it
Titolo originale
The Body Keeps the Score
© 2014 Bessel van der Kolk. All rights reserved, including the right
of reproduction in whole or in part in any form.
This edition published by arrangement with Viking, a member
of Penguin Group (USA) LLC, A Penguin Random House Company
Traduzione
Sara Francavilla e Maria Silvana Patti
Copertina
Studio CReE
© 2015 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 2015
Indice
Parte prima
La riscoperta del trauma
1. Lezioni dai veterani del Vietnam
2. La rivoluzione nella comprensione della mente e del cervello
3. Scrutare il cervello. La rivoluzione delle neuroscienze
Parte seconda
Il cervello traumatizzato
4. Lottare per la propria vita. Anatomia della sopravvivenza
5. Connessioni corpo-cervello
6. Perdere il corpo, perdere se stessi
Parte terza
La mente dei bambini
7. Sulla stessa lunghezza d’onda. Attaccamento e sintonizzazione
8. Intrappolati nella relazione. Il costo dell’abuso e della trascuratezza
9. Cosa c’entra l’amore con tutto questo?
10. Il trauma in età evolutiva. L’epidemia nascosta
Parte quarta
L’impronta del trauma
11. Svelare i segreti. Le “falle” della memoria traumatica
12. L’insostenibile pesantezza del ricordare
Parte quinta
Percorsi di cura
13. Guarire dal trauma. Appropriarsi di sé
14. La parola. Miracolo e tirannia
15. Lasciare andare il passato. EMDR
16. Imparare ad abitare il proprio corpo. La pratica yoga
17. Mettere insieme i pezzi. Self-leadership
18. Colmare il vuoto. Creare le strutture
19. Ricablare il cervello. Neurofeedback
20. Alla scoperta della propria voce. Ritmi condivisi e teatro
Affrontare il trauma
1. V. Felitti, R.F. Anda, D.D. Nordenberg, F. Williamson, A.M. Spitz, V. Edwards, M.P. Koss, J.S.
Marks (1998), “Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the leading
causes of death in adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in American Journal
of Preventive Medicine, 14, 4, pp. 245-258.
2. Si è scelto di lasciare in lingua originale il termine inglese, che in italiano corrisponde a “estrema
trascuratezza” (espressione che sarà utilizzata in alternativa in questo volume), perché è ormai
entrato nella terminologia psicotraumatologica. [NdC]
Parte prima
Sono diventato la persona che sono oggi all’età di dodici anni, in una
gelida giornata invernale del 1975… è stato tanto tempo fa. Ma non è
vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato… Sono ventisei
anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo
conto.
KHALED HOSSEINI, Il cacciatore di aquiloni
Il martedì dopo il week-end del 4 luglio del 1978 è stato il mio primo
giorno da psichiatra presso la Boston Veterans Administration Clinic.2
Stavo appendendo una riproduzione del mio dipinto preferito di Bruegel,
La parabola dei ciechi, sulla parete del mio nuovo uf cio, quando sentii
una certa agitazione nella zona accettazione, in fondo al corridoio. Un
attimo dopo, un uomo imponente, scarmigliato, con un completo a tre
pezzi macchiato e con una copia della rivista Soldier of Fortune sotto il
braccio, si palesò improvvisamente alla mia porta. Era così agitato e con
dei chiari segnali post sbornia, che mi chiesi in che modo potessi
realmente essere d’aiuto a quest’individuo grande e goffo. Lo invitai a
sedersi e a dirmi cosa potessi fare per lui.
Si chiamava Tom. Dieci anni prima era stato nei marines, prestando
servizio in Vietnam. Aveva trascorso il weekend festivo rintanato nel suo
studio legale in centro a Boston, bevendo e guardando vecchie fotogra e,
invece di starsene con la sua famiglia. Sapeva, dagli anni precedenti, che il
rumore, i fuochi d’arti cio, il caldo, il picnic nel cortile di sua sorella con
lo sfondo del tto fogliame di inizio estate, tutto di ciò che gli ricordava il
Vietnam, lo avrebbe fatto impazzire. Quando cominciava a sentirsi agitato
aveva paura di stare con la sua famiglia, perché si comportava come un
mostro sia con la moglie sia con i due ragazzini. Il vociare dei suoi gli lo
angosciava così tanto, da dover uscire di casa infuriato per trattenersi dal
fare loro del male. Soltanto bere no all’oblio o guidare la sua Harley-
Davidson a una velocità pericolosamente elevata lo aiutavano a calmarsi.
La notte non gli dava sollievo: il suo sonno era costantemente interrotto
da incubi, riguardanti un agguato in una risaia in Vietnam, a seguito del
quale tutti i membri del suo plotone erano stati feriti o uccisi. Aveva,
inoltre, terribili ashback, in cui vedeva bambini vietnamiti morti. Gli
incubi erano così angoscianti che aveva il terrore di addormentarsi e, così,
rimaneva spesso sveglio per il resto della notte, a bere. Al mattino, la
moglie lo trovava svenuto sul divano del salotto ed era costretta a
camminare in punta di piedi intorno a lui, per poter raggiungere la cucina
e preparare la colazione, prima di portare a scuola i ragazzi.
Addentrandoci nei particolari della sua storia, Tom mi raccontò di
essersi diplomato nel 1965 e di essere stato lo studente incaricato di
pronunciare il discorso di commiato alla cerimonia di chiusura dell’anno
scolastico. In linea con le tradizioni militari della sua famiglia, si era
arruolato nel Corpo dei marines immediatamente dopo il diploma. Suo
padre aveva prestato servizio nell’esercito del generale Patton, durante la
Seconda guerra mondiale, e Tom non aveva mai messo in discussione le
aspettative del padre. Atletico, intelligente e palesemente un leader, Tom
si sentiva potente ed ef cace dopo aver nito l’addestramento di base, il
membro perfetto di una squadra preparata ad affrontare pressoché tutto.
In Vietnam divenne rapidamente un comandante di plotone, a capo di
altri otto marines. Sopravvivere arrancando nel fango, mentre si viene
bersagliati dal fuoco della mitragliatrice, può far sentire piuttosto
soddisfatti di sé e dei propri commilitoni.
Alla ne del suo turno di servizio, Tom fu congedato con onore e tutto
ciò che desiderava era lasciarsi il Vietnam alle spalle. Apparentemente, fu
esattamente ciò che fece. Frequentò il college sulla base del GI Bill,3 si
laureò in Giurisprudenza, si sposò con la sua ragazza dei tempi della
scuola superiore ed ebbe due gli. Tom era tormentato dalla dif coltà di
provare un affetto reale nei confronti di sua moglie, anche se le sue lettere
lo avevano tenuto in vita nella follia della giungla. Tom faceva nta di
vivere una vita normale, sperando che, in questo modo, avrebbe potuto
imparare a ridiventare quello di prima. Ora aveva un orente studio legale
e un quadro familiare perfetto, ma sentiva di non essere normale, si
sentiva morto dentro.
Sebbene Tom – professionalmente parlando – fosse il primo veterano
che avessi mai incontrato, alcuni aspetti della sua storia mi erano familiari.
Sono cresciuto nell’Olanda del dopoguerra, giocavo in mezzo a palazzi
bombardati e sono glio di un uomo che fu un così fermo oppositore dei
nazisti, da essere stato mandato in un campo di concentramento. Mio
padre non ci aveva mai parlato delle sue esperienze di guerra, ma era
incline a scoppi di rabbia improvvisi che, da bambino, mi lasciavano
attonito. Come poteva l’uomo che sentivo scendere le scale in modo
pacato, per pregare e leggere la Bibbia, mentre il resto della famiglia
dormiva, avere un carattere così terri cante? Come poteva qualcuno, la
cui vita era stata così devota al perseguimento della giustizia sociale, essere
così pieno di rabbia? Avevo assistito allo stesso comportamento
sconcertante di mio zio, che era stato catturato dai giapponesi nelle Indie
tedesche orientali (l’odierna Indonesia) e mandato come bracciante
schiavo in Birmania, dove aveva lavorato sul famoso ponte sul ume Kwai.
Anch’egli menzionava raramente la guerra e anch’egli era spesso soggetto
a scoppi d’ira incontrollabili.
Mentre ascoltavo Tom, mi chiedevo se mio zio e mio padre avessero
avuto incubi o ashback, se anch’essi si fossero sentiti disconnessi dai loro
congiunti e incapaci di trovare alcun piacere reale nella loro vita. Da
qualche parte, nel retro della mia mente, ci devono essere stati dei ricordi
di mia madre spaventata e, spesso, spaventante, il cui trauma della propria
infanzia era talvolta accennato e, ora credo, frequentemente rimesso in
atto. Aveva la snervante abitudine di svenire quando le chiedevo come
fosse la sua vita da bambina, attribuendomi poi la colpa di averla fatta
sentire così angosciata.
Rassicurato dal mio evidente interesse, Tom si decise a dirmi quanto
fosse spaventato e confuso. Aveva paura di stare per diventare esattamente
come suo padre, che era sempre arrabbiato e che raramente parlava con i
suoi bambini, tranne che per fare confronti in negativo con i suoi
commilitoni, che avevano perso la vita nel Natale del 1944, durante
l’Offensiva delle Ardenne.4
Poiché la seduta si avviava alla conclusione, feci quello che i dottori
fanno usualmente: mi focalizzai su quella parte della storia di Tom che
pensavo di aver compreso: i suoi incubi. Da studente di medicina, avevo
lavorato in un laboratorio del sonno, osservando i cicli di sonno/sogno
delle persone, e avevo assistito alla stesura di diversi articoli sugli incubi.
Avevo, altresì, partecipato ad alcune prime ricerche sugli effetti bene ci di
sostanze psicoattive, che cominciavano a essere usate proprio negli anni
Settanta. Così, pur non avendo un’idea precisa della portata dei problemi
di Tom, gli incubi erano qualcosa a cui potevo collegarmi e, da sostenitore
entusiasta di una vita migliore grazie alla chimica, gli prescrissi un farmaco
che avevo trovato essere ef cace nel ridurre l’incidenza e la gravità degli
incubi. Presi appuntamento con Tom per una visita di follow-up due
settimane dopo.
Quando ritornò per il suo appuntamento, gli chiesi impazientemente se
le medicine avessero funzionato. Mi disse che non aveva preso alcuna
pillola. Cercando di nascondere la mia irritazione, gli domandai il perché.
“Ho pensato che, se grazie alle pillole, i miei incubi fossero scomparsi”,
rispose, “avrei abbandonato i miei amici e le loro morti sarebbero state
inutili. Ho bisogno di essere il testimone vivente dei miei amici, morti in
Vietnam”.
Ero sbalordito: la lealtà di Tom alla morte dei suoi amici gli impediva di
vivere la propria vita, proprio come era successo a suo padre.
Le esperienze del padre e del glio sul campo di battaglia avevano reso il
resto delle loro vite irrilevante. Perché era accaduto tutto ciò e cosa
potevamo fare in merito? Quella mattina mi resi conto che,
probabilmente, avrei speso il resto della mia vita professionale, cercando
di svelare i misteri del trauma. In che modo esperienze orri che fanno sì
che le persone si blocchino in un modo così disperato nel passato? Cosa
accade nella mente e nel cervello delle persone, in grado di tenerle
congelate, intrappolate in un luogo da cui desiderano scappare più di ogni
altra cosa? Perché la guerra di quest’uomo non si è conclusa nel febbraio
del 1969, quando i suoi genitori lo hanno abbracciato al Logan
International Airport di Boston, dopo il lungo volo da Da Nang?
Il bisogno di Tom di vivere fuori dalla sua vita, a testimonianza dei suoi
compagni, mi insegnò che stava soffrendo di una condizione molto più
complessa dell’avere semplicemente dei brutti ricordi o una chimica
cerebrale danneggiata o i circuiti cerebrali della paura alterati.
Prima dell’agguato nella risaia, Tom era stato un amico fedele e leale,
una persona che si godeva la vita, con svariati interessi e piaceri. In un
solo terribile momento, il trauma aveva trasformato tutto.
Nel periodo di lavoro trascorso alla VA, ebbi modo di conoscere molti
uomini che avevano risposto in modo simile. Confrontati con frustrazioni
anche di lieve entità, i nostri veterani manifestavano istantaneamente una
rabbia imponente. Le zone pubbliche della clinica erano segnate
dall’impatto dei loro pugni sulla parete di cartongesso, e la sicurezza era
costantemente impegnata a proteggere moderatori e centralinisti dai
veterani infuriati. Naturalmente, il loro comportamento ci spaventava, ma
io ne ero, al contempo, incuriosito.
A casa, mia moglie e io stavamo affrontando problemi simili con i nostri
bambini, che si lasciavano andare a eccessi di collera, quando veniva detto
loro di mangiare gli spinaci o di indossare calze più calde. Perché,
dunque, accadeva che io fossi del tutto incurante del comportamento
immaturo dei miei due bambini e profondamente preoccupato di quello
dei veterani (al di là della loro portata, naturalmente, cosa faceva sì che
avessero per me una valenza ben più dannosa di quella dell’atteggiamento
dei miei due nanetti a casa)? La differenza stava nel fatto di sentirmi del
tutto ducioso che, con un accudimento adeguato, i miei bambini
avrebbero gradualmente appreso a gestire le frustrazioni e le delusioni, ma
ero scettico sulla mia capacità di riuscire ad aiutare i veterani a riacquisire
le abilità di autocontrollo e autoregolazione che avevano perso in guerra.
Sfortunatamente, durante la mia formazione in psichiatria, niente mi
aveva preparato a gestire le s de che Tom e i suoi compagni presentavano.
Mi recai al piano di sotto, nella biblioteca medica, per cercare libri sulle
nevrosi da guerra, shell shock,5 stress da combattimento o su qualsiasi
altro termine o diagnosi potessi pensare avrebbe potuto far luce sui miei
pazienti. Con mia grande sorpresa, la biblioteca della VA non aveva alcun
libro su queste condizioni. A cinque anni dalla ne della guerra in
Vietnam, l’argomento del trauma da guerra non era ancora sull’agenda di
nessuno. In ne, nella Countway Library della Harvard Medical School,
trovai The Traumatic Neurosis of War, pubblicato nel 1941 da uno
psichiatra, che si chiamava Abram Kardiner. Il testo riportava le
osservazioni di Kardiner sui veterani della Prima guerra mondiale ed era
stato pubblicato per anticipare il diluvio di soldati che ci si aspettava
sarebbe stato vittima di trauma da bombardamento, durante la Seconda
guerra mondiale.6
Kardiner descriveva lo stesso fenomeno che stavo osservando: dopo la
guerra, i suoi pazienti erano stati colti da un senso di inutilità; erano
ritirati e distaccati, anche se prima avevano funzionato bene. Kardiner
chiamò “nevrosi di guerra” ciò che oggi chiamiamo disturbo da stress
post-traumatico (post-traumatic stress disorder, PTSD). Kardiner notò che,
chi soffre di una nevrosi traumatica, ha una vigilanza cronica e una forte
sensibilità alla minaccia. Una sua conclusione catturò in modo particolare
la mia attenzione: “il nucleo della nevrosi è una sionevrosi”.7 In altre
parole, lo stress post-traumatico non è “tutto nella testa”, come qualcuno
asseriva, ma ha una base siologica. Kardiner intuì anche che i sintomi
hanno origine nella risposta di tutto il corpo al trauma originale.
La descrizione di Kardiner corroborava le mie osservazioni – cosa
indubbiamente rassicurante –, ma mi forniva scarse indicazioni su come
aiutare i veterani. La mancanza di letteratura sull’argomento costituiva un
handicap, ma il mio grande maestro, Elvin Semrad, ci aveva insegnato a
dif dare dei manuali. Disponiamo di un solo manuale, diceva: i nostri
pazienti. Dovevamo con dare soltanto in ciò che potevamo imparare da
essi e dalla nostra esperienza. Sembra semplice ma, così come Semrad ci
spingeva a fare af damento sull’autoconoscenza, ci avvertiva, allo stesso
tempo, di quanto il processo potesse essere complicato dal fatto che gli
esseri umani sono degli esperti in illusioni e nell’oscuramento della verità.
Ricordo le sue parole: “la nostra sofferenza ha origine, in primo luogo,
nelle bugie che raccontiamo a noi stessi”. Lavorando alla VA, mi accorsi
ben presto di quanto possa essere straziante affrontare la realtà. E questo
era vero sia per i miei pazienti sia per me stesso.
Non vogliamo effettivamente sapere cosa hanno dovuto affrontare i
soldati sul campo di battaglia. Non vogliamo realmente sapere quanti
bambini vengano molestati o abusati nella nostra società o quante coppie
– quasi un terzo, com’è risaputo – siano coinvolte in dinamiche violente a
un certo punto della loro relazione. Vogliamo pensare alle famiglie come a
luoghi sicuri in un mondo crudele e ai nostri Paesi come a posti popolati
da persone illuminate e civilizzate. Preferiamo credere che la crudeltà sia
presente solo in posti lontani, come il Darfur o il Congo. È dif cile, per
chi osserva, essere testimone del dolore. C’è da meravigliarsi, allora, che
gli stessi individui traumatizzati non possano tollerare di ricordarlo e che
ricorrano spesso all’uso di droghe, alcol o all’automutilazione, per
bloccare questa consapevolezza insostenibile?
Tom e i suoi compagni veterani divennero i miei primi maestri nel
tentativo di comprendere come le vite possano essere devastate da
esperienze sopraffacenti e nel delineare il modo in cui si diventa incapaci
di sentirsi di nuovo pienamente vivi.
Il trauma e la perdita di sé
Il primo studio che ho condotto alla VA ebbe inizio con l’intervistare in
modo sistematico i veterani su cosa fosse successo loro in Vietnam.
Desideravo sapere che cosa li avesse spinti sull’orlo del baratro e perché
alcuni di essi fossero crollati, come risultato di quell’esperienza, mentre
altri fossero riusciti, invece, a portare avanti la loro vita.8 Molti degli
uomini intervistati erano partiti per la guerra sentendosi ben preparati,
uniti dal rigore del corso di base e dal pericolo condiviso. Si scambiavano
fotogra e delle loro famiglie e delle loro danzate; tolleravano i reciproci
difetti, ed erano pronti a rischiare la propria vita per i loro amici. Molti
con davano i loro segreti più reconditi a un commilitone e alcuni si
spartivano addirittura le magliette e le calze.
Molti di quegli uomini avevano vissuto un’amicizia simile a quella di
Tom e Alex. Tom aveva incontrato Alex, un ragazzo italiano che veniva da
Malden, in Massachusetts, il giorno in cui arrivò nel Paese e divennero
immediatamente amici intimi. Guidavano la stessa jeep, ascoltavano la
stessa musica e si leggevano l’un l’altro le lettere che arrivavano da casa. Si
ubriacavano insieme e facevano il lo alle stesse bariste vietnamite.
Dopo circa tre mesi nel Paese, Tom, poco prima del tramonto, si trovò a
guidare la sua squadra in un pattugliamento a piedi all’interno di una
risaia. Improvvisamente, una scarica di proiettili di mitragliatrice irruppe
dalla parete verde della giungla circostante, colpendo a uno a uno gli
uomini attorno a lui. Tom mi raccontò di come avesse guardato con orrore
impotente tutti i membri del suo plotone venire uccisi o feriti nel giro di
pochi secondi. Non avrebbe mai più cancellato una sola immagine dalla
sua mente: la parte posteriore della testa di Alex, che giaceva a faccia in
giù nella risaia, i suoi piedi in aria. Tom pianse nel ricordare: “Era l’unico
amico che avessi mai avuto”. In seguito, durante la notte, continuò a
sentire le urla dei suoi uomini e a vedere i loro corpi cadere in acqua.
Ogni suono, odore o immagine che lo riportava all’agguato (come i colpi
di mortaretti del 4 luglio) lo facevano sentire paralizzato, terrorizzato e
arrabbiato, così come lo era stato il giorno in cui l’elicottero lo aveva tirato
fuori dalla risaia.
Forse, per Tom, il ricordo di ciò che era accaduto dopo era ben peggiore
dei ricorrenti ashback dell’agguato. Potevo facilmente immaginare come
la rabbia per la morte dell’amico lo avesse condotto al disastro successivo.
Prima di riuscire a parlarmene, impiegò molti mesi, lottando contro una
vergogna paralizzante. Da tempi immemorabili, i veterani, come Achille
nell’Iliade di Omero, hanno risposto alla morte dei loro compagni con
indescrivibili atti di vendetta. Il giorno dopo l’imboscata, Tom, in uno
stato di pura follia, si recò in un villaggio vicino, dove uccise dei bambini,
sparò a un contadino innocente e violentò una donna vietnamita. A
seguito di ciò, divenne veramente impossibile per lui ritornare a casa in un
modo che avesse un effettivo signi cato. Come si può affrontare la propria
ragazza e dirle di aver brutalmente violentato una donna come lei o
guardare il proprio glio compiere i primi passi, avendo in mente il
bambino che si è assassinato? Tom percepiva la morte di Alex come se
una parte di se stesso fosse stata annientata per sempre: la parte buona,
onorabile e degna di ducia. Il trauma, sia che si tratti del risultato di
qualcosa che ci è accaduto o che abbiamo fatto, rende quasi sempre
gravoso il coinvolgimento in relazioni intime. Dopo aver vissuto qualcosa
di così indicibile, come si può imparare a darsi di nuovo di se stessi o di
qualcun altro? O, di contro, ci si può lasciare andare a una relazione
intima, dopo essere stati brutalmente violentati?
Tom continuò ad arrivare puntuale ai suoi appuntamenti, forse perché
ero diventato la sua ancora di salvezza, il padre che non aveva mai avuto,
un Alex che era sopravvissuto all’imboscata. Permettere a se stessi di
ricordare richiede un enorme coraggio e ducia. Una delle cose più
dif cili, per gli individui traumatizzati, è confrontarsi con la vergogna per
come si sono comportati durante l’episodio traumatico, sia che ciò sia
oggettivamente giusti cato (come nell’autorizzazione alle atrocità) o meno
(come nel caso di un bambino che cerca di placare il suo abusante). Una
delle prime persone a scrivere del fenomeno è stata Sarah Haley, che
occupava uno studio accanto al mio alla VA Clinic. In un articolo
intitolato “When the Patient Reports Atrocities”,9 che costituì lo stimolo
maggiore alla creazione della fondamentale diagnosi di PTSD, trattava la
dif coltà – immane e intollerabile – di parlare (e di ascoltare) delle azioni
orrende, spesso commesse dai soldati nel corso delle loro esperienze di
guerra. È piuttosto dif cile affrontare la sofferenza che ci è stata in itta da
altri, ma molte persone traumatizzate sono, in misura ben maggiore,
ancora più ferite dalla vergogna che provano per ciò che hanno fatto o
non hanno fatto in determinate circostanze. Si disprezzano per essersi
sentiti terrorizzati, dipendenti, eccitati o arrabbiati.
Negli ultimi anni, ho riscontrato fenomeni simili in vittime di abuso
infantile: la maggior parte di esse prova una vergogna mortifera per le
azioni che ha commesso per sopravvivere e mantenere un contatto con le
persone che hanno abusato di loro. Tutto ciò si rivela particolarmente
vero – e si veri ca spesso – se l’abusante è stato qualcuno di molto vicino
al bambino, qualcuno da cui il bambino dipendeva. Ne risulta molta
confusione in merito all’essere stati vittime o partecipanti compiacenti, e
la confusione comporta, di conseguenza, lo smarrimento circa la
differenza tra amore e terrore, dolore e piacere. Si ritornerà a trattare di
questo dilemma più avanti nel corso di questo libro.
Numbing10
I sintomi peggiori per Tom coincidevano, forse, con il sentirsi
emotivamente insensibile. Voleva disperatamente amare la sua famiglia,
ma non riusciva in alcun modo a provare sentimenti profondi nei loro
confronti. Si sentiva distante emotivamente da ciascuno di loro, come se il
suo cuore fosse congelato e come se vivesse dietro una parete di vetro.
Quell’ottundimento riguardava anche se stesso. Non riusciva a sentire
niente, se non una rabbia momentanea e la vergogna. Riportava come
fosse dif cile riconoscersi allo specchio, mentre si faceva la barba. Si
osservava a distanza, nell’atto di argomentare un caso in tribunale, e si
chiedeva come questo ragazzo, che sembrava parlare come lui, riuscisse ad
arrivare a conclusioni così cogenti. Quando vinceva una causa, ngeva di
esserne grati cato e quando la perdeva era come se lo avesse previsto e
fosse rassegnato alla scon tta, ancor prima che si veri casse. Sebbene
fosse un avvocato molto in gamba, si sentiva spesso come se galleggiasse
nello spazio, senza scopo e direzione alcuna.
La sola cosa che, in modo occasionale, lo risollevava da questo
sentimento di inconsistenza, era un intenso coinvolgimento in un
particolare caso. Durante il nostro trattamento, Tom doveva difendere un
gangster da un’accusa di omicidio. Per tutta la durata di quella causa, fu
totalmente assorbito nell’elaborazione di una strategia vincente e ci furono
parecchie occasioni in cui rimase sveglio tutta la notte, immerso in
qualcosa che rivestiva una valenza realmente eccitante per lui. Era come
essere in combattimento, diceva, si sentiva pienamente vivo e non c’era
nient’altro che avesse importanza. Dopo aver vinto quella causa, tuttavia,
Tom perse tutta la sua energia e i suoi obiettivi. Ritornarono gli incubi,
così come gli attacchi di rabbia, e tornarono in modo così intenso che
Tom si dovette trasferire in un motel, per essere sicuro di non far del male
a sua moglie o ai suoi gli. Ma anche quella solitudine era terri cante e
spaventosa, perché i demoni della guerra ritornavano con tutta la loro
forza. Tom cercava di tenersi occupato, lavorando, bevendo e drogandosi,
facendo di tutto per non dover confrontarsi con i suoi demoni.
Sfogliava la rivista Soldier of Fortune, fantasticando di arruolarsi come
mercenario in una delle innumerevoli guerre regionali che, allora,
imperversavano in Africa. Quella primavera, rimise in funzione la sua
Harley, rombando per la Kancamagus Highway nel New Hampshire. Le
vibrazioni, la velocità e il pericolo della corsa lo aiutarono a “rimettersi
insieme”, al punto da riuscire a lasciare la camera del motel e ritornare
dalla sua famiglia.
La rivoluzione
nella comprensione della mente
e del cervello
Vivi attraverso quel piccolo pezzo di tempo che è tuo, ma quel pezzo di
tempo non è di per sé la tua vita, è la somma di tutte le altre vite che sono
contemporanee alla tua… Quello che sei è espressione della storia.
ROBERT PENN WARREN,1 World Enough and Time
Alla ne degli anni Sessanta, nel corso di un anno sabbatico tra il primo e
il secondo anno di medicina, per caso, mi trovai a essere testimone di un
profondo cambiamento nell’approccio medico alla sofferenza mentale.
Avevo ottenuto un ottimo lavoro come assistente tirocinante in un reparto
sperimentale del Massachusetts Mental Health Center (MMHC), con
l’incarico di organizzare attività ricreative per i pazienti. L’MMHC era da
tempo considerato uno dei migliori ospedali psichiatrici del paese, il ore
all’occhiello dell’impero della Harvard Medical School. L’obiettivo della
ricerca del mio reparto era quello di determinare quale fosse, tra la
psicoterapia e l’uso di farmaci, il trattamento migliore per giovani pazienti
che avevano avuto un primo scompenso psichico, diagnosticato come
schizofrenia.
Le psicoterapie basate sulla parola, derivanti dalla psicoanalisi freudiana,
erano ancora il trattamento elettivo per la malattia mentale all’MMHC.
Tuttavia, nei primi anni Cinquanta, un gruppo di scienziati francesi aveva
scoperto un nuovo composto: la cloropromazina (il cui nome commerciale
era Torazina). Gli scienziati si accorsero che la cloropromazina
“tranquillizzava” i pazienti, rendendoli meno agitati e deliranti. Si fece
così strada l’idea di mettere a punto dei farmaci per curare gravi forme di
malattia mentale, come la depressione, gli attacchi di panico, i disturbi
d’ansia e la mania, nonché per alleviare alcuni dei sintomi più allarmanti
della schizofrenia.
Come assistente, non avevo a che fare direttamente con il progetto di
ricerca del reparto e non mi venne mai detto che tipo di trattamento i
pazienti stessero seguendo. Sapevo solo che erano tutti miei coetanei.
Erano studenti di Harvard, del MIT e dell’Università di Boston. Alcuni
avevano cercato di suicidarsi; altri si tagliavano con coltelli o lame di
rasoio; molti avevano aggredito i compagni di stanza o avevano
terrorizzato genitori e amici con comportamenti imprevedibili e
irrazionali. Il mio lavoro consisteva nel coinvolgerli nelle normali attività
previste per gli studenti del college, come andare a mangiare la pizza o in
campeggio, partecipare alle partite di baseball dei Red Sox2 o praticare la
vela sul ume Charles.
Essendo praticamente un novellino, prestavo estrema attenzione durante
gli incontri in reparto, cercando di decifrare i discorsi e le logiche, molto
complicate, dei pazienti. Mi toccò imparare a trattare le loro “esplosioni”
irrazionali e il ritiro terrorizzato. Ricordo che una mattina trovai un
paziente in piedi, nella sua camera da letto, immobile come una statua,
con un braccio in posizione di difesa e il viso congelato dalla paura.
Rimase lì, fermo, per almeno dodici ore. I medici mi dissero che il nome
di quella condizione era catatonia, ma neanche i manuali, che in seguito
consultai, riportavano indicazioni su cosa si dovesse fare in merito.
Lasciammo che la catatonia facesse il suo corso.
Lo shock inevitabile
Preoccupato dalle tante domande aperte e persistenti sullo stress
traumatico, cominciò a intrigarmi l’idea che il campo nascente delle
neuroscienze potesse fornire alcune risposte e inizai, così, a partecipare
alle riunioni dell’American College of Neuropsychopharmacology
(ACNP). Nel 1984, l’ACNP organizzò un gran numero di conferenze
interessanti sullo sviluppo dei farmaci, ma fu solo poche ore prima del
mio volo di linea per tornare a Boston che mi trovai a seguire una
presentazione da parte di Steven Maier, dell’Università del Colorado.
Maier aveva collaborato con Martin Seligman dell’Università della
Pennsylvania. L’argomento del suo intervento era l’impotenza appresa
negli animali. Maier e Seligman avevano ripetutamente somministrato
dolorose scosse elettriche a cani, intrappolati in gabbie chiuse.
Chiamarono questa condizione, “shock inevitabile”.11 Essendo un amante
dei cani, mi resi conto che non avrei mai potuto svolgere questo tipo di
ricerca, ma ero curioso di conoscere l’impatto di una crudeltà simile sugli
animali.
Dopo la somministrazione di diverse scosse elettriche, i ricercatori
aprivano le porte delle gabbie, dando, comunque, delle scosse ai cani. I
cani del gruppo di controllo, che non avevano mai ricevuto delle scosse
elettriche, scappavano immediatamente, ma i cani che avevano subito lo
“shock inevitabile” non tentavano in alcun modo di fuggire, nemmeno
quando la porta della gabbia veniva spalancata. Rimanevano lì a guaire e a
defecare. La mera opportunità di scappare non fa sì che gli animali
traumatizzati, o le persone traumatizzate, prendano la via della libertà.
Come i cani di Maier e Seligman, molte persone traumatizzate possono,
semplicemente, rinunciare a fuggire. Piuttosto che rischiare di
sperimentare nuove possibilità, rimangono bloccate nella paura che già
conoscono. Ero attratto dal lavoro di Maier. Quello che avevano fatto a
quei poveri cani era esattamente quello che era successo ai miei pazienti
traumatizzati: erano stati esposti a qualcuno (o a qualcosa) che aveva
in itto loro un terribile dolore, da cui non avevano avuto modo di fuggire.
Ho ripensato rapidamente ai pazienti che avevo trattato. Quasi tutti, in
varia misura, si erano trovati intrappolati o immobilizzati, incapaci di fare
alcunché per scongiurare l’inevitabile. La loro risposta di fuga o di attacco
era stata sventata e il risultato era stato sia un’estrema agitazione sia il
collasso.
Maier e Seligman scoprirono che i cani traumatizzati producevano
quantità di ormoni dello stress molto più elevate del normale. Questi dati
confermavano quanto si stava cominciando a conoscere rispetto alle basi
biologiche del trauma e dello stress. Un gruppo di giovani ricercatori, tra i
quali Steve Southwick e John Krystal di Yale, Arieh Shalev della Hadassah
Medical School di Gerusalemme, Frank Putnam del National Institute of
Mental Health (NIMH) e Roger Pitman, poi ad Harvard, stavano
scoprendo che tutte le persone traumatizzate continuano a secernere
grandi quantità di ormoni dello stress, anche dopo che il pericolo è
passato. Rachel Yehuda, al Mount Sinai di New York, si confrontò con
noi rispetto alla scoperta paradossale che mostrava che i livelli di
cortisolo, l’ormone dello stress, erano bassi nel PTSD. Queste scoperte
cominciarono ad avere un senso solo quando la sua ricerca chiarì che il
cortisolo mette ne alla risposta stressogena, inviando un segnale di “tutto
a posto”, e che, nel PTSD, l’ormone dello stress, di fatto, non ritorna al
livello basale al venir meno del pericolo.
Idealmente, il nostro sistema ormonale legato allo stress dovrebbe
fornire una risposta immediata alla minaccia, per poi tornare rapidamente
in equilibrio. Nei pazienti con PTSD, tuttavia, questo sistema non
funziona. Le risposte di attacco/fuga/congelamento persistono anche
quando il pericolo è svanito e, come nel caso dei cani, impediscono di
tornare alla normalità. Al contrario, la continua secrezione di ormoni dello
stress esita negli stati di panico e agitazione e, nel lungo periodo,
danneggia irrimediabilmente la salute.
Quel giorno persi l’aereo: dovevo assolutamente parlare con Steve
Maier. Il suo lavoro mi diede suggerimenti preziosi, non solo per le
problematiche profonde dei miei pazienti, ma anche per la ricerca di
potenziali strategie e idee per la loro soluzione. Seligman e Maier avevano
scoperto, per esempio, che l’unico modo per insegnare ai cani
traumatizzati a evitare la scossa elettrica, una volta aperte le gabbie, era
quello di portarli, più e più volte, fuori dalle gabbie stesse in modo che
potessero sperimentare sicamente come fare a cavarsela.
Mi chiedevo, allora, se anch’io non potessi dare una mano ai pazienti nel
recupero della fondamentale capacità di orientamento, dicendo loro che
non avevano avuto modo di difendersi. E mi chiedevo se i miei pazienti
avessero anche bisogno di un’esperienza sica, per ripristinare un senso
somatico, viscerale, di controllo. Che cosa sarebbe accaduto se avessero
potuto imparare a muoversi per sfuggire a una situazione potenzialmente
minacciosa, simile al trauma in cui erano stati intrappolati e
immobilizzati? Come discuterò nella parte quinta del libro, dedicata al
trattamento, questa è stata una delle conclusioni a cui, alla ne, sono
arrivato.
Ulteriori studi sugli animali – topi, ratti, gatti, scimmie ed elefanti –
portarono a risultati interessanti.12 Per esempio, quando i ricercatori
introdussero nell’esperimento un suono forte e fastidioso, i topi che erano
stati allevati in un ambiente caldo, con abbondanza di cibo, si diressero,
immediatamente, verso la tana. Allo stesso modo, i topi cresciuti in un
ambiente rumoroso, con scorte di cibo scarse, corsero verso la tana, anche
dopo aver trascorso del tempo in un ambiente più piacevole:13 gli animali
spaventati tornavano alla tana, indipendentemente dal fatto che la tana
fosse sicura o meno. Pensai ai miei pazienti provenienti da famiglie
abusanti, alle quali ritornavano, nendo per esserne ripetutamente feriti.
Le persone traumatizzate sono condannate a cercare rifugio in ciò che è
familiare? A fronte di ciò, perché non aiutarli a legarsi a luoghi e attività
protettivi e piacevoli? E, soprattutto, è possibile tutto ciò?14
Calmare il cervello
L’incontro dell’ACNP del 1985 fu, se possibile, ancora più stimolante di
quello dell’anno precedente. Jeffrey Gray, un professore del Kings
College, tenne una conferenza in cui parlava dell’amigdala, un gruppo di
cellule cerebrali che determina se un suono, un’immagine, o una
sensazione corporea possano costituire una minaccia. I dati di Gray
mostravano che la sensibilità dell’amigdala dipende, almeno in parte, dalla
quantità di serotonina presente in quella parte del cervello. Gli animali
con bassi livelli di serotonina si mostravano iper-reattivi a stimoli stressanti
(come suoni forti), mentre livelli elevati di serotonina inibivano il sistema
di difesa, diminuendo la probabilità di una risposta aggressiva o di
congelamento rispetto a potenziali minacce.22
Tutto ciò mi spingeva a un’importante considerazione: i miei pazienti
erano, spesso, inclini a scoppi di rabbia rispetto a provocazioni banali e
nivano per sentirsi devastati al minimo ri uto. E così mi interessai al
ruolo della serotonina nel PTSD. Altri ricercatori avevano dimostrato che
esemplari di scimmie maschi-dominanti avevano livelli di serotonina
molto più alti, rispetto ad animali di rango più basso, ma il livello di
serotonina diminuiva quando veniva impedito loro di mantenere il
contatto visivo con le scimmie che avevano dominato. Al contrario, le
scimmie di basso rango, che avevano ricevuto supplementi di serotonina,
si distinguevano dal gruppo, mostrando atteggiamenti di leadership.23.
L’ambiente sociale interagisce con la chimica del cervello. La
manipolazione di una scimmia verso una posizione di dominanza
gerarchica inferiore aveva diminuito i livelli di serotonina, mentre
l’incremento chimico della serotonina aveva elevato il rango delle scimmie
prima subordinate.
Le implicazioni per le persone traumatizzate erano evidenti. Come per
gli animali del dottor Gray, che avevano bassi livelli di serotonina, le
persone traumatizzate erano iper-reattive e la loro capacità di far fronte
alle situazioni era, spesso, compromessa. Se fossimo riusciti a trovare il
modo per aumentare la serotonina nel cervello, forse avremmo potuto
occuparci, contemporaneamente, di entrambi i problemi. A quello stesso
congresso del 1985, avevo sentito che le aziende farmaceutiche stavano
sviluppando due nuovi prodotti, utili alla risoluzione dei problemi appena
descritti ma, dal momento che nessuno dei farmaci era disponibile, avevo
condotto degli esperimenti, per un breve periodo, con un integratore
alimentare naturale, l’L-triptofano, un precursore chimico della
serotonina, i cui risultati si erano rivelati deludenti. Uno dei farmaci sotto
indagine non arrivò mai sul mercato. L’altro era la uoxetina che,
conosciuta come Prozac, divenne una delle sostanze psicoattive di
maggior successo.
L’8 febbraio del 1988, un lunedì, il Prozac venne messo sul mercato dalla
società farmaceutica Eli Lilly. Il primo paziente che vidi quel giorno era
una giovane donna con una terribile storia di abuso infantile e con una
grave sintomatologia bulimica: trascorreva gran parte della sua vita tra
abbuffate e condotte di eliminazione del cibo. Le prescrissi il Prozac e,
quando tornò, il giovedì successivo, disse: “Gli ultimi giorni sono stati
molto diversi: ho mangiato quando avevo fame e ho trascorso il resto del
tempo svolgendo i miei compiti scolastici”. È stata una delle affermazioni
più importanti che io abbia mai ascoltato nel mio studio.
Il venerdì vidi un’altra paziente a cui avevo prescritto il Prozac il lunedì
precedente. Era una signora con una depressione cronica, madre di due
gli in età scolare, preoccupata per i suoi fallimenti sia come madre sia
come moglie e sopraffatta dalle richieste dei genitori, che l’avevano
maltrattata da bambina. Dopo quattro giorni di Prozac, mi chiese se
potesse saltare l’appuntamento del lunedì successivo, il “President’s
Day”.24 “Dopo tutto”, mi spiegò, “non devo andare a prendere i miei gli
alla lezione di sci, lo farà mio marito, e quel giorno staremo fuori. È molto
bello che i bambini possano avere dei bei ricordi di noi, che ci divertiamo
insieme”.
Si trattava di una paziente che faceva fatica a superare la giornata. Dopo
quella seduta, chiamai una persona di mia conoscenza alla Eli Lilly,
dicendole: “Avete a disposizione un farmaco che aiuta le persone a stare
nel presente invece di sentirsi bloccati nel passato”. In seguito, la Eli Lilly
mi elargì un piccolo nanziamento per studiare gli effetti del Prozac nel
PTSD in sessantaquattro persone – 22 donne e 42 uomini –; era il primo
studio sugli effetti di questa nuova classe di farmaci sul PTSD. La nostra
équipe della Trauma Clinic coinvolse 33 soggetti non veterani, mentre i
miei collaboratori, ex colleghi presso la VA, ingaggiarono 31 veterani di
guerra. Per otto settimane, metà di ogni gruppo ricevette Prozac e l’altra
metà un placebo. Fu uno studio condotto in cieco: né noi, né i pazienti
sapevamo quale sostanza venisse somministrata, in modo che le ipotesi
teoriche non in ciassero le nostre valutazioni.
Tutti i pazienti – anche coloro che avevano ricevuto il placebo –
evidenziavano miglioramenti di un certo rilievo. La maggior parte degli
studi sul trattamento del PTSD dimostra un signi cativo effetto del
placebo. Le persone che hanno il coraggio di partecipare a uno studio per
il quale non sono pagate, in cui verranno più volte bucate con degli aghi, e
in cui c’è solo un 50% di possibilità di ottenere un farmaco attivo, sono,
indubbiamente, molto motivate a risolvere i loro problemi. La
ricompensa, forse, coincide con l’attenzione che viene loro riservata, con
la possibilità di rispondere alle domande su come si sentono e pensano. In
questo senso, si può concludere che, forse, i baci di una madre che calma
il proprio glio siano equiparabili a un effetto placebo.
Il Prozac si dimostrò decisamente più ef cace rispetto al placebo per i
pazienti della Trauma Clinic. I pazienti dormivano meglio, avevano un
maggiore controllo sulle loro emozioni ed erano meno preoccupati del
passato, rispetto a coloro che avevano ricevuto una compressa di
zucchero.25 Tuttavia, in modo sorprendente, il Prozac non ebbe alcun
effetto sui veterani di guerra della VA: i sintomi di PTSD rimanevano
invariati. Questi risultati furono confermati dalla maggior parte degli studi
farmacologici sui veterani di guerra svolti negli anni successivi: mentre
alcuni mostravano miglioramenti modesti, la maggior parte dei pazienti
non ne aveva bene ciato affatto. Non sono mai stato in grado di spiegare
questo risultato, e non posso accettare la spiegazione più comune: ricevere
una pensione o un sostentamento per l’invalidità impedisce alle persone di
stare meglio. Dopo tutto, l’amigdala non sa nulla di pensioni, rileva solo
minacce.
Tuttavia, i farmaci come il Prozac o lo Zoloft, il Celexa, il Cymbalta e il
Paxil hanno dato un contributo sostanziale al trattamento dei disturbi
correlati al trauma. Nel nostro studio sul Prozac, utilizzammo il test di
Rorschach per misurare come le persone traumatizzate percepissero
l’ambiente circostante. I risultati ci diedero un indizio importante su come
questa classe di farmaci (formalmente noti come inibitori selettivi della
ricaptazione della serotonina, o SSRI) potesse funzionare. Prima di
prendere il Prozac, le reazioni dei pazienti erano in larga misura
dipendenti dalle loro emozioni. Mi viene in mente, nella fattispecie, una
paziente olandese (non dello studio sul Prozac) che mi contattò per una
violenza subita nell’infanzia e che si convinse che l’avrei violentata, non
appena riconobbe il mio accento olandese. Il Prozac apportò una
sostanziale differenza, conferendo ai pazienti con PTSD un senso
progettuale26 e aiutandoli a esercitare un considerevole controllo sui loro
impulsi. Jeffrey Gray aveva ragione: l’aumento del livello di serotonina
rendeva i miei pazienti meno reattivi.
Il trionfo della farmacologia
Non ci volle molto perché la farmacologia rivoluzionasse la psichiatria. I
farmaci diedero ai medici un maggior senso di ef cacia e fornirono uno
strumento che andava oltre la terapia della parola. Produssero anche
redditi e pro tti. Le sovvenzioni da parte dell’industria farmaceutica
sostenevano laboratori pieni di studenti e laureati entusiasti, consentendo
l’acquisto di strumenti so sticati. I dipartimenti di Psichiatria, da sempre
situati nei sotterranei degli ospedali, iniziarono a spostarsi verso i piani
alti, sia in termini di posizione concreta sia di prestigio.
Un segnale di questo cambiamento si ebbe al MMHC, dove, nei primi
anni del 1990, la piscina dell’ospedale fu pavimentata per far spazio a un
laboratorio e il campo da basket interno divenne un magazzino per i
farmaci. Per decenni, medici e pazienti avevano democraticamente
condiviso il piacere di giocare in piscina e giocare a pallone in giardino.
Avevo trascorso ore in palestra con i pazienti, quando ero un assistente di
corsia: l’unico posto in cui tutti noi potevamo ripristinare un senso di
benessere sico e che rappresentava un’isola in mezzo alla miseria con cui
convivevamo ogni giorno era diventato un luogo per “aggiustare” i
pazienti.
La rivoluzione della farmacologia, iniziata come una promessa,
potrebbe, alla ne, aver fatto sia male sia bene. La teoria secondo cui la
malattia mentale è causata principalmente da squilibri chimici nel
cervello, correggibili con farmaci speci ci, è, ormai, largamente accettata,
da parte sia dei media sia dei consumatori, nonché dalla classe medica.27
In molti casi, i farmaci hanno rimpiazzato la terapia, permettendo ai
pazienti di reprimere i loro problemi senza affrontare le questioni di
fondo. Gli antidepressivi possono fare tutta la differenza del mondo nel
favorire il sonno quotidiano dei pazienti e, se bisogna operare una scelta
tra assumere un sonnifero o bere no a stordirsi ogni notte per poter
dormire almeno un po’, non vi è alcun dubbio su quale sia la cosa
migliore. Per le persone stremate dal tentativo di farcela da sole attraverso
lezioni di yoga, allenamenti quotidiani o semplicemente tenendo duro, i
farmaci spesso rappresentano un “rimedio salvavita”. Gli SSRI possono
essere molto utili per rendere le persone traumatizzate meno schiave delle
loro emozioni, ma devono essere presi in considerazione in aggiunta a un
trattamento più ampio.28
Dopo aver condotto numerosi studi sui farmaci per il PTSD, capii che
gli psicofarmaci hanno un importante rovescio della medaglia: niscono
col “distrarre” dall’occuparsi dei problemi sottostanti. Il modello della
malattia mentale rischia di “prendere il sopravvento” sul destino delle
persone e rischia di rendere i medici e le compagnie assicurative
responsabili del perpetuarsi dei problemi dei pazienti.
Negli ultimi trent’anni, gli psicofarmaci sono diventati un pilastro della
cultura medica, con conseguenze non molto chiare. Consideriamo il caso
degli antidepressivi. Se fossero davvero ef caci come siamo stati indotti a
credere, la depressione dovrebbe essere diventata ormai un problema di
poco conto nella nostra società. Invece, anche se l’uso degli antidepressivi
continua ad aumentare, non si è per nulla modi cato il numero di ricoveri
ospedalieri per depressione. Il numero di persone affette da depressione è
triplicato nel corso degli ultimi due decenni e, oggi, un americano su dieci
assume antidepressivi.29
La nuova generazione di farmaci antipsicotici, come Abilify, Risperdal,
Zyprexa e Seroquel, risulta vendutissima negli Stati Uniti. Nel 2012, sono
stati spesi 1526,228 milioni di dollari per l’Abilify: per nessun altro
farmaco si è mai registrata una spesa così ingente. Al terzo posto c’è il
Cymbalta, un antidepressivo che ha fruttato ben oltre un miliardo di
dollari,30 anche se non è mai stata dimostrata la sua maggior ef cacia
rispetto agli antidepressivi di vecchia generazione, come il Prozac, per i
quali sono disponibili anche i corrispondenti generici, molto più
economici. Medicaid, il programma sanitario governativo per i pazienti
meno abbienti, spende molto più in antipsicotici rispetto a qualsiasi altra
classe di farmaci.31 Nel 2008, l’anno più recente a cui possiamo riferirci
per disporre di dati completi, sono stati spesi 3,6 miliardi di dollari per i
farmaci antipsicotici, rispetto agli 1,65 miliardi di dollari del 1999. Il
numero di persone, al di sotto dei vent’anni, che ha ricevuto delle
prescrizioni dal Medicaid per farmaci antipsicotici è triplicato tra il 1999 e
il 2008. Il 4 novembre 2013, Johnson & Johnson ha accettato di pagare
più di 2,2 miliardi di dollari tra cause penali e civili, per difendersi dalle
accuse di aver impropriamente promosso l’antipsicotico Risperdal nel
trattamento di pazienti anziani, adulti, bambini e persone con disabilità.32
Ma non c’è alcuna accusa formale per i medici che li hanno prescritti.
Mezzo milione di bambini negli Stati Uniti assume attualmente
antipsicotici. È quattro volte più probabile che bambini appartenenti a
famiglie con basso reddito ricevano antipsicotici rispetto ai bambini
coperti da assicurazione. Questi farmaci, spesso, vengono utilizzati per
rendere i bambini abusati e trascurati più trattabili. Nel 2008, a 19.045
bambini, tra zero e cinque anni, sono stati prescritti antipsicotici
attraverso Medicaid.33 Uno studio, effettuato sulla base dei dati forniti da
Medicaid, relativi a tredici stati, indica che il 12,4% dei bambini in
af damento ha ricevuto antipsicotici, rispetto al 1,4% della popolazione
infantile generale, che rientra nei requisiti Medicaid.34 Questi farmaci
rendono i bambini più gestibili da un punto di vista comportamentale e
meno aggressivi, ma interferiscono con la motivazione, il gioco e la
curiosità, indispensabili per lo sviluppo di un buon funzionamento e per
diventare membri operativi della società. I bambini che assumono questi
farmaci sono anche a rischio di diventare obesi e diabetici. Nel frattempo,
le overdose di farmaci, implicanti combinazioni di psicofarmaci e
antidolori ci, continuano ad aumentare.35
Dato che i farmaci sono diventati così redditizi, è raro che le principali
riviste mediche pubblichino studi sui trattamenti non farmacologici per
curare i problemi psichici.36 I clinici che prendono in considerazione
questi trattamenti sono, in genere, etichettati come “alternativi”. Studi
relativi alle cure non farmacologiche riescono dif cilmente a ottenere dei
nanziamenti, a meno che non prevedano protocolli cosiddetti
standardizzati, mediante i quali pazienti e terapeuti procedono attraverso
passaggi rigidamente strutturati, al ne di determinare piccoli
aggiustamenti, basati sulle necessità del singolo paziente. La medicina
convenzionale si impegna strenuamente per raggiungere una qualità di
vita migliore per mezzo della chimica, ma la possibilità di cambiare
effettivamente la nostra siologia e l’equilibrio interiore con mezzi diversi
dai farmaci non viene quasi mai contemplata.
Adattamento o malattia?
Il modello della malattia mentale poggia su quattro punti cardine: 1) la
capacità di farci reciprocamente del male si interfaccia con quella di
prenderci cura l’uno dell’altro. Ricostruire relazioni e comunità è
fondamentale per il ripristino del benessere; 2) il linguaggio ci dà il potere
di cambiare noi stessi e gli altri, comunicando le nostre esperienze,
aiutandoci a de nire ciò che sappiamo e trovando un senso comune alle
cose; 3) abbiamo la capacità di regolare la nostra siologia, comprese
alcune delle cosiddette funzioni involontarie del corpo e del cervello,
attraverso alcune attività di base come la respirazione, il movimento, e il
tocco; 4) possiamo cambiare le condizioni sociali per creare ambienti in
cui i bambini e gli adulti possano sentirsi al sicuro e crescere in prosperità.
Quando ignoriamo queste dimensioni essenziali per l’umanità, priviamo
le persone dell’opportunità di guarire dal trauma e di riconquistare la loro
autonomia. Essere un paziente, anziché un partecipante attivo del proprio
processo di cura, fa sì che la persona sofferente venga separata dalla
comunità di appartenenza, divenendo estranea al proprio senso di sé
interno. Dati i limiti dei farmaci, cominciavo a chiedermi se si potessero
trovare modi più naturali per aiutare le persone a gestire la risposta post-
traumatica.
Scrutare il cervello
La rivoluzione delle neuroscienze
Un orrore inesprimibile
Il risultato più sorprendente per noi era costituto da una macchia bianca
nel lobo frontale sinistro della corteccia, nella regione chiamata area di
Broca. In questo caso, il cambiamento di colore indicava una
disattivazione signi cativa di quell’area del cervello, spesso interessata nei
pazienti con ictus, quando l’af usso di sangue in quella regione è
bloccato. Se l’area di Broca non funziona, è impossibile tradurre in parole
pensieri ed emozioni. Le nostre scansioni mostravano che l’area di Broca
si spegneva tutte le volte in cui era sollecitato un ashback. In altre parole,
c’era la prova visiva che gli effetti del trauma non differiscono affatto dagli
effetti di lesioni siche come l’ictus, anzi, possono sovrapporsi a essi.
Tutto il trauma è preverbale. Shakespeare cattura questo orrore
inesprimibile in Macbeth, dopo la scoperta del corpo assassinato del re:
“O orrore, orrore, orrore! Né la lingua né il cuore sanno concepirti o
nominarti! La Rovina ha compiuto il suo capolavoro!”.6 Quando si
trovano in condizioni estreme, le persone possono gridare oscenità,
chiamare la mamma, urlare di terrore, o semplicemente spegnersi. Vittime
di aggressione o di incidenti siedono mute e congelate in Pronto Soccorso;
i bambini traumatizzati “perdono la lingua” e si ri utano di parlare.
Tantissimi ritratti di soldati mostrano uomini dagli occhi vuoti che ssano,
muti, l’abisso.
Anche a distanza di tanti anni le persone traumatizzate hanno enormi
dif coltà a raccontare agli altri cosa sia accaduto loro. Il loro corpo rivive
il terrore, la rabbia e l’impotenza così come l’impulso all’attacco o alla
fuga, ma questi sentimenti sono pressoché impossibili da proferire. Il
trauma, per sua natura, ci porta al limite della comprensione, tagliandoci
fuori da un linguaggio condiviso o da un passato immaginabile.
Questo non signi ca che le persone non parlino di una tragedia che è
accaduta loro. Presto o tardi, come i veterani del capitolo 1, arrivano con
ciò che molti di essi chiamano la loro “storia di copertura”, che offre una
qualche spiegazione dei loro sintomi e del loro comportamento, a uso del
pubblico. Queste storie, comunque, raramente contengono la verità più
intima dell’esperienza. È enormemente dif cile organizzare l’esperienza
traumatica di un individuo in un racconto coerente – una storia con un
inizio, una parte centrale e una ne. Persino un reporter esperto, come il
famoso corrispondente Ed Murrow,7 faticò a comunicare le atrocità che
aveva visto quando, nel 1945, fu liberato il campo di concentramento
nazista di Buchenwald: “Prego perché voi crediate a ciò che dico. Ho
riportato tutto ciò che ho visto e sentito: ma in modo parziale. Per il resto,
che è la gran parte, non ci sono parole”.
Laddove il linguaggio non sia disponibile, le immagini ossessive
catturano l’esperienza e ritornano sotto forma di incubi o ashback. In
contrasto con la disattivazione dell’area di Broca, un’altra regione, l’area
19 di Brodmann, risultava attiva nei partecipanti alla nostra ricerca. Si
tratta di una regione della corteccia visiva che registra le immagini che,
per prime, entrano nel cervello. Eravamo sorpresi nel vedere il cervello
attivato per così tanto tempo dopo l’esperienza originale del trauma. In
condizioni normali, le immagini grezze, registrate nell’area 19, si
diffondono rapidamente in altre aree del cervello che danno senso a ciò
che si è visto. Ancora una volta, eravamo testimoni di una regione
cerebrale che si riaccendeva come se il trauma stesse accadendo in quel
preciso momento.
Come verrà trattato nel capitolo 12, che parla della memoria, altri
frammenti signi cativi del trauma non elaborati, come suoni, odori e
sensazioni siche, sono anche registrati separatamente dalla storia in sé.
Sensazioni simili innescano, spesso, un ashback che ritorna alla
coscienza, apparentemente immodi cato dallo scorrere del tempo.
Bloccati nell’attacco/fuga
Ciò che era successo a Marsha nello scanner cominciava gradualmente ad
assumere un signi cato. Tredici anni dopo la sua tragedia, avevamo
attivato le sensazioni – suoni e immagini dell’incidente – che erano ancora
immagazzinate nella sua memoria. Queste sensazioni, venute a galla,
avevano sollecitato il suo sistema di allarme, innescando una reazione
simile a quando si era trovata in ospedale, nel momento in cui le veniva
data la notizia della morte della glia. I tredici anni trascorsi erano stati
come annullati. Il battito cardiaco accelerato e la pressione sanguigna
ri ettevano il suo stato siologico allarmato e angosciato.
L’adrenalina è uno degli ormoni critici nell’innesco della risposta di
attacco o fuga di fronte a un pericolo. L’incremento dell’adrenalina era
responsabile del drammatico aumento del battito cardiaco e della
pressione sanguigna nei partecipanti all’esperimento, nel momento in cui
ascoltavano i racconti del trauma. In condizioni normali, le persone
reagiscono alla minaccia con un temporaneo aumento degli ormoni dello
stress. Cessata la minaccia, gli ormoni si dissipano e il corpo ritorna alla
normalità. Gli ormoni dello stress delle persone traumatizzate, di contro,
ci mettono molto tempo a ritornare sotto controllo e aumentano
velocemente – e in modo sproporzionato – in risposta a stimoli stressogeni
anche di lieve entità. Gli effetti insidiosi degli ormoni dello stress
costantemente attivati si declinano in problemi di memoria e di
attenzione, irritabilità e disturbi del sonno. Contribuiscono, inoltre, a
molti problemi di salute a lungo termine, attribuibili a una maggiore
vulnerabilità del sistema sico, in un particolare individuo.
A oggi, sappiamo che c’è un’altra possibile risposta alla minaccia, una
risposta che le nostre scansioni non riescono ancora a misurare. Alcune
persone semplicemente negano: il loro corpo registra la minaccia, ma la
mente consapevole procede come se niente fosse accaduto. Tuttavia,
anche se la mente può imparare a ignorare i messaggi del cervello
emotivo, i segnali d’allarme non si fermano. Il cervello emotivo continua a
lavorare e gli ormoni dello stress continuano a mandare segnali ai muscoli,
perché si preparino all’azione o si immobilizzino nel collasso. Gli effetti
sici sugli organi vanno avanti senza tregua, no a manifestarsi sotto
forma di malattie. Medicine, droghe e alcol possono temporaneamente
attutire o cancellare sensazioni e vissuti intollerabili. Ma il corpo continua
a conservarne le tracce.
La reazione di Marsha nello scanner è interpretabile da vari punti di
vista, ciascuno dei quali condizionerà la scelta terapeutica. Ci si può, per
esempio, focalizzare sulle evidenti rotture neurochimiche e siologiche,
responsabili del disequilibrio biochimico che si riproponeva tutte le volte
che ricordava la morte della glia. A fronte di ciò, bisognerà cercare un
farmaco – o una combinazione di farmaci – in grado di attenuare la
reazione o, nel migliore dei casi, restaurare l’equilibrio chimico. In base ai
risultati delle nostre scansioni, alcuni dei miei colleghi del MGH10
cercarono dei farmaci capaci di rendere le persone meno reattive agli
effetti dell’aumento dell’adrenalina.
È possibile, inoltre, sostenere con forza l’idea che Marsha fosse
ipersensibile ai suoi ricordi e, in tal caso, il trattamento migliore avrebbe
potuto coincidere con una qualche forma di desensibilizzazione.11 Dopo
aver ripetutamente descritto i dettagli del trauma al terapeuta, le risposte
biologiche cominciano a cambiare, tanto che si può pensare e ricordare
che “quello era ciò che accadeva allora e questo è ciò che accade ora”,
piuttosto che rivivere continuamente l’esperienza.
Per più di cento anni, qualsiasi manuale di psicologia e psicoterapia ha
indicato gli approcci fondati sulla parola come risolutivi nella cura di
vissuti stressanti. Ma, come abbiamo visto, è l’esperienza stessa del trauma
che impedisce di fare ciò. Non importa di quanta capacità intuitiva e di
comprensione disponiamo, il cervello razionale è – di base –
impossibilitato a parlare con il cervello emotivo, al di fuori dalla propria
realtà. Rimango sempre impressionato da quanto sia dif cile, per le
persone che hanno vissuto l’indicibile, trasmettere l’essenza della loro
È
esperienza. È molto più facile, per chi parla di ciò che ha subito,
raccontare una storia di vittimizzazione e di rivalsa che notare, sentire e
mettere in parole la realtà della propria esperienza interna.
Le nostre scansioni hanno rivelato come il loro terrore persistesse e
potesse essere attivato da molteplici aspetti dell’esperienza quotidiana. I
soggetti non avevano integrato l’esperienza nel usso corrente della loro
vita. Continuavano a essere “là” e non sapevano come fare a essere “qui”,
pienamente vivi nel presente.
Tre anni dopo aver partecipato al nostro studio, Marsha venne da me
come paziente. La trattai con successo con l’EMDR, argomento del
capitolo 15.
Il cervello traumatizzato
4
Prima della scoperta del cervello, non vi era nessun colore, né suono
nell’universo e non c’era alcun sapore o aroma e probabilmente non c’era
un senso delle cose e non vi era alcun sentimento né emozione. Prima del
cervello, l’universo era anche privo di dolore e ansia.
ROGER SPERRY1
L’11 settembre del 2001, Noam Saul, un bambino di cinque anni, è stato
testimone dello schianto del primo aereo di linea contro il World Trade
Center. Era nella sua classe alla PS 234,2 a meno di 500 metri di distanza.
Insieme ai suoi compagni, con la guida dell’insegnante, era corso giù per
le scale no all’ingresso, dove gli studenti furono riuniti e riaf dati ai
genitori, che li avevano lasciati pochi istanti prima. Noam, suo fratello
maggiore e il loro papà erano tre delle decine di migliaia di persone che, la
mattina dell’11 settembre, cercavano di sopravvivere tra le macerie, la
cenere e il fumo della Lower Manhattan.
Dieci giorni dopo, andai a trovarli perché erano miei amici. Quella sera,
i genitori di Noam e io decidemmo di fare due passi nell’oscurità
misteriosa di quella cavità ancora fumante, dove un tempo sorgeva la
Torre 1, facendoci strada tra le squadre di soccorso che, da tutto il giorno,
lavoravano sotto i ri ettori bollenti. Al nostro ritorno, Noam era ancora
sveglio e mi mostrò un disegno che aveva fatto alle 9.00 del 12 settembre.
Il disegno raf gurava ciò che aveva visto il giorno prima: un aereo che si
schiantava contro una torre, una palla di fuoco, i vigili del fuoco, e le
persone che si lanciavano dalle nestre. Nella parte inferiore
dell’immagine, inoltre, aveva disegnato qualcos’altro: un cerchio nero, ai
piedi degli edi ci. Non avevo idea di cosa fosse e glielo chiesi. “Un
trampolino”, rispose. Cosa ci faceva un trampolino lì? Noam mi spiegò:
“Così che le persone possono salvarsi la prossima volta che dovranno
saltare”. Ero sbalordito. Quel bambino di cinque anni, testimone di un
indicibile caos e di un enorme disastro avvenuto appena ventiquattro ore
prima, aveva fatto quel disegno e aveva usato la sua immaginazione per
elaborare ciò che aveva visto, potendo così andare avanti con la sua vita.
Noam era stato fortunato. Tutta la sua famiglia era uscita incolume dal
disastro, era cresciuto circondato dall’amore ed era stato in grado di
capire che la tragedia, di cui erano stati testimoni, era giunta al termine.
Durante i disastri, i bambini, di solito, prendono esempio dai propri
genitori: se i loro caregiver riescono a mantenere la calma e a rispondere ai
loro bisogni, possono sopravvivere a incidenti terribili senza riportare
gravi cicatrici psicologiche.
Ma l’esperienza di Noam ci permette di vedere, a grandi linee, due
aspetti cruciali della risposta adattiva alla minaccia, fondamentali per la
sopravvivenza umana. Nel momento del disastro, Noam era stato in grado
di assumere un ruolo attivo fuggendo, diventando così protagonista del
proprio salvataggio. E, una volta al sicuro in casa propria, il campanello
d’allarme attivatosi nel suo corpo e nel suo cervello si era spento. In
questo modo, la sua mente riuscì a dare un senso a ciò che era accaduto,
immaginando persino un’alternativa creativa a quello che aveva visto: un
trampolino di salvataggio.
Al contrario di Noam, alcune persone traumatizzate si bloccano, si
fermano nella loro crescita, perché non riescono a integrare le nuove
esperienze nella vita attuale. Fui preso da una profonda commozione
quando i veterani dell’esercito di Patton mi regalarono, per Natale, un
orologio militare della Seconda guerra mondiale, che costituiva anche un
triste promemoria dell’anno in cui le loro vite si erano letteralmente
fermate: il 1944. Il trauma subito aveva fatto sì che organizzassero la
propria vita come se l’evento stesse ancora accadendo – immutato e
immutabile – e come se qualsiasi nuovo fatto o incontro fosse contaminato
dal passato.
Come chiunque abbia lavorato con persone con danni cerebrali, o si sia
preso cura di genitori affetti da demenza, ha imparato a proprie spese, i
lobi frontali sono essenziali per portare avanti relazioni armoniose con i
nostri simili. Capire che le altre persone possono pensare e sentire in
modo diverso da noi è un importantissimo passo evolutivo, che avviene
intorno ai due o ai tre anni. A quell’età, si impara a capire le ragioni degli
altri, in modo che ci si possa adattare e stare al sicuro in gruppi che hanno
percezioni, aspettative e valori diversi. Senza lobi frontali attivi e essibili,
le persone diventano creature abitudinarie, con relazioni super ciali e
routinarie, senza inventiva e innovazione e, tanto meno, scoperta e
meraviglia.
I nostri lobi frontali possono anche (talvolta, ma non sempre) fermare
azioni che potrebbero metterci in imbarazzo o portarci a fare del male agli
altri. Non dobbiamo mangiare tutte le volte che abbiamo fame o baciare
qualcuno tutte le volte che ne abbiamo voglia o esplodere tutte le volte
che siamo arrabbiati. Ma è esattamente su quella linea sottile tra l’impulso
e il comportamento accettabile che comincia la maggior parte dei nostri
problemi. Più intenso è l’input sensorio e viscerale del cervello emotivo,
minore sarà la capacità del cervello razionale di mettervi un freno.
Il cavaliere e il cavallo
Giunti n qui, mi preme solo sottolineare che l’emozione non è
contrapposta alla ragione; le nostre emozioni assegnano un valore
all’esperienza e, pertanto, sono alla base della ragione. L’esperienza di sé è
il prodotto dell’equilibrio tra il cervello emotivo e quello razionale.
Quando questi due sistemi sono in equilibrio, ci “sentiamo noi stessi”.
Tuttavia, quando è in gioco la nostra sopravvivenza, questi sistemi
possono funzionare in modo relativamente indipendente.
Se, per esempio, mentre si sta guidando, si sta chiacchierando con un
amico e, improvvisamente, si vede spuntare, con la coda dell’occhio, un
camion, si smette immediatamente di parlare, si schiacciano i freni e si
sterza per sottrarsi al pericolo. Se la nostra reazione istintiva ci ha salvati
da una collisione, si potrà riprendere dal punto in cui ci eravamo
interrotti. Ma l’essere in grado di farlo dipende, in gran parte, dalla
velocità con cui le reazioni viscerali, che si erano innescate con la
percezione della minaccia, regrediscono.
Il neuroscienziato Paul MacLean, che ha sviluppato il modello del
cervello trino di cui ho parlato in questo volume, paragona il rapporto tra
il cervello razionale e il cervello emotivo a quello tra un cavaliere esperto e
il suo cavallo indisciplinato.15 Finché il tempo è buono e il percorso è
tranquillo, il cavaliere può sentire di avere un ottimo controllo. Ma rumori
improvvisi o minacce di altri animali possono far imbizzarrire il cavallo,
costringendo il cavaliere ad aggrapparsi per salvarsi la vita. Allo stesso
modo, quando le persone sentono che è in gioco la loro sopravvivenza o
che sono in balia della rabbia, dei desideri, della paura, dell’eccitazione
sessuale, non riescono ad ascoltare la voce della ragione e non ha molto
senso discutere con loro. Ogni volta che il sistema limbico realizza che si
tratta di vita o di morte, le comunicazioni tra questo e i lobi frontali si
indeboliscono irrimediabilmente.
Gli psicologi, di solito, cercano di aiutare le persone a utilizzare l’intuito
e la capacità di capire per gestire il loro comportamento. Tuttavia, la
ricerca neuroscienti ca dimostra che i problemi psicologici non sono
quasi mai il risultato di difetti di comprensione; la maggior parte dei
problemi nasce dalle pressioni provenienti da regioni più profonde del
cervello, deputate alla percezione e all’attenzione. Quando il campanello
d’allarme del cervello emotivo continua a segnalare una situazione di
pericolo, nessuna azione intuitiva riuscirà a spegnerlo. Mi viene in mente
la comicità con cui un autore di reato, sette volte recidivo, esaltava le virtù
delle tecniche imparate in un programma di gestione della rabbia: “Sono
eccezionali e funzionano molto bene, nché non ti arrabbi veramente”.
Quando il nostro cervello emotivo e quello razionale sono in con itto
(come quando siamo arrabbiati con qualcuno che amiamo, spaventati da
qualcuno da cui dipendiamo, o amiamo qualcuno di irraggiungibile), ne
consegue una sorta di braccio di ferro. Questa guerra è, in gran parte,
combattuta sulla scena delle esperienze viscerali – viscere, cuore, polmoni
– e comporterà sia disagio sico sia disperazione psicologica. Nel capitolo
6, si parlerà di come il cervello e le viscere interagiscono in condizioni di
sicurezza e di pericolo, argomento importante in quanto ritenuto la chiave
per comprendere le svariate manifestazioni siche del trauma.
Vorrei concludere questo capitolo esaminando ancora due scansioni
cerebrali che illustrano alcune delle caratteristiche principali dello stress
traumatico: il rivivere all’in nito, il riesperire suoni, immagini ed
emozioni, e la dissociazione.
Dissociare e rivivere
La dissociazione è l’essenza del trauma. L’esperienza travolgente è divisa e
frammentata, così che emozioni, suoni, immagini, pensieri e sensazioni
siche, legati al trauma, assumono una vita propria. I frammenti sensoriali
del ricordo intrudono nel presente, dove vengono letteralmente rivissuti.
Finché non si risolve il trauma, l’ormone dello stress, che il corpo secerne
per proteggersi, si mantiene in circolo; i movimenti difensivi e le risposte
emotive continuano a essere rimessi in atto. A differenza di Stan, tuttavia,
molte persone possono non essere consapevoli della relazione tra i loro
sentimenti, le reazioni “folli” e gli eventi traumatici che stanno rimettendo
in atto. Non hanno idea del perché rispondono anche a una seccatura di
poco conto come se fossero sul punto di essere annientati.
I ashback e il rivivere sono sintomi, in qualche modo, peggiori del
trauma stesso. L’evento traumatico ha un inizio e una ne: a certo punto,
termina. Ma per le persone con un PTSD, un ashback può veri carsi in
qualsiasi momento, sia che siano sveglie o addormentate. Non c’è modo di
sapere quando accadrà di nuovo o per quanto tempo durerà. Le persone
che soffrono di ashback organizzano spesso la loro vita, cercando di
proteggersi dagli stessi. Vanno in palestra in modo compulsivo a sollevare
pesi (scoprendo, comunque, di non essere mai abbastanza forti), si
stordiscono con le droghe o cercano di coltivare un illusorio senso di
controllo, esponendosi a situazioni altamente pericolose (come il
motociclismo, il bungee jumping o la guida di ambulanze). Combattere
costantemente pericoli invisibili è faticoso e lascia affaticati, depressi e
stanchi.
Se gli elementi del trauma vengono continuamente rimessi in gioco,
l’ormone dello stress che vi si accompagna imprime i ricordi nella mente
in modo sempre più profondo. Di solito, con il passare del tempo, gli
eventi perdono pian piano di consistenza. Non potendo comprendere nel
profondo ciò che sta accadendo loro, è impossibile che le persone si
sentano pienamente vive. Diventa sempre più dif cile sentire le gioie e le
fatiche della vita quotidiana e concentrarsi sui normali compiti: non essere
completamente vivi nel presente mantiene saldamente imprigionati nel
passato.
Le risposte attivate dei trigger si manifestano in vari modi. I veterani
possono reagire al minimo segnale: urtare un ostacolo per strada o vedere
un bambino che gioca lungo la via, come se fossero in una zona di guerra;
si spaventano facilmente, andando incontro a scoppi di rabbia o
all’obnubilamento. Le vittime di abuso sessuale infantile possono
anestetizzare la propria sessualità, per poi provare un’intensa vergogna se
si eccitano con sensazioni o immagini che richiamano le loro molestie,
anche quando quelle sensazioni sono associate al naturale piacere
connesso a speci che parti del corpo. Se i sopravvissuti ai traumi sono
costretti a parlare delle proprie esperienze, si può osservare un aumento
della pressione sanguigna o, in altri casi, un inizio di un attacco di
emicrania. Altre persone possono spegnersi emotivamente e non sentire
alcun cambiamento sostanziale. Tuttavia, in laboratorio, non abbiamo
problemi a rilevare le uttuazioni del loro battito cardiaco e l’ormone
dello stress che ribolle nel loro corpo.
Queste reazioni sono irrazionali e solitamente avvengono fuori dal
controllo volontario. Impulsi ed emozioni, a malapena controllabili e
intensi, fanno sì che le persone si sentano pazze, non appartenenti alla
razza umana. Sentirsi obnubilati alla festa di compleanno dei propri
bambini o in risposta alla morte di persone care, fa sì che ci si senta dei
“mostri”. E così la vergogna diventa l’emozione dominante, e nascondere
la verità la preoccupazione centrale.
Queste persone, raramente, sono in contatto con le cause del loro
sentimento di alienazione. Ed è a questo punto che entra in gioco la
psicoterapia: è l’inizio del prendere consapevolezza delle emozioni
generate dal trauma, dando alle persone la possibilità di sentirsi e di
osservare se stesse. L’idea di fondo è, tuttavia, che il sistema di percezione
della minaccia sia stato ritarato e che le reazioni siche siano condizionate,
di conseguenza, dalle impronte del passato.
Il trauma che è iniziato “là fuori” è rimesso in atto, ora, sul campo di
battaglia del nostro corpo, senza che vi sia una connessione consapevole
tra ciò che è accaduto allora e quello che sta succedendo in questo
momento dentro di noi. La s da non è imparare ad accettare le cose
terribili che sono accadute, ma imparare a ottenere la padronanza sulle
proprie sensazioni interne e sulle emozioni. Percepire, nominare e
identi care ciò che sta succedendo all’interno di noi è il primo passo verso
la guarigione.
Il talamo si spegne
Guardiamo ancora la scansione del ashback di Stan: si possono vedere
due fori più chiari nella metà inferiore del cervello. Si tratta delle parti
destra e sinistra del talamo, spente durante il ashback così come durante
il trauma originale. Come avevo detto, il talamo funziona come un
“cuoco” – o come una stazione di scambio che raccoglie sensazioni
uditive, visive e tattili per poi integrarle nella zuppa della nostra memoria
autobiogra ca. Il collasso del talamo spiega soprattutto perché il trauma
non possa essere riferito come un racconto, una narrazione con un inizio,
una parte centrale e una ne, ma come una serie di impronte sensoriali
isolate: immagini, suoni e sensazioni siche, accompagnati da emozioni
intense, di solito terrore e impotenza.18
In circostanze normali, il talamo agisce anche come un ltro o come un
portiere. Questo ne fa una componente essenziale dell’attenzione, della
concentrazione e del processo di nuovi apprendimenti – tutte funzioni
compromesse dal trauma. Quando siamo seduti a leggere, possiamo
sentire musica in sottofondo, il rombare del traf co o un debole brontolio
nello stomaco, che ci dice che è tempo di fare uno spuntino. Se siamo in
grado di rimanere concentrati sulla pagina, è perché il talamo ci sta
aiutando a distinguere tra informazioni sensoriali rilevanti e informazioni
che si possono tranquillamente ignorare. Nel capitolo 19, dedicato al
neurofeedback, discuteremo di alcune prove utilizzate per misurare
l’ef cacia del funzionamento di questi sistemi di chiusura e apertura,
nonché dei modi per rinforzarli.
Le persone con PTSD hanno le porte spalancate. In mancanza di un
ltro, sono in sovraccarico sensoriale costante. Per farvi fronte, cercano di
chiudersi, sviluppando una visione limitata, iperfocalizzata. Se non
possono spegnersi naturalmente, niscono per fare ricorso a droghe o
alcol, nel tentativo di tenere il mondo fuori. La tragedia è che il prezzo
della chiusura comprende anche l’inaccessibilità alle fonti di piacere e di
gioia.
Depersonalizzazione: scissione del sé
Diamo ora un’occhiata all’esperienza di Ute nello scanner. Non tutte le
persone reagiscono a un trauma esattamente nello stesso modo, ma, in
questo caso, la differenza è particolarmente evidente, poiché Ute era
seduta proprio accanto a Stan nella macchina distrutta. Ute aveva risposto
allo script del trauma con ottundimento emotivo: la sua mente si era
svuotata, e quasi tutte le aree del suo cervello mostravano un’attività
notevolmente diminuita. Il battito cardiaco e la pressione sanguigna non
erano elevati. Alla domanda su come si era sentita durante la scansione,
rispose: “Come al momento dell’incidente: non ho sentito niente”.
Il termine medico per la risposta di Ute è depersonalizzazione.19
Chiunque si occupi di persone traumatizzate, che siano esse uomini,
donne o bambini, si confronta, prima o poi, con sguardi ssi nel vuoto e
menti assenti, la manifestazione esteriore della reazione di congelamento
biologico. La depersonalizzazione è un sintomo della dissociazione
massiva, provocata dal trauma. I ashback di Stan provenivano dai suoi
sforzi frustrati di fuggire all’impatto: sollecitate dallo script, tutte le
emozioni, le sensazioni frammentate e dissociate riecheggiavano ancora
nel presente. Invece di lottare per fuggire, Ute aveva dissociato la sua
paura, in modo da non sentire nulla.
Mi capita di essere frequentemente in contatto con la dissociazione
quando, nel mio studio, i pazienti mi parlano di storie terribili, senza
alcuna connotazione emotiva: tutta l’energia abbandona la stanza e devo
compiere un grosso sforzo per continuare a rimanere attento. Un paziente
spento ti costringe a lavorare molto più faticosamente per mantenere viva
la terapia e, spesso, ci si ritrova a pregare perché l’ora trascorra
rapidamente. Dopo aver visto la scansione di Ute, iniziai ad avere un
approccio molto diverso nei confronti dei pazienti spenti. Con quasi ogni
parte del cervello disconnessa, i pazienti non possono, ovviamente,
pensare, sentire profondamente, ricordare o dare un senso a ciò che sta
succedendo. La convenzionale terapia verbale, in tali circostanze, è
praticamente inutile.
Nel caso di Ute, era possibile ipotizzare il motivo per cui avesse risposto
in modo così diverso da Stan: stava utilizzando una strategia di
sopravvivenza, che il suo cervello aveva imparato nell’infanzia, per
affrontare la severità della madre. Il padre di Ute era morto quando la
paziente aveva nove anni, e la madre, successivamente, divenne cattiva e
umiliante nei suoi confronti. A un certo punto, Ute aveva scoperto di
riuscire a spegnere la mente quando la madre le urlava contro.
Trentacinque anni dopo, intrappolata nell’auto distrutta, Ute mise in atto
automaticamente la stessa strategia di sopravvivenza che il suo cervello
aveva appreso: scomparire.
La s da, per le persone come Ute, è quella di diventare vigili e coinvolte,
compito, questo, dif cile, ma necessario se ci si vuole riappropriare della
vita (Ute stessa trovò un modo per guarire: scrisse un libro sulla sua
esperienza e avviò con successo una rivista, intitolata Mental Fitness).
Questo caso è emblematico della necessità di un approccio terapeutico
bottom-up. L’obiettivo è, in realtà, quello di cambiare la siologia del
paziente, il suo rapporto con le sensazioni corporee. Al Trauma Center
lavoriamo misurando le funzioni di base come la frequenza cardiaca e la
respirazione. Aiutiamo i pazienti a evocare e a sentire le percezioni
corporee, toccando i punti dell’agopuntura.20 Interazioni ritmiche con
altre persone sono altrettanto ef caci – lanciarsi reciprocamente un
pallone da spiaggia, rimbalzare su una palla da pilates, usare i tamburi o
ballare al ritmo di musica.
Il numbing è l’altro lato della medaglia nel PTSD. Molte persone,
sopravvissute a traumi e che non hanno seguito un trattamento, iniziano
come Stan, con ashback improvvisi, per poi diventare obnubilati nella
vita. Se il rivivere il trauma può essere un’esperienza drammatica,
spaventosa e potenzialmente autodistruttiva, la mancanza di presenza, nel
tempo, può rivelarsi ancora più dannosa. Questo è un problema di
particolare rilevanza con i bambini traumatizzati. I bambini agitati
attirano l’attenzione, quelli spenti non preoccupano nessuno, facendo sì,
in questo modo, che si perdano, a poco a poco, il loro futuro.
Connessioni corpo-cervello
Sicurezza e reciprocità
Qualche anno fa, ho sentito Jerome Kagan, professore emerito di
psicologia infantile a Harvard, dire al Dalai Lama che, in questo mondo,
per ogni atto di crudeltà ci sono centinaia di piccoli atti di gentilezza e
connessione. È sua convinzione che “essere benevoli, piuttosto che
malevoli, è, con tutta probabilità, una caratteristica intrinseca alla nostra
specie”. Potersi sentire al sicuro con le altre persone è forse l’aspetto più
importante della salute mentale; connessioni sicure sono fondamentali per
una vita signi cativa e soddisfacente. Svariati studi sulle risposte ai disastri
nel mondo hanno dimostrato che il supporto sociale costituisce la
protezione più potente contro la sopraffazione prodotta dallo stress
traumatico.
Per supporto sociale non si intende la mera presenza di altri. Il punto
cruciale è la reciprocità: essere veramente sentiti e visti dalle persone
intorno a noi, sentire di essere compresi nella mente e nel cuore di
qualcun altro. Per come siamo fatti, abbiamo bisogno del sentimento
viscerale di sicurezza per calmarci, curarci e crescere. Nessun dottore
potrebbe prescrivere una ricetta per l’amicizia e l’amore: sono capacità
complesse, che si conquistano a fatica. Non si deve per forza avere una
storia traumatica per sentirsi consapevolmente impauriti a una festa con
sconosciuti, ma il trauma ha il potere di trasformare il mondo intero in un
raduno di alieni.
Molte persone traumatizzate hanno la sensazione di non essere in
sincronia con gli altri. Molte di loro trovano conforto all’interno di gruppi
in cui possono raccontare le loro esperienze di combattimento, stupro o
tortura ad altri che hanno storie ed esperienze simili. La condivisione di
storie traumatiche e di vittimizzazione allevia il bruciante senso di
isolamento, ma spesso si paga il prezzo della negazione dell’esperienza
individuale: l’appartenenza è garantita soltanto dalla conformità al codice
comune.
Isolarsi, all’interno di un gruppo di vittime rigidamente de nito,
promuove una visione dell’esterno come irrilevante nella migliore delle
ipotesi e come pericolosa nella peggiore. Gang, partiti politici estremisti e
culti religiosi possono dare conforto, ma, raramente, incrementano la
essibilità mentale necessaria a essere pienamente aperti a ciò che la vita
ha da offrire e, pertanto, non possono liberare i loro membri dai traumi.
Persone ben funzionanti sono in grado di accettare le differenze
individuali e di riconoscere l’umanità degli altri.
Negli ultimi vent’anni, si è ampiamente dimostrato che adulti o bambini,
troppo attivati o bloccati per trarre conforto dagli esseri umani, si sentono
sollevati dalle relazioni con altri mammiferi. Cani, cavalli e anche del ni
rappresentano una compagnia meno complicata, favorendo, al contempo,
il necessario senso di sicurezza. In particolare, cani e cavalli sono
attualmente molto utilizzati nella cura di gruppi di pazienti
traumatizzati.11
In ne, se non vi è via d’uscita alcuna, e non c’è niente che si possa fare
per prevenire l’inevitabile, si attiverà l’ultimo sistema di emergenza: il
vagale dorsale complesso (DVC). Questo sistema si estende dal di sotto
del diaframma allo stomaco, al fegato, all’intestino, e riduce drasticamente
il metabolismo in tutto il corpo. Si avverte un tuffo al cuore (sentiamo il
cuore “cadere”), non si riesce a respirare e il nostro intestino smette di
funzionare (letteralmente, “ce la facciamo addosso”). Questo è il
momento in cui ci distacchiamo, collassiamo e ci congeliamo.
Attacco/fuga versus collasso
Come abbiamo visto nelle scansioni cerebrali di Stan e Ute, il trauma si
esprime non solo nelle risposte di attacco o fuga, ma anche attraverso lo
spegnimento e il distacco dal momento presente. Ciascuna risposta
corrisponde a un livello diverso di attività cerebrale: il sistema
mammaliano di attacco o fuga, che ci protegge e ci preserva dallo
spegnimento, e il cervello rettiliano, che innesca la risposta di collasso. La
differenza fra questi due sistemi è facilmente osservabile in qualsiasi
grande negozio di animali. Cuccioli di gatto e di cane, topi e gerbilli
giocherellano e, quando sono stanchi, si avvicinano l’un l’altro, “pelle a
pelle”, impilati. Al contrario, serpenti e lucertole giacciono immobili agli
angoli delle loro gabbie, insensibili all’ambiente.14 Questa sorta di
immobilizzazione, generata dal cervello rettiliano, è caratteristica di molte
persone cronicamente traumatizzate, opposta al panico e alla rabbia
mammaliani, che rendono i sopravvissuti a traumi più recenti spaventati e
spaventanti.
Quasi tutti conosciamo la sensazione prodotta dalla risposta di
attacco/fuga per eccellenza, la rabbia al volante: una minaccia improvvisa
innesca un intenso impulso a muoversi e attaccare. Il pericolo spegne il
nostro sistema di coinvolgimento sociale, riduce la responsività alla voce
umana e aumenta la sensibilità ai segnali di minaccia. Eppure, per molte
persone, il panico e la rabbia sono preferibili al loro contrario: spegnersi
ed essere morti per il mondo. L’attivazione del sistema attacco/fuga fa sì
che le persone si sentano almeno piene di energia. Questo ci spiega perché
un così alto numero di persone abusate e traumatizzate si senta
profondamente vivo di fronte a un pericolo reale, mentre appaia
obnubilato in situazioni magari più complesse ma oggettivamente sicure,
come feste di compleanno o cene familiari.
Quando la lotta o la fuga non tengono a bada la minaccia, si attiva
l’ultima alternativa: il cervello rettiliano, il sistema di emergenza di base. È
molto più probabile che questo sistema venga coinvolto in circostanze di
immobilità sica, come quando si è tenuti fermi dall’aggressore o quando
un bambino non ha vie di scampo di fronte a un caregiver terrorizzante.
Collasso e distacco sono controllati dal DVC, una parte
evoluzionisticamente più antica del sistema nervoso parasimpatico,
associata a sintomi digestivi come diarrea e nausea. Rallenta, inoltre, il
cuore e induce una respirazione super ciale. Una volta subentrato questo
sistema, le altre persone cessano di esistere, così come noi stessi. La
consapevolezza si spegne e possiamo non avvertire più alcun dolore sico.
Difesa o rilassamento?
Steve Porges mi ha aiutato a capire che lo stato di base dei mammiferi è
quello di stare sempre un po’ in guardia. Per sentirci emotivamente vicini
a un altro essere umano, tuttavia, il nostro sistema di difesa deve spegnersi
temporaneamente. Per giocare, accoppiarsi e nutrire i propri piccoli, il
cervello ha bisogno di disattivare la naturale vigilanza.
Molti individui traumatizzati sono troppo vigili per godere dei piaceri
ordinari che la vita ha da offrire, mentre altri sono troppo obnubilati per
assimilare le nuove esperienze, o per rilevare i segnali di un effettivo
pericolo. Quando i rilevatori di fumo del cervello non funzionano a
dovere, le persone non corrono più quando dovrebbero scappare da un
pericolo o non lottano quando dovrebbero difendersi. Lo storico studio
ACE (Adverse Childhood Experiences, Eperienze infantili negative), di
cui parlerò più diffusamente nel capitolo 9, ha dimostrato che donne con
una storia precoce di abuso e di trascuratezza hanno una probabilità sette
volte maggiore di essere stuprate in età adulta. Donne che, da bambine,
hanno assistito alla violenza, subita dalle loro madri a opera dei loro
compagni, hanno una possibilità molto consistente di divenire, a loro
volta, vittime di violenza domestica.16
Molte persone si sentono al sicuro nché possono limitare i contatti
sociali a conversazioni super ciali, ma il contatto sico concreto può
provocare reazioni intense. Tuttavia, come sottolinea Porges, raggiungere
un qualsiasi tipo di intimità profonda – un abbraccio intimo, dormire con
un compagno e il sesso – richiede il concedersi di sperimentare
un’immobilizzazione senza paura.17 È particolarmente complicato per le
persone traumatizzate discernere quando sono realmente al sicuro e in
grado di mettere in atto il loro apparato difensivo da quando sono in
pericolo. Ciò richiede esperienze che possano ristabilire il senso di
sicurezza sica, tema su cui ritorneremo spesso nei capitoli seguenti.
Perdere il corpo,
perdere se stessi
Sherry entrò nel mio uf cio con le spalle curve e il mento che quasi le si
appoggiava sul petto. Prima ancora che venisse pronunciata una parola, il
suo corpo comunicava la paura di affrontare il mondo. Notai anche che le
maniche lunghe coprivano solo parzialmente le croste sugli avambracci.
Dopo essersi seduta, mi disse, con un tono di voce acuto e monocorde, di
non riuscire a smettere di strapparsi la pelle delle braccia e del petto, no
a sanguinare.
Per quanto potesse ricordare, la madre aveva sempre gestito una casa
d’accoglienza, spesso affollata da una quindicina di ragazzi strani,
fortemente agitati, spaventati e spaventanti, che sparivano all’improvviso
così come erano arrivati. Sherry era cresciuta prendendosi cura dei
bambini che transitavano in casa, sentendo che non c’era un posto per lei
e per i suoi bisogni. “So di non essere stata voluta”, mi disse, “Non
ricordo esattamente quando sono giunta a una simile conclusione, ma i
segnali di questa comprensione stavano nelle cose che mia madre mi
diceva, come, per esempio: “Sai, non credo che tu appartenga a questa
famiglia. Credo che ci abbiano dato la bambina sbagliata”. Sherry riferiva
queste cose sorridendo, ma, come spesso accade, le persone ricorrono
all’ironia quando devono parlare delle cose più dolorose.
Nel corso degli anni, il nostro gruppo di ricerca aveva trovato svariate
conferme rispetto al fatto che l’abuso emotivo cronico e la grave
trascuratezza possano essere altrettanto devastanti quanto l’abuso sico e
le molestie sessuali.1 Sherry si rivelava un esempio vivente di questi
risultati: il non essere visti, il non essere riconosciuti e il non avere
nessuno a cui rivolgersi per sentirsi al sicuro sono sconvolgenti a qualsiasi
età, ma risultano particolarmente distruttivi per i bambini piccoli, che
stanno ancora cercando di trovare il loro posto nel mondo.
Sherry si era laureata, ma, al momento, lavorava, senza alcuna
soddisfazione, come impiegata; viveva sola con i suoi gatti e non aveva
amici intimi. Quando le chiesi delle relazioni sentimentali, mi disse di aver
avuto un’unica “relazione” con l’uomo che l’aveva rapita, durante una
vacanza studio in Florida. L’uomo l’aveva tenuta prigioniera e l’aveva
violentata ripetutamente per cinque giorni consecutivi. Sherry ricordava
di essere rimasta raggomitolata su se stessa, terrorizzata e congelata per la
maggior parte del tempo, no a quando si era resa conto di poter provare
a scappare, uscendo mentre l’uomo era in bagno. Una volta fuori, chiamò
la madre per chiedere aiuto, ma quest’ultima ri utò di ricevere la
chiamata. Sherry, alla ne, riuscì a tornare a casa, sostenuta da un centro
contro la violenza domestica.
Mi riferì di aver iniziato a strapparsi la pelle per ottenere un po’ di
sollievo dalla sensazione di ottundimento. Le sensazioni siche la facevano
sentire più viva, ma la facevano anche vergognare profondamente: era
dipendente da queste azioni, ma non riusciva a interromperle. Aveva
consultato molti professionisti della salute mentale prima di me e le erano
state rivolte continuamente domande sui “comportamenti suicidari”. Era
anche stata sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio da uno
psichiatra, che si era ri utato di curarla, almeno nché non avesse
promesso di smetterla di strapparsi la pelle. Tuttavia, nella mia esperienza,
i pazienti che si tagliano o si tolgono la pelle, come Sherry, sono raramente
pazienti suicidari: stanno, di fatto, cercando di sentirsi meglio nel solo
modo che conoscono.
Per molti, questo è un concetto di dif cile comprensione. Come ho
detto nel capitolo precedente, il modo più comune di affrontare momenti
di grave stress è quello di cercare le persone che amiamo, con dando nel
loro aiuto e nel loro sostegno, per riuscire ad andare avanti. È possibile
calmarsi anche impegnandosi in un’attività sica, come andare in
bicicletta o in palestra. Apprendiamo queste strategie di regolazione
emotiva n dal primo momento in cui qualcuno ci nutre se siamo
affamati, ci copre se abbiamo freddo o ci culla quando stiamo male o
abbiamo paura. Ma se nessuno ci ha mai rivolto sguardi amorevoli o si è
sciolto in un sorriso guardandoci, se nessuno si è mai precipitato ad
aiutarci (ma, piuttosto, ci ha sempre detto: “Non piangere o ti darò io
qualcosa per cui piangere”), allora dobbiamo necessariamente trovare
altre strategie di cura. E, probabilmente, si farà ricorso a qualcosa che ci
dia un po’ di sollievo, come, per esempio, farmaci, alcol, condotte
alimentari anoressiche o bulimiche o il tagliarsi.
Se, da una parte, Sherry si presentava puntuale a ogni appuntamento,
rispondendo alle domande con assoluta sincerità, dall’altra, sentivo di non
aver costruito quella connessione vitale, necessaria perché la terapia
funzionasse. Essendo particolarmente colpito da quanto Sherry fosse
congelata e tesa, le suggerii di consultare Liz, una collega che praticava i
massaggi terapeutici, con cui mi ero trovato a lavorare qualche tempo
prima. Al primo incontro, Liz chiese a Sherry di stendersi sul lettino da
massaggio, spostandosi alla base dello stesso e tenendole delicatamente i
piedi. Sdraiata, con gli occhi chiusi, Sherry, improvvisamente, gridò in
preda al panico: “Dove sei?”. Era come se avesse perso le tracce di Liz,
che pure era lì, con le mani sui suoi piedi.
Sherry è stata una delle prime pazienti a insegnarmi la profonda
disconnessione del corpo, tipica di tante persone traumatizzate e
gravemente trascurate. Scoprii che la mia formazione professionale, così
concentrata sul capire e sull’intuire, aveva largamente tralasciato
l’importanza del corpo che vive e respira, vale a dire, la base del nostro Sé.
Sherry sapeva che strapparsi la pelle era un atto autolesivo legato alla
trascuratezza materna, ma il fatto di comprendere l’origine dell’impulso
non faceva alcuna differenza nell’aiutarla a controllarlo.
Perdere il corpo
Sulla base di questa realizzazione, ero piuttosto colpito dal constatare che
molti pazienti non riuscivano a percepire intere aree del loro corpo.
Talvolta, chiedevo loro di chiudere gli occhi e di dirmi cosa avessi messo
sulla loro mano protesa. Che fosse una chiave di un’auto, una moneta, o
un apriscatole, non riuscivano, quasi mai, a indovinare di cosa si trattasse:
in parole povere, le loro percezioni sensoriali non funzionavano.
Parlai di ciò con il mio amico Alexander McFarlane, australiano, che si
era trovato a osservare lo stesso tipo di fenomeno. Nel suo laboratorio di
Adelaide aveva preso in considerazione il seguente quesito: se non
guardiamo, come facciamo a sapere che stiamo tenendo in mano una
chiave della macchina? Per riconoscere un oggetto tenuto nel palmo della
mano, è necessario percepirne la forma, il peso, la temperatura, la
consistenza e la posizione. Ciascuna di queste esperienze sensoriali viene
trasmessa a una parte diversa del cervello, che, in seconda istanza, dovrà
integrarle in un’unica percezione. McFarlane scoprì che le persone con
PTSD avevano, spesso, dif coltà ad arrivare a un’immagine unica.2
Quando i nostri sensi si attutiscono, non ci sentiamo più “pienamente
vivi”. In un articolo intitolato “What is an emotion?” (1884),3 William
James, padre della psicologia americana, riportava un caso eclatante di
“insensibilità sensoriale” in una donna con cui aveva fatto dei colloqui:
“Non ho… sensazioni umane”, gli aveva detto. “[Sono] circondata da
tutto ciò che può rendere la vita felice e piacevole, ma mi manca la
capacità di goderne e di sentire… Ciascuno dei miei sensi, ogni parte del
mio stesso Sé è come se fosse separata da me e non mi permette alcun
sentimento; questa impossibilità sembra dipendere da un vuoto che sento
nella parte anteriore della testa e che mi pare essere causa della
diminuzione della sensibilità su tutta la super cie del mio corpo, perché
mi sembra di non raggiungere mai realmente gli oggetti che tocco. Tutto
questo sarebbe una cosa abbastanza da poco, ma per me il suo effetto è
spaventoso, perché l’impossibilità di percepire qualsiasi tipo di sensazione
e qualsiasi tipo di divertimento, sebbene ne abbia bisogno e lo desideri,
rende la mia vita una tortura incomprensibile”. Questa risposta al trauma
solleva un importante quesito: come fanno le persone traumatizzate a
imparare a integrare esperienze sensoriali comuni, in modo da vivere
emotivamente regolate, sentendosi al sicuro e intere nel loro corpo?
Come facciamo a sapere di essere vivi?
I primi studi di neuroimaging su persone traumatizzate erano, per lo più,
simili a quelli che abbiamo visto nel capitolo 3: si concentravano, cioè, sul
modo in cui i soggetti reagivano a speci che sollecitazioni dell’evento
traumatico. In seguito, nel 2004, la mia collega Ruth Lanius, che si era
occupata delle scansioni del cervello di Ute e Stan Lawrence, mise sul
tavolo una nuova questione: cosa succede nel cervello dei sopravvissuti al
trauma, quando non stanno pensando al passato? I suoi studi sul cervello
inattivo, la default state network (DSN), hanno scritto un nuovo capitolo
nella comprensione di come il trauma intacchi l’autoconsapevolezza e,
nello speci co, l’autoconsapevolezza sensoriale.4
La dottoressa Lanius aveva raggruppato sedici canadesi “normali”, per
sottoporli a scansione cerebrale, in un lasso di tempo in cui veniva chiesto
loro di non pensare a nulla di particolare. Naturalmente, questo non è un
compito facile per nessuno: nché siamo svegli, il nostro cervello ribolle in
continuazione. La dottoressa, infatti, aveva suggerito ai soggetti di portare
l’attenzione al loro respiro, cercando di svuotare il più possibile la mente.
In un secondo momento, replicò l’esperimento con diciotto persone con
storie di abuso grave e cronico durante l’infanzia. Cosa fa, dunque, il
cervello quando non ci passa nulla di particolare per la mente? Ne risultò
che si presta attenzione a noi stessi: lo stato di default attiva le aree del
cervello che contribuiscono alla creazione del senso di “sé”.
Analizzando le scansioni dei soggetti normali, Ruth scoprì l’attivazione
di quelle stesse regioni DSN, descritte da altri ricercatori prima di lei. Mi
piace chiamare queste regioni il Mohawk5 dell’autoconsapevolezza:
strutture della linea mediana del cervello, che partono proprio da sopra gli
occhi, attraversano il centro del cervello, arrivando no alla parte
posteriore. Tutte queste strutture della linea mediana sono coinvolte nel
nostro senso di sé. La regione più vasta, attivata nella parte posteriore del
cervello, è il cingolato posteriore, che ci conferisce la sensazione sica di
dove siamo, una sorta di GPS interno. Tale area è strettamente collegata
alla corteccia prefrontale mediale (MPFC), la torre di controllo, di cui ho
parlato nel capitolo 4 (questa connessione non è visualizzabile nella
scansione, in quanto non è misurabile tramite fMRI). Il cingolato
posteriore è, inoltre, collegato con le aree del cervello che registrano
sensazioni provenienti dal resto del corpo: l’insula, che trasmette i
messaggi dalle viscere ai centri emotivi; i lobi parietali, che integrano le
informazioni sensoriali; il cingolato anteriore, che coordina emozioni e
pensiero. Tutte queste aree contribuiscono alla coscienza. Le immagini di
contrasto delle scansioni dei diciotto pazienti con PTSD da trauma dello
sviluppo precoce e grave erano sorprendenti: non si registrava quasi
alcuna attivazione delle aree cerebrali deputate al senso di sé; l’MPFC, il
cingolato anteriore, la corteccia parietale e l’insula non erano per nulla
illuminati; l’unica zona che mostrava una leggera attivazione era il
cingolato posteriore, responsabile dell’orientamento di base nello spazio.
Ci poteva essere una sola spiegazione per risultati simili: in risposta al
trauma stesso, per far fronte alla paura che persiste anche molto tempo
dopo l’evento traumatico, questi pazienti avevano imparato a spegnere le
aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni che
accompagnano e de niscono il terrore. Eppure, nella vita di tutti i giorni,
quelle stesse aree cerebrali sono responsabili della registrazione dell’intera
gamma delle emozioni e delle sensazioni che danno sostanza
all’autoconsapevolezza, al senso di chi siamo. Ciò di cui eravamo
testimoni era un tragico adattamento: nel tentativo di annullare le
sensazioni terri canti, i pazienti traumatizzati morti cano la capacità di
sentirsi pienamente vivi.
La non attivazione dell’area mediale prefrontale potrebbe spiegare il
motivo per cui molte persone traumatizzate perdono determinazione e
orientamento. Mi sono sempre sorpreso di quanto spesso i pazienti mi
chiedano consigli in merito a cose della quotidianità e di come, in ne, non
li seguano. Ora ero in grado di capire che il rapporto con il proprio
mondo interno è compromesso. Come avrebbero potuto prendere
decisioni o compiere delle azioni, senza riuscire a de nire quale fosse la
propria volontà o, più precisamente, ciò che le sensazioni corporee – la
base di tutte le emozioni – stavano cercando di dire loro? La mancanza di
autoconsapevolezza nelle vittime di trauma infantile cronico è, talvolta,
così profonda da non permettere ai pazienti di riconoscersi allo specchio.
Scansioni cerebrali mostrano che questo non è il risultato di una mera
disattenzione: le strutture addette all’autoriconoscimento risultano “messe
al tappeto”, così come quelle correlate all’esperienza di sé.
Quando Ruth Lanius mi mostrò i risultati del suo lavoro, mi tornò alla
mente una frase dei miei studi classici. Si suppone che il matematico
Archimede, spiegando le leve, abbia detto: “Datemi un punto d’appoggio
e vi solleverò il mondo”, che, tradotto nelle parole del grande terapeuta
corporeo Moshe Feldenkrais, potrebbe essere: “Non si può fare ciò che si
vuole, se non si sa cosa si sta facendo”. Le implicazioni di tutto ciò sono
chiare: per sentirsi presenti bisogna sapere dove si è ed essere consapevoli
di ciò che ci sta accadendo. Se il sistema del senso di Sé è danneggiato,
bisogna trovare il modo di riattivarlo.
Il sé sotto minaccia
Nel 2000, Damasio e i suoi colleghi pubblicarono un articolo sulla rivista
scienti ca più prestigiosa del mondo, Science, in cui rivelavano che
rivivere le emozioni negative provoca cambiamenti signi cativi in aree
cerebrali, che ricevono segnali nervosi dai muscoli, dall’intestino e dalla
pelle: da tutte quelle aree che sono essenziali nella regolazione delle
funzioni corporee di base. Le scansioni cerebrali dell’équipe mostravano
che la riesposizione a un evento del passato, connotato emotivamente,
comporta effettivamente il riesperire le stesse sensazioni viscerali, vissute
durante l’evento originario. Un tipo speci co di emozione generava uno
schema caratteristico, diverso da tutti gli altri. Per esempio, una zona
particolare del tronco encefalico “era attiva nella tristezza e nella rabbia,
ma non nella felicità e nella paura”.12 Tutte queste regioni cerebrali sono
gestite dal sistema limbico, che tradizionalmente è connesso alle emozioni:
è possibile riconoscerne il loro coinvolgimento tutte le volte che
ricorriamo a espressioni linguistiche comuni, che legano le forti emozioni
con il corpo; per esempio, “mi fa venire il voltastomaco”, “mi fai
accapponare la pelle”, “avevo un nodo alla gola”, “ho avuto un colpo al
cuore”, “mi fa rizzare i capelli in testa”.
L’elementare sistema del sé del tronco encefalico e il sistema limbico si
attivano in modo massivo quando le persone devono affrontare la
minaccia di morte, che determina un sentimento travolgente di paura e
terrore, accompagnato da un intenso arousal siologico. Per le persone
che stanno rivivendo un trauma, niente ha senso; sono intrappolate in
situazioni in cui si tratta sempre di vita o di morte, uno stato di paura
paralizzante o di rabbia cieca. Mente e corpo sono costantemente attivati,
come se queste persone fossero esposte a un pericolo imminente. Hanno
risposte di trasalimento anche a rumori di lieve entità e sono frustrateda
irritazioni di poco conto. Hanno un sonno cronicamente disturbato, e il
cibo, spesso, perde quell’aspetto di piacere dei sensi. Tutto ciò, a sua
volta, può innescare disperati tentativi di spegnimento delle emozioni
stesse, attraverso il freezing o la dissociazione.13
Come fanno le persone a recuperare il controllo quando il loro cervello
animale è coinvolto in una battaglia per la sopravvivenza? Realisticamente,
si può essere capaci di esercitare un qualche tipo di controllo, se ciò che
accade nel profondo del cervello animale determina i nostri vissuti e se le
sensazioni corporee sono orchestrate dalle strutture sottocorticali
(subconscie)?
1. K.L. Walsh, M. Blaustein, W.G. Knight, J. Spinazzola, B.A. van der Kolk (2007), “Resiliency
factors in the relation between childhood sexual abuse and adulthood sexual assault in college-age
women”, in Journal of Child Sexual Abuse, 16(1), pp. 1-17.
2. A.C. McFarlane (2010), “The long-term costs of traumatic stress: Intertwined physical and
psychological consequences”, in World Psychiatry, 9(1), pp. 3-10.
3. W. James (1884),“What is an emotion?”, in Mind, 9, pp. 188-205.
4. R.L. Bluhm, P.C. Williamson, E.A. Osuch, P.A. Frewen, T.K. Stevens, K. Boksman (2009),
“Alterations in default network connectivity in Post-traumatic Stress Disorder related to early-life
trauma”, in Journal of Psychiatry & Neuroscience, 34(3), p. 187. Vedi anche J.K. Daniels, A.C.
McFarlane, R.L. Blume, K.A. Moores, C.R. Clark, M.E. Shaw (2010), “Switching between
executive and default mode networks in Post-traumatic Stress Disorder: Alterations in functional
connectivity”, in Journal of Psychiatry & Neuroscience, 35(4), p. 258.
5. ll taglio alla Mohawk, noto come taglio alla moicana, che prende spunto dall’acconciatura
dell’omonima tribù dei nativi americani, consiste nella rasatura ai due lati della testa, che lascia una
striscia centrale di capelli lunghi e “sparati”. [NdC]
6. Think tank, signi ca, letteralmente, “serbatoio di pensiero”, pensatoio. Si tratta di gruppi,
indipendenti da appartenenze politiche, che si dedicano all’analisi di svariate questioni della vita
pubblica, sociale, scienti ca. Il primo think tank venne istituito durante la seconda guerra
mondiale dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, per analizzare l’andamento della guerra.
[NdC]
7. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000. Damasio recentemente ha
detto: “La consapevolezza è stata inventata per poter conoscere la vita”, p. 31.
8. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 45.
9. Ibidem, p. 45.
10. A. Damasio (2010), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, tr. it. Adelphi,
Milano 2012, p. 35.
11. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000, pp. 329-330.
12. A. Damasio, T.G. Grabowski, A. Bechara, H. Damasio, L.L.B. Ponto, J. Parvizi, R.D. Hichwa
(2000), “Subcortical and cortical brain activity during the feeling of self-generated emotions”, in
Nature Neuroscience, 3(10), pp. 1049-1056.
13. T.S. Reinders, E.R.S. Nijenhuis, A.M. Paans, J. Korf, A.T. Willemsen, J.A. den Boer (2003),
“One brain, two selves”, in NeuroImage, 20, pp. 2119-2125. Vedi anche E.R.S. Nijenhuis, O. van
der Hart, K. Steele, “The emerging psychobiology of trauma-related Dissociation and Dissociative
Disorders”, in H. D’Haenen, J.A. den Boer, P. Willner (2002), Biological Psychiatry, Wiley, West
Sussex, UK, vol. 2, pp. 1079-1198; J. Parvizim, A.R. Damasio (2001), “Consciousness and the brain
stem”, in Cognition, 79, pp. 135-159; F.W. Putnam (1994), “Dissociation and Disturbances of
Self”, in D. Cicchetti, S.L. Toth (1994), Dysfunctions of the Self, University of Rochester Press,
New York, vol. 5, pp. 251-265; F.W. Putnam (1997), La dissociazione nei bambini e negli
adolescenti. Una prospettiva evolutiva, tr. it. Astrolabio, Roma 2005.
14. Concetto mutuato dalla teoria sociale-cognitiva, l’agentività umana può essere intesa come la
capacità di agire in modo attivo e trasformativo nel contesto in cui si è inseriti e si realizza
attraverso la facoltà di generare azioni, nalizzate a ottenere degli scopi. Riguarda tutti gli atti
compiuti intenzionalmente, indipendentemente dal loro esito, con una sottostante convinzione di
poter avere effettivamente un’in uenza sugli accadimenti. [NdC]
15. A. D’Argembeau, P. Ruby, F. Collette, C. Degueldre, E. Balteau, A. Luxen, P. Maquet, E.
Salmon (2007), “Distinct regions of the medial prefrontal cortex are associated with self-referential
processing and perspective taking”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 19(6), pp. 935-944. Vedi
anche N.A. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg., J. Bean, D. McKeon, Z. Fatima (2007), “Attending to
the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2(4), pp. 313-322; B.K. Holzel, U. Ott, T. Gard, H. Hempel,
M. Weygandt, M. Morgen, D. Vaitl (2008), “Investigation of mindfulness meditation practitioners
with voxel-based morphometry”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 3(1), pp. 55-61.
16. P.A. Levine (2008), Healing Trauma: A Pioneering Program for Restoring the Wisdom of Your
Body, North Atlantic Books, Berkeley, CA; P.A. Levine (2010), In an Unspoken Voice: How the
Body Releases Trauma and Restores Goodness, North Atlantic Books, Berkeley, CA.
17. P. Ogden, K. Minton (2000), “Sensorimotor psychotherapy: One method for processing
traumatic memory”, in Traumatology, 6(3), pp. 149-173; P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2006), Il
trauma e il corpo. Manuale di psicoterapia sensomotoria, tr. it. Istituto di Scienze Cognitive, Sassari
2012.
18. Famiglia di piante a cui appartengono i gigli e varie forme di lilium. [NdC]
19. D.A. Bakal (2001), Minding the Body: Clinical Uses of Somatic Awareness, Guilford Press, New
York.
20. Sul tema ci sono innumerevoli studi. Per un approfondimento si segnala: J. Wolfe, P.P.
Scnhnurr, P.J. Brown, J. Furey (1994), “Post-traumatic Stress Disorder and war-zone exposure as
correlates of perceived health in female Vietnam war veterans”, in Journal of Consulting and
Clinical Psychology, 62(6), pp. 1235-1240; L.A. Zoellner, M.L. Goodwin, E.B. Foa (2000), “PTSD
severity and health perceptions in female victims of sexual assault”, in Journal of Traumatic Stress,
13(4), pp. 635-649; E.M. Sledjeski, B. Speisman, L.C. Dierker (2008), “Does number of lifetime
traumas explain the relationship between PTSD and chronic medical conditions? Answers from
the National Comorbidity Survey-Replication (NCS-R)”, in Journal of Behavioral Medicine, 31, pp.
341-349; J.A. Boscarino (2004), “Post-traumatic Stress Disorder and physical illness: Results from
clinical and epidemiologic studies”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 1032, pp. 141-
153; M. Cloitre, L.R. Coehn, R.E. Edelman, H. Han (2001), “Post-traumatic Stress Disorder and
extent of trauma exposure as correlates of medical problems and perceived health among women
with childhood abuse”, in Women & Health, 34(3), pp. 1-17; D. Lauterbach, R. Vora, M. Rakow
(2005), “The relationship between Post-traumatic Stress Disorder and self-reported health
problems”, in Psychosomatic Medicine, 67(6), pp. 939-947; B.S. McEwen (1998), “Protective and
damaging effects of stress mediators”, in New England Journal of Medicine, 338(3), pp. 171-179;
P.P. Schnurr, B.L. Green (2004), Trauma and Health: Physical Health Consequences of Exposure to
Extreme Stress, American Psychological Association, Washington, DC.
21. P.K. Trickett, J.G. Noll, F.W. Putnam (2011), “The impact of sexual abuse on female
development: Lessons from a multigenerational, longitudinal research study”, in Development and
Psychopathology, 23(2), p. 453.
22. K. Kosten, F. Giller Jr. (1992), ”Alexithymia as a predictor of treatment response in Post-
Traumatic Stress Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 5(4), pp. 563-573.
23. G.J. Taylor, R.M. Bagby (2004), “New trends in alexithymia research”, in Psychotherapy and
Psychosomatics, 73(2), pp. 68-77.
24. R.D. Lane, L. Sechrest, R. Reidel, V. Weldon, A. Kaszniak, G.E. Schwartz (1996), “Impaired
verbal and nonverbal emotion recognition in alexithymia”, in Psychosomatic Medicine, 58(3), pp.
203-210.
25. H. Krystal, H.J. Krystal (1988), Integration and Self-Healing: Affect, Trauma, Alexithymia,
Analytic Press, New York.
26. P. Frewen, R.A. Lanius, D.J. Dozois, R.W. Neufeld, C. Pain, J.W. Hopper (2008), “Clinical and
neural correlates of alexithymia in Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Abnormal
Psychology, 117(1), pp. 171-181.
27. D. Finkelhor, R.K. Ormrod, H.A. Turner (2007), “Re-victimization patterns in a national
longitudinal sample of children and youth”, in Child Abuse & Neglect, 31, (5), pp. 479-502; J.A.
Schumm, S.E. Hobfoll, N.J. Keogh (2004), “Revictimization and interpersonal resource loss
predicts PTSD among women in substance-use treatment”, in Journal of Traumatic Stress, 17(2),
pp. 173-181; J.D. Ford, J.D. Elhai, D.F. Connor, B.C. Frueh (2010), “Poly-victimization and risk of
post-traumatic, depressive, and substance use disorders and involvement in delinquency in a
national sample of adolescents”, in Journal of Adolescent Health, 46(6), pp. 545-552.
28. P. Schilder (1996), “Depersonalization”, in Introduction to a Psychoanalytic Psychiatry, 50,
International Universities Press, New York, p. 120.
29. S. Arzy, L. Overney, T. Landis, O. Blanke (2006), “Neural mechanisms of embodiment:
Asomatognosia due to premotor cortex damage”, in Archives of Neurology, 63(7), pp. 1022-1025.
Vedi anche S. Arzy, M. Seeck, S. Ortigue, L. Spinelli, O. Blanke (2006), “Induction of an illusory
shadow person”, in Nature, 443(7109), p. 287; S. Arzy, G. Thut, C. Mohr, C.M. Michel, O. Blanke
(2006), “Neural basis of embodiment: Distinct contributions of temporoparietal junction and
extrastriate body area”, in Journal of Neuroscience, 26(31), pp. 8074-8081; O. Blanke, T. Landis, L.
Spinelli, M. Seeck (2004), “Out-of-body experience and autoscopy of neurological origin”, in
Brain, 127, 2, pp. 243-258; M. Sierra, J. Gomez, J.J. Molina, R. Luque, J.F. Muñoz, A.S. David
(2005), “Unpacking the depersonalization syndrome: An exploratory factor analysis on the
Cambridge Depersonalization Scale”, in Psychological Medicine, 35, pp. 1523-1532.
30. A.A.T. Reinders, E.R.S. Nijenhuis, J. Quak, J. Korf, J. Haaksma, A.M. Paans, J.A. den Boer
(2006), “Psychobiological characteristics of Dissociative Identity Disorder: A symptom
provocation study”, in Biological Psychiatry, 60(7), pp. 730-740.
31. Nel suo libro Focusing del 1982, Eugene Gendlin ha coniato il termine “sensazione sentita”
(felt sense): “Una sensazione sentita non è un’esperienza mentale, ma sica. L’impressione corporea
di una situazione, di una persona o di un avvenimento” (tr. it. Astrolabio, Roma, 2001, p. 44).
32. C. Steuwe, J.K. Daniels, P.A. Frewen, M. Densmore, S. Pannasch, T. Beblo, J. Reiss, R.A.
Lanius (2014), “Effect of direct eye contact in PTSD related to interpersonal trauma: An fMRI
study of activation of an innate alarm system”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 9(1),
pp. 88-97.
Parte terza
Una delle nostre tavole illustrava una scena familiare: due ragazzini
sorridenti, che guardavano il papà riparare una macchina. Ciascun
bambino che guardava la tavola si focalizzava sul pericolo a cui sembrava
esposto l’uomo steso sotto il veicolo. Mentre il gruppo di controllo
raccontava storie con un nale positivo – la macchina sarebbe stata
riparata e probabilmente il papà e i bambini sarebbero andati da
McDonald’s –, i bambini traumatizzati narravano storie raccapriccianti.
Una ragazzina disse che la bambina nella foto avrebbe fracassato il cranio
del padre con un martello. Un bambino di nove anni, abusato sicamente
in modo grave, riferì una storia articolata, relativa a come il ragazzo nella
foto avrebbe rimosso il cric con un colpo di piede, in modo tale che la
macchina stritolasse il corpo del padre, con uno spargimento di sangue in
tutto il garage.
Nel raccontare queste storie, i nostri pazienti erano molto eccitati e
disorganizzati. Dovevamo trascorrere un considerevole quantitativo di
tempo al distributore dell’acqua fredda, facendo due passi, prima di
mostrare loro la tavola successiva. Era un “tantino” sorprendente che
quasi tutti avessero una diagnosi di ADHD e che fossero tutti sotto
Ritalin, anche se il farmaco non sembrava di certo ridurre la loro
attivazione in questa situazione.
I ragazzini abusati davano poi risposte simili a un’immagine,
apparentemente innocua, di una donna incinta, di pro lo, di fronte a una
nestra. Per esempio, la bambina di sette anni, abusata a quattro,
cominciò a parlare di peni e vagine, chiedendo varie volte a Nina:
“Quante persone ti sei scopata?”. Come tante altre bambine abusate della
nostra ricerca, si agitò così tanto da indurci a fermarci. Una bambina di
sette anni del gruppo di controllo assunse l’umore triste della gura: la sua
storia riguardava una signora vedova, che guardava mestamente fuori
dalla nestra, in preda alla nostalgia del marito. Ma, alla ne, la signora
avrebbe trovato un uomo amorevole, che sarebbe stato un buon padre per
il suo bambino.
Alla tavola successiva, malgrado il loro allarme rispetto alla dif coltà,
osservammo che i bambini non abusati con davano ancora in un universo
essenzialmente benevolo e riuscivano a immaginare delle vie d’uscita da
situazioni complicate. Sembravano sentirsi protetti e al sicuro all’interno
delle loro famiglie e, inoltre, si sentivano amati da almeno uno dei
genitori, e questo faceva una differenza sostanziale nella loro motivazione
a svolgere i compiti scolastici e a imparare.
Le risposte dei bambini dell’ambulatorio erano preoccupanti. Le
immagini più innocenti provocavano vissuti intensi di pericolo,
aggressione, eccitazione sessuale e terrore. Non avevamo selezionato
queste immagini perché contenenti un signi cato implicito, che persone
particolarmente sensibili avrebbero potuto scoprire; erano immagini
ordinarie di vita quotidiana. Potevamo solo giungere alla conclusione che,
per i bambini abusati, il mondo intero fosse pieno di trigger. Finché
riescono a rappresentarsi solo esiti disastrosi anche rispetto a situazioni
relativamente innocue, chiunque entri nella stanza, qualsiasi straniero,
qualsiasi immagine su uno schermo o su un manifesto possono essere
percepiti come precursori di una catastrofe. Sotto questa luce, il
comportamento bizzarro dei bambini della Children’s Clinic risultava
perfettamente comprensibile.2
Con mia grande sorpresa, le discussioni d’équipe menzionavano
raramente le terribili esperienze di vita dei bambini e l’impatto di quei
traumi sui loro vissuti, sui loro pensieri e sulla capacità di autoregolazione.
I loro referti medici, inoltre, erano pieni di etichette diagnostiche:
“Disturbo della condotta” o “Disturbo oppositivo-provocatorio” per i
bambini arrabbiati e ribelli; o “Disturbo bipolare”. L’ADHD era una
diagnosi in comorbilità in quasi tutti i pazienti. Il trauma sottostante,
dunque, era oscurato da questa valanga di diagnosi?
A quel punto, avevamo due grosse s de da affrontare. Una riguardava
l’appurare se le diverse visioni del mondo dei bambini normali potevano
tenere conto della loro resilienza e, a un livello più profondo, il
comprendere il modo in cui ciascun bambino crea effettivamente la sua
mappa del mondo. L’altra domanda, ugualmente importante, era la
seguente: è possibile aiutare la mente e il cervello di bambini brutalizzati a
ridisegnare una mappa interna, che contempli un senso di ducia e di
sicurezza nel futuro?
Questa è una delle ragioni per cui i bambini abusati diventano così
facilmente dif denti o spaventati. Immaginiamo come debba essere farsi
strada in un mare di facce lungo il corridoio della scuola, cercando di
capire chi potrebbe aggredirci. I bambini che reagiscono in modo
esagerato all’aggressività dei loro pari, che non si accorgono dei bisogni
degli altri bambini, che spengono o perdono il controllo dei propri
impulsi, sono, con tutta probabilità, evitati o esclusi dalle occasioni di
gioco o dall’opportunità di fermarsi a dormire a casa di qualcuno.
Possono, in ne, imparare a mascherare la paura, mostrando una durezza
di facciata, oppure possono trascorrere tantissimo tempo da soli,
guardando la TV o giocando con i videogiochi, rimanendo ancora più
indietro nell’acquisizione delle abilità interpersonali e di autoregolazione
emotiva.
Cinque anni fa, durante la vigilia di Natale, sono stato chiamato a
valutare un ragazzo di quattordici anni al Suffolk County Jail, che mi
disse: “Nessuno, ma proprio nessuno, mi presta mai attenzione”. Risultava
che fosse stato colto a scassinare diverse volte in passato. Conosceva la
polizia e i poliziotti conoscevano lui. Con una punta di piacere nella voce,
raccontò che, quando i poliziotti lo avevano sorpreso nel bel mezzo del
soggiorno, avevano gridato: “Oh mio Dio, ancora Jack, quel piccolo glio
di puttana”. Qualcuno lo aveva riconosciuto; qualcuno conosceva il suo
nome. Qualche istante dopo, Jack confessò: “Sai, è per questo che vale la
pena di fare quello che faccio”. I bambini fanno più o meno qualsiasi cosa
per sentirsi visti e connessi.
1. N. Murray, E. Koby, B.A. van der Kolk (1987), “The effects of abuse on childern’s thoughts”, in
B.A. van der Kolk (a cura di), Psycological Trauma, American Psychiatric Press, Washington, DC.
2. La ricercatrice attaccamentista Mary Main raccontò a dei bambini di 6 anni la storia di una
bambina la cui madre se ne era andata via, chiedendo loro di creare una storia relativa a cosa
sarebbe accaduto dopo. Quasi tutti i bambini di sei anni, con attaccamento sicuro, riportavano
alcune storie fantasiose con un nale positivo, mentre bambini di cinque anni, con attaccamento
disorganizzato, avevano l’attitudine a immaginare nali catastro ci e spesso davano risposte
inquietanti, come “i genitori moriranno”, oppure “la bambina si ucciderà”, in M. Main, N. Kaplan,
J. Cassidy (1985), “Security in infancy, childhood and adulthood: A move to level of
representation”, in Monographs of the Society for Research in Child Development.
3. Campagna di bombardamento strategico, condotta sulla Gran Bretagna dal settembre del 1940
al maggio del 1941, dalla Luftwaffe. [NdC]
4. J. Bowlby (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre, tr. it. Bollati
Boringhieri, Torino 1999; J. Bowlby (1975), Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla
madre, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2000; J. Bowlby (1980), Attaccamento e perdita, vol. 3: La
perdita della madre, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2001.
5. C. Trevarthen (1999), “Musicality and the intrinsic motive pulse: Evidence from human
psychobiology and rhythms, musical narrative, and the origins of human communication”, in
Muisae Scientiae, Special Issue, pp. 157-213.
6. A. Gopnik, A.N. Meltzoff (1997), Words, Thoughts and Theories. MIT Press, Cambridge, MA;
A.N. Meltzoff, M.K. Moore (1983), “Newborn infants imitate adult facial gestures”, in Child
Development, 54(3), pp. 702-709; A. Gopnik, A.N. Meltzoff, P.K. Kuhl (2009), Tuo glio è un
genio, tr. it., Dalai Editore, Milano 2010.
7. E.Z. Tronick (1989), “Emotions and emotional communication in infants”, in American
Psychologist, 44(2), p. 112; vedi anche E.Z. Tronick (2007), Regolazione emotiva. Nello sviluppo e
nel processo terapeutico, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008; E.Z. Tronick, M. Beeghly (2011),
“Infants’ meaning-making and the development of mental health problems”, in American
Psychologist, 66(2), p. 107, e A.V. Sravish, E.Z. Tronick, T. Hollstein, M. Beeghley (2013), “Dyadic
exibility during the Face-to-Face Still Face Paradigm: A dynamic systems analysis of its temporal
organization”, in Infant Behavior and Development, 36, 3, pp. 432-437.
8. M. Main (1996), “Overview of the Field of Attachment”, in Journal of Consulting and Clinical
Psychology, 64, 2, pp. 237-243.
9. D.W. Winnicott (1971), Gioco e realtà, tr. it. Armando, Roma 2001. Si vedano anche D.W.
Winnicott (1965), “The maturational processes and the facilitating environment”, in The
International Psycho-Analytical Library, 64, pp. 1-276; D.W. Winnicott (1975), Dalla pediatria alla
psicoanalisi, tr. it. Martinelli-Giunti, Firenze 1998.
10. Come abbiamo visto nel capitolo 6, e come Damasio ha ampiamente dimostrato, questo senso
della realtà interna, almeno in parte, origina dall’insula, la struttura cerebrale che gioca un ruolo
centrale nella comunicazione mente-corpo e che è, spesso, compromessa in persone con storie di
trauma cronico.
11. D.W. Winnicott (1956), “La preoccupazione materna primaria”, in Dalla pediatria alla
psicoanalisi, tr. it. Martinelli-Giunti, Firenze 1998, pp. 357-363.
12. S.D. Pollak, D. Cicchetti, K. Hornung, A. Reed (2000), “Recognizing emotion in faces:
Developmental effects of child abuse and neglect”, in Developmental Psychology, 36(5), p. 679.
13. Ci sono modalità di adattamento con cui si affrontano situazioni stressanti. Ci possono essere
modalità funzionali e disfunzionali. Secondo Lazarus e Folkman, il coping è un insieme di sforzi
cognitivi e comportamentali, compiuti per rispondere alle richieste esterne, in base alle risorse
disponibili. [NdC]
14. P.M. Crittenden (1994), “IV Peering into black box: An exploratory treatise on the
development of self in young children”, in Disorders and Dysfunctions of the Self, 5, p. 79; P.M.
Crittenden, A. Landini (1992), Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento, tr. it. Raffaello
Cortina, Milano 2008.
15. P.M. Crittenden (1992), “Children’s Strategies for Coping with Adverse Home Environments:
An Interpretation Using Attachment Theory”, in Child Abuse and Neglect, 16(3), pp. 329-343.
16. Main, op. cit., 1990
17. Ibidem
18. Ibidem
19. E. Hesse, M. Main (2006), “Frightened, threatening, and dissociative parental behavior in low-
risk samples: Description, discussion and interpretations”, in Development and Psychopathology,
18, 2, pp. 306-343. Si veda anche E. Hesse, M. Main (2000), “Disorganized infant, child and adult
attachment: Collapse in behavioral and attentional strategies”, in Journal of the American
Psychoanalytic Association, 48(4), pp. 1097-1127.
20. M. Main, “Overview of The Field of Attachment”, op. cit.
21. E. Hesse, M. Main, 1995, op. cit., p. 310.
22. Abbiamo osservato ciò da un punto di vista biologico quando, nel capitolo 5, abbiamo parlato
di “immobilizzazione senza paura”. S.W. Porges (1995), “Orienting a difensive world: Mammalian
modi cations of our evolutionary heritage: A polyvagal theory”, in Psychophysiology, 32, pp. 301-
318.
23. M.H. Van Ijzendoorn, C. Schuengel, M. Bakermans-Kranenburg (1999), “Disorganized
attachment in early childhood: Meta-analysis of precursors, concomitants and Sequelae”, in
Development and Psychopathology, 11, pp. 225-249.
24. M.H. Van Ijzendoorn, op. cit.
25. N.W. Boris, M. Fueyo, C.H. Zeanah (1997), “The clinical assessment of attachment in children
under ve”, in Journal of The American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 36(2), pp. 291-
293; K. Lyons-Ruth (1996), “The role of disorganized early attachment patterns”, in Journal of
Consulting and Clinical Psychology, 64(1), p. 64.
26. S.W. Porges, J.A. Doussard-Roosvelt, A. Lourdes-Portales, S.I. Greenspan (1996), “Infant
regulation of the vagal ‘brake’ predicts child behavior problems: A psychobiological model of
social behavior”, in Developmental Psychobiology, 29(8), pp. 697-712.
27. L. Hertsgaard, M. Gunnar, M. Farrel Erickson, M. Nachmias (1995), “Adrenocortical
responses to the Strange Situation in infants with disorganized/disoriented attachment
relationships”, in Child Development, 66(4), pp. 1100-1106; G. Spangler, K.E. Grossmann (1993),
“Biobehavioral organization in securely and insecurely attached infants”, in Child Development,
64(5), pp. 1439-1450.
28. M. Main, E. Hesse (1990), op. cit. M.H. Van Ijzendoorn, C. Schuengel, M. Bakermans-
Kranenburg (1999), “Disorganized Attachment in Early Childhood”, op. cit.
29. B. Beebe, F.M. Lachmann (2002), Infant Research e trattamento negli adulti. Un modello
sistemico-dinamico delle interazioni, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2003.
30. R. Yehuda, J. Scheidler, M. Wainberg, K. Binder-Brynes, B.A. Duvdevani (1998),
“Vulnerability to post-traumatic stress disorder in adult offspring of Holocaust survivors”, in
American Journal of Psychiatry, 155(9), pp. 1163-1171. Vedi anche R. Yehuda, J. Scheidler, E.L.
Giller, L.G. Siever, K. Binder-Brynes (1998), “Relationship between post-traumatic stress disorder
characteristics of Holocaust survivors and their adult offspring”, in American Journal of Psychiatry,
155(6), pp. 841-843; R. Yehuda, M.H. Teicher, J.R. Seckel, R.A. Grossman, A. Morris, L.M. Bierer
(2007), “Parental post-traumatic stress disorder as a vulnerability factor for low cortisol trait in
offspring of Holocaust survivors”, in Archives of General Psychiatry, 64(9), p. 1040; R. Yehuda, A.
Bell, L.M. Bierer, J. Schmeidler (2008), “Maternal, not paternal, PTSD is related to increased risk
for PTSD in offspring of Holocaust survivors”, in Journal of Psychiatric Research, 42(13), pp. 1104-
1111.
31. R. Yehuda, S. Mulherin Engel, S.R. Brand, J. Seckl, G.S. Berkowitz (2005), “Transgenerational
effects of PTSD in babies of mothers exposed to the WTC attacks during pregnancy”, in Journal of
Clinical Endocrinology and Metabolism, 90, pp. 4115-4118.
32. G. Saxe, F. Stodard, D. Courtney, K. Cunningham, N. Chawla, R. Sheridan, D. King, L. King
(2001), “Relationship between acute morphine and the course of PTSD in children with burns”, in
Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 40(8), pp. 915-921. Vedi anche
G. Saxe, F. Stoddard, E. Hall, N. Chawla, C. Lopez, R. Sheridan, D. King, L. King, R. Yehuda
(2005), “Pathways to PTSD, Part I: Children with burns”, in American Journal of Psychiatry,
162(7), pp. 1299-1304.
33. C.M. Chemtob, Y. Nomura, R.A. Abramovitz (2008), “Impact of conjoined exposure to the
World Trade Center attacks and to other traumatic events on the behavioral problems of preschool
children”, in Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 162(2), p. 126. Si veda anche P.J.
Landrigan, J. Forman, M. Galvez, B. Newman, S.M. Engel, C. Chetomb (2008), “Impact of
September 11 World Trade Center disaster on children and pregnant women”, in Mount Sinai
Journal of Medicine, 75(2), pp. 129-134.
34. D. Finkelhor, R.H. Ormrod, H.A. Turner (2007), “Polyvictimization and trauma in a national
longitudinal cohort”, in Development and Psychopathology 19(1), pp. 149-166; J.D. Ford, J.D.
Elhai, D.F. Connor, B.C. Frueh (2010), “Polyvictimization and risk of post-traumatic, depressive,
and substance use disorders and involvement in delinquency in a national sample of adolescents”,
in Journal of Adolescent Health, 46(6), pp. 545-552; J. Ford, D. Grasso, C. Greene, J. Levine, J.
Spinazzola, B.A. van der Kolk (2013), “Clinical signi cance of a proposed development trauma
disorder diagnosis: Results of an international survey of clinicians”, in Journal of Clinical
Psychiatry, 74(8), pp. 841-849.
35. Family Pathways Project, http://www.challiance.org/academics/familypathway- sproject.aspx.
36. K. Lyons-Ruth, D. Block (1996), “The disturbed caregiving system: Relations among childhood
trauma, maternal caregiving, and infant affect and attachment”, in Infant Mental Health Journal,
17(3), pp. 257-275.
37. K. Lyons-Ruth (2003), “The two-person construction of defenses: Disorganized attachment
strategies, unintegrated mental states, and hostile/helpless relational processes”, in Journal of
Infant, Child, and Adolescent Psychotherapy, 2, p. 105.
38. G. Whitmer (2001), “On the nature of dissociation”, in Psychoanalytic Quarterly, 70(4), pp.
807-837. Vedi anche K. Lyons-Ruth (2002), “The two-person construction of defenses:
Disorganized attachment strategies, unintegrated mental states, and hostile/helpless relational
processes”, in Journal of Infant, Child, and Adolescent Psychotherapy, 2(4), pp. 107-119.
39. M.S. Ainsworth, J. Bowlby (1991), “An ethological approach to personality development”, in
American Psychologist, 46(4), pp. 333-341.
40. K. Lyons-Ruth, D. Jacobvitz (1999); M. Main (1993); K. Lyons-Ruth (2003), “Dissociation and
the parent-infant dialogue: A longitudinal perspective from attachment research”, in Journal of the
American Psychoanalytic Association, 51(3), pp. 883-911.
41. L. Dutra, J.F. Bureau, B. Holmes, A. Lyubchik, K. Lyons-Ruth (2009), “Quality of early care
and childhood trauma: A prospective study of developmental pathways to dissociation”, in Journal
of Nervous and Mental Disease, 197(6), p. 383. Si veda anche K. Lyons-Ruth, J.F. Bureau, B.
Holmes, A. Easterbrooks, N.H. Brooks (2013), “Borderline symptoms and suicidality/self-injury in
late adolescence: Prospectively observed relationship correlates in infancy and childhood”, in
Psychiatry Research, 206, n. 2-3, pp. 273-281.
42. Per la meta-analisi dei relativi contributi sull’attaccamento disorganizzato e il maltrattamento
infantile, vedi C. Schuengel, M.J. Bakermans-Kranenburg, M.H. van IJzendoorn (1999),
“Frightening maternal behavior linking unresolved loss and disorganized infant attachment”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 67(1), p. 54.
43. K. Lyons-Ruth, D. Jacobvitz (2003), “La disorganizzazione dell’attaccamento: perdite non
elaborate, violenza relazionale e cadute nelle strategie comportamentali e attentive”, in J. Cassidy,
R. Shaver (a cura di), Manuale dell’Attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche, tr. it. Fioriti,
Roma 2010, pp. 591-631. Si veda anche E. O’Connor, J.F. Bureau, K. McCartney, K. Lyons-Ruth
(2011), “Risks and outcomes associated with disorganized/controlling patterns of attachment at
age three years in the National Institute of Child Health & Human Development Study of Early
Child Care and Youth Development”, in Infant Mental Health Journal, 32(4), pp. 450-472; K.
Lyons-Ruth, J.F. Bureau, B. Holmes, A. Easterbrooks, N.H. Brooks (2013), “Borderline symptoms
and suicidality/self-injury in late adolescence: Prospectively observed relationship correlates in
infancy and childhood”, in Psychiatry Research, 206, 2-3, pp. 273-81.
44. Edward Estlin Cummings. Poeta, illustratore, pittore, saggista e drammaturgo americano,
morto nel 1962. Celebre il suo libro La stanza enorme (1922). Noto per un uso poco convenzionale
delle regole grammaticali e della punteggiatura, i suoi testi risultano spesso di dif cile
comprensione. La strofa di questa pagina è tratta dalla poesia Mi piace il mio corpo quand’è con il
tuo da Poesie, Scheiwiller, Milano 1961, traduzione di Mary De Rachewiltz. [NdC]
45. Disponiamo ancora di poche informazioni in merito ai fattori che in uenzano l’evoluzione di
queste anomalie regolatorie precoci, ma si suppone che gli eventi di vita, la qualità delle altre
relazioni e forse anche i fattori genetici possano apportare delle modi cazioni nel corso del tempo.
È, ovviamente, essenziale studiare in che misura una genitorialità coerente e consistente di bambini
con precoci storie di abuso e trascuratezza possa riaggiustare i sistemi biologici.
46. E. Warner, J. Koomar, B. Lary, A. Cook (2003), “Can the body change the score? Application
of sensory modulation principles in the treatment of traumatized adolescents in residential
settings”, in Journal of Family Violence, 28(7), pp. 729-738.
8
Terrore e ottundimento
Durante il colloquio, Marilyn mi disse che Michael era il primo uomo che
aveva portato a casa negli ultimi cinque anni, ma non era la prima volta in
cui aveva perso il controllo quando un uomo passava la notte con lei. Mi
ripeteva di sentirsi sempre tesa e distaccata nel contatto diretto con un
uomo e che c’erano state altre volte in cui si era “ritrovata” nel suo
appartamento, rannicchiata in un angolo, incapace di ricordare con
chiarezza l’accaduto.
Marilyn, inoltre, riferiva di sentirsi come se “stesse facendo nta” di
avere una vita: fatta eccezione per il tennis al club e il suo lavoro in sala
operatoria, viveva sempre in uno stato di ottundimento. Qualche anno
prima, aveva scoperto di riuscire a smorzare l’obnubilamento tagliandosi
con una lametta di rasoio, salvo poi spaventarsi per aver realizzato di aver
bisogno di alzare sempre più il tiro per ottenere un qualche sollievo,
tagliandosi via via più profondamente e frequentemente. Aveva, quindi,
provato con l’alcol, ma questo comportamento le ricordava suo padre e il
suo bere fuori controllo, nendo così con il provare disgusto verso se
stessa. In sostituzione di ciò, aveva, dunque, pensato di dedicarsi al tennis,
praticandolo in modo fanatico, tutte le volte che poteva: in questo modo,
si sentiva viva.
Quando le chiesi del suo passato, Marilyn disse che “doveva aver avuto”
un’infanzia felice, ma, di fatto, ricordava molto poco di sé prima dei
dodici anni. Mi disse di essere stata un’adolescente timida, almeno no a
uno scontro violento con il padre alcolizzato, in seguito al quale, all’età di
sedici anni, era scappata di casa. Aveva continuato a vivere la sua vita
frequentando il college e ottenendo una laurea in infermieristica, senza
alcun aiuto da parte dei suoi genitori. Si vergognava del fatto che in quel
periodo andava a letto con chiunque, cosa che descriveva come “cercare
l’amore in tutti i luoghi sbagliati”.
Imparare a ricordare
Circa un anno dopo l’ingresso di Marilyn nel gruppo, un altro membro,
Mary, chiese il permesso di parlare di ciò che le era accaduto quando
aveva tredici anni. Mary lavorava come guardia carceraria e aveva avuto
una relazione sadomaso con un’altra donna. Voleva che il gruppo fosse a
conoscenza del suo passato, nella speranza che i membri diventassero più
tolleranti nei confronti delle sue reazioni esagerate, che la portavano a
chiudersi in se stessa o a saltare alla minima provocazione. Riuscendo, a
fatica, a far venire fuori le parole, Mary ci disse che una sera, quando
aveva tredici anni, era stata violentata dal fratello maggiore e da un
gruppo di suoi amici: rimase incinta e la madre la fece abortire in casa, sul
tavolo della cucina. Il gruppo, con molta sensibilità, si sintonizzò sul
racconto di Mary, offrendole un grande supporto nei momenti di pianto
disperato. Ero profondamente commosso dalla loro empatia: stavano
consolando Mary nello stesso modo in cui dovevano aver desiderato
essere confortati durante la condivisione, in passato, dei loro traumi.
Quasi allo scadere del tempo a disposizione, Marilyn chiese di poter
disporre di qualche minuto ancora per parlare di ciò che aveva provato
durante la seduta. Il gruppo acconsentì e, così, disse: “Ascoltando questa
storia, mi chiedo se io sia stata, a mia volta, abusata sessualmente”. Devo
essere rimasto a bocca aperta: sulla base del disegno della famiglia, ero
sempre stato convinto che fosse, almeno in parte, consapevole di essere
stata abusata; aveva reagito come una vittima di incesto nei confronti di
Michael e si comportava costantemente come se il mondo fosse un luogo
terri cante.
Eppure, anche avendo disegnato una bambina abusata sessualmente,
Marilyn o, almeno, il suo sé cognitivo, verbale, non aveva alcuna idea di
cosa le fosse realmente accaduto. Il suo sistema immunitario, i suoi
muscoli e il suo sistema di paure ne avevano memoria, ma nella sua mente
cosciente mancava una storia che potesse comunicare l’esperienza. Il
trauma veniva riattualizzato nella vita, ma non aveva una narrativa cui fare
riferimento. Come vedremo nel capitolo 12, la memoria traumatica
differisce in molti modi da un ricordo normale e coinvolge molti livelli
della mente e del cervello.
Attivata dalla storia di Mary e sollecitata dagli incubi che ne seguirono,
Marilyn iniziò una terapia individuale con me, cominciando a occuparsi
del suo passato. In un primo momento, visse ondate di intenso e dilagante
terrore. Provò a interrompere la terapia per diverse settimane, ma quando
capì che non poteva più dormire e che avrebbe dovuto chiedere dei
permessi sul lavoro, riprese le sedute. Come mi disse più tardi: “Il mio
unico criterio per capire se una situazione sia dannosa o meno coincide
con la sensazione espressa da queste parole ‘se non ne vengo fuori, tutto
ciò nirà per uccidermi”.
Cominciai a insegnare a Marilyn alcune tecniche che la aiutavano a
calmarsi, come prestare attenzione alla respirazione profonda – dentro e
fuori, dentro e fuori, al ritmo di sei respiri al minuto – notando le
sensazioni nel corpo. Questa tecnica si combinava con il tamburellare i
punti di agopressione, cosa che la aiutò a non sentirsi sopraffatta.
Lavorammo anche con la mindfulness: imparare a tenere la sua mente
viva, mentre consentiva al corpo di sentire le sensazioni che temeva,
permise a Marilyn di fare un passo indietro e osservare la sua esperienza,
piuttosto che essere immediatamente dirottata dalle sue emozioni. Aveva
cercato di smorzare o eliminare questi sentimenti con l’alcol e con
l’esercizio sico, ma, ora, aveva iniziato a sentirsi abbastanza sicura per
poter ricordare quello che le era successo da bambina. Così come aveva
guadagnato padronanza delle sue sensazioni siche, cominciava anche a
essere in grado di capire la differenza tra passato e presente: ora, se si
fosse sentita, nella notte, s orata dalla gamba di qualcun altro, avrebbe
potuto essere in grado di riconoscere che si trattava della gamba di
Michael, la gamba del suo bel compagno di tennis, che aveva invitato nel
suo appartamento. Quella gamba non apparteneva a nessun altro e il suo
tocco non signi cava che qualcuno stesse cercando di molestarla. Ciò le
permise di sapere, in modo totale e sico, di essere una donna di
trentaquattro anni, non una bambina.
Quando Marilyn, nalmente, cominciò ad accedere ai suoi ricordi,
emersero dei ashback della carta da parati di camera sua. Si rese conto,
allora, che quella carta rappresentava il punto su cui si era concentrata
durante la violenza subita dal padre, all’età di otto anni. Le molestie
l’avevano spaventata ben oltre la sua capacità di sopportazione e, per
questo, le aveva cancellate dalla sua memoria. Dopo tutto, doveva
continuare a vivere con quest’uomo, suo padre, colui che l’aveva
aggredita. Marilyn ricordò di essersi rivolta a sua madre per chiedere aiuto
e protezione, ma, correndo da lei per cercare di nascondersi affondando il
viso nella sua gonna, aveva ricevuto solo un debole abbraccio. A volte sua
madre rimaneva in silenzio; altre volte piangeva o rimproverava
aspramente Marilyn perché “faceva arrabbiare papà così tanto”. La
bambina terrorizzata non trovava nessuno che la proteggesse, nessuno che
le offrisse forza o rifugio.
Come scrisse Roland Summit nel suo classico studio The Child Sexual
Abuse Accomodation Syndrome: “Iniziazione, intimidazione,
stigmatizzazione, isolamento, impotenza e colpevolizzazione dipendono
dalla realtà terri cante dell’abuso sessuale che il bambino ha subito.
Qualsiasi tentativo da parte del bambino di svelare il segreto viene
neutralizzato dalla cospirazione del silenzio e dal discredito degli adulti.
‘Non preoccuparti per questo tipo di cose’; ‘Non potrebbero mai
accadere nella nostra famiglia’. ‘Come puoi anche solo aver pensato una
cosa così terribile?’; ‘Non farmi mai sentire una cosa del genere di
nuovo!’. Il bambino, nella maggior parte dei casi, non chiede e non
racconta mai”.3
Dopo quarant’anni che faccio questo lavoro, mi scopro ancora
regolarmente a pensare, quando i pazienti mi raccontano della loro
infanzia: “È incredibile”. Essi stessi sono, spesso, increduli così come lo
sono io: com’è possibile che i genitori in iggano simili torture e infondano
un simile terrore al proprio glio? Alcuni pazienti insistono sull’idea di
essersi inventati le cose oppure di stare esagerando. Tutti si vergognano
per quello che è successo loro, si colpevolizzano, arrivando a credere di
aver subito cose terribili in quanto persone orribili.
Marilyn cominciava ora a chiedersi come quella bambina inerme avesse
imparato a “spegnersi” e a diventare accondiscendente a qualsiasi cosa le
venisse chiesto di fare. Aveva fatto di tutto per sparire: sentendo i passi del
padre nel corridoio che portava alla sua camera da letto, “andava con la
testa fra le nuvole”. Un’altra mia paziente, con un’esperienza simile, fece
un disegno che descriveva perfettamente il funzionamento di questo
processo. Quando suo padre iniziava a toccarla, faceva in modo di
scomparire; galleggiava no al sof tto, guardando verso il basso un’altra
bambina nel letto.4 Era contenta di non essere veramente lei – era
qualcun’altra a essere molestata.
Guardando queste teste, separate dai loro corpi da una nebbia
impenetrabile, mi si aprirono letteralmente gli occhi sull’esperienza della
dissociazione, molto comune tra le vittime di incesto. Marilyn stessa, più
tardi, si rese conto di come, anche da adulta, avesse continuato a
galleggiare sul sof tto, durante le situazioni di intimità sessuale. Nel
periodo in cui era stata più attiva sessualmente, un partner le aveva detto
quanto fosse stata straordinaria a letto in una certa occasione, tanto da
aver fatto fatica a riconoscerla: aveva per no parlato in un modo diverso.
Di solito, non si ricordava quello che era successo, ma, altre volte, si
arrabbiava e diventava aggressiva. Non aveva consapevolezza di chi fosse
dal punto di vista sessuale, e così, pian piano, rinunciò agli uomini,
almeno no a Michael.
1. W.H. Auden (1941), The Double Man. Random House, New York. [Wystan Hugh Auden (1907-
1973), gura di spicco degli anni Trenta e uno dei più importanti poeti inglesi del Novecento. La
sua produzione artistica è stata in uenzata da Freud, soprattutto per ciò che concerne la lettura
psicoanalitica della società contemporanea e delle sue disfunzionalità. Marx ha ispirato il suo
impegno politico nei movimenti di sinistra e la sua concezione dell’arte al servizio dell’impegno
politico stesso. Per Auden, il poeta deve essere un portavoce degli oppressi, contro ogni forma di
dittatura. NdC]
2. S.N. Wilson, B.A. van der Kolk, J. Burbridge, R. Fisler, R. Kradin (1999), “Phenotype of blood
lymphocytes in PTSD suggests chronic immune activation”, in Psychosomatics, 40(3), pp. 222-225.
Vedi anche M. Uddin, A.E. Aiello, D.E. Wildman, K.C. Koenen, G. Pawelec, R. de los Santos, E.
Goldmann, S. Galea (2010), “Epigenetic and immune function pro les associated with Post-
traumatic Stress Disorder”, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States
of America, 107(20), pp. 9470-9475; M. Altemus, M. Cloitre, F.S. Dhabhar (2003), “Enhanced
cellular immune response in women with PTSD related to childhood abuse”, in American Journal
of Psychiatry, 160(9), pp. 1705-1707; e N. Kawamura, Y. Kim, N. Asukai (2001), “Suppression of
cellular immunity in men with a past history of Post-traumatic Stress Disorder”, in American
Journal of Psychiatry, 158(3), pp. 484-486.
3. R. Summit (1983), “The child sexual abuse accomodation syndrome”, in Child Abuse & Neglect,
pp. 177-193.
4. Uno studio che utilizzava la fMRI presso l’Università di Losanna, in Svizzera, ha dimostrato che
quando le persone hanno delle esperienze extracorporee, e guardano a se stesse dall’alto, come se
fossero sul sof tto, stanno attivando la corteccia temporale superiore del cervello. O. Blanke, C.
Mohr, C.M. Michel, A. Pascual-Leone, P. Brugger, M. Seeck, T. Landis, e G. Thut (2005), “Linking
out-of-body experience and self processing to mental own-body imagery at the temporoparietal
junction”, in Journal of Neuroscience, 25(3), pp. 550-557. Vedi anche O. Blanke, T. Metzinger
(2009), “Full-body illusions and minimal phenomenal selfhood”, in Trends in Cognitive Sciences,
13(1), pp. 7-13.
5. Una bambina, abusata sessualmente da un adulto, è incastrata in una situazione confusa e
caratterizzata da un con itto di lealtà: rivelare l’abuso signi ca tradire e fare del male al
perpetratore (un adulto da cui probabilmente dipende in termini di sicurezza e protezione), ma
nascondere l’abuso aumenta il suo senso di vergogna e di vulnerabilità. Di un simile dilemma si è
occupato per la prima volta Sándor Ferenczi nel 1933. L’articolo di riferimento, del 1949, è “The
confusion of tongues between the adult and the child: The language of tenderness and the
language of passion”, in International Journal of Psychoanalysis, 30(4), pp. 225-230. Tale tema è
stato affrontato, nel tempo, da numerosi autori.
9
Autolesionismo
Durante il tirocinio, fui chiamato per tre notti di seguito intorno alle tre
per medicare una donna che si tagliava il collo con qualunque tipo
d’oggetto le capitasse per le mani. Mi raccontava, talvolta con una punta
di trionfo, che tagliarsi la faceva sentire molto meglio. Non mi ero mai
chiesto il perché. Perché alcune persone gestiscono la loro agitazione
giocando tre set di tennis o bevendo un martini doppio, mentre altre si
tagliano le braccia con una lama di rasoio? Il nostro studio aveva
dimostrato che avere una storia di abuso sico e sessuale nell’infanzia
costituisce un forte predittore di ripetuti tentativi di suicidio e di atti
autolesivi come il cutting.13 Mi chiedevo se i pensieri suicidari tormentosi
iniziassero molto presto nella vita e se la speranza di morire o il
danneggiare se stessi costituissero una forma di conforto, di progetto di
fuga. In altri termini, l’in iggersi il dolore può costituire un tentativo
disperato di avere un qualche senso di controllo?
Il database di Chris Perry aveva aggiunto le informazioni su tutti i
pazienti che erano stati trattati negli ambulatori dell’ospedale,
comprendendo anche i referti sulla suicidarietà e sul comportamento
autodistruttivo. Dopo tre anni di terapia, approssimativamente i due terzi
dei pazienti erano migliorati in modo evidente. Ora la domanda era: quali
membri del gruppo bene ciarono della terapia e quali, invece,
continuarono ad avere idee suicidarie e autodistruttive? Attraverso il
confronto tra il comportamento attuale dei pazienti e le risposte date
all’intervista TAQ, potevamo fruire di qualche dato interessante. I
pazienti che rimanevano autodistruttivi ci avevano raccontato di non
essersi mai sentiti al sicuro con nessuno da bambini; ci avevano riferito di
essere stati abbandonati, sballottati da un posto all’altro e generalmente
lasciati al loro destino.
Giunsi alla conclusione che, se si dispone del ricordo di essersi sentiti al
sicuro durante i primi anni di vita, le tracce degli affetti più precoci
possono essere riattivate da relazioni sintonizzate da adulti, qualora si
realizzino nella vita attuale o all’interno di un buon assetto terapeutico.
Tuttavia, se manca il ricordo precoce dell’essersi sentiti amati e al sicuro, i
recettori del cervello che rispondono alla tenerezza umana possono
semplicemente non essersi sviluppati.14 Se così fosse, in che modo le
persone possono imparare a calmarsi e a sentirsi centrate nel loro corpo?
E, di nuovo, tutto ciò ha un’importante implicazione per la terapia.
Pertanto, ritornerò su questa domanda nella quinta parte di questo
volume, dedicata al trattamento.
L’epidemia nascosta
Come si trasforma un neonato, con tutte le sue promesse di vita e le sue
in nite capacità, in un barbone trentenne ubriaco? Come spesso accade
con le grandi scoperte, l’internista Vincent Felitti si imbatté, per caso,
nella risposta a questa domanda. Nel 1985, Felitti dirigeva il Kaiser
Permanente’s Department of Preventive Medicine a San Diego, che, al
tempo, poteva contare sul più vasto programma di screening del mondo.
Gestiva, inoltre, un ambulatorio sull’obesità, dove veniva utilizzata una
tecnica chiamata “digiuno assoluto integrato”, nalizzata a una drastica
perdita di peso senza l’ausilio della chirurgia. Un giorno, un’aiuto-
infermiera di 28 anni si palesò nel suo studio. Felitti accolse la
convinzione della donna che l’obesità costituisse il suo problema
principale e la inserì nel suo programma. Dopo 51 settimane, il suo peso
era sceso da 185 a 59 kg.
Quando Felitti la rivide per la visita di controllo dopo alcuni mesi,
tuttavia, aveva riguadagnato molto più peso di quanto si pensi sia
biologicamente possibile in così poco tempo. Cosa era accaduto? Il suo
corpo snello aveva attratto un collega, che cominciò a irtare con lei,
proponendole di fare sesso. A quel punto, corse a casa a mangiare: la
donna si abbuffava durante il giorno e mangiava da sonnambula la notte.
Felitti sottolineò questa reazione esagerata e la paziente rivelò una lunga
storia di incesto con suo nonno.
Era solo il secondo caso di incesto che Felitti aveva incontrato in ventitré
anni di pratica medica, ma, dopo solo dieci giorni, gli toccò sentire
un’altra storia simile. Indagando più accuratamente, Felitti e la sua équipe
scoprirono in modo scioccante che la maggior parte delle pazienti obese
aveva, in comorbidità, una storia di abusi sessuali infantili, oltre a una
marea di problemi familiari.
Nel 1990, Felitti presentò, ad Atlanta, al congresso della North
American Association for the Study of Obesity, i dati delle interviste dei
primi 286 pazienti del suo gruppo. Le reazioni ciniche di alcuni esperti lo
colsero di sorpresa: perché credeva a quelle pazienti? Non pensava forse
che avrebbero potuto addurre qualsiasi spiegazione per dare una
giusti cazione alle loro vite fallimentari? Un epidemiologo del Center for
Disease Control and Prevention (CDC), tuttavia, lo incoraggiò a
intraprendere uno studio ancora più esteso, costruito per la popolazione
generale, e lo invitò a un incontro con un piccolo gruppo di ricercatori al
CDC. Ne risultò la monumentale indagine sull’Adverse Childhood
Experience (oggi conosciuta come studio ACE), una collaborazione tra il
CDC e il Kaiser Permanente, che vedeva Robert Anda e Vincenzo Felitti
come ricercatori principali.
Più di cinquantamila pazienti del Kaiser arrivavano ogni anno al
Dipartimento di Medicina preventiva per un controllo generale e, nel
corso del processo, compilavano un questionario medico esteso. Felitti e
Anda impiegarono più di un anno a inserire dieci nuove domande,19 per
coprire in modo puntuale categorie de nite di esperienze infantili
sfavorevoli, che includessero l’abuso sico e sessuale, la trascuratezza
sica ed emotiva, il disfunzionamento familiare, come, per esempio,
l’avere avuto genitori divorziati, con malattie mentali, piuttosto che
genitori drogati o in prigione. Chiesero, inoltre, a 25.000 pazienti
consecutivi se fossero disposti a dare informazioni circa gli eventi della
propria infanzia; 17.421 risposero di sì. Le loro risposte furono poi
confrontate con i dettagliati referti medici di tutti i pazienti, che il Kaiser
conservava.
Lo studio ACE rivelò che le esperienze di vita traumatiche durante
l’infanzia e l’adolescenza erano molto più comuni di quanto ci si
aspettasse. I partecipanti allo studio erano per lo più bianchi, appartenenti
alla classe media, di mezza età, con una buona formazione, con una
situazione nanziaria abbastanza stabile da poter contare su
un’assicurazione medica: eppure soltanto un terzo dei partecipanti non
aveva riportato esperienze infantili negative.
– Uno su dieci soggetti aveva risposto sì alla domanda: “Un genitore o un
altro adulto le ha mai detto parolacce, l’ha insultata o umiliata?”.
– Più di ¼ dei soggetti rispose sì alle domande: “Uno dei suoi genitori l’ha
spesso o molto spesso spinta, afferrata, schiaffeggiata o le ha lanciato
qualcosa contro?” e “Uno dei suoi genitori spesso o molto spesso l’ha
colpita così forte da lasciarle segni o lesioni?”. In altre parole, più di ¼
della popolazione degli Stati Uniti è stata abusata sicamente in modo
ripetuto durante l’infanzia.
– Alle domande “Un adulto o una persona più grande di lei di almeno 5
anni ha mai toccato il suo corpo in una maniera sessuale?” e “Un adulto
o una persona più grande di lei di almeno 5 anni ha mai tentato di avere
un qualche tipo di rapporto sessuale con lei (orale, anale o vaginale)?”, il
28% delle donne e il 18% degli uomini rispose in modo affermativo.
– Una su otto persone rispose in modo affermativo alle domande: “Da
bambino ha visto qualche volta sua madre, spesso o molto spesso,
spinta, afferrata, schiaffeggiata o che qualcosa le venisse lanciato
contro?” e “Da bambino ha visto qualche volta, spesso o molto spesso,
sua madre presa a calci, botte, colpita con un pugno o con qualcosa di
molto duro?”.20
A ogni risposta positiva veniva attribuito un valore uno, conducendo a
un possibile punteggio ACE che andava da zero a dieci. Per esempio, una
persona che aveva sperimentato frequenti abusi verbali, che aveva una
madre alcolizzata e i cui genitori avevano divorziato, avrebbe ottenuto un
punteggio ACE di 3. Dei due terzi dei soggetti che avevano riportato
esperienze negative, l’87% aveva un punteggio di 2 o più. Uno su sei dei
soggetti aveva un punteggio ACE di 4 o più.
In breve, Felitti e la sua squadra avevano scoperto che le esperienze
negative sono correlate tra loro, anche se di solito sono prese in esame
separatamente. Le persone, solitamente, non crescono in una casa in cui
l’unico problema è avere un fratello in prigione, mentre tutto il resto
procede nel migliore dei modi. Non vivono in famiglie in cui le madri
sono regolarmente picchiate, mentre il resto della vita è tutto rose e ori.
Gli eventi di abuso non sono mai fatti isolati e, per ogni esperienza
negativa aggiuntiva riportata, lo scotto da pagare, in termini di danno
conseguente, aumenta.
Felitti e il suo gruppo trovarono che gli effetti del trauma infantile si
palesano, in prima istanza, a scuola. Più della metà dei soggetti che
avevano ottenuto un punteggio ACE di 4 o più riportavano di avere avuto
problemi di apprendimento o comportamentali, in confronto con il 3% di
quelli che avevano ottenuto un punteggio pari a/di zero. Quando i
bambini crescono, infatti, non “diventano troppo grandi per” gli effetti
delle loro esperienze precoci. Come scrive Felitti, “le esperienze
traumatiche si perdono, spesso, nel tempo e sono cancellate dalla
vergogna, dal segreto, dai tabù sociali”, ma lo studio rivelava che l’impatto
del trauma era pervasivo nella vita adulta di questi pazienti. Per esempio,
un alto punteggio ACE risultava correlato con un alto assenteismo sul
posto di lavoro, con problemi economici e scarse entrate nel corso della
vita.
Le sofferenze personali hanno esiti devastanti. All’aumentare del
punteggio ACE, aumenta in modo marcato la presenza di depressione
cronica in età adulta. Per chi ottiene un punteggio ACE di 4 o più, la sua
prevalenza è del 66% per le donne e del 35% per gli uomini, confrontata
con un tasso generale del 12% per chi ottiene un punteggio ACE di zero.
Anche la probabilità di essere sotto antidepressivi o antidolori ci aumenta
in proporzione. Come ha puntualizzato Felitti, trattare oggi esperienze
che sono accadute 50 anni fa implica dei costi enormi. I farmaci
antidepressivi e antidolori ci costituiscono una porzione signi cativa della
nostra spesa sanitaria nazionale, che appare in rapido aumento21 (ironia
della sorte, la ricerca dimostrò che pazienti depressi, senza una precedente
storia di abuso e trascuratezza, tendono a rispondere molto meglio agli
antidepressivi rispetto a pazienti con un retroterra di abuso e
trascuratezza).22
I tentativi di suicidio autodichiarati salgono esponenzialmente con
l’aumentare dei punteggi ACE. Da un punteggio zero a uno di 6, la
percentuale di tentativi di suicidio sale di circa il 5,000%. Più una persona
si sente isolata e non protetta e più la morte appare come l’unica via di
uscita. Se pensiamo che costituisce notizia di prima pagina il collegamento
tra fattori ambientali e l’aumento del 30% di rischio per certe forme di
cancro, ci rendiamo conto ancora di più di quanto queste cifre
drammatiche siano trascurate.
Come parte del loro iniziale esame medico, ai partecipanti veniva posta
la seguente domanda: “Si è mai considerato un alcolista?”. Persone con
un punteggio ACE di 4 avevano una probabilità sette volte maggiore di
essere alcolisti da adulti rispetto a soggetti che avevano un punteggio pari
a zero. Per coloro che avevano un punteggio di sei o maggiore, la
probabilità di fare uso di droga per via endovenosa (IV) era del 4,600%
maggiore rispetto a chi otteneva un punteggio pari a zero.
Alle donne era chiesto se avessero subito degli stupri in età adulta. A un
punteggio ACE pari a zero corrispondeva una prevalenza di eventi di
stupro pari al 5%; a un punteggio di quattro o più la prevalenza si
assestava al 33%. Perché ragazze abusate o trascurate hanno una così alta
probabilità di essere stuprate più tardi nella vita? Le risposte a queste
domande hanno delle implicazioni che vanno ben oltre lo stupro. Per
esempio, numerosi studi hanno dimostrato che ragazze che, durante la
loro crescita, sono state testimoni di violenza domestica presentano un
rischio molto più elevato di nire esse stesse in relazioni violente, mentre
per i ragazzi che hanno assistito a violenza domestica il rischio che si
trasformino in abusanti delle loro partner è sette volte maggiore.23 Più del
12% dei partecipanti allo studio aveva assistito al pestaggio della propria
madre.
La lista dei comportamenti ad alto rischio previsti dal punteggio ACE
includeva fumo, obesità, gravidanza indesiderata, partner sessuali
multipli, e malattie sessualmente trasmissibili. Il prezzo da pagare in
termini di maggiori problemi di salute, in ne, era considerevole: coloro
che avevano ottenuto un punteggio ACE di 6 o più avevano una
probabilità del 15% o maggiore, rispetto a coloro che avevano ottenuto
un punteggio ACE di zero, di soffrire correntemente di una delle
principali cause di morte negli Stati Uniti, come il disturbo polmonare
cronicamente ostruttivo (COPD), ischemia cardiaca, malattie epatiche.
Queste persone avevano una probabilità due volte maggiore di soffrire di
cancro e quattro volte maggiore di avere un en sema. Lo stress che –
persistentemente – rimane nel corpo, continua a farsi sentire per diverso
tempo.
Quando i problemi sono in realtà delle soluzioni
A dodici anni di distanza da quel trattamento, Felitti vide nuovamente la
donna, la cui enorme perdita e l’altrettanto enorme riacquisto di peso
avevano dato origine alla sua ricerca. Gli raccontò di aver fatto, in seguito,
ricorso alla chirurgia bariatrica e di aver cominciato a pensare al suicidio,
dopo aver perso 43 kg. Era stata ricoverata cinque volte in ospedale
psichiatrico e aveva subito tre cicli di elettroshock, nel tentativo di ridurre
l’ideazione suicidaria. Felitti sottolinea che l’obesità, che è considerata un
problema rilevante di salute pubblica, può rappresentare, per molti, una
soluzione personale. Consideriamo le implicazioni: se si sbaglia nel fornire
a un paziente la soluzione a un suo problema, non soltanto interromperà,
con tutta probabilità, il trattamento, come accade spesso nei programmi
di disintossicazione, ma possono af orare problemi ulteriori.
Una donna vittima di stupro disse a Felitti: “Chi è in sovrappeso viene
trascurato, ed è così che ho bisogno di sentirmi”.24 Il peso può proteggere
anche gli uomini. Felitti ricorda due guardie della prigione di Stato nel
suo programma sull’obesità. Avevano prontamente riguadagnato il peso
che avevano perso, perché si sentivano molto più al sicuro “da grandi e
grossi” nei bracci della prigione. Un altro paziente maschio divenne obeso
dopo il divorzio dei suoi e in seguito al suo trasferimento dal nonno,
violento alcolista. Spiegò: “Non è che io mangiassi perché avessi fame o
cose del genere. Era proprio un modo di sentirmi sicuro. Fino alla ne
della scuola materna venivo picchiato continuamente. Quando ho messo
peso non è più successo”.
Il gruppo di studio ACE arrivò a questa conclusione: “Sebbene si
comprenda appieno che ogni adattamento (per esempio, fumare, bere,
fare uso di droga, obesità) sia pericoloso per la salute, è molto dif cile da
mollare. Va, inoltre, tenuto presente che molti rischi di salute sul lungo
termine potrebbero, altresì, costituire dei bene ci soggettivi nel breve
termine. Impariamo continuamente dai nostri pazienti quali siano i
bene ci di questi “rischi di salute”. “L’idea che il problema sia la
soluzione, sebbene sia disturbante per alcuni, risiede nel fatto che forze
opposte coesistono ordinariamente nei sistemi biologici… ciò che si vede,
il problema presente, rappresenta probabilmente solo il marcatore del
problema reale, sepolto nel tempo, cancellato dai segreti, dalla vergogna e,
talvolta, dall’amnesia del paziente, nonché, spesso, dal disagio del
clinico”.
L’abuso infantile:
il più grave problema di salute pubblica negli Stati Uniti
Quando Robert Anda presentò i risultati dello studio ACE, non riusciva a
trattenere le lacrime. Nel corso della sua carriera al CDC aveva lavorato in
diverse aree ad alto rischio, come la ricerca sul tabacco e la salute
cardiovascolare. Ma, quando i risultati dello studio ACE cominciarono ad
apparire sullo schermo del suo computer, si rese conto di essersi
imbattuto nella più grave e costosa questione di salute pubblica degli Stati
Uniti: l’abuso infantile. Aveva calcolato che i costi totali superavano quelli
per il cancro e per le malattie cardiache e che riuscire a estirpare l’abuso
infantile in America avrebbe ridotto il tasso generale di depressione di più
della metà, l’alcolismo di due terzi e il suicidio, l’uso di droga per via
endovenosa e la violenza domestica di tre quarti.25 Avrebbe, inoltre, avuto
un effetto potente sulle prestazioni sul posto di lavoro e largamente
diminuito il bisogno di incarcerazioni.
Nel 1964, la pubblicazione del resoconto del ministro della sanità su
fumo e salute pubblica aveva inaugurato campagne mediche e legali
lunghe decenni, cambiando la vita quotidiana e le aspettative di salute sul
lungo termine di milioni di persone. Il numero di fumatori americani
scese dal 42% fra gli adulti nel 1965 al 19% nel 2010 e si stimava che
approssimativamente 800.000 morti di cancro al polmone fossero state
evitate tra il 1975 e il 2000.26
Lo studio ACE non ebbe, tuttavia, un simile effetto. Malgrado
l’esistenza di studi di follow-up e la pubblicazione di ricerche scienti che
in tutto il mondo, la realtà quotidiana dei bambini come Marilyn e di
quelli degli ambulatori clinici e dei centri di terapia residenziale nel paese
rimaneva e rimane pressoché la medesima. Ancora adesso, i bambini sono
sottoposti ad alte dosi di agenti psicotropi, che li rendono più trattabili ma
che danneggiano la loro capacità di provare piacere e curiosità, di crescere
e svilupparsi emotivamente e intellettualmente e di diventare membri
effettivi della società.
1. Ronald Summit, psichiatra, ha sviluppato, nel 1983, un modello diagnostico, chiamato The Child
Sexual Abuse Accomodation Syndrome (Sindrome di adattamento all’abuso sessuale infantile), che si
compone di cinque cluster: –segretezza rispetto all’abuso, spesso determinata dalla minaccia di
ripercussioni se svelato;–impotenza emotiva a opporsi o a ribellarsi;–intrappolamento e
adattamento: il bambino non ha vie di scampo rispetto al subire l’abuso e, di conseguenza, impara
a adattarvisi;–svelamento ritardato, con ittuale e non convinto dell’abuso;–ritrattazione delle
accuse, da parte del bambino, nel tentativo di ristrutturare la famiglia, qualora il disvelamento
dovesse costituire una minaccia di disgregazione familiare. [NdC]
2. Personaggio della serie televisiva I soprano. Boss italo-americano dell’organizzazione mafiosa
immaginaria dei Di Meo, creato dallo sceneggiatore e regista David Chase. [NdC]
3. G. Greenberg (2013), The Book of Woe: The DSM and the Unmaking of Psychiatry, Penguin,
New York.
4. http://www.thefreedictionary.com/diagnosis
5. Il TAQ può essere scaricato dal sito del Trauma Center: www.traumacenter.org/
products/instruments.php
6. Metafora del football. [NdC]
7. Fumettista statunitense, inventore di The Far Side, striscia composta da un’unica vignetta, spesso
senza didascalia, che compare in numerose riviste in tutto il mondo. In Italia è stata pubblicata,
no al 1995, da Linus. Le vignette riguardano dialoghi surreali tra gli uomini e gli animali, a ruoli
invertiti, con l’uomo considerato razza inferiore. [NdC]
8. Potrebbe essere equivalente a “par lar a ra bo”. [NdC]
9. J.L. Herman, J.C. Perry, B.A. van der Kolk (1989), “Childhood trauma in Borderline Personality
Disorder”, in American Journal of Psychiatry, 146(4), pp. 490-499
10. Teicher trovò cambiamenti signi cativi nella corteccia orbitofrontale (OFC), una regione
cerebrale coinvolta nel processo decisionale e nella regolazione del comportamento, in risposta alle
richieste sociali. M.H. Teicher, S.L. Andersen, A. Polcari, C.M. Anderson, C.P. Navalta, D.M. Kim
(2003), “The neurobiological consequences of early stress and childhood maltreatment”, in
Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 27(1), pp. 33-44. Vedi, inoltre, M.H. Teicher (2002), “Scars
that won’t heal: The neurobiology of child abuse”, in Scienti c American, 286(3), pp. 54-61; M.H.
Teicher, J. Samson, A. Polcari, C.E. McGrrenery (2006), “Sticks, stones, and hurtful words:
Relative effects of various forms of childhood maltreatment”, in American Journal of Psychiatry
163(6), pp. 993-1000; A. Bechara, A.R. Damasio, H. Damasio, S.W. Anderson (1994),
“Insensitivity to future consequences following damage to human prefrontal cortex”, in Cognition,
50, pp. 7-15. Danni in quest’area comportano: tendenza esagerata al turpiloquio, scarse interazioni
sociali, gioco d’azzardo compulsivo, abuso di alcol e droghe, ridotte capacità empatiche. M.L.
Kringelbach, E.T. Rolls (2004), “The functional neuroanatomy of the human orbitofrontal cortex:
Evidence from neuroimaging and neuropsychology”, in Progress in Neurobiology, 72, pp. 341-372.
L’altra area problematica identi cata da Teicher era il precuneo, un’area cerebrale implicata nella
comprensione di se stessi e nella capacità di cogliere le differenze tra le nostre percezioni e quelle
degli altri. A.E. Cavanna, M.R. Trimble (2006), “The precuneus: A review of its functional anatomy
and behavioural correlates”, in Brain, 129, pp. 564-583.
11. S. Roth, E. Newman, D. Pelcovitz, B.A. van der Kolk, F.S. Mandel (1997), “Complex PTSD in
victims exposed to sexual and physical abuse: Results from the DSM-IV field trial for Post-
traumatic Stress Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 10, pp. 539-555; B.A. van der Kolk, D.
Pelcovitz, S. Roth, F.S. Mandel (1996), “Dissociation, Somatization, and Affect Dysregulation: The
Complexity of Adaptation to Trauma”, in American Journal of Psychiatry, 153, pp. 83-93; D.
Pelcovitz, B.A. van der Kolk, S. Roth, F.S. Mandel, S. Kaplan, P. Resick (1997), “Development of a
criteria set and a Structured Interview for Disorders of Extreme Stress (SIDES)”, in Journal of
Traumatic Stress, 10, pp. 3-16; S.N. Ogata, K.R. Silk, S. Goodrich (1990), “Childhood sexual and
physical abuse in adult patients with Borderline Personality Disorder”, in American Journal of
Psychiatry, 147, pp. 1008-1013; M.C. Zanarini, F.R. Frakenbourg, E.D. Dubo, A.E. Sickel, A.
Trikha, A. Levin, V. Reynolds (1998), “Axis I comorbidity of Borderline Personality Disorder”, in
American Journal of Psychiatry, 155, n. 12, pp. 1733-1739; S.L. Shearer, C.P. Peters, M.S.
Quaytman, R.L. Ogden (1990), “Frequency and correlates of childhood sexual and physical abuse
histories in adult female borderline inpatients”, in American Journal of Psychiatry, 147, pp. 214-
216; D. Westen, P. Ludolph, B. Misle, S. Ruf ns, J. Block (1990), “Physical and sexual abuse in
adolescent girls with Borderline Personality Disorder”, in American Journal of Orthopsychiatry, 60,
pp. 55-66; M.C. Zanarini, A.A. Williams, R.E. Lewis, R.B. Reich, S.C. Vera, M.F. Marino, A. Levin,
F.R. Frankenburg (1997), “Reported pathological childhood experiences associated with the
development of Borderline Personality Disorder”, in American Journal of Psychiatry, 154, pp. 1101-
1106.
12. J. Bowlby (1988), Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, tr. it.
Raffaello Cortina, Milano 1989.
13. B.A. van der Kolk, J.C. Perry, J.C. Herman (1991), “Childhood origins of self- destructive
behavior”, in American Journal of Psychiatry, 148, pp. 1665-1671.
14. Questo concetto è ulteriormente supportato dal lavoro del neuroscienziato Jaak Panksepp, che
dimostrò che i piccoli ratti che non erano stati leccati dalle madri durante la prima settimana di vita
non sviluppavano i recettori degli oppioidi nella corteccia cingolata anteriore, una parte del
cervello connessa all’af liazione e al senso di sicurezza. Si veda E.E. Nelson, J. Panksepp (1998),
“Brain substrates of infant-mother attachment: Contributions of opioids, oxytocin, and
norepinephrine”, in Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 22(3), pp. 437-452. Si veda anche J.
Panksepp, B.H. Herman, T. Vilberg, P. Bishop, F.G. DeEskinazi (1981), “Endogenous opioids and
social behavior”, in Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 4, pp. 473-487; J. Panksepp, E. Nelson,
S. Siviy (1994), “Brain opioids and mother-infant social motivation”, in Acta paediatrica, 83(397),
pp. 40-46.
15. La delegazione che ha incontrato Spitzer comprendeva anche Judy Herman, Jim Chu e David
Pelcovitz.
16. B.A. van der Kolk, S. Roth, D. Pelcovitz, S. Sunday, J. Spinazzola (2005), “Disorders of
extreme stress: The empirical foundation of a complex adaptation to trauma”, in Journal of
Traumatic Stress, 18(5), pp. 389-399. Vedi anche J.L. Herman (1992), “Complex PTSD: A
syndrome in survivors of prolonged and repeated trauma”, in Journal of Traumatic Stress, 5(3), pp.
377-391; C. Zlotnick, A.L. Zakrisky, M.T. Shea, E. Costello, A. Begin, T. Pearlstein, E. Simpson
(1996), “The long-term sequelae of sexual abuse: Support for a Complex Post-traumatic Stress
Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 9(2), pp. 195-205; S. Roth, E. Newman, D. Pelcovitz,
B.A. van der Kolk, F.S. Mandel (1997), “Complex PTSD in victims exposed to sexual and physical
abuse: Results from the DSM-IV Field Trial for Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of
Traumatic Stress, 10(4), pp. 539-555; D. Pelcovitz, B.A. van der Kolk, S. Roth, F. Mandel, S. Kaplan
(1997), “Development and validation of the structured interview for measurement of disorders of
extreme stress”, in Journal of Traumatic Stress, 10, pp. 3-16.
17. Le rating scales sono strumenti costituiti da una serie di item relativi agli elementi psico-
comportamentali da individuare e che segnalano il grado di gravità a cui fare riferimento. Si
utilizzano come strumenti di misura e/o di rilevazione standardizzata. [NdC]
18. B.C. Stolbach, P. Minshew, V. Rompale, R.Z. Dominguez, T. Gazibara, R. Fink (2013),
“Complex trauma exposure and symptoms in urban traumatized children: A preliminary test of
proposed criteria for Developmental Trauma Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 26(4), pp.
483-491. B.A. van der Kolk, D. Pelcovitz, S. Roth, F.S. Mandel (1996), “Dissociation, somatization,
and affect dysregulation: The complexity of adaptation to trauma”, in American Journal of
Psychiatry, 153, pp. 83-93. Vedi anche D.G. Kilpatrick, H.S. Resnick, Jr. Freedy (1998), “Post-
traumatic Stress Disorder Field Trial: Evaluation of the PTSD Construct - Criteria A Through E”,
in DSM-IV Sourcebook, vol. 4, American Psychiatric Press, Washington, pp. 803-844; T.
Luxenberg, J. Spinazzola, B.A. van der Kolk (2001) “Complex trauma and Disorders of Extreme
Stress (DESNOS) Diagnosis, Part one: Assessment”, in Directions in Psychiatry, 21(25), pp. 373-
392; B.A. van der Kolk, S. Roth, D. Pelcovitz, S. Sunday, J. Spinazzola (2005), “Disorders of
extreme stress: The empirical foundation of a complex adaptation to trauma”, in Journal of
Traumatic Stress, 18(5), pp. 389-399.
19. Tutto ciò è reperibile sul sito web dello studio ACE: http://acestudy.org/
20. http://www.cdc.gov/ace/ ndings.htm; http://acestudy.org/download; V. Felitti, R.F. Anda, D.
Nordenberg, D.F. Williamson, A.M. Spitz, V. Edwards, M.P. Koss, J.S. Marks (1998),
“Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the leading causes of
death in adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in American Journal of
Preventive Medicine, 14(4), pp. 245-258; si veda anche Reading, R. (2006), “The enduring effects of
abuse and related adverse experiences in childhood: A convergence of evidence from neurobiology
and epidemiology”, in Child: Care, Health and Development, 32(2), pp. 253-256; V.J. Edwards,
J.W. Holden, R.F. Anda, V. Felitti (2003), “Experiencing multiple forms of childhood maltreatment
and adult mental health: Results from the Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in
American Journal of Psychiatry, 160(8), pp. 1453-1460; S.R. Dube, R.F. Anda, V. Felitti, V.
Edwards, J.B. Croft (2002), “Adverse childhood experiences and personal alcohol abuse as an
adult”, in Addictive Behaviors, 27(5), pp. 713-725; S.R. Dube, V. Felitti, M. Dong, D.P. Chapman,
W.H. Giles, R.F. Anda (2003), “Childhood abuse, neglect, and household dysfunction and the risk
of illicit drug use: The Adverse Childhood Experiences Study”, in Pediatrics, 111(3), pp. 564-572.
21. S.A. Strassels (2009), “Economic burden of prescription opioid misuse and abuse”, in Journal
of Managed Care Pharmacy, 15(7), pp. 556-562.
22. C.B. Nemeroff, C. Heim, M.E. Thase, D.N. Klein, A.J. Rush, A.F. Schatzberg, P.T. Ninan, J.P.
McCullough, P.M. Waiss, D.L. Dunner, B.O. Rothbaum, S. Korstein, G. Keitner, M.B. Keller
(2003), “Differential responses to psychotherapy versus pharmacotherapy in patients with chronic
forms of major depression and childhood trauma”, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, 100(24), pp. 14293-14296. Vedi anche C. Heim, P.M.
Plotsky, C.B. Nemeroff (2004), “Importance of studying the contributions of early adverse
experience to neurobiological ndings in Depression”, in Neuropsychopharmacology, 29(4), pp.
641-648.
23. B.E. Carlson (1990), “Adolescent observers of marital violence”, in Journal of Family Violence,
5(4), pp. 285-299. Si vedano anche B.E. Carlson (1984), “Children’s observations of Interparental
violence”, in A.R. Roberts (a cura di), Battered Women and Their Families, Springer, New York,
pp. 147-167; J.L. Edelson (1999), “Children’s witnessing of adult domestic violence”, in Journal of
Interpersonal Violence, 14(8), pp. 839-870; K. Henning, H. Leitenberg, P. Coffey, T. Turner, R.T.
Bennett (1996), “Long-term psychological and social impact of witnessing physical con ict
between parents”, in Journal of Interpersonal Violence, 11(1), pp. 35-51; E.N. Jouriles, C.M.
Murphy, M. O’Leary (1989), “Interpersonal aggression, marital discord, and child problems”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 57(3), pp.1453-1455; J.R. Kolko, E.H. Blakely, D.
Engelman (1996), “Children who witness domestic violence: A review of empirical literature”, in
Journal of Interpersonal Violence, 11(2), pp. 281-293; J. Wolak, D. Finkelhor (1998), “Children
exposed to partner violence”, in J.L. Jasinski, L. Williams (a cura di), Partner Violence: A
Comprehensive Review of 20 Years of Research, Sage, Thousand Oaks, CA.
24. Molte di queste affermazioni derivano da conversazioni con Vincent Felitti, riprese da J.E.
Stevens (2012), “The Adverse Childhood Experiences study – the largest public health study you
never heard of”, in Huf ngton Post, 8. http://www.huf ngtonpost.com/jane-ellen-stevens/the-
adverse-childhoodexp_1_b_1943647.html.
25. Rischio Attribuibile nella Popolazione: si riferisce alla differenza di rischio tra popolazione
generale e popolazione non esposta, rapportata al rischio della popolazione generale. [In altri
termini, si riferisce alla proporzione di eventi sfavorevoli che si potrebbero evitare nell’intera
popolazione, se si impedisse l’esposizione della stessa al fattore di rischio (fonte: Saperi.doc,
Centro per la Documentazione sulla Salute Perinatale e Riproduttiva). NdC]
26. National Cancer Institute (2012), “Nearly 800,000 deaths prevented due to declines in
smoking” (comunicato stampa), March 14, disponibile sul
sito: http://www.cancer.gov/newscenter/newsfromnci/2012/TobaccoControlCISNET.
10
Geni cattivi?
Avendo a che fare con disturbi pervasivi e genitori così disfunzionali,
saremmo tentati di attribuire i problemi dei bambini semplicemente a geni
cattivi. La tecnologia orienta continuamente nuove direzioni per la ricerca
e, dal momento in cui si è potuto disporre di test genetici, la psichiatria si
è adoperata per trovare le cause genetiche della malattia mentale. Scoprire
un collegamento genetico è sembrato particolarmente rilevante per la
schizofrenia, una forma di malattia mentale abbastanza comune (colpisce
circa l’1% della popolazione), grave e dirompente e che, sicuramente,
risente di una familiarità. Eppure, dopo trent’anni e milioni di dollari usati
per la ricerca, non siamo riusciti a individuare dei modelli genetici
coerenti per la schizofrenia o per qualsiasi altra malattia psichiatrica.2
Alcuni dei miei colleghi hanno lavorato sodo anche per scoprire i fattori
genetici che predispongono le persone a sviluppare lo stress3 traumatico.
La ricerca, in questo campo, continua, ma, nora, non è sfociata in alcuna
risposta valida.4
Studi recenti hanno disconfermato del tutto la convinzione banale che
“avere” un particolare gene conduca a una manifestazione speci ca. Una
singola caratteristica può essere – come si è dimostrato – il prodotto di
una combinazione di più geni. Ancora più importante è stata la scoperta
che i geni non sono immutabili: gli eventi di vita possono sollecitare
messaggi biochimici che li attivano o li silenziano, tramite il collegamento
a gruppi metilici, un gruppo di atomi di carbonio e idrogeno sull’esterno
del gene (un processo chiamato metilazione) che può rendere il gene
stesso più o meno sensibile ai messaggi da parte del corpo. Gli eventi di
vita possono cambiare il comportamento dei geni, ma non ne alterano la
struttura fondamentale. Schemi di metilazione, tuttavia, sono trasmissibili
ai discendenti: un fenomeno noto come epigenetica. Ancora una volta, il
corpo tiene traccia, ai livelli più profondi dell’organismo.
Uno degli esperimenti più citati in epigenetica fu condotto dal
ricercatore Michael Meaney alla McGill University. Studiando alcuni ratti
neonati e le loro madri,5 Meaney scoprì che il modo e il tempo in cui una
madre ratto lecca e pulisce i suoi cuccioli, durante le prime dodici ore
dopo la loro nascita, in uisce sui processi chimici cerebrali connessi allo
stress, modi cando la con gurazione di oltre un migliaio di geni. I ratti
leccati intensamente dalle loro madri sono più coraggiosi e producono
livelli più bassi di ormoni dello stress in situazioni stressanti, rispetto a
quelli le cui madri sono meno accudenti. Questi ratti riescono anche a
guarire più rapidamente, con un equilibrio che si portano dietro per tutta
la vita. Sviluppano anche collegamenti più spessi nell’ippocampo, un
centro fondamentale per l’apprendimento e la memoria, e sono più
performanti in un compito che è fondamentale per i roditori: trovare la
via d’uscita da un labirinto.
Abbiamo, inoltre, iniziato a imparare che le esperienze stressanti
in uenzano l’espressione genetica anche negli esseri umani. I bambini le
cui madri in gravidanza erano state costrette a vivere in case non riscaldate
durante una tempesta di ghiaccio prolungata nel Québec mostravano
maggiori cambiamenti epigenetici rispetto ai gli delle madri che avevano
usufruito del riscaldamento, riattivato dopo solo un giorno.6 Il ricercatore
Moshe Szyf, della McGill University, ha confrontato i pro li epigenetici di
centinaia di bambini nati ai poli estremi della scala sociale del Regno
Unito, misurando gli effetti dell’abuso infantile su entrambi i gruppi. Le
differenze di classe sociale sono state associate con speci ci e diversi
pro li epigenetici, ma i bambini abusati, in entrambi i gruppi, avevano in
comune modi cazioni speci che in 73 geni. Szyf dichiarò: “Le principali
modi che nel nostro corpo possono avvenire non solo a opera di prodotti
chimici e di tossine, ma anche in seguito al modo in cui il mondo sociale
parla al mondo cablato”.7
Svelare i segreti
Le “falle” della memoria traumatica
Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano queste due qualità. Sono
pieni di silenzio, e questa anzi è la loro virtù più forte, e rimangono tali
anche se la realtà si fa diversa. Sono visioni mute che mi parlano con lo
sguardo e coi gesti, ed è il loro silenzio che mi commuove nel profondo.
ERICH MARIA REMARQUE
Niente di nuovo sul fronte occidentale
1. Al contrario delle consultazioni cliniche, per le quali esiste un segreto professionale, le perizie
penali sono documenti pubblici, condivisi con gli avvocati, i giudici e le giurie. Prima di iniziare
una perizia, quindi, avverto sempre i clienti circa l’impossibilità di tenere segrete le informazioni
che mi riferiscono.
2. Il giudice, in quanto esperto di diritto, ma non di altri campi, può avvalersi dell’apporto di
esperti per poter giungere a delle decisioni. In particolare, per quanto riguarda l’ammissibilità della
prova scienti ca, il contributo degli esperti, in termini di forma e di sostanza, si è determinato sulla
base di due sentenze storiche, divenute standard, riferimenti a cui rifarsi nei processi successivi: la
sentenza Frye del 1923 e la sentenza Daubert del 1993. Il caso Daubert si riferiva ai probabili
effetti collaterali sul feto del Benedectin, un farmaco contro le nausee in gravidanza prodotto dalla
Merrell Dow Pharmaceuticals. La sentenza Daubert ha implicato che i giudici, in quanto garanti
della legge, avessero l’ultima parola sulla validità delle informazioni acquisite in giudizio. Seppure
si debbano avvalere del parere di esperti, i giudici si riservano il diritto di decidere a chi
riconoscere la quali ca di scienziato: saranno poi gli strumenti processuali a garantire la qualità del
risultato e a fare emergere la migliore scienti cità. Per maggiori informazioni, si consulti il
sito: http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/lisa-giupponi/giudice-lesperto-e-paradosso-
della-prova-scienti ca/marzo-2013-0. [NdC]
3. K.A. Lee, G.E. Vaillant, W.C. Torrey, G.H. Eider (1995), “A 50-year prospective study of the
psychological sequelae of World War II Combat”, in American Journal of Psychiatry, 152(4), pp.
516-522.
4. J.L. McGaugh, M.L. Hertz (1972), Memory Consolidation, Albion Press, San Francisco; L.
Cahill, J.L. McGaugh (1998), “Mechanisms of emotional arousal and lasting declarative memory”,
in Trends in Neurosciences, 21(7), pp. 294-299.
5. A.F. Arnstein, R. Mathew, R. Ubriani, J.R. Taylor, A.F. Arnstein (1999), “α-1 Noradrenergic
Receptor Stimulation Impairs Prefrontal Cortical Cognitive Function”, in Biological Psychiatry,
45(1), pp. 26-31. Vedi anche A.F. Arnstein (1998), “Enhanced: The biology of being frazzled”, in
Science, 280 (5370), pp. 1711-1712; S. Birnbaum, K.T. Gobeske, K.T. Auerbach, G.R. Taylor
(1999), “A role for norepinephrine in stress-induced cognitive de cits: α-1 Noradrenergic-1-
adrenoceptor mediation in the prefrontal cortex”, in Biological Psychiatry, 46(9), pp. 1266-1274.
6. Y.D. van der Werf, J. Jolles, M.P. Witter, H.B. Uylings (2003), “Special issue: Contributions of
thalamic nuclei to declarative memory functioning”, in Cortex, 39, pp. 1047-1062. Vedi anche B.M.
Elzinga, J.D. Bremmer (2002), “Are the neural substrates of memory the nal common pathway in
Post-traumatic Stress Disorder (PTSD)?”, in Journal of Affective Disorders, 70, pp. 1-17; L.M.
Shin, C.I. Wright, P.A. Canistraro, M.M. Wedlg, K. McMullin, B. Martis, M.L. Maclin, N.B.
Lasko, S.R. Cavanagh, T.S. Krangel, S.P. Orr, R.K. Pitman, P.J. Whalen, S.L. Rauch (2005), “A
functional magnetic resonance imaging study of amygdala and medial prefrontal cortex responses
to overtly presented fearful faces in Post-traumatic Stress Disorder”, in Archives of General
Psychiatry, 62, pp. 273-281; L.M. Williams, A.H. Kemp, K. Felmingham, M. Barton, G. Olivieri,
A. Peduto, E. Gordon, R.A. Bryant (2006), “Trauma modulates amygdala and medial prefrontal
responses to consciously attended fear”, in Neuroimage, 29, pp. 347-357; R.A. Lanius, P.C.
Williamson, K. Boksman, M. Densmore, M. Gupta, R.W. Neufeld, J.S. Gati, R.S. Menon (2002),
“Brain Activation During Script-Driven Imagery Induced Dissociative Responses in PTSD: A
Functional Magnetic Resonance Imaging Investigation”, in Biological Psychiatry, 52, pp. 305-311;
H.D. Critchley, C.J. Mathias, R.J. Dolan (2002), “Fear conditioning in humans: The in uence of
awareness and autonomic arousal on functional neuroanatomy”, in Neuron, 3, pp. 653-663; M.
Beauregard, J. Levesque, P. Bourgouin (2001), “Neural correlates of conscious self-regulation of
emotion”, in Journal of Neuroscience, 21, RC165; K.N. Ochsner, R.D. Ray, J.C. Cooper, E.R.
Robertson, S. Chopra, J.D. Gabrieli, J.J. Gross (2004), “For better or for worse: Neural systems
supporting the cognitive down- and up-regulation of negative emotion”, in Neuroimage, 23, pp.
483-499; M.A. Morgan, L.M. Romanski, L.E. LeDoux (1993), “Extinction of emotional learning:
Contribution of medial prefrontal cortex”, in Neuroscience Letters, 163, pp. 109-113; M.R. Milad,
G.J. Quirk (2002), “Neurons in medial prefrontal cortex signal memory for fear extinction”, in
Nature, 42, pp. 70-74; J. Amat, M.V. Baratta, E. Paul, S.T. Bland, L.R. Watkins, S.F. Maier (2005),
“Medial prefrontal cortex determines how stressor controllability affects behavior and dorsal
Raphe Nucleus”, in Nature Neuroscience, 8, pp. 365-371.
7. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the fragmentary nature of traumatic
memories: Overview and exploratory study”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 505-525.
8. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton, NJ. Vedi anche H.F. Ellenberger (1970), La scoperta dell’inconscio.
Storia della psichiatria dinamica, tr. it. Boringhieri, Torino 1976.
9. T. Ribot (1887), Diseases of Memory, Appleton, pp. 108-109; H.F. Ellenberger (1970), La
scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, tr. it. Boringhieri, Torino 1976.
10. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
11. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton.
12. J.L. Herman (1997), Guarire dal trauma, tr. it. Magi, Roma 2005, p. 23.
13. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Priceton, NJ. Si veda anche, J.M. Charcot (1888), Clinical Lectures on Certain
Diseases of the Nervous System, vol. 3, New Sydenham Society, London.
14. G. Didi-Huberman (2003), L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotogra ca della
Salpêtrière, tr. it. Marietti, Torino 2008. [NdC]
15. P. Janet (1889), L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale sulle forme inferiori
dell’attività umana, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
16. È stato Onno van der Hart a presentarmi il lavoro di Janet, essendo, senza ombra di dubbio, il
più grande studioso vivente della sua opera. Ho avuto il grande privilegio di collaborare fianco a
fianco con Onno nella stesura di un compendio delle idee fondamentali di Janet. B.A. van der
Kolk, O. van der Hart (1989), “Pierre Janet and the breakdown of adaptation in psychological
trauma”, in American Journal of Psychiatry, 146, pp. 1530-1540; B.A. van der Kolk, O. van der
Hart (1991), “The intrusive past: The exibility of memory and the engraving of trauma”, in
Imago, 48, pp. 425-454.
17. P. Janet (1904), “L’amnésie et la dissociation des souvenirs par l’émotion”, in Journal de
Psychologie, 1, pp. 417-453.
18. P. Janet (1925), Psychological Healing, MacMillian, New York, p. 660.
19. P. Janet (1911), L’Etat mental des hystériques, 2nd ed., Félix Alcan, Paris (ristampa, La tte
Reprints, Marsiglia 1983); P. Janet (1907), The Major Symptoms of Hysteria, MacMillian, New York
(ristampa, Hafner, New York 1965); P. Janet (1928), L’évolution de la mémoire et de la notion du
temps, A. Chahine, Paris.
20. J.L. Titchener (1986), “Post-traumatic decline: A consequence of unresolved destructive
drives”, in Trauma and its Wake, 2, pp. 5-19.
21. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
22. S. Freud (1896), “Etiologia dell’isteria”, in Opere, vol. 2, tr. it. Boringhieri, Torino 1968, pp.
329-360.
23. S. Freud (1905), “Tre saggi sulla teoria sessuale”, in Opere, vol. 4, tr. it. Boringhieri, Torino
1970, p. 499: Determinanti per il ripresentarsi dell’attività sessuale sono cause interne e occasioni
esterne: le une e le altre, in casi di malattia nevrotica, indovinabili partendo dalla strutturazione dei
sintomi e precisabili con sicurezza mediante l’indagine psicoanalitica. Parleremo a seguito delle
cause interne; le occasioni accidentali esterne hanno, in quest’epoca, grande e duratura importanza
[qui Freud pone grande enfasi], in prima linea sta l’in uenza della seduzione, che tratta
precocemente il bambino come oggetto sessuale e gli fa conoscere in circostanze che si imprimono
fortemente in lui il soddisfacimento delle zone genitali, soddisfacimento che egli, in seguito, sarà
per lo più costretto a rinnovare in modo onanistico. Questa in uenza può provenire da adulti o da
altri bambini; non posso ammettere di averne sopravvalutato la frequenza e l’importanza nel mio
saggio del 1896, Etiologia dell’isteria, sebbene allora non sapessi ancora che individui rimasti
normali possono avere avuto negli anni dell’infanzia le stesse esperienze [degli isterici] e per questa
ragione attribuissi alla seduzione un valore maggiore che i fattori dati nella costituzione sessuale e
nello sviluppo sessuale. È evidente che non c’è bisogno della seduzione per risvegliare la vita
sessuale del bambino, che tale risveglio può prodursi anche spontaneamente per cause interne. S.
Freud (1916), “Introduzione alla Psicoanalisi”, in Opere, vol. 8, tr. it., Boringhieri, Torino 1976, p.
525: Particolare interesse riveste la fantasia della seduzione, perché n troppo spesso non è una
fantasia bensì un ricordo reale.
24. S. Freud (1914), “Ricordare, ripetere e rielaborare”, in Nuovi consigli sulla tecnica della
psicoanalisi, in Opere, vol. 7, tr. it. Boringhieri, Torino 1975, pp. 355-356. Si veda anche l’intera
edizione delle Opere, tradotte in Italia da Boringhieri.
25. B.A. van der Kolk (1986), Psychological Trauma. APA, Washington, DC.
26. B.A. van der Kolk (1989) “The compulsion to repeat the trauma”, in Psychiatric Clinics of
North America, 12(2), pp. 389-411.
27. È un termine giuridico che, tradotto letteralmente, signi ca “amico della corte”. Con questa
espressione, ci si riferisce a chiunque, che non sia parte in causa, offra volontariamente
informazioni alla corte su un aspetto della legge o su altre parti del caso, per aiutare la corte a
decidere.
12
L’insostenibile pesantezza
del ricordare
Ascoltare i sopravvissuti
Nessuno vuole ricordare il trauma. A tal proposito, la società non si
distingue dalle vittime stesse. Noi tutti vogliamo vivere in un mondo
sicuro, comodo e prevedibile, e le vittime di traumi ci ricordano che non
sempre è così. Per comprendere il trauma, dobbiamo superare la nostra
naturale riluttanza ad affrontare la realtà e avere il coraggio di ascoltare le
testimonianze dei sopravvissuti.
Nel suo libro Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory (1991),
Lawrence Langer scrive sul suo lavoro presso l’Archivio Video Fortunoff
dell’Università di Yale: “Ascoltando i racconti di chi ha vissuto
l’Olocausto, riportiamo alla luce un mosaico di reperti, che si perde
costantemente all’interno di strati in niti di incompletezza.31 Ci
scontriamo con l’inizio di un racconto permanentemente incompiuto,
pieno di parti mancanti, come se fossimo messi di fronte allo spettacolo di
un testimone titubante, spesso costretto a un silenzio angosciato dalla
schiacciante pressione dei suoi ricordi profondi”. Come disse uno dei
testimoni: “Se tu non sei stato lì, è dif cile descrivere e dire com’è stato. Il
modo in cui funzionano gli uomini in certe condizioni di stress è una cosa,
ma comunicare ed esprimere l’evento a qualcuno che non ha mai saputo
potesse esistere un simile livello di brutalità è un’altra: sembra un
racconto di fantasia”.
Un’altra sopravvissuta, Charlotte Delbo, dopo la liberazione da
Auschwitz, descrisse la sua doppia esistenza: “L’io che era nel campo non
ero io, non era la persona che è qui, di fronte a voi. No, è troppo
incredibile. E tutto ciò che è accaduto a questo altro ‘io’, la persona di
Auschwitz, non mi tocca, me, non mi riguarda, la memoria profonda e la
memoria ordinaria sono così distanti […]. Senza questa scissione, non
sarei stata in grado di tornare alla vita”.32 Riferisce che anche le parole
hanno un duplice signi cato: “Altrimenti, chi [nei campi] è stato
tormentato dalla sete per settimane non sarebbe mai più in grado di dire:
‘sono assetato, prendiamo una tazza di tè’. La parola ‘sete’ [dopo la
guerra] è tornata a essere di uso comune. D’altra parte, se io immagino la
sete che ho provato a Birkenau [gli impianti di sterminio di Auschwitz],
vedo me stessa com’ero: sconvolta, priva di ragione, barcollante”.33
Langer, in modo ossessionante, conclude: “Chi può trovare un sepolcro
adeguato per mosaici della mente così danneggiati, dove possono riposare
in pezzi? La vita va avanti, ma segue contemporaneamente due direzioni
temporali diverse: il futuro non è in grado di sfuggire alla morsa di una
memoria carica di dolore”.34
L’essenza del trauma è che è travolgente, incredibile, e insopportabile.
Ogni paziente richiede che noi si accantoni il senso di ciò che è normale e
si accetti il confronto con una duplice realtà: la realtà di un presente
relativamente sicuro e prevedibile, che vive anco a anco con un passato
catastro co e sempre presente.
La storia di Nancy
Pochi pazienti riescono a esprimere in parole questo concetto di dualità
più vividamente di Nancy, la caposala di un ospedale del Midwest, che è
venuta a Boston diverse volte per delle consultazioni psicologiche con me.
Poco dopo la nascita del suo terzo glio, Nancy si sottopose a quello che
solitamente è considerato un intervento chirurgico di routine: la chiusura
delle tube in laparoscopia, in seguito al quale le tube sono cauterizzate per
impedire gravidanze future. Tuttavia, non avendo ricevuto una dose
adeguata di anestesia, si svegliò a operazione iniziata e rimase cosciente
quasi no alla ne, a volte cadendo in quello che lei chiama “un sonno
leggero” o “sogno”, a volte sperimentando l’orrore della sua situazione.
Non era in grado di allertare l’équipe chirurgica muovendosi o gridando,
perché le era stato dato un miorilassante per evitare contrazioni muscolari
durante l’intervento.
Un certo rischio di “consapevolezza in anestesia” viene stimato in circa
trentamila pazienti chirurgici negli Stati Uniti ogni anno35 e avevo già
veri cato che molte persone erano state traumatizzate dall’esperienza.
Nancy, tuttavia, non aveva voluto citare in giudizio il suo chirurgo o
l’anestesista. Tutti i suoi sforzi si concentrarono sul tentativo di portare il
trauma alla coscienza, in modo da liberarsi delle intrusioni traumatiche
che irrompevano nella sua vita quotidiana. Vorrei concludere questo
capitolo condividendo alcuni passi tratti da una lunga serie di e-mail, in
cui Nancy descriveva il suo viaggio estenuante verso la guarigione.
Inizialmente, Nancy non sapeva che cosa fosse accaduto. “Quando
siamo rientrati a casa ero ancora stordita, non provavo ancora la
sensazione di essere viva o di essere reale all’interno della normale routine
domestica. Quella notte avevo dif coltà a dormire. Sono rimasta per
giorni in quel mio piccolo mondo scollegato. Non riuscivo a utilizzare
l’asciugacapelli, il tostapane, i fornelli o qualsiasi cosa che si scaldasse.
Non riuscivo a concentrarmi su ciò che le persone facevano o dicevano.
Non mi importava. Ero sempre più ansiosa. Dormivo sempre di meno.
Sapevo che mi stavo comportando in modo strano e cercavo di capire
cosa mi stesse spaventando così tanto”.
“La quarta notte dopo l’intervento chirurgico, intorno alle 3,00, iniziai a
capire che il sogno in cui stavo vivendo da tutto quel tempo era collegato
a conversazioni che avevo sentito in sala operatoria. Sono stata
improvvisamente trasportata indietro in quella sala, riuscendo a percepire
il mio corpo paralizzato e bruciante. Sono stata inghiottita da un vortice di
terrore e orrore”. Da allora, spiegava Nancy, ricordi e ashback
intrudevano nella sua vita.
“Era come se la porta si aprisse leggermente, permettendo l’intrusione.
C’era un misto di curiosità e di voglia di fuggire. Continuavo ad avere
paure irrazionali. Avevo una paura mortale di dormire; provavo un senso
di terrore nel vedere il colore blu. Mio marito, purtroppo, portava il peso
della mia malattia: mi scagliavo contro di lui anche quando non avrei
avuto l’intenzione di farlo. In quel periodo, non dormivo più di 2 o 3 ore a
notte e la mia giornata era invasa da ashback. Ero cronicamente in iper-
allerta, mi sentivo minacciata dai miei stessi pensieri e dalla voglia di
fuggirli. Ho perso 10 chili in 3 settimane. La gente continuava a ripetere
che ero in splendida forma”.
“Ho cominciato a pensare di morire. Avevo sviluppato una visione molto
distorta della mia vita, in cui svalutavo tutti i miei successi e ampli cavo i
vecchi fallimenti. Stavo ferendo sempre di più mio marito e constatavo di
non riuscire a difendere i miei gli dalla mia rabbia”.
“Tre settimane dopo l’intervento, sono tornata a lavorare in ospedale. La
prima volta che mi sono trovata a contatto con un paziente, preparato per
un intervento, mi trovavo in ascensore. Avrei voluto scappare
immediatamente, ma, di fatto, non potevo. Ho provato poi una voglia
irrazionale di picchiarlo e, con un grosso sforzo, sono riuscita a
trattenermi. Questo episodio ha provocato un aumento dei ashback, del
terrore e della dissociazione. Ho pianto per tutto il tragitto dal lavoro
verso casa. Dopo di che, sono diventata abile a evitare la situazione. Non
mettevo più piede in un ascensore, non andavo più al bar, rifuggivo i
reparti di chirurgia”.
Pian piano, Nancy riuscì a integrare i suoi ashback e a creare un
comprensibile, seppure orribile, ricordo del suo intervento chirurgico.
Ricordò le rassicurazioni dell’infermiera di sala operatoria e un breve
periodo di sonno ad anestesia iniziata, ricordandosi poi di come avesse
cominciato a risvegliarsi.
“L’intera équipe chirurgica stava ridendo a proposito della relazione di
una delle infermiere nell’istante esatto della prima incisione del bisturi: ne
ho sentito l’impatto, quindi il taglio, poi il sangue caldo che scorreva sulla
mia pelle. Provavo disperatamente a muovermi, a parlare, ma il mio corpo
non reagiva. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Avvertivo un
dolore profondo, come se gli strati muscolari si spezzassero a causa della
loro stessa tensione. Sapevo che non avrei dovuto sentire quelle
sensazioni”.
Nancy, poi, ricordò qualcuno “frugare” nel suo ventre e identi cò
questa sensazione con l’inserimento degli strumenti laparoscopici utilizzati
per l’intervento. Sentì la sua tuba di sinistra che veniva chiusa. “Poi,
improvvisamente, ho provato un dolore bruciante, a seguito della
cauterizzazione. Cercavo di fuggire, ma la punta cauterizzante mi
perseguitava implacabilmente, bruciandomi. Non ci sono veramente
parole per descrivere il terrore di questa esperienza. Questo dolore non
era dello stesso tipo di altri, che avevo conosciuto e sopportato, come un
osso rotto o un parto naturale. Inizia come un dolore estremo, poi
continua inesorabilmente, bruciando lentamente attraverso la tuba. La
paura di essere tagliati con il bisturi impallidisce accanto a
quest’enormità”.
“Poi, improvvisamente, la tuba destra sentiva l’impatto iniziale della
punta del cauterizzatore. Sentendo le risate, ho perso per un attimo la
cognizione di dove mi trovassi. Credevo di essere in una stanza di tortura
e non riuscivo a capire perché mi stessero torturando senza nemmeno
chiedere informazioni… Il mio mondo si era ridotto a una piccola bolla,
che rivestiva il tavolo operatorio. Non avevo il senso del tempo, non avevo
passato, non avevo futuro. C’erano solo dolore, terrore e orrore. Mi
sentivo isolata da tutta l’umanità, profondamente sola nonostante le
persone attorno a me. La bolla si stava chiudendo su di me”.
“Nella mia agonia, devo aver fatto qualche movimento. Ho sentito
l’assistente dire all’anestesista che ero ‘sveglia’. Quest’ultimo, quindi, ha
ordinato la somministrazione di una dose aggiuntiva di anestetico,
dicendo tranquillamente: ‘non c’è bisogno di mettere tutto ciò in cartella’:
è l’ultimo ricordo che ho.”
Nelle successive e-mail che mi scrisse, Nancy lottava per cogliere la
realtà esistenziale del trauma.
“Voglio dirti a cosa assomiglia un ashback. È come se il tempo fosse
piegato o deformato, come se il passato e il presente si congiungessero,
come se si fosse sicamente trasportati nel passato. Aspetti particolari
legati al trauma originale, benigni in realtà, sono completamente
contaminati e diventano oggetti da odiare, da temere, da distruggere se
possibile, o, almeno, da evitare. Per esempio, un ferro da stiro, anche se
giocattolo, un ferro arricciacapelli, vengono visti come strumenti di
tortura. Ogni incontro con un camice da sala operatoria mi dissociava, mi
confondeva, mi faceva sentire sicamente malata e, a volte,
consapevolmente arrabbiata”.
“Il mio matrimonio sta lentamente cadendo a pezzi, mio marito inizia a
rappresentare la gente senza cuore che ride [l’équipe chirurgica] e che mi
fa male. Io esisto in un doppio stato. Un intorpidimento pervasivo mi
copre come una coperta; il contatto con un bambino piccolo mi riporta
alla realtà. Per un momento, sono presente e prendo parte alla vita, non
sono solo un osservatore”.
“È interessante notare che faccio molto bene il mio lavoro e ho
costantemente dei riscontri positivi. La vita procede con un senso di
inautenticità”.
“C’è una certa estraneità, una bizzarria in questa doppia esistenza. Sono
stanca di tutto ciò. Non posso ancora rinunciare alla vita e non posso
illudermi di credere che, se la ignoro, la bestia andrà via. Ho pensato tante
volte di aver richiamato tutti gli eventi dell’intervento chirurgico, solo per
trovarne uno nuovo”.
“Ci sono così tanti pezzi di quei 45 minuti della mia vita che rimangono
sconosciuti. I miei ricordi sono ancora incompleti e frammentari, ma non
penso più di aver bisogno di sapere tutto, per capire cosa è successo”.
“Quando la paura si calma mi rendo conto che posso superarlo, ma una
parte di me dubita che possa riuscirci. Il richiamo del passato è forte; è il
lato oscuro della mia vita, e io devo ritornarci di tanto in tanto. La lotta
può anche essere un modo per sapere che sopravvivo, un ripercorrere la
lotta per la sopravvivenza, cosa che apparentemente ho vinto, ma che non
padroneggio”.
Un primo segnale di ripresa prese forma quando Nancy ebbe bisogno di
un altro intervento chirurgico, questa volta più complicato. Scelse un
ospedale di Boston e chiese un incontro preoperatorio con i chirurghi e
l’anestesista, per discutere la sua esperienza precedente, chiedendo che mi
fosse permesso di essere presente in sala operatoria. Per la prima volta
dopo tanti anni, indossai un camice chirurgico e la accompagnai in sala
operatoria mentre le veniva somministrata l’anestesia. Questa volta Nancy
si svegliò con una sensazione di sicurezza.
Due anni dopo scrissi a Nancy, chiedendole il permesso di usare la sua
esperienza in questo capitolo, e mi rispose, aggiornandomi sul suo
recupero: “Vorrei poter dire che l’intervento chirurgico, a cui gentilmente
mi hai accompagnato, ha posto ne alla mia sofferenza, ma non è così.
Dopo circa sei mesi, ho fatto due scelte che si sono poi rivelate
provvidenziali: ho lasciato il mio terapeuta CBT per lavorare con uno
psichiatra con orientamento psicodinamico e mi sono iscritta a un corso di
pilates”.
“Nell’ultimo mese di terapia, ho chiesto al mio psichiatra perché non
provasse ad ‘aggiustarmi’, come tutti gli altri terapeuti avevano tentato di
fare, fallendo. Mi ha detto che riteneva, dato ciò che ero riuscita a fare con
i miei gli e la mia carriera, che fossi suf cientemente resiliente da guarire
da sola, se avesse creato un ambiente accogliente per me. Questo si
tradusse in un’ora alla settimana che era un po’ come un rifugio, in cui
poter svelare il mistero di un così grave danno subito, per poi ricostruire
un senso di me intero, non frammentato, paci co, non tormentato.
Attraverso il Pilates ho scoperto un nucleo sico forte, trovando un
gruppo di donne che, volontariamente, mi ha accolto e dato sostegno,
cose che non avevo mai sperimentato nella mia vita prima del trauma.
Questa combinazione di rafforzamento del nucleo – psicologico, sociale e
sico – mi ha donato un senso di sicurezza e di padronanza di me stessa,
relegando i miei ricordi in un passato lontano e permettendo al presente e
al futuro di emergere”.
1. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton, NJ, p. 84.
2. Il termine si riferisce alla peculiare reazione di shock traumatico causato dall’esposizione a
bombardamento. Viene usato per de nire la condizione di psicosi traumatica da bombardamento.
[NdC]
3. F.W. Mott (1916),“Special discussion on shell shock without visible signs of injury”, in
Proceedings of the Royal Society of Medicine, 9, pp. I-XLIV. Vedi anche C.S. Myers (1915), “A
contribution to the study of shell shock”, in Lancet, 1, pp. 316-320; T.W. Salmon (1917), “The care
and treatment of mental diseases and war neuroses (“shell shock”) in the British Army”, in Mental
Hygiene, 1, pp. 509-547; E. Jones, S. Wessely (2005), Shell Shock to PTSD: Military Psychiatry from
1900 to the Gulf, Psychology Press, Hove, UK.
4. Una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale, consistente in una serie di
offensive iniziate dagli anglo-francesi per indebolire le linee tedesche tra Lassigny e Hebuterne,
linea di terra tagliata in due dal fiume Somme, nella Francia settentrionale. Si concluse con un
successo, molto limitato, degli alleati. [NdC]
5. J. Keegan (2011), The First World War, Random House, New York.
6. A.D. MacLeod (2004), “Shell shock, Gordon Holmes and the Great War”, in Journal of the
Royal Society of Medicine, 97(2), pp. 86-89; M. Eckstein (1989), Rites of Spring: The Great War and
the Birth of the Modern Age, Houghton Mif in, Boston.
7. L. Southborough (1922), Report of the War Of ce Committee of Enquiry into “Shell-Shock”, His
Majesty’s Stationery Of ce, London.
8. La vincitrice del premio Booker, Pat Barker, ha scritto una commovente trilogia sul lavoro dello
psichiatra militare W.H.R. Rivers: P. Barker (2008), Regeneration, Penguin UK, London; P. Barker
(1995), The Eye in the Door, Penguin, New York; P. Barker (2008), The Ghost Road, Penguin UK,
London. Ulteriori studi sugli anni successivi alla Prima guerra mondiale si trovano in A. Young
(1997), Harmony of Illusions: Inventing Post-Traumatic Stress Disorder. University Press, Princeton;
B. Shephard (2000), A War of Nerves, Soldiers and Psychiatrists 1914-1994, Jonathan Cape,
London.
9. Centro simbolico di Washington, il Mall (o National Mall) è un parco verde, lungo circa 3 km,
che con na a nord con la Constitution Avenue e a sud con la Indipendence Avenue, a est con il
Capitol e a ovest con il Lincoln Memorial. [NdC]
10. J.H. Bartlett (1937), The Bonus March and the New Deal, M.A. Donohue & Company Chicago,
New York; R. Daniels (1971), The Bonus March: An Episode of the Great Depression, M.A.
Donohue & Company Chicago, New York.
11. Remarque, E.M. (1929), Niente di nuovo sul fronte occidentale, tr. it. Oscar Mondadori, Milano
2001.
12. Ibidem
13. Si veda il sito http://motlc.wiesenthal.com/site/pp.asp? c= gvKVLcMVIuG& b= 395007.
14. C.S. Myers (1940), Shell Shock in France 1914-1918, Cambridge University Press, Cambridge
UK.
15. A. Kardiner (1941), The Traumatic Neuroses of War, Hoeber, New York.
16. http://en.wikipedia.org/wiki/ Let_ There_ Be_ Light_( lm).
17. Corpo dell’esercito americano che svolge funzioni di sviluppo, valutazione e controllo di
sistemi informatici e di comunicazione. [NdC]
18. G. Greer, J. Oxenbould (1990), Daddy, We Hardly Knew You, Penguin UK, London.
19. A. Kardiner, H. Spiegel (1947), War Stress and Neurotic Illness, England Hoeber, Oxford.
20. D.J. Henderson (1974), “Incest”, in Comprehensive Textbook of Psychiatry, 2nd ed. Williams &
Wilkins, Baltimore, p. 1536.
21. W. Sargent, E. Slater (1940), “Acute war neuroses”, in The Lancet, 236(6097), pp. 1-2. Vedi
anche G. Debenham, W. Sargant, D. Hill, E. Slater (1941), “Treatment of war neurosis”, in The
Lancet, 237(6126), pp. 107-109; W. Sargent, E. Slater, “Amnesic syndromes in war”, in Proceedings
of the Royal Society of Medicine, (Section of Psychiatry), 34(12), pp. 757-764.
22. Ogni singolo studio sulla memoria di un abuso sessuale infantile, che si tratti di uno studio
longitudinale, di un lavoro retrospettivo, di campioni clinici o della popolazione generale,
evidenzia che una certa percentuale degli individui vittime di abusi sessuali dimentica l’abuso, per
poi ricordarlo in un secondo momento. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the
fragmentary nature of traumatic memories: Overview and exploratory study”, in Journal of
Traumatic Stress, 8, pp. 505-525; J.W. Hopper, B.A. van der Kolk (2001), “Retrieving, assessing,
and classifying traumatic memories: A preliminary report on three case studies of a new
standardized method”, in Journal of Aggression, Maltreatment & Trauma, 4, pp. 33-71; J.J. Freyd,
A.P. De Prince (2001), Trauma and Cognitive Science, Haworth Press, Binghamton, pp. 33-71; A.P.
De Prince, J.J. Freyd (2001), “The meeting of trauma and cognitive science: Facing challenges and
creating opportunities at the crossroads”, in Journal of Aggression, Maltreatment & Trauma, 4(2),
pp. 1-8; D. Brown, A.W. Sche in, D. Corydon Hammond (1997), Memory, Trauma Treatment and
the Law, Norton, New York; K. Pope, L. Brown (1996), Recovered Memories of Abuse: Assessment,
Therapy, Forensics, American Psychological Association, Washington; L. Terr (1994), Unchained
Memories: True Stories of Traumatic Memories, Lost and Found, Basic Books, New York.
23. E.F. Loftus, S. Polonsky, M.T. Fullilove (1994), “Memories of childhood sexual abuse:
Remembering and repressing”, in Psychology of Women Quarterly, 18(1), pp. 67-84. L.M. Williams
(1994), “Recall of childhood trauma: A prospective study of women’s memories of child sexual
abuse”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 62(6), pp. 1167-1176.
24. L.M. Williams (1995), “Recovered memories of abuse in women with documented child sexual
victimization histories”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 649-673.
25. Il neuroscienziato Jaak Panksepp nel suo recente libro afferma: “I numerosi lavori svolti con gli
animali hanno mostrato che i ricordi che vengono recuperati tendono a essere immagazzinati
nuovamente nella memoria, con alcune modi che. J. Panksepp, L. Biven (2012), Archeologia della
mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.
26. E.F. Loftus (1993), “The reality of repressed memories”, in American Psychologist, 48(5), pp.
518-537. Vedi anche E.F. Loftus, K. Ketcham (1996), The Myth of Repressed Memory: False
Memories and Allegations of Sexual Abuse, Macmillan, New York.
27. J.F. Kihlstrom (1987), “The cognitive unconscious”, in Science, 237(4821), pp. 1445-1452.
28. E.F. Loftus (2005), “Planting misinformation in the human mind: A 30-year investigation of the
malleability of memory”, in Learning & Memory, 12(4), pp. 361-366.
29. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the fragmentary nature of traumatic
memories: Overview and exploratory study”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 505-525.
30. Ne parlerò nel capitolo 14.
31. L.L. Langer (1991), Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory, Yale University Press, New
Haven, CT.
32. Ibidem, p. 5. 30.L.L. Langer, op. cit., p. 21.
33. L.L. Langer, op. cit., p. 21.
34. L.L. Langer, op. cit., p. 34.
35. J. Osterman, B.A. van der Kolk (1998), “Awareness during anaesthesia and Post-traumatic
Stress Disorder”, in General Hospital Psychiatry, 20, pp. 274-281. Vedi anche K. Kiviniemi (1994),
“Conscious awareness and memory during general anesthesia”, in Journal of the American
Association of Nurse Anesthetists, 62, pp. 441-449; A.D. MacLeod, E. Maycock, “Awareness during
anaesthesia and Post Traumatic Stress Disorder”, in Anaesthesia and Intensive Care, 20(3), pp. 378-
382; F. Guerra (1986), “Awareness and recall: Neurological and psychological complications of
surgery and anesthesia”, in International Anesthesiology Clinics, 24, Hindman, Little Brown BT,
Boston, pp. 75-99; J. Eldor, D.Z.N. Frankel, “Intra-anesthetic awareness”, in Resuscitation, 21, pp.
113-119; J.L. Breckenridge, A.R. Aitkenhead (1983), “Awareness during anaesthesia: A review”, in
Annals of the Royal College of Surgeons of England, 65(2), p. 93.
Parte quinta
Percorsi di cura
13
A dirla tutta, nessuno di noi può essere in grado di “trattare” una guerra,
un abuso, uno stupro, una molestia, o qualunque altro evento di simile
portata. Ciò che è successo non può essere cancellato. Quello che si può
fare, invece, è occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente e
nell’anima: di quella sensazione schiacciante sul petto, che chiamiamo
ansia o depressione; della paura di perdere il controllo; dell’essere sempre
in allerta rispetto a un pericolo o a un ri uto; del disgusto verso se stessi,
degli incubi e dei ashback, della nebbia che ci impedisce di essere
concentrati sui compiti e di essere pienamente coinvolti in ciò che
facciamo, dell’essere incapaci di aprire completamente il cuore a un’altra
persona.
Il trauma ci defrauda del sentimento di essere padroni di noi stessi, di
ciò che chiamerò “self-leadership” nei prossimi capitoli.2 La vera s da
insita nel percorso di cura coincide con il ristabilire la padronanza del
corpo e della mente, vale a dire, di noi stessi. Tutto ciò signi ca essere
liberi di sapere ciò che sappiamo ed essere liberi di sentire ciò che
sentiamo, senza esserne sopraffatti o arrabbiati, o in preda alla vergogna o
collassati. Per la maggior parte delle persone, ciò comporta una serie di
obiettivi: 1) identi care dei modi per sentirsi tranquilli e concentrati; 2)
imparare a mantenere la calma rispetto a immagini, pensieri, suoni o
sensazioni siche che ricordano il passato; 3) trovare la via per essere
pienamente presenti nel qui e ora e coinvolti con le persone che ci stanno
intorno; 4) non dover tenere dei segreti con se stessi, come, per esempio,
quelli relativi al come siamo riusciti a sopravvivere.
Questi obiettivi non sono step che vanno raggiunti uno dopo l’altro,
secondo una sequenza pre ssata. Alcuni di essi, infatti, si sovrappongono,
mentre qualcuno può rivelarsi più dif cile da raggiungere rispetto agli
altri: dipende dalle singole situazioni. A tale proposito, dedicherò i
capitoli successivi alla descrizione dei metodi e degli approcci scienti ci a
nostra disposizione per ottenere gli scopi suddetti. Ho cercato, inoltre, di
rendere questi capitoli fruibili sia per i sopravvissuti ai traumi sia per i
loro terapeuti, così come per le persone che stanno attualmente vivendo
una situazione stressante. Ho usato ampiamente ciascuno di questi metodi
di trattamento con i miei pazienti e li ho anche provati su di me. Alcune
persone traggono giovamento da uno solo di questi metodi, ma la maggior
parte bene cia di approcci differenti, magari in diversi stadi del proprio
percorso terapeutico.
Su molte delle tecniche terapeutiche presentate ho condotto degli studi
scienti ci, pubblicando i risultati della ricerca in riviste scienti che peer-
reviewed.3 Gli scopi di questo capitolo sono: offrire una visione d’insieme
dei principi sottostanti alle tecniche, anticipare ciò che verrà preso in
considerazione più avanti e fare dei brevi commenti sui metodi che non
saranno esplorati in modo approfondito in questo volume.
5. Entrare in contatto
Le principali terapie del trauma hanno dedicato scarsa attenzione a come
poter far sentire le persone traumatizzate al sicuro con le proprie
emozioni e sensazioni. Farmaci inibitori della ricaptazione della
serotonina, quali il Respiridol e il Seroquel, hanno preso il posto di
interventi nalizzati a far entrare in contatto i pazienti con il proprio
mondo sensoriale.30 Eppure, il modo più naturale per calmare lo stress
coincide con l’essere toccati, abbracciati e cullati: aiuta ad abbassare
l’arousal e ci fa sentire integri, al sicuro, protetti e in controllo.
Il tocco, il più elementare strumento di cui disponiamo per calmarci, è
bandito dalla maggior parte degli approcci terapeutici. Non si può guarire
completamente se non ci si sente sicuri nella propria pelle. Incoraggio,
pertanto, i miei pazienti a intraprendere qualsiasi tipo di lavoro sul corpo,
che sia il massaggio terapeutico, il feldenkrais o la terapia cranio-sacrale.
Mi sono informato con il mio esperto di bodywork preferito, Licia Sky,
del suo lavoro con le persone traumatizzate. Ecco una parte di ciò che mi
ha detto: “Non inizio mai una seduta di bodywork senza stabilire un
contatto personale. Questo non vuol dire che mi metta a raccogliere una
storia o che cerchi di capire la persona che ho di fronte o che cosa le sia
accaduto. Voglio appurare dove sono, nel loro corpo, nel qui e ora.
Chiedo loro se c’è qualcosa su cui vorrebbero puntare l’attenzione.
Monitoro costantemente la loro postura, se mi guardano negli occhi, se
appaiono tesi o rilassati, se sono in contatto con me oppure no”.
“La prima cosa da stabilire è se si sentano più al sicuro a faccia in su o a
faccia in giù. Se non li conosco, inizio, di solito, a faccia in su. Sono molto
cauta per quanto riguarda l’abbigliamento, e attenta a far sì che si sentano
al sicuro con qualsiasi capo vogliano tenere addosso. È molto importante
costruire questi con ni all’inizio.”
“Così, con il primo tocco, cerco di trasmettere un contatto fermo e
sicuro. Niente di forzato o di acuto. Niente di troppo veloce. Il tocco è
lento, facile da seguire per il paziente, dolcemente ritmico. Può essere
forte come una stretta di mano. Il primo posto che tocco è la mano e
l’avambraccio, perché è il posto più sicuro dove toccare qualcuno, il posto
in cui le persone possono, a loro volta, toccarci.”
“Bisogna identi care il loro punto di resistenza, il posto in cui si
concentra la tensione maggiore, e trattarlo con la stessa intensità
energetica. Ciò permette di rilasciare la tensione congelata. Non si può
esitare. L’esitazione trasmette la mancanza di ducia in noi stessi. Il
movimento lento, accuratamente sintonizzato sul paziente, è diverso
dall’esitazione. Bisogna trattarli con una straordinaria con denza ed
empatia, lasciare che la pressione del nostro tocco incontri la tensione che
le persone stanno trattenendo nel loro corpo”.
Alla domanda: “Che effetto fa alle persone il lavoro sul corpo?”, Licia ha
risposto così: “Proprio ciò che l’acqua fa con la sete; si può avere sete di
un tocco. Ed è molto confortante essere toccati in modo con denziale,
profondo, fermo, dolce e sensibile. Un tocco e un movimento consapevoli
radicano le persone e permettono loro di scoprire tensioni che possono
aver conservato per un tempo così lungo da non esserne più consapevoli.
Quando si è toccati, si risveglia quella parte del corpo che viene toccata”.
“Il corpo si rimpicciolisce sicamente quando ci sono delle emozioni
compresse. Le spalle si stringono, i muscoli facciali si fanno rigidi. Si
spendono un mucchio di energie a trattenere le lacrime, o qualsiasi suono
o movimento che potrebbe tradire lo stato interiore. Quando la tensione
sica viene rilasciata, le emozioni possono essere espresse. Il movimento fa
sì che il respiro diventi più profondo, e, appena la tensione si attenua,
possono essere liberati anche i suoni espressivi. Il corpo diventa più
sciolto e il respiro più libero di uire. Il tocco rende possibile vivere in un
corpo che può muoversi liberamente, in risposta all’essere mosso”.
“Persone terrorizzate hanno bisogno di acquisire la sensazione di dove il
loro corpo sia localizzato nello spazio e di dove siano i loro con ni. Il
tocco fermo e rassicurante permette loro di stabilire dove si collocano
quei con ni: ciò che è fuori di loro e dove i loro corpi niscono. Scoprono
di non doversi chiedere continuamente chi sono e dove sono. Realizzano
di avere un corpo forte e di non dover stare costantemente in guardia. Il
tocco consente loro di sapere di essere al sicuro”.
6. Agire
Il corpo risponde a esperienze estreme, rilasciando ormoni dello stress,
che sono, spesso, responsabili dello sviluppo di malattie e di altri disturbi.
Gli ormoni dello stress sono, comunque, deputati anche a fornirci la forza
e la perseveranza di rispondere a condizioni eccezionali. Le persone che
attivamente fanno qualcosa per affrontare un disastro, salvando le persone
amate o gli sconosciuti, trasportando le persone in ospedale, facendo
parte di una squadra medica, montando le tende o cucinando i pasti,
utilizzano gli ormoni dello stress nel modo adeguato e, quindi, hanno un
rischio minore di essere traumatizzati (ognuno di noi, tuttavia, ha il
proprio punto di rottura, e anche la persona più preparata può essere
sopraffatta dall’enormità delle s de da affrontare).
Impotenza e immobilizzazione impediscono alle persone di utilizzare gli
ormoni dello stress e di proteggersi. In questi casi succede, infatti, che il
rilascio continuo degli ormoni dello stress contrasti proprio quelle azioni
che gli ormoni stessi dovrebbero alimentare. Talvolta, gli schemi di
attivazione, nalizzati a promuovere azioni adattive, si rivoltano contro
l’organismo e innescano risposte inappropriate di attacco/fuga. Per
ritornare a un funzionamento idoneo, questa persistente risposta di
emergenza deve nire. Il corpo ha bisogno di essere riportato a uno stato-
base di sicurezza e rilassamento, da cui si può mobilitare per agire, in
risposta a un pericolo reale.
A tale proposito, i miei amici e maestri Pat Ogden e Peter Levine hanno
entrambi sviluppato delle potenti terapie basate sul corpo, la sensorimotor
psychotherapy31 e il somatic experiencing.32 In questi approcci terapeutici,
le sensazioni siche e la scoperta delle tracce del trauma passato sul corpo,
in termini di localizzazione e di forma, sono prioritarie rispetto alla storia
di ciò che è accaduto. Prima di lanciarsi nell’elaborazione completa del
trauma, i pazienti sono aiutati a sviluppare le loro risorse interne, per
poter accedere in modo sicuro alle sensazioni e alle emozioni dalle quali
sono stati sopraffatti al momento del trauma. Peter Levine chiama questo
processo tecnica del pendolo: oscillare lentamente avanti e indietro, per
accedere alle sensazioni interne e ai ricordi traumatici. In questo modo, i
pazienti sono aiutati a espandere gradualmente la nestra di tolleranza.
Avendo acquisito una suf ciente tolleranza e consapevolezza delle loro
esperienze siche basate sul trauma, i pazienti scoprono, con molta
probabilità, che i potenti impulsi sici – come colpire, spingere, correre –
sono emersi durante il trauma ma sono stati, contemporaneamente,
soppressi per sopravvivere. Questi impulsi si manifestano in sottili
movimenti corporei come contrarsi, girarsi o ritrarsi. Ampli care questi
movimenti e sperimentare modi per modi carli avvia il processo di
completamento delle “tendenze all’azione” rimaste incomplete e conduce,
in ne, alla risoluzione del trauma. Le terapie somatiche possono aiutare i
pazienti a riposizionarsi nel presente, veri cando che muoversi è sicuro.
Sentire il piacere di compiere azioni ef caci ripristina il senso di potere e
la sensazione di riuscire a difendersi e a proteggersi attivamente.
Nel lontano 1893, il primo grande studioso del trauma, Pierre Janet,
scrisse dell’“atto di trionfo”, e io osservo regolarmente quel trionfo
quando pratico la sensorimotor psychotherapy e il somatic experiencing: nel
momento in cui i pazienti cominciano a percepire sicamente ciò che
poteva essere stata un’azione di attacco o di fuga, si rilassano, sorridono e
manifestano la loro completezza.
Quando le persone sono costrette a sottomettersi a un potere
annichilente, come accade ai bambini abusati, alle donne intrappolate
nella violenza domestica, e a uomini e donne in condizioni di prigionia,
sopravvivono in uno stato di acquiescenza rassegnata. Il modo migliore di
superare schemi radicati di sottomissione è ripristinare una capacità sica
di coinvolgersi e di difendersi. Uno dei metodi orientati al corpo che
preferisco, nalizzati a preparare risposte ef caci di attacco/fuga, è
l’impact model mugging del nostro centro, in cui donne (ma sempre più
frequentemente anche uomini) sono istruite a combattere in una
situazione simulata di attacco.33 Questo programma nacque a Oakland,
California, nel 1971, dopo che una donna, cintura nera di quinto livello di
karate, venne stuprata. Chiedendosi come fosse potuto accadere a una
persona che, teoricamente, poteva essere in grado di uccidere qualcuno
con le sue stesse mani, i suoi amici conclusero che la paura l’avesse resa
inabile. Nei termini di questo libro, le sue funzioni esecutive, i suoi lobi
frontali, erano disconnessi e si trovava, quindi, in un stato di freezing.34 Il
programma di attacco insegna alle donne a ricondizionare la risposta di
freezing, attraverso molte ripetizioni del riposizionamento sull’“ora zero”
(un termine militare che indica il preciso momento dell’attacco) e a
trasformare la paura nell’energia positiva del combattimento.
Una delle mie pazienti, una studentessa universitaria con una storia di
terribile abuso infantile, seguì quel corso. Quando la vidi per la prima
volta, era collassata, depressa e completamente acquiescente. Tre mesi
dopo, durante la cerimonia di diploma, raccontò di aver combattuto con
successo contro un aggressore maschio gigantesco, che era nito steso per
terra (difeso dai suoi colpi soltanto da una tuta protettiva molto resistente)
e di aver tenuto, durante il fronteggiamento, le braccia alzate, secondo la
mossa di karate, scandendo chiaramente e in modo calmo: “No”.
Non troppo tempo dopo, tornando a casa dalla biblioteca dopo
mezzanotte, si imbatté in tre uomini che saltarono improvvisamente fuori
dai cespugli, urlando: “Puttana, dacci i tuoi soldi”. Mi riferì di aver
adottato quella stessa posizione di karate e di aver asserito: “Okay ragazzi,
aspettavo con ansia questo momento, chi mi vuole s dare per primo?”. I
tre scapparono. Se si sta chini e si è così spaventati da guardarsi
continuamente intorno, si diventa una facile preda di persone sadiche, ma
le probabilità di essere infastiditi diminuiscono se il messaggio che ci si
legge in faccia è: “Non farmi arrabbiare”.
Terapia cognitivo-comportamentale
Nel corso della propria formazione, buona parte degli psicologi ha potuto
seguire dei corsi di terapia cognitivo-comportamentale. La CBT fu
dapprima sviluppata per trattare fobie, quali la paura dei ragni, degli
aeroplani, dell’altezza, per aiutare i pazienti a confrontare le loro paure
irrazionali con una realtà inoffensiva. A partire da ciò che li spaventa di
più, i pazienti vengono pian piano desensibilizzati rispetto alle loro paure
irrazionali, utilizzando le loro storie e le loro immagini (“esposizione
immaginativa”), o mettendoli di fronte a situazioni (nella fattispecie,
sicure) scatenanti l’ansia (“esposizione in vivo”), o, in ne, a realtà virtuali,
scene simulate al computer, come, per esempio, in casi di PTSD correlati
a eventi di guerra, a combattimenti per le strade di Fallujah.
L’idea di base della Terapia cognitivo-comportamentale è che i pazienti,
ripetutamente esposti a degli stimoli ansiogeni, in assenza di accadimenti
terri ci reali, inizieranno a sentirsi gradualmente meno agitati; i brutti
ricordi si assoceranno all’informazione “correttiva” di essere al sicuro.36
La CBT, inoltre, cerca di aiutare i pazienti a superare le tendenze evitanti,
rintracciabili in dichiarazioni come: “Di questo non voglio parlare”.37
Sembra semplice, ma, come abbiamo visto, ripercorrere il trauma riattiva
il sistema di allarme del cervello e azzera proprio quelle aree cerebrali che
sono necessarie per integrare il passato, facendo sì che il paziente riviva
continuamente il trauma, invece di risolverlo.
L’esposizione prolungata o “allagamento” è stata studiata molto più
approfonditamente di qualsiasi altro trattamento sul trauma. Ai pazienti
viene chiesto “di portare alla loro attenzione il materiale traumatico e… di
non distrarsi con altri pensieri o attività”.38 La ricerca dimostrò che sono
necessari più di 100 minuti di “allagamento” (in cui stimoli provocanti
l’ansia sono presentati in forma intensa e sostenuta), prima di poter
registrare un decremento dell’ansia.39 L’esposizione, talvolta, aiuta ad
affrontare paura e ansia, ma non è stato provato che risolva questioni
legate alla colpa o ad altre emozioni complesse.40
Contrariamente alla sua ef cacia sulle paure irrazionali, come quella dei
ragni, la CBT non si è dimostrata ugualmente ef cace per gli individui
traumatizzati, in particolare non lo è stata per coloro che hanno una storia
di abuso. Solamente un partecipante su tre con PTSD, che riesce a
completare il percorso di ricerca, mostra qualche segnale di
miglioramento.41 Alla ne di un trattamento di CBT, i pazienti, di solito,
mostrano meno sintomi PTSD, ma di rado guariscono completamente. La
maggior parte continua ad avere sostanziali problemi di salute, di lavoro e
di benessere mentale.42
Nel più vasto studio presentato su CBT e PTSD, più di un terzo dei
pazienti interrompeva il trattamento; il resto mostrava un numero
altamente signi cativo di effetti indesiderati. La maggior parte delle
donne dello studio soffriva ancora di PTSD conclamato dopo tre mesi, e
soltanto il 15% non aveva più i sintomi maggiori del PTSD.43 Una
meticolosa analisi dei lavori scienti ci sulla CBT dimostra bene la sua
ef cacia, ntanto che si rimane all’interno di una relazione terapeutica
supportiva.44 I risultati più scarsi con i trattamenti espositivi si ottengono
per quei pazienti che presentano un cosiddetto “mental defeat”,45 quelli,
cioè, che si sono arresi.46
Essere traumatizzati non signi ca solo essere bloccati nel passato; si
tratta, più che altro, di non essere pienamente vivi nel presente. Una tipica
forma di trattamento espositivo è rappresentata dalla terapia della realtà
virtuale, nella quale i veterani indossano occhialoni high-tech, che
rendono possibile la simulazione della battaglia di Fallujah in modo
particolarmente realistico. Da quello che so, i marines statunitensi
eseguivano molto bene il combattimento. Il problema stava nel non
sopportare di tornare a casa. Studi recenti condotti su veterani australiani
mostrano che il loro cervello viene ricablato per stare in allerta per le
emergenze, a scapito della capacità di riuscire a essere concentrati sui
piccoli dettagli della vita quotidiana47 (maggiori dettagli verranno forniti
nel capitolo 19, dedicato al neurofeedback). Più che della terapia della
realtà virtuale, i pazienti traumatizzati necessitano di una terapia del
“mondo reale”, che li aiuti a sentirsi vivi quando vanno al supermercato
più vicino o quando giocano con i loro bambini, così come si sentivano
per le strade di Baghdad.
I pazienti possono bene ciare di una terapia espositiva soltanto se non
ne vengono sopraffatti. Ne è un buon esempio uno studio sui veterani del
Vietnam, condotto agli inizi degli anni Novanta dal mio collega Roger
Pitman.48 In quel periodo, andavo al laboratorio di Roger tutte le
settimane, perché stavamo portando avanti una ricerca sull’impatto degli
oppioidi del cervello sul PTSD, come descritto nel capitolo 2. Roger mi
mostrava le videoregistrazioni delle sedute terapeutiche e poi discutevamo
su quanto osservato. Insieme alla sua équipe, spingeva i veterani a parlare,
ripetutamente e in modo dettagliato, delle loro esperienze in Vietnam:
molti intervistatori erano costretti a fermarsi perché i veterani erano
troppo angosciati per l’attivarsi dei ashback e, cosa più importante, la
paura persisteva, spesso, dopo le sedute. Alcuni di essi non si
presentarono più, mentre molti altri – che decisero di continuare –
svilupparono sintomi depressivi, paura e rabbia. Alcuni, inoltre,
affrontarono i sintomi, aumentando l’uso di alcol, con un incremento tale
di aggressività e umiliazione, da indurre i familiari a optare per un
ricovero coatto.
Desensibilizzazione
Negli ultimi vent’anni, quasi tutti gli studenti di psicologia hanno
imparato una qualche forma di terapia di desensibilizzazione, volta ad
aiutare i pazienti a essere meno reattivi a certe sensazioni ed emozioni. Ma
è questo l’obiettivo giusto? È possibile che la questione non sia la
desensibilizzazione, ma l’integrazione: rimettere l’evento traumatico al
proprio posto, all’interno dell’intero arco di vita di una persona.
Il concetto di desensibilizzazione mi riporta a pensare al bambino di
circa cinque anni che ho avuto modo di osservare recentemente di fronte
a casa. Suo padre, un uomo gigantesco, lo stava sgridando con un tono di
voce altissimo, mentre il bambino andava in triciclo lungo la mia strada. Il
bambino era visibilmente turbato e il mio cuore batteva all’impazzata,
poiché sentivo, forte, l’impulso di stendere il tizio. A quanta brutalità quel
bambino deve essere stato esposto per apparire così insensibile alla
violenza del padre? La sua indifferenza alle grida paterne deve essere stata
il risultato di una prolungata esposizione, ma, mi chiedevo, a che prezzo?
Sì, possiamo assumere farmaci che smussano le nostre emozioni o
possiamo imparare a desensibilizzarci. In quanto studenti di medicina,
impariamo ad avere un atteggiamento molto distaccato quando dobbiamo
intervenire su un bambino con ustioni di terzo grado. Ma, come ha
mostrato il neuroscienziato Jean Decety dell’Università di Chicago, la
nostra desensibilizzazione al dolore delle altre persone tende a condurci
verso un af evolimento complessivo della sensibilità emotiva.49
Un resoconto fatto su 49.425 veterani di ritorno dalle guerre in Iraq e in
Afghanistan, da poco diagnosticati come PTSD, che avevano chiesto una
terapia alla VA, dimostrò che poco più di uno su dieci riusciva
effettivamente a completare il trattamento consigliato.50 Così come per i
veterani del Vietnam di Pitman, la terapia espositiva, nel modo in cui
viene usualmente praticata, funziona raramente con questo tipo di
pazienti. Possiamo “elaborare” esperienze tremende soltanto se non ci
travolgono. E questo signi ca che sono necessari altri approcci.
E i farmaci?
Le persone hanno sempre fatto uso di droghe per affrontare lo stress
traumatico. Ogni cultura e ogni generazione ha le sue preferenze: gin,
vodka, birra o whisky, hashish, marijuana, cannabis o ganja, cocaina,
oppiodi come l’Oxycontin, tranquillanti come il Valium, lo Xanax e il
Klonopin. Quando le persone sono disperate, cercano di fare qualsiasi
cosa per conquistare uno stato di calma e di controllo.54
La psichiatria dominante segue questa tradizione. Negli ultimi dieci
anni, i Departments of Defense and Veterans Affairs hanno dichiarato di
aver speso 4,5 miliardi di dollari in antidepressivi, antipsicotici e
ansiolitici. Nel giugno del 2010, un rapporto interno del Defense
Department Pharmacoeconomic Center del Fort Sam Houston a San
Antonio riportava che 213.972 soldati, cioè il 20% di 1,1 milioni di
militari in servizio attivo esaminati, stavano assumendo una qualche forma
di sostanza psicotropa: antidepressivi, antipsicotici, ipnotici sedativi o
altre sostanze controllate.55
Le droghe, tuttavia, non “curano” il trauma, possono soltanto alleggerire
la manifestazione della siologia disturbata. E non insegnano una lezione
di autoregolazione persistente nel tempo. Possono facilitare il controllo di
sentimenti e comportamenti, ma c’è sempre un qualche prezzo da pagare,
poiché funzionano bloccando i sistemi chimici che regolano il
coinvolgimento, la motivazione, il dolore e il piacere. Alcuni dei miei
colleghi continuano a essere ottimisti: partecipo costantemente a
congressi, dove stimati scienziati discutono sulla ricerca dell’elusiva
bacchetta magica, che miracolosamente resetterà i circuiti della paura nel
cervello (come se lo stress traumatico coinvolgesse soltanto un unico e
semplice circuito cerebrale). Per quanto mi riguarda, mi trovo, a mia
volta, a prescrivere regolarmente dei farmaci.
Pressoché tutti i gruppi di agenti psicotropi sono stati utilizzati per
trattare qualche aspetto del PTSD.56 Gli inibitori della ricaptazione della
serotonina (SSRIs), come il Prozac, lo Zoloft e il Paxil, sono stati studiati
più approfonditamente e possono rendere i vissuti meno intensi e la vita
più gestibile. Pazienti sotto SSRIs si sentono, spesso, più calmi e in
controllo; sentirsi meno sopraffatti facilita, solitamente, il percorso
psicoterapico. Altri pazienti sotto SSRIs si sentono senza slancio, come se
stessero “perdendo smalto”. Affronto tale argomento sotto forma di
questione empirica: osserviamo ciò che funziona e, in ultima analisi,
soltanto il paziente può essere un giudice af dabile. D’altra parte, se un
farmaco SSRI non funziona, bisognerebbe provarne un altro, poiché
ciascuno di essi ha un effetto sottilmente diverso. È piuttosto interessante
che i farmaci SSRIs siano largamente utilizzati per curare la depressione,
malgrado una ricerca che metteva a confronto il Prozac con l’EMDR (Eye
Moviment Desensitization and Reprocessing) in pazienti con PTSD –
alcuni dei quali anche depressi –
abbia palesemente dimostrato una maggiore ef cacia dell’EMDR, in
termini di effetti antidepressivi del Prozac.57 Ritornerò su questo
argomento nel capitolo 15.58
I farmaci che bersagliano il sistema nervoso autonomo, come il
propranololo o la clonidina, diminuiscono l’iperarousal e la reattività allo
stress.59 Questa famiglia di farmaci funziona bloccando gli effetti sici
dell’adrenalina, il carburante dell’arousal, e, quindi, riduce gli incubi,
l’insonnia e la reattività ai trigger del trauma.60 Bloccare l’adrenalina
favorisce l’attività del cervello razionale e rende possibile effettuare delle
scelte: “È veramente ciò che voglio fare?”. Da quando ho cominciato a
integrare mindfulness e yoga nella mia pratica clinica, ricorro meno spesso
a queste medicine, tranne che per aiutare occasionalmente i pazienti ad
avere un sonno più ristoratore.
I pazienti traumatizzati tendono a preferire i farmaci tranquillanti, delle
benzodiazepine come il Klonopin, il Valium, lo Xanax e l’Ativan. In un
certo senso, questi farmaci funzionano come l’alcol, nella misura in cui
rendono più calmi e diminuiscono le preoccupazioni (i proprietari dei
casinò amano i consumatori di benzodiazepine: non si agitano quando
perdono e continuano a scommettere). Tuttavia, proprio come l’alcol, le
“benzo” diminuiscono l’inibizione a inveire contro le persone care. La
maggior parte dei medici di base è riluttante a prescrivere questi farmaci,
perché hanno un elevato potenziale di dipendenza e possono anche
interferire con l’elaborazione del trauma. Pazienti che ne sospendono
l’assunzione, dopo un periodo prolungato, reagiscono con ritiro e
agitazione, con un aumento dei sintomi post-traumatici.
Qualche volta, prescrivo ai miei pazienti bassi dosaggi di benzodiazepine
da usare al bisogno, non su base giornaliera. Devono scegliere quando
usare la loro preziosa riserva e chiedo loro di tenere un diario di ciò che
succede, quando decidono di prendere la pastiglia. Questo dà loro modo
di parlare degli speci ci eventi attivanti.
Pochi studi hanno mostrato come anticonvulsivanti e stabilizzatori
dell’umore, come il litio o il valporato, possano avere un qualche effetto
positivo, riducendo l’iperarousal e il panico.61 I farmaci più controversi
sono gli antipsicotici cosiddetti di seconda generazione, come il Risperdal
e il Seroquel, gli psicofarmaci di gran lunga più venduti negli Stati Uniti
(14,6 miliardi di dollari nel 2008). Basse dosi di questi farmaci servono a
calmare i veterani di guerra e le donne con un PTSD correlato a un abuso
infantile.62 L’uso di questi farmaci può essere, talvolta, giusti cato con
pazienti che si sentono, per esempio, completamente fuori controllo o con
gravi disturbi del sonno, o, in ne, laddove altri metodi abbiano fallito.63
Ma è importante tenere a mente che questi farmaci agiscono bloccando il
sistema della dopamina, che costituisce il motore del piacere e della
motivazione.
Farmaci antipsicotici come il Risperdal, l’Abilify o il Seroquel, possono
indebolire, in misura importante, il cervello emotivo, rendendo i pazienti
meno incostanti o arrabbiati, ma anche pesantemente insensibili ai vissuti
di piacere e di soddisfazione, nonché ai segnali di pericolo. Provocano,
spesso, aumento di peso, accrescono le probabilità di sviluppare il diabete
e rendono i pazienti sicamente inerti, con un correlato senso di
alienazione. Questi farmaci sono largamente usati per trattare bambini
abusati, diagnosticati erroneamente come affetti da Disturbo bipolare o
della regolazione dell’umore. Più di mezzo milione di bambini e
adolescenti in America è, attualmente, sotto farmaci antipsicotici, che
hanno sì un effetto calmante, ma interferiscono fortemente con
l’apprendimento di abilità appropriate per l’età, contrastando lo sviluppo
della socializzazione con i pari.64 Uno studio recente della Columbia
University ha scoperto che le prescrizioni di farmaci antipsicotici per
bambini dai due ai cinque anni, le cui famiglie fruiscono di assicurazioni
private, sono raddoppiate tra il 2000 e il 2007.65 Soltanto il 40% di questi
bambini ha ricevuto una valutazione psichiatrica adeguata.
Prima di perdere il brevetto, la compagnia farmaceutica
Johnson&Johnson aveva distribuito i blocchi LEGO, con la parola
Risperdal stampata sopra, nelle sale d’attesa degli ambulatori psichiatrici.
I bambini provenienti da famiglie a basso reddito hanno una probabilità
quattro volte maggiore di essere curati con farmaci antipsicotici, rispetto a
quelli che possono contare su un’assicurazione privata. In un solo anno, il
Texas Medicaid ha speso 96 milioni di dollari in farmaci antipsicotici per
bambini e adolescenti, inclusi tre neonati non identi cati, ai quali erano
stati somministrati farmaci prima del compimento del primo anno d’età.66
Non si dispone di studi sugli effetti dei farmaci psicotropi sul cervello in
via di sviluppo. Generalmente, dissociazione, autolesionismo, ricordi
frammentati e amnesia non rispondono ad alcuno di questi farmaci.
Lo studio sul Prozac, che ho presentato nel capitolo 2, è stato il primo a
dimostrare che i civili traumatizzati tendono a rispondere molto meglio
alle medicine rispetto ai veterani di guerra.67 Da allora, altri studi hanno
trovato simili discrepanze. A fronte di ciò, sembra alquanto preoccupante
che il Department of Defense e la VA prescrivano enormi quantità di
medicine ai soldati e ai veterani che ritornano dalla guerra, spesso senza
neanche af ancare ai farmaci qualche altra forma di terapia. Tra il 2001 e
il 2011 la VA ha speso circa 1,5 miliardi di dollari in Seroquel e Risperdal,
e il Ministero della Difesa ne speso circa 90 milioni nello stesso periodo,
anche se una rivista scienti ca ha pubblicato, nel 2002, che il Risperdal
non è più ef cace di un placebo nel trattamento del PTSD.68
Analogamente, tra il 2001 e il 2012, la VA ha speso 72,1 milioni di dollari
e il Ministero della Difesa 44,1 in benzodiazepine,69 farmaci che i clinici
generalmente evitano di prescrivere ai civili con PTSD, per la potenziale
dipendenza e la mancanza di ef cacia signi cativa sui sintomi di PTSD.
La strada della guarigione è la strada della vita
Nel primo capitolo di questo libro, vi ho presentato un paziente di nome
Bill, che ho incontrato circa trent’anni fa alla VA. Bill è diventato uno dei
miei più “vecchi” pazienti/maestri, e la nostra relazione è anche la storia
della mia evoluzione nel trattamento del trauma.
Bill aveva prestato servizio militare sanitario in Vietnam dal 1967 al 1971
e, al suo ritorno, cercò di applicare le abilità che aveva appreso
nell’esercito, lavorando in unità per ustionati dell’ospedale locale. Il
lavoro infermieristico lo rendeva stanco, impulsivo, nervoso, ma non era
consapevole del fatto che questi problemi potessero avere qualcosa a che
fare con l’esperienza in Vietnam. Dopotutto, la diagnosi di PTSD non
esisteva ancora, e i ragazzi della classe operaia irlandese di Boston non
consultavano strizzacervelli. Gli incubi e l’insonnia si alleviarono
leggermente, dopo la decisione di lasciare il lavoro di infermiere e di
entrare in seminario. Non aveva chiesto alcun aiuto, almeno no alla
nascita del suo primogenito nel 1978.
Il pianto del suo bambino attivava terribili ashback, in cui vedeva,
udiva e sentiva l’odore dei bambini mutilati e ustionati in Vietnam. Era
talmente fuori controllo che alcuni miei colleghi alla VA avrebbero voluto
ricoverarlo e trattarlo per quella che pensavano fosse una psicosi. Tuttavia,
dopo un po’ di lavoro insieme, cominciò a sentirsi al sicuro con me e a
raccontare, poco per volta, ciò di cui era stato testimone in Vietnam,
iniziando a tollerare, molto lentamente, i suoi vissuti senza esserne
sopraffatto. Questo lo aiutò a riconcentrarsi e a prendersi cura della sua
famiglia e a nire la sua formazione come ministro della Chiesa. Due anni
dopo, diventò pastore della sua parrocchia e credeva che il nostro lavoro
fosse concluso.
Non ebbi più contatti con Bill no a una sua chiamata telefonica, che
arrivò esattamente a distanza di diciotto anni dal nostro primo incontro.
Mi disse di accusare esattamente gli stessi sintomi di prima: ashback,
incubi terribili, sensazione di stare diventando matto. Suo glio aveva
diciotto anni e Bill lo aveva accompagnato ad arruolarsi, nella stessa
caserma da cui era stato mandato in Vietnam. Avevo, a quel punto, una
maggiore esperienza nel trattamento dello stress traumatico, e Bill e io
affrontammo i ricordi speci ci di ciò che aveva visto e sentito e degli odori
che aveva avvertito in Vietnam, dettagli troppo spaventosi da ricordare
durante la nostra prima tranche di trattamento. Riusciva ora a integrare
quei ricordi con l’EMDR, così da farli diventare storie accadute tempo
prima, invece che stimoli che lo trasportavano istantaneamente
nell’inferno del Vietnam. Sentendosi più centrato, volle occuparsi della
sua infanzia: nello speci co, della sua educazione violenta e del senso di
colpa per aver lasciato, con la sua partenza per il Vietnam, il suo fratellino
più piccolo, schizofrenico, in balia dell’ira funesta e imprevedibile del
padre.
Un altro tema importante del lungo periodo trascorso insieme fu il
dolore quotidiano con cui Bill si confrontava in qualità di pastore: doveva
seppellire adolescenti, che aveva battezzato pochi anni prima, uccisi in un
incidente di macchina, e doveva sentire coppie, che aveva sposato da
poco, tornare da lui in crisi, a causa di violenze domestiche. Bill organizzò
un gruppo d’aiuto composto da altri preti che dovevano confrontarsi con
traumi simili e diventò un riferimento importante per la sua comunità.
Il terzo trattamento di Bill iniziò cinque anni dopo, quando, a 53 anni,
fu colpito da una grave malattia neurologica. Aveva improvvisamente
iniziato a percepire paralisi transitorie in diverse parti del corpo e aveva
iniziato ad accettare l’idea di dover trascorrere il resto della vita su una
sedia a rotelle. Pensavo che i suoi problemi potessero essere ascrivibili a
una sclerosi multipla, ma i neurologi non riuscivano a trovare speci che
lesioni, proclamando una sostanziale mancanza di cure per una
condizione simile. Mi disse di quanto fosse grato per l’aiuto della moglie,
che aveva già fatto in modo di costruire una rampa per la sedia a rotelle,
all’ingresso della cucina della loro casa.
Data la sua prognosi incerta, mi premeva far affrontare a Bill, al più
presto possibile, le sensazioni disturbanti del suo corpo, “facendosele
amiche”, così come, tempo prima, aveva imparato a tollerare e a convivere
con i ricordi più dolorosi della guerra. Suggerii che consultasse un esperto
in terapia corporea, che mi aveva fatto conoscere il Feldenkrais, un
approccio dolce e manuale, volto a riadattare le sensazioni siche e i
movimenti muscolari. Quando ritornò per raccontarmi ciò che stava
facendo, espresse un grande piacere per il suo aumentato senso di
controllo. Gli dissi che, da poco, avevo iniziato a praticare yoga al Trauma
Center e lo invitai a prendere in considerazione anche questa ulteriore
possibilità.
Trovò, vicino a casa, un corso di yoga Bikram, una pratica intensa e
forte, di solito riservata a persone giovani e piene di energia. Bill se ne
innamorò, anche se alcune parti del suo corpo, di tanto in tanto, cedevano
durante le lezioni. A dispetto della sua disabilità sica, stava guadagnando
un senso di piacere corporeo e di padronanza che non aveva mai provato
prima.
Il trattamento psicologico aveva aiutato Bill a collocare le tremende
esperienze del Vietnam nel passato. Ora, familiarizzare con il corpo gli
impediva di organizzare la sua vita intorno alla perdita del controllo sico.
Decise di diventare un istruttore di yoga certi cato e cominciò a insegnare
yoga ai veterani che ritornavano dall’Iraq e dall’Afghanistan, nella caserma
locale.
Oggi, dieci anni dopo, Bill continua a essere pienamente coinvolto nella
sua vita, con i suoi gli e i nipoti, nel suo lavoro con i veterani e nella sua
parrocchia. Gestisce le limitazioni siche come se si trattasse di un
inconveniente. A oggi, ha insegnato yoga a più di 1300 veterani di guerra.
Soffre ancora regolarmente di improvvisa debolezza alle membra e, a quel
punto, deve sedersi o stendersi. Ma, come per i ricordi dell’infanzia e del
Vietnam, tali episodi non dominano la sua esistenza. Sono semplicemente
parte della sua storia di vita attuale e in evoluzione.
1. Strofa di una canzone della cantautrice statunitense, Dar Williams. Originaria dello Stato di New
York, si è trasferita a Boston per lavorare nel mondo del teatro, intraprendendo poi la carriera
musicale. [NdC]
2. “Self-leadership” (guida di Sé) è il termine usato da Dick Schwartz nel suo modello terapeutico,
quello dei Sistemi familiari interni, che sarà l’argomento principale del capitolo 17.
3. Le eccezioni sono rappresentate dal lavoro di Pesso e Schwartz, trattato nel dettaglio nei capitoli
17 e 18, che uso correntemente nella mia pratica clinica e di cui ho personalmente bene ciato, ma
che, almeno nora, non ho avuto modo di sottoporre a studi scienti ci.
4. A.F. Arnstein (1998), “Enhanced: The biology of being frazzled”, in Science, 280, (5370), pp.
1711-1712; A.F. Arnstein (2009), “Stress signalling pathways that impair prefrontal cortex
structure and function”, in Nature Reviews Neuroscience, 10, (6), pp. 410-422.
5. D.J. Siegel (2010), Il terapeuta consapevole. Guida per il terapeuta al mindsight e all’integrazione
neurale, tr. it. Istituto di Scienze Cognitive, Sassari 2013.
6. J.E. LeDoux (2000), “Emotion circuits in the brain”, in Annual Review of Neuroscience, 23(1),
pp. 155-184. Vedi anche M.A. Morgan, L.M. Romanski, J.E. LeDoux (1993), “Extinction of
emotional learning: Contribution of medial prefrontal-cortex”, in Neuroscience Letters, 163(1), pp.
109-113; J.M. Moscarello, J.E. LeDoux (2013), “Active avoidance learning requires prefrontal
suppression of amygdala-mediated defensive reactions”, in Journal of Neuroscience, 33(9), pp.
3815-3823.
7. S.W. Porges (2010), “Stress and parasympathetic control”, in Stress Science: Neuroendocrinology,
p. 306. Vedi anche S.W. Porges (2009), “Reciproche in uenze tra corpo e cervello nella percezione
ed espressione degli affetti: una prospettiva polivagale”, in D. Fosha, D. Siegel, M. Solomon (a
cura di), Attraversare le emozioni, vol. 2, Mimesis, Milano 2011.
8. B.A. van der Kolk, L. Stone, J. West, A. Rhodes, D. Emerson, M. Suvak, J. Spinazzola (2014),
“Yoga as an adjunctive treatment for PTSD”, in Journal of Clinical Psychiatry, 75(6), pp. 559-565.
9. S.F. Fisher (2014), Neurofeedback in the Treatment of Developmental Trauma: Calming the Fear-
Driven Brain, Norton & Company, New York.
10. R.P. Brown, P.L. Gerbarg (2005), “Sudarshan Kriya yogic breathing in the treatment of stress,
anxiety, and depression - Part II: Clinical applications and guidelines”, in Journal of Alternative &
Complementary Medicine, 11(4), pp. 711-717. Si veda anche C.L. Mandle, S. Jacobs, P. Martin, A.
Domar (1996), “The ef cacy of relaxation response interventions with adult patients: A review of
the literature”, in Journal of Cardiovascular Nursing, 10, pp. 4-26; M. Nakao, G. Fricchione, P.
Myers, P. Zuttermeister, M. Baim, C.M. Mandle, M. Medich, C.L. Wells-Federman, P. Martin, M.
Ennis, A. Barsky, H. Benson (2001), “Anxiety is a good indicator for somatic symptom reduction
through behavioral medicine intervention in a mind/body medicine clinic”, in Psychotherapy and
Psychosomatics, 70, pp. 50-57.
11. C. Hannaford (1995), Smart Moves: Why Learning Is Not All in Your Head, Great Ocean
Publishers, Arlington, VA, pp. 2207-3746.
12. J. Kabat-Zinn(1996), Vivere momento per momento. Scon ggere lo stress e il dolore, l’ansia e la
malattia, con la saggezza del corpo e della mente, tr. it. TEA, Milano 2010. Vedi, inoltre, D. Fosha,
D. Siegel, D. Solomon (2009) (a cura di), Attraversare le emozioni. Neuroscienze e psicologia dello
sviluppo, tr. it. Mimesis, Milano 2011; B.A. van der Kolk (2002), “Post-traumatic therapy in the age
of neuroscience”, in Psychoanalytic Dialogues, 12(3), pp. 381-392.
13. Come abbiamo visto nel capitolo 5, le scansioni cerebrali delle persone che soffrono di PTSD
mostrano un’attivazione alterata nelle aree associate alla rete di connettività funzionale, solitamente
implicata nella memoria autobiogra ca e nella continuità del senso di Sé.
14. P.A. Levine (2010), In an Unspoken Voice: How the Body Releases Trauma and Restores
Goodness, North Atlantic, Berkeley, CA.
15. P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2009), Il trauma e il corpo. Manuale di terapia sensomotoria, tr. it.
Istituto di Scienze Cognitive, Sassari 2012. Vedi anche A.Y. Shalev (2000), “Measuring outcome in
Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Clinical Psychiatry, 61(5), pp. 33-42.
16. J. Kabat-Zinn (1996) Vivere momento per momento. scon ggere lo stress e il dolore, l’ansia e la
malattia, con la saggezza del corpo e della mente, tr. it. TEA, Milano 2010.
17. S.G. Hofmann, A.T. Sawyer, A.A. Witt, D. Oh (2010),“The effect of mindfulness-based
therapy on anxiety and depression: A meta-analytic review”, in Journal of Consulting and Clinical
Psychology, 78(2), pp. 169-183; J.D. Teasdale, Z.W. Segal, J.M. Williams, V.A. Ridgeway, J.M.
Soulsby, M.A. Lau (2000), “Prevention of relapse/recurrence in Major Depression by mindfulness-
based cognitive therapy”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68, pp. 615-623. Vedi,
inoltre, B.K. Hozel, S.W. Lazar, T. Gard, Z. Shuman-Olivier, D.V. Vago, U. Ott (2011), “How does
mindfulness meditation work? Proposing mechanisms of action from a conceptual and neural
perspective”, in Perspectives on Psychological Science, 6(6), pp. 537-559; P. Grossman, L. Niemann,
S. Schmidt, H. Walach (2004), “Mindfulness-based stress reduction and health bene ts: A meta-
analysis”, in Journal of Psychosomatic Research, 57(1), pp. 35-43.
18. I circuiti cerebrali implicati nella meditazione mindfulness sono stati ampiamente identi cati:
aumentano la regolazione attentiva e allentano l’interferenza emotiva sui compiti che richiedono
attenzione. Vedi, inoltre, L.E. Carlson, M. Speca, P. Faris, K.D. Patel (2007), “One year pre-post
intervention follow-up of psychological, immune, endocrine and blood pressure outcomes of
Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) in breast and prostate cancer outpatients”, in Brain,
Behavior, and Immunity, 21(8) pp. 1038-1049; e R.J. Davidson, J. Kabat-Zinn, J. Schmacher, M.
Rosenkranz, D. Muller, S.F. Santorelli, F. Urbanowsky, A. Harrington, K. Bonus, J.F. Sheridan
(2003), “Alterations in brain and immune function produced by mindfulness meditation”, in
Psychosomatic Medicine, 65(4), pp. 564-570.
19. Britta Hölzel e i suoi colleghi hanno condotto un’ampia ricerca su meditazione e funzioni
cerebrali. La meditazione coinvolge il PFC dorsomediale, il PFC ventrolaterale e il cingolato
rostrale anteriore (AAC). Vedi B. Holzel, J. Carmody, K. Evans, E. Hoge, J. Dusek, L. Morgan, R.
Pitman, S. Lazar (2010), “Stress reduction correlates with structural changes in the amygdala”, in
Social Cognitive and Affective Neuroscience, 5, pp. 11-17; B. Holzel, J. Carmody, M. Vangel, C.
Congleton, S. Yersamsetti, T. Gard, S. Lazar (2011), “Mindfulness practice leads to increases in
regional brain gray matter density”, in Psychiatry Research, 191(1), pp. 36-43; B. Hölzel, U. Ott, T.
Gard, H. Hempel, M. Weygandt, K. Morgen, D. Vaitl (2008), “Investigation of mindfulness
meditation practitioners with voxel-based morphometry”, in Social Cognitive and Affective
Neuroscience, 3(1), pp. 55-61; B. Hölzel, U. Ott, H. Hempel, A. Hackl, K. Wolf, R. Stark, D. Vaitl
(2007), “Differential engagement of anterior cingulate and adjacent medial frontal cortex in adept
meditators and non-meditators”, in Neuroscience Letters, 421 (1), pp.16-21.
20. La principale struttura cerebrale implicata nella consapevolezza corporea, è l’insula anteriore.
Vedi D. Craig (2003), “Interoception: The sense of the physiological condition of the body”, in
Current Opinion on Neurobiology, 13, pp. 500-505; H.D. Critchley, W.S. Wiens, P. Rotshtein, A.
Ohman, R.J. Dolan (2004), “Neural systems supporting interoceptive awereness”, in Natural
Neuroscience, 7(2), pp. 185-195; N.A.S. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg, J. Bean, D. McKeon, J.
Fatima (2007), “Attending to the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of
self-reference”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 2, pp. 313-322; J.A. Grant, J.
Courtemanche, E.G. Duerden, G.H. Duncan, P. Rainville (2010), “Cortical thickness and pain
sensitivity in zen meditators”, in Emotion, 10 (1), pp. 43-53.
21. S. Bamks (2007), “Amygdala-frontal connectivity during emotion-regulation”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2 (4), pp. 303-312. Vedi anche M.R. Milad, K.T. Eddy, M.
Angastadt, P.J. Nathan, K.L. Phan (2005), “Thickness of ventromedial prefrontal cortex in humans
is correlated with extinction memory”, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the
United States of America, 102(30), pp. 10706-10711; S.L. Rausch, L.M. Hin, E.A. Phelps (2006),
“Neurocircuitry models of Post-traumatic Stress Disorder and extinction: Human neuroimaging
research – past, present, and future”, in Biological Psychiatry, 60 (4), pp. 376-382.
22. A. Freud, D.T. Burlingham (1943), War and Children, New York University Press, New York.
23. Ci sono tre modi differenti in cui le persone affrontano le esperienze sopraffacenti:
dissociazione (essere in un’altra dimensione, spegnersi), depersonalizzazione (sentirsi come se le
cose non accadessero a noi), derealizzazione (sentire che le cose che accadono intorno a noi non
sono reali).
24. I miei colleghi del Justice Resource Institute hanno messo a punto un programma di
trattamento residenziale per gli adolescenti, il Van der Kolk a Glenhaven Academy, che attua molti
degli interventi sul trauma discussi in questo libro, come yoga, integrazione sensoriale,
neurofeedback e teatro. http://www.jri. org/vanderkolk/about. Il modello di trattamento intensivo,
attaccamento, autoregolazione e competenza (ARC) è stato sviluppato dalle mie colleghe Margaret
Blaustein e Kristine Kinniburgh. M. Blaustein, K.M. Kinniburgh (2012), Treating Traumatic Stress
in Children and Adolescents: How to Foster Resilience Through Attachment, Self-Regulation, and
Competency, Guilford Press, New York.
25. Scholastic Aptitude Test e Scholastic Assessment Test: test validi per l’ammissione al college.
[NdC]
26. C.K. Chandler (2011), Animal Assisted Therapy in Counseling, Routledge, New York. Vedi
anche A.J. Cleveland (1995), “Therapy dogs and the dissociative patient: Preliminary
observations”, in Dissociation, 8(4), pp. 247-252; A. Fine (2010), Handbook on Animal Assisted
Therapy: Theoretical Foundations and Guidelines for Practice Academic Press, San Diego.
27. E. Warner, J. Koomar, B. Lary, A. Cook (2013), “Can the body change the score? Application
of sensory modulation principles in the treatment of traumatized adolescents in residential
settings”, in Journal of Family Violence, 28(7), pp. 729-738. Si veda anche A.J. Ayres (1972),
Sensory Integration and Learning Disorders, Western Psychological Services, Los Angeles; H.
Hogdon, K. Kinniburg, D. Gabowitz, M. Blaustein, J. Spinazzola (2013), “Development and
implementation of trauma-informed programming in residential schools using the ARC
framework”, in Journal of Family Violence, 27(8), pp. 679-692; J. Lebel, T. Champagne, N.
Stromberg, R. Coyle (2010), “Integrating sensory and trauma-informed interventions: A
Massachusetts State initiative, part 1”, in Mental Health Special Interest Section Quarterly, 33(1),
pp. 1-4.
28. Sembravano aver attivato il sistema vestibolo-cerebellare, implicato nell’autoregolazione, che
può essere danneggiato da un precoce neglect.
29. A.R. Lyon, K.S. Budd (2010), “A community mental health implementation of Parent-Child
Interaction Therapy (PCIT)”, in Journal of Child and Family Studies, 19(5), pp. 654-668. Vedi
anche A.J. Urquiza, C. Bodiford McNeil (1996), “Parent-Child Interaction Therapy: An intensive
dyadic intervention for physically abusive families”, in Child Maltreatment, 1(2), pp. 134-144;
Borrego Jr., “Research publications”, in Child and Family Behavior Therapy, 20, pp. 27-54.
30. B.A. van der Kolk, D. Dreyfuss, M. Micheals, D. Shera, R. Berkowitz, R. Fisler, G. Saxe (1994),
“Fluoxetine in Post-Traumatic Stress”, in Journal of Clinical Psychiatry, 55(12), pp. 517-522.
31. P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2010), Il trauma e il corpo. Manuale di terapia sensomotoria, tr. it.
Istituto di Scienze Cognitive, Sassari 2012. P. Ogden, J. Fisher (2015), Sensorimotor Psychotherapy:
Interventions for Trauma and Attachment, Norton, New York.
32. P.A. Levine (2010), In an Unspoken Voice, North Atlantic, Berkeley, CA; P.A. Levine (2002),
Traumi e shock emotivi, tr. it. Macro Edizioni, Cesena 2011.
33. Per saperne di più, consultare il sito: http://modelmugging.org/.
34. Termine largamente utilizzato nel linguaggio psicotraumatologico, che indica lo stato di
congelamento. [NdC]
35. S. Freud (1914), “Ricordare, ripetere e rielaborare”, in Nuovi consigli sulla tecnica della
psicoanalisi, in Opere, vol. 7, tr. it. Boringhieri, Torino 1975, p. 357.
36. E. Santini, R.U. Muller, G.J. Quirk (2001), “Consolidation of extinction learning involves
transfer from NMDA-independent to NMDA-dependent memory”, in Journal of Neuroscience, 21,
pp. 9009-9017.
37. E.B. Foa, M.J. Kozak (1986), “Emotional processing of fear: Exposure to corrective
information”, in Psychological Bulletin, 99(1), pp. 20-35.
38. C.R. Brewin (2005), “Implications for psychological intervention”, in J.J. Vasterling, C.R.
Brewin (a cura di), Neuropsychology of PTSD: Biological, Cognitive, and Clinical Perspectives.
Guilford, New York, p. 272.
39. T.M. Keane (1995), “The role of exposure therapy in the psychological treatment of PTSD”, in
National Center for PTSD Clinical Quarterly, 5(4), pp. 1-6.
40. E.B. Foa, R.J. McNally (1996), “Mechanisms of change in exposure therapy”, in R. Rapee (a
cura di), Current Controversies in the Anxiety Disorders, Guilford Press, New York, pp. 329-343.
41. J.D. Ford, P. Kidd (1998), “Early childhood trauma and disorders of extreme stress as
predictors of treatment outcome with chronic PTSD”, in Journal of Traumatic Stress, 18, pp. 743-
761. Vedi anche A. McDonagh-Coyle, M.J. Friedman, G.J. McHugo, L.H. Ford, A. Sengupta, K.T.
Mueser, C.C. Demment, D. Fournier, P.P. Scnhnurr, M. Descamps (2005), “Randomized trial of
cognitive-behavioral therapy for chronic Post-traumatic Stress Disorder in adult female survivors
of childhood sexual abuse”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 73(3), pp. 515-524;
Institute of Medicine of the National Academies (2008), Treatment of Post-traumatic Stress
Disorder: An Assessment of the Evidence, National Academies Press, Washington; R. Bradley, J.
Greene, E. Russ, L. Dutra, D. Westen (2005), “A multidimensional meta-analysis of psychotherapy
for PTSD”, in American Journal of Psychiatry, 162(2), pp. 214-227.
42. J. Bisson, N. Ehlers, R. Matthews, S. Pilling, D. Richards, S. Turner (2007), “Psychological
treatments for Chronic Post-traumatic Stress Disorder: Systematic review and meta-analysis”, in
British Journal of Psychiatry, 190, pp. 97-104. Vedi, inoltre, L.H. Jaycox, E.B. Foa, A.R. Morrall
(1998), “In uence of emotional engagement and habituation on exposure therapy for PTSD”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 66, pp. 185-192.
43. “Dropout: esposizioni prolungate (n = 53 [38%]); terapia centrata sul presente (n = 30 [21%])
(P = 0,002). Il gruppo di controllo, inoltre, aveva un alto tasso di incidenti: due morti non per
suicidio, 9 ricoveri in psichiatria, 3 tentativi di suicidio. P.P. Scnhnurr, M.J. Friedman, C.C. Engel,
E.B. Foa, M.T. Shea, B.K. Chow, P.A. Resick, V. Thurston, S.M. Orsillo, R. Haug, C. Turner, N.
Bernardy (2007), “Cognitive behavioral therapy for Post-traumatic Stress Disorder in Women”, in
The Journal of American Medical Association, 297(8), pp. 820-830.
44. R. Bradley, J. Greene, E. Russ, L. Dutra, D. Westen (2005), “A multidimensional meta-analysis
of psychotherapy for PTSD”, in American Journal of Psychiatry, 162(2), pp. 214-227.
45. Mental Defeat: termine coniato da Anke Ehlers nel 1997 e indicante “la perdita di autonomia
percepita, unita a uno stato di rinuncia pervasiva e di sensazione di impotenza e mancanza di
possibilità”. Tale stato si è dimostrato essere predittivo di un disturbo da stress post-traumatico
cronico e di una scarsa risposta a terapie di tipo espositivo. [NdC]
46. J.H. Jaycox, E.B. Foa (1996), “Obstacles in implementing exposure therapy for PTSD: Case
discussions and practical solutions”, in Clinical Psychology and Psychotherapy, 3(3), pp. 176-184.
Vedi anche E.B. Foa, D. Hearst-Ikeda, K.J. Perry (1995), “Evaluation of a brief cognitive-
behavioral program for the prevention of chronic PTSD in recent assault victims”, in Journal of
Consulting and Clinical Psychology, 63, pp. 948-955.
47. Alexander McFarlane, comunicazione personale.
48. R.K. Pitman, B. Altman, E. Greenwald, R.E. Longpre, M.L. Maclin, R.E. Poirè, G.S. Steketee
(1991), “Psychiatric complications during ooding therapy for Post-traumatic Stress Disorder”, in
Journal of Clinical Psychiatry, 52(1), pp. 17-20.
49. J. Decety, K. Michalska, K. Kinzler (2007), “The contribution of emotion and cognition to
moral sensitivity: A neurodevelopmental study”, in Cerebral Cortex, 22(1), pp. 209-220; J. Decety,
C.D. Batson (2007), “Neuroscience approaches to interpersonal sensitivity”, in Social Neuroscience,
2, (3-4), pp. 151-157.
50. K.H. Seal, S. Maguen, B. Cohen, K.S. Gima, T.J. Metzler, L. Ren, D. Bertenthal, C.R. Marmar
(2010), “VA Mental Health Services utilization in Iraq and Afghanistan Veterans in the rst year of
receiving new mental health diagnoses”, in Journal of Traumatic Stress, 23, pp. 5-16.
51. L. Jerome (2007), “(+/-)-3,4-Methylenedioxymethamphetamine (MDMA, “Ecstasy”)
Investigator’s Brochure”, disponibile su
www.maps.org/research/mdma/protocol/ib_mdma_new08.pdf.
52. J.H. Krystal, L.H. Price, C. Opshal, C.A. Ricaurte, G.R. Heninger (1992), “Chronic 3, 4-
methylenedioxymethamphetamine (MDMA) use: effects on mood and neuropsychological
function?”, in The American Journal of Drug and Alcohol Abuse, 18(3), pp. 331-341.
53. M.C. Mithoefer, M.T. Wagner, A. Mithoefer, I. Jerome, R. Doblin (2011), “The safety and
ef cacy of ± 3, 4-methylenedioxymethamphetamine-assisted psychotherapy in subjects with
chronic, treatment-resistant post-traumatic stress disorder: the rst randomized controlled pilot
study”, in Journal of Psychopharmacology, 25(4), pp. 439-452; M.C. Mithoefer, M.T. Wagner, A.
Mithoefer, L. Jerome, S. Martin, B. Yazar-Klosinski, Y. Michael, T. Brewerton, R. Doblin (2013),
“Durability of improvement in Post-traumatic Stress Disorder symptoms and absence of harmful
effects or drug dependency after 3, 4-methylenedioxymethamphetamine-assisted psychotherapy: A
prospective long-term follow-up study”, in Journal of Psychopharmacology, 27(1), pp. 28-39.
54. J.D. Bremner (1994), “Neurobiology of Post-traumatic Stress Disorder”, in R.S. Rynoos (a cura
di), Post-traumatic Stress Disorder: A Critical Review, Sidran Press, Lutherville, pp. 43-64.
55. http://cdn.nextgov.com/nextgov/interstitial.html?v=2.1.1&rf=http%3A%2F%
2Fwww.nextgov.com%2Fhealth%2F2011%2F01%2Fmilitarys-drug-policy- threatens-troops-
health-doctors-say%2F48321%2F.
56. J.R.T. Davidson (1992), “Drug therapy of Post-traumatic Stress Disorder”, in British Journal of
Psychiatry, 160, pp. 309-314. Si veda, inoltre, R. Famularo, R. Kinscherff, T. Fenton (1988),
“Propranolol Treatment for Childhood Post-traumatic Stress Disorder Acute Type”, in American
Journal of Disorders of Childhood, 142, pp. 1244-1247; F.A. Fesler (1987), “Valproate in combat-
related Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Clinical Psychiatry, 52, pp. 361-364; B.H.
Herman, K. Hammock, A. Arthur-Smith, J. Egan, I. Chartoor, A. Werner, N. Zelnik (1987),
“Naltrexone decreases self-injurious behavior”, in Annals of Neurology, 22, pp. 530-534; B.A. van
der Kolk, D. Dreyfuss, M. Micheals, D. Shera, R. Berkowitz, R. Fisler, G. Saxe (1994), “Fluoxetine
in Post-Traumatic Stress”, in Journal of Clinical Psychiatry, 55(12), pp. 517-522.
57. B.A. van der Kolk, J. Spinazzola, M.E. Blaustein, J.W. Hopper, E.K. Hopper, D.L. Korn, W.B.
Simpson (2007), “A randomized clinical trial of Eye Movement Desensitization and Reprocessing
(EMDR), uoxetine, and pill placebo in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder:
Treatment effects and long-term maintenance”, in Journal of Clinical Psychiatry, 68(1), pp. 37-46.
58. R.A. Bryant, T. Sackville, S.T. Dang, M. Moulds, R. Gouthrie (1999), “Treating Acute Stress
Disorder: An evaluation of cognitive behavior therapy and supportive counseling techniques”, in
American Journal of Psychiatry, 156(11), pp. 1780-1786; N.P. Roberts, N. Kitchiner, J. Kenardy, J.
Bisson (2010), “Early psychological interventions to treat Acute Traumatic Stress Symptoms”, in
Cochran Database of Systematic Reviews, 3.
59. Ciò include il recettore alfa1 antagonista della prazosina, il recettore alfa2 antagonista della
clonidina e il recettore beta, antagonista del propranololo. Vedi anche M.J. Friedman, J.R.
Davidson (2007), “Pharmacotherapy for PTSD”, in M.J. Friedman, T.M. Keane, P. Resick (a cura
di), Handbook of PTSD: Science and Practice, Guilford Press, New York, p. 376.
60. M.A. Raskind, E.R. Peskind, D.J. Hoff, K.L Hart, H.A. Holmes, D. Warren, J. Shofer, J.
O’Connell, F. Taylor, C. Gross, K. Rohde, M.E. McFall (2007), “A parallel group placebo
controlled study of prazosin for trauma nightmares and sleep disturbance in combat veterans with
Post-Traumatic Stress Disorder”, in Biological Psychiatry, 61(8), pp. 928-934; F.B. Taylor, P. Martin,
C. Thompson, J. Williams, T.A. Melmann, C. Gross, E.R. Peskind., M.A. Raskind (2008),
“Prazosin effects on objective sleep measures and clinical symptoms in civilian trauma Post-
traumatic Stress Disorder: A placebo-controlled study”, in Biological Psychiatry, 63 (6), pp. 629-
632.
61. Litio, motrigina, carbamazepina, divalproex, gabapentin e topiramato possono aiutare a
controllare l’aggressività e l’irritabilità correlate al trauma. Il valproato si è dimostrato ef cace in
svariati casi di PTSD, come con pazienti militari e veterani con PTSD cronico. M.J. Friedman, J.
Davidson (1991), “Pharmacotherapy for PTSD”; F.A. Fesler (1991) “Valproate in combat-related
Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Clinical Psychiatry, 52(9), pp. 361-364. Il seguente
studio ha dimostrato una riduzione percentuale del 37,4% dei sintomi di PTSD: S. Akuchekian, S.
Amanat (2004), “The comparison of topiramate and placebo in the treatment of Post-traumatic
Stress Disorder: A randomized, double-blind study”, in Journal of Research in Medical Sciences,
9(5), pp. 240-244.
62. G. Bartzokis, P.H. Lu, J. Turner, J. Mintz, C.S. Saunders (2005), “Adjunctive Risperidone in
the treatment of chronic combat-related Post-traumatic Stress Disorder”, in Biological Psychiatry,
57(5), pp. 474-479. Vedi, inoltre, D.B. Reich, S. Wintemitz, J. Hennen, T. Watts, C. Stanculescu
(2004), “A preliminary study of Risperidone in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder
related to childhood abuse in women”, in Journal of Clinical Psychiatry, 65(12), pp. 1601-1606.
63. Gli altri metodi comprendono interventi che, di solito, aiutano i pazienti traumatizzati a
dormire, come il trazodone, che è un antidepressivo, applicazioni di frequenze “binaural beat”
(letteralmente, “battiti binaurali”; per maggiori approfondimenti, si consulti il
sito, http://www.marcostefanelli.com/subliminale/brain.htm), apparecchiature luce/suono come il
Proteus (per saperne di più, si consulti, in italiano, il
sito http://salute.11665.com/it/salute/201307/111680.html, oppure www.brainmachines.com),
monitor HRV come Hearthmath (per approfondimenti si rimanda al sito
italiano: http://www.ipermind.com/heartmath-gestire-le-emozioni/ o a quello
americano http://www.heartmath.com/), e iRest, un intervento ef cace, basato sullo yoga
(http://www.irest.us/ o, in italiano, http://www.cure-naturali.it/tecniche-yoga/972/yoga-
irest/3881/a). [NdC]
64. D. Wilson (2010), “Child’s ordeal shows risks of psychosis drugs for young”, in New York
Times, September 1. Disponibile sul
sito http://www.nytimes.com/2010/09/02/business/02kids.html?pagewanted=all&_r=0.
65. M. Olfson, C. Bianco, S.M. Liu, S. Wang, C.U. Correll (2012), “National trends in the of ce-
based treatment of children, adolescents, and adults with antipsychotics”, in Archives of General
Psychiatry, 69(12), pp. 1247-1256.
66. E. Harris, M. Sorbero, J. Kogan, J. Schuster, B.D. Stein (2012), “Perspectives on systems of
care: Concurrent mental health therapy among Medicaid-enrolled youths starting antipsychotic
medications”, in FOCUS, 10(3), pp. 401-407.
67. B.A. van der Kolk (1994), “The body keeps the score: Memory and the evolving psychobiology
of Post-traumatic Stress”, in Harvard Review of Psychiatry, 1(5), pp. 253-265.
68. B. Brewin (2012), “Mental illness is the leading cause of hospitalization for active-duty troops”.
Nextgov.com, May 17, http://www.nextgov.com/health/2012/05/mental-illness-leading-cause-
hospitalization-active-duty-troops/55797/.
69. Spese farmacologiche psichiatriche, Department of Veterans
Affairs, http://www.veterans.senate.gov/imo/media/doc/For%20the%20Record%20-
%20CCHR% 204.30.14.pdf.
14
La parola
Miracolo e tirannia
La verità indicibile
I terapisti hanno una ducia scon nata nel potere della parola di risolvere
il trauma.Tale ducia risale al 1893, quando Freud (e il suo mentore,
Breuer) scrissero che il trauma “scompariva subito e in modo de nitivo
quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento
determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva
accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più
completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto” (corsivo
nell’originale).3
Purtroppo, non è così semplice: gli eventi traumatici sono quasi
impossibili da mettere in parole. Questo è vero per chiunque di noi, non
solo per le persone che soffrono di PTSD. I primi ricordi degli eventi
dell’11 settembre non erano storie, ma immagini: la gente che correva
frenetica per la strada, i loro volti coperti di cenere; un aereo che si
schiantava sulla Torre Uno del World Trade Center; macchie lontane,
ovvero persone che si lanciavano tenendosi per mano. Quelle immagini
venivano riprodotte più e più volte dalla nostra mente e sullo schermo
della televisione, no a quando il sindaco Giuliani e i media ci aiutarono a
creare una storia da poter condividere gli uni con gli altri.
In I sette pilastri della saggezza, T.E. Lawrence ha scritto delle sue
esperienze di guerra: “Avevamo imparato che c’erano tte troppo acute,
dolori troppo profondi, estasi troppo alte per poter essere accolte dai
nostri esseri niti. Quando le emozioni raggiungevano questi picchi, la
mente soffocava; e la memoria impallidiva nché le circostanze non
tornavano a essere normali”.4 Mentre il trauma ci lascia muti, il percorso
per superarlo è lastricato di parole, assemblate con cura, una dopo l’altra,
no a quando l’intera storia può essere rivelata.
Rompere il silenzio
Gli attivisti, nei primi tempi della campagna di sensibilizzazione
sull’AIDS, crearono un potente slogan: “Silenzio = Morte”. Anche il
silenzio sul trauma porta alla morte: la morte dell’anima. Il silenzio
rinforza l’isolamento maligno del trauma. Poter dire a gran voce a un altro
essere umano “Sono stata violentata” o “Sono stata picchiata da mio
marito” o “I miei genitori la chiamavano disciplina, ma era crudeltà” o
“Non lo facevo, no a quando non sono tornato dall’Iraq”, è un segnale
che la guarigione può avere inizio.
Siamo indotti a pensare che il silenzio ci permetta di controllare il
dolore, la paura o la vergogna, ma il “nominare”, il chiamare le cose con il
loro nome, offre la possibilità di esercitare un diverso tipo di controllo.
Quando Adamo fu messo a capo del regno animale, nel Libro della
Genesi, il suo primo atto fu quello di dare un nome a ogni creatura
vivente.
Se si è stati feriti, si ha il bisogno di riconoscere e nominare quello che ci
è successo. Lo so per esperienza personale: ho vissuto costantemente con
la paura del ri uto e dell’abbandono, nché non ho avuto un luogo in cui
concedermi di capire cosa signi casse essere rinchiuso all’età di tre anni
nella cantina di casa da mio padre, a causa di disobbedienze varie. Solo
quando sono riuscito a parlare di come si sentisse quel bambino, solo
quando ho potuto perdonarlo di essere stato così spaventato e sottomesso,
ho iniziato a godere del piacere della mia stessa compagnia. Sentirsi
ascoltati e compresi cambia la nostra siologia; essere in grado di
articolare un sentimento complesso e di riconoscersi nei nostri stessi
sentimenti, attiva il sistema limbico e crea un “momento aha”.5 Al
contrario, silenzio e incomprensione uccidono lo spirito. O, per usare le
parole di John Bowlby: “Quello di cui non siamo in grado di parlare alla
madre [gioco di parole nel testo, (m)other: alla madre e agli altri], non
siamo in grado di dirlo a noi stessi”.
Se ci si nasconde di essere stati molestati, da bambini, da uno zio, si
diventerà fortemente reattivi agli stimoli, come un animale durante un
temporale: si mobilita una risposta di tutto il corpo a causa degli ormoni
che segnalano “pericolo”. Senza un linguaggio e un contesto, la
consapevolezza si può limitare a: “sono spaventato”. Ancora, determinati
a mantenere il controllo, si sarà predisposti a evitare chiunque o qualsiasi
cosa ricordi, anche solo vagamente, il trauma. Si può anche passare, senza
saperne il perché, dall’inibizione e dalla tensione alla reattività e
all’esplosività.
Finché si mantengono segreti e si nascondono informazioni, si è,
fondamentalmente, in guerra con se stessi. Celare il nucleo dei sentimenti
richiede un’enorme quantità di energia, acca la motivazione a
raggiungere gli obiettivi importanti e fa sentire annoiati e spenti. Nel
frattempo, gli ormoni dello stress inondano il corpo e provocano mal di
testa, dolori muscolari, problemi intestinali o sessuali: comportamenti
irrazionali che possono metterci in imbarazzo e ferire le persone che ci
circondano. Solo dopo aver identi cato l’origine di queste risposte, si
possono iniziare a considerare i sentimenti come segnali di un problema
che richiede urgentemente la nostra attenzione.
Ignorare la realtà interiore, inoltre, deteriora il senso di sé, l’identità e le
intenzioni. La psicologa clinica Edna Foa e i suoi colleghi costruirono il
Post-Traumatic Cognitions Inventory per valutare ciò che i pazienti
pensano di se stessi.6 I sintomi di PTSD includono, spesso, affermazioni
come “Mi sento morto dentro”, “Non sarò più in grado di sentire
emozioni normali”, “Sono danneggiato per sempre”, “Mi sento come un
oggetto, non come una persona”, “Non ho futuro” e “Mi sento come se
non conoscessi più me stesso”.
Il punto fondamentale è permettere a se stessi di sapere ciò che si sa.
Questo richiede un’enorme quantità di coraggio. In What it is Like go to
War, il veterano del Vietnam Karl Marlantes è alle prese con i suoi ricordi
legati all’appartenenza a un’unità di combattimento dei marines,
particolarmente preparata, e si confronta con la sua dolorosa scissione
interna:
Per anni sono stato inconsapevole della necessità di sanare quella divisione e non c’era
nessuno, al mio ritorno, a farmelo notare… Perché dovevo supporre che ci fosse solo una
persona dentro di me?… C’è una parte di me che ama solo le mutilazioni, le uccisioni e le
torture. Questa parte di me non è la mia interezza. Ho altri elementi che sono esattamente
l’opposto, dei quali sono orgoglioso. Quindi, sono un assassino? No, ma una parte di me lo è.
Sono un torturatore? No, ma una parte di me lo è. Sento orrore e tristezza quando leggo sui
giornali di un bambino abusato? Sì. Ma ne sono anche affascinato?7
Scrivere a se stessi
Ci sono altri modi per accedere al mondo interno dei sentimenti. Uno dei
più ef caci è attraverso la scrittura. Molti di noi sfogano le loro pene
d’amore con lettere arrabbiate, accusatorie, lamentose o tristi, dopo essere
stati traditi o abbandonati dalle persone amate. Ci si sente quasi sempre
meglio dopo, anche se, forse, quelle lettere non verranno mai spedite.
Quando si scrive a se stessi non ci si deve preoccupare del giudizio di altre
persone, basta ascoltare i propri pensieri e lasciare che il loro usso faccia
il suo corso. In un secondo momento, rileggendole, si possono scoprire
verità sconvolgenti.
In quanto membri attivi di una società, siamo chiamati a essere “ ghi”
nelle nostre interazioni giornaliere, magari subordinando i nostri
sentimenti ai compiti che ci siamo assunti. Se parliamo con qualcuno che
non ci fa sentire completamente al sicuro, il nostro revisore sociale va in
allerta, con un conseguente aumento della dif denza. Scrivere è diverso.
Se chiediamo al nostro revisore di lasciarci in pace per un momento,
possono af orare elementi che non pensavamo nemmeno esistessero.
Siamo liberi di entrare in una sorta di trance in cui la penna (o la tastiera)
sembra dirigere tutto ciò che sgorga dall’interno. È possibile collegare
quelle auto-osservazioni e quelle parti narrative del cervello, senza
preoccuparsi di ottenere l’approvazione altrui.
Nella pratica chiamata “di scrittura libera”, è possibile utilizzare
qualsiasi oggetto come un personale test di Rorschach, per avviare un
usso di associazioni libere. Basta guardare un oggetto di fronte a noi e
poi scrivere qualsiasi cosa ci venga in mente, procedendo senza
interruzioni, riletture o cancellature. Un cucchiaio di legno sul bancone
può dare avvio a ricordi piacevoli, come aver fatto la salsa di pomodoro
con la nonna, o spiacevoli, come l’essere stati picchiati da bambini. La
teiera, tramandata di generazione in generazione, può condurre,
attraverso i meandri della mente, ai nostri cari che non ci sono più o alle
vacanze in famiglia, teatro di amore e litigi. Magari emerge, per prima,
un’immagine, poi un ricordo e, in ne, si scriverà un paragrafo che illustra
il tutto. Qualunque cosa appaia sulla carta, sarà la manifestazione di
associazioni che sono solo ed esclusivamente nostre.
I miei pazienti, spesso, traducono in frammenti di scrittura e disegni le
memorie di cui non sono ancora pronti a parlare. Leggendone il
contenuto ad alta voce, potrebbero, probabilmente, esserne sopraffatti,
ma vogliono che io sia a conoscenza della loro lotta interna. Comunico
loro quanto apprezzi il coraggio con cui si concedono di esplorare parti
nora celate e di af darmele. Queste comunicazioni preliminari orientano
il mio piano terapeutico, aiutandomi a decidere, per esempio, se af ancare
al lavoro in corso tecniche di elaborazione somatica, il neurofeedback o
l’EMDR.
Per quanto ne sappia, la prima analisi sistematica sul potere del
linguaggio di alleviare il trauma risale al 1986, quando James Pennebaker,
dell’Università del Texas a Austin, decise di svolgere il corso introduttivo
di psicologia in un laboratorio sperimentale. Pennebaker cominciò a
parlare con molto rispetto della riservatezza, del tenere le cose per sé, cose
che considerava il collante della civiltà.15 Ma era anche convinto del fatto
che le persone pagassero un prezzo piuttosto alto, cercando di negare
l’evidenza.
Iniziò chiedendo a ciascuno studente di pensare a un’esperienza
strettamente personale, che riteneva molto stressante o traumatica. Divise
poi la classe in tre gruppi: al primo era stato chiesto di scrivere ciò che
accadeva, in quel momento, nella vita; al secondo, di illustrare i dettagli
dell’evento traumatico o stressante, e al terzo di raccontare i fatti
dell’esperienza, i sentimenti e le emozioni a essa connessi, nonché
l’impatto che ritenevano avesse avuto sulla loro vita. Tutti gli studenti
scrissero ininterrottamente, quindici minuti al giorno, per quattro giorni
consecutivi, seduti da soli, in una piccola stanza del dipartimento di
psicologia.
Gli studenti presero lo studio molto seriamente, molti di loro rivelando
segreti di cui non avevano mai parlato con nessuno e commuovendosi
spesso, durante la scrittura dei loro racconti. Alcuni con darono agli
assistenti di essere preoccupati di queste esperienze. Dei duecento
partecipanti, sessantacinque scrissero di un trauma infantile. Sebbene la
morte di un membro della famiglia fosse l’argomento più frequente, il
22% delle donne e il 10% degli uomini riferirono di un trauma sessuale,
avvenuto prima dei diciassette anni.
I ricercatori chiesero agli studenti della loro salute e furono sorpresi di
come, spesso, segnalassero spontaneamente storie di problemi sici, più o
meno gravi: cancro, ipertensione, ulcere, in uenza, mal di testa e otiti.16
Coloro che riportarono un abuso sessuale infantile avevano subito almeno
un’ospedalizzazione durante l’anno precedente. Quelli che riportarono
un’esperienza traumatica sessuale nell’infanzia erano stati ricoverati in
ospedale, nell’anno precedente, per una media di 1,7 giorni: quasi il
doppio degli altri.
I ricercatori, quindi, confrontarono il numero di visite richieste
all’ambulatorio medico dai partecipanti durante il mese precedente allo
studio con quello del mese successivo. Il gruppo, che aveva scritto di fatti
ed emozioni legati al trauma, aveva bene ciato maggiormente del lavoro,
con una riduzione del 50% di visite mediche rispetto agli altri due gruppi.
Scrivere in merito ai pensieri e ai sentimenti più profondi relativi al
trauma aveva migliorato il loro umore e portato a un atteggiamento più
ottimista e a una migliore salute sica.
Agli studenti venne poi chiesto di esprimere un giudizio sulla ricerca a
cui avevano partecipato e la loro attenzione si rivolse al modo in cui il
lavoro aveva aumentato la loro comprensione di sé: “Mi ha consentito di
pensare a ciò che ho provato allora. Non avevo mai realizzato quale
portata quei fatti potessero avere avuto su di me”. “Ho dovuto pensare e
risolvere esperienze passate, cosa che mi ha permesso di trovare una sorta
di pace mentale. Dover scrivere di emozioni e sentimenti mi ha aiutato a
capire come mi sentivo e perché”.17
In uno studio successivo, Pennebaker domandò a metà di un gruppo di
settantadue studenti di parlare, registrandola, dell’esperienza più
traumatica della loro vita; l’altra metà discusse dei piani relativi al resto
della giornata. Durante le audioregistrazioni, i ricercatori monitoravano la
reazione siologica degli studenti: la pressione sanguigna, la frequenza
cardiaca, la tensione muscolare e la temperatura della mano.18 I risultati
furono simili: coloro che si lasciarono andare ad ascoltare le proprie
emozioni mostrarono cambiamenti siologici importanti, sia immediati sia
a lungo termine. Pressione arteriosa, frequenza cardiaca e altre funzioni
autonomiche aumentavano durante la registrazione del racconto, per
diminuire sostanzialmente rispetto all’inizio dello studio. Il calo della
pressione sanguigna si poteva rilevare anche a sei settimane dalla
conclusione dell’esperimento.
È ormai ampiamente riconosciuto che le esperienze stressanti – come il
divorzio, gli esami scolastici o la solitudine – abbiano un effetto negativo
sulla funzione immunitaria, ma, al momento dello studio di Pennebaker,
questa era un’idea piuttosto controversa. Basandosi su questi protocolli,
un team di ricercatori dell’Ohio State University College of Medicine mise
a confronto due gruppi di studenti che scrissero o di un trauma personale
o di un problema di poco conto.19 Anche in questo caso, coloro che
descrissero traumi personali ebbero meno bisogno di richiedere una visita
medica, mostrando un miglioramento della salute, in termini di
funzionamento del sistema immunitario, come confermato dall’azione dei
linfociti T (cellule denominate natural killer) e di altri marcatori
immunitari nel sangue. Questo effetto, più evidente immediatamente
dopo la ne dell’esperimento, poteva essere rilevato anche sei settimane
più tardi. Gli esperimenti di scrittura fatti in tutto il mondo con studenti
della scuola elementare, ospiti di case di cura, studenti di medicina,
detenuti in carceri di massima sicurezza, persone affette da artrite,
neomamme e vittime di stupro continuano a dimostrare che scrivere di
eventi sconvolgenti migliora la salute mentale e quella sica.
Un altro aspetto degli studi di Pennebaker catturò la mia attenzione:
quando i suoi soggetti parlavano di questioni intime o dif cili,
cambiavano, spesso, il tono di voce e lo stile linguistico. Le differenze
erano così sorprendenti che Pennebaker si chiese se avesse confuso le
registrazioni. Per esempio, una donna descrisse i suoi programmi per la
giornata con una voce infantile e stridula, ma pochi minuti dopo, quando
parlò di un furto di un centinaio di dollari da un registratore di cassa
aperto, sia il volume sia il tono della voce si fecero molto più bassi, tanto
da farla sembrare una persona completamente diversa. Cambiamenti negli
stati emotivi erano visibili anche negli scritti dei soggetti. Quando i
partecipanti cambiavano argomento, potevano passare dal corsivo al
maiuscolo e di nuovo al corsivo; c’erano anche variazioni di inclinazione
delle lettere e di pressione della penna.
Tali cambiamenti sono chiamati “passaggi di stato” nella pratica clinica,
e si osservano spesso in individui con storie di traumi. I pazienti,
muovendosi da un argomento all’altro, attivano stati emotivi e siologici
nettamente diversi. Il passaggio di stato non si palesa solo in un pattern
vocale completamente diverso, ma anche in espressioni facciali e
movimenti del corpo. Alcuni pazienti mostrano una chiara trasformazione
dell’identità personale: da timida a forte e aggressiva o da ansiosamente
compiacente a decisamente seduttiva. Quando scrivono delle loro paure
più profonde, la loro scrittura diventa spesso più infantile e primitiva.
Trattare come dei bugiardi i pazienti che presentano una tale
mutevolezza degli stati del sé o, magari, intimare loro di smettere di
mostrare quelle parti imprevedibili e fastidiose, può farli precipitare,
probabilmente, nel mutismo. Magari non desisteranno dal chiedere aiuto,
ma, all’ennesima disconferma, trasformeranno il loro grido di aiuto in
azioni concrete: tentativi di suicidio, depressione e attacchi di rabbia.
Come vedremo nel capitolo 17, tali pazienti miglioreranno solo se
entrambi, paziente e terapeuta, apprezzeranno il ruolo che questi diversi
stati hanno giocato nella loro sopravvivenza.
Arte, musica e danza
Ci sono migliaia di terapeuti che fanno un lavoro splendido usando l’arte,
la musica, la danza con i bambini abusati, i soldati che soffrono di PTSD,
le vittime di incesto, i rifugiati, le vittime di tortura; numerosi resoconti
attestano l’ef cacia delle terapie espressive.20 Tuttavia, a oggi, si sa molto
poco su come funzionino e per quali aspetti dello stress traumatico
possano considerarsi elettive: potrebbe rappresentare un’importante s da
logistica e nanziaria fare delle ricerche necessarie a stabilirne il valore
scienti co.
La capacità che l’arte, la musica e la danza hanno di sciogliere il
mutismo che si accompagna al terrore può spiegare perché queste
discipline siano utilizzate nel trattamento del trauma nelle culture di tutto
il mondo. Uno dei pochi studi sistematici per confrontare l’espressione
artistica non verbale e la scrittura è stato fatto da James Pennebaker e
Anne Krantz, una terapeuta di San Francisco, specializzata in danza e
movimento.21 A un terzo di un gruppo di sessantaquattro studenti venne
chiesto di esprimere un’esperienza traumatica personale attraverso
movimenti del corpo, per almeno dieci minuti al giorno per tre giorni
consecutivi, mettendola poi per iscritto per altri dieci minuti. Un secondo
gruppo ballava, ma non scriveva del trauma, e una terza parte era
coinvolta in un programma di esercizi di routine. Nel corso dei tre mesi
seguenti, i membri di tutti i gruppi riferirono di sentirsi meglio e di essere
più felici. Tuttavia, solo il gruppo di movimento espressivo, che aveva
anche scritto dell’episodio traumatico, ne mostrava un’evidenza oggettiva:
una migliore salute sica e una migliore media nei voti scolastici (lo studio
non valutava sintomi speci ci di PTSD). Pennebaker e Krantz trassero
questa conclusione: “Esprimere semplicemente il trauma non è
suf ciente. Per parlare di salute, è necessario mettere le esperienze in
parole”.
Tuttavia, non sappiamo ancora se questa conclusione, ossia che il
linguaggio sia essenziale alla guarigione, sia sempre vera. Gli studi sulla
scrittura, che si sono concentrati sui sintomi di PTSD (al contrario di
quelli legati alla salute generale), sono stati deludenti. Pennebaker mi
avvertì circa il fatto che la maggior parte delle ricerche sulla scrittura,
condotte su pazienti con PTSD, prevedesse situazioni di gruppo, in cui ci
si aspettava di dover condividere le proprie storie. E, inoltre, ribadì
quanto ho descritto in precedenza: lo scopo dello scrivere è scrivere a se
stessi, per far sì che il nostro sé sappia cosa si sta cercando di evitare.
Diventare qualcuno28
Il motivo per cui le persone sono sopraffatte dal racconto delle proprie
storie coincide con quello per cui si hanno dei ashback cognitivi: il loro
cervello è cambiato. Come osservarono Freud e Breuer, il trauma non
agisce semplicemente come agente di rilascio dei sintomi. Piuttosto, “il
trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un
corpo estraneo, che deve essere considerato come un agente attualmente
ef ciente anche molto tempo dopo la sua intrusione”.29 Se una scheggia
provoca un’infezione, è la risposta del corpo all’oggetto estraneo a
diventare il problema, più che l’oggetto stesso.
Le neuroscienze moderne supportano in modo evidente la nozione di
Freud, secondo cui molti dei nostri pensieri consci sono razionalizzazioni
complesse del usso di istinti, ri essi, motivazioni e ricordi profondi che
scaturiscono dall’inconscio. Come abbiamo visto, il trauma interferisce
con il corretto funzionamento delle aree cerebrali che gestiscono e
interpretano l’esperienza. Un solido senso di sé – quello che consente a
una persona di affermare con sicurezza: “Questo è ciò che penso e sento”
e “Questo è ciò che sta succedendo a me” – dipende da una interazione
sana e dinamica tra queste aree.
Quasi tutti gli studi di brain-imaging di pazienti traumatizzati
sottolineano un’attivazione anormale dell’insula. Questa parte del cervello
integra e interpreta gli input inviati dagli organi interni – tra cui muscoli,
articolazioni e sistema propriocettivo – per generare il senso dell’essere
nel proprio corpo. L’insula può trasmettere segnali all’amigdala, che
innesca risposte di attacco-fuga. Ciò non richiede alcun input cognitivo o
un qualsivoglia riconoscimento consapevole che qualcosa sia andato storto
– ci si sente al limite e non si è in grado di concentrarsi, o, peggio, si
percepisce un senso di disgrazia imminente. Questi potenti sentimenti
sono generati dal profondo del cervello e non possono essere eliminati
dalla ragione o dalla comprensione. L’alessitimia – il non essere in grado
di percepire e comunicare quello che sta succedendo dentro di noi – è il
prodotto della costante aggressione proveniente dalle sensazioni corporee
e dall’eliminazione consapevole dell’origine delle stesse. Solo entrando in
contatto con il corpo, collegandosi visceralmente con il Sé, si può
ritrovare il senso di chi si è, le priorità e i valori. Alessitimia, dissociazione
e chiusura coinvolgono le strutture cerebrali che ci permettono di
concentrarci, di sapere cosa proviamo e di agire per proteggere noi stessi.
Quando queste strutture vitali sono sottoposte a uno shock inevitabile, il
risultato può essere confusione e agitazione, distacco emotivo, spesso
accompagnato da esperienze extracorporee – la sensazione di guardare se
stessi da molto lontano. In altre parole, il trauma fa sentire le persone
come se fossero in qualche altro corpo, o come in nessun corpo. Per
superare il trauma, si ha bisogno di aiuto per tornare in contatto con il
proprio corpo, con il proprio Sé.
Non si discute che il linguaggio sia essenziale: il nostro senso di Sé
dipende dall’essere in grado di organizzare i nostri ricordi in un insieme
coerente.30 Ciò richiede connessioni ben funzionanti tra il cervello
cosciente e il sistema del sé corporeo – connessioni che, spesso, sono
danneggiate dai traumi. La storia completa può essere raccontata solo
dopo aver riparato le strutture e aver preparato il terreno: solo a questo
punto, un non corpo diventa il corpo di qualcuno, quando un nessuno
diventa qualcuno.31
1. Atto IV, scena III. Tr. it. Garzanti, Milano, 1989. [NdC]
2. Spencer Eth a Bessel A. Van Der Kolk, marzo 2002.
3. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
4. T.E. Lawrence (1922), I sette pilastri della saggezza, tr. it. Bompiani, Milano 2000.
5. Espressione idiomatica che sta per “momento illuminante” o “momento catartico”. [NdC]
6. E.B. Foa, A. Ehlers, D.M. Clark, D.F. Tolin, S.M. Orsillo (1999), “The Post-traumatic
Cognitions Inventory (PTCI): Development and validation”, in Psychological Assessment, 11(3),
pp. 303-314.
7. K. Marlantes (2011), What It Is Like to Go to War, Grove Press, New York.
8. Ibid., p. 114.
9. Ibid., p. 129.
10. H. Keller (1908), Il mondo in cui vivo, Bocca, Milano 1944, fuori stampa. Si veda anche R.
Shattuck (2004), “A world of words”, in New York Review of Books, February 26.
11. H. Keller (2003), La storia della mia vita, tr. it. Edizioni Paoline, Roma 1981. [In una recente
edizione, del 2014, è stato tradotto come Il silenzio delle conchiglie, tr. it. e/o, Roma 2014, pp. 32-
33. NdT]
12. W.M. Kelley, C.N. MacRae, C.L. Wyland, S. Caglar, S. Inati, T.F. Heatherton (2002), “Finding
the self? An event-related fMRI study”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 14(5), pp. 785-794.
Vedi anche N.A. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg, J. Bean, D. McKeon, Z. Fatima (2007), “Attending
to the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2(4), pp. 313-322. P.M. Niedenthal (2007), “Embodying
emotion”, in Science, 316(5827), pp. 1002-1005; J.M. Allman (2001), “The anterior cingulate
cortex”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 935(1), pp 107-117.
13. J. Kagan (2006), “Dialogue with the Dalai Lama”, Massachusetts Institute of
Technology, http:// www.mindandlife.org/about/history/.
14. A. Goldman, F. De Vignemont (2009), “Is social cognition embodied?”, in Trends in Cognitive
Sciences, 13(4), pp. 154-159. Vedi anche A.D. Craig (2009), “How do you feel now? The anterior
insula and human awareness”, in Nature Reviews Neuroscience, 10, pp. 59-70; H.D. Critchley
(2005), “Neural mechanisms of autonomic, affective, and cognitive integration”, in Journal of
Comparative Neurology, 493(1), pp. 154-166; T.D. Wager, M.L. Davidson, B.L. Hughes, M.A.
Lindquist, K.N. Ochsner (2008), “Prefrontal-subcortical pathways mediating successful emotion
regulation”, in Neuron, 59(6), pp. 1037-1050; K.N. Ochsner, S.A. Bunge, J.J. Gross, J.D. Gabrieli
(2002), “Rethinking feelings: An fMRI study of the cognitive regulation of emotion”, in Journal of
Cognitive Neuroscience, 14(8), pp. 1215-1229; A. D’Argemeau, D. Feyers, S. Majeurs, F. Collette,
M. van der Linden, P. Maquet, E. Salmon (2008), “Self-re ection across time: Cortical midline
structures differentiate between present and past selves”, in Social Cognitive and Affective
Neuroscience, 3(3), pp. 244-252; Y. Ma, D. Bang, C. Wang, M. Allen, C. Frith, A. Roepstorff, S.
Han (2014), “Sociocultural patterning of neural activity during self-re ection”, in Social Cognitive
and Affective Neuroscience, 9(1), pp. 73-80; R.N. Spreng, R.A. Mar, A.S. Kim (2009), “The
common neural basis of autobiographical memory, prospection, navigation, theory of mind, and
the default mode: A quantitative meta-analysis”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 21(3), pp.
489-510; H.D. Critchley (2014), “The human cortex responds to an interoceptive challenge”, in
Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 101(17), pp. 6333-
6334; C. Lamm, C.D. Batson, J. Decety (2007), “The neural substrate of human empathy: Effects
of perspective-taking and cognitive appraisal”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 19(1), pp. 42-
58.
15. J.W. Pennebaker (2012), Opening Up: The Healing Power of Expressing Emotions, Guilford
Press, New York, p. 12.
16. Ibidem, p. 19.
17. Ibidem, p. 35.
18. Ibidem, p. 50.
19. J.W. Pennebaker, J.K. Kiecolt-Glaser, R. Glaser (1988), “Disclosure of traumas and immune
function: Health implications for psychotherapy”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology,
56(2), pp. 239-245.
20. D.A. Harris (2007), “Dance/movement therapy approaches to fostering resilience and recovery
among African adolescent torture survivors”, in Torture, 17(2), pp. 134-155; M. Bensimon, D.
Amir, Y. Wolf (2008), “Drumming through trauma: Music therapy with post-traumatic soldiers”, in
Arts in Psychotherapy, 35(1), pp. 34-48; M. Weltman (1986), “Movement therapy with children
who have been sexually abused”, in American Journal of Dance Therapy, 9(1), pp. 47-66; H.
Englund (1998), “Death, trauma and ritual: Mozambican refugees in Malawi”, in Social Science &
Medicine, 46(9), pp. 1165-1174; H. Tefferi (1996), Building on Traditional Strengths: The
Unaccompanied Refugee Children from South Sudan; D. Tolfree (1996), Restoring Playfulness:
Different Approaches to Assisting Children Who Are Psychologically Affected by War or
Displacement, Radda Barnen, Stockholm, pp. 158-173; N. Boothby (1996), “Mobilizing
communities to meet the psychosocial needs of children in war and refugee crises”, in Minefields in
Their Hearts: The Mental Health of Children in War and Communal Violence, Yale University
Press, New Haven, pp. 149-164; S. Sandel, S. Chaiklin, A. Lohn (1993), Foundations of
Dance/Movement Therapy: The Life and Work of Marian Chace, American Dance Therapy
Association, Columbia; K. Callaghan (1993), “Movement psychotherapy with adult survivors of
political torture and organized violence”, in Arts in Psychotherapy, 20(5), pp. 411-421; A.E.L. Gray
(2001), “The body remembers: Dance movement therapy with an adult survivor of torture”, in
American Journal of Dance Therapy, 23(1), pp. 29-43.
21. A.M. Krantz, J.W. Pennebaker (2007), “Expressive dance, writing, trauma, and health: When
words have a body.” In Whole Person Healthcare, 3, pp. 201-229.
22. P. Fussell (1975), The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, London.
23. Questi risultati sono stati replicati nei seguenti studi: J.D. Bremner (1999), “Does stress damage
the brain?”, in Biological Psychiatry, 45(7), pp. 797-805; I. Liberzon, S.F. Taylor, R. Amdur, T.D.
Jung, K.R. Chamberlain, S. Minoshima, R.A. Koeppe, L.M. Fig (1999), “Brain activation in PTSD
in response to trauma-related stimuli”, in Biological Psychiatry, 45(7), pp. 817-826; L.M. Shin, S.M.
Kosslyn, R.J. McNally, N.M. Alpert, W.L. Thompson, S.L. Rauch, M.L. Macklin, R.K. Pitman
(1997), “Visual imagery and perception in Post-traumatic Stress Disorder: A positron emission
tomographic investigation”, in Archives of General Psychiatry 54(3), pp. 233-241; L.M. Shin, S.M.
Kosslyn, R.J. McNally, N.M. Alpert, W.L. Thompson, S.L. Rauch (1999), “Regional cerebral blood
ow during script-driven imagery in childhood sexual abuse-related PTSD: A PET investigation”,
in American Journal of Psychiatry, 156(4), pp. 575-584.
24. Non so dire con precisione se questo termine sia stato coniato da me o da Peter Levine. Ho una
videoregistrazione in cui Peter me lo accredita, ma la maggior parte di ciò che so sulla tecnica del
pendolo l’ho imparata da lui.
25. Un piccolo corpus di prove empiriche sostiene l’asserzione che la stimolazione dei punti di
agopressione produce risultati migliori e strategie di esposizione che incorporano tecniche di
rilassamento convenzionali (www.vetcases.com). D. Church, O. Pina, C. Reategui, A. Brooks
(2012), “Single-session reduction of the intensity of traumatic memories in abused adolescents
after EFT: A randomized controlled pilot study”, in Traumatology, 18(3), pp. 73-79; D. Feinstein,
D. Church (2010), “Modulating gene expression through psychotherapy: The contribution of
noninvasive somatic interventions”, in Review of General Psychology, 14(4), pp. 283-295.
26. T. Gil, A. Calev, D. Greenberg, S. Kugelmass, B. Lerer (1990), “Cognitive functioning in Post-
traumatic Stress Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 3(1), pp. 29-45; J.J. Vasterling, L.M.
Duke, K. Brailey, J.L. Constans, A.N. Jr. Allain, P.B. Sutker (2002), “Attention, learning, and
memory performances and intellectual resources in Vietnam veterans: PTSD and no disorder
comparisons”, in Neuropsychology, 16(1), p. 5.
27. In uno studio di brain-imaging i soggetti con PTSD disattivavano l’area del cervello deputata al
linguaggio, l’area di Broca, in risposta a vocaboli neutri; in altri termini: il decremento nel
funzionamento dell’area di Broca, che è stato ritrovato nei pazienti affetti da PTSD (vedi capitolo
3), non occorreva solamente in risposta a ricordi traumatici, ma avveniva anche quando era chiesto
loro di prestare attenzione a parole neutre. Ciò signi ca che, come gruppo, i pazienti traumatizzati
hanno più dif coltà ad articolare ciò che sentono e pensano riguardo a eventi ordinari. Il gruppo
PTSD, inoltre, mostrava una riduzione nell’attivazione della corteccia prefrontale-mediale (mPFC),
l’area del lobo frontale che, come abbiamo visto, trasmette la consapevolezza del proprio sé, e
smorza l’attivazione dell’amigdala, il rilevatore di fumo. Ciò rendeva più dif cile per questi pazienti
inibire una risposta di paura da parte del cervello a fronte di semplici compiti linguistici, e, ancora,
rendeva più dif coltoso prestare attenzione e continuare con la propria vita. Vedi, K.A. Moores,
C.R. Clark, A.C. McFarlane, G.C. Brown, A. Puce, D.J. Taylor (2008), “Abnormal recruitment of
working memory updating networks during maintenance of trauma-neutral information in post-
traumatic stress disorder”, in Psychiatry Research: Neuroimaging, 163(2), pp. 156-170.
28. Il titolo del testo contiene un gioco di parole che scompone la parola somebody (“qualcuno” in
italiano) in some body (nel senso di “qualche corpo”). [NdC]
29. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188, p. 178.
30. D.L. Schacter (1996), Alla ricerca della memoria. Il cervello, la mente e il passato, tr. it. Giulio
Einaudi Editore, Torino 2007.
31. In inglese, il solito gioco di parole no body/some body. [NdC]
15
Imparare l’EMDR
Così come con David, mi è capitato di sperimentare tante volte, negli
ultimi 20 anni, l’EMDR: un approccio che permette di rendere le “ri-
produzioni” dolorose del trauma qualcosa che appartiene al passato. Fui
introdotto a questo metodo da Maggie, una giovane e coraggiosa
psicologa che lavorava in una casa di accoglienza per ragazze abusate
sessualmente. Maggie litigava continuamente, scontrandosi con quasi
tutti, eccetto che con le ragazze tredicenni e quattordicenni, di cui si
prendeva cura. Faceva uso di droghe, si accompagnava a ragazzi
pericolosi e, spesso, violenti, aveva frequenti alterchi con i suoi superiori,
e traslocava da un posto a un altro perché non riusciva a tollerare i suoi
coinquilini (né loro lei). Non ho mai capito come avesse fatto a ottenere
un diploma di laurea in psicologia in una buona università.
Maggie era stata inviata a una terapia di gruppo, che stavo conducendo
con donne con problemi simili ai suoi. Durante la seconda seduta, riferì di
come suo padre l’avesse stuprata due volte, una volta a cinque anni e
un’altra a sette. Era convinta di essere colpevole. Amava suo padre,
spiegava, e, quindi, doveva essere stata per forza così seduttiva da indurlo
a non potersi controllare. Mentre ascoltavo il suo ricordo, pensai: “Non
può dare la colpa al padre e, quindi, deve dare la colpa a tutti gli altri”,
compresi i terapeuti precedenti, per non averla aiutata a stare meglio.
Come molti sopravvissuti al trauma, raccontava una storia con le parole e
un’altra con le azioni, attraverso le quali continuava a rimettere in atto vari
aspetti del trauma.
Così, un giorno, Maggie arrivò al gruppo, desiderosa di parlare di
un’esperienza particolarmente rilevante che aveva fatto durante il week
end in un corso di formazione sull’EMDR. A quel tempo, pensavo solo
che l’EMDR fosse una nuova mania, in cui i terapeuti muovevano le dita
davanti agli occhi dei loro pazienti. A me e ai miei colleghi universitari
sembrava ancora una di quelle pazzie che, da sempre, hanno af itto la
psichiatria, ed ero convinto che questa si sarebbe rilevata un’altra delle
disavventure di Maggie.
Maggie ci disse che, durante la sua seduta EMDR, aveva ricordato in
modo vivido l’abuso del padre quando aveva sette anni e lo aveva
rievocato dall’interno del suo corpo di bambina. Poteva sicamente
sentire come fosse piccola: poteva sentire il grande corpo del padre e
l’odore di alcol del suo respiro. E ancora, ci disse, l’osservazione
dell’evento era avvenuta attraverso il punto di vista del suo sé di 29 anni.
Scoppiò a piangere: “Ero così piccola. Come può un uomo cosi grande
fare questo a una bimba così piccola?”. Pianse per un po’, poi disse: “Ora
è nita. Ora so cosa è accaduto. Non era colpa mia. Ero una bimba
piccola e non avrei potuto far niente di così grave da indurlo a
molestarmi”. Ero sbalordito. Avevo a lungo cercato di trovare dei modi
per far sì che le persone potessero rivisitare il loro passato traumatico
senza ritraumatizzarsi. Sembrava che Maggie avesse avuto un’esperienza
realistica come un ashback, non essendone stata dirottata nel passato.
L’EMDR riusciva a rendere questa cosa suf cientemente sicura, in modo
da far sì che le persone potessero accedere alle tracce del trauma? Poteva
trasformarle in memorie di eventi accaduti nel passato?
Maggie fece poche altre sedute di EMDR e restò nel nostro gruppo
abbastanza a lungo per mostrarci i suoi cambiamenti. Era molto meno
irritabile e manteneva un sardonico senso dell’umorismo, che mi piaceva
molto. Pochi mesi dopo, fu coinvolta da un tipo di uomo molto diverso da
quello da cui era stata attratta no a quel momento. Lasciò il gruppo,
annunciando di aver risolto il suo trauma, e io decisi che era ora di seguire
una formazione EMDR.
Studiare l’EMDR
La Trauma Clinic venne salvata da un manager del Massachusetts
Department of Mental Health, che aveva seguito il nostro lavoro con i
bambini e che ora ci chiedeva di formare un’unità di crisi comunitaria per
l’area di Boston. Tutto ciò era suf ciente a coprire le nostre spese di base,
mentre al resto provvedeva un gruppo professionale molto attivo, che
apprezzava ciò che stavamo facendo, ivi compreso il potere, recentemente
scoperto, dell’EMDR nel curare alcuni dei pazienti che non eravamo stati
in grado di aiutare prima.
I miei colleghi e io cominciammo a condividere le videoregistrazioni
delle sedute EMDR con i pazienti con PTSD, che ci consentivano di
osservare incredibili miglioramenti, settimana dopo settimana.
Cominciammo così a misurare formalmente i loro progressi su una rating
scale PTSD standardizzata. Prendemmo accordi con Elizabeth Matthew,
una giovane specialista in neuroimaging presso il New England Deaconess
Hospital, per avere dodici scansioni cerebrali dei pazienti, prima e dopo il
trattamento. Appena dopo tre sedute di EMDR, otto su dodici
mostravano un signi cativo decremento nel loro punteggio PTSD. Sulle
loro scansioni potevamo vedere un evidente incremento nell’attivazione
del lobo prefrontale dopo il trattamento, così come una maggiore attività
nel cingolato anteriore e nei gangli della base. Questo cambiamento
rendeva conto della modalità differente di esperire ora il loro trauma.
Un uomo disse: “Lo ricordo come se fosse qualcosa di reale, ma più
distante. Di solito, ero sommerso dal ricordo, mentre questa volta
galleggio in super cie. Ho la sensazione di essere in controllo”. Una
donna ci disse: “Prima, sentivo ciascun passaggio del ricordo. Ora è come
se fosse intero, invece che frammentato, e, quindi, più affrontabile”. Il
trauma aveva perso la sua immediatezza, diventando una storia di
qualcosa accaduto tanto tempo prima.
Di conseguenza, ci assicurammo dei nanziamenti dal National
Institutes of Mental Health, per confrontare gli effetti dell’EMDR con
dosi standard di Prozac o placebo.2 Dei nostri 88 pazienti, 30 furono
trattati con EMDR, a 28 fu somministrato il Prozac e al resto il placebo.
Dopo otto settimane, il loro miglioramento del 42% fu maggiore di quello
ottenuto con altri trattamenti etichettati come evidence based.
Il gruppo Prozac fece leggermente meglio di quello placebo, ma di poco.
Questo è tipico della maggior parte degli studi sui farmaci per il PTSD:
semplicemente si evidenzia un miglioramento che va dal 30 al 42%;
quando i farmaci funzionano, si aggiunge un’ulteriore percentuale, che
varia dal 5 al 15%. Tuttavia, i pazienti trattati con l’EMDR evidenziavano
risultati migliori di quelli curati con Prozac e con il placebo: dopo otto
sedute di EMDR, un paziente su quattro era sostanzialmente guarito (il
punteggio PTSD si era assestato su livelli trascurabili), rispetto all’uno su
dieci del gruppo Prozac. Ma la differenza sostanziale si evidenziava nel
tempo: intervistando i nostri soggetti otto mesi dopo, il 60% di coloro che
erano stati trattati con EMDR segnalava una guarigione completa. Come
disse il grande psichiatra Milton Erickson, una volta spostato il tronco, il
ume inizia a uire. Non appena le persone cominciano a integrare i
ricordi traumatici, continuano a migliorare spontaneamente. Di contro,
tutti coloro che assumono il Prozac sono inclini a ricadute dopo la
sospensione del trattamento farmacologico.
Questo studio è stato signi cativo perché ha dimostrato che una terapia
trauma-speci ca, focalizzata sul PTSD, come l’EMDR, poteva essere
molto più ef cace dei farmaci. Altri studi hanno confermato che, se i
pazienti assumono il Prozac, o altri farmaci simili come Celexa, Paxil e
Zoloft, i sintomi del PTSD spesso migliorano, ma soltanto in
concomitanza con la terapia farmacologica, e questo rende tale terapia
molto più dispendiosa sul lungo termine (è interessante che, a dispetto del
fatto che il Prozac sia uno dei maggiori antidepressivi, il nostro studio
abbia dimostrato che l’EMDR produce, altresì, una maggiore riduzione
dei punteggi relativi alla depressione rispetto all’assunzione di
antidepressivi).
Un altro risultato essenziale della nostra ricerca è il seguente: gli adulti
con storie di trauma nell’infanzia rispondevano in modo molto diverso al
trattamento EMDR rispetto a coloro che erano stati traumatizzati da
adulti. Alla ne delle otto settimane, circa la metà del gruppo dei pazienti
traumatizzati da adulti, trattati con EMDR, appariva completamente
guarita, mente soltanto il 9% del gruppo di coloro che erano stati abusati
da bambini mostrava un miglioramento così evidente. Otto mesi più tardi,
il tasso di guarigione del gruppo di pazienti traumatizzati da adulti era del
73%, a confronto con il 25% di quelli con storie di abuso infantile. Il
gruppo di pazienti abusati da bambini aveva piccole ma sostanzialmente
positive risposte al Prozac.
Questi risultati rinforzano quelli riportati nel capitolo 9: l’abuso cronico
nell’infanzia provoca differenze sostanziali, nell’adattamento mentale e
biologico, rispetto a eventi traumatici circoscritti in età adulta. L’EMDR è
un trattamento potente per i ricordi traumatici bloccati, ma non risolve
necessariamente gli effetti del tradimento e dell’abbandono, che
accompagnano l’abuso sico e sessuale durante l’infanzia. Otto settimane
di terapia di qualsiasi tipo raramente sono suf cienti a risolvere l’eredità
di un trauma di così lungo corso.
Dal 2014, il nostro studio EMDR aveva il risultato più positivo di ogni
altro studio pubblicato su persone che avevano sviluppato un PTSD, a
seguito di un evento traumatico occorso in età adulta. Ma, a dispetto di
questi risultati e di quelli di una dozzina di altri studi, molti dei miei
colleghi continuano a essere scettici riguardo all’EMDR, forse perché
sembra troppo bello per essere vero, troppo semplice per essere potente:
posso comprendere questo tipo di scetticismo poiché l’EMDR è una
procedura inusuale. È interessante notare che, dal primo studio scienti co
di rilievo, che sottoponeva all’EMDR alcuni veterani in servizio con
PTSD, ci si aspettava che l’EMDR sarebbe stato così poco ef cace da
essere considerato una condizione di controllo e di confronto con la
terapia del rilassamento assistita con biofeedback. Con sorpresa dei
ricercatori, dodici sedute di EMDR si rivelavano essere il trattamento più
ef cace.3 L’EMDR è diventato, da allora, uno dei trattamenti per il PTSD
autorizzati dal Department of Veterans Affairs.
Associazione e integrazione
Al contrario delle terapie espositive tradizionali, l’EMDR dedica
veramente poco tempo alla fase di “rivisitazione” del trauma originale. Il
trauma in sé è certamente il punto di partenza, ma il focus è sullo
stimolare e aprire i processi associativi. Come il nostro studio
Prozac/EMDR ha messo in evidenza, i farmaci possono af evolire le
immagini e le sensazioni di terrore, che, tuttavia, rimangono incorporate
nella mente e nel corpo. Al contrario dei soggetti che miglioravano con il
Prozac, i cui ricordi erano solamente indeboliti, non integrati come un
evento che è accaduto nel passato e che ora produce una forte ansia, quelli
trattati con l’EMDR non rivivevano più le tracce distintive del trauma: era
diventata la storia di un terribile evento, accaduto molto tempo prima.
Come mi ha detto uno dei miei pazienti, facendo un gesto sprezzante con
la mano: “È nita”.
Non sappiamo ancora in che modo funziona l’EMDR, e lo stesso vale
per il Prozac. Il Prozac ha un effetto sulla serotonina, ma è ancora da
chiarire se i suoi livelli si alzano o si abbassano e in quali cellule del
cervello, e perché ciò fa sì che le persone si sentano meno spaventate. Noi
probabilmente non sappiamo precisamente perché parlare con un amico
dato ci dia un profondo sollievo, e mi sorprendo del fatto che poche
persone siano interessate ad approfondire questa materia.19
I clinici hanno soltanto un obbligo: fare qualunque cosa possa aiutare i
loro pazienti a stare meglio. A fronte di ciò, la pratica clinica è sempre
stata un ricettacolo di sperimentazioni. Alcuni esperimenti falliscono, altri
hanno successo, e altri, come l’EMDR, la Terapia comportamentale
dialettica e la Terapia dei sistemi familiari interni, stanno cambiando il
modo di fare terapia. Per validare tutti questi trattamenti occorrono
decenni, e il processo è intralciato dal fatto che i nanziamenti di ricerca
vengano elargiti a metodi che hanno già dimostrato di funzionare. Ma mi
consola molto il pensiero della storia della penicillina: sono intercorsi
circa quarant’anni tra la scoperta delle sue proprietà antibiotiche da parte
di Alexander Fleming, nel 1928, e la dimostrazione nale dei suoi
meccanismi, nel 1965.
1. F. Shapiro, M.S. Forrest (1997), EMDR: una terapia innovativa per il superamento dell’ansia,
dello stress e dei disturbi di origine traumatica, tr. it. Astrolabio, Roma 1998.
2. B.A. van der Kolk, J. Spinazzola, M.E. Blaustein, J.W. Hopper, E.K. Hopper, D.L. Korn, W.B.
Simposon (2007), “A randomized clinical trial of Eye Movement Desensitization and Reprocessing
(EMDR), uoxetine, and pill placebo in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder:
Treatment effects and long-term maintenance”, in Journal of Clinical Psychiatry, 68(1), pp. 37-46.
3. J.C. Carlson, C.M. Chetomb, K. Rusnak, N.L. Hedlund, M.Y. Muraoka (1998), “Eye Movement
Desensitization and Reprocessing (EDMR) treatment for combat-related Post-traumatic Stress
Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 11(1), pp. 3-24.
4. J.D. Payne, R. Propper, M.P. Walker, R. Stickgold (2006), “Sleep increases false recall of
semantically related words in the Deese-Roediger-McDermott Memory Task”, in Sleep, 29, p.
A373.
5. B.A. van der Kolk, C.P. Ducey (1989), “The psychological processing of traumatic experience:
Rorschach patterns in PTSD”, in Journal of Traumatic Stress, 2 (3), pp. 259-274.
6. M. Jouvet (1999), The Paradox of Sleep: The Story of Dreaming, MIT Press Cambridge, MA.
7. R. Greenwald (1995), “Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR): A new kind
of dreamwork?”, in Dreaming, 5(1), pp. 51-55.
8. R. Cartwright, E. Baher, J. Kirby, S.T. Pandi-Permural, J. Kabat (2003), “REM sleep reduction,
mood regulation and remission in untreated depression”, in Psychiatry Research, 121(2), pp. 159-
167. Vedi, inoltre, R. Cartwright, A. Luten, M. Young, P. Mercer, M. Bears (1998), “Role of REM
sleep and dream affect in overnight mood regulation: A study of normal volunteers”, in Psychiatry
Research, 81(1), pp. 1-8.
9. R. Greenberg, C.A. Pearlman, D. Gampel (1972), “War neuroses and the adaptive function of
REM sleep”, in British Journal of Medical Psychology, 45(1), pp. 27-33. Ramon Greenberg e
Chester Pearlman, così come il nostro laboratorio, trovarono che i veterani si svegliano non appena
entrano in fase REM. Molte persone traumatizzate fanno uso di alcol e di droga per riuscire a
dormire. Queste sostanze, tuttavia, impediscono loro di trarre pieno bene cio dai sogni
(l’integrazione e la trasformazione della memoria) e di guarire dal PTSD.
10. B.A. van der Kolk, R. Blitz, W. Burr, S. Sherry, E. Hartmann (1984), “Nightmares and trauma:
A comparison of nightmares after combat with lifelong nightmares in veterans”, in American
Journal of Psychiatry, 141(2), pp. 187-190.
11. N. Breslau, T. Roth, L. Rosenthal, P. Andreski (1996), “Sleep disturbance and psychiatric
disorders: A longitudinal epidemiological study of young adults”, in Biological Psychiatry, 39(6),
pp. 411-418.
12. R. Stickgold, L. Scott, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1999), “Sleep-induced changes in
associative memory”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 11(2), pp. 182-193. Vedi anche R.
Stickgold (2007), “Of sleep, memories and trauma”, in Nature Neuroscience, 10(5), pp. 540-542;
B.B. Rasch, C. Buchel, S. Gais, J. Born (2007), “Odor cues during slow-wave sleep prompt
declarative memory consolidation”, in Science, 315(5817), pp. 1426-1429.
13. E.J. Wamsley, M. Tucker, J.D. Payne, J.A. Benavides, R. Stickgold (2005), “Dreaming of a
learning task is associated with enhanced sleep-dependent memory consolidation”, in Current
Biology, 20(9), pp. 850-855.
14. R. Stickgold (2005), “Sleep-dependent memory consolidation”, in Nature, 437, pp. 1272-1278.
15. R. Stickgold, L. Scott, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1999), “Sleep-induced changes in
associative memory”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 11(2), pp. 182-193.
16. J. Williams, J. Merritt, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1992), “Bizarreness in dreams and
fantasies: Implications for the activation-synthesis hypothesis”, in Consciousness and Cognition,
1(2), pp. 172-185.
17. M.P. Walker, C. Liston, J.A. Hobson, R. Stickgold (2002), “Cognitive exibility across the
sleep-wake cycle: REM-sleep enhancement of anagram problem solving”, in Cognitive Brain
Research, 14, pp. 317-324.
18. R. Stickgold (2002), “EMDR: A putative neurobiological mechanism of action”, in Journal of
Clinical Psychology, 58, pp. 61-75.
19. Ci sono numerosi studi su come i movimenti oculari facilitino l’elaborazione e la
trasformazione delle memorie traumatiche. M. Sack (2008), “Alterations in autonomic tone during
trauma exposure using Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) - Results of a
preliminary investigation”, in Journal of Anxiety Disorders, 22(7), pp. 1264-1271; L. Bossini, A.
Fagiolini, P. Castrogiovanni (2007), “Neuroanatomical changes after Eye Movement
Desensitization and Reprocessing (EMDR) treatment in Post-traumatic Stress Disorder”, in The
Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences, 19 (4), pp. 475-476; P. Levine, S. Lazrove,
B.A. van der Kolk (1999), “What psychological testing and neuroimaging tell us about the
treatment of Post-traumatic Stress Disorder by Eye Movement Desensitization and Reprocessing”,
in Journal of Anxiety Disorders, 13n (1-2), pp. 159-172; M.L. Harper, T. Rasolkhani Kalhorn, J.F.
Drozd (2009), “On the neural basis of EMDR therapy: Insights from QEEG studies”, in
Traumatology 15(2), pp. 81-95; K. Lansing, D.G. Amen, C. Hanks, L. Rudy (2005), “High
resolution brain SPECT imaging and Eye Movement Desensitization and Reprocessing in police
of cers with PTSD”, in The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences, 17(4), pp. 526-
532; T. Ohtani, K. Matsuo, K. Kasai, T. Kato, N. Kato (2009), “Hemodynamic responses of Eye
Movement Desensitization and Reprocessing in Post-traumatic Stress Disorder”, in Neuroscience
Research, 65(4), pp. 375-383; M. Pagani, G. Högberg, D. Salmaso, D. Nardo, Ö. Sundin, C.
Jonsson, T. Hällström (2007), “Effects of EMDR psychotherapy on 99mtc-HMPAO distribution in
occupation-related Post-Traumatic Stress Disorder”, in Nuclear Medicine Communications, 28, pp.
757-765; H.P. Söndergaard, U. Elofsson (2008), “Psychophysiological studies of EMDR”, in
Journal of EMDR Practice and Research, 2(4), pp. 282-288.
16
Imparare
ad abitare il proprio corpo
La pratica yoga
La prima volta che vidi Annie, era sprofondata su una sedia nella mia sala
d’aspetto, indossava jeans sbiaditi e una t-shirt viola di Jimmy Cliff. Le sue
gambe tremavano visibilmente e mantenne lo sguardo sso sul pavimento,
anche dopo il mio invito a entrare. Avevo pochissime informazioni su di
lei: aveva quarantasette anni e insegnava a bambini con bisogni speciali. Il
suo corpo comunicava in modo evidente che era troppo terrorizzata per
impegnarsi in una conversazione – o anche per fornire alcune
informazioni di base, come il suo indirizzo o il suo piano assicurativo. Le
persone così spaventate non riescono a pensare in modo lineare e qualsiasi
richiesta venga fatta loro, provoca un’ulteriore chiusura. Se mostriamo un
atteggiamento insistente, il rischio è che queste persone scappino e che
non si facciano più vedere.
Dopo essersi trascinata nel mio studio, Annie se ne stava in piedi,
respirando a fatica: sembrava un uccello congelato. Sapevo che non
avremmo potuto fare nulla nché non fossi riuscito ad aiutarla a calmarsi.
Mi spostai a due metri di distanza da lei e, assicurandomi che avesse libero
accesso alla porta, la incoraggiai a fare dei respiri leggermente più
profondi. Respiravo con lei e le chiesi di seguire il mio esempio,
sollevando delicatamente le braccia dai miei anchi, mentre lei inspirava,
e abbassandole, quando lei espirava: una tecnica di qigong, insegnatami
da uno dei miei studenti cinesi. Seguiva i miei movimenti di sottecchi, con
gli occhi sempre ssi sul pavimento e trascorremmo, in questo modo,
circa mezz’ora. Di tanto in tanto, con tranquillità, le chiedevo di prestare
attenzione a come sentiva i piedi sul pavimento, notando l’espansione e la
contrazione del suo petto, a ogni respiro. Il suo respiro si fece, pian piano,
più lento e profondo, il suo viso si addolcì, la schiena si raddrizzò un po’ e
riuscì a sollevare lo sguardo, più o meno al livello del mio pomo d’Adamo.
Si cominciava a intravedere la persona che si nascondeva dietro quel
terrore travolgente. Alla ne, più rilassata, mi mostrò il barlume di un
sorriso, una sorta di riconoscimento del fatto che occupassimo entrambi
quella stanza. Le suggerii di fermarci lì, almeno per il momento – le avevo
già fatto troppe richieste – e le chiesi se volesse tornare una settimana più
tardi. Annuì, borbottando: “Sei piuttosto bizzarro”.
Dopo aver conosciuto meglio Annie, cominciai a dedurre, in base agli
appunti che aveva scritto e ai disegni che mi aveva dato, che, da bambina
molto piccola, fosse stata abusata in modo brutale, sia dal padre sia dalla
madre. L’intera storia veniva raccontata con gradualità, poiché Annie
aveva imparato a rievocare lentamente alcune delle cose che le erano
accadute, senza che il suo corpo fosse dirottato verso un’ansia
incontrollabile.
Appresi che Annie era straordinariamente preparata e attenta nel suo
lavoro con i bambini con bisogni speciali (testai alcune delle tecniche che
mi aveva spiegato sui bambini del nostro ambulatorio e si rivelarono
estremamente ef caci). Parlava liberamente dei bambini cui insegnava, ma
si interrompeva immediatamente appena si toccava l’argomento delle sue
relazioni con gli adulti. Sapevo che era sposata, ma raramente faceva
menzione del marito. Reagiva, spesso, ai disaccordi o agli scontri
azzerando la mente. Ricorreva ai tagli sulle braccia e sul petto, per gestire
il vissuto di essere travolta dalle emozioni. Aveva trascorso anni in terapie
di vario genere e aveva provato molti farmaci diversi, che si erano
dimostrati poco ef caci nella cura delle sensazioni generate da un passato
terribile. Aveva subito anche numerosi ricoveri in ospedali psichiatrici, a
fronte delle condotte autolesive, senza bene ci visibili.
Nelle nostre prime sedute di terapia, dato che Annie poteva solo
accennare a quello che stava provando e pensando prima di chiudersi e
raggelarsi, ci concentravamo su modalità atte a calmare il caos siologico
interno. Abbiamo utilizzato tutte le tecniche che avevo imparato nel corso
degli anni, come il respirare focalizzando l’attenzione sull’espirazione, in
modo da attivare il sistema nervoso parasimpatico, che produce
rilassamento. Le insegnai anche come premere con le dita su una sequenza
di punti di agopressione su varie parti del suo corpo, una pratica spesso
insegnata con il nome di EFT (Emotional Freedom Technique), che si era
rivelata utile per aiutare i pazienti a rimanere all’interno della nestra di
tolleranza e che, spesso, aveva avuto effetti positivi sui sintomi del PTSD.1
L’ottundimento interno
Il ricordo dell’impotenza può essere immagazzinato sotto forma di
tensione muscolare o di sensazioni di frammentazione delle zone corporee
coinvolte: la testa, la schiena e gli arti nelle vittime di incidenti, la vagina e
il retto nelle vittime di abusi sessuali. Le vite di molti sopravvissuti al
trauma iniziano a ruotare attorno al trattenere e al neutralizzare
esperienze sensoriali indesiderate: molte persone che ho incontrato nella
mia pratica clinica si sono trasformate in veri e propri esperti dello
stordimento di se stessi.
Queste persone possono diventare gravemente obese o anoressiche, o
dipendenti dall’esercizio sico o dal lavoro. Almeno la metà delle persone
traumatizzate cerca di offuscare il proprio mondo interno intollerabile con
droghe o alcol. L’altra faccia del numbing è la ricerca di emozioni forti.
Molte persone si tagliano per eliminare la sensazione di essere obnubilate,
mentre altre provano il bungee jumping o attività ad alto rischio, come la
prostituzione e il gioco d’azzardo. Ognuno di questi metodi può dare un
illusorio e paradossale senso di controllo.
Quando le persone sono cronicamente arrabbiate o spaventate, la
tensione muscolare costante, alla ne, porta a spasmi, mal di schiena,
emicrania, bromialgia e altre forme di dolore cronico. Queste persone
possono farsi visitare da più specialisti, sottoporsi a numerosi test
diagnostici e farsi prescrivere molti farmaci, alcuni dei quali portano a un
sollievo temporaneo, ma tutto ciò non riesce a risolvere il problema di
fondo. La diagnosi inizierà a de nire la loro realtà, senza che venga mai
identi cata come un sintomo del tentativo di far fronte al trauma subito.
I primi due anni della mia terapia con Annie sono serviti ad aiutarla a
imparare a tollerare le sue sensazioni siche per quello che erano: solo
sensazioni nel presente, con un inizio, una parte centrale e una ne.
Lavorammo insieme af nché riuscisse a stare suf cientemente calma da
poter prestare attenzione a ciò che sentiva, in modo non giudicante,
arrivando a identi care le immagini intrusive e i vissuti correlati come
residui di un passato terribile e non come minacce senza ne alla sua vita
odierna.
I pazienti come Annie ci inducono continuamente a trovare nuovi modi
per aiutarli a regolare l’attivazione e a controllare la loro siologia. Questo
è il motivo per cui i miei colleghi del Trauma center e io ci siamo orientati
sulle pratiche yoga.
Imparare l’autoregolazione
Dopo il successo dei nostri studi pilota, mettemmo a punto un
programma terapeutico di yoga presso il Trauma Center. Pensavo potesse
essere un’opportunità per Annie, così da sviluppare una maggiore
attenzione al suo corpo, e la spinsi a provare. La prima lezione si era
rivelata dif cile: il solo fatto di essere stata corretta dall’istruttore l’aveva
terrorizzata, tanto da tagliarsi, una volta arrivata a casa: il suo sistema di
allarme interpretava come un’aggressione anche un tocco leggero sulla sua
schiena. Al tempo stesso, Annie intuiva che lo yoga le avrebbe potuto
offrire un modo per liberarsi dal costante senso di pericolo che sentiva nel
corpo. Con il mio incoraggiamento, decise di tornare la settimana
successiva.
Annie aveva sempre trovato più facile scrivere delle sue esperienze,
piuttosto che parlarne. Dopo la sua seconda lezione di yoga, mi scrisse:
“Non so bene perché lo yoga mi terrorizzi così tanto, ma so che sarà una
incredibile risorsa per la mia guarigione e questo è il motivo per cui sto
lavorando su me stessa, per provarci ancora. Lo yoga è un guardare verso
l’interno anziché verso l’esterno, ascoltando il mio corpo; molta della mia
sopravvivenza, nora, si è costruita intorno all’evitare questa cosa.
Andando a lezione, oggi, il mio cuore scoppiava e una parte di me
avrebbe davvero voluto tornare indietro, ma ho messo un piede davanti
all’altro, no alla porta, e sono entrata. Dopo la lezione, sono andata a
casa e ho dormito per quattro ore. Questa settimana ho provato a fare
yoga a casa e le parole che mi sono venute sono: ‘il tuo corpo ha qualcosa
da dire’ e mi sono risposta: ‘proverò ad ascoltarlo’”.
Pochi giorni dopo, Annie scrisse: “Alcune ri essioni durante e dopo la
lezione yoga di oggi: mi ha fatto capire quanto devo essere scollegata dal
mio corpo, mentre mi taglio; mentre eseguivo le posizioni, ho notato di
avere la mascella serrata e di sentirmi chiusa e tesa in tutta l’area che va
dall’inguine all’ombelico, che è anche il luogo in cui trattengo il dolore e i
ricordi. Talvolta, mi hai chiesto dove sentissi le cose e io non ero
nemmeno in grado di localizzarle, ma oggi ho percepito quelle zone molto
chiaramente e mi è venuta voglia di piangere, in modo molto calmo”.
Durante il mese successivo di vacanza, Annie, su mia richiesta, mi scrisse
ancora: “Ho fatto yoga, da sola, in una stanza che si affaccia sul lago. Sto
continuando a leggere il libro che mi hai prestato (di Stephen Cope, il
meraviglioso Yoga and the Quest of True Self). È davvero interessante
pensare a quanto io abbia ri utato di ascoltare il mio corpo, che è una
parte importante di ciò che sono. Ieri, quando ho fatto yoga, ho pensato
di lasciare che il mio corpo mi raccontasse la storia che voleva raccontare
e, nella posizione dell’apertura dell’anca, c’erano molto dolore e tristezza.
Non credo che la mia mente lascerà che emergano immagini davvero
vivide nché sono lontana da casa, e questo è un bene. Ora penso a
quanto non fossi equilibrata e a quanto fortemente io abbia provato a
negare il passato, che è parte del mio vero sé. Ci sono tante cose che posso
imparare e, se mi apro a esse, non dovrò lottare contro me stessa ogni
minuto di ogni giorno”.
Una delle posizioni yoga più dif cili da tollerare per Annie era quella
spesso chiamata happy baby (corrisponde a ananda balasana), nella quale
ci si sdraia sulla schiena con le ginocchia completamente piegate, con le
piante dei piedi rivolte al sof tto, e si afferrano gli alluci con le mani.
Questo porta il bacino ad aprirsi ampiamente. È facile capire perché
questa posizione possa far sentire estremamente vulnerabile una vittima di
stupro. Ancora, ntanto che happy baby (o qualsiasi asana che le
assomigli) innesca un panico intenso, è dif cile vivere l’intimità. Imparare
a praticare in tranquillità happy baby è una s da per molti pazienti nelle
nostre lezioni di yoga.
Imparare a comunicare
Sentirsi al sicuro nel proprio corpo permette di iniziare a mettere in
parole i ricordi dolorosi. Dopo aver praticato yoga tre volte alla settimana
per un anno, Annie cominciava a notare di riuscire a parlarmi molto più
liberamente di ciò che le era accaduto: sentiva tutto questo come se fosse
un miracolo. Un giorno, dopo aver fatto cadere un bicchiere d’acqua, mi
alzai dalla mia sedia e, avvicinandomi a lei con una scatola di Kleenex,
dissi: “Lascia che pulisca”. Per un attimo, provò una sensazione di panico
intenso, ma riuscì a contenersi e a pensare al perché quelle parole le
avessero provocato una reazione così forte: erano le stesse che le aveva
detto suo padre dopo averla violentata.
Annie, dopo quella seduta, mi scrisse: “Hai notato che sono stata in
grado di dire le parole ad alta voce? Non ho dovuto scriverle per
comunicarti quello che stava accadendo. Ho mantenuto la ducia in te
nonostante quelle parole mi avessero attivato. Ho capito che quelle parole
avevano sollecitato qualcosa in me e che non si trattava di parole orribili,
che nessuno al mondo dovrebbe mai pronunciare”.
Annie continua a praticare yoga e a scrivermi in merito alle sue
esperienze: “Oggi sono andata a una lezione, al mattino, nella mia nuova
scuola di yoga. L’insegnante ha detto di respirare n dove ci era possibile,
notando i nostri limiti. Ha detto che, nel momento in cui portiamo
l’attenzione al respiro, siamo nel presente, perché non possiamo respirare
nel futuro o nel passato. È stato stupefacente per me praticare la
respirazione in questo modo, dopo averne appena parlato, come un
regalo. Alcune posizioni possono fungere da trigger. Due di queste erano
incluse nella lezione oggi: una, che implica il tenere le gambe sollevate,
come quelle di una rana, e un’altra che prevede una respirazione
profonda, no alle pelvi. Ho provato un principio di panico, soprattutto
durante la respirazione, come a dire: ‘oh no, questa non è una parte del
mio corpo che voglio sentire’. Ma poi sono riuscita a fermarmi e a dirmi:
osserva questa parte del tuo corpo, che sta trattenendo le esperienze e,
quindi, lasciale andare. Non devi stare lì, ma non devi nemmeno
andartene, usale semplicemente come informazioni. Non so se sono mai
stata in grado di farlo in un modo così consapevole. Mi ha fatto pensare
che, se io osservo senza esserne così spaventata, sarà più facile, per me,
credere in me stessa”.
In un altro messaggio, Annie ri etteva sui cambiamenti nella sua vita:
“Ho lentamente e semplicemente imparato a provare i miei sentimenti,
senza esserne travolta. La vita è più gestibile: sono più sintonizzata sulle
mie giornate e più presente nel momento. Tollero di più il contatto sico.
Mio marito e io stiamo cominciando a provare piacere nel guardare i lm
accoccolati insieme nel letto… un grande passo. Tutto ciò mi ha permesso
di stare bene, in intimità con lui”.
1. L’agopuntura e l’agopressione sono tecniche ampiamente utilizzate dai clinici che si occupano di
trauma, e stanno iniziando a essere sistematicamente studiate come trattamento clinico per il
PTSD. M. Hollifield, N. Sinclair-Lian, T. Warner, R. Hammerschlag (2007), “Acupuncture for
Post-traumatic Stress Disorder: A randomized controlled pilot trial”, in Journal of Nervous and
Mental Disease, 195(6), pp. 504-513. Gli studi che hanno utilizzato la fMRI al ne di misurare gli
effetti dell’agopuntura sulle aree cerebrali associate alla paura evidenziano che questa tecnica
produce rapide regolazioni in queste regioni cerebrali. K.K. Hui, J. Liu, O. Marina, V. Napadow,
C. Haselgrove, K.K. Kwong (2005), “The integrated response of the human cerebro-cerebellar and
limbic systems to acupuncture stimulation at ST 36 as Evidenced by fMRI”, in NeuroImage, 27,
pp. 479-496; J. Fang, Z. Jin, Y. Wang, K. Li, J. Kong, E.E. Nixon, Y. Zeng, Y. Ren, H. Tong, Y.
Wang, P. Wang, K.K. Hui (2009), “The salient characteristics of the central effects of acupuncture
needling: Limbic-paralimbic-neocortical network modulation”, in Human Brain Mapping, 30, pp.
1196-1206; D. Feinstein (2010), “Rapid treatment of PTSD: Why psychological exposure with
acupoint tapping may be effective”, in Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 47(3),
pp. 385-402; D. Church, C. Hawk, A. Brooks, O. Toukolehto, M. Wren, I. Dinter, P. Stein (2013),
“Psychological trauma symptom improvement in veterans using EFT (Emotional Freedom
Technique): A randomized controlled trial”, in Journal of Nervous and Mental Disease, 201, pp.
153-160; D. Church, G. Yount, A.J. Brooks (2012), “The effect of Emotional Freedom Techniques
(EFT) on stress biochemistry: A randomized controlled trial”, in Journal of Nervous and Mental
Disease, 200, pp. 891-896; R.P. Dhond, N. Kettner, V. Napadow (2007), “Neuroimaging
acupuncture effects in the human brain”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine,
13, pp. 603-616; K.K. Hui, J. Liu, N. Makris, R.L. Gollub, A.J. Chen, C.I. Moore, D.N. Kennedy,
B.R. Rosen, K.K. Kwong (2000), “Acupuncture modulates the limbic system and subcortical gray
structures of the human brain: Evidence from fMRI Studies in normal subjects”, in Human Brain
Mapping, 9, pp. 13-25.
2. M. Sack, J.W. Hopper, F. Lamprecht (2004), “Low respiratory sinus arrhythmia and prolonged
psychophysiological arousal in Post-traumatic Stress Disorder: Heart rate dynamics and individual
differences in arousal regulation”, in Biological Psychiatry, 55(3), pp. 284-290. Vedi anche H.
Cohen, M. Kotler, M.A. Matar, Z. Kaplan, U. Loewenthal, H. Miodownik, Y. Cassuto (1998),
“Analysis of heart rate variability in Post-traumatic Stress Disorder patients in response to a
trauma-related reminder”, in Biological Psychiatry, 44(10), pp. 1054-1059; H. Cohen, Z. Kaplan,
M.A. Matar, U. Loewenthal, J. Zohar, G. Richter-Levin (2007), “Long-lasting behavioral effects of
juvenile trauma in an animal model of PTSD associated with a failure of the autonomic nervous
system to recover”, in European Neuropsychopharmacology, 17(6), pp. 464-477; H. Wahbeh, B.S.
Oken (2013), “Peak high-frequency HRV and peak alpha frequency higher in PTSD”, in Applied
Psychophysiology and Biofeedback, 38(1), pp. 57-69.
3. J.W. Hopper, J. Spinazzola, W.B. Simpson, B.A. van der Kolk (2006), “Preliminary evidence of
parasympathetic in uence on basal heart rate in Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of
Psychosomatic Research, 60(1), pp. 83-90.
4. Anche gli esperimenti condotti da Arieh Shalev presso la Hadassah Medical School a
Gerusalemme e da Roger Pitman a Harvard vanno in questa direzione: A.Y. Shalev, T. Peri, D.
Brandes, S. Freedman, S.P. Orr, R.K. Pitman (2000), “Auditory startle response in trauma
survivors with Post-traumatic Stress Disorder: A prospective study”, in American Journal of
Psychiatry, 157(2), pp. 255-61; R.K. Pitman, S.P. Orr, D.F. Forgue (1998), “Psychophysiologic
assessment of Post-traumatic Stress Disorder imagery in Vietnam combat veterans”, in Archives of
General Psychiatry, 44(11), pp. 970-975; A.Y. Shalev, T. Sahar, S. Freedman, T. Peri, N. Glick, D.
Brandes, S.P. Orr, R.K. Pitman (1998), “A prospective study of heart rate response following
trauma and the subsequent development of Post-traumatic Stress Disorder”, in Archives of General
Psychiatry, 55(6), pp. 553-559.
5. P. Lehrer, Y. Sasaki, Y. Saito (1999), “Zazen and cardiac variability”, in Psychosomatic Medicine,
61(6), pp. 812-821. Vedi anche R. Sovik (1999), “The science of breathing: The yogic view”, in
Progress in Brain Research, 122, pp. 491-505; P. Philippot, G. Chapelle, S. Blairy (2002),
“Respiratory feedback in the generation of emotion”, in Cognition & Emotion, 16(5), pp. 605-627;
A. Michalsen, P. Grossman, A. Acil, J. Langhorst, R. Ludtke, T. Esch, G. Stefano, G. Dobos
(2005), “Rapid stress reduction and anxiolysis among distressed women as a consequence of a
three-month intensive yoga program”, in Medical Science Monitor, 11(12), pp. 555-561; G.
Kirkwood, H. Rampes, V. Tuffrey, J. Richardson, K. Pilkington (2005), “Yoga for anxiety: A
systematic review of the research evidence”, in British Journal of Sports Medicine, 39, pp. 884-891;
K. Pilkington, G. Kirkwood, H. Rampes, J. Richardson (2005), “Yoga for depression: The research
evidence”, in Journal of Affective Disorders, 89, pp. 13-24; P. Gerbarg, R. Brown (2005), “Yoga: A
breath of relief for hurricane Katrina refugees”, in Current Psychiatry, 4, pp. 55-67.
6. B. Cuthbert, J. Kristeller, R. Simons, R. Hodes, P.J. Lang (1981), “Strategies of arousal control:
Biofeedback, meditation, and motivation”, in Journal of Experimental Psychology, 110, pp. 518-
546. Vedi anche S.B.S. Khalsa (2004), “Yoga as a therapeutic intervention: A bibliometric analysis
of published research studies”, in Indian Journal of Physiology and Pharmacology, 48, pp. 269-285;
M.M. Del Monte (1986), “Meditation as a clinical intervention strategy: A brief review”, in
International Journal of Psychosomatics, 33, pp. 9-12; I. Becker (2008), “Uses of yoga in psychiatry
and medicine”, in Complementary and Alternative Medicine and Psychiatry, vol. 19, American
Psychiatric Press, Washington, DC; L. Bernardi, C. Porta, L. Spicuzza, A. Gabutti (2001), “Slow
breathing reduces chemore ex response to hypoxia and hypercapnia, and increases barore ex
sensitivity”, in Journal of Hypertension, 19(12), pp. 2221-2229; R.P. Brown, P.L. Gerbarg (2005),
“Sudarshan Kriya yogic breathing in the treatment of stress, anxiety, and depression - Part I:
Neurophysiologic model”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 11, pp. 189-201;
R.P. Brown, P.L. Gerbarg (2005), “Sudarshan Kriya yogic breathing in the treatment of stress,
anxiety, and depression - Part II: Clinical applications and guidelines”, in Journal of Alternative and
Complementary Medicine, 11, pp. 711-717; C.C. Streeter, J.E. Jensen, R.M. Perlmutter, H.J. Cabral,
H. Tian, D.B. Terhune, P.F. Renshaw (2007), “Yoga asana sessions increase brain GABA levels: A
pilot study”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 13, pp. 419-426; C.C. Streeter,
T.H. Whitfield, L. Owen, T. Rein, S.K. Karri, A. Yakhind, R. Perlmutter, A. Prescot, S. Renshaw
(2010), “Effects of yoga versus walking on mood, anxiety, and brain GABA levels: A randomized
controlled MRS study”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 16, pp. 1145-1152.
7. Vi sono dozzine di articoli scienti ci che mostrano gli effetti positivi dello yoga relativamente a
diverse condizioni mediche. Il seguente elenco ne è un breve esempio: S.B. Khalsa (2004), “Yoga as
a therapeutic intervention”; P. Grossman, L. Neimann, S. Schmidt, H. Walach (2004),
“Mindfulness-based stress reduction and health bene ts: A meta-analysis”, in Journal of
Psychosomatic Research, 57, pp. 35-43; K. Sherman, J. Cherkin, J. Erro, D.L. Miglioretti, R.A. Deyo
(2005), “Comparing yoga, exercise, and a self-care book for chronic low back pain: A randomized,
controlled trial”, in Annals of Internal Medicine, 143, pp. 849-856; K.A. Williams, J. Petronis, D.
Smith, D. Goodrich, J. Wu, N. Ravi, E.J. Doyle, G. Juckett, M.M. Kolar, R. Gross, L. Steinberg
(2005), “Effect of iyengar yoga therapy for chronic low back pain”, in Pain, 115, pp. 107-117; R.B.
Saper, K. Sherman, D. Cullum-Dugan, R.B. Davis, R.S. Phillips, L. Culpepper (2009), “Yoga for
chronic low back pain in a predominantly minority population: A pilot randomized controlled
trial”, in Alternative Therapies in Health and Medicine, 15, pp. 18-27; J.W. Carson, K.M. Carson,
L.S. Porter, F.J. Keefe, H. Shaw, J.M. Miller (2007), “Yoga for women with metastatic breast
cancer: Results from a pilot study”, in Journal of Pain and Symptom Management, 33, pp. 331-341.
8. B.A. van der Kolk, L. Stone, L., J. West, A. Rhodes, D. Emerson, M. Suvak, J. Spinazzola
(2014), “Yoga as an adjunctive therapy for PTSD”, in Journal of Clinical Psychiatry, 75(6), pp. 559-
565.
9. Una società californiana, la HeartMath, ha sviluppato eccezionali dispositivi e giochi per
computer che riescono, in modo divertente ed ef cace, ad aiutare le persone a raggiungere una
migliore HRV. A oggi, nessuno ha veri cato se semplici dispositivi, come quelli messi a punto dalla
HeartMath, riescano a ridurre i sintomi del PTSD, ma potrebbe essere molto probabile (si
veda www.heartmath.org).
10. In questo momento, vi sono ventiquattro app disponibili su iTunes in grado di favorire
l’incremento dell’HRV, come emWave, HeartMath, e GPS4Soul.
11. B.A. van der Kolk (2006), “Clinical implications of neuroscience research in PTSD”, in Annals
of the New York Academy of Sciences, 1071(1), pp. 277-293.
12. S. Telles, C. Joseph, S. Venkatesh, T. Desiraju (1993), “Alterations of auditory middle latency
evoked potentials during yogic consciously regulated breathing and attentive state of mind”, in
International Journal of Psychophysiology, 14, 3, pp. 189-198. Vedi anche P.L. Gerbarg (2007),
“Yoga and neuro-psychoanalysis”, in Bodies in Treatment: The Unspoken Dimension, Analytic
Press, New York, pp. 127-150.
13. D. Emerson, E. Hopper (2011), Overcoming Trauma Through Yoga: Reclaiming Your Body.
North Atlantic Books, Berkeley, CA.
14. A. Damasio (1999), Emozioni e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano, 2000.
15. “Interocezione” è il termine scienti co che indica la capacità di percepirsi. Studi condotti
attraverso tecniche di brain imaging su soggetti traumatizzati hanno dimostrato più volte problemi
nelle aree cerebrali correlate alla consapevolezza sica di sé, in particolar modo nell’area
denominata insula. J.W. Hopper, P.A. Frewen, B.A. van der Kolk, R.A. Lanius (2007), “Neural
correlates of reexperiencing, avoidance, and dissociation in PTSD: Symptom dimensions and
emotion disregulation in responses to script-driven trauma imagery”, in Journal of Traumatic Stress,
20(5), pp. 713-725. Vedi anche I.A. Strigo, A.N. Simmons, S.C. Matthews, E.M. Grimes, C.B.
Allard, L.E. Reinhardt (2010), “Neural correlates of altered pain response in women with Post-
traumatic Stress Disorder from intimate partner violence”, in Biological Psychiatry, 68(5), pp. 442-
450; G.A. Fonzo, A.N. Simmons, S.R. Thorp, S.B. Norman, M.P. Paulus, M.B. Stein (2010),
“Exaggerated and disconnected insular-amygdalar blood oxygenation level-dependent response to
threat-related emotional faces in women with intimate-partner violence Post-traumatic Stress
Disorder”, in Biological Psychiatry, 68(5), pp. 433-441; P.A. Frewen, D.J.A. Dozois, R.W.J.
Neufeld, T.K. Stevens, R.A. Lanius (2010), “Social emotions and emotional valence during imagery
in women with PTSD: Affective and neural correlates”, in Psychological Trauma: Theory, Research,
Practice, and Policy, 2(2), pp. 145-157; K. Felmingham, A.H. Kemp, L. Williams, E. Falconer, G.
Olivieri, A. Peduto, R. Bryant (2008), “Dissociative responses to conscious and non-conscious fear
impact underlying brain function in Post-traumatic Stress Disorder”, in Psychological Medicine,
38(12), pp. 1771-1780; A.N. Simmons, M.P. Paulus, R.S. Thorp, S.C. Matthews, B. Sonya (2008),
“Functional activation and neural networks in women with Post-traumatic Stress Disorder related
to intimate partner violence”, in Biological Psychiatry, 64(8), pp. 681-690; R.J.L. Lindauer, J. Booij,
J.B.A. Habraken, E.P.M. van Meijel, H.B. Uylings, M. Olff (2008), “Effects of psychotherapy on
regional cerebral blood ow during trauma imagery in patients with Post-traumatic Stress
Disorder: A randomized clinical trial”, in Psychological Medicine, 38(4), pp. 543-554; A. Etkin,
T.D. Wager (2007), “Functional neuroimaging of anxiety: A meta-analysis of emotional processing
in PTSD, Social Anxiety Disorder, and Speci c Phobia”, in American Journal of Psychiatry,
164(10), pp. 1476-1488.
16. J.C. Nemiah, P.E. Sifneos (1970), “Psychosomatic illness: A problem in communication”, in
Psychotherapy and Psychosomatics, 18(1-6), pp. 154-160. Vedi anche G.Y. Taylor, R.M. Bagby,
J.D.A. Parker (1997), Disorders of Affect Regulation: Alexithymia in Medical and Psychiatric Illness,
Cambridge University Press, Cambridge.
17. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza. Sentire ciò che accade, tr. it. Adelphi, Milano 2000.
18. B.A. van der Kolk (2006), “Clinical implications of neuroscience research in PTSD”, in Annals
of the New York Academy of Sciences, 1071(1), pp. 277-293. Vedi anche B.K. Holzel, S.W. Lazar, T.
Gard, Z. Schuman-Olivier, D.R. Vago, U. Ott (2011), “How does mindfulness meditation work?
Proposing mechanisms of action from a conceptual and neural perspective”, in Perspectives on
Psychological Science, 6(6), pp. 537-559.
19. B.K. Holzel, J. Carmody, M. Vangel, C. Congleton, S.M. Yerramsetti, T. Gard, Z. Schuman-
Olivier, D.R. Vago, U. Ott (2011), “Mindfulness practice leads to increases in regional brain gray
matter density”, in Psychiatry Research: Neuroimaging, 191(1), pp. 36-43. Vedi anche B.K. Holzel,
J. Carmody, K.C. Evans, E.A. Hoge, J.A. Dusek, L. Morgan, R.K. Pitman, S.W. Lazar (2010),
“Stress reduction correlates with structural changes in the amygdala”, in Social Cognitive and
Affective Neuroscience, 5(1), pp. 11-17; S.W. Lazar, C.E. Kerr, R.H. Wasserman, J.R. Gray, D.N.
Greve, M.T. Treadway, M. McGarvey, B.T. Quinn, J.A. Dusek, H. Benson, S.L. Rauch, C.I. Moore,
B. Fischl (2005), “Meditation experience is associated with increased cortical thickness”, in
NeuroReport, 16, pp. 1893-1897.
17
Ero agli inizi della mia carriera e, da circa tre mesi, stavo seguendo Mary –
una giovane donna timida, sola e sicamente collassata – in psicoterapia a
cadenza settimanale, per curare gli effetti della sua terribile storia di abuso
infantile. Un giorno, aprendo la porta della sala d’attesa, la trovai sulla
soglia, in atteggiamento provocatorio, in minigonna, con i capelli tinti di
un rosso ammante, con una tazza di caffè in una mano e un sorriso
sarcastico sul volto: “Lei deve essere il Dr. Van der Kolk”, disse, “Io sono
Jane, e sono venuta ad avvisarla di non credere a nessuna delle bugie che
Mary le sta raccontando. Posso entrare a parlarle di lei?”. Ero sbalordito,
ma, fortunatamente, mi sono guardato bene dall’argomentare con lei e, al
contrario, decisi di ascoltare cosa avesse da dirmi. Nel corso della seduta,
oltre a Jane, incontrai anche una piccola bimba ferita e un adolescente
maschio arrabbiato. Fu l’inizio di un trattamento lungo e produttivo.
Mary fu il mio primo contatto con il Disturbo dissociativo dell’identità
(DID), all’epoca conosciuto come Disturbo di personalità multipla.
Sintomi così eclatanti, come la scissione interna e l’emergere di identità
distinte nel DID, rappresentano soltanto il polo estremo della vita
mentale. La sensazione di essere “abitati” da impulsi o parti con ittuali è
comune a tutti noi, ma, in modo particolare, alle persone traumatizzate,
che devono ricorrere a misure estreme per sopravvivere. Esplorare – e
anche farsi amiche – quelle parti è una componente essenziale del
processo di cura.
La mente è un mosaico
Tutti noi abbiamo delle parti. In questo preciso momento, una parte di me
sente di dover schiacciare un pisolino, mentre un’altra parte vuole
continuare a scrivere. Sentendosi ancora urtata da un messaggio e-mail
offensivo, una parte di me vuole digitare “rispondi”, inviando una
frecciatina pungente, mentre un’altra parte vuole ignorare la cosa. Molte
persone che mi conoscono hanno incontrato le mie parti emotive, sincere
e irritabili; alcune hanno avuto a che fare con il cucciolo ringhiante che c’è
in me. I miei gli ricordano di essere andati in vacanza con le mie parti
giocose e avventurose.
Quando si va in uf cio la mattina e si vedono nuvole tempestose sulla
testa del capo, si sa precisamente a cosa si sta andando incontro. Quella
parte arrabbiata ha un caratteristico tono di voce, un vocabolario e una
postura del tutto differenti da quelli del giorno prima, quando ci si è
trovati insieme a condividere le foto dei propri gli. Le parti non sono
solo sentimenti, ma modi distinti di essere, con le loro credenze, i loro
scopi e ruoli, all’interno dell’intera ecologia della vita.
Sentirci in armonia con noi stessi dipende in larga misura dalla capacità
di fruire di una guida interna e, cioè, da quanto bene ascoltiamo le diverse
parti di noi, assicurandoci che si sentano accudite ed evitando che si
sabotino l’una con l’altra. Le parti, spesso, danno l’impressione di essere
assolute, anche se, di fatto, rappresentano soltanto un aspetto della
complessa costellazione di pensieri, emozioni e sensazioni. Se Margaret,
nel bel mezzo di una discussione, grida: “Ti odio!”, Joe, probabilmente,
pensa che lo disprezzi e, in effetti, in quel preciso momento Margaret
sarebbe d’accordo. Ma, in realtà, soltanto una parte di lei è arrabbiata, e
quella parte oscura temporaneamente i suoi sentimenti generosi e
affettuosi, che potrebbero ritornare, nel momento in cui si accorge
dell’af izione nel viso di Joe.
Qualsiasi grande scuola di psicologia riconosce che le persone hanno
delle subpersonalità, a cui vengono conferiti nomi diversi.4 Nel 1890,
William James scriveva: “Si deve ammettere che… la consapevolezza deve
essere divisa in parti che coesistono e che si ignorano reciprocamente e
condividono gli oggetti della conoscenza tra di loro”.5 Carl Jung scriveva:
“La vita psichica, quale sistema autoregolantesi, è equilibrata come la vita
del corpo, cosicché per ogni iperfunzione si determinano tosto e
necessariamente delle compensazioni…”.6 “Lo stato naturale della psiche
umana consiste in una certa contrapposizione delle sue componenti e in
una certa contraddittorietà dei suoi comportamenti e, cioè, in una certa
dissociazione”7, e “La riconciliazione di questi opposti è un problema di
altissima importanza, che ha affaticato alcuni spiriti n dall’antichità…
poiché l’uomo legato somaticamente, ‘l’avversario’ , non è infatti altro che
‘l’altro me stesso’”.8
Le moderne neuroscienze hanno confermato questa visione della mente
come una sorta di società. Michael Gazzaniga, che condusse il primo
studio sull’emisezione cerebrale, aveva dimostrato che la mente è
composta da moduli di funzionamento semiautonomi, ciascuno dei quali
riveste un ruolo speciale.9 Nel suo libro Il cervello sociale (1985) l’autore
scrive: “Cosa dire dell’idea che il sé non è un’entità unica, ma che esistono
dentro di noi diversi regimi di coscienza?… Dai nostri studi
[sull’emisezione cerebrale] emerge una nuova idea: esistono letteralmente
diversi sé, che non ‘convergono’ necessariamente l’uno verso l’altro al loro
interno”.10 Lo scienziato del MIT Marvin Minsky, un pioniere
dell’intelligenza arti ciale, dichiarò: “La leggenda di un sé singolo può
soltanto farci deviare dall’obiettivo della ricerca del sé11… Da tutto ciò
segue che forse ha senso postulare l’esistenza, nel nostro cervello, di una
società di menti diverse. Come i membri di una famiglia, queste diverse
menti possono collaborare e aiutarsi a vicenda, pur avendo ciascuna le
proprie esperienze mentali, di cui le altre non sanno mai nulla”.12
I terapeuti formati a vedere le persone come esseri umani complessi, con
caratteristiche e personalità multiple, possono aiutare i pazienti a
esplorare i sistemi di parti interne e a prendersi cura degli aspetti feriti di
sé. Ci sono diversi approcci terapeutici, come il modello della
dissociazione strutturale, sviluppato dai miei colleghi olandesi Onno van
der Hart e Ellert Nijenhuis e da Kathy Steel a Atlanta, largamente
praticato in Europa, e il lavoro di Richard Kluft negli Stati Uniti.13
A vent’anni di dis