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INTRODUZIONE

La nostra città è da sempre molto attenta a qualsiasi rappresentazione


artistica, soprattutto quella musicale. Torino è sicuramente una delle città
italiane più vive nel mondo della cultura. Non mancano mai infatti concerti,
mostre, esposizioni, presentazioni di libri, spettacoli e tanto altro.

Per quanto riguarda la musica Torino è piena di locali per poter passare una
buona serata ascoltando concerti e musica dal vivo di tutti i generi, dal pop al
rock, dal jazz al rap, fino ad arrivare alla musica elettronica.
Questi locali inoltre continuano ad organizzare tutta una serie di eventi sparsi
sul territorio della nostra città mantenendo sempre viva l’ambiente.
Qualsiasi siano le tue esigenze o quelle del tuo gruppo di amici un bel posto
per trascorrere la tua serata qui c’è sempre e se siete amanti della musica e
non volete perdervi i prossimi concerti, le novità, i gruppi emergenti a Torino
ecco posti che non potete assolutamente perdervi.

Per questa volta vi racconteremo due locali che forse conoscete già ma è
sempre meglio rinfrescare la memoria. Due locali che rappresentano il fiore
all’occhiello della nostra città nel campo musicale; il Blah Blah e Hiroshima
mon amour.

Hiroshima mon amour

Lo storico locale torinese ha all’attivo ormai oltre 25 anni di onorata carriera e


di concerti. Si sono esibiti qui artisti italiani ed internazionali come gli
Afterhours, Gino Paoli, Vinicio Capossela e tanti gruppi emergenti torinesi, ma
anche italiani e provenienti dall’estero. Vale sicuramente tenere d’occhio la
programmazione di quello che è uno dei locali più importanti di Torino.

Blah Blah

Il locale, chiuso nel Maggio del 2014, ha riaperto nell’Agosto 2014 con una
nuova gestione e tanti nuovi appuntamenti in musica da non perdere. Ubicato
in quello che era il vecchio Cinema King Kong di Torino, il Blah Blah Night &
Day Club offre ottima musica da poter accompagnare ad un tipico aperitivo
torinese.

Conosciamoli meglio nelle prossime pagine.


Blah Blah

Titolo: Solo 2 parole BLAH BLAH (Da definire)


Sottotitolo: Un locale nella storia di Torino (Da definire)

TESTO:

Introduzione:
Appassionati di cinema, letteratura, musica, editoria, teatro e mondanità ecco
a voi un posto nuovo e pieno di novità. Un locale aperto nel primo cinema di
Torino, in cui vennero proiettati i primi cortometraggi dei fratelli Lumiére. I suoi
organizzatori sono talmente attivi in così tanti campi diversi che ogni torinese
prima o poi ci ha fatto un salto o ha almeno studiato con interesse il suo
programma. Il suo nome è Blah Blah.
Il Blah Blah è un bar, un locale dove poter mangiare bene, ascoltare buona
musica, un luogo dove la cultura cinematografica viene esaltata con la
proiezione di film e cortometraggi e tanto altro. Il blah Blah è tutto questo e
anche di più. Perché quando tutte queste cose convivono insieme si crea
un’atmosfera incredibilmente stimolante.

L’avanguardia di torino:
Nonostante le sue grandi radici storiche, è uno dei locali che rappresenta
meglio l’avanguardia della nostra città. Un locale a 360°, aperto dalla mattina
alla sera dove puoi trovare, oltre ad un buon piatto o un bel drink, tantissimi
eventi differenti ma soprattutto tanta musica; un bel posto per rendere la tua
serata unica. Blah Blah si pone come la una strada diversa per la Torino anni
2000 che non può rimanere ancorata solo al passato, ma deve andare avanti
verso il futuro.

La sua programmazione di qualità non ha paura letteralmente di nessuno ed è


sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e mai scontato: new wave, funk,
aperitivi vegani, serate di psicoterapia, burlesque, appunto e spettacoli di
improvvisazione comica.
Aperto da mattina a sera ed in grado di accoglierti per una golosa colazione,
proporti un pranzo veloce o sorprenderti con un aperitivo sempre insolito.
Degno di nota il cartellone ricco di eventi sempre diversi tra loro. Dalla serata
con Hyper Culte (un duo svizzero in stile minimalist postdisco) alle serate con
DJset. La musica proposta non è mai convenzionale. Dal jazz e vintage soul;
rock e newave; hc e funk, fino ad arrivare all’elettronica. Insomma, ce n’è
davvero per tutti i gusti.
L’arte è protagonista ma senza mai dimenticare la stessa attenzione per il cibo
ed i drink serviti! Degustazioni di vini e bollicine, apricene con buffet, birre di
qualità e cocktail. Ottima l’idea di proporre ogni mese una linea dedicata ad
una birra diversa, con sapori abbinati.

Al Blah Blah ogni giorno è particolare:


Questo locale offre tantissime attività ed esperienze che possono essere
vissute in determinati giorni della settimana, dandoci la possibilità di
sperimentare sempre qualcosa di diverso. Ecco quelli che potete trovare se vi
viene la buona idea di farci un salto uno di questi giorni:

Tutti i mercoledì per il vostro aperitivo c’è “The Hidden Records and Food”,
l’esperienza della cucina vegana e vegetariana sollazzati dalle onde musicali in
collaborazione con l’ex homeless party di Bounce FM.

Tutti i giovedì invece abbiamo, “Da!Da!Da!” viaggio icono-clash video-musicale in


movimento tra il garage e il beat, tra le soundtracks e il brit pop e quanto il variegato
panorama musicale e visivo a cura di Naska e Dave possa offrire.

Invece da poco è tornato ogni venerdi il “Killing Moon”, la serata dedicata alle
sonorità newave, dagli anni 80 ad oggi a cura di Dj Clean Pee e TopaJ, dedicandoci
qui al mondo del rock.

Il sabato sera invece abbiamo Dj Blaster T le note di Melody Maker(s) con un


aperitivo fino a notte fonda.

La domenica, invece prende la scena “Improv To”, l’appuntamento teatrale curato


da B-Teatro), che calerà Blah Blah al centro della scena.

Blah Blah sembra quasi un locale che ci si immaginerebbe in un’altra città,


americana, con un pubblico più facile, sempre aperto alle novità, a
sperimentare nuove esperienza ed in cerca di buona musica. Invece ha
aperto nella sabauda Torino, perché noi torinesi non siamo mica da meno e
non invidiamo niente di nessuno.
EUROVISION

Titolo: Torino capitale


Sottotitolo: Il cuore della musica d’Europa que

TESTO:

Quest’anno sarà Torino ad ospitare la 66° edizione del 2022 dell’Eurovision Song
Contest. Come dopo ogni edizione, è sempre la nazione vincitrice ad ospitare
l’edizione successiva. Il nostro precedente risale al 1990 dove Toto Cutugno vinse a
Zagabria con il brano “Insieme: 1992”. Quell’anno la manifestazione si era svolta a
Roma ma questa volta tocca alla nostra Città che ha letteralmente sbaragliato la
concorrenza.Abbiamo battuto Milano, Bologna, Rimini e Pesaro e anche Roma. Per
ben tre serate 10, 12 e 14 maggio 2022 la capitale della musica, non solo d’Italia, ma
dell’Europa intera sarà la nostra città.
Certo che con il posto da proposto era anche difficile perdere, infatti si terrà presso il
Palaolimpico di Torino, ormai abituato ad ospitare grandissimi eventi; è lo stesso
posto che ha ospitato artisti del calibro di Bob Dylan, Lady Gaga, Shakira, Rihanna e
Madonna, oltre che aver ospitato anche, durante le olimpiadi invernali del 2006 le
partite di hockey sul ghiaccio, l’evento più importante al mondo per questo sport.
L’attesa non si è fatta mancare, ma ormai manca poco più di un mese all’inizio di
questo grandissimo evento. La prima semifinale sarà il 10 maggio, la seconda il 12 e
invece il gran finale il 14.
Questo evento sarà un grande faro per l’Italia, soprattutto per la nostra città.
Si stimano quasi 200 milioni di spettatori con più di 1500 giornalisti che si
occuperanno di raccontare l’evento in tutto il mondo. Delle 41 nazioni partecipanti,
36 si sfideranno in due semifinali e le 10 canzoni vincitrici di ogni semifinale si
uniranno per la Finalissima ai “Big 5”: Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e
Italia. Oltre ai Paesi "big five”,sono state sorteggiate le nazioni che prenderanno
parte alle due semifinali per aggiudicarsi l’accesso alla finale.
Nella prima semifinale del 10 maggio, gareggeranno Albania, Norvegia, Russia,
Portogallo, Lettonia, Svizzera, Slovenia, Danimarca, Armenia, Bulgaria, Moldavia,
Austria, Croazia, Islanda, Ucraina, Grecia, Lituania e Olanda.
Invece per la seconda semifinale del 12 maggio, ci saranno Montenegro, Australia,
Georgia, Cipro, Romania, Repubblica Ceca, Serbia, Finlandia, Azerbaigian, San
Marino, Polonia, Belgio, Macedonia del Nord, Svezia, Israele, Malta, Estonia e
Irlanda.

Mancano ormai solo 36 giorni per questo evento attesissimo, tanto che dalla messa
online dei biglietti, i posti per vedere la finale sono andati in esaurimento in
pochissimi minuti. Ormai resta solo qualche biglietto per vedere le prove generali e
le semifinali, ma si pensa che non dureranno molto anche quelli.Si tratta di biglietti
da 30 euro per le due semifinali e 50 euro per la semifinale, ma anche di biglietti che
arrivano a 350 euro per la finalissima. Chi non è riuscito ad accaparrarsi un biglietto
non deve temere, perché il comune ha predisposto una serie di iniziative
all’Eurovillage che si terra al parco Valentino. Queste attività saranno a ingresso
gratuito anche se con presenze contingentate per ragioni sanitarie.
Per quanto riguarda la conduzione, come ufficializzato durante il Festival di Sanremo
l’evento sarà affidato a tre big sia della musica che dello spettacolo: Laura Pausini,
Mika e Alessandro Cattelan.

Una gara senza esclusione di voci:

A rappresentare l'Italia saranno i grandi vincitori del festival di Sanremo: stiamo


parlando ovviamente di Mahmood e Blanco con "Brividi", che ha letteralmente
sbaragliato la concorrenza durante questa edizione. Una canzone che dopo una
settimana dalla sua uscita è balzata al 15° posto della classifica mondiale.
Se per il 19enne bresciano si tratta di un debutto sul palco europeo, per il cantautore
milanese è un grande ritorno, visto che nell’edizione del 2019 a Tel Aviv sfiorò la
vittoria con “Soldi”. Anche se per motivi di tempistiche dovranno tagliare la loro
canzone di 20 secondi ci aspettiamo faville. Oltre a Mahmood e Blanco per questa
edizione dell'EuroVision ci saranno altri artisti ben noti al pubblico italiano.

Partiamo subito con Achille Lauro (che a Sanremo si è classificato al 14esimo posto
con "Domenica") che ha vinto la prima edizione di 'Una Voce per San Marino'. Un
trionfo che lo porterà di diritto all'Eurovision Song Contest in programma a Torino.
L'artista ha vinto con la canzone 'Stripper', precedendo Alessandro Coli e Dj Burak
Yeter, secondi, mentre Aaron Sibley ha chiuso al terzo posto.

Un altro artista che conosciamo bene è la cantautrice e pianista Emma Muscat con “I
Am What I Am”, che parteciperà all'Eurovision Song Contest 2022 rappresentando
Malta, il suo paese d'origine. Emma accede di diritto dopo la vittoria di ieri sera al
contest Eurovision Contest di Malta con il brano "Out of Sight" e sarà uno degli artisti
in gara alla manifestazione. Emma ha preso parte nel 2018 alla diciassettesima
edizione di "Amici di Maria De Filippi", arrivando fino alla semifinale, oltre che a
partecipare al Isle of MTV 2018 insieme a Jason Derulo, Hailee Steinfeld e Sigala e
nel 2019 con Martin Garrix, Bebe Rexha e Ava Max.
Oltre che aver realizzato un featuring con Shade con la canzone "Figurati Noi" che
ha superato 10 milioni e mezzo di stream su Spotify, ed aver duettato con
Ramazzotti al concerto di Joseph Calleja ha aperto i concerti di Rita Ora e Martin
Garrix. Nell'aprile 2019 ha pubblicato il singolo "Avec Moi" con Biondo (conosciuto
ad "Amici") mentre ha successivamente collaborato con Junior Cally nel singolo
"Sigarette RMX". A dicembre 2019 ha pubblicato il singolo "Vicolo Cieco", a cui è
seguita "Sangria" con Astol nell'estate 2020. Per quanto riguarda la sua ultima uscita
risale al 25 giugno 2021 è uscito "Meglio di sera".

Gli ospiti
Oltre ai 4 ragazzi italiani sul tetto del mondo, non mancheranno di certo ospiti di
spessore. Di certo ci saranno i Maneskin che si occuperanno di accendere la
fiaccola dell’Eurovision con la loro performance per poi concentrarsi per la loro
tournée mondiale. Al momento, oltre la loro esibizione, sono confermati il duetto di
Mika e Laura Pausini durante l'intervallo della seconda semifinale e la performance,
questa volta in solitario di Laura Pausini nella serata conclusiva dell’Eurovision.

INTERVISTA SUBSONICA

Titolo:
Sottotitolo: Il cuore della musica d’Europa que

Testo

Nella storia della musica torinese non possono mancare un gruppo che ha
accompagnato intere generazioni con la loro musica, un sound tutto loro che gli ha
ritagliato un posto di diritto nella hall of fame della musica alternativa italiana,
parliamo dei Subsonica.
Una musica diversa da quella che il pubblico è sempre stato abituato, una molla
creativa, suonata nei locali della città e nei più selvaggi rave party.

Tutti sanno ormai chi sono i Subsonica, la band della nostra città in attività da più di
2 decenni senza mai perdere colpi, cadendo nella classica retorica del capitolo
chiuso e dell’inizio di un nuovo stile. La loro lama più affilata è stata la loro continuità
ma senza mai dimenticare come si stava evolvendo il mondo che li circonda.
Meglio dei Subsonica chi potrebbe essere definito come un collettivo musicale?
Portatori da sempre di un’idea di musica che va anche a mettere in scena le storture
della contemporaneità. Ogni parola è stata sempre meticolosamente studiata anche
se sembra un lavoro di stile.
Torino non è stato solo il posto dove la band è nata ma ha fornito anche gli stimoli e
l’energia di una scena underground in pieno fermento che in quel periodo nel nostro
paese costituiva un unicum. La metropoli, il cui destino era legato a doppio filo a
quello della Fiat, cambiava pelle e con essa cambiano la musica e la cultura.
Nonostante in questo momento si trovino in tournée sono riusciti a ritagliarsi un po’
di tempo per noi per rispondere a qualche domanda per scoprire un po’ di più su di
loro e il rapporto con la nostra città.

Avete da sempre dimostrato grande attaccamento alla città che ha dato i natali
ai Subsonica: Torino. Il capoluogo piemontese, definito anche “La Hollywood
italiana”, ha sempre voluto porre l’accento sull’aspetto culturale del proprio
territorio, dando ampio spazio non solo al cinema, ma anche ad alcuni degli
eventi musicali più importanti d’Italia e d’Europa. Quanto è importante dunque
il contesto di provenienza affinché un artista possa esprimere al meglio le
proprie potenzialità?

Non posso dirti quanto sia importante per gli altri, ognuno la vede a modo suo.
Posso invece dirti quanto sia stato importante per noi rispondendo che
probabilmente i Subsonica non sarebbero stati i Subsonica senza la città di Torino.
Ma non tanto la città in sé quanto la città nel momento storico in cui siamo nati e
l’abbiamo vissuta. Anche lì c’è appunto stata una serie di ingredienti che si sono
mescolati nel modo giusto.

Com’era la Torino degli anni 90’? La Torino del vostro inizio da cui tutto è
partito?
Era un momento storico molto particolare, in cui culturalmente si era arrivati a un
cambio di passo. La musica smetteva di essere un racconto pop di un’economia
basata sulle hit e iniziava a essere un territorio di sperimentazione di linguaggi, un
incontro/scontro di cose nuove e diverse che interagivano e costruivano qualcosa di
ancora più nuovo. Era il tempo del crossover: un dj con un campionatore poteva
prendere un qualsiasi tipo di musica nel mondo e trasformarla in una traccia dance,
in un linguaggio completamente nuovo. La Torino degli anni ’90 ha precorso un po’ i
tempi rispetto al resto d’Italia diventando il terreno fertile per far crescere una nuova
generazione di produttori, artisti, scrittori, di gente che apriva locali, di persone
illuminate che hanno poi deciso di organizzare festival. Quello che poi sarebbe
arrivato anche in altre città italiane qui lo si respirava già. È in quel periodo, molto
vivo e attivo, che sono nate realtà che ancora oggi sorreggono l’economia musicale
di questa città”.

A Torino, trent’anni fa, si usciva per andare ad ascoltare qualcuno e non per
andare a bere una cosa. Tutto il resto accadeva di conseguenza?
Uscivamo perché c’erano i concerti. Io sotto casa mia, in un club grosso dieci volte
casa mia ma anche di meno, ci ho visto gli Skunk Anansie, i Massive Attack, forse
una volta anche i Muse. Ci ho visto della gente che adesso riempie degli stadi e che
ha dei budget da milioni di euro. Io li ho visti in un localetto. Questa cosa qui era lo
stimolo per uscire di casa. Mentre ora uscire di casa è andare a bere una birra,
andare a mangiare fuori, all’epoca era andare a vedere una cosa. La differenza era
legata non tanto alla città quanto al momento storico. Potevi andare anche a bere tre
bicchieri di vino dopo, ma andavi dopo esserti nutrito di qualcosa di più importante
dell’alcol o del cibo, di un evento culturale, di qualcosa che ti cambiava
emotivamente, che metteva in moto un meccanismo di riflessione, di analisi, di
crescita, di confronto. Questa cosa qui la puoi ubriacare finché vuoi, ma è quello che
il giorno dopo ti spinge ad alzarti e a continuare a fare la tua vita, a crescere, ad
andare avanti. Quando si è perso quell’interesse, purtroppo, rimane solo
l’ubriacatura.

Se dovessi fare una sorta di mappatura emotiva della città da questo punto di
vista, da quali luoghi sarebbe composta?
All’epoca l’unico luogo in cui esplodeva questa vita erano i Murazzi, un luogo
geograficamente perfetto perché incanalato di fianco al fiume. Erano un po’ i
prodromi dei Navigli, infatti molti milanesi venivano a far serata da noi qui ai Murazzi.
Ed era il posto dove a fine serata, quando eri andato al cinema o a cena o magari a
ballare in una discoteca che però a un certo punto chiudeva, ci si incontrava tutti.
C’era il filtro della stanchezza, rimaneva solo chi veramente voleva stare insieme agli
altri, chi non era ancora stanco di scoprire cosa quella notte avrebbe regalato. Quel
luogo dove ci si incontrava tutti – che era anche geograficamente perfetto perché era
una specie di tunnel a cielo aperto scavato tra dei grandi muri che proteggevano dal
suono i locali del centro e dove, essendo di fianco al fiume, d’estate sembrava un po’
di stare in una zona balneare – era anche il luogo in cui in quel periodo si
riscontravano tutte le differenze sociali della città. Arrivavano persone benestanti,
marocchini che cuocevano gli spiedini, travestiti, scrittori di gialli, musicisti come noi.
C’era una ricchezza di diversità sociale enorme e in quel contesto lì, in quella
brodaglia umana, nasce sempre qualcosa.

E l’Hiroshima Mon Amour?


Quello era il posto dove a Torino, nel momento in cui io ero giovane e volevo fare il
musicista, bisognava andare a suonare per sentirsi parte della società musicale della
città. Era molto energetico. Ogni giovedì andavo a vedere dei concerti, i gruppi che
suonavano lì io li ho visti quasi tutti. Questa cosa era formante perché dopo tornavi a
casa e volevi essere al posto loro. Ed erano persone con le quali ti confrontavi,
parlavi dopo il concerto. Con uno di loro ci ho fatto anche un gruppo insieme: Max
(Casacci, chitarrista e co-fondatore dei Subsonica, ndr) suonava negli Africa Unite,
che era uno dei miei gruppi preferiti di sempre. Per me era incredibile poter parlare
con uno di loro e dopo anni trovarmi sul palco insieme a lui. In quella città, in quel
momento storico, potevano accadere cose del genere. C’è ed esiste ancora una sala
prove che in qualche modo radunava tutte le band di quel periodo. Ci facevo le
prove con la mia band dell’epoca e nella sala a fianco si formarono i Bluebeaters. In
quegli anni ho avuto tantissimi incontri musicali, ho suonato con moltissime persone.
Non c’erano delle persone in particolare ma c’era tutto un humus che ti cambiava la
vita, la testa e l’emotività regolarmente, ogni giorno.

Vorrei qualche nome, però. Da chi era composta quella tribù?


Potremmo scriverci sei libri su quello che accadeva in quegli anni. Una cosa
incredibile era che i nostri amici, i nostri compagni di musica di quel periodo,
venivano regolarmente a trovarci a Torino, come se Torino fosse stata la capitale
della musica, in quel momento, in Italia. Dai Bluvertigo, che mi trovavo spesso a
casa o nel nostro studio in Piazza Vittorio, a Daniele Silvestri, Frankie hi-nrg. Poi noi
eravamo fratelli degli Africa Unite, dei Casino Royale, anche con loro ci si
incontrava. Erano crollate in qualche modo le barriere tra città e molti colleghi
musicisti, che come noi avevano sognato tutta la vita di fare musica e lo stavano
iniziando a fare, stavano vivendo i loro sogni, sentivano l’esigenza di venire a Torino
per vedere che cosa stava accadendo là in quel periodo storico. In quei momenti,
quando è tutto così acceso, così vivo, e anche il mondo intorno a te si sta evolvendo,
sta cambiando, ti corre accanto, fondamentalmente accadono ogni sera cose
incredibili.

Quelli sono anche gli anni in cui con i Subsonica avete iniziato a capire che i
vostri sogni si stavano concretizzando. Generalmente sono quelli i momenti in
cui per un artista avvengono le cose più belle. Ci saranno stati, però, anche dei
momenti bui…

Di momenti bui ce ne sono stati tanti. Nella vita di una persona che usa la propria
creatività sono anche in qualche modo leciti, sono necessari per decostruire e per
ricostruire. Per me in quel periodo lì gli unici momenti bui erano quando finivamo una
tournée, finivamo il racconto di un album, e dovevamo iniziare in qualche modo ad
autodistruggerci per inventare l’album successivo, i Subsonica successivi, il me
stesso successivo. Quello è un gesto catartico che è molto sofferente e che però ci
ha permesso di andare avanti, fare nuovi album, di essere ancora qui, tra alti e
bassi, a discutere di musica, ad avere la nostra personale visione di musica.
Una visione che nel tuo caso è nata, tornando indietro nel tempo, nel contesto della
forte interazione culturale, non solo dal punto di vista musicale, che si respirava a
Torino e nel quartiere in cui sei cresciuto, Barriera di Milano.
Io ero un prodotto della subcultura di periferia torinese. Vivevo in un quartiere che
era praticamente stato creato negli anni ’70 per gli emigrati del Sud che venivano a
lavorare alla Fiat. Inizialmente un quartiere anche abbastanza borghese che poi
piano piano è diventato sempre più una periferia, a volte anche, negli anni ’80
specialmente, pericolosa. Dal punto di vista musicale essendo io un cantante,
musicista e autore cresciuto negli anni ’70, in cui c’erano i cantautori, ho imparato
quel tipo di linguaggio. Però il sabato sera andavo a ballare in discoteca, luoghi che
nacquero proprio negli anni tra i Settanta e gli Ottanta. Quindi ho in qualche modo
assorbito questa doppia influenza, l’influenza del cantautore che usa le parole e le
note per raccontare una storia e quella dei luoghi dove non c’è voce, non c’è parola,
ma c’è solo una cassa, magari ripetitiva e che ti spinge a muoverti. Torino era quella
cosa lì, era un mix di cose. Era la città forse all’epoca più variopinta dal punto di vista
culturale: nessuno dei torinesi è piemontese. C’era una forte interazione di culture e
diversità. È in quelle geografie umane che nascono le scintille che poi si trasformano
in progetti artistici, in gesti creativi e culturali.

Anche festival come il Club To Club e il Kappa FuturFestival, due


appuntamenti oggi tra i più significativi e riconosciuti della scena elettronica,
affondano le loro radici in quel tipo di contesto?
Il Club To Club e il Kappa FuturFestival sono il fiume che dal ghiaccio porta al mare
e quel ghiacciaio si era formato in quegli anni lì. Oggi Torino gode ancora del primato
di quell’epoca e di questa bellissima ricchezza lasciata dalla musica. Però chi ha
fondato questi due festival si è fatto le ossa e ha vissuto in quegli anni lì a Torino, li
ha creati perché arrivava da quegli anni. Oggi ogni città ha la propria importanza
musicale: Milano, Roma, Bologna, Napoli. Ci sono tante capitali della musica
elettronica. All’epoca la discografia stava a Milano e a Roma. A Torino ci stava
l’underground e forse all’epoca Torino è stata la prima a iniziare a utilizzare il
linguaggio dell’elettronica.

Più che una band siete un collettivo musicale, stare insieme per vent’anni non
è cosa semplice, di musica ne avete vista, scritta e vissuta. Cosa avete capito
di questo panorama musicale che a volte non si espone quanto potrebbe?
Cosa vuol dire portare un’idea nuova di musica che non parla solo di intimo e
personale?
“Io non imputo nulla alle nuove generazioni musicali, per il semplice fatto che ci
siamo anche lasciati alle spalle un passato dove vi era questa sorta di tic nel salire in
cattedra e spiegare la realtà a tutti. Soprattutto negli anni novanta si era passati dalla
coscienza sociale e civile a una sorta di meccanismo quasi automatico per il quale
non si poteva parlare di intimo e personale, ma ci si doveva solo interessare di
tematiche sociali. Chiaramente quando questo avviene si innescano dei meccanismi
di repulsione e nascono dei modelli assolutamente contrari. Questo in un tempo
difficile da decifrare, difficile anche prendere delle pozioni così solide da potersi
permettere di indicare la direzione a qualcun altro. Non mi stupisce il fatto che
prevalga il personale, l’intimo, il frammentato, la lettura non globale ma per il
dettaglio quotidiano. Devo dire che io apprezzo anche diversi autori e canzoni della
nuova generazione. Non mi manca che non ci sia nessuno disposto a scagliarsi con
le canzoni contro l’autoritarismo. Nei fatti però ci sono anche altri sistemi. Ci ha fatto
anche molto divertire la querelle Salmo- Salvini. Quando Rolling Stone ha chiamato
per una sorta di raccolta contro Salvini, noi l’abbiamo fatto e accettato, forse non era
quello lo strumento giusto, ma non ci siamo comunque sottratti e in quella sorta di
elenco c’erano anche molti protagonisti della nuova scena. Se dovessimo cercare
delle carenze o delle lacune, non mi pare che ci sia mancanza di coraggio ad
esporsi contro qualcuno. Quello che pone un divario tra questa epoca musicale e
quella precedente, è il fatto che non esiste più un sentimento di appartenenza. Io mi
ricordo che ancora prima dei Subsonica, con gli Africa Unite andai a suonare a
Pontida i primi anni di vita della Lega, mettendo anche in conto bastonate, sentivi un
sentimento di appartenenza, te ne saresti anche fatto una ragione. Oggi ti guardi alle
spalle e se ti esponi, sei carne da macello. Per noi è meno un problema perché
abbiamo chiarito la nostra posizione da talmente tanto tempo, si tratta solo di trovare
delle formule nuove per tener fede ai nostri presupposti. E quando parliamo di
Europa, parliamo di una dimensione che nasce in opposizione agli autoritarismi, alla
guerra e forse rappresenta una nuova lettura molto più aderente ai tempi, che non in
rifermento a delle ideologie pregresse”.

Quelli sono anche gli anni in cui con i Subsonica avete iniziato a capire che i
vostri sogni si stavano concretizzando. Generalmente sono quelli i momenti in
cui per un artista avvengono le cose più belle. Ci saranno stati, però, anche dei
momenti bui…
Di momenti bui ce ne sono stati tanti. Nella vita di una persona che usa la propria
creatività sono anche in qualche modo leciti, sono necessari per decostruire e per
ricostruire. Per me in quel periodo lì gli unici momenti bui erano quando finivamo una
tournée, finivamo il racconto di un album, e dovevamo iniziare in qualche modo ad
autodistruggerci per inventare l’album successivo, i Subsonica successivi, il me
stesso successivo. Quello è un gesto catartico che è molto sofferente e che però ci
ha permesso di andare avanti, fare nuovi album, di essere ancora qui, tra alti e
bassi, a discutere di musica, ad avere la nostra personale visione di musica.

Una visione che nel tuo caso è nata, tornando indietro nel tempo, nel contesto
della forte interazione culturale, non solo dal punto di vista musicale, che si
respirava a Torino e nel quartiere in cui sei cresciuto, Barriera di Milano.
Io ero un prodotto della subcultura di periferia torinese. Vivevo in un quartiere che
era praticamente stato creato negli anni ’70 per gli emigrati del Sud che venivano a
lavorare alla Fiat. Inizialmente un quartiere anche abbastanza borghese che poi
piano piano è diventato sempre più una periferia, a volte anche, negli anni ’80
specialmente, pericolosa. Dal punto di vista musicale essendo io un cantante,
musicista e autore cresciuto negli anni ’70, in cui c’erano i cantautori, ho imparato
quel tipo di linguaggio. Però il sabato sera andavo a ballare in discoteca, luoghi che
nacquero proprio negli anni tra i Settanta e gli Ottanta. Quindi ho in qualche modo
assorbito questa doppia influenza, l’influenza del cantautore che usa le parole e le
note per raccontare una storia e quella dei luoghi dove non c’è voce, non c’è parola,
ma c’è solo una cassa, magari ripetitiva e che ti spinge a muoverti. Torino era quella
cosa lì, era un mix di cose. Era la città forse all’epoca più variopinta dal punto di vista
culturale: nessuno dei torinesi è piemontese. C’era una forte interazione di culture e
diversità. È in quelle geografie umane che nascono le scintille che poi si trasformano
in progetti artistici, in gesti creativi e culturali.

INTERVISTA EUGENIO IN VIA DI GIOIA

Titolo:
Sottotitolo:

Siamo nel febbraio del 2018, in una giornata dove il maltempo imperversa sulla nostra
penisola, dove i treni arrivano in ritardo e il malumore è ormai diffuso un po’ dappertutto.
Tuttavia su un treno diretto a Roma con 6 ore di ritardo sta per succedere un qualcosa del
tutto inaspettato. Un gruppo di ragazzi ha deciso di iniziare a suonare una canzone di fronte
ai passeggeri stupiti e divertiti. Perché mai 4 ragazzi di Torino membri di una band folk-pop
di nicchia (fino allo scorso anno), dovrebbero fare una follia del genere? Perché loro sono gli
Eugenio in Via Di Giogia, nascono come quartetto di busker, artisti di strada se volete,
intrattenitori, prima che musicisti. Proprio quest’anima un po’ folle li ha spinti in più di
un’occasione a esibirsi in siparietti come quello appena descritto.
Forza di volontà, profonda dedizione e felicità come disciplina delle proprie giornate. Chi
crede che oggi sia impossibile arrivare sui palchi più importanti d'Italia partendo da un
portico di via Lagrange a Torino, evidentemente non li conosce.

Il gruppo nasce nel 2012 a Torino, la città dove abitando “quando non sono in giro per
l'Europa" e a cui sono molti legati. Propone un mix tra musica di strada, swing e folk
all’italiana. Il nome "talmente complicato che continua ad essere storpiato da chiunque,
come affermano loro stessi in numerose interviste” è la fusione di quelli dei componenti del
gruppo: Eugenio Cesaro, Emanuele Via, Paolo Di Gioia, più Lorenzo Federici, al quale
hanno dedicato il primo album, Lorenzo Federici, uscito nel 2014.
Partecipano a vari eventi dal vivo e programmi televisivi, nel frattempo pubblicano altri tre
album. Natura Viva (2019) è il disco con cui raggiungono immediatamente un successo
inaspettato, specialmente con la pubblicazione del primo singolo Cerchi. Nello stesso anno
partono per un lungo tour europeo andando a toccare anche tappe nei Paesi Bassi, Belgio,
Francia e Germania. Raggiungono anche i milioni di ascolti su Spotify con il brano Altrove,
pubblicato con Virgin Universal Musical Italia.

Da pochi giorni invece la notizia della loro ultimo gesto stravagante. Il 29 marzo ci siamo tutti
svegliati con una con un’enorme scritta a caratteri cubitali sull’asfalto. Il breve testo recitava
“Ti amo ancora”, scritta in una delle posti più importanti della nostra città, Piazza San Carlo.
Così abbiamo preso l'occasione per organizzare un'intervista, non solo per spiegarci s
questo ultimo loro gesto stravagante ma per farci anche due chiacchere, e dopo alcune
peripezie hanno finalmente risposto alla nostra chiamata
Ragazzi, ormai tutti si definiscono indie e spesso siete stati compresi anche voi. Ma vi
sentite parte di quella definizione?
Eugenio: Più che un genere è una wave, una bolla, dove dentro ci puoi trovare noi, Calcutta
oppure Andrea Laszlo De Simone. Che cosa abbiamo in comune, però, non l’ho ancora
capito.
Emanuele: Inizialmente aveva un significato diverso, cioè una realtà non legata a una major
che riusciva a farsi conoscere con pochi mezzi propri. Adesso forse è diventato un genere,
ma nel quale non ci siamo mai troppo ritrovati. Però capiamo perché veniamo categorizzati
in questo modo.C

C’è una definizione che vi piace, oppure alla fine non è così importante definirvi?
Eugenio: È importante definirci fra di noi, per riuscire a guardarci allo specchio e vedere una
forma concreta e soprattutto che non sia difficile da mettere a fuoco per chi guarda da fuori.
Siamo quattro teste pensanti come band, più quelle del manager e dei collaboratori
arriviamo a diciotto e cerchiamo di avere fra noi un rapporto non piramidale ma abbastanza
orizzontale. È simile a una società democratica. Così anche le canzoni subiscono tantissimo
l’influenza positiva di ogni feedback. Abbiamo iniziato per strada a scrivere e proporre le
nostre canzoni e hanno tutte la forma di un dialogo con un ipotetico interlocutore. Quindi, per
definirci fino in fondo, bisogna definire in che contesto ci troviamo e cosa vogliamo
raccontare.
Lorenzo: Per noi non è mai stata una questione solo musicale, perché c’è sempre stato un
legame con la realizzazione dei video e di tutti i progetti creativi e sociali legati al nostro
modo di fare musica.
Emanuele: E alla fine non sappiamo definirci neanche noi, per cui forse non è così
importante.

Chi è il leader della band?


Eugenio: All’inizio mi sentivo un po’ il “dittatore” del gruppo. Mi ricordo che dissi loro:
“Questa è una band, ma sappiate che l’indirizzo delle nostre canzoni, della nostra arte, lo
decido io”. La cosa bella è che negli anni, ne sono passati sette, la mia dittatura è finita:
Paolo: (Ridendo) Finalmente è giunta la democrazia.

Voi siete letteralmente nati dal crowdfunding e gradualmente approdati sotto i


riflettori. Spiegami e raccontami come avete vissuto questa piccola ascesa, dai tempi
di “Lorenzo Federici” fino ad oggi?
Paolo: Rispetto a “Lorenzo Federici”, sicuramente il secondo disco era la manifestazione di
una volontà di differenziare il nostro percorso, da un disco che veniva totalmente dalla
strada, quindi busker come le nostre origini, per arrivare all’utilizzo anche di strumenti non
esclusivamente acustici, aggiungendo suoni diversi al nostro secondo lavoro. Infatti,
abbiamo cercato di curare al meglio l’output sonoro di questo album, quel che viene
effettivamente fuori.
Eugenio: Non ce l’aspettavamo questo successo. Devo ammetterlo. Quando abbiamo
realizzato “Tutti su per terra” volevamo dire: “Vogliamo dare una direzione al nostro percorso
e far capire alla gente che c’è una maturità maggiore nell’ultimo disco rispetto al
precedente”. Volevamo dare un senso di crescita, e questa cosa è stata percepita benissimo
dal pubblico, che si è interessato sempre di più a noi. Soprattutto, ci siamo accorti che il
disco ha cominciato a essere realmente apprezzato dopo circa un anno dalla sua
pubblicazione ufficiale. Parlando di numeri, abbiamo visto con i nostri occhi una crescita del
pubblico live che ci ha davvero colpito.

Parliamo del vostro sound caratteristico. Apparentemente i brani sono costruiti su


formule folk-pop riconoscibili al pubblico italiano, che è già abituato a questo genere.
Tuttavia dopo qualche ascolto più attento si notano venature swing-jazz abbastanza
complesse. Addirittura, siete stati paragonati a Elio e Le Storie Tese. Vi ritrovate in
questa classificazione?
Paolo: Diciamo che le sonorità swing stiamo cercando di abbandonare sempre di più,
proprio in virtù di quel discorso sulla maturità che facevo poc’anzi. L’obiettivo sarebbe quello
di evolverci verso sonorità più semplici, anche più pop, ma senza cadere in banalità. Nel
prossimo disco, che è già in lavorazione, ci stiamo muovendo verso sonorità più vicine agli
Alt-J, riferimenti maggiormente esterofili. Quella vena swing ci è appartenuta dall’inizio e ne
abbiamo sempre conservato qualcosa, ma nel tempo la stiamo abbandonando. C’è la
semplicità, ma c’è anche la capacità compositiva di chi ha sempre fatto musica. In alcune
canzoni cerchiamo di farlo capire, in altre si nota meno.

Da molti vostri testi, la critica ha evidenziato un emergente pessimismo, persino un


tono apocalittico. Ma lo si potrebbe definire anche realista o grottesco, leggendo il
tutto da un’altra ottica. Vi ritenete degli Schopenhauer armati di chitarra, oppure non
vi sentite a vostro agio con questa definizione di pessimisti?
Eugenio: Noi siamo realisti. Abbiamo provato a non trasmettere pessimismo, e giustamente
al primo impatto sembra proprio l’opposto, ma il fatto è che noi ci siamo dentro. È la società
a essere così, e noi siamo parte di essa. Quella che abbiamo costruito è soprattutto una
visione dettata dalla scienza e dalla sociologia contemporanea. Anzi, il nostro è il realismo di
un monito che dice “se non cambia qualcosa, così andranno a finire le cose”. Sarà quindi
che nel 2050 mangeremo gli insetti (anche se ormai la notizia che siano legali anche in
alcuni paesi occidentali è di dominio pubblico), ci saranno le macchine volanti.
Lorenzo: La cosa più divertente è che alcuni fan ci inviano articoli a riguardo di alcune
nostre “previsioni” che si stanno avverando già ad oggi. Noi vogliamo raccontare la realtà
della società odierna, in tutto e per tutto.

Per quanto riguarda la satira nella musica, da Gaber a Caparezza, l’Italia ha una lunga
storia di penne taglienti. Chi sono i vostri riferimenti in Italia e all’estero?
Eugenio: Sicuramente Gaber quello italiano. Per quanto riguarda l’estero mi risulta difficile,
perché non abbiamo un metro di paragone linguistico adeguato. La satira italiana è un
mondo a sé stante. Dicevamo Gaber, che è un esempio lampante, magari Jannacci dei primi
tempi. Anche se, la satira vera e propria ha fatto parte più del nostro precedente disco che di
quello attuale.

Passando ai vostri concerti. Si vocifera che siano particolarmente coinvolgenti. Sui


vostri social avete persino condiviso il messaggio di una fan che si è fratturata
qualcosa durante un live, ma era comunque felicissima di avervi visto…
Emanuele: Sì, non puoi immaginare. Eugenio era sceso giù dal palco, tutti si sono riversati
a pogare, travolgendo questa ragazza.
Eugenio: L’abbiamo subito raccattata sul palco. Ci siamo accorti che si era fatta male, ma
lei insisteva a dire che stava bene. Quando abbiamo visto il commento, ci siamo rimasti
malissimo.

Però era contenta. L’ha presa come una fiera cicatrice di guerra.
Eugenio: Esatto, almeno questo ci rende felici.

Dunque siete realisti che, prevedendo un futuro prossimo, stanno vedendo le loro
previsioni avverarsi?
Emanuele: (Ride) Sì, in effetti è preoccupante…

D’altro canto, c’è una profonda vena ironica e satirica nei vostri testi. Chi è tra voi
quello che porta questa ironia nel realismo?
Eugenio :L’ironia sicuramente viene dai testi che scrivo. Però l’ironia è anche parte di una
nostra attitudine sul palco e nella vita. Chi non ci ha mai visto dal vivo sente l’ironia
attraverso le parole delle canzoni, ma dal vivo si sente un’energia di quel tipo ancora più
amplificata. Anche perché tutti e quattro abbiamo questa tendenza: facciamo musica, ma
anche teatro tra un brano e l’altro, quando siamo sul palco.

Che cosa si dovrebbe aspettare il pubblico da una vostra esibizione?


Eugenio: Sicuramente tanta improvvisazione. Cerchiamo sempre di essere diversi. Mai
nessun live sarà uguale al precedente. Tra un pezzo e l’altro faremo sempre qualcosa.
Prendiamo ispirazione dalla gente del posto, il luogo, l’atmosfera. C’è sempre tanta voglia di
far divertire, oltre a quella di far musica.

Per parlare invece della vostra ultima follia, a chi è rivolta questa vostra scritta?

Eugenio: Qualcuno ha ipotizzato che fosse un'operazione di marketing di un grosso


marchio. Non è niente di tutto questo. È la dichiarazione d'amore di oltre 150 persone con
coi abbiamo condiviso la notte, di presidio artistico, di vita vera in una delle piazze più belle
di Torino per fare esplodere il proprio sentimento d'amore. Con gessetti da scuola
elementare. Scotch di carta e un metro da sartoria.
Una presa di coscienza proattiva verso una Terra che va curata. Verso un mondo
economico, sociale e ambientale che va rivoluzionato. Una denuncia per la condizione
dell’aria della nostra città e del consumo disastroso che sta distruggendo il nostro pianeta.

Siete fra le poche band che hanno il coraggio di parlare nelle proprie canzoni di temi
così attuali. E la stessa cosa è accaduta con questa canzone inedita, che parla
appunto del distanziamento sociale. Vi viene naturale essere così contemporanei, o
ricercate questo stile?
Emanuele: Mi sembra che ormai sia passato un anno, ma abbiamo realizzato un brano in
collaborazione con gas che tratta del distanziamento sociale accentuato dalla pandemia e
quindi della necessità di un contatto fisico. Ma noi dividiamo fra i temi da cantare e quelli sui
quali agire. Non tutti però ne devono parlare per forza. Certo, chi ha la fortuna di
raggiungere più pubblico, però, sarebbe importante che si esprima e faccia sentire il proprio
punto di vista, soprattutto se ne competente. Noi abbiamo studiato i temi che andiamo a
trattare e ci facciamo aiutare anche da altre persone esperte.
Eugenio: Ci sentiamo in grado di conoscere quello di cui stiamo parlando. Lo facciamo molto
meno su altri temi, per esempio, benché siano importantissimi. Sulla politica ci sarebbero
tante cose da dire, ma per ora ci mancano gli strumenti adatti per esprimerci in musica. Sulla
sostenibilità ambientale, invece, cerchiamo di dare il nostro contributo.

Prima di salutarci, qual è il sogno nel cassetto degli Eugenio in Via Di Gioia?
Paolo: A noi non interessa diventare famosissimi come Vasco Rossi, ma il nostro sogno nel
cassetto è fare una cena insieme ad Aldo, Giovanni e Giacomo. Lo diciamo a ogni intervista
e nessuno ci ascolta!
Eugenio: Per me un altro obiettivo era finalmente arrivare su Rolling Stone e sembra ci sia
riuscito. Quando vi leggevo mi chiedevo: quando toccherà a noi? In generale, ci piacerebbe
diventare una realtà con un respiro più ampio, come una comunità vecchio stile. In attesa di
questo ed essendo già su Rolling Stone, ora il mio sogno sarebbe giocare con la Nazionale
cantanti.
Emanuele: La cena con Aldo, Giovanni e Giacomo sono il sogno comune da quando ci
siamo formati, ma effettivamente nei prossimi anni vogliamo impegnarci a realizzare una
Factory creativa nei pressi di Torino, un po’ come quelle grandi aziende americane dove il
personale, oltre a lavorare, può anche giocare e rilassarsi. In fondo è questo il nostro ‘stile’:
creare divertendoci
INTERVISTA: Willie Peyote

Titolo:
Sottotitolo:

INTRODUZIONE:

Guglielmo Bruno ha 36 anni. Possiamo definirlo un rapper, un cantautore, e anche un


rocker, ma prima di tutto è un artista è un artista che da della propria onestà il suo punto di
forza. Come ha ammesso molte volte, le logiche della commerciabilità non lo toccano, per lui
un brano è l'occasione per mettere in luce cose urgenti, e lui questo lo può fare tramite le
sue rime. Guglielmo è uno degli artisti rap più originali degli ultimi anni, lui è Willie Peyote.
Grazie al padre musicista si appassiona al mondo della musica e si avvicina a quello del rap
nel 2004, pubblicando nel 2011 il suo primo album da solista “il manuale del giovane
nichilista”, un mix di cinismo e denuncia sociale, fino ad arrivare al 2015 dove fa uscire
“Educazione Sabauda” che lancia definitivamente la sua carriera.
Il 6 ottobre del 2017 esce "Sindrome di Tôret”, prodotto da 451. Il disco, che secondo Willie
è la coniugazione ideale dei suoi due istinti musicali rock e quello hip-hop, ottenendo anche
la certificazione di Disco d’oro.
Nel 2018 collabora con i Subsonica nel singolo “L’incubo” raccontando il terribile bivio
emozionale creato dall’ansia da prestazione. La band di Samuel non è nuova
nell’argomento, se ricordiamo l’ironica Depre del fortunato album “Microchip
Emozionale” (1999).
Tra neanche un mese, il 6 maggio, uscirà il suo ultimo album “pornostalgia”, il sesto della
carriera del rapper e cantautore torinese, conterrà 13 tracce inedite tra cui spiccano le
collaborazioni con Samuel, Jake La Furia e Speranza, l’attrice Emanuela Fanelli, la stand up
comedian Michela Giraud, i Fast animals and slow kids e il producer bolognese
Godblesscomputers. A dare il via a questa collaborazione proprio un monologo della Giraud
sulla “rivoluzione” di fare schifo e sulla libertà di essere come si è, temi con cui Willie si stava
confrontando proprio in quel periodo pensando al testo di questa canzone.
Noi abbiamo approfittato della situazione per chiedergli una breve intervista, domandandogli
un po’ della Torino del tempo e della sua carriera, oltre che chiedergli un piccolo anticipo
sulla sua nuova e prossima uscita.

DOMANDE
Il tuo percorso all’interno del rap italiano è sempre stato abbastanza atipico…
Ho iniziato suonando il basso in una band punk rock, il rap mi ha folgorato solo durante gli
ultimi anni delle superiori. All’inizio cercavo di mettere un po’ di rap nei miei pezzi suonati, e
ora invece cerco di mettere la musica suonata nei miei pezzi rap. Se ci pensi, è come un
cerchio che si chiude. Credo che questo disco sia un punto di congiunzione perfetto tra le
mie due anime, quella più rock e quella hip hop.

Oggi accostare una band a un rapper è una cosa normale, ma quando hai iniziato tu,
nei primi anni ’00, bisognava scegliere: o l’hip hop o la musica suonata. Ti pesava?
Sicuramente sì, anche perché nella mia famiglia tutti suonavano qualcosa. Io ero l’unico che
viveva la musica in un altro modo. Quando facevo punk mi mancava il fatto di non poter
lasciare spazio alle parole, e quando ero un rapper mi mancava la dimensione della sala
prove. Mi sono sempre sentito un ibrido, insomma.

Chi erano i tuoi riferimenti di allora nella scena rap e hip-hop?


Il primo contatto con il rap l’ho avuto grazie agli Articolo 31 da una parte e a Willy, il principe
di Bel-Air dall’altra. La svolta vera, però, è avvenuta grazie a un ragazzo di Milano, un mio
amico del mare, che mi regalò due dischi: 950 di Fritz da Cat e Blackout! di Method Man e
Redman. Quei dischi mi hanno fatto proprio capire che c’era, oltre al rap commerciale degli
Articolo 31, e non lo dico in senso dispregiativo, esisteva un sottobosco di persone come
Turi, Fibra e un modo più real di fare le cose. Mi si è aperto un mondo. Poi è arrivato
Eminem e dentro di me è partita una rivoluzione. Ecco il primo idolo musicale che ho avuto è
stato Eminem, il disco che mi ha aperto la testa è stato 950.

Ti ricordi la prima volta che sei salito sul palco?


La prima volta che sono salito un palco, in realtà, non era per cantare: suonavo il basso in
un gruppo punk. Avevo circa 16 anni. Appena diventato maggiorenne, invece, ho iniziato a
fare rap. Il live d’esordio sotto questa nuova veste l’ho fatto durante il primo anno di
università. Come mai così tardi? Perché non avevo trovato mai nessuno con cui cimentarmi
prima di allora. All’epoca prodursi da soli era più complicato, oggi invece con un computer si
può fare tutto e i ragazzi come Tha Supreme a 16 anni sono già dei fenomeni in grado di
fare tutto da soli. Io ho dovuto aspettare di trovare una persona che facesse le basi su cui
poter rapper. Per questo è nata prima la chiave rock che quella rap, come artista. Come
ascoltatore, invece, il primo genere musicale in assoluto per me è sempre stato il rap.

In uno dei generi in cui è possibile farti rientrare, il rap, è molto diffusa la produzione
di neologismi. Tu tendi più a ricombinare in modi nuovi parole già esistenti. Ma se
potessi imporre sul panorama del linguaggio una tua parola nuova, quale sarebbe?
Non credo che lo farei, forse non ne sarei in grado. Mi piace di più mischiare i termini
dialettali di diverse zone d’Italia: lo slang bolognese e l’intercalare romano. O i registri alti e
quelli bassi. Non sono un autore di testi che va a cercare cose che non esistono; non sono
onirico o psichedelico, ma preferisco andare incontro alla realtà delle cose e prendere quello
che già c’è..

Nella tua carriera, per ora, c’è un prima – il giovane nichilista interiore – e un dopo – il
meno giovane disincantato esteriore. Come avrebbe vissuto la pandemia il giovane
nichilista e come sta vedendo il potenziale ritorno alla normalità il meno giovane
disincantato?
Sicuramente il giovane nichilista l’avrebbe vissuta peggio. Era molto più impreparato alla vita
ed era più umorale. Oggi sono cresciuto e ho acquisito più equilibrio. Purtroppo penso che
molti più giovani di me abbiano vissuto peggio di me questo periodo. Ci sono momenti della
vita in cui la routine dell’incontro con gli altri è più importanti che a 35 anni, età in cui conosci
te stesso in un mondo più profondo e hai meno bisogno del confronto costante col resto del
mondo. Il meno giovane disincantato sta vivendo la pandemia comunque in modo
complicato, soprattuto a partire da ottobre, quando ci hanno richiuso in casa. Ma dentro di
me – pur non avendo la capacità di dirmi “ne uscirò migliore di prima” – sento di poter
affermare che ne uscirò diverso. È anche vero che tutto il sistema in cui viviamo dovrà
cambiare perché, essendo costruito sulla costante produzione, nel momento in cui si ferma,
anche per un periodo limitato, rischia il collasso. Dunque non è un sistema sostenibile e il
cambiamento è inevitabile

Quali erano i luoghi torinesi dove, all’epoca, si faceva rap?


Si faceva freestyle dappertutto, nei parchetti, agli angoli delle strade. All’epoca esistevano le
Jam, eventi in cui tanti gruppi si ritrovavano per suonare o fare battle di freestyle. Si è persa
la dimensione comunitaria della musica, quei focalai di condivisione reale. Io mi sono sentito
sempre un po’ estraneo a tutto questo: nella scena rap ero visto come quello troppo
punkettone, nella scena rock torinese ero visto come quello rappuso, quindi nessuno mi ha
mai accolto del tutto. Adesso sono tutti lì a dire “Eh lo sapevo che eri bravo”, quando
qualcosa funziona chiunque vuole salire sul carro del vincitore.

Adesso, il Guglielmo allievo ha superato i suoi primi maestri del rap?


Ho conosciuto tanti rapper, ma non credo esista qualcuno più forte, almeno nel freestyle, di
Shade e Ensi. Anche Fred non scherza, ma la velocità di pensiero che hanno quei due è
incredibile. Poi Ensi quando sale sul palco rappresenta il rap, è hip-hop puro.

Sono cambiate, però, tante cose d’allora. Ad esempio, il passaggio da una


dimensione reale a quella, predominante, del virtuale, l’hai vissuto?
Il cambiamento verso il digitale non l’ho sofferto, l’ho vissuto e basta: anche perché il
bisogno di incontrarsi dal vivo è fondamentale nel momento della formazione, poi diventa
meno prioritario. Secondo me ai ragazzi di oggi mancherà quella dimensione, perché era
davvero formativo parlarsi, c’era un senso di condivisione reale: tutti credevamo in qualcosa
e ne parlavamo, nel mio caso era il rap. Quando andavo a scuola in pullman, se vedevo uno
stronzo con i pantaloni larghi come i miei capivo che avevamo gli stessi interessi, gli stessi
gusti. Ed era facile che iniziasse un’amicizia. C’era condivisione, punto. Oggi è tutto
talmente liquido e mischiato che non riesci più a individuare chi è come te: un ragazzo in
felpone potrebbe anche fare il dj di musica techno. In tutta questa velocità virtuale, oggi, ti
viene a mancare uno dei cinque sensi: il tatto non esiste più.

Ma la musica è udito, mica tatto. Qual è l’importanza di questo senso?


«Toccare le cose, avercele vicine davvero, vivere i luoghi è diverso che interagire con gli altri
attraverso uno schermo. Per forza di cose questo influenza i rapporti interpersonali e quindi
anche quelli artistici. Ogni cosa, tuttavia, ha i suoi pro e contro. L’opportunità che si ha oggi
di raggiungere il grande pubblico così velocemente, prima era impensabili. Tra tutti cito il
caso di Tha Supreme: quando io avevo 16 anni nessuno poteva fare quello che sta facendo
lui, con questi numeri, con la credibilità che gli riconosce la scena. A meno che non ci fosse
una major dietro. Invece oggi le etichette discografiche non spingono più le persone
totalmente sconosciute, ti prendono nel proprio team quando hai già conosciuto la fama.
Semplicemente perché non c’è il tempo di scovare i talenti: gli artisti esplodono sul web
senza sapere né come, né quando, né perché».

E questa velocità nella crescita artistica è positiva o negativa?


Da un lato è meglio, perché è più facile, però si perdono dei passaggi. Per forza di cose è
così. È come quando dovevi chiamare una ragazza al telefono di casa per chiederle di
uscire e c’era il rischio che rispondesse suo padre. Quel tipo di ansietta lì nessuno dei
ragazzi di oggi la proverà mai perché c’è Whatsapp che è pure gratis. Sono minchiate, ma ti
danno un senso delle piccole cose e delle sfumature che oggi non c’è più. La nostra società
sta viaggiando verso questa direzione, annichilire tutti i dettagli dello stare al mondo: deve
essere tutto veloce, immediato, gratuito. Per carità, ha dei lati positivi anche questo.

Per questo nelle tue canzoni eviti di parlare di amore, amicizia e sentimenti e ti
concentri sui dettagli del vivere sociale?
Cerco di fare una fotografia o di porre delle questioni. Per me è stucchevole parlare di
sentimenti, o meglio mi hanno fatto passare la voglia di affrontarli perché ne hanno parlato
così tanto e tutti nella storia della musica italiana. L’amore è bello, però….

Però è meglio parlare della tua futura ex moglie.


Perché fare finta che l’amore, una volta che lo incontri, è eterno? Purtroppo non lo è. Io amo
la ragazza per cui ho scritto La tua futura ex moglie, ma a oggi non stiamo insieme. Perché
dire una cosa che non è la verità? E allora ho scritto che non è andata come avremmo
voluto. Il punto è che la vita non è un film e dovremmo smetterla di raccontarla come se la
fosse. Perché poi il rischio è che le persone pensino “Oh ca***, va a tutti bene, perché a me
no”. E la si vive male a causa del confronto costante. Se raccontassimo tutti la verità,
vivremmo tutti un po’ meglio.

Un punto fermo nella tua produzione è l’inneggiare alle possibilità creative del diritto
di satira. Se potessi scegliere tra le due cose, preferiresti avere più pubblico o più
libertà d’espressione?
Credo la seconda. Arrivando a Sanremo ho avuto la possibilità di espandermi in direzioni
che non avrei mai immaginato prima. Ho potuto toccare con mano cosa significhi allargare di
molto il proprio bacino di utenza. E, avendo ben percepito le sensazioni che derivano da
questo tipo di risultato, vi posso dire che, tra le due opzioni, preferirei comunque quella di
essere libero di dire e fare tutto quello che ritengo giusto. Ciò chiaramente non corrisponde a
dire tutto quello che mi passa per la testa. Non sono uno di quelli che affermano che oggi
non si possa più dire niente. Ma non sono neanche mai stato uno che punta a piacere a tutti.

Tra poco uscirà il tuo nuovo album “Pornostalgia” , precisamente il 6 maggio, ci vuoi
dire qualcosa; una piccola anticipazione?
L’8 aprile uscirà un piccolo spoiler, il brano che aprirà l’album che ho intitolato “Fare Schifo”.
È stata la comica ad ispirare la canzone, con un monologo sulla “rivoluzione” del fare schifo,
la libertà di essere se stessi e di stare bene o non con se stessi. Posso dire di essere
contento di fare schifo e spero di condividere questo mio mantra di vita con tutti.

Un ultima domanda. Qual è il peggiore elogio che ti potresti fare e quale la migliore
autocritica?
Secondo me la peggiore cosa che si può pensare di sé stessi è ritenersi arrivati da qualche
parte. È la cosa che più mi spaventa, soprattutto dopo Sanremo. Ho davvero paura di chi
pensa di essere giunto alla conclusione di un percorso, di aver fatto abbastanza. La miglior
critica è il rovescio di questa medaglia: non hai ancora fatto niente. Anche nell’ultimo anno
della mia vita e della mia carriera sono convinto di non aver fatto nulla di particolarmente
diverso rispetto a quello che ho sempre fatto. Sono un perfezionista e continuerò sempre a
vedere solo i difetti nelle cose che faccio, cercando di migliorarmi. Il motore migliore del
mondo è non essere mai contenti di quello che si fa.

Pietro Morello:
https://thegreatestcoat.com/2020/11/20/intervista-pietro-morello-lar
dore-di-mantenere-la-calma/

Classe ‘99 e di puro sangue torinese, Pietro Morello è un TikToker che ormai ha sforato la
soglia 2 Milioni di Follower, ma non è solamente un importante influencer con numeri
importanti, mm è in tutto un artista, con più precisione è un pianista; che realizza i suoi video
con un mix vincente far un grande talento per il piano e il suo carisma.
Pietro ha avuto fin da subito un grande successo. Se per la maggior parte degli artisti il
successo è stato graduale per lui invece è stato letteralmente istantaneo, ma non è stata
una cosa casuale. Pietro ha imparato bene come utilizzare questo social e i suoi algoritmi,
approfittando anche del periodo di quarantena, quando l’utilizzo dei social era molto elevato.
Il risultato fu che il suo primissimo video ottenne 400 mila visualizzazione.

Il fatto che Pietro abia una grandissima abilità con il pianoforte è innegabile, inoltre ha
seguito nessuna accademia musicale, finendo per imparare a suonare il pianoforte un po’
per caso. A 12 anni aveva iniziato a prendere lezioni di musica, ma non per il pianoforte,
bensì per la chitarra. Però un giorno, il suo maestro che ha sempre reputato straordinario
decise di trasferirsi a Malta per impegni lavorativi. Caso vuole che sua sorella studiasse
piano e così interrotte le lezioni di chitarra si sia iniziato ad avvicinare a questo strumento.
Grazie ad un buon orecchio musicale e all’incoraggiamento dei suoi genitori lo portarono a
continuare con la pratica, arrivando al livello che è oggi senza nessun tipo di insegnamento
professionale o da parte di un maestro; era spinto solo dalla sua curiosità e dalla voglia di
sperimentare. Un vero è proprio autodidatta e questo lo rende ancora più incredibile.

Chi lo conosce sa bene che non si limita solo al mondo di TikTock potrebbe essere una
sorpresa, ma Pietro è un missionario che si occupa di dare un sorriso ai bambini. Iniziando
con il volontariato nei centri di accoglienza, questa sua passione nell’aitare il prossimo lo ha
spinto ad operare in realtà globali, principalmente in Romania, precisamente nella
baraccopoli di Craica, che si trova al confine con l’Ucraina tra una zona isolata e i primi
segni di paesaggio urbano.
La sua passione e la sua curiosità lo hanno spinto ad avvicinarsi a diverse persone e ad
associazioni impegnate proprio in missioni umanitarie.

Da quel momento, Pietro è diventato un collaboratore fisso e parte ogni volta che può: si
occupa di attività legate alla musica e di percorsi di pre-scolarizzazione finalizzati
all’inserimento in società dei piccoli più sfortunati.

Morello è riuscito a coniugare i suoi più grandi interessi: la musica permetterebbe a


chi è esterno da queste gravi situazioni di disagio di entrare in comunicazione con
chi ne soffre, favorendo l’inizio di un processo di apertura reciproca.

Da poco tornato dalla sua ultima missione umanitaria, abbiamo deciso di fargli
alcune domande.
Uno degli unici due concerti che il “re del reggae” tenne in Italia avvenne a
Torino nel 1980. E’ rimasto scolpito nella memoria di chi c’era
È sabato mattina di un 28 giugno rovente a Torino, anno 1980. La sera si esibirà allo
Stadio Comunale Bob Marley con i suoi Wailers. E già da venerdì sera ragazze e
ragazzi con i sacchi a pelo hanno preso posto davanti ai cancelli della struttura e in
piazza d’Armi. Nella mattinata arrivano anche i reduci dello show della sera prima a
San Siro. Il re del reggae non ha mai tenuto concerti in Italia, e ora lo fa per due sere
di seguito. Bisogna esserci.

I bar di corso Sebastopoli, corso Unione Sovietica, via Filadelfia traboccano di fan.
Chi fa colazione, chi approfitta delle toilette per lavarsi; altri iniziano la bisboccia. Alle
16 si aprono i cancelli, e la folla si riversa. Getti d’acqua per tutti, evitare malori è
un’impresa titanica a fronte di tutte queste ore al sole. Però non succede niente di
grave, giusto qualche svenimento con pronto intervento della Croce Rossa mentre
aprono l’evento i proverbiali gruppi spalla.

Primo a salire sul palco è Roberto Ciotti, blues di gran temperamento. Poi arriva un
ragazzo napoletano con un testone di capelli e la chitarra acustica; ha 25 anni e
canta in dialetto, si chiama Pino Daniele. Magari farà strada. Si avvicina il clou della
festa, e la fretta tradisce il pubblico, che prende a fischiare gli incolpevoli scozzesi
della Average White Band, a dispetto del messaggio di tolleranza del reggae, finché i
Wailers iniziano a pompare i bassi. Le tre coriste sono statuarie, bellezze inarrivabili
per i ragazzi sotto il palco. Poi lui, Robert Nesta Marley, accende la luce con una
personalità debordante, un piglio da stella del soul senza frontiere che abbina la
spiritualità dei testi e della capigliatura «rasta» all’impatto fisico dei pantaloni di pelle
à la James Brown. Più che ballare, la gente sul prato e sulle gradinate oscilla, è un
corpo solo mosso dal vento dei ritmi in levare, accomunato nei cori di «Positive
Vibration», «Jammin», «Exodus», «No Woman No Cry».

L’ultimo ricordo flash della serata è l’uscita dallo stadio: disorientamento, come si
fosse tornati sul pianeta dopo un giro in orbita. Giovani che vagano, non trovano
l’auto, sembrano cercare più una Terra Promessa che la casetta dei genitori.
Nessuno può immaginare di aver preso l’ultimo treno per Bob. Dopo quello show,
Marley ne terrà appena 13. Fino al 23 settembre, a Pittsburgh. Il malore. Il ricovero. Il
calvario. La fine, l’11 maggio 1981. Torino c’è, sulla mappa di quello storico «Uprising
Tour» mondiale. Chi era lì ne conserva il ricordo come un tatuaggio sul cuore.

https://lab.gedidigital.it/lastampa/2020/bob-marley-concerto-torino-28-giugno-1980/
Bruce springsteen

Basta poco per spazzare via il ricordo superfluo dei bambolotti di plastica alla Michael
Jackson che da qualche tempo imperversano negli stadi italiani. Qui tutto ha odore di vita: i
colori dello stadio, il ruggito della folla che accoglie l’ eroe del rock and roll, e naturalmente lo
stesso Springsteen. Il suo è un rabbioso richiamo alla nostra coscienza, alla nostra
memoria. Qui, in questo stadio, per una volta si può anche accettare di essere annullati in
una massa urlante, di arrendersi a questa fascinazione collettiva, perché mai nessuno prima
nella storia del rock ha dato l’ impressione come Springsteen di voler essere così
tenacemente la voce di tutti, l’ incarnazione di un disagio che ormai percorre almeno tre o
quattro successive generazioni ed è ancora vivo, incontenibile. Così come è viva, indomita,
invincibile, l’ energia del boss, anche se il concerto si apre, insolitamente, all’ insegna dell’
amore, nella cornice romantica del Tunnel dell’ amore, e poi prevede pause delicate, di
introspezione, in omaggio al lavoro più recente, appena un poco più diversificato e vario di
quella implacabile macchina rock che Springsteen scatenò con lo scorso tour. Ma già al
secondo pezzo, Springsteen e la sua band, completa di sezione fiati a rinforzare i riff
ossessivi, fanno sentire una potenza strabordante, sulle note di Boom boom boom, antico
blues cantato da John Lee Hooker, presagio di quello che vedremo in seguito. E poi ancora
Be true, una facciata B poco conosciuta, che però serve alla band come spunto per
scendere giù dal palco fin quasi a toccare la folla. Devi essere vero urla la band, e i segnali
ci sono tutti. Autenticità, passione, una voglia di essere fino in fondo esseri umani, reali,
quella stessa voglia che spinge Springsteen ad una lunga chiacchierata in italiano seduto su
una panchina col vecchio amico Clarence Clemmons, a parlare come due compagni di
strada che si ritrovano di nuovo insieme, tanto per non perdere di vista l’ itinerario, nel senso
di una strada collettiva che sprofonda in ricordi di vecchie autostrade, di fughe brucianti, di
notti insonni e amori desolati vissuti nel buio del rifiuto della civiltà. Springsteen è allo stesso
tempo eroe solare e notturno, come è ben rappresentato da questo concerto che si svolge in
due parti, la prima tutta alla luce del giorno, nella strada e disemozionante piattezza diurna,
nella seconda nel buio della sera con le luci che finalmente mettono a fuoco il palco e lo
rendono simile ad un incendio nella notte. Ed è questo, del resto, che esige realmente
questa musica, la quale raccoglie energie e le amplifica a dismisura. C’ è posto per
evocazioni bibliche (Adam raised a cain), preistoria di donne che vogliono dimenticare il
passato (Speare Parts), ma anche per la violenta, devastante protesta di war infine, per
chiudere il primo tempo, per l’ anti-inno Born in the Usa, che porta alle stelle, nel delirio del
pubblico, l’ altra America, cioè il paese universale di quelli che ancora cercano la terra
promessa, e vogliono rimanere combattenti della libertà. Il palco ora è una barricata, è la
frontiera dell’ ideale, è il risveglio di una rinascita sofferta e dolorosa. In questo senso
Springsteen è davvero l’ ultimo dei romantici, un forsennato persecutore di grandi battaglie e
grandi utopie. E la folla, ancora una volta, lo riconosce come tale, lo esalta, vuole cantare
con lui, vuole dargli un mandato preciso che è quello di urlare quello che tutti sanno, di
essere voce popolare, eroe di tutti. La sensazione è inconfondibile ed è quella dei grandi
eventi rock. C’ è una forza liberatoria, purificatrice, che libera in un bagno di sudore istinti
sopiti, identità confuse e sogni mai dimenticati. Col calare della notte perché la notte
appartiene agli amanti, come canta lo stesso Springsteen, il rito è finalmente completo, l’
unione musicisti-pubblico può essere definitivamente celebrata, quasi santificata, da questo
indomabile eroe del rock che pretende di essere, come grida in ogni concerto un prigioniero
del rock and roll. Il concerto, molto diverso da quelli che lo hanno preceduto, salta molte
delle tappe che siamo abituati ad aspettarci, invece propone molti pezzi minori, o poco
conosciuti, segno di un uomo che sta cercando qualcosa, che vive ancora in pieno la sua
trasformazione, e che forse a differenza della gran parte delle rockstar cerca risposte anche
dal pubblico che va ad applaudirlo in questa clamorosa e ribollente festa della musica.
Hiroshima

Sono gli anni '80 quando nell’aula dell’Ucciardone, a Palermo, si celebra il maxi processo alla
mafia, in Svezia viene assassinato Olof Palme e nelle edicole italiane la Sergio Bonelli Editore
comincia a distribuire un nuovo fumetto: Dylan Dog. Negli Stati Uniti appaiono i Simpson, nel
campo profughi di Jabalya comincia la prima Intifada e la fusione del nocciolo nel reattore
numero quattro della centrale di Černobyl’ causa il più disastroso incidente nucleare della storia.
Sono quelli gli anni in cui nasce, in alcuni giovani torinesi, l’idea di un luogo plurale, permeabile
alle contaminazioni culturali, dove proporre musica, teatro e ogni altra forma di espressione
artistica.

Inizia ad esserci l'esigenza di un luogo in cui riversare i ricordi e l'energia degli anni della
contestazione politica che molti di loro hanno vissuto all’interno dei movimenti studenteschi e
pacifisti. Scelgono di chiamarlo Hiroshima mon Amour, un nome che racchiude l'essenza di
questo luogo: il cinema, la letteratura, la musica, l’antinucleare.

E' così che nel 1987 nasce in via Belfiore 24 a Torino, la prima sede dell'Associazione Culturale
Hiroshima mon Amour. Nel cortile di via Belfiore aveva sede una boita, una piccola fabbrica a
conduzione semi-familiare, forse di laminati, che le Liste Verdi (non erano ancora un partito)
avevano preso in affitto per le loro attività. Dato il coinvolgimento all'interno delle Liste Verdi di
molti membri dell'Hiroshima mon Amour, si propose di far diventare quello spazio post-industriale
un circolo culturale nel cuore del quartiere di San Salvario che, al tempo, appariva ancora un
vecchio rione di prostitute, "madame torinesi", immigrati meridionali, artigiani e studenti.

Dal 1996, quando il Comune di Torino concesse una scuola abbandonata in zona Lingotto,
l'associazione culturale Hiroshima mon Amour ha sede nei locali della ex scuola elementare
Achille Mario Dogliotti.

Pur mantenendo un occhio di riguardo per l'arte e le culture giovanili, Hiroshima Mon Amour è
andata molto oltre la dimensione di locale di spettacolo, diventando nel corso degli anni un punto
di riferimento nazionale ed internazionale per i grandi eventi e i festival: oltre che con le istituzioni
pubbliche e gli enti locali, Hiroshima Mon Amour ha avuto come partner, tra gli altri,
Smemoranda, il Museo Nazionale del Cinema, il Torino Film Festival, il Teatro Stabile di Torino,
la Fiera Internazionale del Libro, Sergio Bonelli Editore, il Goethe Institut.

L’Hiroshima non smette mai di organizzare eventi di ogni tipo. Ecco alcuni dei più interessanti
che si svolgeranno nei prossimi giorni.

Il 9 maggio c’è PEYOTeMES, un aperitivo con Willie e i suoi ospiti, dove potrai farti autografare di
persona la tua copia o il poster esclusivo che ti verrà consegnato in loco.

Giovedì 12 maggio abbiamo “OBE LIVE An Out Of Body Experience” presentata dal dj Mace,
uno tra i più importanti e riconosciuti producer della scena musicale italiana.. Sarà un’esperienza
multisensoriale, che accompagnerà lo spettatore in un viaggio extracorporeo tra coordinate
geografiche inaspettate e mondi onirici, tra illusione e realtà.

Il 15 maggio c’è Coez in live. Sarà l’occasione per tornare a cantare a squarciagola dopo oltre
due anni le canzoni di Coez tratte da “È sempre bello” e “Faccio un casino”, oltre che i nuovi
brani come “Wu-Tang”, “Flow Easy” e “Come nelle canzoni”. Un vero e proprio ritorno alle origini
e alle radici del percorso musicale.
Il 19 maggio ci sono i BENGALA FIRE, che dopo X Factor sono pronti a tornare nella loro
dimensione naturale: quella live! Nelle loro canzoni i Bengala Fire sono capaci di unire alla
perfezione le influenze brit-rock a una scrittura contemporanea e raffinata.

Invece il 27 maggio Samuel dei Subsonica torna live con ELETTRONICA CLUB TOUR 2022.
Una tournèe in cui l’artista porterà dal vivo i brani dei suoi dischi da solista.

Eurovision di strada

Eurovision sarà sicuramente un opportunità non solo per chi ha la fortuna di parteciparn
Il TOdays Festival scopre le carte in vista della settima edizione. Il raduno rock e pop
alternativo si terrà nell’ultimo fine settimana di agosto, come ormai tradizione, e conferma il
proprio status di kermesse di livello europeo.
Bastano pochi nomi per certificarlo: i Primal Scream, invitati a Torino nell’ambito del tour con
cui risuonano lo storico “Screamadelica” a trent’anni dalla pubblicazione, l’arrivo
dall’Australia dell’attualissima quanto inclassificabile Tash Sultana con il suo portamento
gender queer, le scatenate Los Bitchos, la classe degli scozzesi Arab Strap. Ma sul palco di
via Cigna e nelle altre aree del festival accadrà molto, molto di più.
Gianluca Gozzi, cinquantenne ideatore e direttore artistico della manifestazione, che è
anche il festival rock ufficiale della Città di Torino, riassume in cifre quanto accaduto negli
ultimi tre anni e guarda con fiducia al 26, 27 e 28 agosto: “Quella del 2019 – spiega – fu
l’ultima edizione a pieno regime e fece registrare in tutto 15.000 presenze. Quella del 2020
saltò, mentre l’anno scorso con le restrizioni del periodo le capienze vennero ridotte ma
collezionammo comunque 6.000 spettatori. Quest’anno, sperando che tutto proceda per il
meglio, il main stage tornerà alla sua portata di 3.000 persone a sera. Senza mascherina né
green pass. Resta da superare l’ultimo scoglio, la paura che ancora blocca alcuni al
momento di affrontare aree affollate”. Oltre al palco principale, saranno in pista il Parco
Peccei, sede dei concerti pomeridiani, e lo spazio Ex Incet, dove si traslocherà a mezzanotte
dopo i concerti per immergersi in una dimensione di festa elettronica: “Abbiamo scelto di
proporre sul main stage solo ospiti stranieri e di dedicare le due notti di venerdì e sabato ad
altrettante scene cruciali della dance non convenzionale nostrana, Roma e Napoli.
L’etichetta capitolina Danza Tribale porterà la prima sera Adiel, il migliore esempio di come il
sound della città stia dilagando a livello mondiale, se è vero che la dj e produttrice è
transitata da raduni top del pianeta come il Sónar di Barcellona e l’americano Lollapalooza”.
Ai colossi scozzesi Primal Scream, cui va il merito di aver spazzato via molti steccati di
genere, spetta il titolo di padrini in pectore del raduno: “Però senza celebrazioni – precisa
Gozzi – perché lo spirito del festival prevede la declinazione dell’artista al tempo attuale.
Non veneriamo leggende, preferiamo piuttosto abbinare un gruppo così ai giovanissimi Yard
Act, siamo pronti a scommettere che in sede di bilanci artistici di fine 2022 li troveremo tra le
band più gettonate del rock indipendente mondiale”.
La zona in cui si svolge il festival non è un dettaglio, nel bene e nel male: “I problemi sono
tanti – ammette il direttore –, lo Spazio 211 è stato spesso vandalizzato o svuotato, il Museo
Fico è in vendita, la Gondrand occupata è un problema cittadino, il Parco Sempione è al
centro di spaccio e consumo di sostanze, la piscina è chiusa. Vorremmo che il festival
portasse un messaggio positivo a una zona che comunque impatta con forza, lo vediamo
dalle reazioni dei nostri ospiti. Johnny Marr degli Smiths ci ha scritto che il disco appena
pubblicato risente anche del lungo giro che facemmo in zona nel 2019, quando venne a
suonare da noi. Mark Lanegan, purtroppo scomparso da poco, venne qui nel 2008, il
TOdays non esisteva ancora ma c’era la rassegna Ossigeno. Rimase sconvolto nel vedere il
cosiddetto Tossic Park dall’hotel ma anche da come la creatività stesse reagendo a quella
situazione. E Teho Teardo non fa mistero di aver trovato qui spunti importanti per alcune sue
composizioni”. Un festival è anche un luogo di scambio di esperienze tra artisti, di scintille
per nuovi progetti, di dialogo con il pubblico: “Anche sotto questo profilo – conclude Gozzi –
ci aspettiamo che il tanto atteso ritorno alla normalità aiuti a ritrovare la giusta dimensione di
relax, che gli artisti possano vivere Torino anche di giorno anziché starsene chiusi in albergo
per prudenza e che abbracci e sorrisi tornino a regnare sovrani davanti e dietro le quinte”. In
tutto sono attesi 96 artisti divisi in 16 band, 11 delle quali presenti a Torino per l’unica data
italiana delle rispettive tournée.

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