23/09/20
Monumento di Quinto Sulpicio Massimo > monumento funebre rinvenuto a Roma nel 1971 nei pressi della
Porta Salaria (attualmente fa parte della collezione dei Musei Capitolini); Quinto Sulpicio Massimo era uno
studente che, all’età di undici anni, partecipò al certamen capitolinum (nell’ambito dei Capitolia, istituiti da
Domiziano nell’86 d.C.) del 94 d.C., distinguendosi nella sezione dedicata ai componimenti in lingua greca.
Muore tuttavia in quello stesso anno e, nel monumento funebre, è riprodotto ai lati della sua statua il
componimento che gli valse la vittoria nel certamen; in basso c’è l’iscrizione funeraria vera e propria; Sulpicio
tiene tra le mani un rotolo che, da un punto di vista iconografico, lo identifica come letterato/declamatore.
Come leggiamo nell’iscrizione, argomento del componimento di Sulpicio erano le parole che Zeus avrebbe
utilizzato per rimproverare Helios, reo di aver consegnato il proprio carro a Fetonte (esempio di etopèa,
classico esercizio nelle scuole di retorica > il componimento di Sulpicio è in versi, quindi si ha un accostamento
tra retorica e poesia). Il componimento è in lingua greca, pur essendo stato composto a Roma > il sistema
educativo a Roma era caratterizzato dall’insegnamento di entrambe le lingue, latino e greco, e l’élite romana
era sostanzialmente bilingue.
Frammento di epistola di Cicerone in cui l’Arpinate fornisce alcune informazioni circa il suo percorso
educativo; il frammento è conservato nel De grammaticis et rhetoribus di Svetonio e, in parte, nel Chronicon
di Girolamo.
[La tradizione di Svetonio è legata al cosiddetto Codex Hersfeldensis, noto anche perché contiene le opere
minori di Tacito (Agricola, Germania, Dialogus de oratoribus); codice in minuscola carolina, di probabile
origine francese, IX secolo ca.; il codice fu riscoperto dagli umanisti italiani. Visto da Poggio Bracciolini, venne
poi scomposto in più fascicoli e da allora le opere minori di Tacito ebbero tradizione autonoma).]
L. Plotius Gallus. De hoc Cicero in epistula ad M. Titinium sic refert: “Equidem memoria teneo pueris nobis
primum Latine docere coepisse Plotium quendam. Ad quem cum fieret concursus, quod studiosissimus quisque
apud eum exerceretur, dolebam mihi idem non licere. Continebar autem doctissimorum hominum auctoritate
qui existimabant Graecis exercitationibus ali melius ingenia posse”.
Traduzione: L. Plozio Gallo. Nell’epistola a M. Titinio, Cicerone così riporta: “Per quanto mi riguarda ricordo
che, quando eravamo fanciulli, per primo incominciò ad insegnare in lingua latina un tale Plozio. Ed essendovi
una grande affluenza, dal momento che tutti i più studiosi si esercitavano presso di lui, mi dolevo per il fatto
che a me ciò non fosse concesso. Ero infatti trattenuto dall’autorità di uomini dottissimi, i quali sostenevano
che l’intelligenza potesse avere miglior nutrimento dalle esercitazioni in lingua greca.
Nicola Gentile
Cicerone riferisce, in un’epistola a Marco Titinio, informazioni circa L. Plozio Gallo. Cicerone ricorda che,
quando era ragazzo, un certo Plozio per primo iniziò a docere Latine; in qualche modo Cicerone è invidioso
(dolebam, in un certo senso Cicerone si vede limitato), in quanto vede che tutti i migliori si esercitavano con
Plozio mentre a lui la cosa era impedita, in quanto trattenuto dall’autorità di uomini dottissimi secondo i quali
Graecis exercitationibus ali melius ingenia posse (cf. Hier. chron. ad Ol. 173.1 [p.150 Helm] > Plotius Gallus
primus Romae Latinam rhetoricam docuit. De quo Cicero sic refert: “memoria teneo pueris nobis primum
Latine docere coepisse Plotium quendam”; in questo passo viene data per l’attività di Plozio un’indicazione
cronologica, ovvero il primo anno della centosettantatreesima Olimpiade, cioè l’88-87 a.C.).
> Possiamo chiederci: quali furono le novità introdotte da Plozio tramite il docere Latine? Come furono
accolte queste novità da quelli che Cicerone definisce doctissimi homines, cioè l’èlite culturale romana
dell’epoca (Possiamo chiederci: chi erano questi doctissimi homines? Sicuramente tra questi bisogna
annoverare Lucio Licinio Crasso)? Nostro punto di partenza per rispondere a tali quesiti sarà il dolore provato
dal giovane Cicerone di fronte all’impossibilità, alla limitazione che avverte nel prendere parte a queste
novità.
24/09/20
Pueris nobis ci offre una prima informazione cronologica: è sempre difficile definire in modo preciso i termini
latini indicanti le fasce d’età, ma tendenzialmente per puer si intende un bambino tra i 7 e i 14 anni. Cicerone
nacque nel 106 a.C., quindi questa informazione ci riporta al primo decennio del I secolo a.C. Possiamo già
notare come questo dato non si concilia con la datazione proposta da Girolamo circa l’attività di Plozio Gallo,
che è leggermente più tarda (non si tratta di un elemento anomalo, in quanto Girolamo spesso riporta date
non del tutto precise).
Latine docere: insegnamento della retorica in lingua latina, il cui primato (primum) è attribuito a Lucio Plozio
Gallo (Plotium quendam: secondo alcuni quendam ha un’accezione dispregiativa; tuttavia, quendam poteva
avere anche soltanto valore indefinito).
Cicerone contrappone, in modo più o meno esplicito, il Latine docere alle Graecae exercitationes che,
evidentemente, dovevano essere la prassi educativa precedente.
Secondo gli antichi, per poter padroneggiare la retorica occorreva la compresenza di tre elementi: natura,
ars ed exercitatio; qui Cic. insiste soprattutto sull’aspetto pratico, sull’exercitatio. Secondo l’Arpinate, le
Graecae exercitationes consentirebbero meglio di nutrire l’ingegno (ali melius ingenia) > Si profila una
situazione di contrasto tra due metodi educativi, che in realtà nasconde un contrasto più grande, quello tra
mondo latino e mondo greco.
> Grazie ai riferimenti fatti dallo stesso Cicerone all’interno della sua opera letteraria siamo in grado di avere
un quadro abbastanza chiaro e completo circa la sua educazione. Sembrerebbe che Cic. ricevette la prima
educazione in casa, e cominciò ad andare a scuola una volta trasferitosi con la famiglia a Roma (96-92 ca.
studio della grammatica; 91 ca. studio della retorica; 90 ca. tirocinium fori, ovvero una sorta di apprendistato
in cui i membri dell’èlite venivano assegnati a dei tutores che facevano avere loro un primo contatto, nel
Foro, con la vita politico-giudiziaria di Roma). Da un passaggio de De legibus sappiamo che dovette studiare
a memoria il testo delle Dodici Tavole; sappiamo che dovette studiare greco e latino; Plutarco ci informa sui
riconoscimenti ricevuti da Cic. come studente. Riusciamo a ricostruire un percorso di formazione di assoluta
eccellenza.
Nicola Gentile
Sappiamo che Cicerone compì anche diversi viaggi per motivi di studio (ad es. nel 79 a.C. a Rodi, per seguire
le lezioni di Posidonio di Apamea e Apollonio, figlio di Molone); come ci informa Svetonio, fino alla pretura
Cicerone ebbe l’abitudine di Graece declamitare.
(93) Verborum eligendorum et collocandorum et concludendorum facilis est vel ratio vel sine ratione ipsa
exercitatio.
Rerum est silva magna, quam cum Graeci iam non tenerent ob eamque causam iuventus nostra dedisceret
paene discendo, etiam Latini, si diis placet, hoc biennio magistri extiterunt; quos ego censor edicto meo
sustuleram, non quo, ut nescio quos dicere aiebant, acui ingenia adulescentium nollem, sed contra ingenia
obtundi nolui, corroborari impudentiam.
(94) Nam apud Graecos, cuicuimodi essent, videbam tamen esse praeter hanc exercitationem linguae
doctrinam aliquam et humanitate dignam scientiam; hos vero novos magistros nihil intellegebam posse
docere, nisi ut auderent; quod etiam cum bonis rebus coniunctum per se ipsum est magno opere fugiendum.
Hoc cum unum traderetur et cum impudentiae ludus esset, putavi esse censoris, ne longius id serperet,
providere.
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humanitatem dignam scientia L : humanitate dignam scientiam Lambinus
Traduzione: La teoria – e lo stesso esercizio privo di teoria – di come vanno scelte, collocate e armonizzate
le parole è facile.
La selva degli argomenti invece è grande e, dal momento che i Greci non ne avevano perizia e i nostri giovani
quasi disapprendevano nell’atto stesso dell’apprendimento, negli ultimi due anni sono spuntati, agli dei
piacendo, anche maestri latini; ed io, in qualità di censore, con un mio editto li avevo tolti di mezzo, non
perché – come sosteneva non so chi – non volessi che l’intelligenza dei ragazzi venisse aguzzata ma, al
contrario, perché non volevo che questa venisse spuntata, e che si rafforzasse l’impudenza.
Infatti presso i Greci, di qualsivoglia sorta fossero, vedevo tuttavia che vi era, oltre a questa esercitazione
linguistica, una certa dottrina ed un sapere degno di cultura; non capivo invece cosa potessero insegnare
questi nuovi maestri, se non l’osare: la qual cosa, anche se congiunta con buone doti, di per sé stessa è
assolutamente da evitare. E poiché si insegnava solo questo – ed essendovi una scuola d’impudenza -, ritenni
fosse compito del censore prendere provvedimenti affinché ciò non si propagasse più a lungo.
Il De oratore, databile al 55-54 a.C., è un dialogo platonico ambientato nella villa tuscolana di Lucio Licinio
Crasso nel 91 a.C, quindi esattamente nel periodo della formazione scolastica di Cicerone.
93. Ratio: “teoria”, qui contrapposto ad exercitatio sine ratione, ossia l’ “esercitazione priva di teoria”.
Cicerone fa qui riferimento ad un fatto preciso, avvenuto nell’anno in cui Lucio Licinio Crasso fu censore,
ovvero il 92 a.C.. Il brano inizia con una contrapposizione tra uerba e res: la sezione difficile da padroneggiare
è quella della inuentio retorica, quella relativa alle res; secondo Crasso, l’inefficienza dei maestri greci ha fatto
sì che iniziassero ad apparire, grossomodo nel 93 a.C. (hoc biennio) dei Latini magistri (attenzione
all’esclamazione usata da Crasso, si diis placet, di norma usata per esprimere stupore misto a sdegno) > 92
a.C.: reazione forte del censore Crasso, che con un editto (edicto meo) tolse di mezzo (sustuleram: perché il
piuccheperfetto?) i maestri latini. Notiamo come la critica di Crasso non è tanto una critica di stampo tecnico,
Nicola Gentile
bensì piuttosto di stampo moralistico (sed…impudentiam); inoltre, veniamo informati anche delle reazioni
negative all’editto (ut… nollem).
25/09/20
94. humanitatem dignam scientia L : humanitate dignam scientiam Lambinus > la correzione del Lambinus è
necessaria? E fino a che punto è lecito difendere il testo tradito?
Il testo adottato dalla maggior parte degli editori tiene conto della correzione del Lambinus, che mette in
questo modo sullo stesso piano doctrinam e scientiam.
Sulla base di questo passo gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che fra i doctissisimi homines
citati da Cicerone nel frammento di epistola dovesse esservi anche Lucio Licinio Crasso. Appare evidente che
la critica ai Latini magistri non si limitasse alla questione linguistica ma coinvolgesse anche, e forse
soprattutto, aspetti morali e più generalmente culturali.
La tradizione dell’opera di Seneca il Vecchio ha subito numerose vicissitudini; l’edizione critica di riferimento
è la teubneriana a cura di L. Hakanson, 1989.
L’opera ci è stata tramandata, in parte, attraverso excercpta; il testo della prefazione al secondo libro, che
noi tratteremo, ci è appunto tramandato unicamente da codici contenenti degli excerpta.
Habuit et Blandum rhetorem praeceptorem, qui eques Romanus Romae docuit; ante illum intra libertinos
praeceptores pulcherrimae disciplinae continebantur, et minime probabili more turpe erat docere quod
honestum erat discere.
Nicola Gentile
Nam primus omnium Latinus rhetor Romae fuit puero Cicerone Plotius.
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Cic. or. 145 : Num igitur aut latere eloquentia potest aut id quod dissimulat effugit aut est periculum ne quis
putet in magna arte et gloriosa turpe esse docere alios id quod ipsi fuerit honestissimum discere?
Traduzione: Ebbe come maestro anche il retore Blando, cavaliere romano che insegnò a Roma; prima di lui,
l’insegnamento delle discipline più belle era affidato a maestri liberti, ed era assolutamente inverosimile che
fosse considerato vergognoso insegnare ciò che era nobile apprendere. Infatti, fra tutti, il primo retore latino
a Roma fu Plozio, quando Cicerone era fanciullo.
Seneca descrive qui il percorso di studi del filosofo Papirio Fabiano, il quale ebbe tra i vari maestri un certo
Blando, eques Romanus (contrapposizione tra l’eques Romanus e i libertinos praeceptores: prima di Blando
sembrerebbe che l’insegnamento fosse quindi affidato a persone di rango non elevato).
minime probabili more turpe erat docere quod honestum erat discere (Cf. Cic. or. 145 > numerosi punti di
contatto con l’affermazione di Seneca il vecchio, che molto probabilmente ha in questo testo di Cicerone il
proprio modello).
Nam primus omnium Latinus rhetor Romae fuit puero Cicerone Plotius: anche qui abbiamo un riferimento a
Plozio Gallo, di cui ci viene detto che fu il primo retore latino che insegnò a Roma. Da dove Seneca ricava
queste informazioni? Secondo l’ipotesi di J. Fairweather (forse non necessaria, secondo Pirovano) …, Seneca
il Vecchio poteva avere tra le mani un testo di grammatica, forse quello di Cornelio Nepote, in cui si faceva
riferimento a Plozio Gallo; tuttavia, a ben vedere le informazioni presenti in questo passo sono tutte ricavabili
dall’epistola a Titinio di Cicerone, e anche in altri passi Seneca dimostra di conoscere e riutilizzare Cicerone.
30/09/20
Il Dialogus de oratoribus è stato soggetto a problemi di autenticità: una parte della critica, infatti, ritiene che
quest’opera non sia autenticamente di Tacito, per motivazioni di vario tipo. Ad esempio, non abbiamo
informazioni esplicite su quest’opera negli autori antichi (tuttavia, occorre notare che questo “problema”
coinvolge anche le altre opere minori di Tacito, e quindi potrebbe non avere particolare rilevanza); in secondo
luogo, nel Dialogus abbiamo uno stile diverso da quello solito di Tacito, uno stile che potremmo quasi definire
“ciceroniano” – rispetta sostanzialmente le norme stilistiche indicate da Quintiliano – in contrasto a quello
usuale dell’autore che, quasi per definizione, è “anticiceroniano” (tuttavia, è possibile che l’adesione al
genere del dialogo comportasse anche l’adesione ad un certo stile; secondo alcuni autori, invece, il Dialogus
potrebbe essere un’opera giovanile di Tacito, e questo spiegherebbe le differenze stilistiche con le opere
della maturità); infine, anche il nome dell’autore non era specificato nella inscriptio del Codex Hersfeldensis,
ma forse compariva soltanto in chiusura, nella subscriptio. La tradizione manoscritta di questa opera di Tacito
(così come quella delle sue altre opere minori) è legata alla tradizione del De grammaticis et rhetoribus di
Svetonio (vd. supra, Codex Hersfeldensis).
Circa la datazione dell’opera, la maggioranza degli studiosi ritiene che si tratti di un’opera successiva alla
morte di Domiziano e successiva alla pubblicazione dell’Institutio Oratoria di Quintiliani (quindi all’incirca
post 96 d.C.); un’ipotesi lega la composizione dell’opera ad uni dei dedicatari, Fabio Giusto, console nel 102
d.C; altri autori ancora hanno cercato di datare il Dialogus sulla base del rapporto con alcune epistole di Plinio
(tuttavia, le stesse epistole di Plinio presentano problemi di datazione). Con una buona approssimazione,
pertanto, possiamo concludere che l’opera venne composta e pubblicata a cavallo tra la fine del I secolo e
l’inizio del II. Quando è ambientato il dialogo (data drammatica)? I riferimenti proposti da Tacito non sono
Nicola Gentile
perfettamente combacianti; possiamo affermare comunque che la conversazione sia ambientata, all’incirca,
negli anni ’70 del I secolo.
Struttura dell’opera > la struttura dell’opera comporta riflessioni di natura filologica. Il problema principale
del testo è costituito da una lacuna, che occupa uno spazio difficilmente determinabile (secondo alcuni
studiosi la lacuna occupa uno spazio esteso, secondo altri uno spazio esiguo); la lacuna si colloca tra gli attuali
paragrafi 35 e 36. L’opera si apre con la dedica a Giulio Materno; si ha poi un’introduzione al dibattito su
poesia e retorica, in cui Tacito dice di aver assistito quando era giovane alla conversazione in seguito
riportata; abbiamo poi il primo discorso di Apro (uno dei maestri di Tacito), il quale elogia l’eloquenza e la
descrive come la migliore delle arti; a seguire, abbiamo la replica di Materno, il quale elogia la poesia che
rappresenterebbe una sorta di ritorno all’età dell’oro; intermezzo: Messalla, sostenitore della superiorità del
passato (laudator temporis acti), introduce il dibattito tra l’oratoria antica e oratoria moderna (vero tema
dell’opera: quali sono le cause della decadenza dell’oratoria moderna?); secondo discorso di Apro, che mette
in discussione l’assunto che la retorica moderna sia inferiore, e la difende; intervento di Materno, che critica
quanto detto Apro e dà la parola a Messalla; Messalla elogia l’oratoria antica, portando come esempio
Demostene e Cicerone; intermezzo; secondo discorso di Messalla, che descrive la decadenza dell’oratoria in
chiave morale (pigrizia dei giovani; corruzione morale dei genitori; crisi della scuola > posizione di Quintiliano
nella sua opera – perduta – De causis corruptae eloquentiae); intermezzo e completamento del discorso di
Messalla, che elogia il tirocinium fori, purtroppo sostituito dal metodo greco; lacuna; discorso di Materno,
che invece attribuisce le cause della decadenza oratoria alla situazione politica contemporanea (il Principato
limita la libertà, rende inutili i dibattiti oratori, ma è un limite necessario > tradizionalmente, parlando
Materno per ultimo, si ritiene che egli sia il portavoce di Tacito); conclusione.
Non è chiaro il contenuto della lacuna, ma sappiamo per certo che essa si trovava già nel Codex Hersfeldensis,
in quanto indicata dai copisti. Se ipotizziamo una lacuna di breve estensione, essa probabilmente doveva
contenere soltanto la conclusione del discorso di Messalla; se invece ipotizziamo una lacuna estesa, è
probabile addirittura che sia venuto a mancare anche l’intero intervento di un altro personaggio.
(1) At nunc adulescentuli nostri deducuntur in scholas istorum, qui rhetores vocantur, quos paulo ante
Ciceronis tempora extitisse nec placuisse maioribus nostris ex eo manifestum est, quod a Crasso et Domitio
censoribus claudere, ut ait Cicero ludum impudentiae iussi sunt.
(2) Sed ut dicere institueram, deducuntur in scholas, <in> quibus non facile dixerim utrumne locus ipse an
condiscipuli an genus studiorum plus mali ingeniis adferant.
(3) Nam in loco nihil reverentiae est, in quem nemo nisi aeque imperitus intrat; in condiscipulis nihil profectus,
cum pueri inter pueros et adulescentuli inter adulescentulos pari securitate et dicant et audiantur; ipsae vero
exercitationes magna ex parte contrariae.
(4) Nempe enim duo genera materiarum apud rhetoras tractantur, suasoriae et controversiae. Ex his
suasoriae quidem [etsi] tamquam plane leviores et minus prudentiae exigentes pueris delegantur,
controversiae robustioribus adsignantur, quales, per fidem, et quam incredibiliter compositae. Sequitur
autem, ut materiae abhorrenti a veritate declamatio quoque adhibeatur.
(5) Sic fit ut tyrannicidarum praemia aut vitiatarum electiones aut pestilentiae remedia aut incesta matrum
aut quidquid in schola cotidie agitur, in foro vel raro vel numquam ingentibus verbis prosequantur: cum ad
veros iudices ventum . . .
_____________________________________________
cludere AB : eludere V : claudere DE
<in> add. Schurzfleisch
Nicola Gentile
Traduzione: 1) Ma adesso i nostri ragazzi sono condotti nelle scuole di costoro, i cosiddetti retori; e che questi
comparvero poco prima dei tempi di Cicerone e che non piacquero ai nostri antenati è reso manifesto da ciò,
cioè dal fatto che ricevettero ordine dai censori Crasso e Domizio di chiudere la loro “scuola d’impudenza”,
come la chiama Cicerone. 2) Ma come avevo incominciato a dire, vengono condotti in scuole nelle quali mi è
difficile dire se sia il luogo stesso, oppure i condiscepoli, o ancora la tipologia degli studi ad arrecare il danno
maggiore alle loro intelligenze. 3) Infatti in quel luogo, dove non entra nessuno che sia più competente, non
c’è alcuna forma di rispetto; tra i condiscepoli non vi è alcun progresso, dal momento che fanciulli tra fanciulli,
ragazzi tra ragazzi, parlano e si ascoltano tra di loro con ugual negligenza; e a dire il vero le stesse esercitazioni
sono per la gran parte controproducenti. 4) Ed infatti due sono le tipologie di argomenti trattate presso i
retori: le suasorie e le controversie. Di queste, le suasorie – considerate senza dubbio più facili e per le quali
è richiesta minor perizia – vengono affidate ai fanciulli; le controversie, invece, sono assegnate ai ragazzi più
esperti. Che razza di esercizi, per la miseria, e di quale assurdità! Ne consegue inoltre che, per un soggetto in
contrasto con la verità, si faccia anche uso di un tono declamatorio. 5) E così accade di sentir parlare ogni
giorno, nelle scuole, dei premi per i tirannicidi, delle opzioni concesse alle donne violentate, dei rimedi per la
peste, degli incesti commessi dalle madri o di qualunque altra cosa venga trattata in quegli ambienti; nel
Foro, invece, se ne sente parlare raramente oppure mai. Quando si giunge di fronte a veri giudici …
Siamo nel punto in cui Messalla descrive il passaggio dal tirocinium fori al metodo della controuersiae e delle
suasoriae.
At nunc (contrapposizione passato – presente); per la scuola dei Greci non viene utilizzato il termine latino
ludus, bensì schola; Messalla ci dà anche un elemento di datazione (paulo ante Ciceronis tempora,
indicazione non precisissima, forse da intendere “quando Cicerone era ancora un alunno, prima del suo
ingresso nella scena politica romana”); il verbo placeo ricorre nell’editto dei censori Crasso e Domizio
Enobarbo; claudo/cludo: piccolo problema filologico, ma il significato delle due lezione è pressoché la stessa.
Ci interessa il dato storico: i censori Crasso e Domizio Enobarbo chiusero effettivamente le scuole di retorica?
Oppure si tratto piuttosto di una “grida”?; ludum impudentiae è citazione esplicita di Cicerone (vd. supra);
ingeniis: abbiamo visto come gli ingenia sono menzionati anche nel passo del De oratore e nella lettera a
Titinio. Messalla individua quindi tre elementi negativi che caratterizzano il nuovo insegnamento delle scuole
di retorica: la mancanza di rispetto (nihil reuerentiae est); la mancanza di competizione (problema
pedagogico dibattuto tra gli antichi: era vantaggioso includere nella stessa classe studenti di età diverse?
Quintiliano, ad esempio, era contrario a questa pratica in quanto, a suo dire, avrebbe comportato abusi di
vario tipo nelle classi); esercitazioni controproducenti (ipsae exercitationes contratiae > contrarius: ThlL i.q.
noxius, damnosus [opp. utilis]). Viene poi introdotta la questione delle declamazioni (gr. melètai; lat.
suasoriae/deliberative e controuersiae/giudiziarie), comunemente ritenute l’elemento caratteristico –
innovativo e distintivo – del nuovo tipo di oratoria dei rhetores; secondo Messalla il problema insito nelle
declamazioni è la loro lontananza dalla realtà (> paragone implicito con tirocinium fori, che invece metteva a
diretto contatto con la realtà politica). Tamquam introduce un pensiero soggettivo.
[etsi, al paragrafo 4, è solitamente espunto dagli editori in quanto si ipotizza che fosse originariamente glossa
di tamquam, poi finita accidentalmente nel testo; secondo altri (ipotesi forse meno probabile), si potrebbe
ipotizzare la presenza di una lacuna dopo etsi].
Contrapposizione in foro – in schola; elenco di temi ricorrenti nelle declamazioni; qui si apre la lacuna.
Nonostante le critiche, le declamationes ebbero grandissimo successo di pubblico a Roma. Anche Quintiliano
muove delle critiche alle declamazioni, sebbene mostri un atteggiamento meno pessimista e creda che
queste possano essere ricondotte ad una certa aderenza alla realtà.
Nicola Gentile
1/10/20
Quali possono essere le fonti di Tacito? Le informazioni derivano tutte da Cicerone? Che valore hanno le
osservazioni di Tacito a quasi duecento anni di distanza dagli avvenimenti?
Da un lato sembrerebbe esserci una fonte esplicita, ossia Cicerone, di cui viene citato il passo del De oratore;
tuttavia, ci sono degli elementi non ricavabili da Cicerone (ad esempio, il nome del secondo censore), che
Tacito poteva derivare da una sua conoscenza personale o dalla consultazione di un documento ufficiale (ad
es. il testo stesso dell’editto; a conferma di ciò, anche alcuni termini presenti in Tacito ritornano nell’editto).
L’editto, inoltre, non dice che le scuole vennero effettivamente chiuse (mentre in Tacito si dice esplicitamente
cludere scholas; è probabile che Tacito avesse tra le mani un’altra fonte, o che la sua fosse una deduzione).
(41) His fere veteres facultatem dicendi exercuerunt, adsumpta tamen a dialecticis argumentandi ratione.
Nam fictas ad imitationem fori consiliorumque materias apud Graecos dicere circa Demetrium Phalerea
institutum fere constat.
(42) An ab ipso id genus exercitationis sit inventum, ut alio quoque libro sum confessus, parum comperi: sed
ne ii quidem qui hoc fortissime adfirmant ullo satis idoneo auctore nituntur. Latinos vero dicendi praeceptores
extremis L. Crassi temporibus coepisse Cicero auctor est: quorum insignis maxime Plotius fuit.
Traduzione: 41) Questi all’incirca sono i temi con i quali gli antichi esercitarono la propria facoltà della parola,
una volta tuttavia derivata dagli studi di dialettica la dottrina dell’argomentazione. Presso i Greci infatti, ai
tempi di Demetrio Falereo, vi era una tipologia di insegnamento che consisteva pressappoco
nell’argomentare soggetti fittizi ad imitazione di quelli che si discutevano nel Foro o nelle assemblee. 42) Se
questo tipo di esercizio sia stato inventato dallo stesso [scil. Demetrio Falereo], come ho già confessato anche
in un altro libro, non ne sono sicuro: ma neppure quelli che lo sostengono fermamente appoggiano su alcun
testimone abbastanza degno di fede. Al contrario, del fatto che durante gli ultimi anni di vita di L. Crasso ebbe
inizio l’attività dei maestri di retorica latini ce ne informa Cicerone: e fra questi ebbe fama soprattutto Plozio.
Alla fine del I e l’inizio del II libro della sua opera Quintiliano passa in rassegna una serie di esercizi retorici
che rappresentavano il primo percorso di studio nelle scuole di retorica; una volta completati questi esercizi
(di norma 12 o 14), lo studente passava all’esercizio delle declamationes. Dopo aver descritto questi esercizi
nella loro successione, Quintiliano offre – un po’ all’improvviso – un’informazione a proposito delle
declamazioni.
Dialecticis: n. pl. dialectica = studi di dialettica
Circa + acc.: ai tempi di…? (interpretazione di Russell); nel circolo di, presso la scuola di…?
Le fictas materias ad imitationem fori conciliorumque sono, rispettivamente, le controuersiae e le suasoriae.
Quintiliano non sa – come aveva già detto alio libro (molto probabilmente nel De causis corruptae
eloquentiae) – se l’esercizio delle declamazioni in Grecia sia stato inventato dallo stesso Demetrio Falereo,
e dice che anche coloro che sostengono la diretta correlazione tra Demetrio e le declamationes non hanno
una prova certa, non si basano su una fonte autorevole. Ci dice sempre Quintiliano che invece, per quanto
riguarda Roma, abbiamo una fonte autorevole in Cicerone, il quale informa che a Roma negli ultimi anni di
Nicola Gentile
vita di Lucio Crasso iniziò (coepisse indica il passaggio delle declamazioni dalla Grecia a Roma) l’attività dei
retori e, in particolar modo, quella di Plozio Gallo > se questo è vero, allora l’iniziatore delle declamazioni a
Roma sarebbe stato Plozio Gallo.
[alio quoque libro a cosa si riferisce? Al periodo precedente o a quello successivo? Cosa Quintiliano avrebbe
già detto in un’altra opera?]
Quale passo di Cicerone Quintiliano aveva in mente? Quello del De oratore, l’epistola a Titinio, forse
entrambi? Il collegamento con la pratica della declamazione è probabilmente un collegamento autonomo di
Quintiliano, che avrebbe desunto…
02/03/20
Tradizione manoscritta di Suet. DGR (Kaster 2016, p. LIII) > la tradizione del DGR è basata sulla tradizione
del Dialogus di Tacito e riconduce ad un archetipo non conservato W (quasi sicuramente non il Codex
Hersfeldensis, bensì una copia della copia umanistica dell’Hersfeldensis; ciò è dimostrabile attraverso una
serie di errori, comuni ai due rami della tradizione, dovuti alla mancata comprensione di segni di
abbreviazione introdotti dalla prima copia di età umanistica); la tradizione manoscritta delle Noctes Atticae
di Gellio (che attinge a Svetonio) ci ha conservato un testo migliore di Svetonio, che è servito soprattutto ad
emendare.
(1) Rhetorica quoque apud nos perinde atque grammatica sero recepta est, paululo etiam difficilius quippe
quam constet nonnumquam etiam prohibitam exerceri.
(2) Quod ne cui dubium sit vetus <S. C.> item censorum edictum subiciam:
«<C.> Fannio Strabone M. Valerio Messalla coss. M. Pomponius praetor senatum consuluit. Quod verba
facta sunt de philosophis et <de> rhetoribus, de ea re ita censuerunt ut M. Pomponius praetor
animadverteret curaretque, uti ei e re publica fideque sua videretur, uti Romae ne essent».
De isdem interiecto tempore Cn. Domitius Ahenobarbus <et> L. Licinius Crassus censores ita edixerunt:
«Renuntiatum est nobis esse homines qui novum genus disciplinae instituerunt, ad quos iuventus in ludum
conveniat, eos sibi nomen imposuisse Latinos rhetoras, ibi homines adulescentulos dies totos desidere.
Maiores nostri quae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent instituerunt. Haec nova, quae praeter
consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent neque recta videntur.
Quapropter et iis qui eos ludos habent et iis qui eo venire consuerunt visum est faciundum ut ostenderemus
nostram sententiam: nobis non placere».
Paulatim et ipsa utilis honestaque apparuit multique eam et praesidii causa et gloriae appetiverunt.
__________________________________________________________
<S.C.> om. Ω : suppl. Steph. e Gell.
censorum α Kaster 1995, 2016 : censorium β Vacher 2003
<C.> om. Ω : suppl. Steph. e Gell. │ <de> om. Ω suppl. Steph. e Gell.
<et> om. ω : suppl. Steph. e Gell. │ renuntiatum O codd. Gell. : ne renuntiatum ω │ visum est codd. Gell. :
visum Stephanus : videtur ω
Traduzione: 1) Anche la retorica, così come la grammatica, ebbe una ricezione tardiva presso di noi, e anche
un po’ più difficoltosa, dal momento che talvolta, evidentemente, ne era finanche proibita la pratica.
Nicola Gentile
2) E affinché non vi sia alcun dubbio a riguardo riporterò, di seguito, un antico senatoconsulto e, parimenti,
un editto dei censori.
«Durante il consolato di C. Fannio Strabone e M. Valerio Messalla il pretore M. Pomponio consultò il senato.
Ed avendo avuto luogo un dibattito circa i filosofi ed i retori, riguardo a tale questione così deliberarono: “Il
pretore M. Pomponio badi e provveda, in modalità che si accordino col pubblico interesse e col suo stesso
dovere, affinché a Roma non vi siano questi uomini».
Riguardo agli stessi, trascorso del tempo, i censori Gn. Domizio Enobarbo e L. Licinio Crasso emanarono
questo editto: «Ci è stato riferito che vi sono degli uomini che hanno istituito un nuovo tipo di insegnamento,
presso la cui scuola i giovani si riuniscono; che questi si sono attribuiti il nome di “retori latini”, e che in quel
luogo i giovani passano tutti i giorni ad oziare. I nostri antenati stabilirono quali argomenti volevano che
imparassero i loro figli, e in quali scuole volevano che si recassero. E queste nuove pratiche, che vanno oltre
la consuetudine ed il costume dei nostri avi, né piacciono né sembrano oneste. Ragion per cui ci è sembrato
opportuno presentare a coloro che presiedono queste scuole e a coloro che sono soliti frequentarle il nostro
giudizio: a noi non piace».
In questo passo Svetonio riporta il testo di un antico senatusconsultum (> Censorum o censorium? Queste
due lezioni hanno uguale peso stemmatico, sono adiafore, quindi tocca a noi effettuare una selectio. Secondo
Vacher, è più facile ipotizzare che un originario censorium diventasse censorum) e dell’editto dei censori
Crasso e Domizio > si richiama l’elemento di novità (haec noua: ricorda la connotazione negativa del termine
nouus in latino); praeter consuetudinem ac morem maiorum;
[uisum est è una lezione che deriva dai codici di Gellio; la tradizione manoscritta di Svetonio riporta invece la
lezione videtur, anch’essa accettabile, ma meno preferibile (secondo Kaster, è possibile che la lezione videtur
sia erronea e dovuta al videntur che conclude il periodo precedente)]
Paulatim dà l’idea del lungo processo attraverso il quale, gradualmente, la retorica si impose a Roma ed inziò
ad apparire utilis honestaque. Subito dopo Svetonio fornisce il nome di una serie di personaggi che si
accostarono alla retorica e all’esercizio delle declamationes: primo fra questi è Cicerone.
Siamo sempre nel II secolo d.C., si ritiene che le Noctes Atticae furono pubblicate nell’ultimo quarto circa del
II secolo d.C. L’opera contiene una serie impressionanti di fatti, di notizie di contenuto ed argomento vario,
che Gellio dice di aver ricavato dalle sue letture. Tra le varie notizie riportate da Gellio sono presenti anche i
due provvedimenti (senatoconsulto e editto censorio) che abbiamo letto in Svetonio, nello stesso ordine.
XI. VERBA SENATUSCONSULTI DE EXIGENDIS URBE ROMA PHILOSOPHIS; ITEM VERBA EDICTI CENSORUM,
QUO INPROBATI ET COERCITI SUNT, QUI DISCIPLINAM RHETORICAM INSTITUERE ET EXERCERE ROMAE
COEPERANT.
(1) C. Fannio Strabone M. Valerio Messala coss. senatusconsultum de philosophis et de rhetoribus factum est:
“M. Pomponius – uti Romae ne essent”.
(2) Aliquot deinde annis post id senatusconsultum Cn. Domitius Ahenobarbus et L. Licinius Crassus censores
de coercendis rhetoribus Latinis ita edixerunt: “Renuntiatum est nobis – nobis non placere”.
Nicola Gentile
__________________________________________
de rhetoribus Pighius Marshall : de rhetoribus Latinis ω
Traduzione: XI. PAROLE DEL SENATOCONSULTO RELATIVO ALLA CACCIATA DEI FILOSOFI DA ROMA;
PARIMENTI, PAROLE DELL’EDITTO DEI CENSORI CON CUI FURONO RESPINTI E TENUTI A FRENO COLORO
CHE AVEVANO INIZIATO AD ISTITUIRE E PRATICARE A ROMA LA DISCIPLINA RETORICA.
1) Durante il consolato di C. Fannio Strabone e M. Valerio Messalla si ebbe un senatoconsulto relativo ai
filosofi e ai retori: “M. Pomponio – affinché a Roma non vi siano [questi uomini]”.
2) Qualche anno dopo questo senatoconsulto i censori Gn. Domizio Enobarbo e L. Licinio Crasso emanarono
questo editto riguardo alla repressione dei retori latini: “Ci è stato riferito – a noi non piace”.
Abbiamo un titolo che introduce i testi dei due provvedimenti: “XI. Uerba senatusconsulti de exigendis urbe
roma philosophis; item uerba edicti censorum, quo inprobati et coerciti sunt, qui disciplinam rhetoricam
instituere et exercere romae coeperant”.
[problema testuale esclusivo di Gellio: de rhetoribus è frutto di una correzione del Phigius, accolta anche da
Marshall e da edizione Les Belles Lettres, che va contro l’autorità di tutti i manoscritti di Gellio, che riportano
la lezione de rhetoribus Latinis. Kaster, nel suo commento a Svetonio, cerca di spiegare la presenza di Latinis:
una prima possibilità è che l’errore sia di Gellio, che avrebbe commesso l’errore perché aveva come fonte
Svetonio e avrebbe aggiunto Latinis per meglio precisare il de isdem presente in Svetonio; altrimenti, bisogna
ipotizzare che l’errore non sia di Gellio, ma che si sia formato nel corso della tradizione manoscritta].
Da dove deriva a Gellio la notizia di queste informazioni? Essendo Gellio - di poco – più recente di Svetonio,
possiamo ipotizzare che Gellio dipenda da Svetonio (molto probabile) o che sia Gellio sia Svetonio dipendano
da una terza fonte comune, che non sappiamo dove collocare (ipotesi ancora tutta da dimostrare).
> Occorre sottolineare la fragilità e la precarietà attraverso le quali ci sono giunte le informazioni che abbiamo
preso in considerazione; abbiamo il testo dell’editto di Crasso ed Enobarbo, conservato nel DGR di Svetonio
(da cui dipende anche la nostra conoscenza dell’epistola a Titinio di Cicerone); abbiamo poi le informazioni
sparse e rileggibili alla luce di questo editto in altri autori (Seneca il Vecchio, Tacito, Quintiliano, Gellio).
Quadro riassuntivo delle fonti prese in esame > le prime due testimonianze che ci parlano di questo stato di
cose sono le fonti di Cicerone (De oratore ed Epistola a Titinio, probabilmente successiva – di poco – al DO);
la fonte successiva è Seneca il Vecchio, ad una distanza già notevole dai fatti narrati, la cui fonte è quasi
sicuramente Cicerone (probabilmente Seneca poteva conoscere anche l’Epistola a Titinio); abbiamo poi
Quintiliano, la cui fonte è Cicerone (quale Cicerone aveva in mente Quintiliano? Sicuramente il DO, meno
probabile la conoscenza dell’Epistola); a seguire il Dialogus di Tacito – pressoché contemporaneo alla fonte
di Quintiliano – la cui fonte, esplicitamente dichiarata, è il DO (tuttavia, alcune informazioni sull’editto
presenti nel Dialogus sembrerebbero non ricavabili da Cicerone, e Tacito le avrebbe pertanto ricavate
altrove, forse da documenti ufficiali quali il testo stesso dell’editto); Svetonio, in qualche modo, ha accesso
diretto al testo dell’editto che riporta nel DGR per parlare delle origini e dell’impatto della retorica greca a
Roma; da Svetonio parrebbe attingere direttamente Gellio.
N.B. Un aspetto da tenere in considerazione è la distanza temporale degli autori dai fatti narrati, che
sicuramente influisce sulla loro conoscenza degli eventi.
> Come interpretare il testo dell’editto? Il testo, sebbene apparentemente semplice, ha nel tempo subito
diverse e contrapposte interpretazioni. Due sono le linee interpretative principali:
Nicola Gentile
1) in chiave politica (Friedrich Marx, cf. edizione della Rhetorica ad Herennium): secondo Marx, i rhetores
Latini in qualche modo rappresentavano un’istanza dei populares, i quali avevano cercato di sostituire
l’insegnamento in lingua greca con un insegnamento in lingua latina (meno costoso, più facilmente
accessibile, aperto ad una piattaforma più ampia di studenti); la novità introdotta da Plozio avrebbe avuto
quindi carattere antiellenistico, nazionalistico, “popolare”, e Plozio avrebbe avuto in ciò una funzione di
rilievo in quanto considerato vicino al leader dei populares, Gaio Mario; [Ma è possibile dimostrare che Plozio
Gallo militasse nell’ambiente dei populares?]; anche Zecchini sostiene la valutazione politica dell’editto
censorio, ma ne offre un’interpretazione leggermente diversa: secondo Zecchini, cioè, la chiusura delle scuole
dei Latini rhetores (ammesso che questa ebbe effettivamente luogo) sarebbe stata un provvedimento anti-
italico, volto cioè a limitare l’accesso dei socii italici al sistema educativo romano;
2) in chiave pedagogica (cf. Maria Tania Luzzato 2002): la Luzzato confuta molto duramente l’ipotesi
interpretativa di Marx, che definisce un “depistaggio”, e rileva una contraddizione: come è possibile che i
censori difendano il mos maiorum e, al tempo stesso, condannino l’insegnamento in lingua latina? L’accento
non va posto su Latini, bensì su rhetores, e lo scandalo allora non era nell’insegnamento effettuato in lingua
latina, bensì nel fatto che i nuovi maestri si professassero rhetores e che pretendessero di insegnare come in
Grecia, cioè di insegnare agli adulescentes (i quali, tradizionalmente, a Roma non andavano più a scuola bensì
effettuavano il cosiddetto tirocinium Fori). I censori quindi non avrebbero accettato di buon grado il processo
di ellenizzazione che avrebbe modificato il sistema educativo – e conseguentemente l’ordine sociale, in
quanto gli adulescentes venivano così sottratti al controllo e alla supervisione degli adulti che avveniva
attraverso il tirocinium Fori – allora vigente a Roma. Secondo questa interpretazione, dunque, l’operazione
effettuata da Plozio non sarebbe stata antielennica, bensì filellenica, in quanto avrebbe importato a Roma
un metodo pedagogico eminentemente greco.
07/10/20
Seneca ci parla della questione di Plozio Gallo pensando al problema della dignitas dell’insegnamento;
Quintiliano, Tacito e in parte anche Svetonio ricollegano la notizia relativa all’editto con il tema della crisi
della retorica e della diffusione della pratica delle declamationes.
> Uno dei problemi principali della nostra questione è la valutazione della figura di Plozio Gallo e della sua
attività: è possibile ricondurre Plozio Gallo ad un certo ambiente politico? Cf. Cic. Pro Archia, 21 > qui si dice
che Gaio Mario amò in modo eccezionale Lucio Plozio: legame tra Mario e Plozio? Plozio politicamente vicino
ai populares? Si tratta di un legame di tipo politico o semplicemente Mario ammirava Plozio da un punto di
vista professionale (Luzzato)? Secondo alcuni studiosi (ad es. Manzoni, G. Calvoli) proprio questo passo di
Cicerone attesterebbe un legame politico tra Mario e Plozio, che sarebbe quindi stato vicino alla factio dei
populares; sembrerebbe inoltre possibile collegare l’attività di Plozio alla Rhetorica ad Herennium, trattato di
retorica di matrice filopopolare. Sulla base di quali elementi, tuttavia, sarebbe possibile collegare Plozio alla
Rhetorica?
> Per cosa si caratterizzava il ludus, la scuola di Plozio? Nell’Epistola a Titinio è presente l’informazione che i
nuovi maestri insegnassero latine, “in lingua latina”; nelle altre testimonianze l’aggettivo latinus è riferito ai
rhetores: si trattava dunque di retori latini che insegnavano in lingua latina? O di retori stranieri,
verosimilmente greci, che insegnavano in lingua latina ma alla maniera greca?
Qual era l’oggetto del nuovo insegnamento? In cosa queste nuove scuole differivano da quelle tradizionali?
Quasi tutte le fonti sono d’accordo nel connotare questo nuovo tipo di scuola come un’esercitazione pratica;
secondo Tacito e Quintiliano, le nuove esercitazioni vanno identificate con le declamationes. L’editto tuttavia
Nicola Gentile
non menziona l’aspetto pratico del nuovo insegnamento, ma dice soltanto che si tratta di un novus genus
disciplinae.
Cicerone ci dice che la nuova scuola di Plozio ebbe successo tra gli studenti migliori, ma chi erano questi
studenti? Nella Vita di Attico di Cornelio Nepote viene riportata la notizia che anche il figlio di Gaio Mario
fosse studente di questa scuola: ciò tuttavia non ci consente di definire ulteriormente la natura del legame
tra Mario e Plozio di cui ci informa Cicerone nella Pro Archia.
> Il testo dell’editto non riporta un’idea esplicita di chiusura delle nuove scuole; tale idea è presente solo in
Gellio (che l’avrebbe dedotta autonomamente dalla lettura di Svetonio) e in Tacito (cludere/claudere); a tal
proposito Cicerone usa un verbo ambiguo, sustuleram (forse allude ad una chiusura temporanea?
Tendenzialmente le decisioni effettuate dai censori duravano il tempo del loro mandato), e ci informa anche
della reazione all’editto censorio. In ogni caso, anche se le scuole vennero effettivamente chiuse, dovette
trattarsi di una chiusura breve e temporanea in quanto a pochi anni di distanza dell’editto, cioè negli anni
’90, abbiamo la composizione e la pubblicazione di due manuali di retorica in lingua latina, tra cui la Rhetorica
ad Herennium.
Emporius Orator> Secondo l’interpretazione tradizionale Emporio sarebbe stato un retore latino, vissuto tra
il V ed il VI secolo d.C.; la tradizione gli attribuisce quattro capitoletti retorici (pubblicati per l’ultima volta in
Halm, Rhetores Latini Minores, 1863). Si tratta di tre esercizi preliminari, più un capitolo che ha come tema il
genere deliberativo. Secondo Pirovano, fonti principali del testo di Emporio sarebbero state un manuale
greco di retorica (circa V secolo d.C.), da cui avrebbe tratto gli esercizi preliminari, e un più antico manuale
latino di retorica (II secolo d.C. ca.).
> Viene riportata un’informazione relativa alla vita di Giulio Cesare: Emporio descrive l’esercizio preliminare
dell’elogio e del biasimo e, per dimostrarne il funzionamento, ci parla della vita di Giulio Cesare, elogiandolo
e biasimandolo [La vita di Giulio Cesare ci viene raccontata da due biografie antiche principali: Svetonio e
Plutarco, scritte a cavallo tra I e II sec. d.C.; per una coincidenza, entrambe le biografie sono mutile della parte
iniziale, ovvero quella che verosimilmente doveva contenere le informazione relative ai primi anni di vita di
Cesare; gli studiosi hanno cercato di ricostruire il contenuto di queste parti sulla base di altre fonti, senza
tuttavia ottenere grandi risultati]. Quando Emporio elenca gli elementi della vita di Cesare, sembrerebbe
attingere dalla biografia scritta da Svetonio, e l’elemento interessante è che Emporio ci dice anche qualcosa
sull’infanzia di Cesare: se il rapporto tra Emporio e Svetonio viene dimostrato, allora si potrebbe usare
Emporio “reintegrare” il Diuus Iulius di Svetonio.
Laudabitur idem ab institutione: quam plurimam in facundia et dicendi studio fuisse probet †et prima
paupertas et gloria et forensis praestantia consecuta†. Itemque culpabitur, quod adeo non adeptus sit famam
oratoriae facultatis, ut eum Graecae exercitationis expertem fuisse manifestum sit.
________________________________________
Item Voss. : idem PB Halm
ex forensi P : et forensis B Halm
famam Capperonnier : formam PB
exercitationis P : exorationis B
Nicola Gentile
Traduzione:
paupertas: ma Cesare non era di famiglia povera! Molti critici hanno individuato in questo punto una
corruzione del testo e proposto di correggere con pubertas (paupertas potrebbe essere inteso soltanto in
senso metaforico, a voler indicare le “povertà lessicale”); famam è correzione di Capperonier, accettata da
Halm, mentre il testo tradito ha formam (corruzione spiegabile da un punto di vista paleografico); Graecae
exercitationis expertem fuisse: Cesare non si sarebbe dunque esercitato in lingua greca. L’espressione
Graeca exercitatio ricorre in solo due testi della latinità, questo passo e l’epistola a Titinio; inoltre, il fatto che
Cesare non si fosse esercitato in lingua greca è considerato in modo negativo: sembrerebbe quindi che la
prospettiva di Emporio fosse simile a quella dei doctissimi homines di Cicerone, e che Cesare avesse quindi
aderito alla nuova tipologia di insegnamento introdotta da Gallo > N.B. Se queste ipotesi fossero dimostrabili,
allora, forse, potremmo avere un piccolo elemento in più a favore della connotazione politica del ludus di
Plozio Gallo.
Secondo la ricostruzione di Pirovano, Emporio attinge al Divus Iulius di Svetonio (prima che questo perdesse
la propria parte iniziale); è probabile anche che Emporio conoscesse l’Epistola a Titinio e che la citasse
relativamente alle Graecae exercitationes.
La critica che viene mossa a Cesare in questo testo non è di natura linguistica: non si rimprovera la non
conoscenza del greco (Cesare, come sappiamo, conosceva molto bene la lingua greca), bensì il fatto che
Cesare non avesse svolto, in ambito scolastico, le Graecae exercitationes.
08/10/20
A Roma sorge una sorta di rivalità professionale per l’insegnamento dei progymnasmata: sono esercizi di
natura retorica che, ad un certo punto, incominciarono ad essere insegnati anche dai grammatici. Quintiliano
indaga quali ragioni spingerebbero i grammatici ad invadere il territorio dei retori, e quali ragioni avrebbero
i retori per lasciare che ciò accada.
Sistema educativo “standard” > prevedeva sostanzialmente tre passaggi (suscettibili, tuttavia, di variaizoni):
1) età 6/7 – 10/11 anni > scuola del ludi masgister, venivano insegnati i prima elementa (leggere, scrivere,
calcolare; sapere di tipo pratico, utilitaristico, premessa al vero sapere);
2) età 11/12 – 14 anni > scuola del grammaticus, venivano insegnate – secondo la terminologia di Quintiliano
– la recte loquendi scientia (parte metodica, correttezza e purezza del linguaggio) e la poetarum enarratio
(attraverso la lettura dei poeti si insegnava il mos maiorum);
3) età 15 - ? anni > scuola del rhetor, venivano insegnate la inuentio, la dispositio, la elocutio, la memoria e
l’actio (le cinque parti della retorica); dal punto di vista dell’exercitatio, si praticavano i progymnasmata e,
poi, le declamationes (suasoriae e controversiae; non esisteva un esercizio dedicato al genere epidittico).
erano concepiti come discorsi compiuti, bensì come parti (building blocks) da inserire all’interno di un
discorso più ampio.
09/10/20
Quando ebbe inizio l’insegnamento attraverso i progymnasmata? È difficile rispondere: gli studiosi hanno
indicato, paradossalmente, le tracce più antiche di progymnasmata in opere latine (ad es. nella Rhetorica ad
Herennium, nel De oratore e nel De inuentione; tuttavia, bisogna supporre che queste opere derivassero da
fonti greche; inoltre, in queste opere latine manca l’idea della “serie di progymnasmata”).
I progymnasmata non furono un fenomeno soltanto antico: questi esercizi furono utilizzati, ad esempio,
anche nel XVI e nel XVII secolo; inoltre, ancora oggigiorno questa serie di esercizi viene utilizzata in
determinati contesti educativi (ad es. negli USA, in Svezia, etc.).
Avremo a che fare con un problema di fondo: chi deve insegnare i progymnasmata? Sono esercizi che fanno
parte della sfera d’azione del retore o di quella del grammatico? Quintiliano e Svetonio ci informano di una
sorta di disputa professionale sorta a Roma a cavallo tra il I ed il II sec. d.C.
Teniamo presente che l’ Institutio oratoria di Quintiliano rappresenta un unicum nella storia della
manualistica latina: le informazioni teoriche che Quintiliano fornisce sono sempre calate in un determinato
contesto ed interpretate.
La tradizione dell’IO consta di due manoscritti principali del IX secolo: A (Milano, Biblioteca Ambrosiana) e B
(Berna, Burg Bibliotek). Secondo la ricostruzione di M. Winterbottom tutti gli altri codici della tradizione sono
sostanzialmente dei descripti di A e B.
Traduzione: È invalsa l’abitudine, che ogni giorno si rafforza maggiormente, di affidare gli studenti ai maestri
di retorica – a quelli Latini, di sicuro, sempre, ma a volte anche a quelli Greci – più tardi di quanto la ragione
richieda. La causa di ciò è duplice: da una parte i retori, quantomeno i nostri, hanno abbandonato la propria
sfera di competenza, dall’altra i grammatici hanno invaso la sfera altrui.
I titoli posti tra parentesi quadre non risalgono a Quintiliano ma sono aggiunte successive. Nel nostro caso, il
titolo è una stringa ricavata dallo stesso testo quintilianeo.
Quintiliano sottolinea un problema: gli studenti vengono affidati troppo tardi ai retori. Tenuit: Quintiliano
usa il perfetto, ad indicare che il processo si è ormai concluso ed affermato; alla consuetudo Quintiliano
contrappone la ratio: sebbene l’ordine delle cose si sia ormai costituito in un certo modo, la ratio ne
richiederebbe un altro.
[et rhetores: il primo et è necessario ad evidenziare la contrapposizione tra rhetores e grammatici; si accoglie,
pertanto, la lezione di B].
[2] Nam et illi declamare modo et scientiam declamandi ac facultatem tradere officii sui ducunt idque intra
deliberativas iudicialisque materias (nam cetera ut professione sua minora despiciunt), et hi non satis credunt
Nicola Gentile
excepisse quae relicta erant (quo nomine gratia quoque iis habenda est), sed †ad prosopopoeias usque ad
suasorias†, in quibus onus dicendi vel maximum est, inrumpunt.
_____________________________________________
sed ad prosopopoeias usque ad suasorias AB (prosopeias A) : del. R.-W. 2006 : [ad suasorias] Winterbottom
1970 : [ad prosopopoeias] Granatelli : usque [ad] suasorias Kiderlin 1887 : ad prosopopoeias usque <et> ad
suasorias recc. Russell : ad prosopopoeias usque ac suasorias Obrecht 1698 Cousin.
Traduzione: Infatti, da un lato quelli (i retori) ritengono che faccia parte del loro compito soltanto declamare
ed insegnare la teoria e la pratica della declamazione, e questo limitatamente a temi deliberativi e giudiziari
(in effetti disprezzano tutte le altre cose come se fossero indegne del loro mestiere); questi (i grammatici)
non credono sufficiente l’aver raccolto le cose che erano state lasciate loro (a questo riguardo bisogna anche
render loro grazie), ma sconfinano † fino alle prosopopee [e] alle suasoriae †, nelle quali il carico oratorio è
addirittura maggiore.
Qual è il significato di prosopopoeia? Nella cosiddetta “serie standard” dei progymnasmata, l’esercizio
dell’etopea prevedeva una variante, la prosopopea, in cui si doveva far parlare non un personaggio reale
bensì un personaggio fittizio. Elio Teone chiama l’esercizio dell’etopea “prosopopea”. Quintiliano è
vicinissimo a Teone (secondo Reinhardt e Winterbottom, Q. avrebbe usato come fonte il manuale di Teone
e un altro manuale). Quintiliano nel capitolo 5 dell’IO afferma che l’esercizio della prosopopea è troppo
difficile, pertanto lo elimina dalla serie dei progymnasmata e lo recupera nel terzo libro, quando tratta le
suasoriae.
Il testo fra le due cruces sembra mancante di qualcosa: manca una congiunzione tra i due elementi.
Usque ad suasorias: cf. Quint.
Ci sono due linee di tendenza per la risoluzione del testo: alcuni studiosi hanno proposto delle espunzioni (ad
es. in Winterbottom 1970 si espunge ad suasorias; in Granatelli 1985 si espunge ad prosopopoeias; l’idea alla
base di entrambe le espunzioni è che un termine sia la glossa dell’altro, e quindi vada espunto. Secondo
Winterbottom, a questo punto del testo il lettore ancora non conosce la novità introdotta da Quintiliano nel
terzo libro e, pertanto, decide di espungere ad suasorias; in Kiderlin 1887 si propone di espungere ad e di
ritenere suasorias aggettivo riferito a prosopopoeias: tuttavia qui Quintiliano sta soprattutto specificando
che i grammatici sconfinano nelle suasoriae, non nelle prosopopee); alcuni studiosi invece (ad es. Russell)
mettono sullo stesso piano i due elementi e propongono di integrare il testo con et (cf. anche Obrecht 1698
e Cousin ac). In Reinhardt-Winterbottom 2006 si è infine deciso di espungere l’intero passaggio.
[3] Hinc ergo accidit ut quae alterius artis prima erant opera facta sint alterius novissima, et aetas altioribus
iam disciplinis debita in schola minore subsidat ac rhetoricen apud grammaticos exerceat. Ita, quod est
maxime ridiculum, non ante ad declamandi magistrum mittendus videtur puer quam declamare sciat.
________________________________________
altioribus iam B : iam altioribus A
Traduzione: Di conseguenza accade che quegli argomenti che erano i primi di una delle due discipline siano
divenuti gli ultimi dell’altra disciplina, e che un’età ormai adatta a degli insegnamenti più elevati se ne stia
seduta in una scuola di livello inferiore, e pratichi la retorica presso i grammatici. In questo modo, cosa
sommamente ridicola, sembra che un ragazzino non debba essere inviato al maestro di declamazione prima
che sappia declamare.
Abbiamo la contrapposizione tra due artes (technai), la grammatica e la retorica. Aetas è un astratto per il
concreto, indica un gruppo di ragazzi di una certa età; subsidat esprime – in modo molto espressivo –
l’inferiorità della grammatica rispetto alla retorica, altior disciplina; la conclusione è sarcastica, e dietro c’è
l’idea che i grammatici avessero invaso il campo dei retori per lo meno nei progymnasmata, se non addirittura
nelle declamationes.
Nicola Gentile
14/10/20
Quintiliano ritiene che almeno gli esercizi più complessi della serie dei progymnasmata debbano essere
prerogativa del retore.
[4] Nos suum cuique professioni modum demus. Et grammatice, quam in Latinum transferentes
“litteraturam” vocaverunt, fines suos norit, praesertim tantum ab hac appellationis suae paupertate, intra
quam primi illi constitere, provecta (nam tenuis a fonte adsumptis [historicorum criticorumque] viribus pleno
iam satis alveo fluit, cum, praeter rationem recte loquendi non parum alioqui copiosam, prope omnium
maximarum artium scientiam amplexa sit), [5] et rhetorice, cui nomen vis eloquendi dedit, officia sua non
detrectet, nec occupari gaudeat pertinentem ad se laborem; quae, dum opere cedit, iam paene possessione
depulsa est.
_________________________________________________
historicorum criticorumque A : poetarum historicorumque B : historicorum oratorumque t : del.
Winterbottom
Traduzione: Noi invece daremo a ciascuna professione il suo limite. Da un lato la grammatica, che traducendo
in latino hanno chiamato “litteratura”, conosca i suoi confini, tanto più per il fatto che si è allontanata da
quella povertà del suo nome, all’interno della quale gli stessi primi maestri si collocarono (infatti un piccolo
rivolo in prossimità della fonte, avendo acquisito forze, scorre ormai con l’alveo pressappoco in piena, dal
momento che oltre alle regole del parlare in modo corretto – già di per sé stesse non poco abbondanti – ha
abbracciato la conoscenza di quasi tutte le arti maggiori); 5) dall’altro la retorica, a cui ha dato il nome la forza
dell’eloquenza, non rifiuti i propri compiti, né si rallegri che una fatica relativa al suo campo venga invasa; e
questa, mentre si allontanava dal proprio compito, è stata ormai cacciata dai suoi possedimenti legittimi.
Il nos ha valore enfatico ed introduce il parere personale di Quintiliano; il problema che si pone Q. è quello
di dare un modus, un limite alle aree di pertinenza dalla grammatica e della retorica. La traduzione latina che
Q. offre per grammatice, “litteratura”, è una traduzione letterale che non diverrà mai canonica.
Originariamente la sfera di pertinenza della grammatica era caratterizzata dalla paupertas, da un campo di
applicazione relativamente modesto limitato, come dice il nome stesso, allo studio delle lettere; ai tempi di
Q. invece la grammatica ha inglobato una serie di competenze che originariamente non le spettavano (>
metafora del rivolo d’acqua)
[problema testuale: historicorum criticorumque è riportato da A; B riporta poetarum historicorumque,
mentre t ha historicorum oratorumque > quali sono le problematiche poste da questo testo? Innanzitutto,
questa parte di testo sembra superflua; in secondo luogo, pur accogliendola, dobbiamo chiederci: in che
modo storici e critici/oratori avrebbero dato forza alla grammatica? Winterbottom e Reinhardt, come anche
Russell, propendono per l’espunzione, considerando l’aggiunta una glossa].
cui nomen vis eloquendi dedit: spiegazione etimologica di retorice, che deriverebbe dalla radice i.e. *ϝer (la
medesima che troviamo anche in uerbum).
[6] Neque infitiabor aliquem ex his qui grammaticen profiteantur eo usque scientiae progredi posse, ut ad
haec quoque tradenda sufficiat; sed cum id aget, rhetoris officio fungetur, non suo.
Nicola Gentile
[7] Nos porro quaerimus quando iis quae rhetorice praecipit percipiendis puer maturus esse videatur; in quo
quidem non id est aestimandum, cuius quisque sit aetatis, sed quantum in studiis iam effecerit. Et ne diutius
disseram quando sit rhetori tradendus, sic optime finiri credo: cum poterit.
[8] Sed hoc ipsum ex superiore pendet quaestione. Nam si grammatices munus usque ad suasorias
prorogatur, tardius rhetore opus est: at si rhetor prima officia operis sui non recusat, a narrationibus statim
et laudandi vituperandique opusculis cura eius desideratur.
_______________________________________
at si rhetor A Russell Reinhardt-Winterbottom : si rhetor B Winterbottom 1970 Cousin
Traduzione: 6) Non negherò che qualcuno che conosca la grammatica possa arrivare ad un livello tale di
conoscenza da renderlo capace di insegnare questo tipo di insegnamenti; tuttavia, quando farà questo,
eserciterà la funzione del retore, non la sua [scil. quella del grammaticus].
7) Noi inoltre ci chiediamo quando un ragazzo sembri maturo per apprendere i precetti della retorica; a
questo proposito, certamente non occorre considerare di quale età sia ciascuno, bensì quanto ciascuno sia
progredito nei suoi studi. E, per non farla troppo lunga su quando il ragazzo debba essere affidato al retore,
credo che la cosa possa essere così definita in modo ottimale: quando sarà in grado.
8) Ma proprio questo dipende dalla questione precedente: infatti, se il compito della grammatica viene
esteso fino alle suasorie, c’è bisogno del retore troppo tardi; se invece il retore non rifiuta i primi compiti
della sua disciplina, la sua attenzione è richiesta subito a partire dalle narrazioni e dagli opuscoli di lode o di
biasimo.
Al problema dell’oggetto d’insegnamento della grammatica e della retorica è direttamente collegato quello
relativo a quando debba avvenire il passaggio dalla scuola del grammaticus a quella del rhetor; secondo Q. il
criterio da seguire non è l’età bensì il livello di progresso negli studi. Q. inizia quindi ad introdurre alcuni
esercizi preliminari
[problema testuale: in A abbiamo, dopo ad suasorias, una parte di testo che non leggiamo in B (e che
normalmente non viene accettata, in modo pressoché sicuro, da tutti gli editori)].
usque ad suasorias: secondo Reinhardt e Winterbottom – sulla base del confronto col passo precedente di
Q. - usque ha valore inclusivo: l’insegnamento dei grammatici si sarebbe esteso, cioè, fino a comprendere
anche le suasorie.
Q. ricorda qui due esercizi propri della scuola del retore: la narratio (considerata da Q. un esercizio difficile,
nonostante nella serie canonica dei progymnasmata sia all’inizio) e la laus/uituperatio (perché Q. parla di
opusculi? Probabilmente per sottolineare la natura breve, elementare, di questi esercizi in relazione ai
discorsi invece compiuti del genere epidittico > N.B. sappiamo che nelle declamationes delle scuole di retorica
a Roma non era previsto il genere epidittico, limitato appunto alla sola fase dei progymnasmata).
[9] An ignoramus antiquis hoc fuisse ad augendam eloquentiam genus exercitationis, ut thesis dicerent et
communes locos et cetera citra complexum rerum personarumque quibus verae fictaeque controversiae
continentur? Ex quo palam est quam turpiter deserat eam partem rhetorices institutio quam et primam habuit
et diu solam.
_____________________________________
si abesset “et cetera”, nemo desideraret (Halm)
citra A : circa B
prima ... sola prop. Güngerich 1973
Traduzione: 9) O ignoriamo che presso gli antichi vi fosse questo genere di esercizio per sviluppare
l’eloquenza, e cioè che sviluppassero tesi e luoghi comuni, e che tutte le altre cose che stanno al di qua del
contesto delle cose e delle persone su cui si basano le controversie vere e fittizie. Da questo risulta evidente
Nicola Gentile
quanto vergognosamente l’insegnamento della retorica abbandoni quella parte che ebbe per prima e che a
lungo fu il suo unico oggetto di insegnamento.
Occorre chiedersi : chi sono per Q. gli antiqui? E chi i noui? E dove collocarli geograficamente e
cronologicamente? Secondo Reinhardt e Winterbottom con antiqui Q. si riferisce ai retori greci attivi,
all’incirca, fino all’epoca di Augusto.
Si citano due esercizi, la thesis ed il locus communis: la “tesi”, nel nostro contesto, indicherebbe una
deliberazione di carattere generale, priva di dettagli e senza riferimenti specifici alla realtà (lat. quaestio
infinita); il locus communis, generalmente ritenuto più facile della tesi, consisteva nell’amplificare un fatto
noto (ad es. vizio o virtù) senza particolari riferimenti alla realtà.
N.B. Caratteristica di base di TUTTI i progymnasmata doveva essere l’assenza di riferimenti specifici alla realtà
particolare (citra complexum rerum personarumque); quando invece si avevano delle circumstantiae, cioè
dei riferimenti specifici al contesto reale, si passava al livello delle declamationes.
[Perché et cetera? Halm ritiene non necessaria questa parte di testo; la sua presenza potrebbe trovare una
giustificazione qualora si sostenga che Q. considerava l’assenza di circumastantiae caratteristica comune di
tutti i progymnasmata].
[10] Quid autem est ex his de quibus supra dixi quod non cum in alia quae sunt rhetorum propria, tum certe
in illud iudiciale causae genus incidat? An non in foro narrandum est? Qua in parte nescio an sit vel plurimum.
______________________________
rhetorum propria B : propria rhetorum A
Traduzione: 10) E poi quale cosa tra quelle di cui ho parlato in precedenza non ricade sia tra le altre cose che
sono proprie dei retori sia, in particolare, nel genere giudiziario? Forse non si deve praticare la narratio nel
Foro? Credo che proprio in questa parte del discorso risieda la massima importanza.
Q. sottolinea che questi esercizi di cui ha appena parlato sono particolarmente utili nella pratica di uno dei
generi della retorica, quello giudiziario (N.B. nei manuali tardoantichi viene messo in evidenza soprattutto il
preciso collegamento tra i singoli progymnasmata e la loro utilità nei tre generi della retorica).
La narratio è sì uno dei progymnasmata, ma anche una delle parti fondamentali del discorso: Q. qui ci sta
dicendo che massima è l’importanza di questa parte nell’oratoria e, in particolar modo, in quella giudiziaria.
15/10/20
[11] Non laus ac vituperatio certaminibus illis frequenter inseritur? Non communes loci, sive qui sunt in vitia
derecti, quales legimus a Cicerone compositos, seu quibus quaestiones generaliter tractantur, quales sunt
editi a Quinto quoque Hortensio, ut “sitne parvis argumentis credendum” et “pro testibus” et “in testes”, in
mediis litium medullis versantur?
[12] Arma sunt haec quodam modo praeparanda semper, ut iis cum res poscet utaris. Quae qui pertinere ad
orationem non putabit, is ne statuam quidem inchoari credet cum eius membra fundentur. Neque hanc, ut
aliqui putabunt, festinationem meam sic quisquam calumnietur tamquam eum qui sit rhetori traditus
abducendum protinus a grammaticis putem.
________________________________________
utaris B : utare A
traditus B : tradendus A
Traduzione: 11) E la lode ed il biasimo non sono spesso inseriti all’interno delle nostre dispute? E non è forse
vero che i luoghi comuni – sia quelli diretti contro i vizi (come quelli che leggiamo composti da Cicerone), sia
Nicola Gentile
quelli nei quali vengono trattate in modo generale delle questioni (come quelli pubblicati da Quinto Ortensio,
“come si debba prestare fede ad argomenti di poco conto”, e quelli “a favore dei testimoni”, e quelli “contro
i testimoni”) – non sono forse il midollo delle liti?
12) Queste sono per così dire delle armi da tener sempre pronte, allo scopo di servirsene quando la situazione
lo richieda. E chi non riterrà che queste cose siano pertinenti ad un’orazione, costui non crederà neppure che
una statua venga iniziata nel momento in cui ne verranno fuse le membra. E nessuno critichi questa mia –
come alcuni la riterranno – fretta, come se io ritenessi che colui che è stato affidato al retore debba essere
sottratto immediatamente al grammatico.
Laus ac uituperatio sono considerate un singolo soggetto cui si accorda, pertanto, un verbo al singolare
(questo perché, nella canonica serie dei progymnasmata – eccezione fatta per Aftonio –, laus e uituperatio
costituivano un unico esercizio). Il locus communis che generalmente troviamo nei manuali di retorica
corrisponde sostanzialmente al primo degli esempi fatti da Q. (cioè il locus communis in vitia derectus;
nonostante infatti il locus communis potesse, in teoria, avere anche soggetti positivi, le fonti attestano che
questa tipologia di esercizio si specializzò, nella pratica, soprattutto con soggetti negativi). Il riferimento a
Cicerone non è chiarissimo; la frase può essere interpretata in due modi: Q. ha trovato di persona degli
esempi nelle opere di Cicerone oppure ha ricavato questa interpretazione da altre fonti (come sostengono
Reinhardt e Winterbottom)? Non ci risulta, allo stadio attuale delle nostre conoscenze, che Cicerone avesse
scritto dei loci communes (N.B. Diverso è il senso dei Topica di Cicerone, traduzione latina da Aristotele, nei
quali per topos si intende, più tradizionalmente, “luogo dell’argomentazione”). N.B. Gli antichi vedevano
molti punti di contatto tra l’esercizio del locus communis e quello della thesis: a dimostrazione di ciò, non rari
nei manuali sono alcuni capitoletti – noti col titolo di differentiae – in cui gli autori chiarivano la differenza
tra esercizi considerati simili; nel caso della tesi e del luogo comune, quest’ultimo sarebbe una certae rei
amplificatio (omologoumenou pragmatos auxesis), mentre la tesi viene definita come una dubiae rei
amplificatio.
Quodam modo attenua l’immagine che offre Q. (esercizi = armi); l’idea alla base dell’argomentazione di Q. è
che gli esercizi siano singole parti utili per la composizione di un discorso intero, compiuto, così come le
singole membra concorrano nell’insieme alla realizzazione dell’intera statua.
[Problema testuale: traditus/tradendus > la maggior parte degli editori accoglie a testo traditus, notando che
tradendus possa essere una corruzione dovuta al successivo abducendum; inoltre, Reinhardt e Winterbottom
nell’accogliere traditus fanno notare anche come questa lezione sia da preferire in quanto determina una
certa consequenzialità temporale].
[13] Dabuntur illis tum quoque tempora sua, neque erit verendum ne binis praeceptoribus oneretur puer. Non
enim crescet sed dividetur qui sub uno miscebatur labor, et erit sui quisque operis magister utilior. Quod adhuc
optinent Graeci, a Latinis omissum est, et fieri videtur excusate, quia sunt qui labori isti successerint.
Traduzione: 13) Anche allora verranno lasciati a quelli [scil. ai grammatici] i propri tempi, e non si dovrà aver
paura che il ragazzo venga schiacciato dalla compresenza di due maestri. Infatti, il lavoro che
precedentemente era riunito sotto un unico maestro non crescerà, bensì verrà suddiviso, ed entrambi i
maestri saranno più utili in quanto maestri nella propria sfera di competenza. I Greci ancora conservano
questo ordinamento, mentre i Latini l’hanno abbandonato,
16/10/20
Nel capitolo 2 del II libro dell’IO Q. affronta il tema dei principi morali che un rhetor deve avere in
considerazione della crescita dei propri studenti; nel capitolo 3 Q. si chiede se occorra scegliere sin da subito
il miglior precettore: secondo l’autore i genitori devono sin da subito scegliere il miglior precettore, ovvero
un maestro abile nella teoria, nella pratica e senza tracce di immoralità.
Nel capitolo 4 del II libro dell’IO Q. affronta il tema de primis apud rhetorem exercitationibus.
[1] Hinc iam quas primas in docendo partis rhetorum putem tradere incipiam, dilata parumper illa quae sola
vulgo vocatur arte rhetorica; ac mihi oportunus maxime videtur ingressus ab eo cuius aliquid simile apud
grammaticos puer didicerit.
[2] Et quia narrationum, excepta qua in causis utimur, tris accepimus species, fabulam, quae versatur in
tragoediis atque carminibus, non a veritate modo sed etiam a forma veritatis remota, argumentum, quod
falsum sed vero simile comoediae fingunt, historiam, in qua est gestae rei expositio, grammaticis autem
poeticas dedimus, apud rhetorem initium sit historica, tanto robustior quanto verior.
_____________________________________
accepimus A : accipimus B
Il primo paragrafo è dedicato alla fase di transizione dal grammaticus al rhetor: secondo Q. il passaggio non
deve essere brusco, bensì deve garantire una certa progressività (addirittura si ipotizza un periodo di
compresenza dei due maestri). Il punto di passaggio è individuato nell’esercizio della narratio che Q., in modo
poco convenzionale, “spezza” in due parti: una di natura grammaticale, l’altra di natura retorica; tuttavia
l’autore non tratta qui nel dettaglio la narratio (sulla quale fornirà maggiori informazioni quando parlerà delle
parti costitutive del discorso).
Nel secondo paragrafo Q. espone una distinzione delle narrationes in tre gruppi basata, sostanzialmente, sul
criterio del vero/falso; i primi due gruppi sono le cosiddette narrationes poetiche (fabula e argumentum),
che Q. attribuisce ai grammatici; il terzo invece è a carattere storico (historia), ha come argomento la ueritas,
e viene affidato al retore > N.B. Q. quindi individua il punto di passaggio tra grammaticus e rhetor nella terza
tipologia di narratio, quella storica, e quindi nel progressivo allontanamento dall’elemento favoloso.
Nicola Gentile
[ Di seguito, una tabella che sintetizza l’ordine che i progymnasmata acquisiscono nelle serie elaborate dai
vari autori:
All’epoca di Q. ancora non vi era una versione standard della serie dei proymnasmata; in sostanza, Q.
rappresenta la fonte più antica – assieme a Teone – che abbiamo circa la serie degli esercizi. L’ordine di Q.
ricorda, grossomodo, quello degli altri autori, con però alcune differenze.
Teone (1) corrisponde all’ordine che sicuramente Teone aveva elaborato nel suo manuale; Teone (2) è invece
la versione riportata dai manoscritti greci di Teone (chi ha trasmesso Teone, cioè, ha cambiato l’ordine degli
esercizi per adeguarlo all’ordine che diverrà canonico successivamente, con Ermogene, Nicolao e Prisciano.
N.B. Traduzione in armeno del testo di Teone.
Della serie canonica Q. elimina due esercizi: l’etopea (che lui chiama prosopopea) e la descriptio. Locus
communis e thesis, come abbiamo visto, sono considerati due esercizi simili e pertanto vengono posti in
successione, ma quasi a fine serie, in quanto considerati esercizi più complessi. ]
[3] Sed narrandi quidem quae nobis optima ratio videatur tum demonstrabimus cum de iudiciali parte
dicemus: interim admonere illud sat est, ut sit ea neque arida prorsus atque ieiuna (nam quid opus erat
tantum studiis laboris inpendere si res nudas atque inornatas indicare satis videretur?), neque rursus sinuosa
et arcessitis descriptionibus, in quas plerique imitatione poeticae licentiae ducuntur, lasciva.
[4] Vitium utrumque, peius tamen illud quod ex inopia quam quod ex copia venit.
______________________________
lasciva edd. Russell R.-W. : lascivi at AB : lasciviat B2 Winterbottom 1970 Cousin
Traduzione: 3) Tuttavia mostrerò più avanti quale, a mio giudizio, sia il miglior modo di narrare, quando
parleremo del genere giudiziario; per il momento, è sufficiente dare questo ammonimento: non sia la
Nicola Gentile
narratio né eccessivamente arida e secca (che necessità ci sarebbe stata di dedicare uno sforzo così grande
agli studi se fosse sembrato sufficiente esporre cose nude e prive di ornamento?), né sia al contrario tortuosa
e licenziosa per l’aggiunta di descrizioni, alle quali i più sono indotti dall’imitazione della licenza concessa ai
poeti. 4) Entrambi sono dei difetti, ma è peggiore quello che deriva dalla povertà piuttosto che quello
derivante dalla sovrabbondanza.
Q. ci dice che sostanzialmente tratterà di come fare narrazione più avanti, cioè quando – nel cap. 2 del libro
IV – parlerà del genere giudiziario. Qui si limita a dare soltanto un consiglio pratico: evitare due forme di
eccesso nella narratio, che cioè non deve essere né arida né sovrabbondante.
[Problema testuale: lasciva è il risultato di una serie di correzioni effettuate nel tempo dagli editori di
Quintiliano e accolta da Reinhardt-Winterbottom e da Russell nell’ed. LOEB di Quintiliano; il testo tràdito
riporta lascivi at, che tuttavia non dà senso; la seconda mano di B propone già una correzione, lasciviat
(equivalente, nel significato, all’attributo lasciva, ma meno convincente a livello di costruzione), accolta nella
prima edizione di Winterbottom].
21/10/20
[18] Narrationibus non inutiliter subiungitur opus restruendi confirmandique eas, quod ἀνασκευή et
κατασκευή vocatur. Id porro non tantum in fabulosis et carmine traditis fieri potest, verum etiam in ipsis
annalium monumentis, ut, si quaeratur an sit credibile super caput Valeri pugnantis sedisse corvum, qui os
oculosque hostis Galli rostro atque alis everberaret, sit in utramque partem ingens ad dicendum materia, [19]
aut de serpente, quo Scipio traditur genitus, et lupa Romuli et Egeria Numae; nam Graecis historiis plerumque
poeticae similis licentia est. Saepe etiam quaeri solet de tempore, de loco, quo gesta res dicitur, nonnumquam
de persona quoque, sicut Livius frequentissime dubitat et alii ab aliis historici dissentiunt
Traduzione: Alle narrazioni non inutilmente si aggiunge l’esercizio di rifiutarle e confermale, ossia l’anaskeué
e la kataskeué. Questo esercizio dunque può essere applicato non solo relativamente a cose favolose o
tradite attraverso la poesia, ma anche ai documenti annalistici stessi, come ad esempio: se ci si si chiede se
sia credibile che sopra la testa di Valerio mentre combatteva si sia posato un corvo, che con il becco e con le
ali abbia colpito il viso e gli occhi del nemico gallo, vi sarebbe grande materiale di discussione in entrambe le
direzioni; oppure a proposito del serpente da cui si tramanda che Scipione sia stato generato, e della lupa di
Romolo, e dell’Egeria di Numa; del resto le storie dei Greci, per lo più, godono di una libertà simile a quella
poetica. Spesso si suole mettere in discussione anche il tempo o il luogo in cui si dice che una cosa sia stata
fatta, e a volte anche la persona: per esempio, Livio spessissimo esprime i suoi dubbi e gli storici dissentono
tra di loro.
Il nuovo esercizio viene collegato direttamente a quello precedente, ossia la narratio; viene adottata
direttamente la denominazione greca ed il focus dell’esercizio stesso è portato sulle narrationes di tipo
storico.
[Problema testuale: restruendi è la lezione del solo B; A ha destruendi, scelto da Winterbottom nella sua
prima edizione (nella seconda invece – sulla scia dell’ed. LOEB di Russell – ha accolto restruendi, che può
essere considerata lectio difficilior; dal punto di vista del significato, tuttavia, cambia poco)].
L’esercizio dell’anaskeué e della kataskeué, negli altri manuali di retorica superstiti, ha come oggetto
soprattutto racconti mitici e favolosi; Q. invece compie una scelta diversa, coerente con quanto aveva
affermato in precedenza, ossia che gli esercizi affidati al retore debbano concentrarsi soprattutto su soggetti
storici (vd. supra). L’esercizio della kataskeué o della anaskeué deve quindi mettere in crisi o confermare la
Nicola Gentile
credibilità di un determinato racconto; gli esempi scelti da Q. sono tutti di carattere storico e, più
precisamente, tutti tratti dalla storia di Roma > N.B. Quando i Latini si trovavano a tradurre un manuale greco
– o a scrivere un manuale sulla base di materiale greco – si trovavano, sostanzialmente, di fronte a due
problemi: 1) tradurre la terminologia specifica greca nella corrispondente terminologia latina; 2) tradurre gli
esempi tratti da un contesto greco in un contesto romano.
L’approccio di questo esercizio è sintetizzato nell’espressione in utramque partem, tipica della retorica.
N.B. Questo genere di esercizi presupponeva una buona conoscenza storica; la storia dunque non era
insegnata come materia autonoma nella scuola bensì attraverso gli esercizi di retorica.
[20] Inde paulatim ad maiora tendere incipiet, laudare claros viros et vituperare improbos. Quod non
simplicis utilitatis opus est. Namque et ingenium exercetur multiplici variaque materia, et animus
contemplatione recti pravique formatur, et multa inde cognitio rerum venit exemplisque, quae sunt in omni
genere causarum potentissima, iam tum instruit cum res poscet usurum.
Traduzione: In seguito [lo studente] inizierà ad accostarsi a poco a poco a prove più impegnative, ossia lodare
gli uomini illustri e criticare i malvagi; lavoro, questo, di non semplice utilità: infatti sia l’ingegno viene
esercitato attraverso un materiale molteplice e vario, sia il carattere viene formato attraverso l’osservazione
di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato; e inoltre, da questo esercizio, proviene una grande conoscenza
delle cose e, attraverso gli esempi – che sono una risorsa potentissima in ogni genere di causa – lo studente
viene istruito quando la necessità lo richieda.
Quintiliano qui parla dell’esercizio della laus e della uituperatio; normalmente – secondo la serie canonica
dei progymnasmata – a questo punto ci si sarebbe aspettati il locus communis, ma Q. lo colloca più avanti in
quanto, evidentemente, considerato un esercizio più complesso.
La laus/uituperatio era concepito come un discorso di lode o di biasimo di una persona o di una cosa; secondo
le fonti, questo elogio/biasimo era condotto da una prospettiva etica ed era volto a mettere in evidenza
virtù/vizi in relazione ad un patrimonio di valori condivisi; le finalità di questo esercizio coincidono
sostanzialmente con quelle del terzo genere della retorica, ossia il genere epidittico: proprio in virtù di questa
coincidenza, molti studiosi si chiesero se fosse opportuno inserire l’esercizio della laus/uituperatio nella serie
dei progymnasmata > si cercò di dare una risposta al quesito sostenendo che la laus/uituperatio era un
versione semplificata – e limitata alle sole persone – del genere epidittico, che sarebbe stato poi
approfondito in un secondo momento dallo studente.
Anche questo esercizio era, almeno in linea teorica, un esercizio in utramque partem, in quanto prevedeva
sia la laus che la uituperatio; nella pratica, tuttavia, l’esercizio si specializzò soprattutto nella laus, come
dimostrano le testimonianze a nostra disposizione.
[21] Hinc illa quoque exercitatio subit comparationis, uter melior uterve deterior: quae quamquam versatur
in ratione simili, tamen et duplicat materiam et virtutum vitiorumque non tantum naturam sed etiam modum
tractat. Verum de ordine laudis contraque, quoniam tertia haec rhetorices pars est, praecipiemus suo
tempore.
Traduzione: Quindi subentra anche l’esercizio della comparatio, ossia “chi dei due sia meglio e chi dei due
sia peggio”; questo esercizio, per quanto sia basato su un metodo simile, tuttavia da un lato raddoppia la
materia, dall’altro si occupa non solo della natura ma anche della misura delle virtù e dei vizi. Tuttavia, a
proposito dell’ordine della lode e del suo opposto, dal momento che questa è la terza parte della retorica,
daremo prescrizioni a tempo debito.
Q. tratta insieme l’esercizio della laus/uituperatio e quello della comparatio in quanto entrambi rimandano
al genere epidittico; secondo le fonti, la comparatio consisteva in un doppio encomio o in un doppio biasimo,
Nicola Gentile
quindi sostanzialmente l’applicazione “doppia” dell’esercizio precedente (es. si prendono due individui e si
comparano: l’uno si elogia, l’altro si biasima, sempre da una prospettiva di tipo etico). Anche la comparatio,
come l’esercizio precedente, era limitato alle sole persone (la rerum comparatio è invece alla base
dell’esercizio della thesis, vd. infra). Russell osserva che le Vite Parallele di Plutarco sono una sorta di
trasposizione letteraria di questo tipo di esercizio.
Normalmente i manuali prescrivevano una serie di loci da impiegare per elogiare o biasimare una persona,
che gli studenti dovevano trattare seguendo un certo ordine (de ordine laudis contraque).
[22] Communes loci (de iis loquor quibus citra personas in ipsa vitia moris est perorare, ut in adulterum,
aleatorem, petulantem) ex mediis sunt iudiciis et, si reum adicias, accusationes: quamquam hi quoque ab illo
generali tractatu ad quasdam deduci species solent, ut si ponatur adulter caecus, aleator pauper, petulans
senex. Habent autem nonnumquam etiam defensionem; [23] nam et pro luxuria et pro amore dicimus, et leno
interim defenditur sic ut non homini patrocinemur sed crimini.
Traduzione: I luoghi comuni (intendo quelli attraverso i quali è possibile parlare contro i vizi del costume,
senza riferimento a persone specifiche, come ad esempio nei confronti di un adultero, di un giocatore di
azzardo, di uno sfacciato) appartengono al cuore dei processi, e qualora si aggiunga il colpevole diventano
delle accuse vere e proprie, sebbene anch’essi di solito vengono ricondotti da quella trattazione generale ad
alcuni elementi particolari, come se si proponesse un adultero cieco, un giocatore d’azzardo povero, un
vecchio sfacciato. A volte, tuttavia, hanno anche una difesa: infatti, parliamo sia in difesa del lusso sia in difesa
dell’amore e a volte il lenone ed il parassita vengono difesi in modo tale che supportiamo non la persona ma
l’accusa.
Q. introduce l’esercizio successivo del locus communis; in questi due paragrafi Q. parla del primo tipo di locus
communis, ossia quello che ha come oggetto i uitia (cf. Quint. inst. 2, 1, 11). Qui peroratio sembrerebbe avere
valore generico, non tecnico-retorico, e può essere tradotto semplicemente con “parlare, pronunciare un
discorso”. Q. dice che vi sono alcuni casi in cui il locus communis assume tratti più specifici, ma l’importante
è che non si arrivi mai a pronunciare il nome dell’accusato, in quanto in questo modo si passerebbe
dall’esercizio preliminare all’accusa vera e propria. Anche il locus communis nella teoria era concepito in
utramque partem, cioè sia per elogiare una virtù sia per fustigare un vizio; nella pratica, tuttavia, l’esercizio
del locus communis era praticato soprattutto al negativo, ossia assumendo come oggetto i uitia e facendone,
dunque, un esercizio preliminare all’accusa.
[24] Thesis autem quae sumuntur ex rerum comparatione (ut rusticane vita an urbana potior, iuris periti an
militaris viri laus maior) mire sunt ad exercitationem dicendi speciosae atque uberes. Quae vel ad suadendi
officium vel etiam ad iudiciorum disceptationem iuvant plurimum; nam posterior ex praedictis locus in causa
Murenae copiosissime a Cicerone tractatur. [25] Sunt et illae, paene totae ad deliberativum pertinentes
genus: ducendane uxor, petendine sint magistratus; namque et hae personis modo adiectis suasoriae erunt.
________________________________
iudiciorum disceptationem A : iudicium disceptationemque B
Traduzione: Poi le tesi che sono ricavate dalla comparazione tra cose (ad esempio: se sia superiore la vita in
campagna o la vita in città; oppure se sia superiore l’elogio di un giurista o di un soldato) sono alquanto
attraenti e ricche in vista dell’esercitazione oratoria; e queste in effetti giovano moltissimo sia al compito
della persuasione sia al dibattito dei processi. Infatti, il secondo esempio tra quelli elencati in precedenza è
trattato con grandissima abbondanza da Cicerone nella Pro Murena1. Ci sono poi anche quelle [tesi] che si
1
Orazione in cui Cicerone difende Murena, console designato per l’anno 62 a.C., sulla base di una legge che egli stesso
aveva fatto approvare (nel collegio di difesa vi erano anche Quinto Ortensio Ortalo e Lucio Licino Crasso).
Nicola Gentile
riferiscono quasi nella loro totalità al genere deliberativo: se si debba prendere moglie, se ci si debba
candidare alle cariche politiche; infatti, anche queste semplicemente attraverso l’aggiunta di persone
specifiche diverranno delle suasorie.
Questo esercizio è solitamente il penultimo nella serie canonica dei progymnasmata; secondo la terminologia
greca, se alla thesis si aggiungano i dettagli circostanziali si ottiene una hypothesis (termine che comprende
sia la suasoriae sia le controuersiae). Q. elenca due categorie: 1) quella più semplice (esposta nel paragrafo
25); una più complessa (esposta nel paragrafo 24), che parte ex rerum comparatione. Normalmente i trattati
individuavano due tipologie di tesi: filosofiche (non nel dominio del retore) e pratiche (di competenze del
retore e a sua volta suddivise nelle due categorie esposte da Q.
[Problema testuale: ad iudiciorum disceptationem è riportato da A ed è la lezione generalmente accolta dagli
editori moderni; la lezione di B può essere considerata una sorta di endiadi e, nel significato, non comporta
particolari variazioni].
La virgola dopo sunt et illae è un elemento di novità rispetto alle edizioni precedenti, introdotto da
Winterbottom per sottolineare come illae si riferisca ad una seconda tipologia di tesi che Q. descriverà subito
dopo, ossia quelle ascrivibili unicamente al genere deliberativo (differentemente da quelle descritte in
precedenza, che ad suadendi officium vel etiam ad iudiciorum disceptationem iuvant).
22/10/20
Nei §§ 27-32 Q. si occupa del secondo gruppo dei loci communes, ossia quelli più vicini alla thesis.
Nel § 33 Q. introduce l’ultimo esercizio della serie dei progymnasmata, il più difficile, che si avvicinava sempre
più alle controuersiae e alle suasoriae.
[33] Legum laus ac vituperatio iam maiores ac prope summis operibus suffecturas vires desiderant. Quae
quidem suasoriis an controversiis magis accommodata sit exercitatio consuetudine et iure ciuitatium differt.
Apud Graecos enim lator earum ad iudicem vocabatur, Romanis pro contione suadere ac dissuadere moris
fuit.
Traduzione: L’elogio ed il biasimo delle leggi richiedono ormai forze superiori e ormai sufficienti ai compiti
più elevati. Se questo esercizio sia più vicino alle suasoriae o alle controuersiae, differisce sulla base delle
abitudini e delle leggi degli Stati. Presso i Greci infatti il latore delle leggi veniva convocato davanti al giudice2,
mentre per i Romani fu abitudine o tradizione persuadere o dissuadere davanti all’assemblea popolare.
L’ultimo esercizio dei progymnasmata (sebbene qualche manuale di retorica dubitasse dell’opportunità di
inserirlo nella serie degli esercizi preliminari, in quanto considerato troppo difficile) consisteva nel supportare
o criticare un testo di legge; Q., in modo piuttosto insolito ed originale, riconduce questo esercizio all’ambito
della laus e della uituperatio, ma questa volta l’oggetto è diverso.
Dopo aver descritto le caratteristiche di quest’ultimo esercizio, nel § 41 Q. si ricollega alla pratica delle
declamationes (cf. supra).
> Q. sicuramente aveva a disposizione una fonte greca oltre a Teone, verosimilmente un secondo manuale;
Q. usa le fonti per trarne gli elementi fondamentali dell’educazione retorica, latinizza gli esempi e integra il
tutto con la propria esperienza di maestro; il contributo personale di Q. è particolarmente evidente negli
2
Vd. l’istituto ateniese del graphé paranomon.
Nicola Gentile
interventi a proposito del numero e dell’ordine dei progymnasmata; spesso anche svuota l’esposizione degli
esercizi e rimanda la trattazione degli aspetti più tecnici ad un punto successivo della sua opera. Q. suddivide
inoltre il percorso in due fasi: una fase grammaticale (fine I libro) ed una fase ESCLUSIVAMENTE retorica, che
deve assolutamente essere svolta dal retore; il punto in cui si passa dalla prima alla seconda fase è individuato
nell’esercizio della narratio.
Suet. gramm. 4.4-5 (ed. Kaster) > (4) Veteres grammatici et rhetoricam docebant, ac multorum de utraque
arte commentarii feruntur. (5) Secundum quam consuetudinem posteriores quoque existimo – quamquam
iam discretis professionibus – nihilo minus vel retinuisse vel instituisse et ipsos quaedam genera meditationum
ad eloquentiam praeparandam, ut problemata, paraphrasis, adlocutiones3, aetiologias(a) atque alia(b) hoc
genus, ne scilicet sicci omnino atque aridi pueri rhetoribus traderentur.
Traduzione: 4) I grammatici del passato insegnavano anche la retorica e ci è tramandata la conoscenza dei
commentari di molti a proposito di entrambe le discipline. 5) Secondo questa abitudine ritengo che anche i
grammatici successivi – sebbene ormai le professioni fossero separate – abbiano tuttavia sia conservato sia
introdotto anch’essi alcuni generi di esercitazioni (genera meditationum) per preparare l’eloquenza (come
problemi, parafrasi, allocuzioni, eziologie …) evidentemente affinché i ragazzi non vengano consegnati ai
retori del tutto al secco e aridi [di retorica].
Mentre Q. ritiene che ad un certo punto i grammatici invasero il campo della retorica iniziando ad occuparsi
dei progymnasmata, Svetonio invece ritiene che sin dall’inizio i grammatici se ne fossero occupati. Secondo
l’interpretazione di Kaster, la prospettiva di Quintiliano è “meno storica”, in quanto preoccupazione di Q., in
quanto retore, doveva essere la tutela della propria sfera di competenza.
Secondo Pirovano, occorre guardarsi bene dall’effettuare un’eccessiva semplificazione: i manuali – tutti
greci! – ci dicono che, almeno in linea teorica, questi esercizi costituivano una serie unitaria e progressiva di
competenza del retore. Quintiliano non scrive un manuale, bensì utilizza i manuali come fonti e cala le
pratiche di insegnamento in un contesto più ampio e, pertanto, nella sua valutazione non posso essere
applicati gli stessi criteri che utilizziamo per interpretare le informazioni ricavabili da testi di natura
manualistica.
Occorre inoltre ricordarsi della differenza tra teoria e pratica: cioè, se nella teoria esisteva un’effettiva
distinzione tra le sfere di competenza del grammaticus e del rhetor, nella pratica non sempre tale distinzione
trovava un’effettiva applicazione, per ragioni – anche – di natura materiale.
3
Termine con cui i Latini tradussero l’esercizio dell’ ethopoeia.
Nicola Gentile
Parlando dell’esperienza scolastica di Agostino, ritroveremo alcuni riferimenti ad elementi a noi familiari
(progymnasmata, ciclo scolastico) e introdurremo un nuovo ambito, quello dell’esegesi virgiliana.
Aug. conf. I (ed. Verheijen 1981 – CCSL 27) > [1.19] In ipsa tamen pueritia, de qua mihi minus quam de
adulescentia metuebatur, non amabam litteras et me in eas urgeri oderam; et urgebar tamen et bene mihi
fiebat, nec faciebam ego bene: non enim discerem, nisi cogerer. Nemo autem invitus bene facit, etiamsi
bonum est quod facit. Nec qui me urgebant bene faciebant, sed bene mihi fiebat abs te, deus meus. Illi enim
non intuebantur, quo referrem quod me discere cogebant praeterquam ad satiandas insatiabiles cupiditates
copiosae inopiae et ignominiosae gloriae. Tu vero, cui numerati sunt capilli nostri4, errore omnium qui mihi
instabant ut discerem, utebaris ad utilitatem meam, meo autem qui discere nolebam, utebaris ad poenam
meam, qua plecti non eram indignus, tantillus puer et tantus peccator. Ita non de bene facientibus tu bene
faciebas mihi et de peccante me ipso iuste retribuebas mihi. Iussisti enim et sic est, ut poena sua sibi sit omnis
inordinatus animus.
______________________________
non de codd. Sk. Ve. : de non Z H(p.c.) Pe O’Donnell 1992 Clark 1995 Valla
Traduzione: Tuttavia, proprio nell’infanzia, circa la quale c’era meno da temere rispetto alla giovinezza, non
amavo lo studio e odiavo esservi costretto; e tuttavia vi ero costretto, ed era un bene per me, ma non facevo
bene: infatti non avrei imparato se non fossi stato costretto. Tuttavia, nessuno controvoglia fa bene, per
quanto ciò che fa sia buono, né coloro che mi costringevano facevano bene, ma era per me un bene grazie a
te, mio Dio. Infatti quelli non vedevano dove io avrei potuto portare ciò che mi costringevano ad apprendere,
se non al saziare gli insaziabili desideri di un’abbondante povertà e di una fama infamante. Tu invece, che sai
quanti capelli abbiamo, …, mentre ti servivi dell’errore di me che non volevo imparare per la mia punizione,
con la quale non ero indegno di essere percosso, ragazzino così piccolo e peccatore così grande. Così tu mi
facevi del bene attraverso persone che non facevano del bene, e mi ripagavi giustamente per quanto io stesso
fossi un peccatore. Hai infatti stabilito – e le cose stanno così – che ogni animo disordinato sia una punizione
per se stesso.
Oggetto di questo primo paragrafo è la costrizione allo studio che genera insofferenza nello studente;
Agostino subisce passivamente questa forma di insegnamento, non capendone l’importanza sul momento,
ma il tutto è sapientemente gestito da Dio che si serve di Agostino e dei suoi maestri per scopi non
immediatamente intellegibili.
[Problema testuale: de non è proposto sulla base di una flebile testimonianza di mss. minori, introdotta da
H e accolta a testo poi da O’Donnell, Simonetti (Valla), Clark e Hammond (LOEB); il motivo per cui gli editori
più moderni accolgono questa lezione dipende dalla coerenza logica del ragionamento che Agostino sta
portando avanti: per dare un senso soddisfacente occorre quindi adottare de non o, al limite, immaginare
un’anastrofe – comunque poco plausibile].
4
Cf. Mt. 10, 30.
Nicola Gentile
23/10/20
[1.20] Quid autem erat causae, cur graecas litteras oderam, quibus puerulus imbuebar, ne nunc quidem mihi
satis exploratum est.
Adamaveram enim latinas, non quas primi magistri sed quas docent qui grammatici vocantur. Nam illas
primas, ubi legere et scribere et numerare discitur, non minus onerosas poenalesque habebam quam omnes
graecas.
Unde tamen et hoc nisi de peccato et vanitate vitae, qua caro eram et spiritus ambulans et non revertens?
_______________________________
qua CGDO1S Sk. Ve. : quia O2 Ps. Rom. (LXX: ὅτι)
Traduzione: Quale fosse poi il motivo per il quale odiavo il greco, che mi veniva inculcato da ragazzino,
neppure ora mi è sufficientemente chiaro.
Infatti amavo profondamente il latino, non quello che insegnano i primi maestri, bensì quello che insegnano
i cosiddetti “grammatici”; quei primi insegnamenti infatti, dove si impara a leggere, scrivere e contare, mi
risultavano non meno pesanti e “punitivi” di tutti gli studi in greco.
Da dove dunque proviene anche questo, se non dal peccato e dalla vanità della vita a causa della quale ero
carne e soffio che va e non ritorna?
Causae è partitivo ed è retto da quid; contrariamente alle norme del latino classico, abbiamo due
interrogative indirette costruite col verbo all’indicativo anziché al congiuntivo (erat, oderam)5. Quibus
imbuebar è particolarmente icastico, e sembra proseguire l’idea della costrizione allo studio emersa nei
paragrafi precedenti.
Vediamo come anche in una regione periferica dell’Impero romano l’insegnamento del greco era una delle
colonne portanti dell’educazione scolastica. Adamaueram ha valore rafforzativo rispetto al verbo semplice.
de peccato et uanitate uitae esprime il punto di vista dell’Agostino che scrive; il brano si conclude con una
chiara eco del testo delle Scritture, e precisamente del Salmo 77.
[Problema testuale: la lezione quia ha un’attestazione di gran lunga minoritaria nella tradizione manoscritta,
ma trova riscontro nell’ ὅτι presente nella Bibbia dei Settanta, testo che molto verosimilmente doveva essere
alla base della citazione di Agostino. Molto probabilmente, sebbene il testo della fonte citata da Agostino
potesse avere effettivamente quia, è possibile che Agostino abbia adattato il testo del Salmo alla
formulazione del suo pensiero e pertanto – citando probabilmente anche a memoria – abbia scritto qua].
Nam utique meliores, quia certiores, erant primae illae litterae, quibus fiebat in me et factum est et habeo
illud, ut et legam, si quid scriptum invenio, et scribam ipse, si quid volo, quam illae, quibus tenere cogebar
Aeneae nescio cuius errores oblitus errorum meorum et plorare Didonem mortuam, quia se occidit ab amore,
cum interea me ipsum in his a te morientem, deus, vita mea, siccis oculis ferrem miserrimus.
Traduzione: Infatti erano certamente migliori, poiché più pratici, quei primi insegnamenti attraverso i quali
… che io sia capace sia di leggere, se trovo qualcosa di scritto, sia di scrivere io stesso, se voglio scrivere
qualcosa, rispetto a quelli nei quali ero costretto ad imparare a memoria gli errori di non so quale Enea,
dimentico dei miei errori, e a piangere Didone morta, poiché si uccise per amore, mentre nel frattempo con
occhi secchi sopportavo di morire io in prima persona, lontano da te occupato in questi studi, o Dio vita mia.
5
O’ Donnell, nella sua edizione, propone di spezzare la continuità della frase, senza tuttavia risolvere così il problema.
Nicola Gentile
i “vagabondaggi” dell’eroe virgiliano) ed è dimentico di quelli che invece sono i suoi errori, questa volta intesi
in senso morale. Aeneae nescio cuius: Agostino sta sminuendo il pagano Enea? Sta sminuendo il personaggio
mitologico rispetto all’uomo reale?
[1.21] Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Didonis mortem, quae fiebat amando
Aenean, non flente autem mortem suam, quae fiebat non amando te, deus, lumen cordis mei et panis oris
intus animae meae et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meae? Non te amabam et
fornicabar abs te6 et fornicanti sonabat undique: “Euge! euge!”.
Traduzione: Che cosa vi è infatti di più misero di un misero che non commisera se stesso e piange la morte
di Didone, che accadeva per amore di Enea, ma non piange la propria morte, che accadeva non amando Te,
Dio, luce del mio cuore e pane della bocca interiore della mia anima e virtù che feconda la mia mente e
grembo del mio pensiero? Non ti amavo, e fornicavo lontano da te, e per me che fornicavo da ogni parte
risuonava il grido “Bravo! Bravo!”.
Amicitia enim mundi huius fornicatio est abs te et “Euge! euge!” dicitur ut pudeat, si non ita homo sit. Et haec
non flebam et flebam Didonem extinctam ferroque extrema secutam7, sequens ipse extrema condita tua
relicto te et terra iens in terram: et si prohiberer ea legere, dolerem, quia non legerem quod dolerem. Talis
dementia honestiores et uberiores litterae putantur quam illae, quibus legere et scribere didici.
________________________
et CDGS Sk. Ver. : sed O
talis OS Sk. Ver. : tali CDG O’Donnell
Traduzione: Infatti l’amicizia di questo mondo è una fornicazione lontano da te, e viene detto “Bravo! Bravo!”
affinché qualcuno si vergogni se non è un uomo di questo genere. Ed io non piangevo queste cose, e piangevo
Didone morta che seguì l’estremo destino con la spada, io stesso seguendo le tue creature più lontane e terra
che va nella terra: e se mi proibivano di leggere queste cose, provavo dolore poiché non leggevo o non potevo
leggere ciò per cui provavo dolore. Una tale demenza sono ritenute essere un insegnamento migliore e più
ricco, rispetto a quelli con i quali ho imparato a leggere e a scrivere.
Agostino studente aveva odiato il primo insegnamento (leggere, scrivere, calcolare), in quanto era stato
costretto ad apprendere, e la costrizione rende indigesto l’apprendimento; aveva invece apprezzato
oltremodo gli insegnamenti ricevuti presso il grammaticus. Questa prospettiva si ribalta nell’Agostino
convertito, che in qualche modo ripudia l’opera di Virgilio, di sapore pagano, e rivaluta i primi insegnamenti
in quanto utili anche nel presente (Agostino vede in ciò la mano provvidenziale di Dio).
Fornicatio nel linguaggio biblico indica generalmente l’allontanamento da Dio.
La citazione dell’esametro virgiliano nella prosa di Agostino ci fa capire che ad appassionare Agostino non era
la semplice storia di Didone, bensì la storia di Didone così come l’aveva raccontata Virgilio nell’Eneide.
[Problema testuale: Talis è testimoniato non da tutti i codici, ma certamente da quelli più autorevoli;
attestata dai codici è anche la lezione tali. Le ultime due edizioni critiche accolgono a testo talis, il che tuttavia
ci costringe ad una serie di “peripezie” in traduzione: il verbo putantur è infatti al plurale, e potrebbe essere
giustificato dalla presenza dal predicativo del soggetto honestiores et uberiores litterae, con il quale sarebbe
concordato nel numero. Contro la scelta delle due edizioni critiche più recenti, O’ Donnell sostiene che tali
sia preferibile, e la traduzione sarebbe: “In base ad una pazzia di questo genere, sono ritenuti insegnamenti
6
Cf. Psal 73.
7
Cf. Verg. aen. 6, 456-457.
Nicola Gentile
migliori e più ricchi rispetto a quelli con i quali ho imparato a leggere e a scrivere”. Secondo Pirovano, tali
migliore il testo sotto diversi punti di vista, anche se parrebbe mancare un aggettivo dimostrativo da
concordare con litterae; se accettassimo talis potrebbe crearsi una sorta di “iato logico”, per il quale
l’espressione talis dementia parrebbe non più riferirsi al pianto del giovane Agostino per le sofferenze di
Didone bensì agli insegnamenti del gramamticus].
9/11/12
Parliamo di esegesi virgiliana tardoantica in quanto tutta l’esegesi virgiliana risalente al periodo precedente
è naufragata; dell’età tardoantica ci sono rimasti i commenti di Servio e di Tiberio Claudio Donato (che
commentò la sola Eneide). Viriglio divenne un classico praticamente fin da subito: già in età augustea il
grammaticus Quinto Cecilio introdusse l’insegnamento dell’opera di Viriglio nelle scuole.
[1.22] Sed nunc in anima mea clamet deus meus, et veritas tua dicat mihi: non est ita, non est ita; melior est
prorsus doctrina illa prior. Nam ecce paratior sum oblivisci errores Aeneae8 atque omnia eius modi quam
scribere et legere. At enim vela pendent liminibus grammaticarum scholarum, sed non illa magis honorem
secreti quam tegimentum erroris significant.
Traduzione: Ma ora, nella mia anima, gridi il mio Dio, e la tua verità mi dica: “Non è così! Non è così!”; è
certamente migliore quel primo insegnamento. Infatti eccomi, sono più pronto a dimenticare il vagabondare
di Enea e tutte le cose di questo genere piuttosto che dimenticare come si fa a leggere e a scrivere.
Certamente, dalle soglie delle scuole di grammatica pendono delle tende, ma esse non indicano tanto il
prestigio del segreto quanto piuttosto l’occultamento dell’errore.
Non clament adversus me quos iam non timeo, dum confiteor tibi quae vult anima mea, deus meus, et
adquiesco in reprehensione malarum viarum mearum9, ut diligam bonas vias tuas, non clament adversus me
venditores grammaticae vel emptores, quia, si proponam eis interrogans, utrum verum sit quod Aenean
aliquando Carthaginem venisse poeta dicit, indoctiores nescire se respondebunt, doctiores autem etiam
negabunt verum esse.
At si quaeram quibus litteris scribatur Aeneae nomen, omnes mihi, qui haec didicerunt, verum respondent
secundum id pactum et placitum, quo inter se homines ista signa firmarunt.
_____________________________
respondent CDOS Sk. Ver. (app.) : respondebunt G Ver. (testo)
quo CDO Sk. Ver. : quod GS
8
Cf. Aug. conf. 1, 20.
9
Cf. Psal 118.
Nicola Gentile
Traduzione: Non gridino contro di me coloro che io ormai non temo più, mentre confesso a te ciò che
desidera la mia anima, mio Dio, e mentre trovo pace nella condanna delle mie cattive strade, per amare le
tue buone strade; non gridino contro di me coloro che vendono o acquistano grammatica, poiché, se
chiedessi loro con una domanda se sia vero ciò che il poeta dice, ossia il fatto che Enea un tempo sia giunto
a Cartagine, i meno istruiti risponderanno di non saperlo, mentre i più istruiti addirittura negheranno che ciò
sia vero.
Ma se chiedessi con quali lettere si scriva il nome di Enea, tutti coloro che hanno imparato queste cose
risponderebbero ciò che è vero, secondo quel patto e quella convenzione attraverso cui gli uomini hanno
stabilito tra di loro questi segni.
Agostino si difende da una possibile critica che proverrebbe dai venditores grammaticae vel emptores;
qualche critico vede in questo passo l’eco delle critiche reali che i colleghi di Agostino gli avrebbero rivolto
nel momento in cui decise di abbandonare il mestiere del grammaticus. Notiamo un atteggiamento di critica
razionalistica nei confronti del mito, la cui ueritas viene messa in discussione, e di conseguenza l’intero
insegnamento grammaticale, che appunto non conterrebbe la virtù della ueritas. Nella conclusione abbiamo
la rivalutazione dell’insegnamento precedente a quello del grammaticus, riassunto nell’esempio delle lettere
con cui si scrive il nome di Enea. Il focus del ragionamento agostiniano è il principio del uerum, della ueritas:
l’insegnamento del grammaticus si allontana dalla ueritas, mentre il primo insegnamento risponde ad essa.
Item si quaeram quid horum maiore vitae huius incommodo quisque obliviscatur, legere et scribere an poetica
illa figmenta, quis non videat, quid responsurus sit, qui non est penitus oblitus sui?
Peccabam ergo puer, cum illa inania istis utilioribus amore praeponebam vel potius ista oderam, illa amabam.
Iam vero unum et unum duo, duo et duo quattuor odiosa cantio mihi erat et dulcissimum spectaculum
vanitatis equus ligneus plenus armatis et Troiae incendium atque ipsius umbra Creusae10.
Traduzione: Parimenti, se chiedessi che cosa tra tali insegnamenti qualcuno dimenticherebbe con maggiore
danno per questa vita, ossia leggere e scrivere oppure quelle finzioni poetiche, chi non vedrebbe cosa
risponderebbe colui che non è totalmente dimentico di sé stesso?
Peccavo dunque quando ero un fanciullo, allorché amavo maggiormente quegli insegnamenti vani rispetto a
questi più utili, o per meglio dire: odiavo questi, amavo quelli. E uno più uno due e due più due quattro era
per me una odiosa cantilena, mentre il cavallo ligneo pieno di soldati e l’incendio di Troia e l’ombra della
stessa Creusa erano per me uno spettacolo sì di vanità, ma dolcissimo.
Cosa sarebbe meglio dimenticare, se si dovesse scegliere? L’insegnamento primario o quello del grammatico?
Agostino risponde con una domanda retorica: dimenticare come si legge e come si scrive sarebbe un danno
più grande. Ambiguità di questo ultimo passo > vi sono diverse interpretazioni, a seconda di dove si collochi
qui non est penitus oblitus sui: secondo altre traduzioni “quale persona che non è totalmente dimentica di sé
stessa non vedrebbe quale risposta bisogna dare?” (forse offre un senso complessivo peggiore rispetto alla
prima traduzione).
10
Cf. Verg. aen. 2, 771 infelix simulacrum atque ipsius umbra Creusae
Nicola Gentile
[1.23] Cur ergo graecam etiam grammaticam oderam talia cantantem? Nam et Homerus peritus texere tales
fabellas et dulcissime vanus est. Mihi tamen amarus erat puero. Credo etiam graecis pueris Vergilius ita sit,
cum eum sic discere coguntur ut ego illum. Videlicet difficultas, difficultas omnino ediscendae linguae
peregrinae, quasi felle aspergebat omnes suavitates graecas fabulosarum narrationum.
_________________
Traduzione: Perché dunque odiavo anche la letteratura greca, che pure canta cose di questo tipo? Anche
Omero, infatti, è esperto nell’intrecciare tali favolette, ed è vuoto in modo dolcissimo. Eppure, a me da
fanciullo risultava amaro. Credo che anche per i fanciulli greci Viriglio sia tale, quando vengono costretti a
studiarlo così com’io ero costretto a studiare Omero. Evidentemente la difficoltà, la difficoltà di per sé stessa
di apprendere una lingua straniera per così dire aspergeva di fiele tutte le greche dolcezze di favolose
narrazioni.
Peritus + inf. è un uso prettamente poetico che si afferma nella prosa nel periodo post-augusteo.
La lezione con il doppio difficultas sembrerebbe da accogliere in quanto la ripetizione sarebbe giustificata
anche da omnino.
Nel proseguo di questo capitolo Agostino approfondisce la differenza tra il suo apprendimento del latino e
l’apprendimento del greco. Conclusione: nell’apprendimento di queste cose ha maggiore efficacia la libera
curiosità che la meticolosa costrizione.
Il capitolo 24
I capitoli 25-26 introducono un riferimento allo studio delle opere di Terenzio presso il grammaticus, in
particolare di un passo dell’Eunuchus; viene sollevato il problema dell’insegnamento morale che veniva
trasmesso attraverso la lettura di questi testi: Agostino osserva che Terenzio, sebbene venga studiato a
scuola per l’apprendimento della lingua, trasmetta comunque anche insegnamenti morali (nel trasmettere i
uasa si trasmette anche il uinum); insegnamenti che l’Agostino convertito non può più accettare, e di cui si
vergogna.
12/11/20
[1.27] Sine me, deus meus, dicere aliquid et de ingenio meo, munere tuo, in quibus a me deliramentis
atterebatur. Proponebatur enim mihi negotium animae meae satis inquietum praemio laudis et dedecoris vel
plagarum metu, ut dicerem verba Iunonis irascentis et dolentis, quod non posset Italia Teucrorum avertere
regem11, quae numquam Iunonem dixisse audieram.
Sed figmentorum poeticorum vestigia errantes sequi cogebamur et tale aliquid dicere solutis verbis, quale
poeta dixisset versibus: et ille dicebat laudabilius, in quo pro dignitate adumbratae personae irae ac doloris
similior affectus eminebat verbis sententias congruenter vestientibus.
Ut quid mihi illud, o vera vita, deus meus, quod mihi recitanti adclamabatur prae multis coaetaneis et
conlectoribus meis? Nonne ecce illa omnia fumus et ventus? Itane aliud non erat, ubi exerceretur ingenium et
lingua mea?
11
Cf. Verg. aen. 1, 38; la struttura dell’esametro virgiliano viene leggermente modificata da Agostino in funzione della
sintassi complessiva della sua prosa.
Nicola Gentile
Traduzione: Consentimi, mio Dio, di dire qualcosa anche a proposito del mio ingegno, tuo dono, e in quali
vaneggiamenti veniva da me consumato. Infatti mi veniva proposto un compito abbastanza inquietante per
la mia anima, con l’incentivo della lode e del biasimo, oppure con la paura delle percosse; l’esercizio
consisteva nel pronunciare le parole di Giunone, irata e addolorata, e perché non poteva allontanare il re dei
Teucri dall’Italia: parole, queste, che non avevo mai sentito pronunciare da Giunone12. Eppure, eravamo
costretti a seguire errando le impronte delle finzioni poetiche, e a dire qualcosa in parole sciolte [“in prosa”]
esattamente come il poeta l’aveva detta in versi, e declamava in modo maggiormente degno di lode colui nel
cui discorso risplendeva, in rapporto al rango della persona raffigurata, il sentimento di ira o di dolore più
verosimile, con parole che rivestivano le frasi in modo conveniente. A che pro per me quella cosa, o vita vera,
Dio mio, e cioè il fatto che quando recitavo venissi acclamato più di molti coetanei e condiscepoli? Ecco, non
erano forse tutte quelle cose fumo e vento? […]
L’exercitatio retorica viene descritta da Agostino in termini estremamente negativi (delirementum, attereo,
idea di un ingegno che viene sprecato e consumato con gli esercizi sbagliati). Inquietum va inteso in senso
attivo, “che rende inquieto, inquietante” (uso piuttosto raro); praemio laudis et dedecoris vel plagarum
metu, da notare la costruzione chiastica. Ut quid è un costrutto non classico, piuttosto raro; conlector è un
termine molto raro, e sembrerebbe essere questa la sua prima attestazione in tutta la Latinitas.
Ci viene detto che lo studente viene chiamato a parlare in veste di Giunone, ci vengono detti i sentimenti che
bisognava rappresentare, che l’esercizio era in prosa, che le parole dovevano essere congruenti alla dignitas
della persona rappresentata. L’esercizio descritto da Agostino è quello dell’ etopea/prosopopea, che poteva
prendere Virgilio come modello ma da questo, in un processo creativo, doveva distaccarsi.
Nel proseguimento del capitolo 27 l’Agostino convertito riflette sull’utilità di esercizi del genere sulla
formazione della persona.
12
Il discorso non è mai stato sentito in quanto discorso pronunciato da un personaggio immaginario, inesistente
(interpretazione forse supportata anche dai figmenta poetica di cui si fa menzione subito dopo)? Oppure – secondo
altri – il discorso non sarebbe mai stato sentito in quanto frutto di un esercizio creativo, che si discosta dal modello
virgiliano (ipotesi, quest’ultima, forse meno probabile)?
Nicola Gentile
Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. A 79 > cd. Virgilio di Petrarca, ossia il codice di Viriglio appartenuto a
Francesco Petrarca. Il ms. venne illustrato da uno dei grandi illustratori dell’epoca, Simone Martini. Sul
frontespizio abbiamo la rappresentazione di Virgilio, la personificazione delle sue opere (Eneide, Bucoliche,
Georgiche) e la rappresentazione di Servio nell’atto di “svelare” Virgilio (> rappresentazione dell’esegesi
virgiliana).
Servio commentò le tre opere di Virgilio, attraverso un approccio soprattutto grammaticale; Tiberio Claudio
Donato commentò la sola Eneide, attraverso un approccio sostanzialmente retorico.
Tutto ciò che precede Servio riguardo all’esegesi virgiliana è andato in massima parte perduto. Valerio Probo
è un personaggio difficile da valutare: secondo le fonti avrebbe curato un’edizione di Virgilio sul modello
alessandrino.
« Staffette » esegetiche : «Come in una corsa a staffetta c’è un elemento comune, il testimone appunto, che
passa di mano in mano, ma non necessariamente per via diretta, così nei nostri commenti c’è un materiale
che tutti sembrerebbero scambiarsi e che in tutti in certa misura riaffiora; ma c’è poi l’andatura specifica dei
singoli corridori, ossia quanto ciascun testo afferma di suo, la sua individualità, quella consequenzialità
interna che giustifica la singola nota che vorremmo estrapolare e che dovrebbe essere fatta risaltare prima
di sentirci autorizzati all’estrapolazione» (M. Gioseffi, Staffette esegetiche. Concatenazioni di note fra i lettori
tardoantichi a Virgilio, p. 85) ; «Il nostro compito dovrà essere quindi, prima di utilizzare tali note e di
giudicarle giuste o sbagliate in assoluto (o dipendenti le une dalle altre), quello di ricostruire quanto più
possibile il mondo di riferimenti e di limitazioni che sta alle loro spalle. È invece più discutibile l’idea di
utilizzare queste note estrapolandole dal contesto, per metterle a frutto poi, così estrapolate, nei nostri
commenti. Il rischio di far dire al testo antico quello che di fatto non diceva e non intendeva dire, o anche
solo di non cogliere tutte le sfumature e le conseguenze delle sue intenzioni, mi pare infatti decisamente
alto. Meglio allora, molto meglio, indagare le affermazioni dei nostri commentatori nel loro insieme e vedere
in essi dei corridori che tendono tutti a una stessa meta e si passano la staffetta di mano in mano, procedendo
ciascuno con un proprio passo, dei propri tempi: passo e tempi dai quali, alle volte, sarà lecito diffidare» (M.
Gioseffi, Staffette esegetiche, p. 99) > N.B. Quando si leggono i commentatori antichi occorre cercare di
ricostruire il mondo di conoscenze che sta alle spalle di ogni singola argomentazione, quindi distinguere ciò
che è tradizionale da ciò che è invece originale di ogni singolo commentatore.
TIBERIO CLAUDIO DONATO13 è autore di un commento all’Eneide dal titolo Interpretationes Vergilianae.
Circa la sua biografia non sappiamo praticamente nulla; le uniche informazioni a riguardo sono ricavabili dalla
sua opera: Tiberio Claudio Donato si descrive come una persona di età avanzata che decide di scrivere questo
commento ad uso del figlio.
La cronologia dell’opera di Claudio Donato non è chiarissima: sicuramente ci troviamo nel periodo
tardoantico, generalmente si pensa al IV-V sec. d.C., ma non abbiamo ulteriori dati per indicare una
13
Da non confondere con Elio Donato, autore anch’egli di un commento a Viriglio, andato perduto.
Nicola Gentile
cronologia più precisa. Il commento dedica un libro ad ogni libro del poema virgiliano: abbiamo, quindi, in
totale 12 libri. L’opera ci è giunta nella sua interezza. L’approccio di Tiberio Claudio Donato è di carattere
retorico; non mancano le annotazioni di carattere grammaticale, ma quando le troviamo sono di norma il
punto di partenza per arrivare a considerazioni di carattere retorico. Caratteristica del commento di Claudio
Donato è la tendenza a spiegare Virgilio attraverso una sorta di “parafrasi artistica”, quindi una parafrasi che
ha anche qualche pretesa formale. Altra caratteristica è la prolissità del commento (l’ultimo editore, H.
Georgii, nella praefatio all’edizione lo definisce un autore “pieno di noia”). Da questo commento emergono
pochissimi dati di carattere mitologico, storico, antiquario (cose che invece letteralmente “riempiono” il
commento di Servio); in un paio di occasioni Claudio Donato dice che avrebbe raccolto informazioni di questo
tipo in un tredicesimo libro che, tuttavia, o non è stato mai scritto o non ci è stato trasmesso. L’ impressione
che si ricava è che Tiberio Claudio Donato non fosse un professionista del settore ma piuttosto un lettore
amatoriale. Il ruolo che questo commento ha giocato nel corso dei secoli, proprio per queste sue
caratteristiche, fu certamente di gran lunga inferiore rispetto a quello esercitato dall’opera di Servio.
13/11/20
1983 > Marisa Squillante, tramite la pubblicazione di un articolo, ha fatto “riscoprire” gli interessi nei
confronti del commento di Tiberio Claudio Donato, che a partire da quegli anni è stato nuovamente oggetto
di studi specifici.
Tra la fine del 700 e l’inizio dell’800 si ha una riscoperta dei codici antichi, che in età carolingia vennero copiati
e diffusi; il commento di Tiberio Claudio Donato era certamente conosciuto in epoca carolingia, ma poi
scomparve, per poi ricomparire in epoca umanistica.
1438 > in occasione del Concilio di Ferrara Jean Jouffroy porta in Italia i codici contenenti il commento di
Tiberio Claudio Donato, che venne quindi riscoperto e copiato in Italia.
1486 > edizione di Virgilio del Landino, contenente a margine alcuni excerpta del commento di Donato.
1535 > editio princeps del commento di Tiberio Claudio Donato, a Napoli;
1537 > edizione veneziana del testo di Donato.
1551 > edizione di Virgilio del Fabricius, contenente anche il commento di Tiberio Claudio Donato.
1905/1096 > edizione critica di H. Georgii (N.B. novità di questa edizione è il recupero e la collazione dei
codici carolingi, quindi dei rami alti della tradizione del testo; tuttavia Pirovano sostiene che questa edizione
critica ha ancora alcuni difetti, per cui auspica una nuova edizione critica dell’opera).
Abbiamo tre codici di età carolingia, tutti noti e utilizzati da Georgii per la sua edizione:
- V: Città del Vaticano, BAV, Vat. Lat. 1512 (codice confezionato a Luxeuil alla fine dell’VIII secolo, contenente
i libri VI – XII);
- L: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 45.15 (codice confezionato a Tours tra la fine dell’VIII e
l’inizio del IX secolo, contenente i libri I – V);
- R: Città del Vaticano, BAV, Reg. Lat. 1484 (codice confezionato a Tours tra l’820 e l’843 ca., contenente i
libri I – V + X.1-585; sicuramente soggetto ad un processo di deterioramento del testo).
Possiamo sin da subito notare come il testo, particolarmente lungo, fu soggetto ad una divisione in due
volumi, uno contenente i libri I-V (testimoniato da L e R) e un altro contenente i libri VI-XII (testimoniato da
V).
Nicola Gentile
Abbiamo due lacune originarie di una certa estensione (una nel libro IV ed una nel libro VIII) presenti sia in R
che in V, presumibilmente presenti già nell’antigrafo. Georgii postulava alla base della tradizione un
archetipo, dal quale discenderebbero indipendentemente L, R e V (Giovan Battista Alberti ha definito lo
stemma di Georgii “totalmente aberrante”); possiamo muovere una prima obiezione: se L/R e V non si
sovrappongono mai, come possiamo individuare degli errori comuni, e quindi delle lezioni da portare a
confronto? Dallo stemma di Georgii la tradizione del testo appare tripartita, cosa che non vale per il testo di
Tiberio Claudio Donato. Dal punto di vista puramente stemmatico, dunque, la ricostruzione di Georgii non
sta in piedi. Secondo Pirovano Georgii avrebbe sbagliato ad intendere la relazione tra L e R: R andrebbe
considerato copia di L, quindi le innovazioni presenti nel suo testo non consentirebbero di risalire
direttamente all’archetipo (tuttalpiù, consentirebbero di risolvere alcuni problemi di L su base congetturale).
R è un codice chiaramente più recente di L.
N.B. Il metodo alla base della ricostruzione di Georgii è sostanzialmente corretto; tuttavia, la maggior parte
dei loci critici usati da Georgii per dimostrare la sua ricostruzione è falsa o erronea. Ad esempio: in L, f. 154r
abbiamo la lezione dein utilius; in R, f. 161r abbiamo la medesima lezione, ma corretta da una seconda mano
in de inutilibus > Pertanto, R non offre un testo migliore di L (presupposto che, per Georgii, era alla base della
presunta discendenza diretta di R dall’archetipo), bensì offre lo stesso testo, la medesima lezione, sulla quale
però è stata apportata una correzione. Di tutti gli esempi citati da Georgii a dimostrazione della sua tesi, una
metà circa è errata, l’altra metà è improbante.
[cf. P. Maas “evidenza latente” e risposta di S. Timpanaro]
Per dimostrare la dipendenza di R da L possiamo basarci su alcune prassi scrittorie osservabili nei manoscritti:
possiamo ad esempio notare che, in L, di norma il copista del commentario lasciava degli spazi bianchi che,
in un secondo momento, venivano riempiti – presumibilmente da un secondo copista – con i versi virgiliani;
in alcuni casi il copista assegnato alla copiatura dei versi virgiliani era costretto ad impiegare delle
abbreviazioni in quanto lo spazio lasciatogli dal copista del commento non era sufficiente. R usa una prassi
scrittoria differente, ossia il copista di R scrive in modo continuativo sia le parti del commento sia quelle del
testo virgiliano: il fatto quindi che, in determinati casi, il copista di R faccia uso delle medesime abbreviazioni
introdotte dal copista di L anche quando non costretto dallo spazio insufficiente sembra essere un argomento
sufficientemente probante la dipendenza di R da L. Vedi anche il saut du meme au meme presente in R, f.117r
che necessariamente deve dipendere da una situazione testuale come quella testimoniata in L, f.104r
(Lucarini).
ωa + ωb (Luxeuil)
(Tours) (Luxeuil)
La (+ Lb) (Va +) Vb
Ra + Rb
Nicola Gentile
Il codice era certamente già diviso quando si trovava a Luxeuil, dove venne copiato V (presumibilmente la
seconda parte di un codice intero); da un altro codice di Luxeuil sarebbe stato copiato, a Tours, L
(presumibilmente la prima parte di un codice originariamente intero), da cui poi dipenderebbe R.
Poco dopo essere stato copiato, R è stato forse copiato, sicuramente studiato e revisionato, da Lupo di
Ferrieres, il quale avrebbe introdotto una serie di correzioni – principalmente ope ingenii – che sicuramente
ci aiutano a risolvere per via congetturale alcuni problemi testuali.
> Tiberio Claudio Donato ci offre un’interpretazione di tipo retorico dell’Eneide: ma cosa vuol dire? Cf. N.
Horsfall, Book 11. Rhetoric, in Id., A Companion to the Study of Virgil, Leiden – New York – Köln 1995, pp.
186-187 > non considerare la retorica contrapposta alla poetica (è questo un pregiudizio di matrice
romantica): si tratta di un elemento fondante della poesia di Virgilio. Per gli antichi la retorica non era un
qualcosa da contrapporre tout court alla poesia.
16/11/20
Claud. Don. proem. 1-5 > (1) <Post> illos qui Mantuani vatis mihi carmina tradiderunt postque illos quorum
libris voluminum quae Aeneidos inscribuntur quasi quidam solus et purior intellectus expressus est, silere
melius fuit quam loquendo crimen adrogantis incurrere. Sed cum adverterem nihil magistros discipulis
conferre quod sapiat, scriptores autem commentariorum non docendi studio, sed memoriae suae causa
quaedam favorabili stilo, multa tamen involuta reliquisse, haec, fili carissime, tui causa conscripsi, non ut sola
perlegas, sed ut conlatione habita intellegas quid tibi ex illorum labore quidve ex paterno sequendum sit.
_____________________________
illos LU post illos RO ed. quoniam i in L initialis iitterae instar ornamentis insigni-ta est nec credi potest
librarium primum verbum omisisse, archetypus post non habuisse videtur, R, qui alia quoque correxit, per
coniecturam adiecisse, X14 utramque lectionem exhibuisse. potest enim Don. figura ἀπὸ κοινοῦ usus esse.
[…] quamobrem post uncis inclusi.
Traduzione: Dopo coloro che mi hanno trasmesso i carmi del poeta mantovano e dopo coloro grazie ai cui
libri è stato espresso il significato per così dire unico ed autentico dei libri intitolati Eneide, sarebbe stato
meglio fare silenzio piuttosto che, parlando, incorrere nell’accusa di arroganza. Tuttavia, quando mi accorsi
che i maestri non comunicano ai loro allievi niente che abbia un senso, e che poi gli scrittori di commentari
non per una volontà di insegnamento ma “per la loro memoria” hanno scritto alcune cose con uno stile
piacevole, e hanno lasciato però molte cose intricate, queste cose, o carissimo figlio, ho messo insieme a tuo
beneficio; non affinché tu legga solo queste cose, ma perché tu, fatto un confronto, possa capire cosa tu
debba seguire della loro fatica e cosa della fatica paterna.
Tiberio Claudio Donato spiega le ragioni che lo hanno portato alla composizione delle Interpretationes
Vergilianae.
[Problema testuale: post è frutto di una integrazione, manca in L ma lo troviamo in R. Georgii afferma che,
dal momento che la I di illos in L è scritta come una lettera decorata, non è credibile che il copista abbia
potuto tralasciare la prima parola; quindi è del tutto verosimile che nell’archetipo da cui discendono L e R
post non fosse presente, e che post sia innovazione di R. Tuttavia Georgii, nella sua edizione, decide di
14
Secondo Georgii codice di età umanistica.
Nicola Gentile
espungere il primo post in quanto sostiene esso possa essere “sottinteso” sulla base di un presunto valore
apo koinou del post che segue15.]
Memoriae suae causae: il termine memoria ha uno spettro semantico molto ampio: può voler dire
semplicemente “memoria”, intesa come facoltà di ricordare, ma anche – per esempio – “fama” lasciata
presso i posteri. Il nesso che troviamo in Claudio Donato è piuttosto ambiguo: la maggior parte degli studiosi
per memoria intendono in questo caso “fama”; Pirovano, sulla base delle affermazioni successive di Donato
(quaedam favorabili stilo, multa tamen involuta reliquisse), sostiene che invece memoria andrebbe
interpretato semplicemente come “facoltà di ricordare”, e che quindi i commentari cui fa riferimento Claudio
Donato sarebbero stati degli appunti personali degli autori (ipotesi, questa, che meglio si accorda col senso
complessivo del passo e col significato del termine commentarium16 e con la funzione originaria dei
commentari, ossia quella di “ricordare”).
Abbiamo due elementi tipici della topica proemiale: 1) appello diretto al destinatario; 2) menzione del fatto
che la genesi dell’opera è dovuta al rapporto particolare tra chi scrive ed il dedicatario.
In aggiunta, Claudio Donato muove una duplice critica: in passato, i maestri di scuola insegnavano cose
sensate, mentre nel presente non trasmettono nihil quod sapiat, nulla che abbia un senso > critica ai maestri
del presente (come vedremo più avanti, una critica all’insegnamento di tipo grammaticale delle opere
classiche nelle scuole del tempo presente); la seconda è una critica allo stile degli scriptores
commentariorum.
Non enim aut illi omnia complexi sunt, ut res ipsa indicat, aut ego tanta composui quae te possint ad pleni
intellectus effectum competenter instruere. Quocirca, ut dictum est, lege omnia et, si forte nostra aliis
displicebunt, tibi certe complaceant quae filio pater sine fraude transmisi.
(2) Primum igitur et ante omnia sciendum est quod materiae genus Maro noster aggressus sit; hoc enim nisi
inter initia fuerit cognitum, vehementer errabitur. Et certe laudativum est, quod idcirco incognitum est et
latens, quia miro artis <ingenio> genere laudationis ipse, dum gesta Aeneae percurreret, incidentia quoque
etiam aliarum materiarum genera complexus ostenditur, nec ipsa tamen aliena a partibus laudis; nam idcirco
adsumpta sunt, ut Aeneae laudationi proficerent.
____________________
laudativum V.d.Hoeven (cfr. 11.295) Georgii : laudandum LR,
miro artis LR Georgii (qui pro mira arte intellegi vult) : <ingenio> dubit. Georgii add. et corr.
Traduzione: Infatti né essi hanno abbracciato ogni cosa né io ho scritto così tanto da poterti indirizzare
convenientemente al raggiungimento della piena comprensione. Per questo motivo, come si è detto, leggi
ogni cosa; e anche se per caso la mia opera non piacerà ad altri, piacciano almeno a te le cose che ti ho
affidato in eredità, da padre a figlio, senza inganno.
2) Per prima cosa dunque, e anzitutto, bisogna comprendere quale genere di argomento il nostro Virgilio
abbia affrontato; infatti, se ciò non sarà conosciuto sin dall’inizio, si cadrà in grossi errori. Senza dubbio, si
tratta di un argomento elogiativo, che per questo rimane sconosciuto e nascosto: poiché con grande ingegno
artistico Viriglio, ripercorrendo le imprese di Enea, dimostra di aver abbracciato en passant attraverso il
genere dell’elogio anche gli altri tipi di argomento. E questi stessi non sono tuttavia estranei dall’intento
dell’elogio: per questo infatti sono stati inseriti, per contribuire all’elogio di Enea.
Donato completa il discorso introducendo un elemento – più o meno veritiero – di modestia (tipico della
retorica proemiale). Scopo delle Interpretationes Vergilianae è quello di competenter instruere.
15
La scelta di Georgii è sostenuta anche dal Baherens, che in un articolo fa notare come in età tardoantica la prassi di
sottintendere una preposizione era comune; si discosta da tale interpretazione Pirovano, che invece sostiene la
necessità del post incipitario.
16
Aulo Gellio ci informa del fatto che Nigidio Figulo avesse scritto un commentario ad subsidium memoriae,
difficilmente interpretabile in quanto scritto con uno stile estremamente personale.
Nicola Gentile
Al § 2 Claudio Donato inizia ad introdurre l’idea di una interpretazione retorica dell’Eneide. Genus materiae
è espressione tecnica della retorica (ricorre anche in Cicerone ed in Quintiliano) che rimanda alla
classificazione della materia retorica introdotta da Aristotele, e cioè i tre generi della retorica: giudiziario,
deliberativo, epidittico (o elogiativo); la prima operazione effettuata da Claudio Donato è dunque quella di
classificare l’Eneide secondo un criterio retorico complessivo: si tratta di un’opera elogiativa.
[Problemi testuali: laudativum è correzione di V.d. Hoeven17 sulla base del confronto con Claud. Don.
11.295 ; ingenio manca nei manoscritti, ma secondo Pirovano è integrazione necessaria e sicura (non inserita
da Georgii, in un primo momento, nella sua edizione ; con la pubblicazione del secondo volume, tuttavia,
Georgii propone dubitanter l’integrazione)].
Secondo l’interpretazione retorica proposta da Donato, nel poema abbiamo due livelli : 1) il livello
complessivo dell’opera, nel quale possiamo individuare l’appartenenza dell’Eneide al genere elogiativo ; 2) il
livello dei discorsi diretti, nei quali si manifestano anche altri generi della retorica (deliberativo e giudiziario),
che comunque contribuiscono all’argomento principale dell’opera.
19/11/20
(3) Hoc loco quisquis Vergilii ingenium, moralitatem, dicendi naturam, scientiam, mores peritiamque
rhetoricae disciplinae metiri volet, necessario primum debet advertere quem susceperit carmine suo
laudandum, quantum laborem quamque periculosum opus adgressus sit. Talem enim monstrare Aenean
debuit, ut dignus Caesari, in cuius honorem haec scribebantur, parens et auctor generis praeberetur; cumque
ipsum secuturae memoriae fuisset traditurus extitisse Romani imperii conditorem, procul dubio, ut fecit, et
vacuum omni culpa et magno praeconio praeferendum debuit demonstrare.
______________________________________
Caesari Lr : Caesare R
secutorem LR : secuturae r Georgii (cfr. 9.446)
Traduzione: Qui chiunque vorrà valutare l’ingegno, la capacità di conferire una moralità ai personaggi, lo stile
… necessariamente deve, per prima cosa, rilevare chi abbia scelto come oggetto di lode nel suo poema,
quanta fatica e che pericolosa operazione si sia sobbarcato. Infatti, doveva rappresentare Enea in modo tale
che venisse presentato a Cesare – in onore del quale queste cose venivano scritte – un degno antenato e
fondatore della stirpe; e, nell’atto di tramandarlo alla memoria dei posteri come fondatore dell’Impero
romano, senza dubbio – come fece – doveva dimostrare che fosse privo di ogni colpa e che fosse da innalzare
con grande elogio.
Il compito di elogiare Enea non è un compito facile: Enea è un eroe sui generis, uno sconfitto, un esule, un
personaggio che nella tradizione era stato anche sospettato di essere in qualche modo in combutta col
nemico.
[Problema testuale: 1) Caesari è la lezione di L, recepita anche da Georgii; troviamo Caesari anche in r
(secondo le sigle di Georgii), ossia uno dei correttori di R (uno di questi è sicuramente Lupo di Ferrieres).
Caesari è da interpretare in connessione con praeberetur; Caesare è probabilmente una banalizzazione
indotta dalla vicinanza di dignus. 2) secuturae è sempre frutto di una correzione di r, che aveva compreso
come la lezione secutorem non dava senso; Georgii recepisce questa correzione e porta a confronto il locus
similis 9.446 sempre nell’opera di Claudio Donato]
Vacuum omni culpa rimanda al genere giudiziario; magno praeconio praeferendum rimanda al genere
epidittico.
17
V.d. Hoeven fu il primo studioso a notare che Tiberio Claudio Donato ed Elio Donato fossero due autori distinti.
Nicola Gentile
(4) Dicamus ergo quae ipsius Aeneae personam deformare potuissent; nullum enim Vergiliani carminis
apparebit ingenium, nisi in persona suscepti herois fuerint enumerata contraria.
Incertum quippe esse non potest Aenean sic ex Asiae partibus recessisse amissa patria, quam defensare non
potuit, perditisque opibus regni tanta et illic apud Ilium et cum genitali solo truderetur esse perpessum, ut
cuivis credibile esse possit talia illum non fuisse passurum nisi iure deos omnes habuisset infestos (quod est
procul dubio criminosum) ut qui sic vitam suam duxerit, ut displiceret omnibus superis nullumque fautorem,
ne ipsum quidem avum suum Iovem, habere valuerit.
______________________________________
et qui LR Georgii
post valuerit lacunae signa posui, quia et qui cum antecedentibus
coniungi non potest, sed ad apodosin spectat hanc fere: eum non dignum auctorem populi Romani videri.
Traduzione: Diciamo dunque quali cose avrebbero potuto disonorare la persona di Enea; infatti, se non
saranno stati elencati gli elementi negativi nella persona dell’eroe patrocinato da Virgilio, non apparirà per
nulla l’ingegno della poesia di Viriglio. È incerto infatti che Enea si sia allontanato dai territori dell’Asia dopo
aver perso la patria, che non fu in grado di difendere, e che dopo aver perso le ricchezze del suo regno abbia
patito molti mali sia presso Ilio sia quando veniva cacciato dal suolo natio, a tal punto che a chiunque a buon
diritto potrebbe sembrare credibile che egli non avrebbe subito tali disavventure se non avesse avuto tutti
gli dei ostili nei suoi confronti (cosa senza dubbio deprecabile), dal momento che condusse la sua vita in modo
tale da dispiacere a tutti gli dei superi, e da non essere stato in grado di avere alcun fautore, neppure Giove,
che pure era suo nonno.
Donato ci dice qui quali erano i problemi che Virgilio avrebbe dovuto fronteggiare nel momento in cui decise
di assumere Enea come personaggio principale della sua opera; Viriglio è visto come una sorta di avvocato
difensore che assume all’interno di un processo immaginario la difesa di Enea (suscepti rimanda all’ambito
giudiziario). Deformare (e deformatio) è utilizzato come termine tecnico tipico del lessico epidittico, come
opposto di elogiare.
[Problema testuale: Georgii stampa et qui, ma poi è costretto ad ipotizzare una lacuna dopo valuerit in
quanto, altrimenti, la struttura sintattica del periodo non reggerebbe. Ut qui (con valore causale soggettivo)
è la correzione di Pirovano, intervento più economico che consentirebbe ci conservare la sintassi del testo
senza dover aggiungere altro].
Enea è dunque un eroe perdente, e questa sua natura va spiegata e corretta per creare una variante positiva
dell’eroe: questo è il compito di cui, secondo l’interpretazione di Donato, si sarebbe fatto carico Viriglio.
(5) Purgat ergo haec mira arte Vergilius et non tantum collecta in primis versibus, ut mox apparebit, verum
etiam sparsa per omnes libros excusabili adsertione, et, quod est summi oratoris, confitetur ista quae negari
non poterant et summotam criminationem convertit in laudem, ut inde Aenean multiplici ratione
praecipuum redderet, unde in ipsum posset obtrectatio convenire.
Traduzione: Dunque Viriglio confuta queste accuse con straordinaria arte e con giustificazioni raccolte non
solo nei primi versi, come sarà chiaro a breve, ma anche sparse in tutti i libri; e, cosa tipica di un oratore
eccelso, ammette queste cose che non avrebbero potuto essere negate, e trasforma l’accusa ricevuta in
lode, in modo tale da rendere Enea straordinario in molti modi sulla base di ciò che avrebbe potuto muovere
biasimo nei suoi confronti.
Qui Claudio Donato espone il meccanismo retorico alla base dell’ “apologia di Enea” realizzata da Virgilio
(summotam criminationem convertit in laudem); alla base di questi discorso c’è l’idea che Viriglio,
Nicola Gentile
sostanzialmente, si attenga ad una tradizione mitologica a lui precedente, scegliendo però di volta in volta la
variante che riteneva più appropriata18 (Viriglio avrebbe inventato pochissimo!).
Purgat è riconducibile al lessico giudiziario. Exscusabilis, stando al TLL, rappresenta qui l’unico caso in cui
l’aggettivo sembra avere valore attivo.
Proseguendo nel discorso, Donato ci dice che Enea, di fatto, non aveva colpe per quello che gli era successo;
ribaltando la prospettiva, ci dice quali erano invece le caratteristiche dell’ “antagonista” dell’eroe, ossia il
personaggio di Giunone.
(10) Ac ne forte nescias quid tibi commodi ex hac traditione19 possit accedere, paucis accipe. Si Maronis
carmina competenter attenderis et eorum mentem congrue conprehenderis, invenies in poeta rhetorem
summum atque inde intelleges Vergilium non grammaticos, sed oratores praecipuos tradere debuisse. Idem
enim tibi, ut aliquibus locis exempli causa posuimus, artem dicendi plenissimam demonstrabit.
Traduzione: E per evitare che tu ignori quale utilità ti possa provenire da questo dono, apprendilo con poche
parole. Se presterai la giusta attenzione ai componimenti di Virgilio e ne comprenderai in modo conveniente
il senso, individuerai nel poeta un retore sommo e da ciò comprenderai che Viriglio avrebbero dovuto
insegnarlo non i grammatici, ma gli oratori migliori. Egli stesso, infatti, come ti ho segnalato a mo’ di esempio
in alcuni passi, ti mostrerà una capacità retorica compiutissima.
Qui c’è una esplicita contrapposizione tra la lettura grammaticale delle opere di Virgilio e quella retorica.
11) Amato eum, qui multorum diversorumque scripta complexus est, erit operae pretium non errare per
plurimos et, si id placebit, laudabis eum cui licuit universa percurrere, qui se diversae professionis et
diversarum sectatoribus artium benivolum praebuit peritissimumque doctorem.
Habet denique ex eo nauta quod discat in officiorum ratione, habent quod imitentur patres et filii, mariti et
uxores, imperator et miles, civis optimus et patriae spectatissimus cultor: in laboribus periculisque reipublicae
optimum quemque et apud suos primum fortunas et salutem suam debere contemnere.
Traduzione: Ama dunque lui, che ha abbracciato gli scritti di molte e diverse persone; varrà la pena non
vagare attraverso molti autori e, se questo sembrerà giusto, loderai colui al quale fu possibile percorrere
tutte le cose, e che si è dimostrato un benevolo ed espertissimo maestro per i discepoli di ogni diversa attività
e delle diverse arti. Infatti il marinaio ha qualcosa da imparare da lui nel modo di svolgere i suoi conti; ganno
qualcosa da imitare i padri e i figli, i mariti e le mogli, il comandante ed il soldato, l’ottimo cittadino ed il
fedelissimo sostenitore della patria: nelle fatiche e nei pericoli dello Stato tutti i migliori e quanti primeggiano
presso i propri concittadini devono disprezzare la propria sorte e la propria salvezza.
Viene qui sviluppato il tema della polymàtheia del poeta: Viriglio è un autore che ha praticato molteplici
letture e che le condensa nel proprio poema, trasmettendole.
Abbiamo qui una concezione eroica tipicamente latina, ossia dell’eroe che primeggia e che mette il proprio
primato a disposizione della collettività, come il pius Aeneas.
18
Cf. R. Heinze, La tecnica epica di Viriglio
19
Poco prima Donato, rivolgendosi al figlio, aveva definito la sua opera come un dono del padre per il figlio; pertanto,
ex hac traditione indica qui il passaggio del dono.
Nicola Gentile
(12) Magisterio eius instrui possunt qui se aptant ad deorum cultum futuraque noscenda. Hic habent
imitandam laudem qui inlaesas amicitias amant, habent quam metuant notam20 qui fluxa fide aut amicum
fefellerint aut propinquum. Docet quales esse debeant homines quorum praesidia in necessitatibus
postulantur, ne adrogantiae aut inhumanitatis crimen incurrant; non erubescendum, si potior inferiorem
roget, cum fuerit necessarius21.
Traduzione: dal suo insegnamento possono essere istruiti coloro che si preparano al culto degli dei, e alla
conoscenza del futuro; qui trovano una lode da imitare coloro che amano le amicizie inviolate, mentre
trovano una temibile nota di biasimo coloro che abbiano ingannato un amico o un parente con una lealtà
vacillante. Insegna come debbano essere gli uomini il cui aiuto viene chiesto nelle situazioni di necessità,
affinché non cadano nell’accusa di arroganza o di crudeltà; insegna che non si deve arrossire se una persona
di rango superiore chieda aiuto ad una persona di rango inferiore qualora questa risulti utile o necessaria.
Continua l’elenco degli insegnamenti offerti da Virgilio, e mentre scrive Donato aveva senz’altro in mente
episodi virgiliani: ad es., non erubescendum si potior inferiorem roget, cum fuerit necessarius ricorda
l’episodio del I libro dell’Eneide (1, 51-52) in cui Giunone si reca da Eolo per chiedere il suo aiuto; la nota di
Donato a questo passo chiarisce inoltre anche l’uso che l’autore fa di necessarius, concordato col soggetto,
nel senso di “necessario al raggiungimento di uno scopo”.
20/11/20
(13) Postremo quoniam non possumus Maronianae virtutis omnia narrata percurrere, exempli causa ista
dixisse sufficiat. Facilius enim cetera legendo et considerando reperies, si praedicta fueris adsecutus. Omnia
certe quae ex eo nunc adripere placuit, suis quibusque locis explicando tractabimus.
______________________
eo nunc r Georgii : eorum LR : eis edd.
Traduzione: Infine, dal momento che non possiamo narrare e ripercorrere tutti gli esempi della virtù di
Viriglio, sia sufficiente l’aver esposto queste cose a titolo di esempio. Più facilmente, infatti, troverai il resto
leggendo e riflettendo, se avrai seguito le cose da me premesse. Ad ogni modo, tutte le cose che abbiamo
deciso di estrapolare da esso, le tratteremo spiegandole ciascuna a tempo debito.
[Problema testuale: eo nunc, secondo Georgii, è correzione di r introdotta, tuttavia, in modo dubitativo (a
margine della correzione c’è una Q che sta per “quaere” e che denuncia, quindi, la natura incerta della
congettura); la correzione tuttavia è verosimile da punto di vista paleografico, anche se dal contesto ci si
aspetterebbe piuttosto un plurale riferito ai vari esempi riportati da Donato (per questo motivo, gli editori
prima di Georgii stampavano ex eis).]
Sia Donato sia Servio sono autori molto benevoli nei cf. di Viriglio; tuttavia, vi sono stati periodi nella storia
dell’esegesi virgiliana in cui le opere di Virgilio furono sottoposte ad una critica molto serrata >
(14) Nec te perturbent imperitorum vel obtrectatorum Vergiliani carminis voces inimicae. Scio enim nonnullos
calumniari quod sententias suas Vergilius velut contraria sentiendo dissolvat. In iis quippe reperiuntur qui,
20
Notam in Donato – ma è una tendenza abbastanza generale – ha quasi sempre accezione negativa, “nota di
biasimo”.
21
Alcuni editori hanno corretto necessarius con necessarium; concordare necessarius col soggetto è un uso anomalo
dell’aggettivo, ma l’usus scribendi di Donato conferma l’autenticità di questa lezione.
Nicola Gentile
relictis perspicuis rebus, argumentis velint contraria ipsa firmare, atque ita adsertionibus suis ostendunt sese
ab vero intellectu longe esse discretos.
Traduzione: Né ti turbino le voci nemiche degli incompetenti che criticano la poesia di Viriglio: so infatti che
alcuni calunniano Viriglio sostenendo che egli, a volte, confuterebbe le sue stesse affermazioni come se
pensasse l’opposto. Tra di essi, certamente, si trovano coloro che, abbandonando le cose evidenti, vogliono
confermare attraverso argomentazioni queste contraddizioni. E così, con le loro affermazioni, mostrano che
sono proprio loro ad essere alquanto distanti dalla vera comprensione.
Obrtrectatores22 è una parola molto diffusa per indicatore i critici di Viriglio (la troviamo anche impiegata per
indicare i detrattori di Cicerone). Virgilio ebbe una fortuna immensa e quasi costante nel tempo, anche se ci
furono periodo storici in cui la sua grandezza venne messa in discussione (ad es. prima parte del I sec. d.C.;
più di recente, il periodo Romantico, in cui veniva esaltata soprattutto la grandezza di Omero in quanto
conservava una certa primordialità rispetto a Viriglio, poeta di una società in qualche modo già “evoluta”).
Questi detrattori di Viriglio sono per noi poco più che nomi (Marco Vipsanio, Erennio, Igino e Lucio Anneo
Cornuto23): le loro opere non sono state conservate e, talvolta, le loro critiche negative vengono riportate
anche in forma anonima (fonte principale per noi di queste notizie è un capitolo della Vita di Svetonio Donato)
; la maggior parte delle volte queste critiche ci sono note attraverso le opere in difesa di Viriglio. Le critiche
che furono volte a Virgilio erano soprattutto di natura grammaticale, secondo una prospettiva tipicamente
alessandrina; Donato qui specifica che le critiche degli obtrectatores riguardano presunte incoerenze del
testo virgiliano, incoerenze che – in realtà – non sono proprie di Virgilio ma dell’argomentazione stessa dei
detrattori.
(15) Vergilius enim si dixit deos esse et rursum non esse memora-vit, alio autem loco posuit esse, sed nihil
curare, alio vero esse et curare quae homines agant, esse fatum et non esse, stata die homines mori et
interdum ante praefinitum tempus extingui, sentire aliquid mortuos vel nihil esse post mortem, non adserentis
officio ductus est, sed pro tempore, pro persona, pro loco, pro causa aut adstruxit ista aut certe dissolvit.
Denique, si ad propositum thema24 redeamus, inveniemus Vergilium id esse professum, ut gesta Aeneae
percurreret, non ut aliquam scientiae interioris vel philosophiae partem quasi adsertor adsumeret.
Traduzione: Se infatti Viriglio disse che gli dei esistono e poi riferì che non esistono; in un altro passaggio
invece afferma che esistono ma che non si preoccupano di nulla; in un altro ancora che esistono e che si
curano delle azioni umane; che il destino esiste e non esiste; che gli uomini muoiono in un giorno prestabilito
e che a volte si spengono prima del tempo predefinito; che i morti hanno delle sensazioni o che non vi sia
niente dopo la morte; se dice tutte queste cose, non lo fece spinto dall’obbligo di affermare una teoria, ma
certamente le ha sostenute in base al tempo, alla persona, al luogo o alla situazione. E poi, se ritorniamo al
tema che è stato premesso, troveremo che Viriglio ha dichiarato questo, cioè di ripercorrere le gesta di Enea,
e non di difendere nelle vesti di un sostenitore una qualche parte di una scienza morale o corrente filosofica.
Donato presenta qui una serie delle possibili incoerenze riscontrabili nel testo virgiliano, e assolve Viriglio
dall’accusa di incoerenza sostenendo che tali affermazioni potrebbero sembrare incoerenti soltanto se lette
in modo meccanico e svincolate dal proprio contesto di appartenenza, svicolate cioè dal tempo, dalla
22
Cf. il liber di età flavia Contra obtrectatores Vergilii
23
Igino, stando ad alcune fonti, non andrebbe considerato un obtrectator di Viriglio, in quanto avrebbe
semplicemente messo in luce alcune contraddizioni cronologiche presenti nell’Eneide. Anche Anneo Cornuto non
sarebbe stato un effettivo detrattore di Viriglio, in quanto avrebbe soltanto fatto notare alcune inverosimiglianze
presenti soprattutto nell’Eneide.
24
Thema, in ambito retorico, era normalmente la parola utilizzata per indicare l’oggetto di una declamazione o di un
esercizio retorico; Donato poco prima aveva detto che l’incipit dell’Eneide corrisponde al thema dell’intera opera.
Nicola Gentile
persona, dal luogo e dalla situazione. Le affermazioni di Viriglio andrebbero dunque interpretate a seconda
della situazione retorica offerta dalla sua narrazione.
(16) Interea hoc quoque mirandum debet adverti, sic Aeneae laudem esse dispositam ut in ipsam exquisita
arte omnium materiarum genera convenirent. Quo fit ut Vergilani carminis lector rhetoricis praeceptis instrui
possit et omnia vivendi agendique officia reperire.
Traduzione: Frattanto, anche questo deve essere ammirato e osservato, e cioè che la lode di Enea sia stata
esposta in modo tale che in essa convergessero con arte squisita tutti i generi di argomento; per questo,
avviene che il lettore del poema virgiliano possa essere istruito in tutti i precetti della retorica e possa
rinvenire tutti i compiti del vivere e del fare.
SERVIO
I manoscritti riportano il nome di Servius, talvolta anche Sergius; in alcuni casi abbiamo i tria nomina, Servius
Maurus Onoratus, i quali tuttavia ricorrono in modo incostante nei manoscritti (Maurus è spesso sostituito
da Marius; non sempre ricorrono nello stesso ordine; l’idea più diffusa è che questi tre nomi siano stati
attribuiti dopo la morte del personaggio, e che in sostanza siano inaffidabili). Alcuni codici riportano
l’informazione che Servius fosse un grammaticus.
All’interno delle opere di Servio si può cercare di individuare qualche riferimento concreto alla sua biografia,
ma si trova ben poco, in quanto opere di natura prettamente tecnica; l’unica fonte esterna alla quale
possiamo affidarci per individuare alcune informazioni sulla biografia di Servio sono i Saturnalia di Macrobio
che, tuttavia, non appaiono particolarmente affidabili (> dialogo platonico ambientato nel 383/384 d.C. al
quale partecipano alcuni esponenti dell’aristocrazia pagana, tra i quali anche Servio; lo stesso Macrobio
tuttavia ci informa del fatto che, per far partecipare anche Servio al dialogo, ha in parte forzato la cronologia.
È stato anche sottolineato che, ogni volta che Macrobio fa parlare Servio, quel che dice non corrisponde mai
a quanto affermato nel suo commentario a Viriglio). Cronologia ipotetica della vita di Servio è 370 – 430 d.C.:
si pensa che Servio sia nato intorno al 370 in quanto Macrobio, nei suoi Saturnalia, afferma che Servio è un
adulescens (l’alterazione cronologica confessata da Macrobio riguarda il fatto che Servio, da adulescens, non
avrebbe potuto partecipare ad un dialogo di questo tipo; Macrobio avrebbe dunque attribuito al Servio
adulescens gli attributi del Servio adulto); altro elemento in nostro possesso per la datazione dell’attività di
Servio è il fatto che questi era senz’altro più giovane di almeno una generazione rispetto ad Elio Donato, che
conosceva il suo commentario. Se interpretiamo il nomen Maurus come un etnonimo, allora Servio avrebbe
potuto essere originario del Nordafrica (parte dell’impero particolarmente viva dal punto di vista culturale in
quel periodo).
• Opere di Servio:
• Commentarius in artem Donati25
• De centum metris / Centimeter, forse databile al 414 d.C. __
• De metris Horatii ___________________________________ tre opere di carattere metrico
• De finalibus _______________________________________
• Commento in Vergilium (Eneide, Bucoliche, Georgiche > ordine insolito26)
25
L’Ars di Donato era un manuale di retorica, suddiviso in due parti, Ars minor e Ars maior (quest’ultima si occupava di
metrica e di stilisitica); Servio, probabilmente a sostegno della sua attività di grammaticus, produsse un commento a
quest’opera.
26
Non è chiaro per quale motivo Servio segua questo ordine; molto probabilmente riflette il suo programma
scolastico.
Nicola Gentile
Servio visse in un’epoca particolarmente delicata, un momento in cui il rapporto tra Cristianesimo e
paganesimo iniziò a diventare conflittuale; Servio scrisse il Commento a Viriglio in una temperie culturale
diversa da quella di Elio Donato, in un periodo in cui iniziano a verificarsi episodi che preludono a
cambiamenti epocali (ad es. 410 d.C. > sacco di Roma). Nel commentario di Servio non emergono elementi
filocristiani né filopagani, anche se molto probabilmente – sulla base del Servio di Macrobio – era di
estrazione pagana. Secondo una teoria piuttosto diffusa – ma comunque incerta - Servio doveva essere già
morto quando Macrobio scrisse i suoi Saturnalia (430 d.C.; da qui il terminus ante quem per la data di morte
di Servio); certamente all’epoca di Macrobio, comunque, Servio doveva godere ormai di un prestigio culturale
riconosciuto in modo unanime.
23/11/20
La tradizione non ci tramanda l’opera con un titolo in particolare; i mss. lo chiamano Commentarius, Servio
si riferisce alla sua opera col termine Expositio. All’inizio abbiamo una sorta di introduzione che si riferisce a
Virgilio nel suo complesso, in cui Servio descrive gli elementi in base ai quali dev’essere analizzata l’opera del
poeta (tra i quali, la vita di Viriglio); dopodiché, ha inizio il commento vero e proprio, ossia un commento del
testo virgiliano verso per verso, lemma per lemma, in chiave quindi grammaticale. La densità della notazione
di Servio si riduce progressivamente. Il commento, come si è detto, è di carattere essenzialmente
grammaticale: troviamo nozioni di lingua, di metrica, di antiquaria, ecc. Il testo di Viriglio viene qui utilizzato
anche per insegnare la lingua latina, essendo lui un grammaticus: tendenzialmente, quello che Servio
sottolinea è la norma grammaticale e l’allontanamento dalla norma tipico della lingua poetica di Viriglio.
L’approccio esegetico di Servio è opposto a quello degli obtrectatores: nel corso del suo commento è
individuabile una tendenza costante a difendere Viriglio da qualsiasi critica potrebbe essergli opposta, spesso
a priori; a volte Servio riporta la critica in forma anonima, altre volta sembra rispondere in modo implicito a
critiche che non riporta. Come Claudio Donato, anche Servio presuppone l’onniscienza di Virgilio (Viriglio
considerato una sorta di Roman Bible, secondo la definizione di Alan Cameron).
Molto probabilmente il commento di Servio si basa soprattutto sul perduto commento di Elio Donato, il quale
viene spesso citato, il più delle volte in modo critico (Servio mette in evidenza soprattutto gli errori di Elio
Donato); il commento di Elio Donato non ci è stato tramandato ma, secondo alcune ipotesi, sarebbe possibile
individuarlo in una versione “allargata” del commento di Servio, il cd. “Servio Danielino”.
[ Elio Donato è un celebre grammatico, probabilmente anche lui di origine africana, anche lui attivo a Roma
come grammaticus intorno alla metà del IV secolo (almeno una generazione prima rispetto a Servio); maestro
di Girolamo e Rufino > secondo un riferimento presente in Girolamo, lui e Rufino frequentarono la scuola di
Elio Donato quando erano pueri (363 d.C. circa); Girolamo ci dice che a scuola utilizzavano i commenti di Elio
Donato sia a Viriglio sia a Terenzio. Il grosso dell’attività di Donato si colloca prima che gli scontri tra Cristiani
e Pagani diventassero forti (Elio Donato fa riferimento ai riti pagani al presente, mentre Servio vi fa
riferimento al passato). Opera più celebre di Elio Donato doveva essere l’Ars (cf. supra, nota 25); in aggiunta,
scrisse due commenti, uno a Terenzio ed uno a Viriglio: ci è giunto un commento a Terenzio, ma in una forma
probabilmente molto rimaneggiata; il commento a Viriglio è andato perduto nella sua totalità, ci è rimasta la
sola epistola di prefazione all’intero commento, indirizzata ad un certo Lucio Munazio, la Vita di Virgilio27 (che
doveva fare da introduzione all’intero commento) e la Praefatio del commento alle Bucoliche.
Dall’epistola di prefazione apprendiamo che il commento di Elio Donato era un po’ diverso da quello di Servio
in quanto era un commentum variorum, ossia metteva insieme interpretazioni derivanti dalla tradizione
27
Derivante dal De poetis di Svetonio; per questo motivo, molto spesso si indica questa vita come Vita di Svetonio-
Donato.
Nicola Gentile
precedente; l’ordine di esposizione di Elio Donatio era Bucoliche, Georgiche, Eneide; è certo che questo
commento fosse più corposo rispetto al già molto ampio commento di Servio. ]
> Il commento di Servio ci è stato tramandato da numerosissimi manoscritti; nel 1600 l’editore ed umanista
francese Pierre Daniel pubblicò per la prima volta una evrsione del commento di Servio expansa, ossia più
abbondante rispetto a quella fino ad allora conosciuta; questo testo era stato individuato da Daniel in alcuni
manoscritti di IX-X sec. rinvenuti a Fleury. Daniel sosteneva che questo Servio “espanso” fosse il vero Servio,
mentre la versione che era circolata fino ad allora doveva essere una epitome di Servio (Giuseppe Ramires
calcola che le aggiunte complessive del Servio Danielino occupino circa 400 pagine rispetto a quello pre-
Daniel).
A partire dalla fine dell’800 il problema relativo alle aggiunte di Daniel è stato particolarmente dibattutto:
Thilo e Thomas ribaltarono la prospettiva di Pierre Daniel e sostennero che il testo del Servio Danielino sia il
risultato di una compilazione successiva a Servio (V sec. secondo Thilo, VII secondo Thomas; Thilo addirittura
arriva ad indicare la Francia del Nord o la Gran Bretagna come possibili luoghi dove queste compilazione
venne effettuata). All’inizo del ‘900 gli studiosi cominciarono a concentrare le attenzione sulle fonti di questa
compilazione: soprattutto Barwick iniziò a comprendere che almeno in gran parte questo materiale
aggiuntivo proviene da un’unica fonte, con ogni probabilità anteriore a Servio > ciò portò all’ipotesi che la
fonte della aggiunte sia proprio il commento di Elio Donato28 (cf. in particolare Rand, il quale diede inizio al
progetto di una nuova edizione di Servio, l’Editio Harvardiana, ad oggi ancora non completa).
Sembra un dato condiviso che la compilazione sia stata effettuata in ambiente insulare, da un monaco di
origine irlandese, tra il VII e l’VIII secolo29; nucleo di partenza doveva essere il commento di Servio, che venne
quindi integrato. Abbiamo a che fare quindi con tre testi: 1) un ms. del commento di Servio; 2) il materiale
da cui vengono ricavate le aggiunte; 3) il risultato finale (il cd. Servio auctus). Questo processo di compilazione
portò, inevitabilmente, anche ad un rimaneggiamento del “testo originale” di Servio. Una volta dunque
appurata la natura del prodotto finale, possiamo chiederci: da dove provengono queste aggiunte? E che
forma avevano prima che venissero integrate al commento di Servio? Per quanto riguarda la forma, ci sono
due ipotesi: 1) il compilatore aveva davanti un testo integrale, da quale poi estrapolò le aggiunte; 2) il
compilatore aveva davanti delle note isolate. Gli studiosi non sono concordi su questo punto, ma bisogna
riconoscere che le integrazioni a Servio risultano tra di loro piuttosto unitari e coerenti; è stato anche notato,
però, che le aggiunte danieline contengono dei rimandi interni che presuppongono l’ordine B-G-E, il
medesimo del commento di Elio Donato, ma non del commento di Servio > problema di coerenza. Altro
elemento sottolineato dagli studiosi è che le note dianeline non riportino mai il nome di Elio Donato: per
quale motivo? Secondo alcuni, se si tratta effettivamente del commento di Donato va da sé che l’autore non
citasse sé stesso; secondo altri, potrebbe trattarsi di materiale anteriore ad Elio Donato, e ciò spiegherebbe
il fatto che il suo nome non compaia mai nelle note.
26/11/20
28
Sebbene oggi l’ipotesi di Rand goda ancora di alcuni sostenitori, appare inverosimile ed eccessivamente
semplicistico postulare che le note aggiuntive del Servio Danielino corrispondano tout court al commento di Elio
Donato.
29
La collocazione della compilazione in ambiente insulare si basa sulla presenza di alcuni errori dovuti soprattutto alla
mancata comprensione, in fase di trascrizione, di una scrittura differente da quella di arrivo e del suo sistema di
abbreviazioni.
Nicola Gentile
Abbiamo numerosi edizioni del commento di Servio, nessuna totalmente soddisfacente, ognuna impostata
su criteri differenti. Unica edizione storica di Servio, che comprende l’intero commentario, è quella di G. Thilo
– H. Hagen (Lipsiae 1878 – 1887), edizione di pregio, ma basata su meno mss. rispetto alle edizione più
moderne; abbiamo poi l’Editio Harvardiana, incompleta30; abbiamo le edizioni di Ramires (commento al libro
IX dell’Eneide, 1996; commento al libro VII dell’Eneide, 2003); infine è in fieri un progetto di edizione
complessiva per i tipi di Les Belles Lettres.
Come pubblicare il testo di Servio? Come pubblicare le aggiunte danieline? Cosa proporre al lettore?
> Thilo – Hagen stampano il lemma in capitale, il testo di Servio in carattere tondo, le aggiunte danieline in
corsivo. Soluzione abbastanza semplice, funzionale, ma presenta una serie di problemi: Thilo e Hagen
presentano un unico apparato critico, sia per i mss. del solo Servio sia per quelli del Danielino; il testo
ricostruito è un ibrido: non si tratta né del Servio Danielino né del solo Servio, bensì del “Servio originale” +
aggiunte danieline.
> Editio Harvardiana: tutto il progetto degli Harvardiani si basa sull’idea che le aggiunte danieline ci
restituiscano tutto il commento di Elio Donato; ciò ha portato a concentrare le attenzioni più sul testo delle
aggiunte che su quello di Servio. Gli Harvardiani hanno stampato il testo su due colonne (scelta discutibile
appare quella di inserire nella prima colonna il testo del Servio Danielino, nella seconda colonna il testo di
Servio > viene data più importanza al testo delle aggiunte in quanto si ritiene che esso riporti materiale
originale di Elio Donato, e questo crea una serie di problemi), per differenziare i punti in cui il testo del Servio
auctus è diverso dal testo di Servio. Nota positiva è la presenza di due apparati critici, l’uno per il testo del
Servio Danielino e l’altro per quello di Servio.
Laddove il testo del Danielino e quello di Servio sono sostanzialmente simili, gli editori harvardiani stampano
su una riga intera il testo del Servio Danielino, mentre le lezioni del testo di Servio non sono riportate a testo
bensì unicamente in apparato; gli editori di Harvard non raggiungono l’obiettivo che si erano preposti, ossia
quello di far emergere CHIARAMENTE le differenze tra il testo del Danielino e quello di Servio. Oltretutto, noi
non disponiamo del testo del Danielino per molte sezioni del commento: in quei casi, gli editori harvardiani
non possono che stampare a riga intera il testo di Servio, cosa che – com’è evidente – compromette la
coerenza metodologica dell’edizione, oltre che la comprensione stessa del testo.
Nei prolegomena al volume Murgia-Kaster del 2018, Kaster riconosce gli errori dell’edizione harvadiana e,
pur conservandone i criteri di base, introduce alcuni accorgimenti grafici che consentono di orientarsi meglio
nell’edizione.
> Edizione Les Belles Lettres 2012: ribalta il criterio d’impaginazione dell’editio harvardiana, viene
sostanzialmente riportato a testo il commento di Servio e le varianti del Danielino in apparato; quando si
adotta la doppia colonna, il testo di Servio è a sinistra mentre le aggiunte del Danielino a destra (in corpo
minore nell’edizione Guillaumin 2019).
> Edizione Ramires 2003: torna al meccanismo ad una colonna31 e le aggiunte del Danielino sono evidenziate
dal grassetto; laddove i due testi presentino delle varianti adiafore, la variante viene posta in interlinea e la
parte interessate dalla variante viene “isolata” tramite dei segni grafici; le parentesi quadre chiuse verso l’alto
indicano quelle parole presenti in Servio ma omesse dal Danielino; il carattere spaziato è usato per indicare
sezioni di testo appartenenti al gruppo di mss. “alfa” che secondo Ramires rappresentano una diversa
edizione del commento.
30
L’Editio Harvardiana, per i suoi criteri di fondo, fu oggetto di una critica molto forte da parte di E. Fraenkel.
31
Scelta, questa, giustificata anche da una presupposto ideologico di fondo: secondo Ramires è difficile che il testo del
Danielino sia effettivamente materiale originale di Elio Donato.
Nicola Gentile
La prefazione del Commento di Servio può essere considerata uno “schema d’accesso” all’interpretazione di
un testo poetico; questi “schemi d’accesso” (o schemi isagogici) compaiono nell’età tardoantica e vengono
poi perfezionati, in età medievale, nei cdd. accessus ad autores. Le rubriche di questo schema sono i tutto
sette: la prima è la vita poetae, l’ultima è l’explanatio. Servio introdurrà uno schema molto simile anche prima
delle Bucoliche, ovviamente senza la vita del poeta in quanto già trattato ad inizio commento per l’Eneide;
per le Georgiche lo schema è invece appena accennato. Il fatto che lo schema venga ripetuto per le Bucoliche
è di grande importanza in quanto la praefatio alle Bucoliche è tra le poche parti conservate anche del
commento di Donato, e quindi ci consente di individuare le analogie e le differenze tra Servio e Donato
relativamente a questo schema; dalle analisi effettuate soprattutto da Fabio Stock sembrerebbe che Servio
abbia semplificato il modello di Donato per renderlo più adatto all’insegnamento. Non è chiaro se Elio Donato
avesse composto una praefatio anche per l’Eneide (difficile dire se sia stato Servio ad innovare, anteponendo
una praefatio ad ogni opera virgiliana, oppure se questa fosse già una pratica presente in Donato).
Servio, Praefatio
> (S) In exponendis auctoribus haec consideranda sunt: poetae vita, titulus operis, qualitas carminis, scribentis
intentio, numerus librorum, ordo, explanatio. [...]
Traduzione: Nell’esporre le opere degli autori occorre considerare queste cose: la vita del poeta, il titolo
dell’opera, la qualità del poema, l’intenzione di colui che scrivere, il numero dei libri, l’ordine e la spiegazione.
La parte più interessante, dal punto di vista filologico, è quella presente nella vita del poeta in cui l’autore,
raccontando della morte dell’autore, ci informa delle operazioni condotte dagli “editori” Tucca e Vario, in
particolare l’espunzione del cd. pre-proemio dell’ Eneide e del passo su Elena nel II libro del poema.
> (S+DS) Titulus est Aeneis, derivativum nomen ab Aenea, ut a Theseo Theseis. Sic Iuvenalis «vexatus totiens
rauci Theseide Codri».
Traduzione: Il titolo è Eneide, nome derivato da Enea, come Teseide da Teseo. E così Giovenale: “vessatto
così tante volte dalla Teseide del rauco Codro”.
> Qualitas carminis patet; nam est metrum heroicum et actus32 mixtus, ubi et poeta loquitur et alios inducit
loquentes. Est autem heroicum quod constat ex divinis humanisque personis, continens vera cum fictis; nam
Aeneam ad Italiam venisse manifestum est, Venerem vero locutam cum Iove missumve Mercurium constat
esse compositum. Est autem stilus grandiloquus, qui constat alto sermone magnisque sententiis. Scimus enim
tria esse genera dicendi: humile, medium, grandiloquum.
Traduzione: la qualità del poema è evidente: il metro è infatti quello eroico, e il carattere è misto, nel quale
parla sia il poeta sia introduce altri personaggi parlanti; è inoltre eroico per il fatto che è composto da
personaggi umani e divini, contenendo cose vere insieme a cose inventate: è infatti noto che Enea sia giunto
in Italia, mentre risulta che sia stato inventato che Venere abbia parlato con Giove o che Mercurio sia stato
inviato. Lo stile, poi, è elevato, ed è composto da un registro elevato e da grandi frasi. Sappiamo infatti che
ci sono tre generi stilistici: quello umile, quello medio, quello solenne.
32
Actus è termine di difficile traduzione; tuttavia, in un passo del commento a Bucolihe 1, 3 Servio sostituisce actus
con caracteres dicendi. In questo caso, quindi, Servio avrebbe utilizzato actus per evitare una confusione con i tria
genera dicendi menzionati poco dopo.
Nicola Gentile
In questa rubrica Servio descrive la qualità del poema virgiliano: il metro è l’esametro ed ha “carattere
mistico” (parlano sia il poeta sia i personaggi); in aggiunta vi è la commistione di elementi veri ed elementi
falsi; a concludere Servio offre una classificazione stilistica sulla base delle tradizione divisione dei tria genera
dicendi33, di origine greca (i καρακτῆρες τοῦ λόγου).
> Intentio Vergilii haec est: Homerum imitari et Augustum laudare a parentibus; namque est filius Atiae, quae
nata est de Iulia, sorore Caesaris, Iulius autem Caesar ab Iulo Aeneae originem ducit, ut confirmat ipse
Vergilius «a magno demissum nomen Iulo».
Traduzione: Intenzione di Viriglio è la seguente: imitare Omero ed elogiare Augusto sulla base della stirpe; è
infatti figlio di Azia, nata da Giulia, sorella di Cesare; Giulio Cesare stesso inoltre deriva da Iulo, figlio di Enea,
come conferma lo stesso Viriglio: “nome derivato dall’illustre Iulo”.
Due intenzioni: una di natura artistica (imitazione di Omero), l’altra di natura politica (elogio di Augusto).
> De numero librorum nulla hic quaestio est, licet in aliis inveniatur auctoribus; nam Plautum alii dicunt
scripsisse fabulas XXI, alii XL, alii C.
Traduzione: Riguardo al numero dei libri, non vi è alcun problema, sebbene si possano trovare problemi in
altri autori: alcuni, infatti, dicono che Plauto avesse scritto 21 commedie, altri 40, altri ancora 100.
> Ordo quoque manifestus est, licet quidam superflue dicant secundum primum esse, tertium secundum, et
primum tertium, ideo quia primo Ilium concidit, post erravit Aeneas, inde ad Didonis regna pervenit,
nescientes hanc esse artem poeticam, ut a mediis incipientes per narrationem prima reddamus et non
numquam futura praeoccupemus, ut per vaticinationem, quod etiam Horatius sic praecepit in Arte Poetica
«ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici, pleraque differat et praesens in tempus omittat34». Unde constat
perite fecisse Vergilium.
Traduzione: Anche l’ordine è evidente, sebbene alcuni – in modo superfluo – dicano che il secondo libro sia
il primo, che il terzo sia il secondo, che il primo sia il terzo, per il fatto che in un primo momento ci fu la caduta
di Troia, poi Enea errò, poi giunse presso il regno di Didone, ignorando – questi – che ciò faccia parte del
meccanismo dell’arte poetica: vale a dire che, iniziando in medias res, raccontiamo attraverso la narrazione
le cose avvenute prima, e a volte anticipiamo gli eventi futuri – come ad esempio attraverso un vaticino -;
cosa, questa, che anche Orazio nell’Ars poetica ha descritto in questo modo: “e che già ora dica ciò che è
necessario dire in questo momento, e rimandi la maggior parte delle cose e le ometta per il momento”. Da
ciò, risulta evidente che Viriglio ha agito abilmente.
Servio deve qui rispondere ad una critica rivolta a Viriglio, ossia quella di non aver esposto in modo lineare –
da un punto di vista cronologico – gli avvenimenti; l’autore si serve dell’Ars poetica di Orazio per giustificare
la scelta di Viriglio riguardo all’ordine della materia nel suo poema.
33
Viriglio era tradizionalmente preso a modello per tutti e tre i genera dicendi: quello umile (Bucoliche), quello
intermedio (Georgiche), quello solenne (Eneide).
34
Servio estrapola dal testo di Orazio solo la parte conclusiva; ut iam è epesegetica rispetto a uirtus et uenus ordinis,
presenti nel verso precedente. Il soggetto grammaticale di dicat non è esplicito nel testo oraziano: alcuni
sottintendono poeta, altri ritengono che il soggetto sia lo stesso ordo.
Nicola Gentile
27/11/20
Il commento di Servio
> Abbiamo una prima aggiunta del Danielino, di carattere più complessivo, collegabile rubrica dell’ordo
individuata da Servio.
Nicola Gentile
> Come fanno i Troiani ad essere laeti se hanno appena subito il lutto della perdita di Anchise? In un
commento moderno si parlerebbe di una certa “rappresentazione convenzionale” dei marinai; in più, si
direbbe che laeti è utilizzato da Virgilio per creare un contrasto con lo stato d’animo di Giunone, che invece
è irata. Qualche problema in più dovevano avere i commentatori antichi: Servio interpreta laeti come
“alacri”, “veloci”, un’interpretazione che punta su un significato di laetus, certamente esistente, che non
indica però la felicità; la seconda interpretazione proposta da Servio è “davvero lieti”, sebbene il
commentatore faccia notare come questo stato d’animo sia sconveniente in seguito alla morte di Anchise;
per risolvere questa incongruenza, Servio propone delle giustificazioni: da un lato, la morte degli anziani
causerebbe meno dolore (?); dall’altro, laeti potrebbe essere utilizzato in contrapposizione all’ira di Giunone,
per accrescerla. Il Danielino sostanzialmente ripercorre la nota di Servio, con lievi aggiunte (atteggiamento
tipico del Danielino è quella di integrare e/o modificare il testo di Servio); un’ulteriore possibile
interpretazione proposta dal Danielino è laeti come pròthumoi, “desiderosi”.
> Da buon grammatico, Servio coglie l’occasione per spiegare salis sia nell’uso di maris (uso omerico del
sostantivo), sia nei vari usi del termine nella lingua latina (“sale”, solo al singolare; “giochi, scherzi”, solo al
plurale). Alle volte, al singolare, può essere inteso anche come urbanitas , “arguzia” (a titolo di esempio Servio
riporta una citazione di Terenzio che, oltre a servire per l’interpretazione del sostantivo salis, consente al
commentatore di soffermarsi anche su questioni prettamente grammaticali).
Nicola Gentile
In linea generale, Donato spezza il testo in lemmi più ampi rispetto a Servio, in virtù dell’approccio retorico
del suo commento.
[1.34-35] VIX E CONSPECTU SICULAE TELLURIS IN ALTUM VELA DABANT LAETI: ordinatur sensus sic35: ‘e
conspectu Siculae telluris in altum vela dabant vix laeti’; perierat enim in Sicilia Anchises et proxima erat Italia.
Dolebant Anchisis casum, laetabantur autem quod haut procul esset Italia. Temperavit igitur utrumque
Vergilius et expressit utrumque, ut diceret ‘vix laeti’.
Traduzione: il senso della frase va ordinato in questo modo: “e conspectu Siculae telluris in altum vela dabant
vix laeti”; infatti in Sicilia era morto Anchise, e l’Italia era ormai vicina. Dunque i Troiani erano tristi per la
morte di Anchise, ma si rallegravano per il fatto che l’Italia non era ormai lontana. Viriglio dunque temperò
entrambi i sentimenti contrapposti e gli espresse entrambi dicendo “a stento contenti”.
Claudio Donato, nell’ordine delle parole da lui proposto, sposta vix accanto a laeti e, in questo modo, tempera
il sentimento di felicità dei Troiani (è questa, tuttavia, un’interpretazione molto forzata). È evidente
comunque che anche Claudio Donato vedeva un problema intorno al termini laeti, che tuttavia egli continua
ad interpretare nel suo senso comune, attenuandolo semplicemente tramite l’accostamento di vix.
[1.36-37] CUM IUNO AETERNUM SERVANS SUB PECTORE VULNUS H(AEC) SECUM: cum enim advertisset
Iuno Troianos de proximitate Italiae gratulari, vulnere animi quod perpetuum retinebat magis magisque
coepit urgeri.
Traduzione: Infatti, essendosi accorta Giunone che i Troiani si rallegravano per la vicinanza dell’Italia, iniziò
ad essere angustiata sempre di più dalla ferita dell’animo che conservava eterna.
Notiamo qui una caratteristica del commento di Donato, più volte individuata dagli studiosi, ossia la tendenza
del commentatore a spiegare Viriglio quasi semplicemente parafrasandolo. Emerge comunque anche qui
come in Servio – sebbene in Donato non sia molto valorizzata – la contrapposizione tra i sentimenti di
35
ordinatur sensus sic è una formula ricorrente nel commento di Claudio Donato, usata per introdurre una
“riformulazione” del testo di Viriglio laddove questo presenti un ordine di parole non di immediata comprensione.
Nicola Gentile
Giunone e quelli dei Troiani. Vediamo dunque come i due commenti mostrino delle chiare somiglianze,
appartengano alla stessa temperie culturale, “si passano il testimone” riguardo a determinate questioni
testuali ma portino avanti la staffetta con approccio diverso.
30/11/20
Ci occuperemo del lessico non tecnico dei commentatori tardoantichi; quando questi autori si riferiscono ad
un autore, ad un poeta, come esprimono l’azione del poeta? Cano, scribo, dico, doceo, instituo, etc.? Gioseffi
ha contato oltre un quarantina di verbi – e quindi di azioni – che i commentatori tardoantichi riferiscono ai
poeti.
Per la lezione di oggi Gioseffi ha scelto di focalizzare una sola parola: obsequium.
L’attività di commento a Virgilio è iniziata praticamente subito, anche a non credere alla notizia svetoniana
(secondo la quale Virgilio avrebbe iniziato ad essere commentato quando ancora era in vita); in età neroniana
iniziò ad “incrostarsi” sulla persona e sull’opera di Virgilio una serie di interpretazioni che prima sarebbero
state impossibili (ad es. nell’opera di un commentatore quale Calpurnio Siculo). I commenti a nostra
disposizione partono dal IV secolo a.C. in avanti, sebbene nella maggior parte dei casi sia impossibile indicare
una data precisa. In ognuno di questi commenti bisogna immaginare la convergenza di almeno tre istanze
diverse: 1) quella di Virgilio e della sua epoca; 2) quello di tutti coloro che si sono occupati dell’opera
virigliana, “incrostandola” di interpretazioni che si sono attaccate all’opera senza più staccarsi da essa; 3) le
istanze dei commentatori stessi. Dietro ad ogni commento bisognerà capire quanto pesi la presenza del testo
virgiliano, quanto pesi l’istanza del nuovo commentatore, quanto pesi la tradizioni esegetica a lui precedente.
I commenti a Viriglio che noi abbiamo – in toto o in parte – sono piuttosto numerosi; oggi ci occuperemo dei
commenti di Servio (+ le cdd. “note danieline”, note successive a Servio che tuttavia fanno uso, il più delle
volte, di materiale precedente) e di Tiberio Claudio Donato.
Obsequium: perché? Obsequium è parola tacitiana più che mai (cf. Pani 1987; Gomez 2019). Pani non è un
letterato in senso proprio, è uno storico, ed è significativo che questa parola possa colpire tanto il letterato
stricto sensu tanto lo storico. Sime dimostra, nella sua edizione di Tacito, come sin da prima dell’età imperiale
l’obsequium coinvolgesse vari ambiti della vita (sociale,politico, militare, religioso).
Tacito usa obsequium anche per semplici cavalieri che si relazionano col proprio patronus o per filii familias
che si relazionano a genitori ingombranti, o ancora per servi in relazioni al proprio padrone.
L’obsequium è anche un elemento essenziale dell’amicizia tra pari, anche se in questo caso presenta delle
ambiguità (cf. Cic. Laelius de amicitia, dove Cicerono distingue tra un obsequium positivo e un obseuquium
negativo, che può scadere nel servilismo; perché le cose vadano a buon fine è necessario che all’obsequium
si accompagni la comitas). Sul piano pubblico prevale oggi la tesi di Pani, per cui obsequium avrebbe valore
negativo nella tarda età repubblicana, ma positivo nella prima età imperiale in quanto l’obsequium diventa il
libero riconoscimento dell’autorità del princeps da parte dei cittadini (traslando quindi sul piano politico il
rapporto sociale tra cliens e patronus), mentre nella tarda età imperiale l’obsequium passa ad indicare
Obsequium viene pienamente accettato in poesia solo in età augustea, mai nell’epica però: dapprima nelle
satire (cf. Sermones di Orazio), poi nelle Epistole, poi nell’elegia. Con Ovidio l’uso della parola esplode, e
obsequium viene inserito anche nell’epica (cf. Ovidio, Lucano, etc.). Viriglio non fa mai uso né di obsequium
né di obsequor: il termine non rientra né nel suo orizzonte culturale né in quello dei suoi personaggi.
Nicola Gentile
Pomponio Porfirione non commenta mai obsequium nei quattro casi in cui l’ha usato Orazio, con due
eccezioni: Porfirione si diffonde molto a parlare di obsequium per l’epistola I 18 di Orazio (notiamo qui diverse
analogie con quanto Cicerone aveva detto nel Laelius). Porfirio fa uso della parola obsequium anche quando
in Orazio non compare: ad esempio nel commento all’Epistola I 17. Nel commento all’Epistola II 1 264
Porfirione considera l’obsequium quasi equivalente ad officium.
Quindi: Obsequium è una parola tematizzata dai commentatori anche quando questa non compare nelle
opere degli autori; tuttavia, in nessun commento è presente una nota specifica che definisca l’obsequium, il
cui significato lo si può però desumere dagli indizi relativi al contesto dell’obsequium.
> Obsequium ed il verbo obsequor compaiono soltanto 7 volte nel commento di Servio all’Eneide (le note
danieline aggiungono 5 occorrenze di obsequium); a questo computo bisogna poi aggiungere 3 note serviane
presenti nel commento alle Bucoliche (vi è anche un’occorrenza nel commento alle Georgiche, che tuttavia
non prenderemo in considerazione in quanto non sembrerebbe riguardare il piano strettamente relazionale).
Più numerose sono le occorrenze di obsequium in Tiberio Claudio Donato, dove ne troviamo 20 in tutto.
2) Legame familiare
3) Legame di dipendenza
4) Legame clientelare
> Sia nel caso del legame sacrale, sia in quello del legame familiare, l’obsequium è inteso da Servio come fides
e sottomissione: nel primo caso, fides e sottomissione del sacerdote nei confronti del dio; nel secondo, fides
e sottomissione della moglie nei confronti del marito (cf. però Serv. Aen. 8, 373ss., dove Servio parla
dell’arrendevolezza di Vulcano, ossia l’obsequium che Vulcano – definito vir uxorius - starebbe mostrando nei
confronti della moglie > rovesciamento del legame familiare, il marito si sottomette alla moglie > remiscenza
dell’uso elegiaco del termine?).
Per quanto riguarda il caso di dipendenza tra schiavo e padrone, in tutti i casi il commento di Servio testimonia
una dimensione quasi contrattuale dell’obsequium, economica, priva di connotazioni effettivamente sociali
(come Pani ha teorizzato).
In Serv. Aen 12 520 si parla di un giovane arcade ucciso da Turno > potentum munera viene spiegato come i
“doveri” che il povero deve al ricco > siamo in una dimensione clientelare dell’obsequium (valenza politico-
sociale dell’obsequium, unico caso in Servio).
Anche se Virgilio non usa mai il termine obsequium, Servio ne fa uso, e non ne fornisce una definizione unica,
bensì indica i quattro ambiti dell’obsequium che abbiamo visto.
> Nelle quattro occorrenze delle note danieline ritroviamo tutti gli usi di obsequium che abbiamo individuato
in Servio.
Nicola Gentile
3/12/20
Tiberio Claudio Donato > [37] (1) Exclusa igitur ab inventione nocendi, exclusa loco et tempore sic animi sui
dolores et gemitus intimis sensibus enumerabat: MENE INCEPTO DESISTERE VICTAM? Quales vetus et pertinax
inimica cogitationes habere debuerit non sine rhetorica disciplina poeta composuit. Inducturus enim
saevientis deficientes inventiones ad nocendum, inducto comparativae qualitatis statu, per aliena exempla
nocendi consilia inventa commemorat.
Traduzione: …, private di un luogo e di un tempo, in questo modo enumerava tra sé e sé I dolori e i gemiti
del proprio animo: MENE INCEPTO DESISTER VICTAM? … Infatti stando per rappresentare
La spiegazione di Tiberio Claudio Donato rientra nell’interpretazione retorica dell’Eneide come “difesa di
Enea”; pertanto Giunone viene rappresentata come una dea ostile, crudele, vendicativa. Lo strumento
utilizzato dal poeta è quello della qualitas comparativa.
(2) Comparat ergo Iuno personas cum personis, hoc est suam et Minervae, Troianorum et Graecorum,
inimicitiarum quoque causas confert, Graecorum poenam Minerva irascente completam cum Troianorum
suppliciis, quae obtinere non potuerunt, enumerare non cessat: quae omnia plenius per singula disseremus.
Traduzione: Giunone, dunque, mette a confronto le persone con le persone, vale a dire la propria persona e
quella di Minerva, i Troiani e i Greci; confronta anche le cause delle inimicizie, e non manca di enumerare la
punizione subita dai Greci, andata a compimento a causa dell’ira di Minerva, in confronto ai supplizi subiti
dai Troiani, che invece non poterono andare a buon segno. Tutte queste cose le spiegheremo con maggiore
dettaglio una per una.
Nicola Gentile
La status comparativae qualitatis è un elemento portante della retorica antica > dottrina degli status, il
cuore della inventio: sistema che consentiva all’oratore di orientarsi e di scegliere la strategia giusta per
affrontare una causa giudiziaria; Ermagora di Temno (II sec. a.C.) è ritenuto il fondatore di questa dottrina,
sostanzialmente organizzò sistematicamente una serie di nozioni elaborate precedentemente; il De
inventione e la Rhetorica ad Herennium si basano sulla dottrina degli status; il sistema venne poi riorganizzato
da Ermogene di Tarso (II sec. d.C.).
4/12/20
Tiberio Claudio Donato utilizza la dottrina degli status come strumento di esegesi, applicandolo alla
situazione particolare (in questo caso il monologo di Giunone); è questo l’unico caso in cui Claudio Donato si
riferisce alla qualitas comparativa. Il fatto che lui chiami status la qualitas comparativa vuol dire che egli l’ha
promossa al rango di status (segue in questo la rielaborazione della dottrina degli status effettuata da
Ermogene di Tarso). Claudio parla di status comparativae qualitatis ma non applica le categorie proprie di
questo status: non prende un solo atto delittuoso per valutarne i pro e i contro; non paragona un bene ed un
male, bensì due situazioni entrambe negative. Dopo aver dato una interpretazione complessiva, in chiave
retorica, del brano, Claudio Donato passa a fornire spiegazioni specifiche su singoli termini.
(3) “Mene”, inquit, in pronominibus est magnum dicendi pondus, ut quod non apertius dicitur intellegatur:
“mene” ergo, hoc est reginam deorum et sororem Iovis et coniugem, sicut infra, cum dolores suos
persequeretur, aperuit dicendo «ast ego quae divum incedo regina Iovisque et soror et coniunx» (Aen. 1.46-
47). Hoc est “mene” quod est «ast ego»; intellectus enim pronominum ipsorum unus est.
Traduzione: Disse “Mene”: nei pronomi vi è una grande forza espressiva, in modo che si comprenda ciò che
non viene detto apertamente: “mene”, quindi, vale a dire “la regina degli dei” e “la sorella e la moglie di
Giove”, come più avanti, mentre esponeva i propri dolori, mostrò dicendo: “ast ego quae divum incedo regina
Iovisque et soror et coniunx” (Aen. 1.46-47). “Mene”, quindi, equivale a “ast ego”: il significato infatti dei due
pronomi è lo stesso.
Nicola Gentile
(4) “Incepto desistere victam”: “incepta” sunt dispositiones et destinationes animorum, sicuti Sallustius ait
«nam talia incepta, ni in consultorem vertissent, reipublicae pestem factura» (Sall. hist. I 74 M.). Dolet ergo
intentionem suam sine effectu defecisse nec superesse iam nocendi consilium vel tempus. Interea bonorum
est incepta deserere, si tamen aut prece flectantur aut sponte ignoscant. Haec dolet utramque se occasionem
perdidisse et incidisse quod doleret, cum ludibrio scilicet, ut superata discedat.
__________________________________________
ni in consultorem vertissent Lr : ni in consultorem venissent R : ni inconsulto revertissent LR ad Aen. 4.314
(corr. r)
Traduzione: “Infatti tali tentativi, se non si fossero ritorti contro chi li aveva suggeriti, avrebbero determinato
la distruzione dello Stato”. Giunone si addolora dunque per il fatto che il suo proposito non abbia sortito
alcun effetto, e che ormai non sia rimasto nessun progetto per recare danno. Del resto è tipica di una persona
buona abbandonare i propri propositi qualora questa venga convinta attraverso una preghiera o perdoni di
sua spontanea volontà. Costei, invece, si addolora di aver perso entrambe le occasioni e per il fatto che era
accaduto ciò di cui si lamentava, e cioè che si allontanava con scherno e sconfitta.
Per spiegare il termine incepto Claudio Donato cita un brano delle Historiae di Sallustio che non è attestato
dalla tradizione diretta delle Historiae; si tratta quindi di un caso di tradizione indiretta (Donato utilizza due
volte questa citazione, ma in uno dei due casi la forma attestata da Donato presenta una corruzione, vd.
apparato). Il frammento di Sallustio viene normalmente riferito alle vicende di Marco Emilio Lepido e, in
particolar modo, al suo tentativo di rivolta (77 a.C.) sventato dal senatusconsultum.
La citazione sallustiana è funzionale alla valutazione di Giunone, che non fa parte dei bonorum, quindi il suo
atteggiamento è da considerarsi moralmente riprovevole. Tiberio Claudio Donato utilizza pochissimi autori
(Sallustio, Terenzio, Cicerone, Virgilio36) nella sua opera a commento di Viriglio; Claudio Donato non aveva
probabilmente la stessa cultura di Servio, che invece rappresenta un vastissimo repertorio di citazioni da altri
autori (anche nelle note danieline).
Facciamo un salto e passiamo ad un’ulteriore spiegazione di Donato che si serve dello strumento della
comparatio.
[1.41-45] (1) Fit comparatio alia qua dixit UNIUS OB NOXAM ET FURIAS AIACIS OILI IPSA IOVIS RAPIDUM
IACULATA E NUBIB(US) IGNEM DISIECITQUE RATES EVERTITQUE AEQUORA VENTIS, ILLUM EXPIRANTEM
TRANSFIXO PECTORE FLAMMAS TURBINE CORRIPUIT SCOPULOQUE INFIXIT ACUTO: ‘illa propter unum
multos cum ipsis navibus perdidit, ego in plurimorum offensa unum ab Italia avertere non possum?’. Hic
quoque laus exprimitur Aeneae, cuius tantum meritum fuit, ut eius felicitatem Iuno cum omnibus diis non
valuerit superare. Cum igitur diceret “quippe vetor fatis”, addidit, ut dictum est, exemplum Minervae
Graecorumque ab ea perditorum, existimans in eorum interitu fata esse permutata, ut licuerit volenti inferre
perniciem quam fata non sinebant.
Traduzione: Viene introdotta una nuova comparatio attraverso la quale disse UNIUS OB NOXAM ET FURIAS
AIACIS OILI IPSA IOVIS RAPIDUM IACULATA E NUBIB(US) IGNEM DISIECITQUE RATES EVERTITQUE
AEQUORA VENTIS, ILLUM EXPIRANTEM TRANSFIXO PECTORE FLAMMAS TURBINE CORRIPUIT
SCOPULOQUE INFIXIT ACUTO (Aen. 1. 41-45): “Lei (Pallade) a causa di una sola persona ne uccise molte
assieme alle loro stesse navi; io invece, essendo stata offesa da molte persone, non posso allontanarne una
dall’Italia?” Anche qui viene espressa la lode di Enea, il cui merito fu tanto grande che Giunone con l’aiuto di
36
Questi quattro autori costituiscono la cosiddetta quadriga Messii, ossia i quattro autori presentati nella raccolta di
citazioni del grammatico Rudiano Messio.
Nicola Gentile
tutti gli dei non fu in grado di prevalere sulla sua buona sorte. Dicendo dunque “certamente sono i fati che
me lo vietano” aggiunse, come è stato detto, l’esempio di Minerva e dei Greci da lei uccisi, ritenendo che
nella loro uccisione fosse stata sovvertita la volontà dei fati, al punto da essere consentito secondo il suo
volere di apportare una strage che i fati non consentivano.
A suo modo Donato cerca di costruire un periodo retoricamente efficace attraverso la corrispondenza e
contrapposizione di pronomi, numeri, etc.
C’è qui una breve riflessione sul tema della “volontà dei fati” che, come vedremo, verrà particolarmente
approfondita da Servio.
(2) Maiorem dolorem Iunonis37 adsignat, quod in eodem facto Minervam monstrat tantum in suis doloribus
potuisse, ut in ultione sua etiam fulmine Iovis usa videatur, poenamque ipsam sic exprimit, ut delicti ipsius
defendat auctorem, quae defensio iram Iunonis exaggerat. Qui enim potuit defendi iniuste gravissimum
supplicium pertulit, multo magis socii eius qui cum navibus perierunt unius <ob> noxam. Interea pro arbitrio
suo et pro praesumpta Carthaginis causa vult cum rege suo, hoc est Aenea, reos tenere Troianos, qui nihil
etiam ipsi commeruissent.
__________________________________________
facto LR : fato Georgii
unius <ob> noxam r : unius noxam LR : unius noxa Georgii
Traduzione: Assegna un dolore più grande a/di Giunone, poiché mostra che nella medesima occasione
Minerva ebbe nei suoi dolori un potere così grande da sembrare che nella sua vendetta abbia utilizzato anche
il fulmine di Giove, e descrive la punizione stessa in modo tale da difendere l’autore del delitto stesso, difesa
che redne più grande l’ira di Giunone. Infatti, chi avrebbe potuto essere difeso subì ingiustamente una
gravissima punizione e molto di più I suoi compagni, che morirono iniseme alle navi per colpa di una sola
persona. Contemporaneamente, conformemente al proprio capriccio, ed in conformità alla causa assunta in
favore di Cartagine, vuole incriminare assieme al proprio re – Enea – anche i Troiani che a loro volta non
meritavano nulla di male.
[Problemi testuali: Georgii stampa fato, non rendendosi conto della lezione facto LR, che è quella da
preferire; probabilmente Georgii si sarebbe servito qui degli editori a stampa del testo di Claudio Donato e,
inconsapevolmente, non avrebbe preso in considerazione la lezione dei mss. (che infatti non riporta neanche
in apparato).
Georgii stampa unius noxa, ma sembrerebbe preferibile la congettura (ob)noxam di Lupo di Ferrieres, che
recupera in questo modo una citazione vigiliana].
Col monologo di Giunone siamo davanti ad un discorso emozionale (cf. Agostino), pronunciato in un
momento di pathos accentuato. Secondo l’interpretazione di Donato, Giunone starebbe giocando il ruolo di
difensore di Aiace in una strategia complessa volta ad incriminare Enea e i Troiani (si tratta di una forzatura
piuttosto evidente al testo di Viriglio!). In che modo Giunone si sforza di giustificare Aiace?
37
Iunonis: ci si aspetterebbe un dativo. Il genitivo possiamo conservarlo se associato a dolorem e considerando l’usus
scribendi di Donato.
Nicola Gentile
10/12/20
(3) Videamus nunc quemadmodum Aiacis excuset offensam, ut magis sese dolendo adfligeret, si in eo facto
acerbitas poenae completa esse videatur in quo non fuit gravis delicti vel culpae substantia. Furias, inquit,
Aiacis Oili: Aiax, ingressus templum Minervae incestatus caede et hominum sanguine, quia amore Cassandrae
tenebatur ac per hoc nesciebat quid mali committeret, ab ipsis altaribus tractam stupro sacram virginem
violavit et, quod erat gravius, sub ipsis oculis Minervae.
Traduzione: … qualora sembri che la durezza della punizione abbia trovato compimento a proposito di un
fatto nel quale la consistenza del delitto o della colpa non fu grave. Disse “Furias Aiacis Oili”: Aiace, entrato
nel tempio di Minerva, contaminato di strage e di sangue di uomini, poiché era innamorato di Cassandra e
per questo motivo non si accorgeva del male che stava commettendo, violentò la sacra vergine avendola
strappata dagli stessi altari e – cosa ancor più grave – proprio sotto gli occhi stessi di Minerva.
Secondo la prospettiva proposta da Tiberio Claudio Donato il crimine di Aiace può essere giustificato in
quanto commesso sotto l’influsso di una forza maggiore, ossia Amore. Infatti:
(4) Defenditur iste veniali statu: factum enim manifestum non purgatur, nisi hoc genere, ut dicatur: 'si deliquit
Aiax, non erat suae mentis nec sui consilii'; furebat enim, hoc est amabat, quod pathos, ut dictum est,
venialiter defenditur. Quicquid enim per pathos ipsum admittitur non adscribitur homini, qui maiore vi coactus
aliquid efficit quod contrahat crimen. Aiacis ergo factum levius facit, ut ostendat veluti graviora peccata
Troianorum, quae non erant.
Traduzione: egli può essere difeso attraverso lo status venialis: infatti, una colpa manifesta non può essere
difesa se non in questo modo, e cioè dicendo: “Se Aiace commise un delitto, non era capace di intendere e
di volere”; infatti era pazzo, era innamorato, e questo tipo di affezione dell’animo, come è stato detto, viene
difeso venialiter. Infatti, qualsiasi cosa venga commessa attraverso questo sentimento, non viene imputata
nei confronti di un uomo il quale commetta un qualche crimine sotto la costrizione di una forza maggiore.
Dunque, rende più lieve l’azione di Aiace per mostrare come più gravi le colpe dei Troiani, che però non lo
erano.
Lo status venialis era la forma di difesa più debole che l’imputato poteva cercare di ottenere; secondo gli
antichi, poteva essere invocato sulla base di tre motivazioni: 1) imprudentia; 2) casus; 3) necessitas. Nel caso
di Aiace, sembrerebbe trattarsi soprattutto di imprudentia, ma anche di necessitas (il furor Amoris è chiamato
in causa come una maior vis). Occorre dire che lo status venialis era spesso usato dai commentatori
(soprattutto quelli di Terenzio: Elio Donato e Eugrabio) nei punti del testo più ricchi di pathos.
L’idea che il sentimento amoroso potesse essere incluso tra le attenuanti previste dallo status venialis è,
tuttavia, piuttosto controversa; la cosa però evidente è che Giunone viene descritta come una specie di
patrona che cerca di difendere la causa di Aiace > N.B. Questo è funzionale allo scopo del suo discorso, ossia
dimostrare che se Pallade ha potuto punire Aiace (macchiatosi di una crimen meno grave, secondo
l’interpretazione di Claudio Donato), allora a maggior ragione era legittima la punizione di Giunone nei
confronti di Enea e dei Troiani.
Nicola Gentile
[1.47-48] Ut autem omnia rationis suae in unum colligeret, utitur anacephalaeosi. Nam «mene» quod in
capite posuit, hoc est «ast ego»; quod dixit in principiis «incepto desistere victam nec posse Italia Teucrorum
avertere regem», hoc est quod memoravit UNA CUM GENTE TOT ANNOS BELLA GERO. Graeci enim cum
Aiace, mox ut Minerva irata est, uno ictu perierunt. Complectitur ergo inter dolores suos etiam hoc, quod ipsa
quasi cum aequalibus38 bello contendens et per infinitos annos continuas inimicitias exercens obtinere non
potuerit. Recte autem posuit «bella gero», quasi cum resistentibus, quasi cum iis qui sperarent de Iunone
victoriam.
Traduzione: Per riassumere poi insieme le varie parti del suo ragionamento, si serve della ricapitolazione
(anachephaleosis). Infatti, il mene che ha posto all’inizio equivale a ast ego; ciò che ha detto nell’esordio
(incepto…regem) corrisponde a quanto rievocato con UNA CUM GENTE TOT ANNOS BELLA GERO; infatti i
Greci perirono insieme ad Aiace in una sola occasione, non appena Minerva si adirò. Include dunque tra i suoi
dolori anche questo, e cioè che lei stessa, come se stesse combattendo con persone del suo livello, e come
se stesse esercitando numerose inimicizie per innumerevoli anni contro di loro, non poté vincere.
Giustamente poi pose bella gero come se lo stesse dicendo con persone che le opponevano resistenza e con
persone che speravano di poter vincere contro Giunone.
Troviamo qui delle osservazioni che si riferiscono in modo piuttosto elementare alle partes orationis; siamo
qui all’epilogus, e una delle caratteristiche dell’epilogus nelle orazioni era quella di ricapitolare quanto detto
nella narratio, per poi muovere i sentimenti dell’ascoltatore; spesso l’epilogo dialoga direttamente con
l’exordium, e questo è quanto ci viene detto da Claudio Donato (le espressioni che si trovano nell’epilogo
richiamano in modo piuttosto diretto quelle presenti nell’esordio).
[1.48-49] Denique ut hoc probaret, ait ET QUISQUAM NUMEN IUNONIS ADORAT PRAETEREA AUT SUPPLEX
ARIS IMPONIT HONOREM? Hoc idcirco posuit, ut ostenderet per coniecturam Troianos idcirco Iunonis numen
non adorare aut aris eius non imponere sacrificia, quod se sperarent eam renitendo superaturos. Hic quanta
arte in medio posuerit praeterea debet ostendi; nam sic esse debuit: praeterea quisquam numen Iunonis
adorat aut supplex aris imponit honorem? Sed, ut diximus, honestius in medio posuit praeterea, ut utraque
conecteret. Certe et hoc plurimis locis ostendemus, unam orationis partem non semel, sed saepius
accipiendam, ut dicamus 'praeterea aut quisquam numen Iononis adorat? Praeterea aut supplex aris imponit
(r : imponet LR) honorem?', ut praeterea bis accipiatur aut certe ordinato sensu semel ponatur in capite.
______________________________
aut LRW, et Georgii (sed Donatus aut Vergilii replicare videtur)
imponet Mγ1Rd?w : inponit γpω, GLK V, 521, 10, Tib. : inponat recc
Traduzione: Infine, per dimostrare quanto appena detto, disse ET QUISQUAM NUMEN IUNONIS ADORAT
PRAETEREA AUT SUPPLEX ARIS IMPONIT HONOREM? Disse questo per dimostrare attraverso una congettura
che i Troiani non adoravano la divinità di Giunone o non ponevano sacrifice sui suoi altari poiché speravano
che facendo resistenza l’avrebbero sconfitta. Qui occorre mostrare con quanta arte abbia posto nel mezzo
praeterea; infatti avrebbe dovuto essere così: praeterea quisquam numen Iunonis adorat aut supplex aris
imponit honorem? Ma, come abbiamo detto, con maggiore eleganza ha posto praeterea nel mezzo in modo
da unire entrambe le cose. Senza dubbio, mostreremo in numerosi passi anche questo, e cioè che una sola
parte del discorso deve essere intesa non una sola volta ma più volte, in modo tale che diciamo 'praeterea
aut quisquam numen Iononis adorat? Praeterea aut supplex aris imponit honorem?', in modo tale che
praeterea venga inteso due volte, oppure avendo ordinato il periodo venga posto una sola volta all’inizio.
38
Il senso più comune di aequalis è “della stessa età”; qui però sembra piuttosto significare “dello stesso livello”.
Nicola Gentile
La nota di commento viene conclusa con una serie di osservazioni su come interpretare il testo di Virgilio: in
particolar modo, si sofferma sul caso in cui una sola parola debba essere interpetata “due volte” per
comprendere il senso del periodo.
[Problemi testuali: Georgii stampa et anziché aut, ma il suo intervento non è né necessario né sembra andare
nella giusta direzione, in quanto qui Donato sta parafrasando – come suo solito – il testo virgiliano, che ha
aut.
Imponet o inponit (variante presente nel testo virgiliano)? > Problema del rapporto che lega i lemmi alle
note di commento: ogni commentario di fatto presenta dei lemmi del testo che commenta, e poi ci sono le
note di commento vere e proprie; il rapporto tra lemmi e note di commento è per definizione un rapporto
instabile, che crea spesso problemi di carattere filologico. Ad esempio:
1) I lemmi sin dall’origine sono stati inseriti dal commentatore, che poi li ha commentati (caso di Tiberio
Claudio Donato); in alcuni casi, la tradizione manoscritta diretta del testo commentato interferisce sui lemmi,
e quindi il testo dei lemmi sarebbe stato nel tempo sottoposto ad un’attività di “normalizzazione”, di
adeguamento al testo tràdito di Virgilio, cos ache avrebbe alterato il rapporto lemma/nota.
2) in altri casi i lemmi sono stati inseriti a posteriori, per far capire cosa si stesse commentando; in questo
caso non è affatto detto che il testo dei lemmi coincida con quanto presente nella nota.]
Notiamo che qui Giunone sta parlando in generale, mentre Tiberio Claudio Donato interpreta quisquam come
riferito ai Troiani.
11/12/20
SERVIO (S+DS)
[1.41] VNIVS in istis sermonibus ‘unius’ ‘illius’ ‘ipsius’ naturaliter media producitur syllaba, sed cum opus est
corripitur hac excusatione: nam quotiens vocalem longam vocalis sequitur, ei vires detrahit, ut est «insulae39
Ionio in magno» (A. 3.211) et «sub Ilio alto» (A. 5.261). Et ob hoc mutant accentum; in Latino enim sermone
cum paenultima corripitur antepaenultima habet accentum, ut hoc loco ‘unius ob noxam’ et contra «unius ob
iram prodimur» (A. 1.251). ‘Noxam’ pro ‘noxiam’. Et hoc interest inter noxam et noxiam, quod ‘noxia’ culpa
est, ‘noxa’ autem poena.
____________________________________
<ob noxam>: add. Daniel Harv.
Aen. 3.211: insulae Ionio in magno, quas dira Celaeno
Aen. 5.261: victor apud rapidum Simoenta sub Ilio alto
Traduzione: VNIVS in queste parole unius ipsius illius per natura la sillaba interna è lunga, ma quando è
necessario si abbrevia sulla base di questa giustificazione: infatti, tutte le volte che una vocale segue una
vocale lunga “le sottrae le forze”, come è in …, e per questo motivo cambiano l’accento; infatti, in una parola
latina quando la penultima è breve la terzultima porta l’accento, come in questo caso unius ob noxam e, al
contrario, unius ob iram prodimur. Noxam sta per noxia, e questa è la differenza tra noxam e noxiam: noxa
significa “colpa”, noxia significa “punizione”.
Servio giustifica la scansione metrica di unius nel verso virgiliano (ùnius) attraverso la legge uocalis ante
uocalem corripitur; il genitivo pronominale con la -i- breve è in poesia fatto non infrequente già a partire dal
39
Insulae Ionio > si tratta di iato prosodico, ossia non si applica la sinalefe e le vocali vengono conservate, ma il
dittongo -ae è coinvolto nell’applicazione della tendenza uocalis ante uocalem corripitur, quindi si “abbrevia” (cf.
anche Ilio alto).
Nicola Gentile
II secolo a.C. Per dimostrare questo assunto Servio riporta altri due versi virgiliani che dimostrano
l’applicazione di questa tendenza anche in caso di iato prosodico.
Traduzione: alcuni intendono noxa come “colei che ha danneggiato”, noxia come l’ “oggetto del nuocere”.
Certamente allude di nascosto alla storia; si dice infatti che Minerva non fosse soddisfatta a tal punto per la
punizione del solo Aiace, per il fatto che Cassandra fosse stata violata nel suo tempio, che in seguito
attraverso un oracolo … dal regno di quello, e per giunta dalla tribù dalla quale proveniva Aiace, come riferisce
Anneo Placido.
Osservazione più interessante è l’aggiunta tra la storia ed il mito introdotta attraverso una formula piuttosto
ricorrente sia in Servio sia nel Danielino (sostanzialmente utilizzata per dire che Virgilio indirettamente sta
richiamando qualcosa legata alla storia di Roma. Interessante è la menzione di Anneo Placido: non è chiaro
se tutto questo episodio sia riferito da questa fonte oppure se riguardi soltanto l’ultima parte (il dicitur iniziale
è molto generico).
Traduzione: [1.41] FURIAS amore, come nelle Bucoliche “seu quicumque furor”.
altri interpretano così, e cioè come se stesse dicendo che quello (Aiace)
abbia compiuto un delitto sotto l’influsso del furore, mentre i Troiani
consapevolmente.
La logica dell’aggiunta danielina è esattamente la stessa che abbiamo già trovato in Tiberio Claudio Donato:
gli alii interpretano il tutto contrapponendo Aiace e i Troiani sulla base dello status uenialis. La nota danielina,
tuttavia, omette tutto il contesto retorico del discorso di Giunone, ampiamente approfondito – come
abbiamo visto – dal commento di Tiberio Claudio Donato. Tutto ciò non significa, però, che il Danielino
conoscesse Claudio Donato e lo stesso riassumendo: la derivazione diretta è, in questo caso, indimostrabile;
piuttosto, sembra applicabile qui l’immagine delle cosiddette staffette esegetiche (cf. Gioseffi).
Nicola Gentile
Traduzione:
[1.41] OILI oilei. E non è superfluo; e infatti vi furono due Aiaci, ed entrambi impazzirono,
ma il Telamonio per l’ira, mentre questo per amore | ma il Telamonio per l’ira dovuta al giudizio delle armi,
mentre questo per amore, a causa del quale una volta
presa Ilio stuprò Cassandra nel tempio40.
Ed è una figura greca (scil. il patrnonimico), se diciamo “Enea di Anchise” e sottintendiamo “figlio”. Noi ci
serviamo di questa figura solamente a proposito dei padri e dei mariti, come Virgilio “Deifobe di Glauco”, e
cioè “figlia”, e “Andromaca di Ettore”, e cioè “moglie”.
La seconda variante introdotta dal Danielino riporta una versione mitologica la cui fonte è, ancora una volta,
indicata in modo molto generico (a multis historicis Graecis); segue poi la spiegazione razionalizzante di
questa variante mitologica.
40
Questo episodio relativo ad Aiace Oilio faceva parte del ciclo troiano e fu recuperato da Virgilio.
Nicola Gentile
[Problema testuale: al v. 70 la variante aut non è conosciuta dal Danielino, sebbene egli ritenga che in quel
punto al posto di et dovesse esservi aut per creare un parallelismo col primo aut. La lezione da accogliere a
testo è et, ma questo punto è stato oggetto di discussione sia per i commentatori antichi sia per gli editori
moderni].
14/12/20
SERVIO E DS
[1.65] AEOLE INCUTE VIM VENTIS ordo ipse est. et est figura parenthesis. inter parenthesin et ellipsin hoc
interest, quod parenthesis est quotiens remota de medio sententia integer sermo perdurat; plenum namque
est “Aeole incute vim ventis”, item “Aeneas rapidum ad naves praemittit Achatem” (A. 1.643). Ellipsis autem
est quotiens remotis interpositis deest aliquid, ut est “quos ego – post mihi non simili poena”; deest enim
“adfligam” (A. 1.136).
Traduzione: AEOLE INCUTE VIM VENTIS l’ordine è questo. … e cioè che la parentesi si verifica ogni volta che
tolta dal mezzo una frase il senso si conserva integro. Nel caso di … il senso è completo, così come nel caso
di … . l’ellissi, invece, si verifica ogni volta che dopo aver tolto ciò che sta nel mezzo manca qualcosa, come
nel caso “quos ego –41 post mihi non simili poena”; manca infatti “adfligam”.
Questa nota serviana si concentra sull’ordinamento della prima parte del discorso di Giunone; Servio prende
quindi l’occasione per spiegare due concetti grammaticali: la parentesi e l’ellissi.
41
A rigore non si tratterebbe di ellissi, ma di aposiopesi.
Nicola Gentile
Traduzione:
INCUTE VIM VENTIS il senso è duplice; se infatti incute significa “infondi”, allora ventis è in caso dativo.
Se invece incute significa “fai”, si tratta del settimo caso42, e il significato sarà “reca violenza ai Romani
attraverso i venti”.
Doppia interpretazione: ventis in caso dativo o nel “settimo caso”. Il contesto della citazione enniana è
controverso, non abbiamo nessun appiglio che ci consenta di collocare in modo più preciso questo
frammento (secondo Skutsch, è più probabile che questa persona che suscita l’ira dei Romani sia un nemico
non romano).
___________________________________
in<versus in> sensu Schoell Harv. : in sensu codd. : in sensu confusus PaTaM2 : <de>est in sensu Thilo in
app.
submerguntur Thilo : submergantur codd.
Problema di carattere grammaticale, sostanzialmente spiegabile come uno hysteron proteron logico
(problema questo avvertito dalla critica virgiliana antica, nonostante i significati di obrue e di submersas
siano molto simili).
42
Si tratta di un concetto che torna nella tradizione grammaticale antica e che non sempre viene definito in modo
unanime; questo concetto viene introdotto per rendere conto della complessità dell’antico ablativo i.e. e nella
tradizione antica (da Varrone a Quintiliano) viene usato soprattutto per esprimere alcune funzioni dell’ablativo quali
quella strumentale e l’ablativo assoluto; nella tradizione grammaticale più tarda il settimo caso passò ad indicare,
sostanzialmente, l’ablativo senza preposizione. Secondo Curìa, Servio utilizzerebbe l’espressione “settimo caso” in un
modo più simile a quello originale, ossia per indicare soprattutto la funzione strumentale dell’ablativo.
Nicola Gentile
Traduzione: Poi tutta la richiesta di Giunone viene spiegata nelle parole che seguono.
Il Danielino segnala l’uso un po’ particolare del secondo et che, in qualche modo, viene bollato come
improprio; su questo genere di considerazioni si basa probabilmente l’ingresso nella tradizione manoscritta
di Viriglio della variante aut (N.B. Il Danielino non conosceva la variante aut, ma segnala semplicemente
l’uso improprio di et in quel contesto!).
[1.51-52] (1) NIMBORUM IN PATRIAM, LOCA FETA FURENTIBUS AUSTRIS, AEOLIAM VENIT: servavit hic
Vergilius personae rationem miro artis ingenio sed in ea parte non quae competeret reginae, sed quae
conveniret iratae et ei quae nollet occasionem loci et temporis perdere. Nam si personam vellet ostendere
reginae, mittere aliquem ad Aeolum debuit et iubere quid fieret.
Neglecta ergo potestatis ratione totum adsignat iratae et ei quam cogebat ultionis spes in evidenti
constituta, et licet iratis et flammatis aestibus animorum non detur integra consiliorum intentio, tamen
totum miscet in persona Iunonis, ut irata non consideraret iniuriam suam ut deorum regina Iovisque uxor et
soror ad Aeolum pergeret, sed iis, ut dictum est, omnibus spretis ipsa vaderet, <et> curaret praesens quod
desiderabat impleri.
_________________________
ut : et LR Georgii ; <et> r : om. LR
Traduzione: 1) NIMBORUM IN PATRIAM, LOCA FETA FURENTIBUS AUSTRIS, AEOLIAM VENIT: in questo
punto Virgilio conservò le caratteristiche del personaggio con mirabile ingegno artistico, ma non nella parte
in cui si riferiva ad una regina, ma che convenisse ad una persona irata e che non voleva perdere
l’occasione favorevole del luogo e del tempo. Infatti, se avesse voluto mostrare una regina, Giunone
avrebbe dovuto inviare qualcuno da Eolo e ordinare che cosa dovesse essere fatto.
Avendo dunque messo in secondo piano il rispetto dei rapporti di potere, riconduce tutto alla persona
adirata, e a colei che spingeva una speranza di vendetta messa su un piatto d’argento; e sebbene alle
persone adirate e infiammate da ardori dell’animo non venga data una capacità di decisione integra,
tuttavia Virgilio mescola tutto nella persona di Giunone, in modo tale che, da persona irata, non
Nicola Gentile
considerasse una offesa nei suoi confronti il fatto che la regina degli dei e la moglie e sorella di Giove si
recasse da Eolo ma – come si è detto – avendo messo in secondo piano tutte queste cose ci andò in prima
persona e curò personalmente ciò che desiderava venisse realizzato.
[1.69-70] 1) Desiderii dehinc summa subnectitur et modus poenae: INCUTE VIM VENTIS SUBMERSASQUE
OBRUE PUPPIS AUT AGE DIVERSOS ET DISSICE CORPORA PONTO: expressit plenam patheticam43; nam si
eo ordine quo locuta est vellemus intellegere, non cohaeret. Si enim ordinatam posset commota proferre
dictionem, sic debuit loqui: «Aeole (v. 65a), gens inimica mihi Tyrrhenum navigat aequor (67), Ilium in
Italiam portans victosque penates (68): incute vim ventis submersasque obrue puppis (69) et dissice corpora
ponto (70b) aut age diversos (70a); namque tibi divum pater atque hominum rex (65b) et mulcere dedit
fluctus et tollere vento (66)».
______________________________________
desice LR (sed dissice in interpretatione)
velimus Lr : vellimus L1R : vellemus ed. Georgii dubitanter
Traduzione: 1) Infine aggiunge la sintesi del suo desiderio e le modalità della sua punizione: INCUTE VIM
VENTIS SUBMERSASQUE OBRUE PUPPIS AUT AGE DIVERSOS ET DISSICE CORPORA PONTO: si espresse
infatti in un modo ricco di pathos. Se infatti volessimo intenderlo nell’ordine secondo il quale ha parlato,
non è coerente; infatti avrebbe dovuto parlare così: «Aeole (v. 65a), gens inimica mihi Tyrrhenum navigat
aequor (67), Ilium in Italiam portans victosque penates (68): incute vim ventis submersasque obrue puppis
(69) et dissice corpora ponto (70b) aut age diversos (70a); namque tibi divum pater atque hominum rex
(65b) et mulcere dedit fluctus et tollere vento (66)».
(2) Ante omnia tamen consideranda sunt quae Iuno perfici cupiebat dicta quidem, sed non ordine suo, ut
appareret eam per commotionem nimiam ordinationem rebus ipsis dare nequisse. Dixit “incute vim ventis
submersasque obrue puppis” (69), iungere debuit “et dissice corpora ponto” (70b), quod fieri necesse erat
navibus submersis, atque ita novissimum ponere “aut age diversos” (70a), ut esset, sicut diximus, oratio
recte conposita hoc modo: “incute vim ventis submersasque obrue puppis (69) et dissice corpora ponto (70b)
aut age diversos” (70a).
Traduzione: anzitutto, bisogna tuttavia considerare che ciò che Giunone desiderava fosse realizzato venne
sì detto, ma non nell’ordine giusto, affinché fosse chiaro che lei, a causa della sua eccessiva agitazione, non
era in grado di dare un ordine alle cose stesse. Disse Dixit “incute vim ventis submersasque obrue puppis”
(69), avrebbe dovuto aggiungere “et dissice corpora ponto” (70b), cosa che necessariamente sarebbe
dovuta accadere una volta affondate le navi. Quindi, da ultimo, avrebbe dovuto porre “aut age diversos”
43
Cf. TLL patheticam dovrebbe sottintendere dictionem, che torna dopo; tuttavia è insolito sottintendere un
sostantivo di riferimento sulla base di ciò che segue. Secondo Pirovano si potrebbe sottintendere anche personam, ma
l’uso che successivamente farà Donato di questa espressione fa propendere piuttosto per dictionem.
Nicola Gentile
(70a), di modo che il discorso fosse ordinato in modo corretto in questo modo: “incute vim ventis
submersasque obrue puppis (69) et dissice corpora ponto (70b) aut age diversos” (70a).
(3) Denique hoc et ipsae coniunctiones ostendunt, cum dicit “incute vim ventis” et ponit “que”, ut coniungat
facto factum, “submersasque obrue puppis”, adsociat “et”, ut compleat effectum submersarum navium et
proveniat inde “dissice corpora ponto”. Ecce ponit “aut”, diversae naturae coniunctionem, hoc est
disiunctivam, ut faciat separationem poenae, ut, si provenire non posset “submersasque obrue puppes et
dissice corpora ponto”, proveniret saltem “aut age diversos”, quoniam sparsi nihil audere posterius poterant
nec ad Italiam pervenire.
Traduzione:
Interessante osservare che Tiberio Claudio Donato applica il medesimo modello interpretativo anche per il
discorso di Enea che vede arrivare la tempesta e il discorso di Nettuno che, adirato, interviene per placare
la tempesta; in tutti e tre i casi Claudio Donato sottolinea che questi discorsi, pronunciati in forte stato
emozionale, abbiano un ordine delle parole alterato; Tiberio Claudio Donato introduce quindi l’etichetta di
pathetica dictio. Da un lato queste caratteristiche possono essere trovate nei manuali che descrivono lo
stile retorico pieno di pathos: ad es. l’Anonimo Severiano ci dice che lo stile ricco di pathos è uno stile
spezzettato, incoerente; in ambito latino le medesime informazioni le troviamo in Macrobio (> una oratio
pathetica deve iniziare ex abrupto, deve avere frasi breve e continui cambiamenti di argomento, deve
mancare di continuità; cosa più interessante è che Macrobio esemplifica l’oratio pathetica attraverso
Virgilio). Nella tradizione retorica quindi abbiamo una serie di elementi molto simili a quanto ci dice Tiberio
Claudio Donato; tuttavia, vi sono anche delle differenze: sia l’anonimo severiano sia Macrobio dicono come
debba essere un’oratio pathetica per suscitare pathos presso l’ascoltatore; Tiberio Claudio Donato ci dice
invece come sono le caratteristiche del discorso pronunciato da una persona adirata > N.B. Nella
prospettiva di Tiberio Claudio Donato il pathos non è dalla parte di chi ascolta bensì dalla parte di chi
pronuncia il discorso!
Quanto detto da Tiberio Claudio Donato trova delle analogie con l’esercizio retorica dell’etopea; secondo i
manuali antichi c’erano tre tipi di etopea:
1) etopea etica > rendere l’ethos di un determinato personaggio.
2) etopea patetica > pronunciata da un personaggio in una situazione di forte pathos
3) etopea mista > coesistono ethos e pathos.
N.B. Secondo Agostino il discorso di Giunone sembra appartenere al terzo tipo di etopea, l’etopea mista:
Giunone è una regina, ha una sua dignitas, ma oltre alla dignitas c’è anche il pathos.
Anche Tiberio Claudio Donato, presentando il discorso di Giunone, si sofferma sui due elementi dell’ethos
(che qualifica la sua dignitas di regina) e del pathos; differentemente da Agostino, però, Tiberio Claudio
Donato presenta il discorso di Giunone come un caso di etopea patetica, in cui viene del tutto trascurato
l’elemento dell’ethos a vantaggio del pathos, funzionale al suo obiettivo.
Servio rimane nella prospettiva del grammaticus: analizza il testo e fa notare effettivamente delle anomalie
presenti nel testo virgiliano; Tiberio Claudio Donato esce da questa prospettiva e, pur facendo notare le
anomalie, le giustifica e ne fa anzi un pregio del testo di Virgilio, che in un modo o nell’altro intende
difendere (cf. ad es. Eust. ad Hom. Il. 2.230-233 (I.320.26-321.1 V.d.V.), dove sembrerebbe essere
applicato, nei confronti di Omero, lo stesso ragionamento che Tiberio Claudio Donato aveva applicato nei
confronti del testo virgiliano > esempio di staffetta esegetica: Eustachio riceve dalla tradizione esegetica un
“testimone”, ossia il ragionamento che consente di giustificare, attraverso l’interpretazione retorica,
evidenti anomalie grammaticali.
Nicola Gentile