dell'espansione sistemica finan­
ziaria. In altre parole, quando la concorrenza tra le imprese capita­
listiche si intensifica, storicamente si può osservare che la risposta
tipica dell'impresa capitalistica a tale intensificazione e alla conse­
guente caduta del tasso di profitto è un dirottamento massiccio dei

55
flussi di denaro dall'investimento nei commercio e nella produzio­
ne verso la speculazione finanziaria. Da qui le condizioni di offerta
che si combinano con le condizioni di domanda dovute alia con­
correnza tra gli stati per questo capitale mobile e volatile, il che
accelera un'espansione finanziaria.
Oltre all'intensificazione delia concorrenza, al dirottamento dei
flussi dall'investimento produttivo e dal commercio, abbiamo anche
allo stesso tempo la formazione di nuovi tipi di imprese, nuovi siste­
mi che si formano interstizialmente rispetto ai sistema dominante.
La escalation della lotta per il potere tra gli stati rimane storica­
mente la tendenza dominante anche nella trasformazione del siste­
ma di impresa. Non è la concorrenza tra le imprese che determina
quale sistema diventa dominante, ma è la lotta tra gli stati. Insieme
alla centralizzazione delle capacità militari e finanziarie dello stato
egemone emergente si ha anche il consolidamento di un nuovo
sistema dominante di impresa. Così il sistema della società per
azioni multinazionale, che incomincia a svilupparsi negli USA fin
dalla grande depressione del 1873-'96 e si consolida sempre di più
net successivi 70-80 anni, diventa dominante su scala mondiale nel
periodo post-bellico. II sistema che si afferma sotto l'egemonia sta­
tunitense non è soltanto un nuovo sistema tra stati, ma anche un
nuovo sistema tra imprese. È un sistema diverso rispetto a quello
delle imprese che esistevano sotto Fegemoma inglese.

Dalle compagnie commerciali alle multinazionali

Il dibattito avviato da Charles Tiliy con Globalization Threatens


Labors Rigìits e la risposta di Wallerstem riguarda sia i rapporti tra
stato e capitale, sia il rapporto tra capitale e lavoro, ed i conflitti
sociali. Tilly vede la globalizzazione non come un processo nuovo,
ma come processo che si forma attraverso quattro fasi che determi­
nano aumenti significativi, in termini durkheimiam, della densità
dinamica del sistema.
La prima fase è quella del XIII secolo, analizzata nel libro di
Janet Abu-Lughod, Ecfore Europeau Hegemomj, che dimostrava che
la formazione dell'Impero mongolo nel XIII secolo avesse creato le
condizioni per un'integrazione commerciale dell'intero continente
eurasiatico, e parte dell'Africa, con una intensificazione degli
scambi e la formazione di una vera e propria economia globale.
Una tesi implicita ne 11 lungo XX secolo è che senza l'Impero
mongolo non ci sarebbe stato il rinascimento italiano. La formazio­

56
ne dell'Impero mongolo, che come estensione non ha né preceden­
ti né successori storici, aveva creato effettivamente le condizioni
per la formazione di scambi lungo il percorso della via della seta,
che era territoriale e non marittima. Qui si sviluppavano, in gran
parte, quelli che erano i due circuiti concorrenti delle città-stato
italiane: il circuito veneziano, che passava tramite gli arabi e
l'Oceano Indiano (la strada delle spezie), e il circuito genovese, che
passava invece lungo il Mar Nero e poi attraverso le steppe fino
alla Cina. Quando crolla l'Impero mongolo, la chiusura della stra­
da della seta determina ia lotta tra genovesi e.veneziani per il con­
trollo dell'unica rotta rimasta percorribile. Tutte le scoperte erano
un aspetto della lotta concorrenziale capitalistica tra genovesi e
veneziani, con interventi degli stati territoriali che si formavano
allora per trovare una rotta alternativa a quella dei veneziani, che
erano riusciti ad ottenere il monopolio dopo la caduta deUTmpero
Mongolo.
Questa è la prima ondata di globalizzazione. Incidentalmente
va ricordato che Gunder Frank, negli ultimi suoi scritti, elimina
tutte le ondate di globalizzazione, e sostiene che l'Oriente è sem­
pre stato ai centro di un'economia globale che è esistita per cin­
quemila anni, e che l'ascesa dell'Occidente è solo un episodio
all'interno delle crisi dell'Oriente che, a suo modo di vedere, è
durato 200 anni.
La seconda fase che Tilly identifica è quella del '600, a seguito
delle scoperte, nel momento m cui i metalli preziosi delle
Americhe vengono inseriti nei circuiti eurasiatici determinando
una immensa intensificazione dinamica delie transazioni all'inter­
no dell'economia globale eurasiatica.
La terza fase è quella del XIX secolo, quando gli stati europei
conquistano quattro quinti del territorio mondiale provocando,
con l'espansione, una forte compressione spazio-temporale del
blocco eurasiatico del globo, il rapporto spazio-tempo viene com­
presso, in questo caso, nel secolo scorso, dalla meccanizzazione
dei trasporti con le ferrovie e con le navi a vapore. Il XIX secolo è
anche il periodo in cui il sistema di stati occidentali, che fino ad
allora era rimasto sistema regionale, cioè un'economia-mondo
europea, si espande e diventa un sistema globale che include,
anche se m modo superficiale, l'Asia orientale.
La tesi di Tilly è che, mentre la fase di globalizzazione del XIX
secolo era stata associata ad un rafforzamento degli stati europei,
la fase attuale di globalizzazione - la quarta - è associata ad un
loro indebolimento. Quando analizza la globalizzazione della fase

57
attuale, e delle ragioni per cui gli stati vengono indeboliti, focaliz­
za la sua attenzione sullo sviluppo di un sistema di imprese multi­
nazionali che operano transnazionalmente e indeboliscono la
capacità degli stati di regolare la vita economica e sociale. Tilly
riprende queste tesi da Kindleberger, che le aveva lanciate alla fine
degli anni '60, così come parecchi al tri agli inizi degli anni '70.
Wallerstem replica a Tilly sostenendo che, dal punto di vista del
rapporto tra stato e capitale, non vi è differenza tra il periodo delle
multinazionali e quelle precedenti. Ricorda le società cui i governi
avevano conferito diritti ad esercitare funzioni di stato a fini com­
merciali in territori specifici, come la Compagnia delle Indie Occi­
dentali olandese che aveva l'esclusività di operare m un'area com­
prendente. l'Oceano Indiano e Pacifico, dalla Città del Capo allo
Stretto di Magellano. In effetti, Braudel e altri specialisti sostengono
che, senza la Compagnia delle Indie Orientali e senza i profitti da
essa generati, Amsterdam non avrebbe mai potuto diventare un
centro finanziario, la prima borsa in seduta permanente.
Sostenendo che in sostanza il rapporto stato-capitale non cam­
bia, quello che Wallersteìn perde di vista è la sua trasformazione
fondamentale dall'epoca dell'egemonia olandese attraverso l'ege­
monia inglese a quella delle multinazionali, fino ad un ribaltamen­
to completo del rapporto.
Innanzitutto, a livello organizzativo formale, esiste una diffe­
renza fondamentale tra le imprese, che si riflette anche in una dif­
ferenza nei numero delle imprese stesse. Quelle dei tipo olandese,
che rappresentano le vecchie società per azioni, sono surrogati
degli stati europei per aprire i commerci, o mantenere vecchi mer­
cati nel mondo extra-europeo. Queste imprese sono definite terri­
torialmente, sono metà imprese e metà stato, surrogati dello stato.
Sono società per azioni ma sono anche stati, mentre le società mul­
tinazionali moderne sono imprese capitalistiche pure e semplici.
Operano al di fuori dell'Europa, e il loro numero è estremamente
limitato. Per esempio una volta che l'offerta di spezie è monopo­
lizzata dalla Compagnie delle Indie Occidentali, nessun'altra com­
pagnia europea riesce ad entrare nel mercato delle spezie.
Gli inglesi, come second best, si concentrano sull'India dove si
occupano dei tessuti. Per centralizzare l'industria indiana, estre­
mamente decentralizzata e difficile da monopolizzare, si devono
affrontare problemi colossali. La monopolizzazione dei commercio
dei tessuti indiani, infatti, era pressoché impossibile da realizzare,
a meno che, allo stesso tempo, non venisse creato un monopolio
della violenza controllato dalla stessa Compagnia. In effetti, la

58
Compagnia delle Indie Orientali inglese doveva combinare ai
commercio l'espansione territoriale, con una funzione di estrazio­
ne di tributi, che darà vita dopo 100 anni all'Impero inglese.
Questo significa che la Compagnia delle Indie Orientali inglese,
nata due anni prima di quella olandese, impiega più di 100 anni
ad eguagliarla in potenza e prosperità.
L'età dell'oro di queste compagnie è l'inizio del XVII secolo,
quando si espandono, crescono, in un certo senso cooperano, e i
commerci europei crescono rapidamente sia nell'Atlantico che
nell'Oceano Pacifico e Indiano. Verso il 1740, quando inizia l'espan­
sione finanziaria incentrata sugli olandesi, inizia una concorrenza
spietata, non solo tra gli stati europei, ma anche tra le stesse impre­
se, e nel giro di 50 anni scompaiono tutte, tranne quella inglese. In
termini marxiani, si ha un processo di concorrenza, centralizzazione
e concentrazione per cui ne rimane una sola, che viene progressiva­
mente eliminata dallo stesso governo inglese sotto la spinta degli
interessi ìibenstici che si stanno sviluppando in Inghilterra.
I nuovi modelli che emergono sono i sistemi d'impresa di tipo
familiare, le imprese di piccole dimensioni teorizzate da Smith, m
contrapposizione alle grandi imprese commerciali che avevano
trionfato nell'Atlantico, anche nel commercio degli schiavi e che,
con la liquidità che procuravano, avevano sostenuto l'espansione
dell'industria bellica e quella pesante in Inghilterra.
Una volta emerso m Inghilterra, il capitalismo industriale iro­
nicamente diventa il nemico principale di queste compagnie.
Lentamente, il nuovo sistema di imprese, che emerge interstizial­
mente, è il sistema di piccola impresa organizzata in distretti indu­
striali, allo stesso tempo connesse a fornitori ed a mercati di tutto
il mondo da reti commerciali a neh'esse formate per lo più da
imprese familiari.
Le nozioni di rete, di distretti, di flessibilità e di informalizza­
zione sono la tipica caratteristica dei capitalismo che si forma sotto
l'egemonia britannica e che liquida il sistema delle società per
azioni di tipo olandese. È durante tutta la guerra napoleonica che
questo sistema si consolida. Con esso le funzioni di stato delle
compagnie vengono assunte in proprio dagli stati, che diventano
stati coloniali imperialisti; e sotto la cappa di questi imperi si for­
mano reti di imprese familiari che collegano i distretti industriali
dell'Inghilterra, la quale è diventata Ventrepót non solo commercia­
le ma anche industriale dei mondo.
La funzione dell'Impero resta essenziale nel sistema del libero
scambio unilaterale. La bilancia commerciale inglese veniva com­

59
pensata dal sovrappiù della bilancia commerciale indiana che gli
inglesi controllavano. Il libero scambio deirOccidente era fondato
su un Impero nel l'Oriente; senza tale Impero non era possibile il
libero scambio nell'Occidente.
L'età del capitale negli anni 1840-50 è legata all'espansione
sistemica che si fonda su queste imprese familiari dominanti. La
grande depressione di fine secolo è innanzitutto un momento di
intensificazione della concorrenza tra queste imprese familiari, con
cui si arriva all'affermazione dì un nuovo sistema di imprese, che
è quello delle multinazionali.

Stati e imprese

Il trionfo dei sistema multinazionale nella transizione dall'ege­


monia inglese a quella americana, o il trionfo dell'impresa familia­
re nella transizione dall'egemonia olandese a quella inglese, non
può essere separato concettualmente dalle lotte fra gli stati.
Lo sviluppo di un nuovo tipo di organizzazione di impresa
dominante è sempre connesso ad uno spostamento spaziale del
centro, che non è dovuto alla concorrenza tra le imprese stesse, ma
al fatto che, nel momento della lotta degli stati per il potere, quello
dominante perde il centro, che viene occupato da un altro stato.
Pertanto, la transizione dall'impresa monopolistica di vecchio tipo
all'impresa familiare di tipo inglese è strettamente connessa al fat­
to che l'Olanda viene eliminata. Lo stesso vale per la transizione
dall'egemonia inglese a quella americana. La vittoria delle multi­
nazionali, che diventano sistema dominante dopo la seconda guer­
ra mondiale, non dipende da una affermazione sul mercato mon­
diale, che è indipendente dai rapporti con lo stato. Per quanto
riguarda l'Inghilterra, fino alla prima guerra mondiale non c'è ten­
denza alla concentrazione e centralizzazione del capitale. La ten­
denza è anzi di tipo opposto; si ha una crescente disintegrazione
ve fica le delle imprese.
Una volta che l'economia dominante è strutturata in un dato
modo, essa tende a riprodurre quel modello e l'emergenza di un
altro modello è strettamente connessa all'emergenza di un nuovo
centro del potere. Senza la lotta per il potere tra gli stati non c'è
nessuna legge che detta che le società multinazionali, ad un certo
punto, emergano. Tant'è che è in Germania, che diventerà il mo­
dello della centralizzazione internazionale in un sistema monopo-

60
lis tico di impresa, ancora prima degli USA, le società multinazio­
nali di tipo americano rimangono una rarità.
Ciò significa che il mercato mondiale non è un dato, qualcosa
che esiste indipendentemente dai rapporti tra gli stati, ma è creato
da stati egemoni con una capacità di organizzazione del sistema
che crea certe forme di mercato piuttosto che altre. Quando questo
potere egemone diminuisce, e si ha un*escalation del potere degli
stati, il mercato così com'era precedentemente organizzato si di­
sintegra e il risultato rimane economicamente indeterminato, fin­
ché viene risolto politicamente dalla lotta per il potere.
Perciò, il mercato mondiale, cosi come si è sviluppato negli
ultimi 200-300 anni, non è qualcosa che è stato creato, ma è inca­
stonato, contenuto in un sistema di stati con certi rapporti di pote­
re che determinano il tipo di mercato mondiale esistente, e il tipo
di sistema di impresa nazionale dominante diventa dominante su
scala globale.
Da questo punto di vista la riorganizzazione del sistema sotto
nuove egemonie è decisiva per lo stabilirsi di un nuovo sistema fra
imprese. La differenza fondamentale tra le vecchie società per
azioni di tipo olandese e il sistema di imprese multinazionali con­
siste nei fatto che queste ultime si specializzano in quanto imprese
non territoriali ma strettamente d'affari e, pertanto, possono essere
molte di più. Inoltre, è vero che le multinazionali dipendono dagli
stati, in particolare dagli stati egemoni, per ia propria esistenza ed
espansione; tuttavia esiste una differenza fondamentale tra le
società per azioni di tipo americano e le società per azioni di tipo
olandese. Queste ultime erano strumenti degli stati per l'afferma­
zione dei potere, che si traducevano effettivamente in un immenso
aumento del potere di alcuni stati europei a livello globale, in par­
ticolare l'Inghilterra. Anche gli USA vedevano nelle multinazionali
uno strumento dei proprio potere, tuttavia queste sono diverse e
producono risultati diversi dalle vecchie società olandesi. Le vec­
chie società per azioni erano strettamente controllate dagli stati, i
quali, una volta deciso che queste compagnie avevano fatto i loro
servizi, le eliminavano. Le multinazionali create sotto l'egemonia
americana sono invece molto piu autonome rispetto allo stato, e
tendono a minare piuttosto che a rafforzare il potere dello stato.
Uno degli elementi iniziali della crisi dell'egemonia americana,
che si manifesta con il crollo del sistema di Bretton Woods, sono
infatti le multinazionali. Il mercato dell'eurodollaro era stato crea­
to per permettere ai paesi comunisti di commerciare in dollari sen­
za depositare i sovrappiù negli USA. Ma la spinta decisiva alla sua

61
espansione e dominio sulle politiche degli stati è venuta dalle mul­
tinazionali americane/ che non rimpatriavano i profitti, depositan­
doli nelle banche, le quali, a loro volta, li riciclavano.
Da questo punto di vista Tilly ha ragione e Wallerstem ha tor­
to, anche se è vero che le multinazionali americane sono ancora
più dipendenti delle vecchie compagnie di tipo olandese per
quanto riguarda le condizioni della loro riproduzione allargata.

La giobnlizazzione tra presente e passato

Per fare un confronto tra la globalizzazione cosi come si mani­


festa nella seconda metà di questo secolo e come esisteva neìl'SOO
fino alla prima guerra mondiale è opportuno partire dalle questio­
ni sollevate dal dibattito tra Charles Tilly e Wallerstem sulla speci­
ficità della fase attuale. Tilly sostanzialmente individua questa
specificità in un generale indebolimento degli stati. Nell'Otto­
cento, al contrario, la globalizzazione era accompagnata da un
rafforzamento degli stati nei confronti dei flussi di capitali, di mer­
ci e di forza lavoro. Wallerstem non ritiene esserci un indebolimen­
to degli stati nei confronti del capitale. Più precisamente, con ia
sua tipica impostazione funziona lista, sostiene che il capitale, oggi
come allora, ha bisogno degli stati per operare su scala multinazio­
nale.
Dal punto di vista del rapporto tra stato e capitale nello stato
egemone si è già detto che Tilly ha ragione rispetto a Wallerstem.
Infatti, mentre nei caso dell'Inghilterra la forma delie imprese
capitalistiche non era sovversiva del potere globale, nel caso degli
Stati Uniti io è stato. Nella dinamica della crisi deH'egemonia ame­
ricana è possibile, effettivamente, individuare uno dei protagonisti
di questa crisi nelle multinazionali.
Tuttavia, se si fa un'analisi quantitativa, nel secolo scorso sia i
flussi di capitale, sia i flussi di commercio internazionale, sia i flus­
si di forza lavoro, i flussi di capitale criminale erano più accentuati
che non adesso. L'investimento diretto americano intorno al 1910
era pari al 7 per cento del PIL, un livello leggermente superiore a
quello odierno. Se si considerano le emigrazioni dall'Europa verso
l'America del Nord, una stima rivela che, dai 1850 al 1930, si è
avuta un'emigrazione netta di 50 milioni di persone, corrispon­
dente al 12 per cento della popolazione europea attorno ai 1900.
Uemigrazione di oggi non raggiunge queste cifre. Se, infine, si
considera la droga, l'elemento criminale del capitale, bisogna ri­

62
cordare che l'esportazione di oppio indiano in Cina era il pilastro
centrale dei sistema del trasferimento dei tributi dall'India all'In­
ghilterra e quindi un elemento essenziale dell'intero sistema libero
scambista inglese.
In sintesi, dunque, quando si confronta la fase attuale con l'SOO
si vede che tutti questi fenomeni (flussi di capitali, di immigrazio­
ni, di merci, di droga e di armi) in termini relativi erano più consi­
stenti nel secolo scorso di quanto non io siano oggi.
Perché, dunque, tutto questo allarme? La differenza è che oggi
i flussi vanno quasi tutti nella direzione opposta a quella prece­
dente. Il problema, che sta alla "base delle paure della globalizza­
zione, dei flussi incontrollati di merci, capitati, immigrazioni, dro­
ga, ecc., riflette non tanto un cambiamento strutturale, ma un
ribaltamento dei rapporti tra gli stati occidentali e quelli del mon­
do non occidentale. In particolare si è creata una situazione m cui
l'Europa non può più scaricare le sue contraddizioni interne (i
fenomeni di disoccupazione, disadattamento, ecc.) attraverso
un'immigrazione massiccia verso il mondo non europeo; si trova,
invece, a sua volta, apparentemente accerchiata da masse, più o
meno ingenti, che chiedono di venire integrate o, comunque, di
avere accesso al mercato del lavoro.
Esiste una tendenza di lungo periodo secondo cui più denso
diventa il mercato mondiale, meno controllabile diventa da parte
di un singolo stato. Questo non significa l'inesistenza, all'interno
di questa struttura emergente, della possibilità che gii stati che
seguono un certo tipo di politica vengono rafforzati da questa ten­
denza mentre altri vengono indeboliti.

63
6

Classi sociali e movimenti antisistemici

I limiti del capitale

La nostalgia della guerra fredda è problema legato alla defini­


zione dell'altro, rispetto al quale, in un rapporto, sì crea l'identità
relazionale. Anche il multiculturalismo pone l'accento sull'iden­
tità, così come era definita ideologicamente, determinando una
crisi a livello nazionale. Negli Stati Uniti il problema dell'identità è
diffuso anche per il modo in cui il paese si è formato (con la schia­
vitù, con le immigrazioni, ecc.). La guerra fredda era un momento
importante di formazione dell'identità di un certo tipo, oggi que­
sta è messa in discussione. Chiaramente c'è una reazione al crollo
delle vecchie identità. Tutti i film prodotti, da Rambo in poi, sono la
trasposizione nella fantasia di quello che non è più reale, l'idea del
maschio americano macho che va ed uccide i cattivi.
L'unica cosa che tiene insieme gli USA oggi è l'apparato milita­
re-industriale; se non fosse per questo, con i conflitti che si stanno
creando, rispetto ai quali le città diventano sempre più luoghi di
minoranze, la ragione d'essere dello stato federale verrebbe meno.
L'americano medio non considera New York come una città ameri­
cana; è una anomalia, è una città europea che si trova lì per caso. I
centri del multiculturalismo sono le città globali, e non è chiaro
come andrà a finire. Lo stato centrale americano è una cosa recen­
tissima, sono state la prima e ia seconda guerra mondiale e il Nem
Deal a crearlo come stato centralizzato. Fino alla prima guerra mon­
diale non esisteva, per esempio, neanche ia Federai Reserve Bank.
Se concettualizziamo il sistema come qualcosa che si autodi­
strugge ricorrentemente per poi ricostituirsi, risulta che la più
grande forza antisistemica è il sistema stesso. Tradotto m termini
marxiani, il limite dei capitale è il capitale stesso e, dunque, il capi­
talismo è una forza fondamentalmente autodistruttiva.

65
II problema degli stati subalterni è in gran parte quello non di
distruggere, ma di proteggersi dall'autodistruzione del capitale. I
movimenti antìsistemici si muovono m questa direzione. Tutte le
ideologie rivoluzionarie, compreso il leninismo, infatti, alla fin fine
non erano altro che la richiesta di lavoro, di pace ecc.; ia richiesta
in pratica che il capitalismo funzionasse com'era scritto ne II Ca­
pitale di Marx.
I movimenti antisistemici non richiedono altro che il sistema
mantenga le sue promesse. Wallerstem sostiene che tutti movi­
menti domandano quanto richiesto già dalla rivoluzione francese.
Polanyi li definisce come movimenti di autoprotezione della
società, che possono essere sia di destra che di sinistra, conservato­
ri o rivoluzionari, anche perché spesso è una spinta conservatrice a
generare ia spinta rivoluzionaria.
In sostanza forse non si può nemmeno più parlare di movi­
menti antìsis temici, in quanto le cose che disorganizzano il sistema
sono tante. Il problema dei movimenti antisistemici riguarda la
possibilità di riconcettuaiizzare il mondo in modo tale che una
parte delTumanità riesca ad elevarsi. I rapporti di forza, culturali e
politici, sono tra l'occidente ricco e il resto dell'umanità, che si tro­
va in una povertà più o meno estrema. Duecento anni fa il reddito
prò capite della Cina, dell'India era più o meno lo stesso di quello
dell'Europa, adesso è dì 1 a 60, a prezzi di mercato. Tutto questo è
il risultato dei processo di conquista e di disorganizzazione del
mondo non-occidentale, che ha prodotto la centralizzazione della
ricchezza all'interno dell'Occidente.
L'impressionante stabilità della gerarchia mondiale della ric­
chezza si basa su un lungo processo storico che sta arrivando alla
fine. Esistono nuove realtà che stanno emergendo, incominciando
dall'Asia orientale, che non era mai stata conquistata e disorganiz­
zata propriamente, che adesso sta riconquistando il centro del
sistema con un sistema produttivo di scala regionale a costi molto
bassi. Il fenomeno dello spostamento del centro produttivo in pae­
si che non sono piu ricchi e potenti è inarrestabile, ed entra in con­
traddizione con ia struttura gerarchizzata dell'economia.
In Asia c'è un insieme di paesi geograficamente, storicamente
e culturalmente compatti, con stratificazioni interne, e che diventa­
no sempre più integrati produttivamente e commercialmente. Le
reti delle produzioni giapponesi sono ormai regionali; ia forza eco­
nomica concorrenziale del Giappone è strettamente legata alla sua
espansione regionale, che ha permesso un'integrazione delle mas­
se asiatiche. Questa è una nuova realtà, che chiaramente rappre­

66
senta il fattore decisivo nelle tendenze mondiali dei prossimi 50
anni; il mondo che emergerà sarà più uguale e, magari, anche più
libero e solidale. È necessario però che anche i modelli di consumo
si trasformino.
L'Europa, a livello dei popoli, è stata molto meglio sotto l'ege­
monia americana di quanto non lo era stata sotto l'egemonia olan­
dese o inglese, e non c'è nessuna ragione perché il mondo occiden­
tale non possa star meglio sotto un'egemonia che si colloca al di
fuori del mondo occidentale.

Stato e 1otte sociali

Nella transizione dall'egemonia olandese a quella inglese, con


l'espansione sistemica dell'inizio del secolo XVIII, emergono nuo­
vi gruppi sociali: le borghesie commerciali e industriali. L'aspetto
centrale dell'emergenza di nuovi gruppi sociali riguarda la forma­
zione delle cosiddette classi medie.
La formazione delle classi medie, che premono per il riconosci­
mento dei propri diritti (quelli di proprietà e di autodeterminazio­
ne), è presente non solo in Europa, ma anche e soprattutto (questo
è un aspetto rilevante delle lotte di questo periodo) nelle terre di
nuova colonizzazione, cioè nelle Americhe. Queste classi medie
hanno un potere crescente rispetto al blocco sociale egemonico del
sistema di Westfaìia, costituito dalle oligarchie finanziarie e com­
merciali.
Altre classi, anche queste spesso trascurate, hanno occupato un
ruolo decisivo nelle lotte di questo periodo: sono gli schiavi neri
esportati dall'Africa nei Caraibi e nel Nord America. Queste masse
hanno un ruolo decisivo nei processi rivoluzionari.
In questo periodo l'espansione del sistema commerciale avvie­
ne soprattutto tramite il sistema delle piantagioni e dei nuovi cen­
tri industriali e commerciali in Inghilterra, m Francia e nelle Ame­
riche. L'intensificazione della concorrenza e l'espansione finanzia­
ria, allora come adesso, sono momenti di massiccia redistribuzione
ed instabilità nei rapporti tra le classi sociali e tra gli stati. In tutti i
periodi di transizione è possibile rintracciare delle modalità di
questo tipo. Tant'è vero che oggi, in questa fase di instabilità finan­
ziaria, è possibile osservare come in Corea del Sud tutta la classe
capitalistica, e non solo questa, che credeva di aver raggiunto i li­
velli di potere e ricchezza dell'Occidente, improvvisamente, sia
completamente ridimensionata.

67
Rispetto aH'acuirsi dei rapporti sociali nei passaggio daìl'ege-
monia olandese a quella inglese, le questioni fondamentali sono
due: chi deve pagare i costi dell'intensificazione delle rivalità tra le
grandi potenze; e l'intensificarsi dei tassi di sfruttamento delle
classi subalterne.
La dinamica dei conflitti sodali, che genera Yescalation della
lotta per il potere fra e negli stati va vista in questa prospettiva,
con una sequenza ben precisa che, contrariamente alle visioni eu­
rocentriche dell'età deirilluminismo e delle grandi rivoluzioni del
XVIII secolo, non incomincia in Francia, ma nelle Americhe.
La prima fase è costituita dalla guerra dei Sette anni, l'alba del­
le rivoluzioni del XVIII secolo, e si conclude con l'estromissione
dei francesi dall'America del Nord e dall'India. Ciò crea una situa­
zione nuova nei rapporti tra l'Inghilterra e i coloni nord americani.
Da un lato vi sono i costi ingenti della guerra dei Sette anni, che le
classi dominanti inglesi cercano di scaricare sui coloni nord ameri­
cani; la rivolta che porta alla rivoluzione americana è, anzitutto,
contro le tasse che il potere metropolitano voleva imporre alle clas­
si emergenti. Dall'altro lato, l'eliminazione dei francesi dal Nord
America libera i coloni dall'esigenza di essere protetti dell'Inghil­
terra, e li induce a coltivare mire espansionistiche sui resto del
continente nord americano.
La rivoluzione americana è la seconda fase. È infatti la guerra
con cui la Francia riesce, in qualche modo, a ribaltare gli equilibri
di potere rispetto alll'Inghilterra, assoldando persino l'Olanda, che
da cento anni era alleata all'Inghilterra, e tutte le altre piccole e
medie potenze europee.
La rivoluzione americana è ancora più costosa della guerra dei
Sette anni, e anche se la Francia comincia a vincere la guerra si tro­
va ancor più indebitata di quanto non lo fosse dopo la guerra dei
Sette anni. A seguito della crescita di questo indebitamento inizia
la rivoluzione francese, che è una rivoluzione sulle tasse, tanto che
lo slogan della rivoluzione americana "no taxation without represen­
ta tion" è anche lo slogan del terzo stato in Francia.
La rivoluzione francese rapidamente si trasforma in una guer­
ra di difesa prima e successivamente in guerra di conquista e di
espansione. Queste guerre provocano una nuova ondata rivoluzio­
naria. Mentre l'Europa è coinvolta nel cataclisma rivoluzionano
napoleonico, i coloni dell'America Latina seguono l'esempio dei
coloni dell'America del Nord cinquantanni prima. Gli stati euro­
pei sono paralizzati, e i coloni approfittano delle guerre tra di loro
per dichiarare la propria indipendenza, che viene consolidata

68
negli anni 1820. Si ha dunque una continua alternanza di guerre e
rivoluzioni, una serie a catena, strettamente connessa allo svilup­
po delle lotte tra gli stati, dove è chiaro che i movimenti sodali e
rivoluzionari giocano un ruolo rilevante.
In questo processo le classi medie borghesi aumentano il loro
potere all'interno degli stati europei, non solo in Francia con la
rivoluzione, ma anche in Inghilterra; contemporaneamente le clas­
si medie borghesi dei paesi americani acquistano il diritto all'auto­
determinazione e all'indipendenza, ed un loro stato viene immes­
so in una sorta di sistema di Westfalia allargato.
Alla fine di questo processo, llnghilterra, che era stata la pri­
ma vittima della ondata rivoluzionaria, diventa paladina della
rivoluzione latino-americana, o per lo meno, inventa quella che
sarà la dottrina di Monroe, come meccanismo di equilibri di potere
su scala mondiale. L'Inghilterra appoggia l'inserimento degli stati
americani indipendenti come contrappeso rispetto alle grandi po­
tenze europee.
I processi rivoluzionari, le lotte di potere all'interno degli stati,
i nuovi gruppi sociali che emergono a seguito di un'espansione
commerciale industriale sono strettamente connessi alle lotte di
potere tra gli stati.
Tutto questo è stato teorizzato più tardi, nella transizione suc­
cessiva, come teoria dell'imperialismo, cioè come guerre tra i paesi
imperialisti che creano condizioni favorevoli alia rivoluzione.
Lenin afferma che questo è lo stadio ultimo del capitalismo, ma gli
stessi meccanismi che operano per la rivoluzione russa e cinese e
ia rivolta contro l'Occidente si possono già osservare nella transi­
zione precedente.

Classi e movimenti di liberazione

In questa formazione di blocchi egemoni c'è sempre una sele­


zione delle classi che vi vengono integrate. Quelle incluse nei nuo­
vo blocco egemonico sono le classi medie borghesi, le classi pro­
prietarie. I grandi esclusi di questo processo di trasformazione,
invece, sono le classi non proprietarie, i proletariati dei paesi euro­
pei, che, pur avendo giocato un ruolo decisivo nella rivoluzione
francese e in quella degli schiavi di Haiti, saranno esclusi sia in
Francia che in Inghilterra, e dovranno aspettare altri settanta anni,
prima che i loro diritti civili vengano riconosciuti.

69
In questa fase ha inizio anche la grande divisione su basi razzi­
ste. II momento più significativo di questa nuova linea di divisione
che si viene a creare è la rivoluzione haitiana degli schiavi di Santo
Domingo, che costituiscono la Repubblica haitiana come parte
integrante di questo processo. Questa rivoluzione, come tutte le
numerose altre rivolte degli schiavi di questo periodo, viene re­
pressa, isolata e ostracizzata. Questo esclude la gente di colore dal
riconoscimento del diritto ad avere un proprio stato all'interno del
sistema degli stati.
Lo stesso processo si ripete nell'espansione sistemica successi­
va. Negli anni 1850-60 si creano sia nuove condizioni di formazio­
ne di classi operaie industriali in Europa e negli Stati Uniti, sia ten­
sione tra i gruppi sociali dominanti e le masse popolari dei paesi
che erano stati colonizzati e "imperializzati" dall'espansione del
sistema occidentale.
Il momento dell'intensificazione della concorrenza, dell'espan­
sione finanziaria, è quello della formazione del movimento ope­
raio in Europa. La rottura tra Seconda e Terza Internazionale av­
viene all'interno della lotta per il potere tra gli stati e negli stati. In
questo periodo, si hanno i primi movimenti e le rivoluzioni di
emancipazione dei paesi non occidentali dai dominio dell'Occi­
dente; è la vittoria giapponese sulla Russia, che porta alla rivolu­
zione dei 1905.
Questa rivoluzione è un momento importante per i paesi occi­
dentali. La 'Russia viene considerata come una specie di Impero
semi-occidentale, un paese arretrato all'interno del sistema euro­
peo, e, da questo punto di vista, la rivoluzione diventa un punto
di riferimento. D'altra parte la sconfitta di una grande potenza
europea da parte di una potenza non occidentale segna la trasfor­
mazione dei rapporti di potere consolidati. La rivoluzione turca e
quella messicana, che precedono la prima guerra mondiale e la
formazione di potenti partiti operai, sono fenomeni che si iscrivo­
no in questa intensificazione dei conflitti sociali.
All'interno di questo percorso non è la guerra che avvia il pro­
cesso, ma l'intensificazione della concorrenza tra i paesi capitalisti­
ci, che altro non è che la grande depressione. Per grande depres­
sione intendiamo la formazione della fase di espansione finanzia­
ria é di riorganizzazione del sistema, che intensifica i conflitti
sociali sia sotto forma di movimenti operai, sia come movimenti di
liberazione nazionale
La prima guerra mondiale, così come Lenin aveva teorizzato, è
un momento in cui i conflitti tra gli stati creano nuovi spazi per la

70
rivoluzione. La rivoluzione russa, m combinazione con la sconfitta
nella prima guerra mondiale, innesca la formazione dei regimi fasci­
sti e nazisti. La seconda guerra mondiale è una tipica guerra di redi-
stribuzione del potere da parte di stati che erano stati o sconfitti o
lasciati fuori dalla ripartizione nella prima guerra mondiale.
Sia la prima che la seconda guerra mondiale sono momenti di
intensificazione delle lotte operaie e dei movimenti di liberazione
nazionale, e tutto si combina nell'ordine della guerra fredda, che è
completamente strutturata dalle rivolte dei grandi esclusi della
transizione precedente. La transizione precedente aveva portato
all'allargamento del blocco dominante, ma a spese sia delle classi
proletarie, sia soprattutto a spese delle élites e delle masse dei pae­
si del mondo non occidentale.
La transizione dall'egemonia britannica a quella americana è
un momento in cui le classi escluse dalla formazione di questo
blocco egemone si ribellano in vari modi su scala mondiale.
Uegemoma americana e il nuovo blocco che si forma cerca di
soddisfare le esigenze di sicurezza nel lavoro (la rivoluzione key-
nesiana e l'idea del Welfare State) per le classi operaie del mondo
occidentale. Per le élites e le masse dei mondo non occidentale, c'è
la prospettiva dell'indipendenza messa in pratica con la formazio­
ne degli Stati Uniti, e la promessa di sviluppo e assistenza per rag­
giungere i livelli di prosperità dell'Occidente. L'obiettivo da realiz­
zare "a breve termine" è un alto consumo di massa per le classi
operaie del mondo occidentale, e, in un futuro più o meno lonta­
no, un consumo di massa per tutti, tramite lo sviluppo e l'indipen­
denza. Questo è il cosiddetto Global New Deni: il New Deni, idea di
Roosevelt applicata da Truman all'inizio della guerra fredda, con
le politiche di assistenza alio sviluppo e l'abolizione del coloniali­
smo e dell'imperialismo.
Nei confronto tra le due transizioni dall'egemonia olandese a
quella inglese e da questa a quella americana appaiono delle
diversità. L'elemento evolutivo consiste nel fatto che gli inclusi
della seconda transizione erano in gran parte gli esclusi della tran­
sizione precedente. L'ordine della guerra fredda, e l'espansione
che si costruisce sulla base di quest'ordine nella cosiddetta età
dell'oro del capitalismo, presenta un blocco egemonico allargato
rispetto a quello precedente. L'espansione immette nel sistema
non solo nuovi stati, ma soprattutto nuovi gruppi sociali come
attori rilevanti.
Ci sono momenti di lotta dovuti alla pressione dì questi gruppi
per un riconoscimento di un loro potere sociale, e all'interno di

71
queste lotte si selezionano Je aspirazioni e le istanze di cui i gruppi
sono portatori. La formazione di un nuovo blocco sociale egemone
crea le condizioni per quel minimo di pace sociale e di cooperazio-
ne tra le classi, tra i gruppi subalterni e i gruppi dominanti, che
diventa la base dell'espansione. Questa, a sua volta, cambia il rap­
porto di potere tra gruppi e classi sociali.

Modo di accumulazione e modo di produzione

Il capitalismo sotto egemonia olandese è ancora predominan­


temente un sistema commerciale con l'industria completamente
subordinata al capitale o incorporata nel commercio; si ha a che
fare con forze lavorative utilizzate nel trasporto, o soggette a coer­
cizione, come gli schiavi delle piantagioni. Il lavoro salariato è una
forza ancora marginale. Dopo la grande espansione dei secolo XIX
il proletariato industriale diventa invece una forza rilevante. Ri­
mane il fatto che prima dell'emergenza del proletariato industriale
già esisteva una forza lavoro, come per esempio quella dei marmai
delle navi.
Se vogliamo fare una distinzione netta tra produzione e com­
mercio dobbiamo qualificare i due termini. II commercio non è altro
che un grande rimescolamento nel tempo e nello spazio di beni
materiali. Il capitalismo prospera per secoli fino alla rivoluzione
industriale; principalmente rimescolando i beni nel tempo e nello
spazio. Di fatto questo rimescolamento è produzione, non nei senso
stretto della trasformazione della forma fisica dei beni, ma nel senso
ampio di attività che usa forza lavoro, e che comporta un aumento
considerevole del valore d'uso e di scambio di questi beni. Da que­
sto punto di vista, conviene guardare al capitalismo come modo di
accumulazione, con una produzione che si sviluppa a partire da un
rimescolamento dei beni nel tempo e nello spazio, che ne aumenta il
valore d'uso e il valore di scambio e produce quindi profitti. Il capi­
talismo come modo di produzione è un caso speciale del capitali­
smo come modo di accumulazione, la forza dei capitalismo è quella
di non essere legato a una forma specifica, che può essere preindu­
striale, industriale, postindustriale.
'Le classi sociali che si formano in questo periodo sono classi
medie di artigiani proprietari, piccoli o medio borghesi, escluse
per lo più dalla vita politica. Tutti i movimenti di questo periodo
sono tesi ad ottenere una rappresentanza politica. Naturalmente,
lo sviluppo del capitalismo come modo di accumulazione comvol-

72
ge sempre di più la produzione, in senso stretto, e nel secolo scor­
so l'egemonia britannica genera nuove forze sociali, che sono le
masse operaie e il bracciantato contadino, che richiedono diritti di
vario tipo e hanno capacità di disorganizzare il sistema.
A questa capacità di disorganizzare il sistema, il capitale reagi­
sce in due modi. Da un lato reprime, e dall'altro dice: "la produ­
zione sarà essenziale per voi, ma non per me, posso astrarmi dalla
produzione, far concorrere gli stati, ed arricchirmi sulla base della
loro concorrenza grazie al capitale mobile" - che è la regola di
ogni espansione finanziaria - disorientando così le forze anticapi­
talistiche.
Se guardiamo il capitalismo come modo di produzione non
siamo m grado di trarre la morale della favola del capitalismo
come sistema mondiale. Siamo continuamente attratti da specifi­
cità locali, senza cogliere la totalità.
Le teorie del secolo scorso sull'imperialismo, proprio perché par­
tivano da un'impostazione teorica che vedeva il capitalismo stretta-
mente connesso all'industrialismo, ignoravano la totalità dei lunghi
cicli iegati ai fenomeni di formazione del mercato mondiale sotto
egemonie particolari. Non riuscivano a cogliere che si trattava di
fenomeni già successi 100 anni prima, con la stessa dinamica. Non si
era in presenza di imo stadio ultimo del capitalismo, ma di un feno­
meno ricorrente del capitalismo m quanto sistema mondiale.
N o n è n e c e s s a r io p a r la r e o g n i v o lta d e lla to ta lità , m a è o p p o r ­
t u n o t e n e r p r e s e n t e c h e c i s o n o v a r i e t o t a li t à . L a r i c c h e z z a s i p r o ­
d u c e n o n s o lo tr a s fo r m a n d o b e n i, si p r o d u c e a n c h e c o n u n a d is tr i­
b u z i o n e d ì b e n i tr a v a r i s o g g e t t i , e q u i n d i n e l t e m p o e n e l l o s p a z i o .
L a g r a n d e d e p r e s s i o n e d e l 1 8 7 3 - 9 6 s e g n a l 'i n i z i o d e i m o v i m e n ­
ti o p e r a i , m e n t r e i n v e c e s i a m o a n c o r a in u n p e r i o d o d i r e l a t i v a
p a c e tra l e g r a n d i p o t e n z e . P e r ò , la c o n c o r r e n z a c h e c a r a t t e r i z z a la
" g r a n d e d e p r e s s io n e " p r e c e d e i m o v im e n ti s o c ia li e i c o n flitti
s o c ia li. Q u a n d o a r r iv ia m o a i p r e s e n te n o n è in v e c e a s s o lu ta m e n te
c h i a r o c h e c o s a p r e c e d e e c o s a s e g u e n e ll a s c a la c r o n o l o g i c a . È d i f ­
f ì c i l e c a p i r e s e i p r o c e s s i d i c o n c o r r e n z a tra o r g a n i z z a z i o n i c a p i t a l i ­
s t i c h e s i v e r i f i c h i n o p r i m a o d o p o . N e l '6 8 - 7 3 l 'e s c a la t io n d e i c o n ­
fl it t i s o c i a l i p r e c e d e t u t t o .
L a g ra n d e d e p r e s s io n e d el 1 8 7 3 -9 6 è d o v u ta al fa tto c h e ai
s e g u i t o d e l l a r i v o l u z i o n e d e i t r a s p o r t i e d e l l 'e s p a n s i o n e d e i t r a f f i c i
si a v e v a n o m a s s e s e n z a p re c e d e n ti d i p ro d o tti a g r ic o li c h e d a l
r e s t o d e i m o n d o v e n iv a n o s c a r ic a t i in E u r o p a , p r o v o c a n d o u n a
d e f l a z i o n e m a s s i c c i a . C o n t e m p o r a n e a m e n t e , la p r o l i f e r a z i o n e d e i
c a p it a lis t i in d u s tr ia li d i a ltri p a e s i fa n n o c o n c o r r e n z a ai p r o d o tti

73
inglesi. Si intensifica ia concorrenza (dovuta ad una espansione
della produzione tale da provocare un crollo dei prezzi, elemento
trainante della depressione) e si potenzia il conflitto tra le masse
operaie e i capitalisti, conflitto che si assesta solo quando gli operai
avranno assicurato il loro salano, tant'è che in questi anni la Prima
Internazionale viene dissolta.
Successivamente al 1896 e con la Seconda Internazionale, verso
ia fine di questo processo, i conflitti riemergono in concomitanza
con l'espansione finanziaria e la ripresa fondata su una redistribu­
zione dei redditi dal lavoro al capitale.

La crisi dell'ordine sociale

Arrivando al presente, esaminiamo cosa provoca l'inizio della


crisi e poi, successivamente, l'espansione finanziaria.
L'espansione finanziaria è in gran parte dovuta ad una specie
di sciopero del capitale su scala mondiale, che, invece di reinve­
stirsi in produzione e scambio, dove i rapporti di forza non sono
favorevoli ai capitale, si disinveste, assume la forma dei capitale
finanziario nei mercati transnazionali e forza gli stati a concorrere
per questo capitale. Ciò porta all'abbandono delle politiche di
sostegno alla piena occupazione e allo sviluppo e un conseguente
indebolimento dei movimenti. A questo punto emergono vane
questioni. Può essere effettivamente tutto così facile per il capitali­
smo su scala mondiale? Gli stati si sono davvero adattati alla
situazione puntando tutto sulla redis tribù zi one a favore del capi­
tale? I movimenti così forti da mettere in crisi il capitale alla fine
degli anni 60 e inizio anni 7 0 - un fatto mai avvenuto storicamente
su scala mondiale - possono entrare in crisi così facilmente negli
anni 80 e 90? Infine, questa situazione che si è venuta a creare è
permanente oppure è transitoria?
Innanzitutto, è opportuno chiarire quale è l'orizzonte tempora­
le, per evitare letture fuorvianti, tenendo presente che siamo ai pri­
mi stadi, e la dinamica dei rapporti tra stato, emergenza sociale e
concorrenza è invertita. Quando affermiamo che le forze sociali
subalterne su scala mondiale sono deboli negli anni 80 e 90 è per­
ché adottiamo una prospettiva che confronta gli anni 80 e 90 con
gli anni 60 e 70. Stiamo cioè osservando una fluttuazione di brevis­
simo periodo.
La risposta del capitalismo avviene su scala mondiale mentre i
movimenti operano tutti a livello nazionale. La capacità di migrare

74
del capitale finanziario disorienta e destabilizza; il risultato più.
spettacolare di questa destabilizzazione è il crollo dell'URSS che
facilita ulteriormente l'abbandono del Welfare State e l'idea di uno
sviluppo del terzo mondo.
Queste, tuttavia, sono tendenze di breve periodo. E mentre le
basi sociali di molti movimenti vengono distrutte, possiamo nota­
re come le basi di nuovi movimenti vengono create.
In questo periodo di distruzione del vecchio apparato produtti­
vo, di terziarizzazione sempre più selvaggia dell'economia america­
na, vi è stata infatti una proliferazione massiccia della forza lavoro
femminile, e un'emarginazione della maschile. C'è quindi questa
trasformazione interna, della femminilizzazione e deH'etmcizzazio-
ne delle forze di lavoro particolarmente negli USA, che crea nuovi
movimenti e soprattutto le linee di divisione e di conflitto sociale
più importanti.
Le linee del conflitto del centro dominante sono queste, e già
influenzano le politiche estere, anche se in modo confuso. Le forze
femministe e muiliculturaìiste hanno una grossa potenzialità dal
punto di vista di un nuovo tipo di rapporti tra stati occidentali e
orientali. D'altro lato le forze di tipo religioso come reazione al fem­
minismo e al muitinazionalismo hanno tendenze in parte nazional-
scioviniste e in parte ìsolaziomste. Questa lotta interna ha ed avrà
un'influenza notevolissima su come gli USA si rapporteranno al
resto del mondo e sul tipo di blocco egemone che emergerà.

I1 Sud-Est asiatico c ìa formazione della nuova potenza egemonica

Ancor più importante è il fatto che la deindustrializzazione nei


paesi centrali è stata accompagnata da un'industrializzazione sel­
vaggia dei paesi periferici, con formazione di nuova classe operaia
e nuovi movimenti operai, nonostante che ìa tendenza predomi­
nante del capitale su scala mondiale non sia stata questa, bensì
quella di astenersi dalla produzione. Se tutto il capitale si fosse tra­
piantato nei paesi a bassi salari, già avremmo assistito a movimen­
ti operai su scala mondiale senza precedenti nella storia.
Nei XXI secolo e nella transizione attuale, accanto ai movimen­
ti delle società deindustnalizzate o deindustnalizzanti, ci saranno
grandi movimenti operai nei nuovi centri deH'industrializzazione,
m Cina m particolare.

75
7

Occidente e Oriente

La "rivolta contro l'Occidente"

Si affronterà in questa sezione la questione dei rapporti tra


mondo occidentale e mondo non occidentale nelle due transizioni
egemoniche. Attenzione particolare sarà posta sui rapporti tra il
sistema mondiale di espansione europeo e le civiltà dell'Asia, e in
particolare dell'Asia orientale con cui questo sistema viene a in­
contrarsi e scontrarsi.
La discussione su questi rapporti ha a che fare con una tesi di
Samuel Huntington. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, per la
precisione tra il 1992 ed il 1993, Huntington, che è uno degli scien­
ziati politici più influenti negli Stati Uniti, ha ianciato l'idea che
siamo di fronte ad uno scontro tra civiltà differenti.
Il suo schema ha una corrispondenza cronologica con il nostro
schema delle transizioni. Vi è una fase iniziale, che va dalla pace di
Westfalia fino alla rivoluzione francese (che grosso modo com­
prende gran parte della nostra transizione dall'egemonia olandese
a quella inglese), in cui ì conflitti principali sono tra sovrani, prin­
cipi e monarchi in genere. A partire dalla rivoluzione francese fino
a quella russa, si entra m una fase in cui i conflitti riguardano gli
stati nazione, quegli stessi che erano emersi dalle precedenti lotte.
Dopo la rivoluzione russa (nel nostro schema la transizione dal­
l'egemonia britannica a quella americana) inizia una fase in cui il
conflitto principale è tra differenti ideologie: prima tra liberismo,
comuniSmo e fascismo, poi, una volta eliminato il fascismo e con
l'inizio della guerra fredda, tra liberismo e comuniSmo.
La tesi di Huntington è che, con la fine della guerra fredda e
con la sconfitta del comuniSmo, l'Occidente raggiunge il momento
pili elevato dei suo potere sui mondo. Lo scontro successivo non
sarà più interno all'Occidente, bensì tra l'Occidente, in quanto

77
civiltà, e quelle altre civiltà non occidentali che, se per il momento
non sono in grado di costituire serie minacce (né di tipo militare,
né di tipo economico e nemmeno di tipo ideologico), nel corso del
tempo riusciranno a portare una sfida effettiva all'Occidente.
Per corroborare questa previsione, Huntington focalizza la sua
attenzione in particolare sulla Cina, che, data la dimensione demo­
grafica e gli eccezionali tassi di crescita, nel giro di venti anni sarà
in grado di sviluppare capacità militari ed industriali che potran­
no effettivamente minacciare la supremazia occidentale. Essa po­
trà inoltre connettersi, in quanto civiltà del Confucianesimo, con il
mondo dell'Islam. Un'unione tra Cina, Asia orientale e mondo
dell'Islam renderà ancora più sena la minaccia ai dominio occi­
dentale.
Da queste considerazioni emergono alcune implicazioni politi­
che. Huntington sostiene infatti che di fronte a questa possibile sfi­
da gii Stati Uniti devono cercare di intessere alleanze sempre più
vaste, non solo all'interno dell'Occidente avanzato, ma anche con
quei paesi occidentali meno avanzati come l'America Latina,
l'Europa orientale e la Russia. Naturalmente, alla fine, in questo
eventuale scontro tra civiltà bisognerà trovare il modo di accomo­
dare, di trovare un compromesso.
Dietro questa tesi sembra esservi una nostalgia per la guerra
fredda, ovvero la necessità di tracciare una linea che divida il mon­
do, in modo da definire amici e nemici e creare alleanze. Hun­
tington, che era il teorico della guerra fredda e delta contrapposi­
zione con l'Unione Sovietica, con questa tesi invita gli Stati Uniti a
riappacificarsi con l'ex Unione Sovietica, e ad inserirla nel sistema
di alleanze occidentali. La sua idea di fondo è che la guerra fredda
è stata una guerra civile interna all'Occidente, tra Unione Sovietica
e Stati Uniti; ora che è finita, la minaccia non è più interna
all'Occidente, ma è costituita da altre civiltà; quindi occorre trac­
ciare una linea di demarcazione che faccia tutto il possibile per
rafforzare le alleanze con la Russia, e creare divisioni all'interno
delle altre civiltà. È l'ideologia di una nuova guerra fredda, ma
con nuove linee di contrapposizione.
In effetti, come è stato già osservato, la fine delia guerra fred­
da, dal punto di vista del sistema mondiale, ha rappresentato un
elemento di destabilizzazione. La minaccia dei comuniSmo era,
infatti, un potente stimolo all'unità tra i gruppi dominanti all'in­
terno dell'Occidente, così come alla mobilitazione delle popolazio­
ni su certe linee politiche. Venuto meno questo stimolo, è emersa
ia difficoltà di riorganizzare le alleanze su scala mondiale.

78
L'altro aspetto fondamentale di questa tesi - e Huntington lo
dice esplicitamente - è che con la fine della guerra fredda gli USA
non avrebbero dovuto assolutamente rilassarsi, né militarmente e
né politicamente, anzi avrebbero dovuto mantenere le loro capa­
cità militari.
Dopo la fine della guerra fredda si osservava che tutti i fondi
che venivano destinati alla guerra e agli armamenti potevano
venire dirottati verso il weìfare. Nella realtà avveniva esattamente
{'opposto: da un lato, per le ragioni che abbiamo visto m prece­
denza, si liquidava io stato del weìfare, dall'altro lato solo tagli mi­
mmi venivano apportati all'apparato militare. Gli intellettuali or­
ganici del Dipartimento di Stato per fare valere questa linea han­
no, appunto, messo in evidenza la minaccia per il futuro degli
Stati Uniti e dell'Occidente che viene dalia modernizzazione,
industrializzazione e rapida crescita economica della Cina.
Il Dipartimento di Stato, m particolare nella figura di Joseph
Nay, che è un altro scienziato polìtico come Huntington, ma più
vicino alla fazione liberale che non a quella conservatrice, non crede
alla tesi dello scontro tra le civiltà. Piuttosto abbraccia una tesi che
ha a che fare con il potenziale bellico che la Cina può accumulare se
continua a svilupparsi a questi ritmi. La conclusione politica è la
stessa: in un rapporto del Dipartimento di Stato si finisce con il dire
"dobbiamo mantenere le nostre capacità militari e mantenere una
presenza militare nell'Asia orientale per controllarne la situazione"
La tesi di Huntington ha varie risonanze altrove, in particolare
in Russia e negli altri stati dell'Europa orientale, dove viene perce­
pita come una possibilità di inserimento nei sistema occidentale,
con tutto quello che ciò comporta.
La teoria di Huntington, infine, viene letta in Asia orientale,
nei mondo islamico e in generale nei paesi dell'Asia come una
specie di dichiarazione di guerra fredda.
Questi meccanismi sono analoghi a quelli che contribuirono a
creare la guerra fredda con l'Unione Sovietica: vennero fatte profe­
zie sull'Unione Sovietica che si sono adempiute; vennero create
delle divisioni che si consolidarono sempre di più.
Possiamo mettere in evidenza alcune similarità delle analisi di
Huntington con le nostre. Per esempio, abbiamo messo in eviden­
za che il sistema si evolve, e che m questo processo vengono tra­
sformate ie unità del sistema, gli stati. Si tratta di un altro modo
per dire le cose che dice Huntington: si parte da un certo tipo di
stati, che poi diventano stati nazione, e poi raggruppamenti di sta­
ti, su basi ideologiche, e così via. D'altra parte non c'è gran che da

79
obiettare all'idea di Huntington secondo la quale, nonostante le
grandi trasformazioni, i grossi conflitti sono stati finora tutti inter­
ni al mondo occidentale. In effetti una delle ragioni per cui si può
essere relativamente ottimisti sul fatto che possa esserci una transi­
zione non violenta ad un nuovo ordine mondiale tra venti, trenta,
quaranta o cinquantanni è rappresentata dal fatto che l'Europa,
che è stata sempre l'epicentro delle trasformazioni violente, si
ritrova oggi pacificata ed integrata sia economicamente che mili­
tarmente.
La tesi di Huntington solleva, tuttavia, due problemi. Il primo
è che egli vede nei futuro quello che in effetti è una cosa del passa­
to: storicamente tutti i rapporti tra mondo occidentale e mondi
non occidentali sono stati rapporti di scontro, nei quali l'elemento
dominante era un sistema in espansione europeo che distruggeva
oppure destabilizzava le altre civiltà. Problema connesso è quello
della rivolta contro l'Occidente. Huntington ne parla come qualco­
sa che deve accadere nel futuro, mentre è stato uno degli elementi
decisivi nelle trasformazioni che hanno caratterizzato la transizio­
ne dall'egemonia britannica a quella americana. L'espressione
"rivolta contro l'Occidente" è stata usata nel passato da chiunque
si fosse occupato di rapporti tra le civiltà; in particolare è stata usa­
ta con riferimento alla decolonizzazione. Ciò di cui parla Hun­
tington fa dunque parte della stona del passato piuttosto che di
quella del futuro.
Se questo scontro continuerà oppure no nei futuro è qualcosa
che dipende dal modo in cui se ne legge la storia, in particolare
rispetto alle trasformazioni che questo scontro ha portato, e alle
reazioni che l'Occidente ha ed avrà; al fatto che il dominio occi­
dentale, sebbene ancora notevole, sta traballando, o per lo meno è
m fase declinante. Huntington sopravvaluta il potere attuale del­
l'Occidente, non accorgendosi che è già sulla difensiva almeno da
settantanni. Uno dei grossi problemi nelle transizioni è sempre la
sopravvalutazione del potere della potenza declinante, e questa
sopravvalutazione molto spesso diventa un decisivo fattore di
destabilizzazione e di caos.
D'altra parte bisogna mettere in evidenza che non c'è alcuna
ragione logica per cui ci si possa attendere che il mondo non occi­
dentale debba seguire la stessa logica di potere mondiale seguita
da quello occidentale. Per dirla in altri termini, la paura di Hun­
tington è che quando il mondo non occidentale avrà la capacità di
farlo, farà all'Occidente quello che l'Occidente ha fatto al resto del
mondo. Ha, quindi, paura che venga fatto a noi quello che noi

80
abbiamo fatto agli altri; ma si tratta di una paura irrazionale. Quan­
to ¡'Occidente ha fatto alle altre civiltà è dipeso da condizioni stori­
che, quelle stesse che sono state superate sia dalla espansione
dell'Occidente che dalla rivolta contro l'Occidente. I rapporti di for­
za e le condizioni storiche che si sono create sono differenti rispetto
a quelli in cui è avvenuta l'espansione del mondo occidentale.
Inoltre, le strutture del mondo occidentale, le sue forme orga­
nizzative e di comportamento non trovano riscontro in altre parti
del mondo. L'Asia orientale, nonostante alcuni elementi simili a
quelli occidentali, ha forme organizzative sue interne che non
rafforzano di certo l'idea che ci si possa aspettare da questi paesi
comportamenti nei confronti dell'Occidente simili a quelli che
l'Occidente ha avuto nei loro.
In altre parole, i rapporti tra stati, gruppi sociali, civiltà sono
rapporti dinamici in continua trasformazione. Le condizioni stori­
che nelle quali si sono manifestati certi comportamenti da parte
dell'Occidente sono state superate dalle trasformazioni stesse.
Per poter vedere se ci sono pencoli reali o quali sono le forme
di interazione tra civiltà che stanno emergendo, e quali saranno i
risultati di queste emergenze, occorre ancora una volta riesamina­
re il processo storico dai punto di vista dei rapporti tra Occidente e
Oriente. Servirà in particolare vedere che tipo di organizzazione
sta emergendo, o potrà emergere. Da questo punto di vista non è
possibile usare io schema usuale, per una ragione semplicissima:
dall'angolo visuale dei rapporti tra Europa e Asia orientale, o tra
Europa e Asia più in generale, ie due transizioni precedenti {quella
dall'egemonia olandese alla britannica, e quella successiva dalla
britannica all'americana) hanno pochissime analogie. La transizio­
ne dall'egemonia olandese a quella inglese è il momento di inizio
dello scontro tra mondo occidentale e le civiltà asiatiche, il mo­
mento in cui l'Occidente acquista le capacità effettive di conquista­
re il mondo. La transizione dall'egemonia inglese a quella ameri­
cana è caratterizzata da una tendenza di senso opposto, cioè dalla
rivolta dei mondo non occidentale contro il dominio che si era sta­
bilito nei XIX secolo.
Gli nitri angoli visuali che abbiamo adottato erano tutti euro-
centrici, nel senso che guardavamo ai sistema dai suo interno, e a
come era organizzato e si espande. Se adesso spostiamo ì'angoio
visuale e guardiamo questa espansione dall'Asia, in particolare
dall'Asia orientale, abbiamo un'immagine completamente diversa:
un grande movimento di conquista prima; quindi uno scontro cre­
scente col mondo occidentale, con le civiltà asiatiche sulla difensi­

81
va; e poi un movimento di ordine opposto, con la decrescente
influenza del mondo occidentale nell'Asia orientale.
L'egemonia, così come è stata definita precedentemente, m sen­
so gramsciano, risulta da una combinazione dì coercizione e consen­
so. Se un dominio è esercitato semplicemente sulla base della coerci­
zione, si tratta tout court di dominio. Si ha egemonia in una situazio­
ne in. cui vi è un consenso per il dominio, ed è un consenso fondato
sul fatto che il paese egemone è m grado di creare certe condizioni
di cooperazione tra le unità del sistema, da cui tutte le unità del
sistema (anche se in misura differente) traggono beneficio.
Le transizioni egemoniche osservate dall'interno del sistema
vedevano emergere il paese (l'Olanda, l'Inghilterra, e quindi gli
Stati Uniti) capace di superare le situazioni di destabilizzazione e
di caos che si erano venute a creare con il crollo dell'egemonia pre­
cedente (o con la situazione di caos originano che esisteva prima
di Westfalia). Da questa situazione più o meno tutti trassero bene­
ficio, alimentando, quindi, sempre un consenso, che veniva meno
quando la potenza egemone perdeva la capacità di dirigere il siste­
ma e trasformava il suo dominio in un sistema di sfruttamento
della posizione acquisita. Ciò produceva destabilizzazione e crollo
dell'egemonia, finché emergeva un nuovo stato tender, in grado di
riorganizzare il sistema in modo che si creassero le condizioni per
una nuova espansione.
Dall'angolo visuale delle altre civiltà, l'elemento egemonico
viene invece quasi completamente a mancare. I rapporti tra Occi­
dente e civiltà non occidentali sono sempre stati basati sul domi­
nio, fondato soprattutto, anche se non completamente, sulla coer­
cizione.
Per capire i meccanismi che stanno emergendo come conse­
guenza dell'indebolimento della capacità di dominio dell'Occi­
dente in Asia orientale, dobbiamo analizzare con un minimo di
concretezza storica la natura del rapporto tra Occidente e Oriente.
Bisogna inoltre, tra le altre cose, capire perché è proprio l'Asia
orientale e non il Vicino Oriente o l'India o l'Africa a presentare
certi fenomeni di modernizzazione spinta e di successo economi­
co. In altre parole bisogna cogliere su cosa poggia il carattere di
eccezionalità dell'Asia orientale rispetto agli altri paesi dei mondo
non occidentale.
Il punto di partenza è che la forma originaria e più duratura
del potere occidentale in Asia è stata la capacità di disgregare
l'organizzazione che connetteva le società asiatiche le une alle altre
in un sistema che Fernand Braudel chiamava Super World Ecouo-

82
mi/. Le spinte interne all'Occidente per l'espansione erano legate
fin dagli inizi alla necessità di un inserimento nelle economie, di"'
mercato e non, dell'Asia, che erano molto più ricche e sviluppate
di quelle europee. Senz'altro, fino al 1600 e 1700, l'Europa era in
una situazione di inferiorità nello sviluppo delle forze produttive
rispetto all'Asia.

Lo smantellamento della Super World Economy

All'interno di quella che Braudel definisce una Super World


Economi/, è possibile identificare tre insiemi: l'economia-mondo
sinocentrica, l'economia-mondo indocentnca, l'economia-mondo
islamica. Riguardo alla prima, esiste una scuola giapponese che
sostiene (a mio modo di vedere in maniera corretta) che in Asia
orientale l'economia mondiale smocentnca, che era stata incorpora­
ta m quella occidentale ma non distrutta, stia riemergendo in nuove
forme. Per quanto riguarda l'economia islamica bisogna notare che,
contrariamente a quella sinocentrica, non ha un centro vero e pro­
prio, ed è in gran parte anche un'economia-mondo di intermedia­
zione tra le vane altre che spesso si sviluppano nelle parti dell'Asia
nord centrale, gli stati inferiori della vecchia Unione Sovietica.
La Super World Eamomy consisteva di queste tre componenti,
con transazioni di vario tipo che le collegavano tra di loro e che
formavano una singola economia di dimensioni e densità incom­
parabilmente più grandi dell'economia-mondo del Mediterraneo
europeo, che possiamo definire eurocentrica. Essa presentava però
una struttura estremamente vulnerabile.
Se si vuole avere un'espressione sintetica dei rapporti tra
Occidente ed Oriente, tra i paesi europei e questa Super World Eco­
nomi/ dell'Asia, conviene considerare quanto detto alla fine dei
Seicento dal direttore delia compagnia inglese delle Indie Orientali
a proposito degli indiani: "Non possono sopportare una guerra
con gli inglesi per- dodici mesi senza morire in grandi numeri per
mancanza di lavoro per comprare il riso. Non solo o particolar­
mente per mancanza del commercio con noi (inglesi europei), ma
perché con la nostra guerra ostruiamo il loro commercio con tutte
le altre nazioni dell'Oriente che è dieci volte maggiore del nostro e
di tutti gli altri paesi europei messi insieme" I rapporti tra i paesi
occidentali e l'Oriente sono tutti tratteggiati in questo brano.
Un altro aspetto è quello di cui parla un contemporaneo, Char­
les Davenant. Egli sosteneva che chiunque, tra le potenze oceiden-

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tali fosse stato in grado dt controllare il commercio con iAsia sa­
rebbe stato nella posizione di dettar legge.
I due elementi che, combinati, hanno definito i rapporti tra
Occidente e Oriente sono dunque da un iato che gli stati dell'eco-
nomia-mondo eurocentrica hanno un interesse fondamentale a
conquistare una posizione di controllo sui commerci deli Asia per
ragioni di concorrenza interna e di dominio su scala mondiale;
dall'altro che questa Super World Economy è vulnerabile agli inter­
venti che gli occidentali sono in grado di apportare, m primo luo­
go grazie alle superiori capacità militari, soprattutto navali.
In effetti gli stati occidentali si inseriscono in questo sistema e lo
disorganizzano a proprio beneficio, destabilizzandolo. Le popola­
zioni, che ancora nel 1800 avevano gli stessi livelli di reddito proca­
pite degli europei, finiscono col vederselo ridotto oggi ad appena
un sessantesimo. In questa prospettiva diventa decisivo lo studio
dei processo attraverso cui si formano le coscienze nell'Asia orien­
tale, e su cosa sia fondato il rapporto tra Oriente ed Occidente.
Per ritornare alla questione sollevata all'inizio, relativa alla
paura dell'Occidente di vedersi contraccambiata dall'Oriente, ci si
rende immediatamente conto, con questo schema, dell'esistenza di
buone ragioni per definirla totalmente ingiustificata. Quello che
l'Occidente ha fatto all'Oriente è strettamente connesso ai tipo di
organizzazione delle economie mondo in relazione Luna con l'altra
nel corso dei secoli. L'Europa, infatti, aveva una data struttura poli­
tica e di concorrenza tra gli stati, per la quale il controllo del com­
mercio asiatico era decisivo nella lotta per il potere. Complementa­
re a questo era l'esistenza di una struttura economica molto più
sviluppata che, tuttavia, poteva essere facilmente penetrata. I com­
portamenti dei paesi occidentali nei confronti dell'Asia orientale
avevano basi strutturali che non esistono più, e che, comunque,
hanno poco o nulla a che fare con la struttura dell'economia-mon-
do sinocentrica cosi come era originariamente e così come è stata
trasformata dallo scontro con le civiltà occidentali.
Occidentali e orientali appartengono alla stessa razza, quella
umana, e hanno, più o meno, gli stessi comportamenti. Non è pos­
sibile sostenere che i primi siano i cattivi e i secondi i buoni. Il fatto
che cjuaicuno faccia il cattivo e qualcun altro il buono dipende dal­
ie condizioni storiche, geografiche e culturali che vengono mate­
rialmente create. Accade, quindi, che gli europei facciano cose
riprovevoli per cinquecento anni, non perché siano più cattivi;
semplicemente perché esistono certe realtà strutturali all'interno
delle quali essi operano.

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Al fine di comprendere quali comportamenti stanno emergen­
do o emergeranno nei nuovi centri del sistema mondiale, dobbia­
mo capire in che modo queste strutture sono state trasformate. In
secondo luogo dobbiamo tentare di capire che tipo di logiche pos­
siamo aspettarci che sviluppino nei confronti dei mondo occiden­
tale quegli individui che operano all'interno delle tre strutture del­
la Super World Econoiny trasformate da cinquecento anni di scontro
con la civiltà occidentale.
La rivoluzione industriale deve essere considerata nel contesto
della corsa agli armamenti, che da un lato ha generato la produzio­
ne industriale, dall'altro ha trasformato l'arte della guerra, ndefi-
nendo la stessa civiltà. All'inizio della transizione dall'egemonia
olandese a quella inglese, la Cina era un modello per l'Ocadente,
un modello politico ed economico che ha influenzato fortemente
riliuminismo. Nei giro di sessantanni, tuttavia, ia Cina diventerà
l'antitesi dei modello, e l'Inghilterra il modello. Questo processo è
strettamente connesso alla Rivoluzione industriale, ossia all'idea
che un paese civile, avanzato, viene sempre più ad identificarsi con
chi è capace militarmente ed industrialmente. Si tratta di valutazio­
ni che, naturalmente, non hanno nulla a che fare con questioni di
moralità. D'altra parte la tendenza morale viene completamente
offuscata per giustificare i traffici dell'oppio, che sono la svolta
decisiva nei rapporti tra mondo occidentale ed orientale.
A grandissime linee nei rapporti tra Occidente e Oriente pos­
siamo distinguere tre fasi.
La prima, quella iberica, lascia immutate le strutture preesi­
stenti. I portoghesi arrivano nell'Oceano Indiano, e diventano una
delie tante potenze che operano m quell'area, uno stato tra tanti
stati. Addirittura essi subiscono notevoli sconfitte da parte delia
Cina. Non solo, ma con la formazione della "linea dei galeoni di
Manila", viene immessa una grossa quantità di argento nel siste­
ma sinocentnco che, da parecchi punti di vista, rafforza il sistema,
permettendo alla Cina di passare da uno standard di denaro-carta
ad uno di argento-moneta, che crea un'espansione nella tarda epo­
ca Ming. In questa fase iberica gli europei portano dunque argento
nel sistema, e il sistema si espande e si rafforza.
Gli olandesi cominciano ad introdurre elementi dì disgregazio­
ne, ma rimangono una forza interstiziale. Si pongono infatti negli
interstizi tra l'economia-mondo sinocentrica e quella indocentrica,
nei sud-est asiatico (Oceano Indiano), che è alla periferia dei due
sistemi, però estremamente importante dai punto di vista dei com­
merci. Gli olandesi monopolizzano ie spezie, che esercitano anche,

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nel sistema di scambi, una funzione di denaro; in questo modo con­
trollano una parte degli scambi, inserendosi nel sistema e comin­
ciando a creare un flusso in senso opposto: i profitti della Com­
pagnia delle Indie Occidentali alimentano la Borsa di Amsterdam.
Nella transizione dall'egemonia olandese a quella inglese si ha
un'operazione di tutt'altro tipo. Con la conquista dell'India, sotto
la Compagnia delle Indie Orientali inglesi, l'Inghilterra si impa­
dronisce dell'intera economia-mondo indocentrica. Sarebbe però
sbagliato pensare all'India come ad un paese qualsiasi. All'inizio
dell'Ottocento la popolazione urbana dell'India era equivalente
all'intera popolazione francese. Il suo apparato commerciale, indu­
striale e soprattutto tessile era incomparabile per dimensione
rispetto alle industrie tessili europee. L'Inghilterra, con ia conqui­
sta di questa urterà economia-mondo e con la sua trasformazione
in un proprio possedimento coloniale, distrugge l'unità della Super
World Economi/; si inserisce nel mezzo, e inverte il flusso di denaro,
che adesso diventa flusso di tributi da 11'Oriente all'Occidente.
Questo flusso ha un ruolo centrale nei sistema dei pagamenti e
permette all'Inghilterra di organizzare il mondo occidentale in un
sistema di libero-scambio, compensando il deficit nella propria
bilancia dei pagamenti con il sovrappiù della 'bilancia dei paga­
menti indiana.
Tutto il sistema del libero-scambio che permette allTnghilterra
di essere egemone nel mondo occidentale si regge sui mezzi di
pagamento di cui si appropria grazie alla conquista dellTndia, e
che diventano il fondamento dei sistemi di pagamento inglesi su
scala mondiale. II libero-scambio per l'Occidente si regge sulla
costruzione dellTmpero inglese nell'Oriente, che distrugge l'unità
precedente di questa economia, e la incorpora all'interno del siste­
ma occidentale nella forma subordinata di colonie ed imperi.

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Riferimenti bibliografici

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Indice

1 Verso un nuovo ordine mondiale p. 5


Interpretazioni della globalizzazione 5
Alcune controversie 6
1 ) Chi ha vinto iti guerra fredda? 6
2 ) Debolezza degli stati: vittoria dei mercato? 9
3) Rapporto tra capitale e lavoro: quaie redisfribuzione? 11
4) L'ascesa dell'Asia orientale: quale significato? 13
La necessità di una prospettiva storica 16

2 L'Economia-Mondo: dalla formazione alla crisi aduale 21


L'espansione europea m Occidente e in Oriente 21
L'India e l'egemonia inglese 24
Dall'egemonia inglese aU'egemonm statunitense 28
La crisi dell'egemonia statunitense 29
Considerazioni conclusive 32

3 L'espansione sistemica 37
Le teorizzazioni dei sistema-mondo 37
Teoria e storia 40
La sorpresa interstiziale 41
Le transizioni egemoniche 42

4 Gli stati e il capitale finanziario 45


Stati egemoni e sistemi di stati 45
L'alt unie crisi egemonica 47
Capitale finanziano e capitale produttivo 49

5 Le imprese 55
Concorrenza o coopcrazione 55
Dalle compagnie commerciali alle multinazionali 56
Stati e imprese 60
La globalizzazione tra presente e passato 62

89
6 Classi sociali e movimenti antisistemici p. 65
I limiti del capitale 65
Stato e lotte sociali $7
Classi e movimenti di liberazione 69
Modo di accumulazione e modo di produzione 72
La crisi dell'ordine sociale 74
II Sud-Est asiatico e informazione delta nuova
potenza egemonica 75

7 Occidente e Oriente 77
La "rivolta contro VOccidente" 77
Lo smantellamento della Super World Economy 83

Riferimenti bibliografia 87

90
Finito di stamparti nei mese di gennaio 1999
dalla Rubbettino Arti Grafiche
per conto deiìa Rubbettino Editore Sri
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

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