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Maria Maddalena, o di Magdala, di cui oggi facciamo memoria, è ricordata dai vangeli soprattutto negli ultimi capitoli, tra
le donne testimoni della crocifissione e della resurrezione di Gesù. Solo Luca la menziona esplicitamente anche altrove,
tra le donne “guarite da spiriti cattivi e da infermità” che seguivano e servivano Gesù. Da lei, specifica l’evangelista,
“erano usciti sette demoni” (Lc 8,2-3).
Maria è dunque innanzitutto la testimone della morte e l’annunciatrice della vita di Gesù. Colei che sta presso la
croce e vede l’eccesso dell’amore; e poi corre al sepolcro, attratta da quel corpo amato, e lì scopre che l’amore è vivo e
la invia, prima fra tutti, ad annunciarlo agli altri discepoli, per cui sarà ricordata come “l’apostola degli apostoli”.
Eppure, più che come annunciatrice, nell’immaginario collettivo Maria è presente come la peccatrice penitente.
Pensiamo alle immagini, soprattutto occidentali, che la ritraggono discinta, a indicare il suo presunto peccato, e
penitente! I “sette demoni” hanno fatto correre la fantasia esegetica già degli antichi, che identificano Maria di Magdala
con la peccatrice di cui lo stesso Luca narra appena prima del brano sulle donne a seguito di Gesù. Colei che, portando
un vaso di profumo, unse i piedi del Maestro, asciugandoli e baciandoli, con una libertà che aveva scandalizzato il
fariseo Simone (cf. Lc 7,36-39). I sette demoni sono bastati per un’identificazione che l’esegesi moderna mette in
discussione, insieme all’altra, anch’essa antica, che associa Maria Maddalena a Maria di Betania.
Identificazioni a parte, ciò di cui per certo i vangeli parlano è una donna che ha conosciuto un passaggio di
guarigione e di rinascita. Maria ha visto prima nella sua carne e poi in quella del Maestro l’azione nefasta della morte
. Quindi, prima nella sua carne e poi nel corpo del Maestro, la potenza della vita: lei liberata dai sette demoni e Gesù
dalle catene della morte. Questo passaggio è il messaggio dell’evangelo di oggi.
Il primo tratto che emerge da questo brano è il pianto di Maria. Per quattro volte in pochi versetti torna il verbo
“piangere” (vv. 11, 13, 15). Per due volte sotto forma di una domanda che si ripete identica, sulla bocca dei due angeli e
di Gesù: “Donna, perché piangi?” (vv. 13 e 15).
Quel pianto però si scioglierà in un grido di esultanza, in quel “ho visto” dell’ultimo versetto, espressione del
passaggio dalla morte alla vita, dall’angoscia di aver perso, alla gioia di aver ritrovato. E in mezzo l’incontro risanatore
con il Signore, riconosciuto dal tono della voce che, con straordinaria semplicità e grazia, dice solo il suo nome, “Maria”,
risvegliando così in lei l’identità e la funzione di colui che la chiamava: “Maestro” (v. 16).
Ecco l’incontro di guarigione. Maria riascolta la voce: la sua vocazione originaria. E poi ridà a Gesù lo spazio che gli
spetta nella sua esistenza: Rabbunì, Maestro, più precisamente: “Mio maestro”.
Questo richiede che Maria accetti un altro passaggio: dal Maestro come lo aveva conosciuto a un altro modo di
presenza. È quello che Gesù le chiede con quel “non mi trattenere” (v. 17), un imperativo presente che dice durata e che
potremmo tradurre con “non continuare a trattenermi”. Maria deve lasciare. Solo così potrà rinascere. Lasciare per
ritrovare. E soprattutto lasciare che il Signore sia il Signore e lei la discepola.
fratel Sabino