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Tesi di Laurea
Il dodicesimo
colore
Indagine sulle peculiarità
di lessicalizzazione dell’area
cromatica del blu
Relatrice
Ch.ma Prof.ssa Anna Marinetti
Laureanda
Francesca Puddu
Matricola 868137
Anno Accademico
2019 / 2020
INDICE
Introduzione ...................................................................................................................................................... 2
Conclusioni ....................................................................................................................................................................... 55
1
Introduzione
Il presente elaborato si propone di indagare lo statuto e le peculiarità di lessicalizzazione del
colore blu all’interno della teoria universalista del color-naming (di cui si forniranno le
necessarie generalità in principio di trattazione) in alcune lingue in cui questa regione
cromatica dello spettro risulta avere comuni strategie di designazione. In particolare verranno
isolate due peculiari tipologie operanti in maniera diametralmente opposta. La prima tende ad
un’“iper-segmentazione” dell’area, ovvero una tendenza a riconoscervi categorie cromatiche
eccedenti quella singola designante il blu generico (detto elementare), iperonimica per tutte le
sfumature del colore. La seconda, al contrario, tende ad un’“ipo-segmentazione”, riscontrabile
nella tendenza a non dotare il colore blu, né alcun colore dell’area, di un termine specifico ed
univoco, ed anzi ad accorpare la sua designazione a quelle di altri colori – preferenzialmente il
verde – in cromonimi di natura composita e complessa (non sempre strettamente legati alla
tinta).
L’elaborato dunque indagherà due questioni poste dalla diversità del lessico cromatico nelle
lingue:
1. il blu come area cromatica di raffinamento privilegiato e preferenziale rispetto alle altre
aree, e l’assunzione da parte della categoria blu “eccedente” di una certa rilevanza
linguistica che la propone come dodicesima categoria cromatica basica (in aggiunta alle
11 individuate da Berlin e Kay);
Doverosa risulta inoltre una breve premessa in merito alle tre dimensioni che verranno impiegate nel
testo per descrivere il colore, ovvero i suoi tre principali ingredienti, corrispondenti alle variabili
comunemente impiegate nei sistemi di modellizzazione dello spazio cromatico:
• tinta (hue), attributo più immediato nella discriminazione, che si riferisce alla scala circolare di
colori formata da quelli dello spettro visibile. In fisica la tinta dipende dalla lunghezza d’onda
della radiazione luminosa; la sua distinzione è dunque tanto più immediata ed elementare
quanto più risulta stretta la banda di lunghezze d’onda.
• luminosità o tono (value), definibile come la quantità di bianco o nero presente in un certo
colore.
• saturazione (chroma), che definisce la purezza ed intensità di un colore; i colori spettrali sono
ad esempio i più saturi che si possano osservare. Si veda inoltre che i colori desaturati risultano
più difficili nella distinzione della tinta in ragione del fatto che si compongono di luci di
diversa lunghezza d’onda, motivo per il quale si tende a vederli grigiastri.
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1. Color naming: introduzione agli studi
1.1 Avvio degli studi tra XIX e XX secolo
Il colore è un dominio che ha sempre rappresentato materia di interesse tra gli studiosi, a
partire dal campo artistico, passando per quello prettamente ottico per arrivare a quello
antropologico, linguistico e alle più recenti neuroscienze. In quanto materia d’analisi semantica
il colore nelle lingue inizia ad essere indagato nel XIX secolo attraverso un’analisi dei testi
antichi, finalizzata alla comprensione dello sviluppo del vocabolario cromatico nelle lingue,
correlato al fenomeno della visione. Noti sono gli studi di W. E. Gladstone (1859) nei quali
veniva postulata una differenziazione nelle abilità di percezione cromatica degli antichi rispetto
ai moderni. Essi pongono in campo un’interessante questione, a lungo dibattuta, intorno al
rapporto tra colore saliente linguisticamente e il colore saliente cognitivamente; volendo
esprimere il nucleo della questione in forma interrogativa: il colore che non trova codificazione
nella lingua è regolarmente percepito dai parlanti della stessa? Una risposta affermativa, che
sappiamo essere quella corretta, insieme alla smentita della tesi di Gladstone sono presenti già
nel XIX secolo in H. Magnus (1877, 1880). In Magnus riscontriamo inoltre i primi tentativi di
definire su base ottica l’emergere preferenziale nelle lingue di alcuni cromonimi, e il tentativo
di disporli in gerarchia. Tentativi simili sono presenti negli studiosi che operano nei primi anni
del XX secolo come W. H. R. Rivers (1905). Parallelamente, inoltre, vengono emergendo e
contrapponendosi a quelle sopracitate le cosiddette teorie relativiste, propendenti invece per
assumere la lessicalizzazione dei colori come evidenza dell’arbitrarietà semantica delle lingue,
per la quale lo sviluppo lessicale di determinati domini risulta reciprocamente indipendente e
dunque incompatibile tra lingue. Massimi esponenti del relativismo linguistico, definito come
radicale, sono nel XX secolo E. Sapir e B. L. Whorf (1956) la cui ipotesi sostiene che lo sviluppo
cognitivo sia influenzato dal linguaggio, e dunque, portato alle estreme conclusioni, la tesi che
il linguaggio influenzi il pensiero. Con l’intento di controvertere l’assunto relativista e intuendo
similarità nel vocabolario cromatico delle lingue, l’antropologo B. Berlin e il linguista P. Kay
congiuntamente diedero vita ad uno studio comparativo tra lingue in merito alle caratteristiche
dei lessici cromatici e alla loro evoluzione interna alla lingua, i cui risultati sono confluiti nel
saggio del 1969: Basic color terms. Their universality and evolution. Si tratta di uno studio
fondamentale, che nonostante abbia prestato il fianco, anche a ragione, a numerose critiche e
revisioni si mantiene come caposaldo degli studi nel color naming e della sua evoluzione nelle
lingue. Da esso dunque è bene partire.
1.2 Berlin & Kay: Basic color terms. Their universality and evolution
Prima di entrare nel vivo della materia dello studio è doveroso apporre una premessa: la piena
comprensione del vocabolario in una data lingua presuppone un approccio scevro da
apriorismi nel campo degli universali semantici; tuttavia ciò non mina l’effettiva possibilità di
riscontro di questi ultimi. Per diretta ammissione degli autori, i dati presentati e analizzati nel
saggio risultano estrapolati dal proprio contesto culturale referenziale e connotativo: “non
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pretendiamo che il nostro trattamento delle varie terminologie di colore presentato qui sia
rivelatore o illuminante sotto il punto di vista etnografico” (Berlin, Kay 1991: 169, trad. mia).
Tuttavia ciò non costituisce per essi causa sufficiente alla marginalizzazione delle scoperte
effettuate secondo questi presupposti.
I dati a servizio dello studio vennero raccolti da 98 lingue; per 20 di queste gli autori poterono
raccogliere personalmente i dati presso parlanti nativi delle stesse, mentre i dati restanti furono
frutto delle ricerche nella letteratura sul tema. Si noti che – punto della procedura sperimentale
contestato in seguito – il numero di parlanti interrogati per ogni lingua fu variabile (dato viziato
inoltre dal bilinguismo di alcuni di essi), in taluni casi si trattava di un solo parlante, e la
campionatura venne condizionata dalla reperibilità dei parlanti stessi, che vennero interrogati
non all’interno della propria comunità ma nell’area di San Francisco (altro dato oggetto di
perplessità da parte degli antropologi). L’indirizzo di un tale studio fu la messa in discussione
della dottrina del relativismo linguistico radicale, secondo la quale la trasposizione in lingua
dell’esperienza delle diverse comunità di parlanti è reciprocamente incompatibile e non
raffrontabile. In altri termini il relativismo linguistico afferma l’arbitrarietà semantica delle
lingue, rispetto alla quale è portato come caso paradigmatico la lessicalizzazione del colore.
Tale messa in discussione è stata in primo luogo mossa dall’intuizione che la relativa
traducibilità e corrispondenza referenziale tra cromonimi delle lingue potesse essere sintomo
dell’esistenza di una segmentazione dello spettro cromatico non arbitraria e comparabile tra
lingue. Dalle sperimentazioni sui parlanti e dal confronto con le fonti in letteratura emersero
infatti due sorprendenti scoperte:
a. fermo restando la variabilità in termini di quantità dei lessici cromatici, può essere
individuato un inventario universale composto da 11 categorie di colore base (BCCs a
seguire) rispetto alle quali sono codificati nelle lingue fino a 11 termini di colore base
(BCTs a seguire): bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, marrone, viola, rosa, arancione,
grigio;
b. nelle lingue ove vengono lessicalizzati meno di 11 cromonimi base, sussistono delle
limitazioni sulle categorie codificate; nello specifico si tratta di limitazioni di carattere
distribuzionale nell’ordine di lessicalizzazione: a realizzarsi è una sequenza (illustrata
in figura 1) nella quale ogni codificazione di un cromonimo ha come causa necessaria e
sufficiente quella dei cromonimi che lo precedono nella sequenza.
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Ulteriore fondamentale acquisizione è il carattere, oltre che distributivo della sequenza,
cronologico, in quanto capace di descrivere l’ordine temporale di lessicalizzazione delle BCCs
nelle lingue. Ne deriva dunque che i cromonimi tra parentesi quadre nella figura 1 si
costituiscano sia come classi equivalenti e abbiano dunque valore sia in termini di gradi di
salienza, sia come stadi temporali di una sequenza evolutiva. Essi quindi riproducono la
consequenzialità cronologica nell’evoluzione del lessico cromatico nelle lingue, che si compone
di sette stadi esplicitati come segue:
I. NERO – BIANCO
II. NERO – BIANCO – ROSSO
III. NERO – BIANCO – ROSSO – VERDE o GIALLO
IV. NERO – BIANCO – ROSSO – VERDE – GIALLO
V. NERO – BIANCO – ROSSO – VERDE – GIALLO – BLU
VI. NERO – BIANCO – ROSSO – VERDE – GIALLO – BLU – MARRONE
VII. NERO – BIANCO – ROSSO – VERDE – GIALLO – BLU – MARRONE – [ARANCIONE, ROSA,
GRIGIO, VIOLA]
Si noti che se bianco e nero si caratterizzano come coesistenti al primo stadio; giallo e verde
sono invece reciprocamente esclusivi al III e arancione, rosa, grigio, viola sono tendenzialmente
coesistenti al VII.
La dotazione per l’esperimento si compose di 329 tessere di colore (fornite dalla Munsell Color
Company) di cui: 320 ripartite in quaranta tinte declinate per otto gradi di luminosità (tutte
saturate al massimo), e 9 di tinte neutre. L’insieme degli stimoli cromatici impiegati è mostrato
in figura 2.
Figura 2: carta dei colori di Munsell, impiegata negli esperimenti di color naming di B&K
La procedura vide sottoporre a ciascuno dei parlanti delle 20 lingue in esame le richieste di:
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c. individuare il miglior rappresentante per ognuno dei BCTs (definiti poi prototipi e
nominati in B&K come foci, ovvero punti focali categoriali);
• salienza, ovvero rilevanza linguistica che si esplicita nella frequenza d’uso e nella
stabilità d’impiego rispetto a parlanti e contesto.
Le evidenze registrate da B&K, che permettono loro di controvertere la tesi relativista intorno
alla segmentazione linguistica dello spettro cromatico nelle lingue, risiedono nella
sovrapponibilità delle aree selezionate dai punti focali individuati dai parlanti nelle diverse
lingue. Elemento, questo, che viene posto come base per la glossa dei BCTs negli undici
cromonimi sopracitati1. A scanso di difformità, i test e le conseguenti mappature del colore
vennero ripetute, anche disponendo test di verifica riguardo l’inter-variazione linguistica,
ovvero la variazione all’interno dei parlanti di una medesima lingua, che risultò infine avere un
valore più alto della variazione tra lingue.
Al contrario, non fu possibile produrre evidenze di corrispondenza tra i confini categoriali dei
BCTs, desumibili a partire dalla selezione di tutte quelle tessere il cui colore ricadesse nel
dominio di un certo cromonimo base. La definizione dei limiti di categoria da parte dei tester
risultò avere infatti un esito ampiamente difforme tra intervistati, e risultò inoltre per gli
informatori un compito più complesso della definizione del punto focale categoriale. Tale
mancanza di uniformità impedì dunque l’universalizzazione dei limiti categoriali che si era
invece prodotta a favore dei punti focali. Ne deriva perciò la scarsa rilevanza che i confini
1Si noti che B&K sfruttano termini di colore inglesi, anche se qui ne si propone una traduzione italiana
per uniformità stilistica e di trattazione.
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categoriali possiedono all’interno della teoria di B&K, i quali infatti nella trattazione parlando
di categorie di colore prendono come riferimento i loro punti focali piuttosto che l’intera l’area
da questi delimitata. La questione sollevata in merito a tale difformità nella definizione dei
referenti dei termini di colore (definizione ‘puntuale’ o ‘estesa’), seppur non venga approfondita
in B&K, vede il profetico accenno all’eventualità di ridefinire il formalismo col quale la
semantica dei colori è affrontata (ridefinizione operata in Kay e McDaniel, 1978), al fine di
adeguare quest’ultima con tale evidenza.
Tornando dunque alla sequenza evolutiva verificata da B&K, prima di esplicarne i singoli stadi
gli autori ne definiscono alcune generalità, per cui: la direzione dello sviluppo è nei termini
dell’arricchimento lessicale e risulta invece priva di evidenze di regressione, ovvero del
fenomeno di perdita di una categoria precedentemente lessicalizzata; le lingue possono essere
descritte unicamente sulla base di uno stadio evolutivo, e non è dunque contemplata la
possibilità – in seguito accettata – dell’esistenza di tipi transizionali tra stadi; non si danno
lingue che possiedano un solo cromonimo base, in quanto bianco e nero sono necessariamente
co-occorrenti, mentre si registra una co-occorrenza tendenziale delle ultime BCCs
lessicalizzate: arancione, rosa, viola, grigio.
Risulta inoltre interessante notare che intercorre un rapporto di correlazione diretta tra
l’affinamento (inteso in termini di arricchimento) del lessico cromatico e la complessità
tecnologico-sociale della comunità di parlanti. Tale relazione può farsi derivare dall’influenza
che ha nella sua codificazione linguistica il peso funzionale (ovvero d’impiego) del colore nella
conversazione. Peso che è a sua volta influenzato dalla capacità di manipolazione materiale del
colore; ne consegue dunque che i cromonimi delle lingue descritte dai primi stadi possiedano
scarsa flessibilità e l’ampiezza di riferimento. Viene a seguito fornita una breve esplicazione dei
sette stadi evolutivi del lessico cromatico base2:
2Per disambiguare categorie semantiche e referenti cromatici si è usato per le prime il corsivo, per le
seconde il tondo.
3 Per categoria di colore estesa (opposta alla categoria puntuale) si intende una categoria il cui referente
non comprende esclusivamente il punto focale categoriale e i suoi immediati dintorni ma anche i punti
focali di categorie successivamente lessicalizzate: sono le BCCs che verranno a seguire definite come
composte (K&McD).
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IIIa. emergere di verde:
categoria estesa alle tinte fredde del verde-blu ma anche a quelle più calde giallo-verdi;
V. emergere di blu:
categoria scorporantesi dal verde che si restringe invece al suo solo punto focale;
VII. emergere delle restanti categorie arancione (dal giallo) rosa, viola (dal rosso) grigio:
emergenti secondo un ordine non predefinito ma in momenti quasi contemporanei; ne
deriva la possibilità che vi siano lingue allo stadio VII dotate di otto, nove, dieci o undici
cromonimi, caso quest’ultimo più frequente.
L’interpretazione che viene fornita per questa sequenza evolutiva di lessicalizzazione è il suo
progressivo arricchimento attraverso l’aggiunta di un nuovo punto focale cromatico ad ogni
stadio. È tuttavia registrato come conseguenza di ciò il rimodellamento dell’estensione delle
categorie cromatiche precedentemente codificate, tanto che solo dello stadio VII dotato di 11
BCTs può dirsi che si componga di categorie non estese ma designanti punti focali. Si veda
tuttavia che la questione intorno alla relazione che intercorre tra punti focali ed estensione
categoriale è tutt’altro che chiarita e risulterà terreno di studio di successivi linguisti (vd. Kay,
McDaniel 1978). È inoltre importante notare che secondo B&K, indipendentemente dallo stadio
a cui una lingua può ascriversi, e dunque dal numero di BCTs di cui è dotata, lo spazio dello
spettro cromatico risulta totalmente ripartito; ovvero non sussistono regioni che le categorie
basiche di quella lingua non possano descrivere. Prospettiva anche questa messa in discussione
a seguire da Kay e Maffi (1999).
In merito alle lingue afferenti ai primi stadi della sequenza evolutiva – che costituiscono una
minoranza del campione delle lingue in analisi – ha costituito oggetto di dibattito la relazione
che sussiste tra colore nominato, dunque dotato di un proprio termine nella lingua, e colore
percepito. La presenza infatti di uno scarno inventario di cromonimi presso una data comunità
di parlanti potrebbe condurre all’errata supposizione che vi siano in essa alcuni deficit nella
percezione individuale visiva del colore; ovvero che il colore saliente cognitivamente sia
rispecchiato da quello linguisticamente saliente. Si tratta di una conclusione errata, non
abbracciata da B&K, la quale troverà definitiva smentita in studi ottici e neurofisiologici a
venire.
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Altro elemento che è importante notare è che seppur B&K li escludano totalmente dalle proprie
prospettive di studio (inaugurando una tradizione “basico-centrica” ovvero spesso unicamente
incentrata sui cromonimi base) in ogni lingua, accanto ai BCTs, vi sono un numero imprecisato
di termini cromatici non passibili d’esser definiti basici ma tuttavia utili, specie per quelle lingue
afferenti ai primi stadi, nel descrivere in maniera puntuale gli oggetti della propria esperienza.
Per ciò che concerne le modalità di lessicalizzazione dei cromonimi non basici, esse sono
assolutamente eterogenee ma condividono con quelle dei basici alcune comuni tendenze:
b. forme affissate il cui affisso sia non analizzabile oppure glossabile come “colore/colorato
di…”;
c. composti da più radici (spesso identiche, nel caso comune della reduplicazione) o da
singola radice analizzabile;
A partire da tale similarità nella formazione è possibile ipotizzare come i cromonimi più antichi
siano quelli “astratti” ovvero non analizzabili, in quanto la loro precoce affermazione nella
lingua ne ha favorito la perdita della consapevolezza etimologica e dunque favorito l’incapacità
di ricondurli a uno dei fenomeni sovrascritti. L’analizzabilità è assumibile quindi come criterio
di massima per l’individuazione dei cromonimi più giovani rispetto a quelli più radicati nella
lingua, ed è talvolta indizio di mancanza della caratteristica di basicità. Si veda che la
ricostruzione linguistica interna applicata al vocabolario cromatico può dunque costituire un
utile metodo per un’ulteriore verifica della bontà della sequenza evolutiva proposta.
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1. sussistono degli effettivi limiti alla variabilità del lessico cromatico nelle lingue,
ascrivibili dunque in base a questi a tipologie parzialmente predicibili;
2. il lessico cromatico di ogni lingua è soggetto, come ogni altra parte della lingua, a
mutamento in diacronia, che si sostanzia nell’arricchimento del vocabolario
cromatico secondo direttrici anch’esse limitate nella produzione.
Le critiche mosse da principio allo studio di B&K coinvolgono da una parte il rigore
sperimentale e dall’altra l’atteggiamento adottato non scevro di pregiudizi e per certi versi
aprioristico. L’universalismo appare infatti insito nel metodo di ricerca più che esserne un esito
(Lucy, 1997), per cui si potrebbe in un certo senso parlare di imposizione ontologica 4. Intorno
all’approccio scarsamente antropologico e di estrapolazione dal contesto linguistico-culturale
si è già detto in principio, ma costituisce anch’esso un punto di perplessità degli studiosi in
merito allo studio B&K.
Per ciò che concerne la raccolta dei dati, venne messa in luce la poca accuratezza nella
campionatura delle lingue in esame e dei parlanti (come si è detto influenzate dall’immediata
reperibilità). Gli informatori risultavano infatti: a) per alcune lingue insufficienti
numericamente per un accertamento dei dati estrapolati; b) alcuni bilingui5 e non tutti aventi
una competenza egualmente esperta della lingua. Sempre in merito alla strumentazione
sperimentale viene denunciato da Collier (1973) un vizio nelle tessere colorate costituenti gli
stimoli cromatici sottoposti ai parlanti, che mostrano avere livelli di saturazione ineguale
passibili d’influenzare l’individuazione dei punti focali. Successivi test da Collier stesso
effettuati, con correzione del valore della saturazione, mostrano tuttavia non avere esiti
dissimili da quelli riscontrati da B&K. Maggiormente di sostanza risulta invece essere la
contestazione (sempre in Collier 1973) in merito alla possibilità di inferire dalla buona
sovrapponibilità dei punti focali dei BCTs nelle lingue l’universalità delle categorie cromatiche
a cui tali punti appartengono, e da questo produrre glosse che siano valide per i cromonimi in
tutte le lingue.
In seguito alla pubblicazione di Basic color terms, Berlin e specialmente Kay, continuarono
l’approfondimento degli studi sul lessico cromatico e le modalità del suo sviluppo nelle lingue,
pubblicando altri saggi e articoli in collaborazione con altri linguisti e studiosi. Di tali lavori si
4 In merito alla relatività ontologica nella teoria della traduzione si veda Quine 1969.
5 Il bilinguismo di alcuni dei parlanti nel campione di B&K venne considerato quale vizio in quanto
passibile di favorire rispetto al dominio semantico del colore fenomeni di interferenza nei parlanti.
Specialmente nell’ambito del color naming “Sembra infatti che parlanti bilingui strutturino lo spazio del
colore nella loro lingua madre in modo diverso dai monolingui. Nel caso del bilinguismo si assiste ad un
fenomeno di interferenza semantica, si ha cioè un mutamento di significato dei termini sotto l'influsso
di una seconda lingua.” (Valdegamberi, 208: 88). Quale sia l’apporto di tale interferenza rimane tuttavia
oggetto di studi. Per approfondire si vedano: Landar et al. 1960; Dalrymple-Alford 1968; Preston,
Lambert 1969; Dyer 1971; Athanasopulos 2011.
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proporrà di seguito un sommario, evidenziandone i più importanti e illustrando gli
avanzamenti più degni di nota.
Si è inoltre dato conto di alcune difformità individuate rispetto alla sequenza prescritta; in
particolar modo l’eccezione riguardante l’emergere della BCC blu precedentemente o
contemporaneamente alla BCC verde, scavalcando la lessicalizzazione della categoria giallo
(fenomeno riscontrato da B&K nel giapponese). Alla categoria nella quale l’introduzione di
verde e blu sono contemporanei si è dato il nome di grue (Kay, 1975) (vd. cap. 3), a cui è
riconosciuto lo status di BCC, e a seguito di categoria composita maggiormente attestata nelle
lingue. A riprova della elevata solidarietà dei due colori freddi verde e blu, la categoria che essi
compongono congiuntamente è una delle ultime, se non ultima, a scindersi nelle sue due
componenti.
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set theory, alla quale i K&McD sostituiscono il formalismo non-discreto della fuzzy set theory6
“teoria degli insiemi sfumati”. Gli autori sottolineano infatti come la descrizione delle BCCs in
termini di insiemi standard (per cui un elemento è descrivibile esclusivamente come membro
o non membro dell’insieme) avesse prodotto in B&K un’ambiguità nella trattazione delle stesse.
Le BCCs apparivano infatti ora determinate come puntiformi (ovvero rispetto al proprio punto
focale) ora come dotate di estensione e limiti categoriali, senza che il rapporto tra punti focali,
estensione e limiti fosse definito una volta per tutte. La ridefinizione in termini di insiemi
sfumati permise invece di render meglio conto delle proprietà dello spettro cromatico e del suo
corrispettivo semantico.
L’appartenenza ad un insieme sfumato e dunque ad una BCC viene dunque data in termini di
grado positivo, e può essere descritta da una funzione la quale assume un valore da 0 a 1. In
essa, il valore 1 descrive il massimo grado di appartenenza e corrisponde al punto focale
categoriale, mentre il valore 0 descrive il grado di appartenenza minimo e corrisponde ai punti
focali categoriali delle BCCs adiacenti e successivi a quella presa in esame (e.g. il color
chartreuse avrà un grado compreso tra 0 e 1 rispetto a verde, ma nullo rispetto a blu). Tale
ridefinizione giustifica inoltre l’assunzione da parte dei confini di ogni BCC dello status di
universale (negatagli in B&K a causa dell’ampia variabilità e oscillazione riscontrata tra quelli
segnalati dagli informatori). Secondo K&McD, ciascuna BCC possiede dunque un’estensione
precisa e ristretta individuata da estremi che corrispondono ai due punti focali delle categorie
adiacenti (teoria precedentemente avanzata in McDaniel 1972).
6 Con fuzzy set (insieme sfumato) si indica “una classe di oggetti con un continuum di gradi di
appartenenza. Tale insieme è caratterizzato da una funzione di appartenenza (caratteristica) che
assegna a ciascun oggetto un grado di appartenenza compreso tra zero e uno. Le nozioni di inclusione,
unione, intersezione, complemento, relazione, convessità, ecc., sono estese a tali insiemi e nel contesto
dei fuzzy sets vengono stabilite varie proprietà di queste nozioni” (Zadeh 1965: 338; trad. mia).
7 “Due proprietà distinguono una cellula come cellula di risposta opponente. Innanzitutto, una cellula di
risposta opponente ha un tasso spontaneo di ‘sparo’, [cioè di attivazione] – una velocità di risposta
basale che mantiene senza stimolazione esterna. In secondo luogo, la cellula mostra una maggiore
frequenza di sparo in presenza di luci le cui lunghezze d'onda dominanti provengono da determinate
regioni dello spettro visivo, mentre le luci provenienti dalle regioni spettrali complementari
diminuiranno la sua velocità di sparo al di sotto della sua velocità basale. Gli effetti opposti delle regioni
complementari dello spettro visivo su queste cellule danno origine al termine "risposta opponente”.”
(Kay, McDaniel, 1978: 617-8; trad. mia)
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l’individuazione di cellule non opponenti8, sensibili alla luminosità o all’oscurità, permise
l’arricchimento delle FNRs di due ulteriori categorie acromatiche: bianco e nero.
In K&McD dunque, per la prima volta, la componente biologica (delle FNRs) viene messa in
chiara relazione con la componente linguistica (delle BCCs), in quanto entrambe categorie
definite in termini di insiemi sfumati. Vengono dunque definite, attraverso gli operatori
matematici di identità, unione e intersezione, tre tipologie di BCCs:
8 Così denominate perché, contrariamente alle opponenti, mostravano una reazione uniforme a qualsiasi
lunghezza d’onda.
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Si noti in ultimo che l’emergere di nuove categorie derivate non apporta alcuna modifica alle
funzioni di appartenenza (i.e. all’estensione) delle categorie primarie precedentemente
lessicalizzate, di cui le funzioni permangono invariate senza subire contrazioni. Per tal ragione,
se l’evoluzione del lessico cromatico dei primi cinque stadi viene letto come fenomeno di fuzzy
partition – ovvero raffinamento della segmentazione dello spazio cromatico – con l’emergere
delle categorie derivate non si assiste ad alcun’altra scissione delle categorie preesistenti. Viene
inoltre riconosciuto nella derivazione (formazione di BCCs derivate) un processo semantico
produttivo e passibile dunque di arricchire il vocabolario cromatico basico nelle lingue:
l’insieme delle BCCs, abbandonando il rigore precedentemente condiviso, ne risulta dunque
come aperto e potenzialmente implementabile in divenire.
In KBM viene dunque individuata una regola di composizione che disciplina la formazione delle
categorie composite; questa è definita rispetto a un diagramma (riportato nella figura 3) che
specifica i rapporti tra le categorie di FNRs (ovvero le categorie primarie).
Figura 3: (figura 1 in KBM) il diagramma illustra i rapporti visivi e linguistici tra le categorie di FNRs; le
linee rette istituiscono rapporti di adiacenza tra punti focali cromatici (con associazione basata
sull’affinità di luminosità tra bianco-giallo e blu-nero), mentre la linea tratteggiata istituisce un limite
all’associazione di primari nelle categorie composte.
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individuate da K&McD: chiaro-calda (rosso + bianco + giallo); scuro-fredda (verde + blu + nero);
calda (rosso + giallo); grue (verde + blu), alle quali sono aggiunte ulteriori cinque:
Passando tali categorie composite al vaglio dei dati del WCS, la regola risulta essere con buona
approssimazione predittiva, infatti: a) tutte le categorie presenti nelle lingue WCS rientrano tra
quelle previste dalla regola; b) otto delle nove categorie predette vi trovano attestazione. Unica
a mancare di attestazione è la categoria Y-G-Bu-Bk, il cui mancato riscontro, può essere
attribuito alla singolarità di essere l’unica a: unire quattro FNRs; associare i due primari,
diametrali per luminosità, giallo e nero.
Speciale elemento di interesse costituisce inoltre la categoria Y-G, formata da verde e giallo, che
trova evidenze, seppur rare, nel WCS (limitate alle lingue che si ascrivono allo stadio III o IV). A
suscitare curiosità è il suo controverso emergere allo stadio III senza che risulti alcun riscontro
dell’unione in un’unica BCC di verde e giallo negli stadi precedenti – nei quali i due primari sono
rispettivamente associati a due categorie separate. Le ipotesi che gli autori formulano in merito,
per loro stessa ammissione non convincenti, sono di tre tipi:
a. Scissione delle categorie dello stadio II (Wh, calda, scuro-fredda) con liberazione di
verde (dalla scuro-fredda) e giallo (dalla calda) a cui segue loro ricomposizione allo
stadio III in un’unica categoria. Tale ipotesi risulta tuttavia invalidata dalla mancanza di
evidenze di casi di formazione categoriale per sola associazione di due categorie di FNRs.
b. Estensione o della categoria calda o di quella fredda – appartenenti a uno stadio III così
formato: Wh, Bk, calda, fredda – rispettivamente al verde o al giallo con successiva
esclusione dall’estensione del secondo termine originario (R per la categoria calda, Bu
per quella fredda).
c. Postulazione di uno stadio I formato da tre cromonimi (eventualità non ammessa finora
da alcuna teoria e priva di riscontro empirico): Wh, R, Y-G-Bu-Bk, categoria quest’ultima
da cui deriverebbe quella composta Y-G.
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1.3.4 Kay, Maffi, Merrifield, 1997
Il processo evolutivo di formazione del lessico cromatico base nelle lingue venne ridefinito nei
suoi aspetti dallo studio di Kay, Maffi e Merrifield del 1997 (KBMM a seguire). In esso
l’evoluzione costituisce un processo non unitario ma duplice e reciprocamente indipendente di:
a. scissione delle BCCs, composta a sua volta da disgregazione della categoria chiaro-calda
e di quella scuro-fredda;
Inoltre gli autori aggiornarono la notazione per la descrizione dello stadio evolutivo delle
lingue, introducendo quella di “stadio basico” espresso dalla specificazione dello stadio di
appartenenza (con riferimento ai sette stadi postulati da B&K), assegnato sulla base delle
categorie composte e primarie emerse, seguita dall’annotazione delle categorie derivate
presenti, e.g. stadio V, viola, rosa.
L’esistenza di lingue nelle quali alcune aree cromatiche rimangono innominate è sostenuta
dall’Emergence hyphotesis10 (EH a seguire), che lo studio K&M prende in considerazione al fine
di verificarne la bontà sui dati del WCS. All’interno del WCS infatti, ben sette lingue risultano
indiziate quali evidenze della EH; al di fuori invece, il caso più rilevante è quello dello Yélî Dnye
(lingua studiata in Levinson 2000), che risulta di particolare interesse rispetto al tema della
discriminazione tra cromonimi basici e non. Come gran parte delle lingue afferenti alla stessa
sua area (lingue Papua) infatti lo Yélî Dnye possiede cromonimi la cui forma è frutto della
reduplicazione della radice di nomi designanti elementi naturali caratterizzati da un colore
specifico. Questi cromonimi contravverrebbero dunque al requisito di non predicibilità
imposto da B&K, perdendo lo status di BCTs. A ben guardare tuttavia viene evidenziato come:
seppur sia possibile intuire a partire dalla competenza linguistica cosa questi cromonimi
10 “L’Emergence theory è definita come la possibilità che non tutte le lingue obbediscano perfettamente
al principio di Partizione nel campo del lessico cromatico” (Kay, Maffi 1999: 755; trad. mia), ed è una
teoria a cui possono ascriversi linguisti e studiosi che abbiano messo in discussione la pervasività
d’azione del suddetto principio; tra questi possiamo citare: Maffi, Levinson, Lucy, Saunders, van Brakel.
16
reduplicati designino (proprietà assente nei cosiddetti decoding idioms), risulta invece
impossibile predirne la forma a partire dalla stessa competenza (proprietà ascrivibile invece
agli encoding idioms). La valutazione di questo elemento può dunque portare nel caso specifico
alla rivalutazione dello status dello Yélî Dnye, ma più in generale alla ri-definizione del requisito
di non-predicibilità (detto monolessematicità) dei BCTs.
Chiusa tale parentesi, le lingue che evidenziano una partizione incompleta del dominio
semantico del colore (sia entro che al di fuori del WCS) si caratterizzano in linea di massima per
possedere:
1. cromonimi ben radicati per nero, bianco e rosso, i quali si caratterizzano come categorie
non estese ma puntiformi, articolate intorno al punto focale categoriale;
La ristrettezza del lessico cromatico in tali lingue è indizio dello scarso grado di salienza e peso
funzionale assunto dal colore nella conversazione. Si noti inoltre che le dinamiche interne alle
lingue EH permettono un’esplicazione plausibile per lo sviluppo della bizzarra categoria
composta Y-G.
Siamo inoltre debitori a tale studio della formulazione di un nuovo modello evoluzionistico
cromatico, basato su due tipologie di principi (sotto esplicitati): il primo afferente
all’osservazione linguistica; i restanti all’osservazione sulla comparsa dei colori.
1. Principio di Partizione, per cui le lingue tendono a ripartire i domini di nozioni salienti
(il che rende rare le lingue prive di partizione). Nel caso del dominio del colore, la
segmentazione si lega strettamente alla tecnologia della società parlante, in quanto il
controllo e la manipolazione del colore porta alla sua assunzione di peso funzionale e
salienza (motori principali dell’affinamento dei domini semantici).
2. Distinzione di bianco e nero (B&Wh); si noti infatti che la visione in bianco e nero è
prioritaria su quella a colori in quanto fornisce la discriminazione degli oggetti.
3. Distinzione tra colori caldi e freddi (Wa&C), rispettivamente comprendenti rosso, giallo
e verde, blu; la quale risulta acquisita precocemente nei bambini e supportata da basi
neurofisiologiche.
4. Distinzione del rosso (R), colore avente maggiore salienza tra i primari; salienza che si
stenta a giustificare su basi biologiche, ma che è ampiamente riscontrata su base
linguistica nell’apprendimento e nell’uso.
La sequenza evolutiva proposta da BKMM viene dunque in questo studio riletta alla luce dei
principi sovraesposti che, applicati nell’ordine sopradescritto, possiedono produttività
17
predittiva11. Alla luce di tali principi è possibile leggere lo sviluppo del lessico cromatico nelle
lingue. Nello studio viene in particolare analizzata la cosiddetta “main line”, linea evolutiva
maggioritaria nel WCS, riscontrata nell’83% delle lingue campionate, illustrata di seguito:
W/R/Y W W W W
R/Y R/Y R R
Bk/G/Bu Bk/G/Bu G/Bu Y Y
Bk G/Bu G
Bk Bu
Bk
Tale studio apre quindi una nuova prospettiva in merito alle possibilità di codificazione dello
spettro cromatico nelle lingue. Esso evidenzia, come si è detto sopra, l’esistenza di idiomi
anomali nel trattamento del dominio, idiomi nei quali esso appare scarsamente o in minima
parte elaborato semanticamente. Risulta rilevante tuttavia notare come pur confutando
l’assunto della omni-descrivittività dei cromonimi base rispetto all’intera gamma degli stimoli
cromatici esperibili, le lingue EH mostrino come la sequenza cronologica proposta da B&K
(nelle revisioni degli studi presi in esame), mantenga capacità predittive nel campo della
salienza. Si veda infatti che anche le rare lingue avvaloranti l’EH possiedono, accanto ai
cromonimi base non estesi e ben radicati nella lingua, cromonimi non basici meno antichi e
stabili, che emergono in un ordine e possiedono poi salienza nell’uso in misure che si accordano
con gli stadi della sequenza di B&K.
11Si noti tuttavia che l’applicazione deve procedere fino al punto in cui si ottiene un esito univoco e non
oltre; è dunque possibile che il passaggio da uno stadio ad un altro sia predeterminato dall’applicazione
anche di uno solo dei principi.
18
2. Lingue a confronto: russo, greco, italiano, e turco
Nei paragrafi che seguono si è tentato di fornire una breve panoramica dei casi più rilevanti di
lingue nelle quali la regione cromatica del blu presenta una segmentazione peculiare e
saliente12. Essa si caratterizza per l’emergere accanto al cromonimo designante il “blu
elementare”, dotato dello status di basico, di uno o più cromonimi secondari che si differenziano
sul piano di luminosità e saturazione. È osservato come questi assumano progressivamente
crescente peso funzionale nella comunicazione per ragioni sociolinguistiche, culturali e
semiotiche; ne consegue che lo status di tali cromonimi emergenti, seppur talora discusso, si
avvia in alcune lingue a divenire basico. Al di là tuttavia dell’attribuzione della basicità – dal
carattere convenzionale e a tratti sfumato – si è nondimeno tentato in questo elaborato di dare
corpo ed evidenziare la complessità denotativo-descrittiva di questi cromonimi, ed i caratteri
che ne fanno termini altamente disponibili all’uso dei parlanti.
12 Per trasparenza di trattazione è necessario esplicitare che la scelta delle lingue è stata inevitabilmente
19
2.1.1 Sinij & Goluboj: generalità sincroniche e diacroniche
Primo passo nel fornire le fondamentali generalità di sinij e goluboj è collocarli in sincronia
all’interno della grammatica russa, nella quale essi si inscrivono all’interno della categoria degli
aggettivi (cromatici) i cui rispettivi cromonimi sono: sineye (синее) e goluboye (голубое). Per
ciò che concerne il loro significato referenziale: sinij denota un colore blu intenso e profondo
caratterizzato da alta saturazione e bassa luminosità; goluboj connota invece un colore blu più
tenue, caratterizzato al contrario da bassa saturazione, alta luminosità e una maggiore
componente acromatica che in alcune sfumature lo avvicina al grigio; un colore che potremo
approssimare per comodità di trattazione all’azzurro italiano.
Da una denotazione differenziata discende una differenziata connotazione, che vede goluboj
associarsi a sentimenti esclusivamente positivi, di tenerezza e serenità, confacentesi al suo
legame con una dimensione di luce celeste e divina. Diversamente sinij si carica di emozioni
spesso violente il cui segno risulta variabile. È tuttavia possibile notare come sinij si determini
quale antonimo di bianco e di luce e talvolta come sinonimo di nero e scuro a partire da alcuni
usi attestati nel russo antico e in quello dialettale moderno: e.g. la similitudine “sinij come il
carbone” e l’utilizzo per connotare cieli plumbei e piovosi. Si evidenzia dunque fin d’ora una
semiotica specifica e una connotazione assiologica di reciproca opposizione, che suggerisce un
rapporto di complementarietà dei due cromonimi.
Rispetto ai domini di attribuzione nessuno dei due termini è ristretto, ma ciascuno ne possiede
di preferenziali, pur permanendo un certo grado di flessibilità se si escludono le espressioni
fisse, metonimiche e metaforiche delle quali ognuno possiede le proprie – un esempio per tutti:
“sinij kulok” (синий кулок) ovvero donna intellettuale (corrispettivo dell’inglese
“bluestoking”); “golubaja krov” (голубая кров) ovvero sangue blu. Proprio in relazione ai
significati simbolico-figurati si registra nell’ambito poetico del XX secolo il sopravanzo di
goluboj rispetto sinij, dominante nel secolo precedente. Tentando dunque una semplificazione,
referenti prototipici per sinij sono il cielo, le masse acquoree (mare, oceano, laghi, fiumi) e
quelle aree (nebbia, foschia); mente per goluboj il cielo, gli occhi, e le volte (anche nella
connotazione di distanze e altezze).
In proposito a quest’ultimo referente, parentesi a sé va aperta in merito al ruolo dei due colori
nell’iconografia e simbologia sacra. Nei codici stilistico-simbolici della chiesa russa ortodossa,
in parte figli dell’influenza della chiesa e del rito bizantino, i due blu possiedono infatti
significati differenti. Sinij è il colore profondo delle vesti luttuose e cupe della Vergine, goluboj
è invece metafora di luce divina e celeste, ed emanazione dello spirito. Nelle parole di Paramei
(2007: 100; trad. mia) “le differenti sfumature di blu appaiono essere teologicamente cariche,
in particolare, nel rappresentare l’aura di Cristo: l'emanazione della luce divina diventa bluastra
e argentea mentre si allontana dalle sue fonti, ma è blu scuro quando emana dalla carne di
Cristo”. Lo sguardo alla componente sacra risulta rilevante e non meramente nozionistico in
standardizzazione quali requisiti necessari a garantire il carattere scientifico della misurazione.” (voce
“test psicometrico” su Treccani, Enciclopedia della scienza e della tecnica online, 2008).
20
quanto fino al momento in cui la manipolazione del colore (anche di quelli più “rari” e preziosi)
non è diventata tecnologicamente agevole, volte, affreschi e icone all’interno degli spazi sacri
sono stati uno dei pochi luoghi nei quali il popolo poteva fare esperienza di colori accesi e
brillanti (Paramei 2007: 100). Ne risultano saldati dunque l’elemento esperienziale-percettivo
all’importanza rivestita nella simbologia sacra. Non è fuor di logica immaginare come essa sia
stata dunque uno dei vettori che ha condotto alla lessicalizzazione di un nuovo termine
cromatico in un’area dove ve n’era già uno, e che abbia poi portato il neonato termine ad
assumere ampia rilevanza.
Passando dunque all’etimo e a figurare un sommario della storia di questi due termini possiamo
affermare come tra i due cromonimi il più antico sia sinij, le cui attestazioni si datano all’XI
secolo circa, e che può essere fatto risalire alla radice verbale proto-slava sijat (сиять) che
significa “brillare, splendere”. Il termine tuttavia mostra un significato oscillante tra due poli
opposti: il primo connesso alla luminosità della luce degli astri e degli occhi, il secondo invece
connotante sfumature cupe, scure ed intense, riferentesi anche alla carnagione (Paramei 2007:
76). Tale dicotomia sembra per altro permanere nell’ambivalenza di luce-ombra del referente
e della connotazione del termine. Il termine goluboj invece sembra emergere quale innovazione
est-slava, attestata a partire dal XIII secolo e derivante dal sostantivo golub (голубь),
designante la colomba. L’elemento tuttavia che il termine coglie rispetto al referente animale
sembra essere comunque quello cromatico, in quanto goluboj è fino al XVII secolo impiegato
per descrivere il colore del manto a sfumature grigiastre dei cavalli. Solo in seguito si attesterà
al dominio del colore designando una peculiare sfumatura del blu, appunto l’azzurro. È dunque
possibile cogliere all’interno del campo semantico di goluboj un processo dinamico di
affinamento e ri-semantizzazione.
Delineati dunque a grandi linee i caratteri sincronici e l’evoluzione diacronica dei due termini,
è ora possibile passare a esaminare il conteso status di goluboj che, pur considerato da taluni
subordinato a sinij, mostra tuttavia possedere tutte le carte in regola preposte dalla definizione
operativa di BCT, proposta da B&K. Al di là dei requisiti di monolessematicità e non restrizione
del dominio d’attribuzione, che si possono affermare come presenti a partire dall’analisi
etimologica e contestuale svolta nel paragrafo precedente, risultano invece più problematici
nell’indagine e nell’accertamento i requisiti di:
21
iponimia rispetto quest’ultimo) è l’argomento che sin da principio è stato addotto alla non
basicità del termine di colore. La valutazione in merito all’inclusione di goluboj all’interno
dell’estensione categoriale di sinij può essere indagata a partire da test di mappatura dello
spettro cromatico. I test consistono nel sottoporre a gruppi di parlanti nativi russo un campione
di stimoli cromatici rispetto ai quali, nominato un determinato colore, è domandato loro di
indicare lo stimolo prototipico e tutti gli altri stimoli che posso ricadere in quella
denominazione. Dagli esiti di un simile test psicometrico condotto da Frumkina (1984)15
emerge come sinij e goluboj siano regioni focali distinte, la cui distanza focale può essere
descritta nei termini di due unità di tinta e due di luminosità rispetto alla proiezione
bidimensionale del solido cromatico di Munsell16 (illustrato nella figura 4).
Figura 4: solido cromatico di Munsell, nell’immagine a sinistra visto nella sua superficie esterna detta
anche “skin”, la quale esibisce le tinte nella loro massima saturazione; nell’immagine di destra invece
ripreso in sezione.
Risulta inoltre come la leggera sovrapposizione che si realizza ai rispettivi margini delle due
aree sia un vizio di tale proiezione bidimensionale, e venga eliminata nel modello
tridimensionale ove appunto le due aree, seppur confinanti, non si sovrappongono. Ulteriore
test che si può portare a supporto della separatezza e indipendenza delle due categorie è quello
del raggruppamento libero (noto in letteratura come free-sorting task) sottoposto a campioni
di parlanti nativi. Esso consiste nel compito di raggruppare stimoli sotto forma di tessere
colorate, senza specifiche esplicazioni di modalità, in pile accomunate per similarità cromatica.
Il risultato riportato da questa tipologia di prova nell’ambito della ricerca di Davies e Corbett
(1997b) mostra dunque come nei parlanti russi emergano, tra gli altri, due raggruppamenti
15Studio in lingua russa non tradotto, ma del quale è fornito tuttavia un sommario e un’analisi in lingua
inglese in Paramei 2005: 7-10.
16 Il solido cromatico di Munsell (creato da Albert H. Munsell nella prima metà del XX secolo) è una scala
di notazione cromatica la quale mira a suddividere lo spazio cromatico in blocchi discreti procedenti
nelle dimensioni di luce, densità e tinta per passi percettivi uguali (Ball 2016: 56), data la sua
accuratezza è impiegato come standard internazionale per la definizione del colore. La sua forma
tridimensionale costituisce la notazione più completa, tuttavia è stato impiegato anche nelle proiezioni
bidimensionali della sua superficie (proiezioni di Mercatore) come campione di stimoli cromatici per
esperimenti di color naming in ambito psicometrico.
22
distinti ascrivibili rispettivamente ai cromonimi sinij e goluboj. Esperimenti di questo tipo sono
dunque in grado di accertare come i due cromonimi blu si attestino al medesimo livello
iperonimico.
Per ciò che concerne una documentazione diretta della salienza, risulta pertinente il test
psicometrico dell’elencazione (noto come elicitation o list task) e quello di riconoscimento-
denominazione di uno stimolo (naming-times task). Il primo consiste generalmente
nell’elencazione a tempo (di 5 minuti ca.), da parte di un campione di parlanti nativi, di tutti i
termini cromatici noti (con o senza la restrizione di basicità o monolessematicità). In tale
esperimento il dato significativo relativamente ad un termine è la sua posizione (ovvero dopo
quanti termini è stato nominato) e dunque il tempo impiegato dai parlanti per nominarlo.
Trattandosi di una prova svolta in spontaneità (requisito del suo svolgimento), i primi termini
elencati risultano essere quelli che sono nella lingua più facilmente accessibili e disponibili,
fattore legato alla frequenza d’uso nella conversazione quotidiana. La posizione di goluboj
(variabile a seconda degli esperimenti) si attesta generalmente tra le prime, seppur successiva
a quella di sinij ma precedente ad alcuni altri cromonimi designanti colori primari e certamente
prima di quelli dei colori derivati. Fattore che può essere dunque letto come una maggior
rilevanza di goluboj nel vocabolario cromatico rispetto ai cromonimi derivati e alcuni dei
cromonimi primari, ma minore di sinij.
L’altro test menzionato, conosciuto come naming-times task, consiste nell’esibizione a campioni
di parlanti nativi, per un tempo limitato (pochi secondi in genere), di uno stimolo cromatico che
il tester è tenuto a denominare subitaneamente. I dati pertinenti per tale esperimento sono: la
velocità di reazione, la valutazione cromatica, il consenso tra parlanti e la coerenza nelle
risposte di un singolo parlante. Prendendo ad esempio l’esperimento condotto da Moss et al.
(1990), i risultati evidenziano come vi sia ampio accordo tra parlanti nel distinguere tra stimoli
goluboj e sinij, nonché alta coerenza nelle risposte; rispetto invece alla velocità di reazione, per
goluboj se ne registra una tra le più brevi, elemento che riconferma la sua alta disponibilità.
In ultimo possono menzionarsi come rilevanti nei termini della valutazione della salienza quei
test, sempre di natura psicometrica (alcuni dei quali simili a quelli sopra descritti), sottoposti
tuttavia a campioni di parlanti molto giovani, la cui età varia in base alle esigenze della ricerca.
Già in Istomina (1963) sono presentati studi in merito al vocabolario cromatico, e in specie a
quello dell’area del blu, negli infanti: tale ricerca campiona bambini dai 2 ai 3 anni e registra –
23
dato impugnato in B&K – come la categoria goluboj sia meno compresa rispetto a quella di altri
colori primari e specialmente di sinij. Studi a seguire (vd. Davies et al. 1998) confermano
effettivamente come goluboj presenti valori comportamentali inferiori ai colori primari, seppur
migliori di alcuni derivati e come, seppur la confusione vada diradandosi con l’età, il suo
padroneggiamento nei locutori più giovani presenti non di rado insicurezza. Davies et al.
(1998), in base alle performance analizzate nel campione di locutori intervistati, concludono
affermando come goluboj sia un cromonimo che possa associarsi piuttosto alle categorie
derivate che a quelle primarie.
Risulta ad ogni modo dal confronto con la letteratura in merito come l’esito della
determinazione dello status di goluboj risulti strettamente legata a questioni di natura: a)
sperimentale, nella scelta dei campioni cromatici, degli strumenti e delle modalità di indagine
e d’analisi nonché della loro sensibilità; b) convenzionale, relative alla definizione operativa di
basicità rispetto a un termine cromatico.
Fondamentale nell’indagine dei termini cromatici di una lingua risulta la possibilità di cogliere
la biplanarità della loro designazione, e dunque del loro significato. Soffermandosi infatti sul
solo piano denotativo-referenziale, riferentesi al colore in sé, si coglierà come il rapporto tra
sinij e goluboj non sia simmetrico e propenda per il primo – il quale si pone appunto come
termine per il blu generico ed elementare. Di qui l’importanza di approfondire, secondo un
approccio etnolinguistico, il livello attributivo-descrittivo dove invece è possibile acquistare la
profondità della distanza e della relazione tra i due blu. Analizzati su tale piano i due termini
non stanno più a designare meramente colori, ma si caricano di significati simbolico-culturali.
Come affermato da Paramei (2005: 25; trad. mia) infatti: “il significato dei termini di colore
riflette una concettualizzazione culturalmente specifica, la quale opera come ancora cognitiva
nella comunicazione intellegibile con gli altri”.
Come dunque evidenziato nel paragrafo 2.1.1, goluboj (così come d’altronde altri termini di
colore e termini di altri domini semantici) esprime nella conversazione, oltre che il proprio
referente, il proprio potenziale polisemantico e semiotico, esibendo significati e connotazioni
che lo rendono irriducibile a sinij ed anzi ad esso complementare, specie nella sfera semantica
della luce e delle sue derivazioni.
In conclusione, con riguardo agli studi psicometrici e quelli lessicali, è possibile affermare come
la regione dello spettro del blu in russo risulti un’area dinamica, nella quale si sono registrati e
continuano a registrarsi dei mutamenti che hanno esiti sul peso funzionale e prestigio dei due
cromonimi in cui l’area è segmentata: sinij e goluboj.
24
2.1.3 Contro la basicità di Goluboj: la Vantage theory
Alternativa all’attribuzione dello status di basico a goluboj è l’applicazione della vantage theory
(VT a seguire): teoria formulata dal linguista Robert E. MacLaury a seguito delle ricerche
condotte insieme ad altri ricercatori per il Mesoamerican Color Survey. Riprendendo le parole
di MacLaury (2003; trad. mia):
“il modello [della VT] attribuisce questi processi [di categorizzazione del colore]
all’azione dell’individuo che costruisce, mantiene, muta e dissolve le categorie; un primo
mobile chiamato “lo spettatore” che si relaziona inevitabilmente e incessantemente con
ognuna delle categorie che produce. Lo spettatore si relaziona con le sue categorie per
mezzo del metodo con quale le costruisce. Ovvero, egli estrae alcuni concetti da un
dominio di esperienza, si prenda tra le varie sensazioni dello spettro visivo il suo
riconoscimento della tinta. Poi egli seleziona dalla gamma dei potenziali un certo
equilibrio di riconoscimento tra le estensioni a cui le tinte sono simili o dissimili,
favorendo la somiglianza o la differenza o riconoscendo a ciascuna all’incirca la stessa
importanza. Inoltre, egli organizza queste enfasi in un punto di vista coerente
considerando i concetti estratti come intrinsecamente fissi e il giudizio di similarità e
differenza come intrinsecamente mobile.”
La categorizzazione del colore sarebbe dunque operata entro un sistema di coordinate fisse,
generalmente individuate in tinta, luminosità o saturazione, e coordinate mobili relative alla
similarità o alla differenza tra sensazioni cromatiche. Entro tale modello la costituzione
categoriale avviene attraverso la fissazione di punti di vista, detti nella teoria vantage (point), i
quali sono rispetto a una categoria plurimi, di norma due o tre. I due maggiori “vantaggi” sono
detti rispettivamente dominante e recessivo, a seconda che il parlante si focalizzi sulla
similarità o sulla differenza delle sensazioni cromatiche. Il vantaggio dominante e recessivo
intessono poi tra di loro relazioni di diverso tipo: quasi-sinonimia, co-estensione, inclusione,
complementazione (quando coinvolgente due vantaggi dominanti appartenenti a categorie
distinte).
“intessono una relazione intermedia tra co-estensione e inclusione polarizzata, con sinij
dominante e basico e goluboj recessivo e non basico. […] Secondo MacLaury, una persona
costruisce categorie commisurabili con il proprio punto di riferimento e la propria
gerarchia di focalizzazione. In questa prospettiva, una categoria sinij più ampia,
funzionante come un sinonimo quasi dell'intera regione blu può essere considerata
come conseguente all’enfasi posta sulla somiglianza a scapito delle differenze percepite
e, quindi, come un vantaggio dominante. Al contrario, l'enfasi posta sulla differenza
limita l'estensione della gamma della categoria dominante, delimitando in tal modo al
suo margine più luminoso la categoria goluboj con vantaggio recessivo.” (Paramei 2005:
20; trad. mia)
È tuttavia doveroso specificare come lo status di un vantaggio all’interno del modello della VT
non sia concepito come fisso, ma sia ammessa la possibilità che un termine dal vantaggio
25
recessivo vada incontro ad una acquisizione di peso, specie all’interno della dimensione storico-
culturale, rendendone più complessa la sua competenza.
L’incidenza di tale naming strategy nei parlanti nativi russo può essere verificata nel
discernimento cromatico all’interno della regione del blu, e viene ulteriormente evidenziato nel
confronto con le performance di parlanti di altre lingue, come l’inglese, nelle quali l’area blu
dello spettro è designata da un unico cromonimo base. Ad esemplificazione sperimentale si
prenda in considerazione l’esperimento condotto all’interno della ricerca di Winawer et al.
(2007). Esso consistette nel sottoporre a due gruppi campione di parlanti nativi russi e inglesi
le medesime prove di discriminazione tra tre tessere cromatiche di tinte chiare e scure del blu,
disposte a piramide; tra di esse i tester dovevano individuare le due corrispondenti (afferenti
dunque ad uno stesso gruppo cromatico) escludendone lo stimolo di disturbo o intruso. La
prova volle costituirsi come percettivo-oggettiva, attraverso: a) l’eliminazione del contributo
della memoria, poiché venne disposto lo svolgimento del compito in presentia degli stimoli; b)
la richiesta ai tester di massima accuratezza e velocità; c) l’impiego del tempo di reazione come
indice, in quanto dato spontaneo e meno soggetto d’altri ad essere viziato. Venne inoltre
disposto dai ricercatori che le prove venissero performate in tre diverse condizioni di
interferenza, ai fini di verificare le modalità d’azione della name strategy, e cioè in quali
condizioni l’influenza del linguaggio risultasse produttiva ed attiva, e quali invece la
ostacolassero. Le tre condizioni si svolsero in modalità:
26
nella memorizzazione di una griglia composta da sedici quadri alcuni dei quali
oscurati.
I risultati evidenziano una discrepanza tra il campione inglese, che non registra alcun
significativo vantaggio (misurabile in termini di tempi di reazione e sicurezza nel
discernimento) in nessuna delle condizioni preposte, e quello russo, dai cui esiti si evincono
alcuni importanti elementi sulle modalità d’incidenza della name strategy:
b. risulta sensibile alla misurazione nel solo discernimento tra tessere appartenenti a
categorie differenti (sinij e goluboj), ma non tra quelle intra-categoriali;
c. essa è tanto maggiore quanto più il discernimento è fine, ovvero tanto più sono affini e
vicini gli stimoli tra cui discernere.
L’esito di queste sperimentazioni mostra dunque, ancora una volta, quale sia la salienza della
distinzione delle due categorie cromatiche e dunque la rilevanza e la disponibilità di goluboj
all’interno della lingua russa. È inoltre bene specificare, a scanso di equivoci, che le differenze
evidenziate nelle performance dei due gruppi linguistici non sono prova dell’incapacità dei
parlanti inglese di discriminare tra i blu chiari e quelli scuri. Tale elemento è confermato da
sperimentazioni ulteriori concernenti la mappatura, che mostrano come il confine tra sinij e
goluboj tracciato dal gruppo russo risulti sovrapponibile se non identico a quello tra blu chiaro
e blu scuro (sky blue e navy blue) tracciato dal gruppo inglese. Risulta tuttavia come per i
parlanti nativi russo tale discriminazione sia insita nella competenza linguistica e dunque
necessaria.
Sulla base dunque di ricerche come quella sopra esposta, è possibile affermare come il modello
di discriminazione percettiva dei colori sia influenzato nei parlanti da distorsioni specifiche,
frutto delle strutture lessicali della propria lingua. Citando Winawer et al. (2007: 7784; trad.
mia) “le distorsioni specifico-linguistiche nello svolgimento di performance percettive
emergono come una funzione dell’interazione di processi percettivi di basso livello con sistemi
di conoscenza d’alto livello (e.g. il linguaggio) nel percorso per giungere a decisioni di carattere
percettivo.”
27
regione blu dello spettro cromatico, che risulta segmentata in due aree denominate da
cromonimi distinti: blé (μπλε) e galázjo (γαλάζιο)17: rispettivamente glossabili come “blu” e “blu
chiaro”. Il primo risulta designare il blu elementare ed è compreso nell’inventario dei BCTs della
lingua; lo status del secondo appare invece non trasparente, specie in merito al rapporto di
iponimia attribuitogli rispetto al primo. Verranno dunque analizzati nei paragrafi seguenti studi
di matrice psicometrica e non solo, al fine di fare chiarezza sul livello di iperonimia dei due
cromonimi.
Per ciò che concerne invece l’etimologia: galázio deriva dal greco antico kàlais (κάλαϊς), lemma
designate il turchese, pietra iranica avente sfumature verde-azzurrine; blé deriva invece dalla
radice germanica *blawa, acquisita come prestito tramite il francese per sanare la mancanza in
greco antico di un termine designante univocamente il colore blu.
28
L’intento non è in questa trattazione quello di riportare una puntuale descrizione delle modalità
sperimentali, quanto di proporre una sintesi degli esiti.
Gli indici pertinenti per la valutazione della salienza, indagati nell’ambito di tali prove di
denominazione sono dunque:
a. frequenza d’uso;
A tali indicatori si aggiunga inoltre quello della frequenza nei corpora testuali (verificata
sull’Hellenic National Corpus20), rispetto al quale emergono due dati: a) il sopravanzo
quantitativo delle attestazioni di galázio su quelle di alcuni cromonimi designanti colori
derivati; b) le attestazioni quantitativamente inferiori di blé rispetto a quelle dei cromonimi
designanti colori primari. Quest’ultima evidenza può giustificarsi se si considera la
segmentazione della regione del colore blu in greco in due aree afferenti a due lemmi distinti,
congiunta all’eguale importanza che il secondo termine per blu ricopre all’interno della
comunicazione quotidiana.
Passando dunque ad incrociare gli esiti degli studi di denominazione sopracitati, ne evinciamo
che blé e galázio totalizzano – rispettivamente agli indicatori di frequenza d’uso, quantità di
stimoli assegnati per soglia di accordo (standardizzate per 100, 75 e 50% del consenso), tempo
di reazione e coerenza – indici reciprocamente comprabili ed assimilabili a quelli degli altri
BCTs cromatici; confermano dunque il forte reclamo all’affermazione di galázio come
dodicesimo BCT.
All’interno dello studio sono stati inoltre condotti test di denominazione ristretti alla regione
cromatica del blu – riducendo dunque gli stimoli all’area verde-blu-viola – per verificare in
maniera più puntuale il rapporto reciproco tra i cromonimi afferenti a tale area. In questo
esperimento gli informatori sono stati istruiti in modo che la denominazione potesse includere
anche cromonimi secondari e composti. Gli esiti hanno riportato essere i più salienti tra i
cromonimi in quest’area: blé, galázio, prásinos “verde” e móv “viola” ricorrenti come maggiori
tra le denominazioni basiche e tra quelle con modificatori (prevalentemente aggettivi come
“pallido, tenue, scuro...”). In particolare blé e galázio si segnalano per avere lo stesso indice di
frequenza (20%) ma si differenziano per accordo tra parlanti. Emerge infatti come tre dei
20 Il HNC si costituisce quale corpus includente testi greci afferenti a giornali, libri, riviste ed altre risorse;
al 2006 – anno della pubblicazione dello studio preso in esame e dunque dei dati da esso forniti – tutte
le risorse sono databili dal 1976 al 1990.
29
diciotto informatori coinvolti impieghino, per gli stimoli denominati come galázio dai restanti
locutori, i cromonimi secondari thalasí “blu mare” and siél “blu cielo”. Se tuttavia questi due
cromonimi fossero iponimi di galázio, il loro uso rafforzerebbe la tesi della sua basicità e della
condivisione dello stesso livello di iperonimia condiviso da blé. In ultimo si segnala come
galázio possieda rispetto a blé dei modificatori specifici (ovvero impiegati per il primo ma non
per il secondo) glossabili come “pallido” e “tenue”.
Tendando dunque di fornirne una potenziale lettura potremmo definire galázio, in conformità
con le tesi esposte in K&McD, come cromonimo derivato frutto dell’intersezione sfumata (fuzzy)
dei colori primari bianco e blu, la cui categoria si è affermata accanto a blé grazie all’acquisizione
di peso funzionale nella conversazione e salienza psicologica presso i parlanti.
In conclusione, sulla base degli alti indici di salienza registrati da galázio, conformi a quelli degli
altri BCTs greci, si può dunque confermare l’attribuzione dello status di basico al cromonimo, e
affermare che in greco la regione cromatica del blu è segmentata in due termini correlati ma
non reciprocamente includentesi: galázio e blé.
30
concorrenza di due cromonimi designati sfumature differenti: blu, che si caratterizza sia come
categoria del blu elementare – i.e. iperonimo degli altri termini designanti sue sfumature – sia
come designante le tonalità meno luminose dell’area e dunque blu scuri e cupi; e azzurro,
designante invece sfumature di blu chiari e medi.
• la voce germanica *blawa assunta da alcune lingue romanze, come l’italiano, tramite il
provenzale bleu;
21Per approfondire in merito alle varianti dialettali italiane del lessico cromatico nell’area del blu si
veda: Kristol 1979.
22 La lingua latina come quella greca non possiede un cromonimo specifico per designare univocamente
il colore blu o l’azzurro; è tuttavia impiegato nella descrizione di oggetti di questo colore l’aggettivo
caeruleus che etimologicamente rimanda al colore della cera e designa colori blu dalle sfumature verdi
e scure. Sono altresì impiegati con un’egual escursione cromatica e flessibilità per l’area cromatica del
blu: caesius, glaucus, cyaneus, lividus, venetus. Alcuni di questi trovano in italiano continuazione come
nel caso di: ceruleo, livido e glauco ma con denotazioni non precipuamente cromatiche, o dove lo fossero
con connotazioni specifiche.
31
• la voce arabo-persiana lāzhuward designante nella lingua d’origine, così come
inizialmente in quelle che l’assunsero, i lapislazzuli ma presto passata metonimicamente
a designare il loro caratteristico colore.
Tale introduzione risulta, fuor di nozionismo, utile nell’analisi del caso italiano, in quanto in
esso non uno solo ma entrambi i prestiti trovano continuazione “privilegiata” come base dei
due cromonimi segmentanti la regione blu: blu dalla voce germanica, e azzurro da quella arabo-
persiana. Curiosamente dunque, usando le parole di Ronga (2009: 75), “l’Italia sembra essere il
luogo geografico di intersezione di due tipi differenti di categorizzazioni dello spettro del blu,
proprio come se fosse la rappresentazione di due bordi categoriali”. Tale intersezione viene poi
dall’autrice attribuita alla sensibilità della categorizzazione cromatica al fenomeno di
convergenza areale, e alla peculiare collocazione della penisola italiana ai confini dell’area di
Carlo Magno23.
I due cromonimi hanno peraltro storie diverse e diversa antichità di attestazione. La voce più
antica, attestata a partire dal XIII secolo è azzurro; tuttavia Kristol (1979: 98) ritiene che nei
secoli fino all’unità d’Italia essa sia stata utilizzata nella sola lingua letteraria, e sia stata
sostituita nei dialetti dal cromonimo turchino (che è un cromonimo-etnico24) fino alla fase di
scolarizzazione di massa, posteriore all’unificazione. Proprio tale precoce introduzione nella
lingua ha permesso al termine azzurro di sviluppare (insieme a turchino, seppur quest’ultimo
sia molto meno rilevante) una grammatica e un potenziale distribuzionale25 superiore all’altro
cromonimo, blu. Azzurro si costituisce dunque, fino all’affermazione del cromonimo blu, come
principale cromonimo dell’area, in quanto denotante non solo le tonalità più luminose
specificate in seguito, ma il blu elementare e le sue sfumature. Ne è una prova la sua assunzione
a BCT da parte di B&K.
Per ciò che invece concerne lo sviluppo della voce germanica, essa è documentata già nel latino
del VII secolo nella forma blavus (il quale produce in italiano voci letterarie e desuete come:
biavo, biado, biadetto...). Tuttavia, nella lingua italiana si afferma nella forma blu, (anche se le
varianti formali abbondano), attraverso il provenzale bleu, solo nel XVII secolo. Il termine blu
viene in principio impiegato per descrivere il colore di abiti e tessuti, dunque si associa ad una
tinta del colore piuttosto satura e brillante. Nei suoi primi secoli di vita tuttavia il cromonimo
mantiene il suo carattere di iponimo di azzurro; situazione volta a mutare a partire dalla metà
del XX secolo, massicciamente influenzata da due fattori: a) il linguaggio e l’industria della
moda; b) i calchi linguistici da lingue quali inglese, tedesco e francese (D’Achille, Grossmann
32
2017: 134). L’affermarsi del cromonimo blu ha dunque condotto ad una parziale rinegoziazione
dello spazio cromatico nell’area del blu (in parte già consumatosi nella concorrenza di azzurro
con celeste e turchino), che ha portato il cromonimo ad attestarsi su tonalità scure, relegando
azzurro a sfumature blu di media e alta luminosità in competizione e in maniera complementare
a celeste.
Per ciò che invece concerne le associazioni prototipiche, per entrambi ricorrono gli elementi
naturali cielo e mare; sono inoltre usati quasi intercambiabilmente in molti domini, come quello
dei fiori e dei minerali. Ciascuno tuttavia possiede dei referenti preferenziali – e.g. occhi azzurri;
blu notte – ed è impiegato in maniera esclusiva in espressioni fisse, idiomatiche e figurative –
e.g. sangue blu; auto blu; caschi blu; principe azzurro; fiocco azzurro. L’azzurro costituisce inoltre
il colore nazionale italiano e popolarmente i suoi atleti vengono definiti metonimicamente
come “azzurri”; la trattazione di tale aspetto semiotico è approfondita nel paragrafo seguente.
Così come si è riscontrato nel caso dei cromonimi blu della lingua russa, associazioni simboliche
di tale calibro costituiscono sempre un rilevante fattore di prestigio e permanenza nell’uso dei
termini di colore. Elemento, questo, controtendente ai naturali rivolgimenti – connaturati al
dinamismo delle lingue parlate – subiti dalle parole nel corso della propria storia rispetto a
connotazione, uso, e salienza. È altresì giustificato sostenere come la fase calante e di regresso
che il cromonimo azzurro attraversa, in competizione con l’emergente blu, sia e si stata
rallentata ed ammorbidita nei suoi esiti proprio dal peso simbolico di cui esso è stato investito.
È possibile inoltre affermare che, al di là dello status ad esso attribuibile, il cromonimo azzurro
possieda nella lingua italiana una certa rilevanza di matrice storico-culturale.
33
2.3.2.2 Indagine sulla salienza di azzurro
Entrando dunque nel merito della valutazione dello status del cromonimo azzurro in italiano,
andranno valutate consuetamente le misure di: salienza psicologia; livello di iperonimia;
collocazione all’interno dello spazio cromatico in rapporto al cromonimo blu. Non
problematiche risultano le valutazioni sulla presenza dei requisiti di basicità di:
monolessematicità; non restrizione nel dominio di attribuzione; potenziale distribuzionale –
evidente il primo, esplicati il secondo ed il terzo nel paragrafo 2.2.
Nota invece più dolente ed insidiosa risulta quella riguardante la non-inclusione, ovvero il
livello di iperonimia. L’analisi apparentemente più illuminante da potersi operare per
conoscere il livello iperonimico di azzurro rispetto a quello di blu consiste banalmente nel
sottoporre ai parlanti, in modo diretto, il quesito se azzurro possa considerarsi un esemplare di
blu. Tale test, operato all’interno dell’indagine di Sandford (2012) su un campione di parlanti
nativi italiano, ha registrato la quasi unanimità delle risposte positive (93%), percentuale
probante del rapporto di iponimia di azzurro rispetto a blu. Questa evidenza può vedersi inoltre
rafforzata, all’interno della stessa ricerca di Sandford, da un ulteriore esito sperimentale,
ovvero quello della prova di denominazione di campioni cromatici (color-naming task).
All’interno di questo test, rispetto ai 30 stimoli che gli informatori erano chiamati a nominare,
quelli ritenuti esemplari per azzurro sono stati catalogati da una grande porzione dei tester
(74%) come blu.
I dati esposti confermano dunque che blu si costituisca come iperonimo di azzurro, fornendosi
quale cromonimo più disponibile, e talvolta preferito ad azzurro, nella denominazione dei
referenti, in virtù della sua maggiore generalità. Troviamo dunque in quest’esito il
rovesciamento del rapporto iponimo-iperonimo tra i due cromonimi: i primi secoli
dall’introduzione del cromonimo blu videro infatti quest’ultimo costituirsi come iponimo di
azzurro.
Analizzando invece l’indice di salienza psicologica, il cromonimo azzurro risulta possedere alti
valori rispettivamente alla frequenza d’uso, pur attestandosi su indici inferiori rispetto al
termine blu. Si prendano a riferimento i dati estrapolati dalla prova di elencazione libera scritta
(list task) proposta da Sandford (2012) e sottoposta ad un campione di parlanti nativi italiano.
Gli esiti di questa riportano come blu possieda un indice di salienza che lo colloca, rispetto agli
altri cromonimi emergenti dalle liste compilate dei parlanti, al quarto posto; azzurro invece
raggiunge la nona posizione, attestandosi su valori medi tra quelli dei cromonimi designanti
colori primari e quelli designanti colori derivati.
Interessante risulta inoltre accennare a come test volti ai fini della verifica della salienza dei
cromonimi della regione cromatica del blu abbiano riportato l’emergere di una terza categoria
segmentante l’area: celeste. Tale cromonimo registra sorprendentemente per alcuni campioni
regionali di parlanti italiani una maggiore stabilità e frequenza di quella della categoria
azzurro26. In uno studio condotto da Paramei et al. (2014) sono stati messi a confronto le
26Si veda come, quando contemplati tre cromonimi e non due per la regione blu, la segmentazione
assuma i seguenti caratteri: il cromonimo blu individua regioni scure e tendenti al nero; l’azzurro si
34
performance, rispetto al vocabolario cromatico italiano, di due campioni regionalmente
omogenei e diatopicamente distanti (rispettivamente dialettofoni sardi della città di Alghero, e
dialettofoni veneti della città di Verona), in prove di denominazione di stimoli cromatici (color-
naming task) e di individuazione dei punti focali per ciascuna categoria denominata nella prima
prova. I risultati hanno evidenziato che per il campione veronese fosse l’azzurro a possedere gli
indici maggiori di salienza, caratterizzandosi dunque come secondo cromonimo della regione
blu; mentre li avesse celeste per il campione algherese27. Si è poi verificato come i colori focali
di ciascuna categoria fossero grossomodo corrispondenti, confermando dunque come i due
cromonimi descrivessero lo stesso referente.
Si registra dunque come, usando le parole di Paramei et al. (2014: 34; trad. mia), “nonostante
l'uso di termini cromatici identici dell'italiano standard moderno, i parlanti di dialetti italiani
diversi possono variare nella rappresentazione cognitiva di un termine, in particolare, nella
denotazione dei prototipi di azzurro e celeste e nella loro relazione”. La stessa sovrabbondanza
di cromonimi nell’area del blu che abbiano per i parlanti rilevanza nella conversazione
quotidiana appare frutto di una spiccatissima variazione diatopica dell’area italiana; fermo
restando che l’incertezza di denotazione si limita tuttavia ai cromonimi opposti a blu, che
mostra di essere il più specifico e il più stabile.
Ulteriore dato – utile e complementare a quelli sulla salienza – è quello fornito dal presentarsi
in prove specifiche, rispetto alla coppia azzurro-blu, dell’effetto di Stroop28. Tali prove sfruttano
lo scarto di velocità esistente tra i processi cognitivi di lettura e quelli di identificazione
cromatica: il primo è infatti dimostrato essere sensibilmente più rapido del secondo. Nelle
prove viene dunque proposto al parlante uno stimolo composito, di norma un termine di colore
scritto in un colore che non corrisponde a quello che esso designa, e gli viene richiesto di
discernere il colore. Generalmente si registra come il riconoscimento del colore della parola sia
facilitato se associato alla parola di colore corrispondente; e.g. la parola rosso scritto in colore
rosso risulta più facile al discernimento cromatico della parola rosso scritta in giallo. Tale
fenomeno di interferenza è detto appunto effetto di Stroop. In tale ambito Paggetti e Menegaz
(2012) hanno verificato come, sia nel caso della parola blu che nel caso della parola azzurro, i
tempi di reazione migliori nel discernimento cromatico si registrano se i termini sono
rispettivamente associati al colore blu-scuro e blu-chiaro (azzurro). Ciò implica dunque che: a)
il discernimento del colore blu scuro legato alla parola azzurro risulta più lento e meno
immediato del discernimento del colore blu chiaro (azzurro) se associato alla stessa; b) il
attesta su tonalità medio luminose; il celeste abbraccia invece l’area più luminosa della regione tendente
al bianco (Paramei et al. 2014).
27Tale peculiarità può tuttavia ricondursi anche alla forte interferenza della lingua catalana subita dalla
comunità linguistica di Alghero (frutto di una lunga dominazione aragonese sul territorio). “Il dialetto
algherese-catalano con il suo uso di celeste al posto di azzurro, dominate nel continente, usato per
denotare sfumature medie e chiare della categoria blu, appare manifestare una struttura storicamente
precedente dell’uso del termine in ‘un “museo” di differenti stadi evolutivi del lessico del colore’
(Grossmann, D’Achille, 2016: 27).” (Paramei et al. 2018: 100; trad. mia).
28 vd. Stroop 1935a; 1935b; 1938.
35
discernimento del colore blu chiaro legato alla parola blu risulta più lento e meno immediato
del discernimento del colore blu scuro (blu) associato alla stessa.
Per verificare se si trattasse di un effetto legato alla percezione, o piuttosto esso fosse frutto
d’un effetto d’interferenza linguistica, i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento sfruttando al
posto dei colori azzurro e blu rispettivamente due sfumature di verde, una chiara e l’altra scura,
separate da un valore di luminosità simile a quello separante le due sfumature blu impiegate.
Gli esiti di tale test sono stati eloquenti nel mostrare la poca pertinenza del fattore percettivo.
Le due tinte del verde, chiara e scura, associate alla parola verde hanno prodotto infatti tempi
di reazione nel discernimento simili e comparabili (migliori di quelli in cui la parola è associata
altri colori), senza che venisse evidenziato alcuno scarto. È ragionevole dunque leggere tale
diversità nei comportamenti dei parlanti come l’affermazione nella regione cromatica del blu,
ma non in quella del verde, di categorie linguistiche distinte e sufficientemente salienti
singolarmente da influenzare i processi cognitivo-percettivi di discernimento cromatico.
Evidenza, questa, che fornisce supporto al dato di alta salienza e peso funzionale nella
conversazione posseduta dalla classe cromatica designata dal cromonimo azzurro, ergo:
azzurro può infine configurarsi come categoria addizionale nella regione spettrale del blu
(Paggetti, Menegaz 2012: 102).
Tentando dunque di trarre delle conclusioni e generalizzando rispetto alla variazione diatopica,
è possibile affermare come la regione spettrale del blu necessiti in italiano per la sua
denominazione di due cromonimi entrambi salienti: blu e azzurro, rispetto ai quali celeste
risulta categoria secondaria e più marginale – seppur potenziale terzo pretendente per indici
di basicità rispetto ai primi due. Tuttavia, il cromonimo azzurro appare possedere meno che in
passato caratteri di basicità, nonostante: frequenza e disponibilità d’uso esibite nella
conversazione; potenziale distribuzionale; produttività figurativo-metonimica. Esso può
dunque essere assunto a BCT di una fase linguistica trascorsa, grossomodo circoscrivibile dal
XIII, secolo della sua introduzione, alla metà del XX secolo (Grossman, D’Achille, 2017). A
seguito di tale fase si è registrato uno slittamento nella lessicalizzazione da azzurro verso blu,
dovuto alla parziale perdita di salienza del primo ed affermazione del secondo, come si è detto
favorita dai calchi linguistici di alcune lingue europee. Il cromonimo blu è dunque divenuto
iperonimo dell’integrità dei termini di colore dell’area. Potremmo dunque considerare la
regione spettrale blu dell’italiano come altamente dinamica, nella cui storia si sono succeduti
diversi rimodellamenti: all’interno di questi la storia recente di azzurro costituisce un caso di
regressione.
36
cromonimo lacivert, dal referente più specifico. Quest’ultimo, glossato in alcuni studi (Şahin et
al. 2006) come “blu navy”, designa rispetto al primo tinte blu più cupe e scure, tendenti alle aree
del nero e del viola. Rispetto al modello K&Mc lacivert può esser interpretata quale categoria
derivata, frutto dell’intersezione fuzzy dei colori primari blu e nero. I paragrafi seguenti
forniscono un sommario degli studi che hanno analizzato il rapporto tra mavi e lacivert
all’interno della semantica dei colori in turco, con speciale attenzione alla valutazione dello
status di quest’ultima categoria cromatica, status conteso tra derivato-basico o secondario.
La comprensione dei rapporti reciproci tra i due cromonimi blu all’interno della lingua turca, e
della posizione che l’apparentemente secondario lacivert riveste in essa, è ancora una volta da
affidarsi ad indagini psicometriche capaci di estrapolare per ciascun termine indici pertinenti
alla valutazione della salienza. A seguire di prenderanno in considerazione le analisi condotte
all’interno dello studio di Özgen e Davies (1998) e quelle di Şahin et. al (2006).
37
Özgen e Davies produssero tre sperimentazioni coinvolgendo parlanti nativi turco afferenti a
due campioni differenziati per età (8-14 anni il primo; 18-38 anni il secondo); ed una
complementare sperimentazione interculturale coinvolgente parallelamente un campione di
parlanti nativi turco e uno di parlanti nativi inglese, che verrà trattato separatamente. I tre
esperimenti consistettero rispettivamente in: una prova di elencazione scritta dei cromonimi
noti (list task); una prova di denominazione di stimoli cromatici egualmente segmentanti lo
spettro (color-naming task); ed una terza prova volta alla definizione del rapporto reciproco
delle categorie cromatiche mavi e lacivert. Per nessuna delle tre vennero impartite agli
informatori istruzioni e restrizioni specifiche sulla forma dei cromonimi da impiegarsi, venne
dunque ammesso l’impiego di forme modificate, composte e secondarie. In seguito
all’estrapolazione, i ricercatori tuttavia operarono sui dati un accorpamento delle occorrenze
dei cromonimi nella propria forma monolessematica a quelle in forma composta e modificata.
Tale procedimento, poco trasparente, ha in parte (anche se in misura non esattamente
stimabile) influito negativamente sul valore degli indici effettivi. Ricerche successive riportano
infatti come il consenso registrato dai parlanti rispetto al cromonimo lacivert risulti inferiore,
suggerendo una più debole affermazione alla basicità (Räpset 2018: 16).
Riassumendo gli esiti rispettivi ai primi due esperimenti (list e color-naming task): lacivert
sembra rivendicare una posizione complessiva di undicesimo o dodicesimo termine tra tutti i
cromonimi emergenti dalle prove, rispetto agli indici di: frequenza nella lista; frequenza della
denominazione; accordo del 50% degli informatori; indice di specificità. Tale dato deve cioè
essere letto come: lacivert possiede il dodicesimo riscontro più forte per l’affermazione alla
basicità. Esso dunque occorrerebbe dopo gli 11 BCTs del turco, corrispondenti agli undici
universali forniti dal modello B&K.
Tra gli indici più rilevanti da considerarsi tra quelli pertinenti per la valutazione della basicità,
vi è l’indice di specificità (indice S)29. Il suo valore massimo è uno, ed è tale per un cromonimo
il cui impiego sia limitato al solo stimolo (o ai soli stimoli) per cui è dominante, ovvero per cui
ha attribuzione maggioritaria; il suo minimo è invece zero, valore a cui ci si avvicinano quei
cromonimi la cui attribuzione agli stimoli appare aspecifica ed indiscriminata. In sintesi può
dirsi dunque che: la specificità è un criterio più puntuale di quello della frequenza d’uso in
quanto consiste nell’attribuibilità e designabilità cromatica precisa di un cromonimo rispetto
agli stimoli. Un cromonimo specifico produrrà dunque tra i parlanti un alto accordo nell’uso o
nell’attribuzione. Risulta inoltre interessante notare come l’indice S abbia nel campione adulto
valore maggiore che in quello dei bambini. Nel primo infatti, il valore dell’indice S per lacivert
risulta comparabile con quello del cromonimo impiegato per nero, e maggiore di quelli
impiegati per alcuni dei colori derivati; nel secondo risulta invece sorprendentemente più
basso ed inferiore a quello di tutti gli altri BCTs. Anche a partire da questo elemento gli autori
propongono lacivert come cromonimo a metà tra i caratteri di quelli basico-derivati e quelli
secondari.
29Esso risulta dal dato della frequenza d’uso di un termine, rispetto gli stimoli per cui è vi è accordo al
50%, diviso per il numero delle volte che è stato impiegato per gli altri stimoli del campione.
38
Lo scarto tra i due indici S è uno degli elementi più rilevanti nell’evidenza dell’esistenza di una
discrepanza tra gli esiti del campione adulto e quello dei bambini, i.e. delle modalità di
concepire e categorizzare il colore nell’età adulta e nell’infanzia. L’influenza che il fattore
anagrafico esercita sul padroneggiamento del vocabolario del colore è stata già messa in luce in
K&McD, studio che evidenzia come parlanti più giovani interpretino spesso uno stadio
linguistico più avanzato di quello delle generazioni più mature. Riguardo a questo caso, i
ricercatori Özgen e Davies forniscono una possibile lettura dello status di lacivert come
transizionale. Per loro stessa ammissione tuttavia risulta difficile in assenza di dati supportivi
affermare il verso di tale transizione. Le ipotesi che tuttavia possono fornirsi sono di due tipi:
a) lacivert sta regredendo da cromonimo basico a secondario; b) esso si costituisce come
cromonimo derivato-basico di nuova acquisizione, il che ne produce un apprendimento e
corretto uso nei bambini più tardivo rispetto a quello delle altre BCCs della lingua.
In ultimo si vedano due ulteriori esperimenti, sempre condotti nell’ambito della ricerca di
Özgen e Davies. Il primo dei due è quello che meglio d’altri sembrerebbe poter decidere delle
sorti della relazione di mavi e lacivert, e che tuttavia risulta un esperimento particolarmente
sensibile e influenzabile dalle istruzioni impartite agli informatori. Esso si costituì di due
semplici prove scritte somministrate ad un campione studentesco universitario. La prima
richiedeva la scrittura in un tempo limitato, ma senza restrizioni di forme, di tutti i “tipi di mavi”
noti agli informanti; la seconda invece consistette nel rispondere alla domanda se lacivert fosse
“un tipo di mavi”, i.e. potesse ascriversi alla sua estensione. I risultati vertono
sorprendentemente a sfavore della basicità di lacivert, che è stato elencato da 3/5 degli
informatori come esemplare di mavi e confermato da 4/5 come sua tipologia. È tuttavia
doveroso precisare che prove consistenti in domande poste in forme come questa possano
essere particolarmente fuorvianti, tanto che, commenta Özgen, simili test applicati a parlanti
inglesi hanno riportato come la maggioranza del campione sostenesse il rosa come esemplare
di rosso (Özgen e Davies 1998: 949, senza che ciò nulla tolga alla basicità di entrambi i
cromonimi in inglese. Per ciò che invece concerne l’ultimo esperimento, si tratta di un test inter-
culturale che coinvolse un campione di parlanti turco e uno di parlanti inglese. I ricercatori
verificarono l’agire produttivamente nel primo campione (e non nel secondo) della name
strategy in prove percettive di: raggruppamento cromatico di stimoli (free-sorting task);
valutazione di somiglianza tra campioni cromatici nella regione del blu (similarity-judgement
task).
È dunque possibile concludere, dagli esiti favorevoli e sfavorevoli degli esperimenti sopra
riportati, come la lingua turca esibisca curiosamente una discrepanza tra la percezione del
colore nominato e quella del colore astrattamente concepito, discrepanza che produce evidenze
in alcuni punti contradittorie. Rimane quindi in attivo la possibilità che lacivert si possa
ascrivere ad uno stato transizionale in divenire basico. Anche prescindendo dalla sua attuale o
futura affermazione è infatti possibile riscontrare come: a) sussista una piccola regione
cromatica (coerente con esistenza di una categoria costruita intorno al focus blu-scuro)
denominata dalla maggior parte dei parlanti lacivert; b) essa sia come una categoria
sufficientemente disponibile e “scontata” da produrre significativa influenza e vantaggio nei
processi cognitivo-percettivi non linguistici (Özgen, Davies 1998: 951).
39
2.4.3 Studio comparativo tra russo e turco: sovrapponibilità di Sinij e Lacivert
Si è già detto come, basandosi sul modello K&McD, la segmentazione della regione blu dello
spettro sia interpretabile come l’emergere, accanto alla categoria nella cui estensione cade il
blu focale (ovvero quella del blu elementare), di una seconda categoria dal carattere derivato.
Questa sfrutterebbe l’intersezione tra il blu focale e il prototipo di un’altra categoria, in questo
caso acromatica: bianco o nero. Risulta in tale istanza importante notare come – in maniera
eccentrica ed opposta rispetto agli esempi precedenti – la lingua turca preveda uno sviluppo
della BCC blu il cui esito è l’emerge di una nuova categoria approssimantesi alle regioni del nero
e del viola, e non del bianco o del verde come negli altri casi trattati. Il turco segue dunque
rispetto alla lingua russa, ma anche a quella greca ed italiana, direttrici distinte.
Özgen e Davies propongono un confronto inter-culturale tra la categoria (turca) lacivert “blu
navy” e (russa) sinij “blu scuro”30. Il primo elemento ad emergere è che la seconda categoria
cromatica russa per blu, goluboj “blu chiaro” possiede rispetto a quella turca lacivert “blu navy”
una certamente maggiore affermazione alla basicità. Le due categorie cromatiche rivestono
rispettivamente il settimo ed il dodicesimo posto negli indici di salienza rispetto agli altri
cromonimi della propria lingua (nonostante la denominazione sembri nel campione turco
molto più precisa e concorde che in quello russo).
Venendo invece alla corrispondenza tra cromonimi e rispettive estensioni referenziali nelle due
lingue, (stimabile rispetto a stimoli standard) è possibile notare come essa non risulti identica
o sovrapponibile, si veda infatti come:
a. le due tessere maggiormente rappresentative per sinij registrano entrambe mavi come
cromonimo dominante;
La mappatura dei quattro cromonimi nella figura 5 evidenzia infatti come i confini che separano
in russo sinij e goluboj, ed in turco mavi e lacivert si situino in aree diverse e piuttosto distanti.
Lo scarto risulta prevalentemente riconducibile alla dimensione della luminosità, piuttosto che
a quella della tinta. Se ne decreta dunque in definitiva l’impossibilità di sovrapposizione delle
due coppie di cromonimi blu nelle due lingue. Si evidenzia inoltre come questo dato indebolisca
la possibilità, ponderata nel paragrafo 2.5, che la segmentazione della regione cromatica blu
dello spettro sia guidata nelle lingue da meccanismi o processi universali, o ad ogni modo
comuni
30Prendendo come riferimento per ciò che concerne il cromonimo russo lo studio di Davies e Corbett
del 1994.
40
Figura 5: (figura 5 e 6, nello studio di Özgen, Davies 1998) il grafico a sinistra, rappresenta i loci dei
cromonimi blu russi e quello a destra quelli dei cromonimi blu turchi rispetto ai foci universali nello
spazio uniforme di cromaticità CIE31
41
Una delle teorie più suggestive, ma meno verificabili, si lega alla lettura della lessicalizzazione
come fenomeno direttamente rispondente all’esperienza sensoriale-percettiva dei parlanti.
Essa, avanzata come ipotetica all’interno delle ricerche di Sandford (2012) e Paramei et al.
(2014), suggerisce come nel territorio mediterraneo la proliferazione dei cromonimi nello
spettro del blu sia possibilmente connessa alla necessità di differenziare tra i colori del cielo e
quelli delle acque del Mediterraneo, entrambi elementi pregnanti per le comunità linguistiche
dell’area. Al di là della veridicità di tale lettura, è tuttavia facilmente riscontrabile come nelle
lingue analizzate (ma anche in altre al di fuori dalla trattazione) primariamente il cielo e
secondariamente il mare32 – pur nel loro carattere intrinsecamente mutevole determinato
dall’illuminazione – si costituiscano come riferimenti prototipici o più frequenti per i
cromonimi blu. Che dunque la pregnanza di elementi naturali come cielo e acque (condivisa da
tutti i parlanti delle lingue del mondo) e la loro ampia variabilità cromatica all’interno delle
sfumature del blu possano costituirsi come fattori di comune raffinamento nella
denominazione di quest’area cromatica, non è ipotesi da scartare, seppur difficile da accertarsi.
Ipotesi ulteriori, e di altra matrice, sono invece quelle proposte all’interno dell’indagine di
Paramei (2007) relative a: a) ottimalità ambientale; b) modello interpoint-distance (IDM).
“il numero di categorie cromatiche codificate all’interno dello spazio cromatico varia
sulla base del compromesso tra il costo di distorsione (ovvero l’accuratezza
comunicativa e la codificabilità) ed il costo di complessità (ovvero la differenziazione)
del sistema categoriale. In particolare quando il costo di distorsione prevale, il risultato
è la progressiva segmentazione delle BCCs e dunque l’arricchimento nella nomenclatura
dei BCTs.” (Paramei, 2007: 98; trad. mia)
32Il mare o le masse acquoree in molte lingue indoeuropee sembrano tuttavia essere riferimenti
secondari in quanto a lungo non percepiti o descritti da colori afferenti all’area del blu (si veda in
proposito la trattazione nell’Appendice sui mutamenti simbolico-referenziali registrati dal colore blu).
33 Una trattazione più approfondita degli attributi del colore in contesti sacri si troverà nell’Appendice.
34Teorizzazione completa ed esaustiva dell’IDM si trova in: Jameson et al. 1997; Alvarado, Jameson
2005.
42
lingua. Generalmente tutte le culture attribuiscono una certa salienza a dimensioni quali
luminosità e saturazione e solo secondariamente alla tinta, dimensioni alle quali si sommano
fattori culturali non preventivabili (e talvolta atipici)35.
All’interno di tale modello è possibile fornire un’interpretazione dell’emergere di una seconda
classe nell’area del blu, addizionale a quella focale, a partire dalla presenza dell’ampia sezione
spettrale innominata intercorrente tra il blu ed il bianco focali – registrata come la più ampia
tra quelle intercorrenti tra i 11 BCTs universali focali adiacenti36. La presenza di tale gap,
mancante di denominazioni basiche specifiche, si costituirebbe dunque come causa sufficiente
dell’emergere di una classe di colore intermedia.
Si prenda il caso specifico di sinij e goluboj: per esso la mappatura permette di evidenziare
come, all’interno della regione spettrale blu, i fuochi dei due cromonimi si distribuiscano
sull’asse della saturazione e su quello della luminosità in modo da ottimizzare e polarizzare
l’area (così come prefigurato dai principi della IDM). Come affermato da Jameson (2005: 191;
trad. mia):
“Le loro posizioni relative tendono ad ottimizzare la separazione dei fuochi mantenendo
una posizione rappresentativa delle pagine blu di questo spazio di stimoli (i.e.
sufficientemente distanti dai confini della categoria blu), spartendo il carico informativo
tra i due termini.”
L’emerge di un secondo cromonimo nella stessa area di sinij può ascriversi, in tale ottica di
equilibramento della denominazione rispetto allo spazio cromatico, alla delocalizzazione del
punto focale di sinij (i.e. della categoria blu elementare) rispetto al centro della regione blu. Tale
collocazione “eccentrica” si rende dunque responsabile di una necessità di compensazione nella
lingua, il cui esito è la lessicalizzazione della categoria goluboj la quale si costituisce come
complementare a sinij in luce ed intensità cromatica.
È inoltre interessante notare come, tra le categorie emergenti indagate in questo elaborato, esse
codifichino preferenzialmente, all’interno della regione blu, l’area più chiara ed
approssimantesi al bianco (tre casi: goluboj in russo, galázio in greco, azzurro in italiano, su
quattro). Elemento, questo, che può leggersi in prospettiva del fatto che il blu viene
generalmente concepito come sensazione cromatica scura, approssimantesi al nero37. In ultimo
è dunque possibile affermare come, nel processo di codificazione di una nuova classe cromatica
43
intermedia tra focali adiacenti, il fattore di luminosità si selezioni come tra i più rilevanti
nell’influenzare la collocazione del fuoco della categoria di colore nascente.
Rimane tuttavia il fatto che l’unica prova definitiva della produttività di processi universali o
comuni, e non dunque specifici e locali, nella segmentazione della regione spettrale del blu sia
la sovrapponibilità delle estensioni delle nuove classi cromatiche blu emerse nelle lingue
trattate o perlomeno dei loro punti focali. Simili studi comparativi mancano per la gran parte di
queste; unica eccezione pare l’indagine incrociata tra i cromonimi blu nella lingua turca e in
quella russa condotta all’interno degli studi di Özgen e Davies (1998). Dagli esiti di quest’ultima
emerge, come precedentemente analizzato, che le categorie cromatiche russe sinij “blu scuro”
e goluboj “blu chiaro” non risultano sovrapponibili a quelle turche lacivert “blu navy” e mavi
“blu”, e come anzi il confine delimitante nelle due lingue la categoria più chiara da quella più
scura si collochi in posizioni non solo diverse ma nettamente distinte. Elemento, quest’ultimo,
che seppur rimanga isolato in assenza di studi inter-culturali, incrocianti i dati tra le altre lingue,
non pesa a favore dell’universalità dei processi di raffinamento della regione spettrale del blu.
44
3. Grue: un caso di ipo-segmentazione38?
Avendo nel capitolo precedente esplorato casi specifici di raffinamento della regione cromatica
del blu, risulta di contro interessante affacciarsi invece su evidenze linguistiche che esibiscono,
diametralmente all’“iper-raffinazione”, una “ipo-raffinazione” della medesima area, ed anzi
l’assenza per il colore primario blu di una categoria o cromonimo specifico. Si tratta di quelle
lingue dotate di una categoria grue che assomma le due esperienze cromatiche distinte dei
primari psicologici blu e verde (anche se si accennerà alla possibilità di composti includenti
anche i primari giallo e nero)39.
nella partizione lessicale della regione del blu nelle lingue; non è dunque rappresentativo di una presa
di posizione rispetto alla minore raffinazione esibita dalle lingue grue nel vocabolario cromatico.
39 Nella trattazione della categoria cromatica grue si segue un approccio differente da quello del capitolo
2, escludendo dunque la discussione di casi linguistici specifici in favore di uno sguardo generale sul
problema che questa categoria rappresenta per la teoria dell’universalità dei foci, esposta nel capitolo
1. Si rimanda in merito a studi specifici per lingua: [Navaho] Landar et. al 1960; [Setswana] Davies et al.
1992; [Chichewa] Davies et al. 1995; [lingue mesoamericane] MacLaury 1997; [Dani] Davidoff et al.
1999b; si veda anche Bornstein 1973.
45
focalità, ovvero la presenza di due punti focali categoriali rispettivamente localizzati nelle
vicinanze del verde e del blu focali. Elemento, quest’ultimo, che si pone controintuitivamente
all’aspettativa di un fuoco unico individuato in un colore intermedio tra i prototipi dei due
primari. In K&McD la categoria grue viene infine iscritta tra quelle composte (frutto dell’unione
fuzzy di due o più primari) e confermata come quella avente il maggior numero di attestazioni
nelle lingue.
Passando dunque all’analisi della consistenza del fenomeno, e prendendo come riferimento i
dati del WCS, sono ben 68 su 110 lingue campionate quelle che mostrano evidenze della
presenza di una categoria grue. È tuttavia interessante notare come ad esse si sommino, seppur
in numero estremamente più contenuto, lingue dotate di categorie in cui blu e verde sono
lessicalizzati unitariamente anche ad un terzo colore, caldo oppure freddo40: rispettivamente
la categoria Bk-G-Bu, denominata dagli studi di Lindsey e Brown (2002) dark, avente nel WCS
quindici attestazioni; e Y-G-Bu, avente due sole attestazioni.
In merito alla distribuzione areale del fenomeno, può riscontrarsi come essa non sia casuale ma
vi si possa invece individuare una certa omogeneità rispetto ad alcuni fattori. Il primo fattore è
di natura diatopica, ed evidenzia l’accrescersi della densità dei casi lungo la fascia equatoriale
e limitrofe; il secondo fattore invece si lega ad aspetti economico-sociali ed etnolinguistici,
evidenziando come le aree coinvolte nel fenomeno condividano uno scarso livello tecnologico
nella cultura materiale e, coerentemente a questo, un lessico cromatico scarno o limitato. Una
rappresentazione della distribuzione delle lingue grue, dark e blu/green (ovvero quelle che
possiedono entrambi i cromonimi) è presentata nella figura 5.
triangoli6:blue
Figura = lingue
(figura gree/blu
2 dello studio– cerchio
Lindsey,rosso
Brown= lingue
2002)grue – cerchioblue
i triangoli nerorappresentano
= lingue dark le lingue green/blu;
isimboli
cerchi grandi
rossi le= lingue grue; i cerchi
classificazioni neri le lingue
per color-naming taskdark; i simboli
– simboli grandi
piccoli fanno riferimento
= classificazione a classificazioni
per descrizione lessic.
estrapolate dai locutori della lingua tramite color-naming task, a quelli piccoli invece classificazioni
i toni grigi indicano una funzione media giornaliera del raffi UV-B (dati del 1999 ottenuti da TOMS
Erythernal
40 UV Exposure) emergente dal riscontro di categorie assommanti in unici cromonimi colori caldi
Sulla problematicità
e freddi (che hanno naturalmente la tendenza a separarsi) si veda in KBM e Jameson 2005 la trattazione
dedicata alla categoria composta giallo-verde (Y-G).
46
ottenute tramite descrizione lessicale. I toni grigi indicano una funzione media giornaliera dei raggi UV-
B (dati del 1999 ottenuti da TOMS Erythernal UV Exposure).
Una panoramica delle aree coinvolte nel “fenomeno grue” (nel quale includo anche le categorie
grue “ampliate” sopradescritte) vede in ordine di casi attestati:
• stati costieri del nord ovest dell’America meridionale
• Papua Nuova Guinea, Filippine e Australia del Nord
• Messico del Nord e Mesoamerica
• Africa subsahariana
• India centrale (due casi)
• Siberia (un caso)
47
collocazione in aree di alta esposizione ad una peculiare luce solare ultravioletta detta UV-B,
responsabile di effetti fototossici sulle lenti oculari.
Gli effetti fototossici principali ai danni della visione cromatica, causati da un’esposizione
cronica ad alti tassi di raggi UV-B sono due:
a. imbrunimento (o ingiallimento) della lente oculare, che riduce la quantità di luce capace
di raggiungere la retina e specialmente quella a dominanza d’onde corte42. Da tale
ingiallimento dunque deriva una percezione falsata degli stimoli di questa lunghezza
d’onda, che da blu (come sarebbero percepiti da lenti trasparenti) tenderanno ad essere
identificati come verdi o scuri.
Da questi effetti deriva dunque che pochi tra gli stimoli effettivamente blu verranno riconosciuti
come tali attraverso lenti imbrunite dal sole nei parlanti affetti da visione alterata; quanto
piuttosto associati a percezioni cromatiche verdi (da cui le lingue grue) o nere (da cui le lingue
cosiddette dark). L’ipotesi sostiene dunque che:
“a causa dell’assorbimento della luce a lunghezza d’onda corta da parte del cristallino, in
proporzioni maggiori con l’incremento dell’esposizione a UV-B, i popoli esposti
cronicamente ad alti livelli di UV-B non necessitino della distinzione tra blu e verde”
(Hardy et al. 2010: 326; trad. mia)
Risulta tuttavia necessario notare come tale imbrunimento e ispessimento del cristallino,
nonché il deterioramento dei coni SWS, sia un fenomeno verificantesi naturalmente con
l’invecchiamento delle strutture oculari, anche in condizioni di tassi di UV-B nella norma, a
causa dell’esposizione oculare cumulativa nell’arco della vita. È dunque possibile interpretare
la presenza, quando di grado importante, dei fenomeni fototossici sopradescritti nelle
popolazioni esposte a luce solare molto ricca di UB-V come un invecchiamento precoce
dell’occhio e dei suoi media.
Lindsey e Brown evidenziano inoltre come tali effetti fototossici possano produrre una
condizione acquisita di deficienza visiva dei colori blu-giallo simile a quella registrata da forme
di patologie oculari come la tritanopia – forma di daltonismo frutto della presenza deficitaria di
coni SWS. In tale ottica, è dunque avanzata l’ipotesi che in alcuni soggetti particolarmente
esposti o sensibili l’imbrunimento si accompagni a forme acquisite di tritanopia. Per conoscere
la consistenza del fenomeno un successivo studio dagli stessi autori Lindsey e Brown (2004),
48
prendendo in analisi i dati del WCS, attesta le forme più gravi di tale deficienza al 32-42% dei
parlanti lingue grue.
In sintesi, i due ricercatori, operando un’analisi su 203 lingue del mondo43, affermano dunque
come la causa universale potenzialmente sottesa al fenomeno delle lingue grue e dark sia da
ricondursi alla deficienza visiva dei colori blu-giallo delle comunità di parlanti esposte ad alti
dosaggi di UV-B; deficienza dovuta appunto all’inspessimento ed ingiallimento delle lenti
oculari. Tale rapporto causale risulta inoltre avallato dalla predominanza a latitudini più alte
(i.e. aree di minore insolazione di UV-B) di lingue lessicalizzanti separatamente le due
percezioni cromatiche blu e verde (dette nello studio lingue blue ed anche seguire). La teoria
riesce dunque elegantemente a rendere conto della già notata distribuzione preferenziale delle
lingue grue (o comunque non-blue) a latitudini equatoriali, e delle lingue blue a latitudini più
elevante.
Ad avvaloramento della LBH, Lindsey e Brown (2002) proposero inoltre un peculiare
esperimento di color-naming sottoposto ad un campione americano di parlanti nativi inglese.
Gli stimoli impiegati come base furono quelli del WCS, tuttavia la cromaticità di questi venne
manipolata in maniera da simulare la visione attraverso lenti oculare ispessite ed ingiallite
dall’invecchiamento. Le densità impiegate, in particolare, furono sei diverse tese a simulare
lenti oculari di parlanti europei d’età compresa tra i 25 ed i 100 anni. Il test mirava a verificare,
in condizioni standard d’esposizione, se ed a quale età d’invecchiamento la lente simulata
producesse una denominazione di stimoli blu-verdi compatibile con quella delle lingue grue.
Figura 7: (figura 4 nello studio Lindsey, Brown 2002) la riga in alto illustra alcune delle tinte di Munsell
(R: rosso; Y: giallo; G: verde; B: blu; P: viola/rosa), mentre le righe successive mostrano gli esiti del color-
naming di queste tinte in sette gruppi di locutori: A, B e C mostrano il comportamento di parlanti lingue
grue e dark; D di americani parlanti nativi inglese con simulazione di lenti invecchiate (i cui valori di
invecchiamento sono riportati nell’ultima colonna); E, F, e G di parlanti lingue blue/green. “Le linee
43Si veda che il campione valutato costituisce il solo il 2.5% lingue parlate nel mondo, e per stessa
ammissione degli autori (Lindsey e Brown) potrebbe essere viziato da un bias di sovra-
rappresentazione di lingue in via d’estinzione o parlante presso culture tradizionali.
49
diagonali scure enfatizzano la similarità tra gli spostamenti [dei limiti categoriali] dovuti
all’imbrunimento delle lenti oculari e quelli tra lingue.” (Lindsey, Brown 2002: 510; trad. mia)
b. coloro che sfruttano grue come categoria percettiva unitaria, individuandone il focus
all’interno della sua estensione e solitamente nel suo centro.
Tale variabilità nella mappatura focale stempera dunque le opposizioni di Kay e Regier,
richiedendo ulteriori studi di approfondimento.
Secondo elemento potenzialmente problematico per la LBH, contemplato dai suoi teorici,
risulta essere la variabilità dell’ispessimento ed ingiallimento delle lenti oculari tra gli individui,
44 I due ricercatori si premurarono poi di verificare attraverso opportuni calcoli se tali valori di
invecchiamento della lente oculare potessero essere effettivamente compatibili con l’ispessimento del
cristallino presente nei parlanti delle lingue grue, ne riportarono riscontri positivi.
50
correlati ai fattori variabili di esposizione agli UV-B e sensibilità agli effetti fototossici. Ne deriva
dunque che non tutti i parlanti di lingue grue siano affetti, o perlomeno non allo stesso modo,
da deficienze nella visione cromatica, e tuttavia come ciò non pregiudichi in seno alla comunità
linguistica l’uso dei cromonimi grue o dark. Per quanto bizzarro, ciò può essere spiegato
riflettendo su come la comunicazione funzioni, in quanto l’uso delle parole nella conversazione
si costituisce come cooperativo tra parlante e ascoltatore, e dunque – argomentano i ricercatori
– l’effetto linguistico grue possa prodursi anche se tale visione cromatica alterata fosse un
deficit posseduto solo da una minoranza dei suoi parlanti.
In ultimo Lindsey e Brown non escludono come altri fattori plausibili nell’esplicazione del
fenomeno grue – poi impugnati in maniera concorrenziale da altri studiosi – possano
contribuire sinergicamente allo stesso. In particolare è riconosciuto, e non sminuito, l’impatto
e l’interazione tra il fattore climatico, quello tecnologico-materiale e quello degli stili di vita
delle comunità parlanti lingue grue.
Tra le critiche di maggior spessore mosse da altri ricercatori alla validità della LBH vi è invece
quella di Hardy et al. (2010), all’interno della cui ricerca vengono condotti ulteriori ed
alternative sperimentazioni. I punti nodali delle obiezioni che tale studio avanza sono:
a. mancata sperimentazione su soggetti di diverse fasce d’età, ovvero su tester con densità
dei media oculari (ODs a seguire) variabili;
b. presenza nelle fasce equatoriali oltre che di lingue grue anche di lingue aventi categorie
composite unitarie per i primari rosso e giallo (seppur questo costituisca un fenomeno
statisticamente meno rilevante di quello grue), la cui associazione non può essere
spiegata attraverso il modello LBH;
c. esistenza di fenomeni ottici compensatori dei deficit nella percezione cromatica 45 (i cui
tempi richiesti per la manifestazione sono tuttavia ben più distesi dei tre minuti di
“adattamento” disposti nell’esperimento condotto dallo studio del 2002 di Lindsey e
Brown). Hardy et al. (2010: 322; trad. mia) affermano infatti come:
“Un adattamento cromatico a lungo termine potrebbe ampiamente compensare i
cambiamenti nella distribuzione spettrale media di luce che raggiunge la retina, dovuti
ai mutamenti della lente legati all'età. Dunque, sebbene una tale simulazione abbia
potuto efficacemente replicare la struttura delle lunghezze d’onda raggiungenti la retina
nei parlanti con differenti media oculari, è improbabile che abbia simulato
accuratamente l’esperienza percettiva di parlanti con lenti naturalmente imbrunite.”
In particolar modo i ricercatori di tale studio proposero un nuovo esperimento di color-naming
(coinvolgente i punti a. e c.) che venne sottoposto a due gruppi di americani parlanti nativi
inglese, divisi per d’età (25 e 75 anni in media), in due condizioni di cromaticità differenti. La
prima standard (sfruttando gli stessi stimoli impiegati dal WCS); la seconda simulata,
impiegando stimoli simulanti l’effetto della densità media oculare del gruppo d’età
45“L’adattamento cromatico ha l’effetto di modificare le modalità con cui il sistema visivo interpreta la
luce raggiungente ognuno dei tre tipi di fotorecettori” (Hardy et al. 2010: 322; trad. mia). Studi ulteriori
concernenti l’adattamento cromatico sono: Dorothea, Hurvich 1956; Uchikawa et al. 1989.
51
complementare (i più giovani quello dei più vecchi, e viceversa). Il test mirava a verificare, nelle
due condizioni, come una certa densità oculare media, applicata ad un parlante che ne aveva
una molto diversa, potesse influire sulla visione cromatica ed in specie su quella degli stimoli
ad onde medio-corte (ovvero quelli blu-verdi)46.
Sintetizzando dunque gli esiti dell’esperimento i due gruppi di parlanti, quello più giovane e
quello più vecchio, riportano:
a. nella condizione di cromaticità simulata (rispettivamente invecchiata e ringiovanita)
schemi di denominazione in accordo con la LBH;
Ne risulta infatti come, in condizioni di cromaticità standard, nel campione di parlanti più
vecchio non si siano registrate sostanziali differenze nella denominazione degli stimoli nell’area
blu-verde – ma anzi alta correlazione – rispetto al campione più giovane; il che equivale a dire
che l’esposizione di individui d’età variabile (e dunque con ODs differenziati) a stimoli
fisicamente identici produce esiti di denominazione simili. Dunque, seppure sussista una
proporzionalità inversa tra numero di stimoli denominati blu e lo spessore della lente, nel caso
del campione più giovane in condizioni di cromaticità simulata (invecchiata);
“Tuttavia, l'uso del termine “blu” come percentuale delle risposte totali non è stato
significativamente diverso per i soggetti più vecchi e più giovani nella condizione
standard [...] La regressione non è stata significativa.” (Hardy et al. 2010: 352; trad. mia)
Seppur dunque non si possa rifiutare l'ipotesi per cui le ODs e la decrescita dell'uso del termine
“blu” nel naturale invecchiamento oculare siano correlati da proporzionalità inversa –
correlazione che gli autori registrano come di poco conto – è tuttavia possibile negare la
presenza di una relazione degna di nota instaurantesi tra l’uso dei cromonimi blu e verde e lo
spessore dei media oculari. Quest’ultimo, si costituisce infine come elemento invalidante per la
LBH, e si traduce nell’impossibilità di spiegare il fenomeno di denominazione grue con
l’imbrunimento dei media oculari dovuto all’insolazione da raggi UV-B.
È in ultimo importante aggiungere, a scanso di equivoci, una precisazione in merito al fatto che
i parlanti più giovani possiedano all’effettivo un vantaggio su quelli più vecchi nella ricezione
oculare della luce (si stima di quarantuno volte superiore). Ciononostante, tale scarto non
influisce significativamente sul color-naming, proprio in virtù della presenza della “costanza del
colore”, un fenomeno visivo-compensativo operante sulla luce raggiungente la retina47.
D’altronde – così come notato da Hardy et al. (2010) – la stessa natura dei cromonimi come
46Si veda come, se nell’esperimento di Lindsey e Brown (2002), la base della simulazione si costituisse
come l’età d’invecchiamento della lente, nell’esperimento di Hardy et al. (2010) essi abbiano impiegato
in maniera più accurata i valori di ispessimento dei media oculari.
47Una trattazione approfondita di tale fenomeno compensatorio si trova in: Helmholtz 1962; Hering
1964.
52
strumenti linguistici funzionali e stabili all’interno di una lingua ci garantisce che la percezione
cromatica sia dotata di una certa continuità nello spazio e nel tempo. Tale continuità non può
che essere fornita dalla capacità del sistema visivo di eliminare il “rumore” causato dagli effetti
di filtraggio (non sempre efficienti) dei media oculari.
Risulta dunque come l’interpretazione ottico-fisiologica del fenomeno grue fallisca nel darne
efficacemente conto e nel fornire una causa universale di natura biologica che possa esplicare
il fenomeno.
b. l’unione in esse di percezioni cromatiche i cui punti focali, distinti appunto sul piano
della tinta, risultano spesso simili nei gradi di luminosità e di saturazione (così come
registrato da MacLaury (1997) per le categorie grue delle lingue mesoamericane).
A partire da questa considerazione è possibile individuare nell’emergere del grue nelle lingue
il frutto dell’enfasi che queste pongono – nel processo di segmentazione lessicale spettrale – sui
fattori di luce ed intensità cromatiche, a scapito del fattore della tinta. In lingue dunque dove la
tinta appare de-enfatizzata come fattore di discernimento cromatico, la somiglianza in
luminosità e saturazione di verde e blu favorisce la formazione di una categoria composita grue,
in accordo con i principi di massimizzazione lessicale e regolarizzazione spaziale indicati
dall’IDM.
Risulta inoltre interessante notare come diversamente dalla lens-brunescence hypothesis,
l’interpoint-distance model possa illuminare anche su altre categorie composite, come quelle
frutto dell’unione delle percezioni cromatiche giallo-rosso (Y-R) o giallo-verde (Y-G), entrambe
aventi distribuzione areale – seppur inferiore numericamente – simile a quella esibita da grue.
Elemento, quest’ultimo, a supporto della relazione instaurantesi tra avanzamento della
tecnologica e della cultura materiale di una comunità e la ricchezza del suo vocabolario
cromatico. Se infatti la categoria Y-G si costituisce come particolarmente difficile da inquadrare
all’interno della teoria tradizionale dei foci universali (in quanto assommante due primari
rispettivamente caldo e freddo), può essere agevolmente inquadrata dalla struttura dell’IDM.
Questo anche grazie al fatto che le categorie composte sono concepite da tale modello come
l’unione di coppie o gruppi di colori (siano essi primari o meno) sulla base di qualsiasi valore
saliente per la lingua di afferenza, e non dei soli primari psicologici come prescritto dalla teoria
dei foci universali.
53
Ne deriva come, insito al modello interpoint-distance, vi sia una valutazione neutra delle lingue
rispetto allo stato evolutivo dei loro vocabolari cromatici. Questo perché il modello ovvia alla
lettura della segmentazione spettrale dei lessici cromatici più ristretti in virtù o alla luce di
quelli più ricchi, considerati a torto “completi”. La partizione lessicale dello spazio cromatico
appare dunque realizzantesi in ogni lingua iuxta propria principia e dunque: ricettiva alle
proprie necessità socioculturali e compatibile con le esistenti strutture etnolinguistiche
(Jameson 2005: 197).
54
Conclusioni
La tendenza in alcune lingue (accomunate da un vocabolario cromatico ricco) all’iper-
segmentazione della regione del blu dello spettro risulta un’evidenza. Essa, lungi dall’essere
riconducibile unicamente o in ogni caso a ragioni locali e particolari (basate culturalmente),
mette in risalto come quest’area cromatica possieda degli attributi “speciali”. Ritengo che tale
elemento di eccezionalità sia legato a due concause di diversa natura.
La prima è legata alla storia materiale e simbolica del colore in Occidente, ma più ampiamente
nell’area di diffusione del cristianesimo, nella quale ha conosciuto l’assunzione di notevole
prestigio e peso semiotico-simbologico (i dettagli di tale promozione trovano più dettagliata
trattazione nell’Appendice).
D’altra parte vi sono invece lingue che rispetto a questa stessa regione cromatica costituiscono
modalità di lessicalizzazione in cui tale raffinamento è massimamente assente, e dove l’area non
conquista neanche un cromonimo proprio. Seppur ciò in apparenza contraddica l’ipotesi per
cui l’area blu risulti particolarmente ricettiva a raffinamenti, tale incoerenza può essere
eliminata grazie al riquadramento e alla messa in prospettiva del color-naming rispetto alla
prospettiva che più le compete: la cultura. Per quanto infine possano darsi delle similarità nel
lessico cromatico delle lingue, che si devono per necessità basare sulla comune esperienza
ambientale-cromatica e sulla medesima struttura dell’apparato visivo, il colore permane
un’esperienza sensoriale altamente condizionata dal contesto e dalla cultura della comunità di
parlanti. Tale influenza culturale-contestuale porta inevitabilmente a valorizzare certi aspetti e
de-enfatizzarne altri, in base alle necessità della lingua e ai suoi limiti. Usando le parole di
Pastoureau (2008: 202-3):
“Il colore non è una cosa in sé, ancor meno un fenomeno dipendente unicamente dalla
vista. Esso viene appreso di pari passo con altri parametri sensoriali, e perciò tinte e
sfumature non presentano caratteri essenziali.”
Dal che consegue inevitabilmente una denominazione difforme tra lingue; ciò invita alla cautela
sia gli studi comparatistici sia le operazioni di astrazione che non considerino i nomi di colore
in relazione al proprio contesto etnolinguistico.
55
APPENDICE
56
Breve storia del colore blu
A corollario degli studi esposti ed analizzati sulla lessicalizzazione della regione cromatica blu
nelle lingue, risulta interessante ripercorrere alcuni aspetti della storia di quest’ultimo48. Pur
non avendo diretta relazione con i termini di lingua, oggetto di questo lavoro, l’excursus mira
ad arricchire il lettore di alcuni degli aspetti semiotici, culturali e materiali concernenti il colore,
dai quali in grande parte dipende l’iter e la storia delle parole e dei cromonimi ad esso correlati.
La storia del colore blu si costituisce dunque – usando le parole di Pastoureau – quale “rebus
storico”, in virtù del mutamento di simbologia, valori e prestigio che esso ha registrato nei secoli
e che, da colore poco manipolato nell’antichità e finanche disprezzato in quella classica, lo ha
condotto ed essere colore apprezzato se non prediletto in sé e nelle sue ricche sfumature.
“I tre colori (rosso, nero, bianco) costituiscono tre “poli” attorno ai quali, fino in pieno
Medioevo, si sono organizzati i codici sociali e la maggior parte dei sistemi di
rappresentazione costruiti sul colore.” (16)
Dal momento che la storia delle stoffe e degli abiti intesse un rapporto privilegiato con quella
del colore50 (a lungo più rilevante ai fini della ricostruzione storica di quella del lessico, della
* L’immagine d’introduzione all’Appendice è tratta dalla tavola di destra del dittico di Wilton, opera di
un autore ignoto probabilmente commissionata da Riccardo II e databile al 1395-99 ca., l’opera è oggi
conservata alla National Gallery di Londra.
48 Il principale riferimento di questa Appendice è Blu. Storia di un colore (Pastoureau, 2008); tutte le
citazioni, ove non ulteriormente specificato si riferiscono a questo volume, del quale la pagina di
riferimento è segnalata tra parentesi.
49 Si veda come emerge da tale terna l’enfasi posta su dimensioni di luce e saturazione rispetto alla tinta.
50 “L’universo del tessuto è quello che mescola più strettamente i problemi materiali, tecnici, economici,
sociali, ideologici, estetici e simbolici. Vi si ritrovano riassunte tutte le questioni del colore: chimica dei
coloranti, tecnica delle tinture, attività di scambio, interessi commerciali, vincoli finanziari,
classificazioni sociali, rappresentazioni ideologiche, preoccupazioni estetiche.” (Pastoureau 2008: 14-
15).
57
tintura e della chimica), è interessante notare come a lungo il colore dei tessili tinti si sia limitato
al rosso e all’ocra51.
Seppur altri colori – come verdi, gialli e colori terrosi – non rientrino in tale terna, questi
sembrano comunque possedere nella preistoria una certa rilevanza (si vedano le pitture
rupestri), forse anche legata alla copiosa distribuzione di tali colori nell’ambiente visivo. Tra i
colori, il blu rimane invece, volendo usare le parole di Ronga, un “grande escluso”, tanto che si
potrebbe azzardare a descriverlo come colore non primitivo in quanto a lungo assente dai
sistemi di valori e dalla cultura materiale degli esseri umani. Una tale marginalità, che è
probabilmente la causa dello scarso interesse che per esso mostrano a lungo i premoderni in
Occidente, si deve ad una produzione come pigmento tintorio e ad una manipolazione tarde,
oltre che forse – anche se i due elementi non sono sempre scindibili – da una dimensione
simbolica troppo fragile per stimolarne l’interesse materiale (13-4).
In età storica invece le sorti del colore blu tendono a diversificarsi, ed esso acquisisce presso
alcuni popoli rilevanza e prestigio; ad ogni modo spesso si tratta di comunità situate in aree di
reperibilità delle materie prime dai quali il colore può essere prodotto. Le materie
primariamente impiegate nella produzione dei pigmenti blu, utili a tingere stoffe ed oggetti, si
presentano prevalentemente di natura vegetale o minerale. Tra le prime vanno annoverate
specialmente le piante dalle cui foglie è possibile estrarre il colorante blu detto indigotina:
• Isatis tinctoria, detta comunemente guado (e pastello la sua lavorazione), pianta erbacea
della specie delle crocifere che cresce su terreni umidi e argillosi ed è autoctona delle
aree temperate dell’Europa (da cui l’uso presso le popolazioni germaniche documentato
dalla latinità classica). A partire dal XIII secolo, la nuova popolarità del colore blu rese il
pastello un “oro blu” favorendone produzione e commercializzazione.
• Indigo tinctoria, detta comunemente indaco, arbusto della specie delle indigofere
autoctono dell’India (da cui il nome greco indikon e quello latino indacum), Medio
Oriente, Africa e Antille, il cui principio colorante risulta più forte di quello del guado e
più stabile le tinture da esso derivate. La tintura ad indaco è nota sin dalla preistoria
nelle regioni in cui la pianta cresce e il suo commercio è fiorente da tempi precristiani. Il
suo costo in Occidente, dato da una produzione complessa e dal trasporto da aree
remote, risulta piuttosto elevato ed è per questo talvolta limitato alle stoffe più nobili.
Curioso è il fatto che giungendo in Europa in blocchi duri di polveri essiccate, si diffuse
e a lungo permase la credenza (attiva fino al XVI, secolo della sua scoperta nelle
Americhe) che si trattasse di una pietra semipreziosa simile ai lapislazzuli o,
alternativamente, di un limo.
58
Tra le materie minerali si vedano invece:
• lapislazzuli, pietra semipreziosa molto dura di un blu intenso, spesso venata di bianco e
giallo (venature dovute a pirite di ferro, il cosiddetto “oro degli stolti” scambiate appunto
per oro, elemento che contribuiva a prestigio e prezzo elevati), i cui rifornimenti
principali in età pre-moderna furono le miniere afgane e iraniane. La distanza, la
difficoltà d’estrazione e l’eliminazione delle impurità (che intaccano il pigmento blu) ne
fecero una materia molto costosa in Occidente. Il colore estratto, detto nel Medioevo e
Rinascimento blu d’oltremare (sintetizzato artificialmente solo nel XIX secolo) produce
toni blu intensi e vari il cui potere coprente risulta tuttavia debole, ciò ne fa un colore
impiegato per miniature, dettagli o piccole superfici.
Gli Egizi, sono appunto uno di quei popoli antichi presso cui il blu e le sue sfumature assumono
un ruolo di prim’ordine nella simbologia. Esso si costituisce infatti come colore benefico e dal
valore di amuleto per i defunti contro i mali dell’aldilà; fu dunque spesso impiegato nei corredi
funebri nella forma di monili composti da piccole sfere dalla tinta quasi turchese. Tale prestigio
associato al blu si riflette od è riflesso in una sapiente manipolazione della materia prima nella
59
produzione del colore52, il cui abile padroneggiamento permetteva la fabbricazione di oggetti
aventi le più svariare sfumature all’interno della tinta blu.
Figura 9: ippopotamo blu in azzurrite (soprannominato William) degli inizi della XII dinastia (ca. 1981-
1885 a.C.) oggi conservato al Metropolitan Museum of Art di New York. “Gli ippopotami venivano
considerati creature pericolose, sia nella vita di tutti i giorni che nella mitologia, perché si diceva
potessero turbare il viaggio del defunto nell’aldilà. Statuette come quella del Metropolitan avevano le
gambe rotte (quelle di William sono state riparate in seguito); venivano mutilate apposta e poi infilate
nelle tombe come talismani, in modo da proteggere i defunti nei loro viaggi futuri.” (Clair, 2018: 258).
Tutt’altro valore assume invece il colore nell’antichità classica, anche se vi permane un qualche
legame con l’ultraterreno (associazione che tuttavia possiede altra derivazione da quella
egizia). Per Greci e Romani il blu è colore sostanzialmente riducibile ad uso secondario e
marginale, non di rado associato all’estraneo e al barbarico. Quest’ultima relazione sembra
derivare dall’uso riscontrato dai Romani presso Celti e Germani (viventi in aree dove per
l’appunto cresce autoctono il guado) di tingersi il corpo di blu53 prima della battaglia e
tatuarsene il corpo, il che ne favorisce, nella vista a distanza prima del combattimento,
l’associazione a spettri (29). A ulteriore testimonianza del marchio d’infamia, Plinio racconta
come il blu sia il colore di cui si tingono certe donne prima di partecipare a rituali orgiastici. Per
ciò che concerne invece il vestiario in Roma, il blu è considerato eccentrico e non è benvisto,
mentre tratti fisiognomici blu come gli occhi azzurri sono considerati difettosi: esso è un tratto
effemminato per gli uomini e disonesto per le donne (29). Interessante è inoltre come neanche
elementi quali la luce o il mare siano descritti nella classicità come blu: la prima è infatti per i
Romani rossa e il secondo è qualificato in Omero con il colore impiegato per il vino. Il disvalore
52 Per ciò che è stato possibile dedurre dai manufatti (in quanto non ci sono giunte ricette), gli egizi
impiegavano nella produzione dell’azzurrite: gesso o calcare, sabbia e minerali contenenti rame, i quali
venivano in primo luogo cotti insieme ad altissime temperature. La pasta risultante una volta
raffreddata veniva frantumata (si veda che la dimensione della grana è uno dei fattori che più
influenzano il colore risultante) e cotta per una seconda volta a temperatura variabile.
53 Simili resoconti si trovano nel De bello gallico cesariano e nel De origine et situ Germanorum tacitiano.
60
che il colore possiede presso le due culture non previene tuttavia queste dal conoscere le
materie coloranti e i pigmenti dai quali è derivato, e distinguerli; anche se non di rado sorgono,
come nel caso dell’indaco, alcune interessanti convinzioni.
Tale disvalore del colore blu si riflette in maniera molto significativa sui lessici cromatici del
greco e del latino, nei quali può essere osservata la mancanza di un termine specifico che solo
ad esso o alle sue sfumature possa riferirsi. Evidenza che ha portato alcuni studiosi54 a
elaborare la cosiddetta blue-blindness degli antichi, ovvero una deficienza visiva nei confronti
del colore blu; teoria del tutto screditata a seguire55.
“Questa imprecisione e questa instabilità del lessico del blu sono in realtà il riflesso dello
scarso interesse che gli autori romani e poi quelli del primo Medioevo nutrivano per questo
colore. Il che favorirà in seguito l’introduzione di due parole nuove nel lessico latino
designanti il blu, l’una venuta dalle lingue germaniche (blavus), l’altra dall’arabo
(azureus). Sono tali parole che finiscono col prendere il sopravvento sulle altre e
coll’imporsi nelle lingue romanze.” (28)
L’alto Medioevo ricalca dunque la gerarchia cromatica latina, testimoniata dall’esclusione del
colore da antroponimia, toponimia, liturgia, stemmatica e simbologia, al contrario invece del
bianco, del rosso e del nero. Tale esclusione concerne sia la sfera temporale che quella
spirituale. Nella prima, nonostante esso permanga, a causa del retaggio germanico, un colore
rilevante nel mondo merovingio, viene cancellato dai carolingi i quali assumono come colore
identitario il purpureo latino, in segno di prestigio e continuità imperiale. Nella sfera spirituale
invece, nonostante il blu possieda un rapporto privilegiato con la volta celeste, esso stenta ad
imporsi nei codici simbolici e permarrà escluso dai colori liturgici. Anche nella sfera del
costume, il blu sembra rappresentare un colore perlopiù contadino nelle sue tinte tendenti al
giallo o al grigio tendenzialmente desaturate56. Nell’arte e nell’iconografia altomedievale,
di un colore nel valutarlo, ma tra queste predilige l’intensità e la densità (tanto che colori similmente
saturi ma di due tinte diverse sono spesso considerati più simili che due colori della stessa tinta ma di
61
eccezion fatta per il mosaico e per le miniature carolingie, il blu è impiegato con parsimonia e
in posizione subordinata, quasi sempre sfruttandone le tonalità più cupe.
Tale tendenza andrà tuttavia invertendosi verso il Mille, accordando al blu e anche alle sue
sfumature più chiare una nuova importanza, in quanto assumenti il carattere di metafora di
luce divina insieme all’oro – posizione abbracciata dalla frangia maggioritaria di prelati e
teologi cromofili, sostenitori della natura del colore come luce 57. Importante testimone dei
primi passi in tale promozione sono le pitture mariane e le vetrate delle cattedrali gotiche.
Figura 10 (sx): dettaglio raffigurante Madonna con bambino nella Maestà del duomo di Massa Marittima
attribuita a Duccio Di Buoninsegna e datata al 1316, situata nella cappella terminale di sinistra della
Cattedrale di San Cerbone (Massa Marittima). Figura 11 (dx): dettaglio raffigurante la Vergine nel
intensità dissimili). Colori saturi, densi e profondi sono di norma i più apprezzati, prestigiosi e lussuosi,
spesso appannaggio (anche in virtù del costo di simili tinture) delle classi nobili ed aristocratiche.
57 In seno all’élite ecclesiastica dotta si sviluppa a partire dall’alto Medioevo un acceso dibattito intorno
alla natura del colore. Coloro che Pastoureau (41) battezza come prelati “cromofili” concepiscono il
colore come partecipante della luce, mentre viene relegato a materia e dunque vanitas da quelli
“cromofobi”. Tale disputa, apparentemente di poco conto, ebbe invece rilevanza nell’iconografia sacra,
in quanto prodotta in quel periodo su commissione di alcuni alti prelati, che potevano quindi
commissionare alternativamente opere di sobria acromia oppure cromaticamente ricche a celebrazione
divina.
62
Polittico di Gand opera di Jan van Eyck datata al 1432-62, conservata nella cattedrale di San Bavone a
Gand.
La svolta o “rivoluzione” del blu si realizza dunque dopo il Mille e specialmente dopo il XIII
secolo, nel quale il colore assume nuovo prestigio, valore simbolico, economico, e nondimeno
sociale. Tale valorizzazione si consuma a partire dall’arte sacra (la quale funzionerà poi da
primo motore alla promozione) grazie all’assunzione del blu a colore mariano, ovvero delle
vesti della Madonna. Seppur infatti non si fosse selezionato nei secoli alcun colore specifico per
la Vergine, i suoi abiti riflettevano nelle cromie il lutto, preferendo dunque tonalità cupe. Al
contrario di ciò che ci si potrebbe attendere, tuttavia, la Vergini dei dipinti medievali e
rinascimentali, non portano mantelli di blu profondi e cupi, ma di blu intensi e ricchi (resa per
la quale venne impiegato spesso, anche in virtù del suo valore, il blu d’oltremare).
“Lo straordinario sviluppo del culto mariano assicura la promozione di questo nuovo blu e
lo estende rapidamente a tutti i campi della creazione artistica.” (59)
Parallelamente il blu, associato ad una “nuova concezione della luce”, esplode nel trionfo del
gotico nelle vetrate delle sue cattedrali, tanto che alcune delle sue sfumature iniziano ad essere
associate ai nomi di alcune di esse (vd. “blu di Saint-Denis”, “blu di Chartres” etc.) (59). Tale
promozione innesca inevitabilmente una risistemazione e ri-negoziazione dei codici cromatici,
facendo del blu un opponente del rosso, col quale si contenderà il ruolo di colore di maggior
prestigio; ma anche del nero, colore con il quale il blu è stato per secoli assimilato, avendo
finalmente ora la forza di emanciparsene.
Figura 12: dettagli delle vetrate della Cattedrale Notre-Dame di Chartres; raffiguranti a sinistra
l’Annunciazione, e a destra San Martino che divide il proprio mantello con un povero.
A seguire, anche il costume e l’araldica vengono conquistati dal blu, e così come nobili e re
iniziano a vestire il colore, esso compare negli stemmi delle casate reali ed aristocratiche.
63
“Nel campo specifico dell’araldica la nuova popolarità del colore blu beneficia dei servigi
di un testimonial degno di nota, che riveste un ruolo paragonabile a quello della Vergine
nelle immagini: il re di Francia.” (67).
Si tratta dello scudo d’azur semé de fleurs de lis d’or ovvero “azzurro seminato con fiori di giglio
d'oro” di cui il re capetingio si dota alla fine del XII secolo circa. Il colore blu in esso – simbolo
della protezione e della devozione alla Vergine – in principio colore dinastico capetingio (da cui
la denominazione di blu reale), diviene presto, grazie al prestigio del regno di Francia,
presentissimo nell’araldica degli altri regni cristiani medievali. Risulta interessante notare
come nel campo dell’araldica, come in quelli del costume e dell’arte, la promozione del blu si
realizza spesso a scapito del colore rosso, prima dominante.
Alla fine del Medioevo il blu conquista dunque attributi di prestigio e nobiltà, in netto contrasto
e tendenza alla marginalità riservatagli agli inizi dello stesso. È bene tuttavia precisare come
tale ri-valorizzazione si inscriva in un più generale processo di dissoluzione del sistema
cromatico tripartito, non più sufficiente, a favore di un sistema a sei colori capace di esprimere
sistemi simbolici più complessi. Il rosso, già dotato di due contrari (bianco e nero), entra
dunque in un’altra coppia opponente col blu. Con le parole di Pastoureau (86):
“…la promozione del blu fra il XII e il XIV secolo è l’espressione di cambiamenti importanti
nell’ordine sociale, nei sistemi di pensiero e nelle modalità di percezione. La sorte toccata
al blu infatti non è affatto isolata, ma rappresenta la parte più visibile di un profondo
sconvolgimento che riguarda l’insieme dei colori e delle relazioni fra questi. A un ordine
antico, che risaliva a epoche molto lontane, forse alla protostoria, si sostituisce un nuovo
ordine dei colori.”
Se il Medioevo vede la concorrenza tra blu e rosso, gli inizi della età moderna sono testimoni di
una nuova fase del blu nella quale questo concorre con il nero, assumendone – specie grazie
58Pastoureau (2008: 70-1) racconta come “In Turingia, i primi [tintori di rosso] arrivano a chiedere ai
maestri vetrai di rappresentare i diavoli in blu sulle vetrate delle chiese per screditare la nuova moda
[del blu]. Più a nord, a Magdeburgo, capitale del commercio della garanza per tutta la Germania e paesi
slavi, è l’inferno stesso che, come luogo di more e di dolore, viene rappresentato in blu sulle pitture
murali per screditare il colore rivale.”
64
alla corrente moralizzatrice tardo-medievale prima, e la Riforma protestante poi – alcuni dei
tratti morali. A partire dal XIV secolo, infatti, il colore nero assume una certa rilevanza specie
nell’abbigliamento, frutto della disponibilità di tonalità più dense e brillanti rese possibili dal
progresso della tintoria. Tuttavia il “secolo nero” è più propriamente il XV, secolo nel quale il
colore si carica, di contro al rosso, di un forte significato morale, promozione della quale si
gioverà in parte anche il blu (in principio concepito appunto come sfumatura del nero).
“…il blu è totalmente assente dal sistema dei colori liturgici costituitosi durante l’alto
Medioevo e poi codificato fra il XII e il XIII secolo. Tale assenza spiega forse perché la
Riforma resterà sempre benevola nei confronti del blu, all’interno del tempio come
all’esterno, negli usi antichi e sociali del colore come nei suoi usi religiosi.”
Si rilevi inoltre come “La cromofobia artistica della Riforma non è nuova ma riveste un ruolo
essenziale nell’evoluzione della sensibilità occidentale ai colori.” (124), preparando una nuova
fase di sensibilità cromatica affinata e portata ad un nuovo livello nel XVIII, secolo “scientifico”
di luce e colore, grazie al contributo (non isolato) degli studi ottici di Newton. Questi ultimi
pongono in una nuova prospettiva i colori, tra i quali il rosso, il giallo ed il blu conquistano il
ruolo di primari, mentre il bianco ed il nero vengono espunti in quanto sensazioni acromatiche.
Tale nuovo ordine consuma una definitiva elezione del blu e un declassamento di un altro colore
prima rilevante: il verde.
Alla fine dell’età moderna dunque il blu con i suoi attributi di reale, mariano e morale registra
un definito progresso sul rosso, preparato dai fattori precedentemente analizzati a cui si
devono sommare altri fattori emergenti nel XVIII secolo.
59 Tali leggi, concernenti come suggerisce il nome, il lusso, furono pensate nell’ambito dei colori del
vestiario in primo luogo per ridurre le spese legate all’acquisto delle costosissime stoffe colorate e
conseguentemente per controllare l’innalzamento dei prezzi e salvaguardare produzione e commercio
locali delle materie prime per la tintoria. In secondo luogo, ma non meno rilevante, la loro funzione era
moralizzatrice e di “segregazione” di classe: a determinati mestieri, e talvolta etnie disprezzate erano
infatti affidate colori d’abito specifici come marchio d’infamia; pratica d’altronde non originale del
mondo medievale (104).
60 A protezione della produzione di guado locale, specie nei territori in cui tale coltura costituiva una
fetta importante dell’economia, produttori e commercianti spinsero governi e stati nell’attuazione di
misure protezionistiche consistenti nella stretta regolamentazione e finanche proibizione dell’uso
65
produzione europea. Si registra infatti come, dopo lunga una concorrenza in Occidente,
a seguito della sua scoperta e coltivazione a manodopera schiavile nelle Antille, l’indaco
riesca ad imporsi sul pastello nella produzione di indumenti colorati e in pittura.
Da sommare a questi due fattori è la rinnovata simbologia di cui il colore blu venne caricato
nell’età dei Lumi e specie nel Romanticismo, nel quale anche le tinte meno sature e più chiare
cominciarono a spiccare nell’abbigliamento aristocratico (mentre erano prima relegate
all’abbigliamento degli umili). Specchio dell’arricchimento tonale e della nuova rilevanza
simbolica è l’affinamento del lessico cromatico blu nelle lingue europee, con frequenti casi di
ri-semantizzazione nel senso della specializzazione di alcuni cromonimi dal riferimento prima
più vago.
“Questo modo di vestire segna una rottura con gli usi anteriori ed è inoltre confermato, o
addirittura promosso, da un aumento importante del lessico del blu in parecchie lingue.
Mentre questo lessico restava relativamente povero nella gamma dei blu chiari, si
diversificava considerevolmente verso la metà del XVIII secolo, come mostrano i dizionari,
le enciclopedie e i manuali di tintoria.” (161)
Simbolo della passione romantica per il colore blu è il celebre abito del Werther di Goethe – da
cui il blu “alla Werther” – che rafforzò la moda già presente nelle Germania di quegli anni,
esportandola in tutta Europa e compartecipando all’attribuzione al colore di nuove virtù e ad
una nuova devozione nei suoi confronti (165).
“Dovunque il blu fu aureolato di tutte le virtù poetiche. Esso divenne o ridivenne il colore
dell’amore, della malinconia e del sogno; com’era più o meno nella poesia medievale; in cui
il gioco di parole fra ancolie (aquilegia, pianta erbacea con fiori di forma caratteristica, di
colore azzurro) e mélancolie esisteva già. Inoltre, il blu dei poeti si congiungeva con il blu
delle espressioni e dei proverbi che, già da un pezzo, definivano «racconti blu» le chimere o
le favole e, «uccello blu» l’essere ideale, raro e inaccessibile.” (165)
dell’indaco. L’impatto di tali misure non fu tuttavia determinante se non sul breve termine. “La questione
è chiusa: malgrado la severa politica protezionistica e la demonizzazione del prodotto esotico – definito
via via «nocivo, doloso, falso, pernicioso, corrosivo, poco sicuro» – il pastello europeo cederà a poco a
poco il posto all’indaco americano nel laboratorio dei tintori.” (154).
66
Nel sistema teorizzato da Goethe nel suo celebre trattato sui colori Zur Farbenlehre61, blu e
giallo costituiscono i due poli essenziali, in particolare il blu tra di essi è “sempre considerato
buono, rappresenta il polo positivo (colore attivo, caldo, luminoso).” (164) a ricalcare la
convinzione già medievale che il blu fosse il più caldo dei colori 62. Si veda infatti come
l’associazione del blu alla dimensione fredda e acquorea sia frutto della sensibilità moderna;
tale mutamento di segno si realizza a partire dal XVII secolo ca., passaggio probabilmente
favorito appunto dall’associazione con l’acqua (elemento che nel Medioevo è invece spesso
associato al verde o ad altri colori).
Il blu dunque “ha attraversato i decenni ma alla lunga ha conosciuto travisamenti, deviazioni e
trasformazioni.” (165), che lo hanno condotto ad essere colore associato a sensazioni di segno
duplice: di pace e tranquillità da una parte e di nostalgia e malinconia dall’altra. Questi ultimi
stati d’animo in specie sono quelli maggiormente stimolati nelle espressioni idiomatiche delle
lingue occidentali includenti il blu.
“Quindi il blu cominciò a diventare, accanto al tricolore, il colore emblematico di tutti quelli
che aderivano alle idee della Rivoluzione in marcia. Si contrapponeva al bianco (colore del
re) e al nero (colore del clero e della casa d’Austria) sfoggiati dai controrivoluzionari”
(184)
Interessante risulta notare come nei decenni, da rappresentativo degli ideali rivoluzionari e più
progressisti, il colore blu tenda a declinarsi a colore moderato e finanche conservatore (seppur
sempre nell’ambito repubblicano); slittamento che si realizza con l’avvento del rosso socialista,
a sua volta assumente carattere rivoluzionario. Si ebbe dunque in Francia come in Europa una
nuova contrapposizione tra blu e rosso, seppur in tutt’alti termini di quelli precedentemente
analizzati.
“[il blu] fu dapprima il colore dei partiti repubblicani progressisti, poi dei centristi o dei
moderati, infine dei conservatori. Alla sua sinistra gli vennero contrapposti il rosa
61 vd. Johann W. von Goethe (1810), Zur Farbenlehre, Tubinga (1a ed.); trad. it. La teoria dei colori, Milano,
Il Saggiatore, 2014.
62Si veda che la nozione di calore cromatico risulta essere, al contrario di quanto potremmo attenderci,
variabile e contestuale nei secoli.
63Per approfondire la storia del tricolore francese, ancora oggi in parte oscura si veda: Michel
Pastoureau (1997), Les Emblèmes de la France, Chamalières, Éditions Bonneton.
67
socialista e il rosso comunista; alla sua destra, il nero, il bruno o il bianco dei partiti
clericali, fascisti o monarchici. […] Nella nascita dei colori politici moderni il ruolo della
Rivoluzione francese è stato dunque essenziale.” (185)
Dopo il trionfo del blu nell’Illuminismo e nel Romanticismo, il XIX secolo è un altro secolo dove
impera il nero. Il XX vede invece una nuova diversificazione cromatica nel vestiario, che porta
alla ribalta a partire dagli anni ’20 il bleu marine, colore scuro che prende a sostituire il nero
nelle uniformi dei lavoratori, conquistando poi anche gli abiti civili e specialmente alcuni capi;
si prenda ad esempio il blazer che secondo Pastoureau “fu e resta il segno più potente di questa
rivoluzione che senza dubbio, rimarrà come uno dei grandi eventi cromatici del XX secolo: la
trasformazione del nero nel blu scuro.” (190). Capo altrettanto rilevante nella definitiva
conquista del blu del titolo di colore più portato in Occidente sono i jeans, i quali cominciando
ad essere preferenzialmente tinti d’indaco divengono blue jeans nel 1920, conquistando, da
indumento da lavoro quale era in principio, il ruolo di capo del tempo libero, funzionale,
comodo e dopo la seconda guerra, internazionale.
“Nel XX secolo il blu è il colore più portato nell’abbigliamento occidentale. Tale preferenza, più
intellettuale o simbolica che strettamente materiale, ha radici antiche.” (197), oltre a ciò
sondaggi lo aggiudicano come colore preferito dalla popolazione adulta in occidente. Nel
ricercare la ragione di questa elezione, è facile ricondurre tale preferenza ai portati evocativi e
rassicuranti che il colore reca con sé come retaggio romantico-medievale; ma soprattutto deve
connettersi alla sua mancanza di una forte connotazione ideologico-simbolica. Secondo
Pastoureau il blu risulta alla fine della sua storia colore eletto, paradossalmente, perché meno
sgradito e meno connotato:
“È questa una delle caratteristiche essenziali del blu nel simbolismo occidentale: non fa scandalo,
è calmo, pacifico, distante, quasi neutro […] Il blu non aggredisce, non trasgredisce nulla,
rassicura e riunisce […] Il blu è diventato il più pacifico, il più neutro di tutti i colori. Persino il
bianco sembra possedere una forza simbolica più grande, più precisa, più orientata.” (215)
68
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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CITATE
In testo sono citati numerosi articoli e libri che, pur non comparendo nella bibliografia delle
opere consultate, concorrono a fornire un quadro completo e più ricco della materia trattata; di
seguito l’elenco di tali opere suddivise per i capitoli in cui sono state citate.
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