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it
Titolo originale
The Body Keeps the Score
© 2014 Bessel van der Kolk. All rights reserved, including the right
of reproduction in whole or in part in any form.
This edition published by arrangement with Viking, a member
of Penguin Group (USA) LLC, A Penguin Random House Company
Traduzione
Sara Francavilla e Maria Silvana Patti
Copertina
Studio CReE
© 2015 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 2015
Indice

Introduzione all’edizione italiana


(Maria Silvana Patti, Alessandro Vassalli)
Prologo. Affrontare il trauma

Parte prima
La riscoperta del trauma
1. Lezioni dai veterani del Vietnam
2. La rivoluzione nella comprensione della mente e del cervello
3. Scrutare il cervello. La rivoluzione delle neuroscienze

Parte seconda
Il cervello traumatizzato
4. Lottare per la propria vita. Anatomia della sopravvivenza
5. Connessioni corpo-cervello
6. Perdere il corpo, perdere se stessi

Parte terza
La mente dei bambini
7. Sulla stessa lunghezza d’onda. Attaccamento e sintonizzazione
8. Intrappolati nella relazione. Il costo dell’abuso e della trascuratezza
9. Cosa c’entra l’amore con tutto questo?
10. Il trauma in età evolutiva. L’epidemia nascosta

Parte quarta
L’impronta del trauma
11. Svelare i segreti. Le “falle” della memoria traumatica
12. L’insostenibile pesantezza del ricordare

Parte quinta
Percorsi di cura
13. Guarire dal trauma. Appropriarsi di sé
14. La parola. Miracolo e tirannia
15. Lasciare andare il passato. EMDR
16. Imparare ad abitare il proprio corpo. La pratica yoga
17. Mettere insieme i pezzi. Self-leadership
18. Colmare il vuoto. Creare le strutture
19. Ricablare il cervello. Neurofeedback
20. Alla scoperta della propria voce. Ritmi condivisi e teatro

Epilogo. Il momento delle scelte


Ringraziamenti
Appendice. Criteri di consenso proposti per il disturbo traumatico dello
sviluppo
Risorse
Letture aggiuntive
Ai miei pazienti,
che condividendo le memorie traumatiche
impresse nel corpo sono stati il mio manuale.
Prologo

Affrontare il trauma

Non bisogna essere un soldato o visitare un campo di rifugiati in Siria o in


Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade a noi, ai nostri amici,
alle nostre famiglie e ai nostri vicini. Una ricerca condotta dai Centers for
Disease Control and Prevention ha dimostrato che un americano su
cinque ha subito molestie sessuali da bambino; uno su quattro è stato
picchiato da un genitore tanto da riportare ferite visibili sul corpo e una
coppia su tre è coinvolta in violenze siche. Un quarto di noi è cresciuto
con genitori alcolisti e uno su otto ha assistito al pestaggio o al massacro
della propria madre.1
In quanto esseri umani, apparteniamo a una specie estremamente
resiliente. Nel corso dei secoli, siamo tornati alla normalità dopo guerre
implacabili, disastri di proporzioni enormi (sia naturali sia perpetrati per
mano dell’uomo), e dopo violenze e tradimenti vissuti nel corso della
nostra esistenza.
Le esperienze traumatiche lasciano, però, tracce sia su larga scala (nella
storia e nella cultura) sia nella quotidianità, all’interno delle nostre
famiglie, con segreti oscuri, tramandati in modo impalpabile nel corso
delle generazioni. Lasciano tracce anche nella mente e nelle emozioni,
nella nostra capacità di provare gioia e di entrare in intimità e, persino,
nella biologia e nel sistema immunitario.
Il trauma colpisce non solo chi ne è direttamente interessato, ma anche i
suoi cari. I soldati che ritornano a casa dalla guerra terrorizzano le loro
famiglie con la rabbia e l’assenza emotiva. Le mogli di uomini che
soffrono di PTSD tendono a diventare depresse e i gli di madri depresse
sono a rischio di crescere insicuri e ansiosi. Aver trascorso l’infanzia in
contesti familiari violenti compromette, spesso, la capacità di costruire
relazioni stabili e duciose da adulti.
Il trauma, per de nizione, è insopportabile e intollerabile. La maggior
parte delle vittime di stupro, la maggior parte dei soldati e dei bambini
molestati si rivela così turbata al pensiero di ciò che ha vissuto, da cercare
di estirparlo dalla mente e di andare avanti, provando a comportarsi come
se niente fosse accaduto. Tutto ciò richiede un’enorme quantità di energia
per poter continuare a funzionare, conservando, al contempo, il ricordo
del terrore e la vergogna di una debolezza e di una vulnerabilità assolute.
Mentre tutti noi vorremmo “andare oltre” il trauma, la parte del nostro
cervello deputata a garantire la sopravvivenza (situata ben al di sotto del
cervello razionale) non è così abile a denegare. Molto tempo dopo la sua
conclusione, un’esperienza traumatica può essere riattivata al minimo
accenno di pericolo e può mobilitare i circuiti cerebrali disturbati,
secernendo enormi quantità di ormoni dello stress. Ciò precipita in
emozioni sgradevoli, sensazioni siche intense e azioni impulsive e
aggressive. Tali reazioni post-traumatiche possono apparire
incomprensibili e soverchianti. Sentendo di non avere il controllo di sé, i
sopravvissuti al trauma vivono in uno stato di paura persistente di essere
danneggiati nel profondo, non intravedendo possibilità di riscatto alcuna.
È stato durante un campo estivo che, per la prima volta, ho pensato di
avvicinarmi agli studi di medicina. Avevo quattordici anni e mio cugino
Michael mi aveva tenuto sveglio tutta la notte spiegandomi la complessità
del funzionamento dei reni e del modo in cui secernono le sostanze di
scarto del corpo, per poi riassorbire i materiali chimici che tengono in
equilibrio il sistema. Ero incantato dal racconto del modo miracoloso in
cui funziona il corpo. In seguito, in ogni fase della mia formazione
medica, sia che stessi studiando chirurgia, cardiologia o pediatria, mi
sarebbe stato chiaro che la chiave della guarigione si situa nella
comprensione di come funziona l’organismo umano. All’inizio del mio
internato in psichiatria, tuttavia, rimasi colpito dalla discrepanza tra
l’incredibile complessità della mente e del modo in cui noi esseri umani
siamo connessi e legati gli uni agli altri e la scarsa conoscenza, da parte
degli psichiatri, dell’origine dei problemi che stavano trattando. Sarebbe
stato possibile, un giorno, sapere tanto del cervello, della mente e
dell’amore quanto sapevamo degli altri sistemi che compongono il nostro
organismo?
Ovviamente, siamo ancora piuttosto lontani dal raggiungere questa
comprensione minuziosa, ma la nascita di tre nuove branche della scienza
ha portato con sé un aumento esponenziale della conoscenza degli effetti
del trauma psicologico, dell’abuso e del neglect.2 Queste nuove discipline
sono: le neuroscienze – lo studio di come il cervello supporta i processi
mentali; la psicopatologia dello sviluppo – lo studio dell’impatto delle
esperienze sfavorevoli sullo sviluppo della mente e del cervello; e la
neurobiologia interpersonale – lo studio di come il nostro comportamento
in uenza le emozioni, la biologia e l’assetto mentale di coloro che ci
stanno intorno.
La ricerca, portata avanti da queste nuove discipline, ha evidenziato che
il trauma produce cambiamenti psicologici reali, come, per esempio, una
ritaratura del sistema d’allarme del cervello, un incremento dell’attività
degli ormoni dello stress e alterazioni nel sistema deputato a discriminare
le informazioni rilevanti e quelle irrilevanti. Sappiamo che il trauma
compromette l’area del cervello che trasmette la percezione sica,
corporea, dell’essere vivi. Questi cambiamenti rendono ragione del
motivo per cui gli individui traumatizzati sono ipervigili rispetto alla
minaccia, a scapito della possibilità di essere spontaneamente coinvolti
nella loro vita quotidiana. Ci aiutano anche a capire perché le persone
traumatizzate tendono così spesso a rimettere in atto le stesse situazioni
problematiche e ad avere cosi tante dif coltà ad apprendere
dall’esperienza. Ora sappiamo che il loro comportamento non è il
risultato di debolezze morali o il segno di una mancanza di volontà o di un
brutto carattere, ma è causato da modi cazioni cerebrali reali.
Quest’enorme incremento nella conoscenza dei processi di base che
sottostanno al trauma ha offerto, inoltre, nuove opportunità di attenuare o
di estinguere il danno subito. È possibile ora sviluppare metodi ed
esperienze che sfruttano la neuroplasticità naturale del nostro cervello per
aiutare i sopravvissuti a sentirsi effettivamente vivi nel presente e a
procedere con la loro vita. Fondamentalmente, esistono tre strade: 1)
quella top-down: il parlare, il (ri)connettersi agli altri, che permette a noi
stessi di conoscere e di capire cosa ci succede, mentre elaboriamo le
memorie traumatiche; 2) l’assunzione di farmaci, che spengono le reazioni
d’allarme inappropriate o il ricorso ad altre tecnologie, che cambiano il
modo in cui il cervello organizza l’informazione e 3) la via bottom-up, che
permette al corpo di fare esperienze che contrastano, in modo profondo e
viscerale, l’impotenza, la rabbia e il collasso derivanti dal trauma. Quale di
questi modi sia il migliore per uno speci co sopravvissuto costituisce, di
fatto, una domanda empirica. La maggior parte delle persone che si sono
occupate di tali temi propende per un approccio integrato.
Questo è stato il lavoro della mia vita. In questo sforzo, sono stato
supportato dai colleghi e dagli allievi del Trauma Center, che ho fondato
trent’anni fa. Insieme abbiamo trattato migliaia di bambini e adulti
traumatizzati: vittime di abuso infantile, disastri naturali, guerre, incidenti,
traf co di esseri umani; persone che hanno subito violenze da parte di
familiari ed estranei. Abbiamo una lunga tradizione di discussioni molto
animate, relative ai casi di tutti i nostri pazienti, nel corso delle riunioni
d’équipe settimanali, nalizzate a delineare con precisione il grado di
funzionamento delle diverse forme di trattamento pensate per individui
speci ci.
La nostra principale missione è sempre stata quella di prenderci cura dei
nostri pazienti, bambini e adulti, ma, n dal principio, ci siamo anche
dedicati a sviluppare ricerche che esplorassero gli effetti dello stress
traumatico sulle diverse popolazioni e che determinassero quali
trattamenti funzionano e per chi. Siamo stati supportati dalle sovvenzioni
elargite dal National Institute of Mental Health, dal National Center for
Complementary and Alternative Medicine, dai Centers for Disease
Control e da un buon numero di fondazioni private, perché potessimo
studiare l’ef cacia delle svariate forme di trattamento, dai farmaci alla
parola, allo yoga, all’EMDR, al teatro, al neurofeedback.
La s da è: in che modo le persone possono avere un controllo sui
postumi di un trauma passato e ritornare a essere padroni della loro vita?
Il parlare, il capire e i rapporti interpersonali aiutano, così come i farmaci
possono calmare i sistemi di allarme iperattivi. Ma vedremo anche che le
tracce del passato possono essere trasformate, contrastando direttamente
l’impotenza, la rabbia e il collasso, parti integranti del trauma, così da
riacquistare la padronanza di sé. Non ho preferenze per una determinata
tecnica terapeutica, poiché nessun singolo approccio si adatta
perfettamente a ciascun individuo, ma pratico (anche su me stesso) tutte
le forme di trattamento, di cui parlo in questo libro. Ciascun approccio
può produrre cambiamenti profondi, in rapporto alla natura del
particolare problema e alla struttura di ogni singola persona.
Ho scritto questo libro perché potesse costituire sia una guida sia un
invito: un invito a dedicare noi stessi ad affrontare la realtà del trauma, a
esplorare come meglio trattarlo e a coinvolgerci, come società, nel cercare
di utilizzare ogni mezzo di cui si dispone per prevenirlo.

1. V. Felitti, R.F. Anda, D.D. Nordenberg, F. Williamson, A.M. Spitz, V. Edwards, M.P. Koss, J.S.
Marks (1998), “Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the leading
causes of death in adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in American Journal
of Preventive Medicine, 14, 4, pp. 245-258.
2. Si è scelto di lasciare in lingua originale il termine inglese, che in italiano corrisponde a “estrema
trascuratezza” (espressione che sarà utilizzata in alternativa in questo volume), perché è ormai
entrato nella terminologia psicotraumatologica. [NdC]
Parte prima

La riscoperta del trauma


1

Lezioni dai veterani


del Vietnam

Sono diventato la persona che sono oggi all’età di dodici anni, in una
gelida giornata invernale del 1975… è stato tanto tempo fa. Ma non è
vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato… Sono ventisei
anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo
conto.
KHALED HOSSEINI, Il cacciatore di aquiloni

Le vite di alcune persone sembrano uire come in un racconto; la mia ha


avuto molte fermate e ripartenze. Questo è ciò che fa il trauma.
Interrompe la trama… semplicemente accade e, dopo, la vita va avanti.
Nessuno ti prepara a questo.
JESSICA STERN, Denial: A Memoir of Terror1

Il martedì dopo il week-end del 4 luglio del 1978 è stato il mio primo
giorno da psichiatra presso la Boston Veterans Administration Clinic.2
Stavo appendendo una riproduzione del mio dipinto preferito di Bruegel,
La parabola dei ciechi, sulla parete del mio nuovo uf cio, quando sentii
una certa agitazione nella zona accettazione, in fondo al corridoio. Un
attimo dopo, un uomo imponente, scarmigliato, con un completo a tre
pezzi macchiato e con una copia della rivista Soldier of Fortune sotto il
braccio, si palesò improvvisamente alla mia porta. Era così agitato e con
dei chiari segnali post sbornia, che mi chiesi in che modo potessi
realmente essere d’aiuto a quest’individuo grande e goffo. Lo invitai a
sedersi e a dirmi cosa potessi fare per lui.
Si chiamava Tom. Dieci anni prima era stato nei marines, prestando
servizio in Vietnam. Aveva trascorso il weekend festivo rintanato nel suo
studio legale in centro a Boston, bevendo e guardando vecchie fotogra e,
invece di starsene con la sua famiglia. Sapeva, dagli anni precedenti, che il
rumore, i fuochi d’arti cio, il caldo, il picnic nel cortile di sua sorella con
lo sfondo del tto fogliame di inizio estate, tutto di ciò che gli ricordava il
Vietnam, lo avrebbe fatto impazzire. Quando cominciava a sentirsi agitato
aveva paura di stare con la sua famiglia, perché si comportava come un
mostro sia con la moglie sia con i due ragazzini. Il vociare dei suoi gli lo
angosciava così tanto, da dover uscire di casa infuriato per trattenersi dal
fare loro del male. Soltanto bere no all’oblio o guidare la sua Harley-
Davidson a una velocità pericolosamente elevata lo aiutavano a calmarsi.
La notte non gli dava sollievo: il suo sonno era costantemente interrotto
da incubi, riguardanti un agguato in una risaia in Vietnam, a seguito del
quale tutti i membri del suo plotone erano stati feriti o uccisi. Aveva,
inoltre, terribili ashback, in cui vedeva bambini vietnamiti morti. Gli
incubi erano così angoscianti che aveva il terrore di addormentarsi e, così,
rimaneva spesso sveglio per il resto della notte, a bere. Al mattino, la
moglie lo trovava svenuto sul divano del salotto ed era costretta a
camminare in punta di piedi intorno a lui, per poter raggiungere la cucina
e preparare la colazione, prima di portare a scuola i ragazzi.
Addentrandoci nei particolari della sua storia, Tom mi raccontò di
essersi diplomato nel 1965 e di essere stato lo studente incaricato di
pronunciare il discorso di commiato alla cerimonia di chiusura dell’anno
scolastico. In linea con le tradizioni militari della sua famiglia, si era
arruolato nel Corpo dei marines immediatamente dopo il diploma. Suo
padre aveva prestato servizio nell’esercito del generale Patton, durante la
Seconda guerra mondiale, e Tom non aveva mai messo in discussione le
aspettative del padre. Atletico, intelligente e palesemente un leader, Tom
si sentiva potente ed ef cace dopo aver nito l’addestramento di base, il
membro perfetto di una squadra preparata ad affrontare pressoché tutto.
In Vietnam divenne rapidamente un comandante di plotone, a capo di
altri otto marines. Sopravvivere arrancando nel fango, mentre si viene
bersagliati dal fuoco della mitragliatrice, può far sentire piuttosto
soddisfatti di sé e dei propri commilitoni.
Alla ne del suo turno di servizio, Tom fu congedato con onore e tutto
ciò che desiderava era lasciarsi il Vietnam alle spalle. Apparentemente, fu
esattamente ciò che fece. Frequentò il college sulla base del GI Bill,3 si
laureò in Giurisprudenza, si sposò con la sua ragazza dei tempi della
scuola superiore ed ebbe due gli. Tom era tormentato dalla dif coltà di
provare un affetto reale nei confronti di sua moglie, anche se le sue lettere
lo avevano tenuto in vita nella follia della giungla. Tom faceva nta di
vivere una vita normale, sperando che, in questo modo, avrebbe potuto
imparare a ridiventare quello di prima. Ora aveva un orente studio legale
e un quadro familiare perfetto, ma sentiva di non essere normale, si
sentiva morto dentro.
Sebbene Tom – professionalmente parlando – fosse il primo veterano
che avessi mai incontrato, alcuni aspetti della sua storia mi erano familiari.
Sono cresciuto nell’Olanda del dopoguerra, giocavo in mezzo a palazzi
bombardati e sono glio di un uomo che fu un così fermo oppositore dei
nazisti, da essere stato mandato in un campo di concentramento. Mio
padre non ci aveva mai parlato delle sue esperienze di guerra, ma era
incline a scoppi di rabbia improvvisi che, da bambino, mi lasciavano
attonito. Come poteva l’uomo che sentivo scendere le scale in modo
pacato, per pregare e leggere la Bibbia, mentre il resto della famiglia
dormiva, avere un carattere così terri cante? Come poteva qualcuno, la
cui vita era stata così devota al perseguimento della giustizia sociale, essere
così pieno di rabbia? Avevo assistito allo stesso comportamento
sconcertante di mio zio, che era stato catturato dai giapponesi nelle Indie
tedesche orientali (l’odierna Indonesia) e mandato come bracciante
schiavo in Birmania, dove aveva lavorato sul famoso ponte sul ume Kwai.
Anch’egli menzionava raramente la guerra e anch’egli era spesso soggetto
a scoppi d’ira incontrollabili.
Mentre ascoltavo Tom, mi chiedevo se mio zio e mio padre avessero
avuto incubi o ashback, se anch’essi si fossero sentiti disconnessi dai loro
congiunti e incapaci di trovare alcun piacere reale nella loro vita. Da
qualche parte, nel retro della mia mente, ci devono essere stati dei ricordi
di mia madre spaventata e, spesso, spaventante, il cui trauma della propria
infanzia era talvolta accennato e, ora credo, frequentemente rimesso in
atto. Aveva la snervante abitudine di svenire quando le chiedevo come
fosse la sua vita da bambina, attribuendomi poi la colpa di averla fatta
sentire così angosciata.
Rassicurato dal mio evidente interesse, Tom si decise a dirmi quanto
fosse spaventato e confuso. Aveva paura di stare per diventare esattamente
come suo padre, che era sempre arrabbiato e che raramente parlava con i
suoi bambini, tranne che per fare confronti in negativo con i suoi
commilitoni, che avevano perso la vita nel Natale del 1944, durante
l’Offensiva delle Ardenne.4
Poiché la seduta si avviava alla conclusione, feci quello che i dottori
fanno usualmente: mi focalizzai su quella parte della storia di Tom che
pensavo di aver compreso: i suoi incubi. Da studente di medicina, avevo
lavorato in un laboratorio del sonno, osservando i cicli di sonno/sogno
delle persone, e avevo assistito alla stesura di diversi articoli sugli incubi.
Avevo, altresì, partecipato ad alcune prime ricerche sugli effetti bene ci di
sostanze psicoattive, che cominciavano a essere usate proprio negli anni
Settanta. Così, pur non avendo un’idea precisa della portata dei problemi
di Tom, gli incubi erano qualcosa a cui potevo collegarmi e, da sostenitore
entusiasta di una vita migliore grazie alla chimica, gli prescrissi un farmaco
che avevo trovato essere ef cace nel ridurre l’incidenza e la gravità degli
incubi. Presi appuntamento con Tom per una visita di follow-up due
settimane dopo.
Quando ritornò per il suo appuntamento, gli chiesi impazientemente se
le medicine avessero funzionato. Mi disse che non aveva preso alcuna
pillola. Cercando di nascondere la mia irritazione, gli domandai il perché.
“Ho pensato che, se grazie alle pillole, i miei incubi fossero scomparsi”,
rispose, “avrei abbandonato i miei amici e le loro morti sarebbero state
inutili. Ho bisogno di essere il testimone vivente dei miei amici, morti in
Vietnam”.
Ero sbalordito: la lealtà di Tom alla morte dei suoi amici gli impediva di
vivere la propria vita, proprio come era successo a suo padre.
Le esperienze del padre e del glio sul campo di battaglia avevano reso il
resto delle loro vite irrilevante. Perché era accaduto tutto ciò e cosa
potevamo fare in merito? Quella mattina mi resi conto che,
probabilmente, avrei speso il resto della mia vita professionale, cercando
di svelare i misteri del trauma. In che modo esperienze orri che fanno sì
che le persone si blocchino in un modo così disperato nel passato? Cosa
accade nella mente e nel cervello delle persone, in grado di tenerle
congelate, intrappolate in un luogo da cui desiderano scappare più di ogni
altra cosa? Perché la guerra di quest’uomo non si è conclusa nel febbraio
del 1969, quando i suoi genitori lo hanno abbracciato al Logan
International Airport di Boston, dopo il lungo volo da Da Nang?
Il bisogno di Tom di vivere fuori dalla sua vita, a testimonianza dei suoi
compagni, mi insegnò che stava soffrendo di una condizione molto più
complessa dell’avere semplicemente dei brutti ricordi o una chimica
cerebrale danneggiata o i circuiti cerebrali della paura alterati.
Prima dell’agguato nella risaia, Tom era stato un amico fedele e leale,
una persona che si godeva la vita, con svariati interessi e piaceri. In un
solo terribile momento, il trauma aveva trasformato tutto.
Nel periodo di lavoro trascorso alla VA, ebbi modo di conoscere molti
uomini che avevano risposto in modo simile. Confrontati con frustrazioni
anche di lieve entità, i nostri veterani manifestavano istantaneamente una
rabbia imponente. Le zone pubbliche della clinica erano segnate
dall’impatto dei loro pugni sulla parete di cartongesso, e la sicurezza era
costantemente impegnata a proteggere moderatori e centralinisti dai
veterani infuriati. Naturalmente, il loro comportamento ci spaventava, ma
io ne ero, al contempo, incuriosito.
A casa, mia moglie e io stavamo affrontando problemi simili con i nostri
bambini, che si lasciavano andare a eccessi di collera, quando veniva detto
loro di mangiare gli spinaci o di indossare calze più calde. Perché,
dunque, accadeva che io fossi del tutto incurante del comportamento
immaturo dei miei due bambini e profondamente preoccupato di quello
dei veterani (al di là della loro portata, naturalmente, cosa faceva sì che
avessero per me una valenza ben più dannosa di quella dell’atteggiamento
dei miei due nanetti a casa)? La differenza stava nel fatto di sentirmi del
tutto ducioso che, con un accudimento adeguato, i miei bambini
avrebbero gradualmente appreso a gestire le frustrazioni e le delusioni, ma
ero scettico sulla mia capacità di riuscire ad aiutare i veterani a riacquisire
le abilità di autocontrollo e autoregolazione che avevano perso in guerra.
Sfortunatamente, durante la mia formazione in psichiatria, niente mi
aveva preparato a gestire le s de che Tom e i suoi compagni presentavano.
Mi recai al piano di sotto, nella biblioteca medica, per cercare libri sulle
nevrosi da guerra, shell shock,5 stress da combattimento o su qualsiasi
altro termine o diagnosi potessi pensare avrebbe potuto far luce sui miei
pazienti. Con mia grande sorpresa, la biblioteca della VA non aveva alcun
libro su queste condizioni. A cinque anni dalla ne della guerra in
Vietnam, l’argomento del trauma da guerra non era ancora sull’agenda di
nessuno. In ne, nella Countway Library della Harvard Medical School,
trovai The Traumatic Neurosis of War, pubblicato nel 1941 da uno
psichiatra, che si chiamava Abram Kardiner. Il testo riportava le
osservazioni di Kardiner sui veterani della Prima guerra mondiale ed era
stato pubblicato per anticipare il diluvio di soldati che ci si aspettava
sarebbe stato vittima di trauma da bombardamento, durante la Seconda
guerra mondiale.6
Kardiner descriveva lo stesso fenomeno che stavo osservando: dopo la
guerra, i suoi pazienti erano stati colti da un senso di inutilità; erano
ritirati e distaccati, anche se prima avevano funzionato bene. Kardiner
chiamò “nevrosi di guerra” ciò che oggi chiamiamo disturbo da stress
post-traumatico (post-traumatic stress disorder, PTSD). Kardiner notò che,
chi soffre di una nevrosi traumatica, ha una vigilanza cronica e una forte
sensibilità alla minaccia. Una sua conclusione catturò in modo particolare
la mia attenzione: “il nucleo della nevrosi è una sionevrosi”.7 In altre
parole, lo stress post-traumatico non è “tutto nella testa”, come qualcuno
asseriva, ma ha una base siologica. Kardiner intuì anche che i sintomi
hanno origine nella risposta di tutto il corpo al trauma originale.
La descrizione di Kardiner corroborava le mie osservazioni – cosa
indubbiamente rassicurante –, ma mi forniva scarse indicazioni su come
aiutare i veterani. La mancanza di letteratura sull’argomento costituiva un
handicap, ma il mio grande maestro, Elvin Semrad, ci aveva insegnato a
dif dare dei manuali. Disponiamo di un solo manuale, diceva: i nostri
pazienti. Dovevamo con dare soltanto in ciò che potevamo imparare da
essi e dalla nostra esperienza. Sembra semplice ma, così come Semrad ci
spingeva a fare af damento sull’autoconoscenza, ci avvertiva, allo stesso
tempo, di quanto il processo potesse essere complicato dal fatto che gli
esseri umani sono degli esperti in illusioni e nell’oscuramento della verità.
Ricordo le sue parole: “la nostra sofferenza ha origine, in primo luogo,
nelle bugie che raccontiamo a noi stessi”. Lavorando alla VA, mi accorsi
ben presto di quanto possa essere straziante affrontare la realtà. E questo
era vero sia per i miei pazienti sia per me stesso.
Non vogliamo effettivamente sapere cosa hanno dovuto affrontare i
soldati sul campo di battaglia. Non vogliamo realmente sapere quanti
bambini vengano molestati o abusati nella nostra società o quante coppie
– quasi un terzo, com’è risaputo – siano coinvolte in dinamiche violente a
un certo punto della loro relazione. Vogliamo pensare alle famiglie come a
luoghi sicuri in un mondo crudele e ai nostri Paesi come a posti popolati
da persone illuminate e civilizzate. Preferiamo credere che la crudeltà sia
presente solo in posti lontani, come il Darfur o il Congo. È dif cile, per
chi osserva, essere testimone del dolore. C’è da meravigliarsi, allora, che
gli stessi individui traumatizzati non possano tollerare di ricordarlo e che
ricorrano spesso all’uso di droghe, alcol o all’automutilazione, per
bloccare questa consapevolezza insostenibile?
Tom e i suoi compagni veterani divennero i miei primi maestri nel
tentativo di comprendere come le vite possano essere devastate da
esperienze sopraffacenti e nel delineare il modo in cui si diventa incapaci
di sentirsi di nuovo pienamente vivi.

Il trauma e la perdita di sé
Il primo studio che ho condotto alla VA ebbe inizio con l’intervistare in
modo sistematico i veterani su cosa fosse successo loro in Vietnam.
Desideravo sapere che cosa li avesse spinti sull’orlo del baratro e perché
alcuni di essi fossero crollati, come risultato di quell’esperienza, mentre
altri fossero riusciti, invece, a portare avanti la loro vita.8 Molti degli
uomini intervistati erano partiti per la guerra sentendosi ben preparati,
uniti dal rigore del corso di base e dal pericolo condiviso. Si scambiavano
fotogra e delle loro famiglie e delle loro danzate; tolleravano i reciproci
difetti, ed erano pronti a rischiare la propria vita per i loro amici. Molti
con davano i loro segreti più reconditi a un commilitone e alcuni si
spartivano addirittura le magliette e le calze.
Molti di quegli uomini avevano vissuto un’amicizia simile a quella di
Tom e Alex. Tom aveva incontrato Alex, un ragazzo italiano che veniva da
Malden, in Massachusetts, il giorno in cui arrivò nel Paese e divennero
immediatamente amici intimi. Guidavano la stessa jeep, ascoltavano la
stessa musica e si leggevano l’un l’altro le lettere che arrivavano da casa. Si
ubriacavano insieme e facevano il lo alle stesse bariste vietnamite.
Dopo circa tre mesi nel Paese, Tom, poco prima del tramonto, si trovò a
guidare la sua squadra in un pattugliamento a piedi all’interno di una
risaia. Improvvisamente, una scarica di proiettili di mitragliatrice irruppe
dalla parete verde della giungla circostante, colpendo a uno a uno gli
uomini attorno a lui. Tom mi raccontò di come avesse guardato con orrore
impotente tutti i membri del suo plotone venire uccisi o feriti nel giro di
pochi secondi. Non avrebbe mai più cancellato una sola immagine dalla
sua mente: la parte posteriore della testa di Alex, che giaceva a faccia in
giù nella risaia, i suoi piedi in aria. Tom pianse nel ricordare: “Era l’unico
amico che avessi mai avuto”. In seguito, durante la notte, continuò a
sentire le urla dei suoi uomini e a vedere i loro corpi cadere in acqua.
Ogni suono, odore o immagine che lo riportava all’agguato (come i colpi
di mortaretti del 4 luglio) lo facevano sentire paralizzato, terrorizzato e
arrabbiato, così come lo era stato il giorno in cui l’elicottero lo aveva tirato
fuori dalla risaia.
Forse, per Tom, il ricordo di ciò che era accaduto dopo era ben peggiore
dei ricorrenti ashback dell’agguato. Potevo facilmente immaginare come
la rabbia per la morte dell’amico lo avesse condotto al disastro successivo.
Prima di riuscire a parlarmene, impiegò molti mesi, lottando contro una
vergogna paralizzante. Da tempi immemorabili, i veterani, come Achille
nell’Iliade di Omero, hanno risposto alla morte dei loro compagni con
indescrivibili atti di vendetta. Il giorno dopo l’imboscata, Tom, in uno
stato di pura follia, si recò in un villaggio vicino, dove uccise dei bambini,
sparò a un contadino innocente e violentò una donna vietnamita. A
seguito di ciò, divenne veramente impossibile per lui ritornare a casa in un
modo che avesse un effettivo signi cato. Come si può affrontare la propria
ragazza e dirle di aver brutalmente violentato una donna come lei o
guardare il proprio glio compiere i primi passi, avendo in mente il
bambino che si è assassinato? Tom percepiva la morte di Alex come se
una parte di se stesso fosse stata annientata per sempre: la parte buona,
onorabile e degna di ducia. Il trauma, sia che si tratti del risultato di
qualcosa che ci è accaduto o che abbiamo fatto, rende quasi sempre
gravoso il coinvolgimento in relazioni intime. Dopo aver vissuto qualcosa
di così indicibile, come si può imparare a darsi di nuovo di se stessi o di
qualcun altro? O, di contro, ci si può lasciare andare a una relazione
intima, dopo essere stati brutalmente violentati?
Tom continuò ad arrivare puntuale ai suoi appuntamenti, forse perché
ero diventato la sua ancora di salvezza, il padre che non aveva mai avuto,
un Alex che era sopravvissuto all’imboscata. Permettere a se stessi di
ricordare richiede un enorme coraggio e ducia. Una delle cose più
dif cili, per gli individui traumatizzati, è confrontarsi con la vergogna per
come si sono comportati durante l’episodio traumatico, sia che ciò sia
oggettivamente giusti cato (come nell’autorizzazione alle atrocità) o meno
(come nel caso di un bambino che cerca di placare il suo abusante). Una
delle prime persone a scrivere del fenomeno è stata Sarah Haley, che
occupava uno studio accanto al mio alla VA Clinic. In un articolo
intitolato “When the Patient Reports Atrocities”,9 che costituì lo stimolo
maggiore alla creazione della fondamentale diagnosi di PTSD, trattava la
dif coltà – immane e intollerabile – di parlare (e di ascoltare) delle azioni
orrende, spesso commesse dai soldati nel corso delle loro esperienze di
guerra. È piuttosto dif cile affrontare la sofferenza che ci è stata in itta da
altri, ma molte persone traumatizzate sono, in misura ben maggiore,
ancora più ferite dalla vergogna che provano per ciò che hanno fatto o
non hanno fatto in determinate circostanze. Si disprezzano per essersi
sentiti terrorizzati, dipendenti, eccitati o arrabbiati.
Negli ultimi anni, ho riscontrato fenomeni simili in vittime di abuso
infantile: la maggior parte di esse prova una vergogna mortifera per le
azioni che ha commesso per sopravvivere e mantenere un contatto con le
persone che hanno abusato di loro. Tutto ciò si rivela particolarmente
vero – e si veri ca spesso – se l’abusante è stato qualcuno di molto vicino
al bambino, qualcuno da cui il bambino dipendeva. Ne risulta molta
confusione in merito all’essere stati vittime o partecipanti compiacenti, e
la confusione comporta, di conseguenza, lo smarrimento circa la
differenza tra amore e terrore, dolore e piacere. Si ritornerà a trattare di
questo dilemma più avanti nel corso di questo libro.

Numbing10
I sintomi peggiori per Tom coincidevano, forse, con il sentirsi
emotivamente insensibile. Voleva disperatamente amare la sua famiglia,
ma non riusciva in alcun modo a provare sentimenti profondi nei loro
confronti. Si sentiva distante emotivamente da ciascuno di loro, come se il
suo cuore fosse congelato e come se vivesse dietro una parete di vetro.
Quell’ottundimento riguardava anche se stesso. Non riusciva a sentire
niente, se non una rabbia momentanea e la vergogna. Riportava come
fosse dif cile riconoscersi allo specchio, mentre si faceva la barba. Si
osservava a distanza, nell’atto di argomentare un caso in tribunale, e si
chiedeva come questo ragazzo, che sembrava parlare come lui, riuscisse ad
arrivare a conclusioni così cogenti. Quando vinceva una causa, ngeva di
esserne grati cato e quando la perdeva era come se lo avesse previsto e
fosse rassegnato alla scon tta, ancor prima che si veri casse. Sebbene
fosse un avvocato molto in gamba, si sentiva spesso come se galleggiasse
nello spazio, senza scopo e direzione alcuna.
La sola cosa che, in modo occasionale, lo risollevava da questo
sentimento di inconsistenza, era un intenso coinvolgimento in un
particolare caso. Durante il nostro trattamento, Tom doveva difendere un
gangster da un’accusa di omicidio. Per tutta la durata di quella causa, fu
totalmente assorbito nell’elaborazione di una strategia vincente e ci furono
parecchie occasioni in cui rimase sveglio tutta la notte, immerso in
qualcosa che rivestiva una valenza realmente eccitante per lui. Era come
essere in combattimento, diceva, si sentiva pienamente vivo e non c’era
nient’altro che avesse importanza. Dopo aver vinto quella causa, tuttavia,
Tom perse tutta la sua energia e i suoi obiettivi. Ritornarono gli incubi,
così come gli attacchi di rabbia, e tornarono in modo così intenso che
Tom si dovette trasferire in un motel, per essere sicuro di non far del male
a sua moglie o ai suoi gli. Ma anche quella solitudine era terri cante e
spaventosa, perché i demoni della guerra ritornavano con tutta la loro
forza. Tom cercava di tenersi occupato, lavorando, bevendo e drogandosi,
facendo di tutto per non dover confrontarsi con i suoi demoni.
Sfogliava la rivista Soldier of Fortune, fantasticando di arruolarsi come
mercenario in una delle innumerevoli guerre regionali che, allora,
imperversavano in Africa. Quella primavera, rimise in funzione la sua
Harley, rombando per la Kancamagus Highway nel New Hampshire. Le
vibrazioni, la velocità e il pericolo della corsa lo aiutarono a “rimettersi
insieme”, al punto da riuscire a lasciare la camera del motel e ritornare
dalla sua famiglia.

La riorganizzazione della percezione


Un altro studio che condussi alla VA Clinic prese il via come una ricerca
sugli incubi e nì con l’esplorazione del modo in cui il trauma modi ca le
percezioni e l’immaginazione delle persone. Bill, un giovane medico che
aveva assistito a pesanti azioni in Vietnam un decennio prima, fu la prima
persona ingaggiata per il mio studio sugli incubi. Dopo il congedo, si era
iscritto a un seminario in teologia ed era stato assegnato alla sua prima
parrocchia in una chiesa congregazionale, alla periferia di Boston. Tutto
andava per il meglio, nché non nacque il suo primo glio. Subito dopo la
nascita del bambino, sua moglie, un’infermiera, tornò al lavoro, mentre
Bill rimase a casa, lavorando al suo sermone settimanale e ad altri compiti
parrocchiali e prendendosi, al contempo, cura del neonato. Il primo
giorno in cui si trovò realmente da solo a badare al bambino, quest’ultimo
cominciò a piangere e Bill venne improvvisamente inondato da immagini
di bambini morenti in Vietnam.
Fu costretto a chiamare la moglie, perché lo sostituisse nella cura del
glio, e arrivò alla VA in uno stato di panico. Raccontò di continuare a
sentire il suono del pianto dei bambini e a vedere le immagini dei loro
volti ustionati e sanguinanti. I miei colleghi medici pensavano si trattasse
sicuramente di una psicosi, dato che i manuali di quel tempo riportavano
che le allucinazioni uditive e visive erano sintomi di schizofrenia
paranoide. Gli stessi testi, che fornivano questa diagnosi, indicavano
anche una causa: la psicosi di Bill era probabilmente sollecitata dal suo
sentirsi escluso dall’affetto della moglie a causa dell’arrivo del loro
bambino.
Quel giorno, sulla soglia dell’entrata, vidi Bill circondato da dottori
preoccupati, che si stavano preparando a somministrargli un potente
antipsicotico e a ricoverarlo in un reparto chiuso. Mi descrissero i sintomi
e chiesero la mia opinione. Avendo lavorato precedentemente in un
reparto specialistico sul trattamento degli schizofrenici, la mia curiosità
era considerevole. Qualcosa in quella diagnosi non mi sembrava corretto.
Chiesi a Bill se gli potessi parlare e, dopo aver ascoltato il suo racconto,
parafrasai inconsapevolmente qualcosa che Sigmund Freud aveva detto
sul trauma nel 1895: “Penso che quest’uomo stia soffrendo a causa dei
suoi ricordi”. Dissi a Bill che avrei provato ad aiutarlo e, dopo avergli
proposto delle medicine per controllare il panico, gli chiesi se avesse
voglia di tornare qualche giorno dopo per partecipare al mio studio sugli
incubi.11 Si disse d’accordo.
Una parte di quello studio prevedeva la somministrazione ai partecipanti
del test di Rorschach.12 A differenza dei test che richiedono risposte a
domande dirette, le risposte al Rorschach sono pressoché impossibili da
falsi care. Il Rorschach ci consente – in modo univoco – di osservare
come le persone costruiscono un’immagine mentale da uno stimolo
fondamentalmente privo di signi cato: una macchia d’inchiostro. Poiché
gli esseri umani sono creature che creano signi cati, essi hanno la
tendenza a generare ogni sorta di immagini o di storie a partire da quelle
macchie, proprio come facciamo quando siamo in un prato in una bella
giornata d’estate e scorgiamo delle immagini nelle nuvole, che uttuano in
alto. Le risposte che le persone fabbricano su questi stimoli possono farci
ipotizzare come funziona la loro mente.
Nel vedere la seconda tavola del Rorschach, Bill esclamò, in preda
all’orrore: “Questo è il bambino che ho visto saltare in aria in Vietnam. In
mezzo, si può vedere la carne carbonizzata, le ferite e il sangue che sta
schizzando ovunque”. Respirando a fatica e con la fronte madida di
sudore, si trovava in uno stato di panico simile a quello che lo aveva
inizialmente condotto alla VA. Sebbene avessi sentito i veterani descrivere
i loro ashback, era la prima volta che ne ero realmente testimone. In quel
preciso momento, nel mio studio, Bill stava chiaramente vedendo le stesse
immagini, sentendo gli stessi odori e percependo le stesse sensazioni
siche che aveva avvertito durante l’evento originale. Dieci anni dopo aver
tenuto, impotente, un bambino morente tra le sue braccia, Bill stava
rivivendo il trauma, in risposta alla visione di una macchia.
Lo sperimentare in prima persona il ashback di Bill nel mio studio mi
aiutò a rendermi conto dell’agonia che colpiva regolarmente i veterani che
stavo cercando di trattare, e mi aiutò ad apprezzare nuovamente quanto
fosse importante trovare una soluzione. L’evento traumatico in sé, per
quanto orrendo, ha un inizio, una fase intermedia, e una ne, ma, in quel
preciso momento, mi trovavo a constatare che i ashback possono essere
di gran lunga peggiori del trauma in sé. Non si può sapere quando i
ashback ci assaliranno nuovamente e non si ha modo di sapere quando
niranno e, in questo processo, Bill nì per essere uno dei miei più
importanti mentori.
La somministrazione del test di Rorschach ad altri 21 veterani comportò
una risposta altamente signi cativa: 16, in seconda tavola, reagirono come
se stessero rivivendo il trauma della guerra. La seconda tavola del
Rorschach è la prima che contempla il colore ed elicita, spesso, le
cosiddette risposte di shock colore. I veterani interpretavano questa tavola
con descrizioni come: “Queste sono le budella del mio amico Jim, dopo
che una bomba da mortaio lo ha ridotto a brandelli” e “questo è il collo
del mio amico Danny, dopo che la sua testa è stata spazzata via da una
bomba, mentre eravamo a pranzo”. Nessuno di loro menzionava scimmie
danzanti, farfalle svolazzanti, uomini in motocicletta o altre risposte
popolari. Talvolta, si registrava un numero maggiore di risposte originali
rispetto alla maggior parte delle altre persone.
Se i veterani si rivelavano, per lo più, molto angosciati da ciò che
vedevano, le reazioni dei rimanenti cinque erano ancora più allarmanti. Si
bloccavano, letteralmente: “Non è niente” osservò uno, “soltanto un
ammasso di inchiostro”. Avevano ragione, naturalmente, ma la tendenza
di un essere umano normale nei confronti di stimoli ambigui è quella di
usare l’immaginazione per leggervi qualcosa.
Apprendemmo, da questi Rorschach, che le persone traumatizzate
hanno un’attitudine a sovrapporre il loro trauma a qualunque cosa accada
loro e hanno molte dif coltà a decifrare cosa stia succedendo intorno a
loro. Era come se, in mezzo, non ci fosse nulla. Imparammo, inoltre, che il
trauma intacca il processo immaginativo. I cinque uomini che non
avevano visto nulla nelle macchie avevano perso la capacità di creare con
la mente. Ma, allo stesso modo, gli altri sedici, avendo visto nelle macchie
scene del passato, non mostravano quella essibilità mentale, che è la
caratteristica distintiva dell’immaginazione. Stavano semplicemente
riproducendo una vecchia bobina.
L’immaginazione è essenziale per la qualità della nostra vita. Ci permette
di allontanarci dalla routine quotidiana, fantasticando di viaggi, cibo,
sesso, innamoramento, o di poter avere, per esempio, l’ultima parola: tutto
ciò che rende la vita interessante. L’immaginazione ci dà l’opportunità di
contemplare nuove possibilità: è una provvidenziale rampa di lancio per
realizzare i nostri desideri. Accende la nostra creatività, ci risveglia dalla
monotonia, allevia il dolore, accresce il piacere e arricchisce le nostre
relazioni più intime. Quando le persone sono costantemente e
compulsivamente catapultate nel passato, ovvero all’ultima volta che
hanno sentito un intenso coinvolgimento ed emozioni profonde, soffrono
di un de cit dell’immaginazione, di una perdita di essibilità mentale.
Senza immaginazione non c’è speranza, non c’è modo di contemplare un
futuro migliore, non ci sono posti dove andare, né obiettivi da
raggiungere.
Il test di Rorschach ci aveva, inoltre, insegnato che le persone
traumatizzate guardano al mondo in un modo fondamentalmente diverso
dalle altre persone. Per la maggior parte di noi, un uomo che incontriamo
per strada è semplicemente qualcuno che vuole fare una passeggiata. Una
vittima di stupro, invece, può pensare che si tratti di una persona che sta
per violentarla e, di conseguenza, entrare in uno stato di panico. Un
professore severo può essere una presenza intimidente per la maggior
parte dei bambini, ma un bambino picchiato dal patrigno può vederlo
come un torturatore, e diventare, di conseguenza, molto aggressivo o
nascondersi terrorizzato in un angolo.

Bloccati nel trauma


Il nostro ambulatorio fu letteralmente invaso dai veterani, che cercavano
un aiuto psichiatrico. Tuttavia, data la considerevole mancanza di medici
quali cati, tutto ciò che potevamo fare era iscrivere la maggior parte di
essi in una lista d’attesa, anche se continuavano a brutalizzare se stessi e la
loro famiglia. Cominciavamo ad assistere a un chiaro aumento di arresti di
veterani, a causa di reati violenti e di risse da ubriachi, così come a un
allarmante numero di suicidi. Ebbi il permesso di seguire un gruppo – che
fungesse da contenitore – di giovani veterani del Vietnam, in attesa che
una “reale” terapia avesse inizio.
Nella prima seduta con un gruppo di giovani marines, il primo uomo a
prendere la parola dichiarò categoricamente: “Non voglio parlare della
guerra”. Risposi che i membri potevano discutere di qualsiasi cosa
volessero. Dopo mezz’ora di silenzio atroce, un veterano cominciò
nalmente a parlare del suo incidente in elicottero. Con mia sorpresa, il
resto del gruppo prese vita, parlando con grande intensità delle loro
esperienze traumatiche. La settimana successiva, ritornarono tutti, così
come quella dopo. Nel gruppo trovavano risonanza e signi cato a ciò che,
precedentemente, era stata soltanto una sensazione di terrore e vuoto.
Provavano un rinnovato senso di cameratismo, che era stato vitale nella
loro esperienza di guerra. Insistevano perché io avessi un ruolo nella loro
ritrovata unità e mi regalarono un’uniforme da capitano dei marines per il
mio compleanno. Osservandolo da una prospettiva attuale, quel gesto
rivelava una parte del problema: o si era dentro o si era fuori; o si
apparteneva all’unità o non si era nessuno. Dopo un trauma, il mondo, di
fatto, si divide in quelli che sanno e in quelli che non sanno. Non ci si può
dare delle persone che non hanno condiviso l’esperienza traumatica,
perché non possono comprenderla. E ciò interessa, spesso e tristemente,
le mogli, i gli e i colleghi di lavoro.
Qualche tempo dopo, mi trovai a condurre un altro gruppo, questa volta
costituito di veterani dell’esercito del generale Patton, uomini che
andavano tranquillamente per i settanta, tutti abbastanza vecchi da poter
essere mio padre. Ci incontravamo di lunedì mattina, alle otto in punto.
Nell’inverno di Boston, le tempeste di neve paralizzano, talvolta, il sistema
di trasporto pubblico, ma, con mia grande sorpresa, si presentavano tutti,
anche nel bel mezzo di una tormenta: alcuni di essi camminavano a fatica
per diversi chilometri in mezzo alla neve, per raggiungere la VA Clinic.
Per Natale, mi donarono un orologio da polso edizione GI del 1940. Così
come era accaduto con il mio gruppo di marines, non potevo essere il loro
dottore senza essere uno di loro.
Passando in rassegna queste esperienze, i limiti della terapia di gruppo
divennero chiari nel momento in cui gli uomini si trovarono a parlare di
ciò con cui si confrontavano nella vita quotidiana: la relazione con le loro
mogli, i gli, le danzate e la famiglia; la relazione con i superiori e il
trovare soddisfazione nel lavoro; il loro pesante abuso di alcol.
Mostravano, spesso, una certa resistenza ed evitavano di rispondere,
continuando, al contrario, a raccontare di come avessero con ccato un
pugnale nel cuore di un soldato tedesco nella foresta di Hurtgen o di
come il loro elicottero fosse stato abbattuto nella giungla del Vietnam.
Sia che il trauma fosse avvenuto dieci anni prima o più di quaranta, i
miei pazienti non riuscivano a colmare l’intervallo tra le loro esperienze di
guerra e la vita attuale. In qualche modo, lo stesso evento, che causava
loro così tanto dolore, costituiva anche la sola fonte di signi cato. Si
sentivano pienamente vivi soltanto nel rivisitare il loro passato traumatico.

Diagnosticare lo stress post-traumatico


In quei primi anni alla VA, attribuivamo ai veterani ogni sorta di diagnosi:
alcolismo, abuso di sostanze, depressione, disturbo dell’umore, anche
schizofrenia – e provavamo ogni trattamento contemplato dai manuali.
Ma i nostri sforzi, per quanto ingenti, non conducevano a risultati
apprezzabili. I potenti farmaci che prescrivevamo, lasciavano spesso gli
uomini in una nebbia tale che riuscivano a malapena a funzionare.
Incoraggiandoli a parlare minuziosamente dell’evento traumatico,
provocavamo, spesso, un vero e proprio ashback, piuttosto che aiutarli a
risolvere la questione. Molti abbandonavano il trattamento, perché non
solo non riuscivamo ad aiutarli, ma peggioravamo spesso le cose.
Un punto di svolta arrivò nel 1980, quando un gruppo di veterani del
Vietnam, aiutati dagli psicoanalisti newyorchesi Chaim Shatan e Robert J.
Lifton, fece pressione con successo sull’American Psychiatric Association,
af nché si formulasse una nuova diagnosi: disturbo da stress post-
traumatico, che, in maggiore o minor misura, contemplava un insieme di
sintomi comuni a tutti i nostri veterani. Identi cando sistematicamente i
sintomi e raggruppandoli insieme in un disturbo, si è riusciti a dare
nalmente un nome alle sofferenze di persone travolte dall’orrore e
dall’impotenza. Avendo messo a punto la cornice concettuale del PTSD, si
era avviata una fase di cambiamento radicale nella comprensione dei
nostri pazienti. Tutto ciò condusse, in ultima istanza, a un’esplosione di
ricerche e di tentativi di trovare trattamenti ef caci.
Ispirato dalle possibilità presentate da questa nuova diagnosi, proposi
alla VA uno studio sulla biologia delle memorie traumatiche. I ricordi di
coloro che soffrivano di PTSD erano diversi da quelli delle altre persone?
Per la maggior parte delle persone, il ricordo di un evento sgradevole alla
ne svanisce o viene trasformato in qualcosa di più piacevole. Ma molti
dei nostri pazienti erano incapaci di mettere il loro passato all’interno di
una storia accaduta molto tempo prima.13
L’incipit del ri uto dell’assegnazione di fondi recitava così: “Non è mai
stato dimostrato che il PTSD sia rilevante per la mission della Veterans
Administration”. Da allora, naturalmente, la mission della VA fu
riorganizzata intorno alla diagnosi di PTSD e di danno cerebrale, e
considerevoli risorse vennero dedicate all’applicazione di trattamenti
evidence-based14 per i veterani di guerra traumatizzati. Ma, all’epoca, le
cose erano differenti e, non volendo continuare a lavorare in
un’organizzazione il cui punto di vista sulla realtà era agli antipodi rispetto
al mio, rassegnai le mie dimissioni; nel 1982, fui assunto al Massachusetts
Mental Health Center, la clinica universitaria di Harvard, dove mi ero
formato per diventare psichiatra.
La mia nuova mansione consisteva nell’insegnamento di una nascente
area di studio: la psicofarmacologia, la somministrazione di farmaci per
alleviare i sintomi della malattia mentale.
Nel mio nuovo lavoro, mi confrontavo quasi giornalmente con questioni
che pensavo di essermi lasciato alle spalle alla VA. La mia esperienza con i
veterani di guerra mi aveva così sensibilizzato all’impatto del trauma, che
adesso ascoltavo con un orecchio molto differente i pazienti ansiosi e
depressi, che mi raccontavano storie di molestie e violenza domestica. Ero
particolarmente colpito dal numero elevato di pazienti donne che
rivelavano di essere state abusate sessualmente da bambine. La cosa
inspiegabile era che i testi classici di psichiatria dell’epoca affermavano
che l’incesto era estremamente raro negli Stati Uniti, interessando una
donna su un milione.15 Dato che allora vivevano soltanto cento milioni di
donne negli Stati Uniti, mi chiedevo come quarantasette, circa la metà di
loro, avessero trovato la via del mio studio, al piano interrato
dell’ospedale.
Inoltre, il testo diceva: “C’è uno scarso accordo circa il ruolo dell’incesto
padre/ glia come causa di gravi conseguenti psicopatologie”. Le mie
pazienti con storie di incesto erano dif cilmente libere da “conseguente
psicopatologia” – erano profondamente depresse, confuse, spesso
coinvolte in comportamenti stranamente autolesivi, come tagliarsi con
lame di rasoio. Il manuale andava avanti praticamente quasi elogiando
l’incesto, spiegando che “l’attività incestuosa diminuisce la possibilità del
soggetto di sviluppare una psicosi e favorisce un migliore adattamento al
mondo esterno”.16 Infatti, come si è rivelato, l’incesto produceva effetti
devastanti sul benessere delle donne.
Per diversi aspetti, queste pazienti non erano così diverse dai veterani
che avevo lasciato alla VA. Anch’esse avevano incubi e ashback.
Anch’esse oscillavano tra occasionali eccessi di rabbia esplosiva e lunghi
periodi di spegnimento emotivo. La maggior parte aveva serie dif coltà ad
andare d’accordo con le altre persone e a mantenere relazioni importanti.
Come ora sappiamo, la guerra non è la sola calamità che distrugge la vita
degli uomini. Mentre ci si aspetta che circa un quarto dei soldati, che
presta servizio in zone di guerra, possa sviluppare gravi problemi di stress
post-traumatico,17 la maggioranza degli americani è esposta a un crimine
violento a un certo punto della propria vita, e le più accurate indagini
hanno rivelato che 12 milioni di donne negli Stati Uniti sono stati vittime
di stupro. Metà degli stupri è occorso a ragazze al di sotto dei 15 anni.18
Per molte persone, la guerra ha inizio a casa: ogni anno circa tre milioni di
bambini, negli Stati Uniti, sono registrati come vittime di abuso infantile e
neglect. Un milione di questi casi è suf cientemente grave e credibile da
indurre i Servizi di Tutela Minori territoriali o i tribunali a procedere.19 In
altre parole, per ogni soldato che presta servizio in una zona di guerra
all’estero, ci sono dieci bambini a rischio nelle proprie case. Ciò è
particolarmente tragico, perché è molto dif cile guarire i bambini quando
l’origine del terrore non è un nemico da combattere, ma i loro stessi
genitori.

Una nuova prospettiva


Trent’anni dopo aver incontrato Tom, avevo appreso un’enorme quantità
di cose non solo sull’impatto e sulle manifestazioni del trauma, ma anche
sui modi di aiutare le persone traumatizzate a trovare la via della
guarigione. Sin dai primi anni Novanta, gli strumenti di neuroimaging
hanno cominciato a mostrare cosa accade effettivamente nel cervello delle
persone traumatizzate. Ciò si è rivelato essenziale per la comprensione del
danno in itto dal trauma e ci ha guidato a contemplare vie di guarigione
completamente nuove.
Abbiamo anche iniziato a capire come le esperienze sopraffacenti
in uenzino le nostre sensazioni intime e le relazioni con la nostra realtà
sica, il centro del nostro essere. Abbiamo imparato che il trauma non è
solo un evento accaduto una volta nel passato, ma si riferisce anche
all’impronta lasciata da quell’esperienza sulla mente, sul cervello e sul
corpo. Quest’impronta ha continue conseguenze sul modo in cui
l’organismo umano gestisce la sopravvivenza nel presente.
Il trauma esita in una fondamentale trasformazione del modo in cui
mente e cervello organizzano le percezioni. Cambia non solo il modo in
cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra effettiva capacità di
pensare. Abbiamo scoperto che aiutare le vittime di trauma a trovare le
parole per descrivere ciò che è accaduto loro è profondamente
signi cativo ma, spesso, non è suf ciente. L’azione di raccontare la storia
non modi ca necessariamente le risposte siche e ormonali automatiche
del corpo, che rimane ipervigile, e pronto a essere assalito o violentato in
qualunque momento. Perché avvenga un reale cambiamento, il corpo ha
bisogno di apprendere che il pericolo è passato e di vivere nella realtà
presente. Il nostro tentativo di capire il trauma ci ha portati a pensare in
un modo diverso non solo alla struttura della mente, ma anche ai processi
attraverso i quali si guarisce.

1. Jessica Stern è un’esperta di terrorismo internazionale e ha lavorato per il Consiglio di Sicurezza


Nazionale degli Stati Uniti per parecchi anni. [NdC]
2. Da ora in poi verrà utilizzata l’abbreviazione VA. [NdC]
3. Il Servicemen’s Readjustment Act del 1944, conosciuto informalmente come GI Bill, è una legge
che garantisce una serie di bene ci ai veterani di guerra (a partire dalla Seconda guerra mondiale),
che comprendono mutui a tasso ridotto, agevolazioni per piccole imprese, assegni e borse di studio
per le scuole superiori e l’università. Questi bene ci sono assicurati a ciascun veterano che abbia
svolto un periodo di servizio attivo di almeno 90 giorni e che non sia stato congedato con disonore.
[NdC]
4. L’Offensiva delle Ardenne (in inglese Battle of the Bulge) è l’ultima offensiva strategica tedesca
sul fronte occidentale, durante la Seconda guerra mondiale. Dopo un mese di scontri e dopo
un’iniziale avanzata tedesca, la battaglia terminò con la vittoria degli Alleati. Le perdite, tuttavia,
furono enormi da entrambe le parti. [NdC]
5. Manifestazione sintomatologica del trauma da combattimento, rilevata nei soldati della Prima
guerra mondiale, altrimenti denominata “psicosi di guerra”. [NdC]
6. A. Kardiner (1941), The Traumatic Neurosis of War, P. Hoeber, New York. In seguito, scoprii
che intorno alla Prima e alla Seconda guerra mondiale vennero pubblicati numerosi manuali sul
trauma da guerra, ma, come Abram Kardiner scrisse nel 1947, “la materia dei disturbi nevrotici
conseguenti alla guerra è stata sottoposta, negli ultimi 25 anni, a un buon grado di volubilità da
parte dell’interesse pubblico e a capricci in ambito psichiatrico. Il pubblico non sostiene questo
interesse, che era stato forte dopo la Prima guerra mondiale, e nemmeno la psichiatria. Tali
condizioni, quindi, non vengono studiate in modo sistematico”.
7. Ibidem, p. 7.
8. B. van der Kolk (1985), “Adolescent vulnerability to post-traumatic stress disorder”, in
Psychiatry, 48, pp. 365-370.
9. S. Haley (1974), “When the patient reports atrocities: Speci c treatment considerations of the
Vietnam veteran”, in Archives of General Psychiatry, 30, pp. 191-196.
10. Nel corso del libro, il termine inglese, ormai entrato nella terminologia psicotraumatologica,
verrà utilizzato alternativamente a quelli italiani “ottundimento” o “obnubilamento”. [NdC]
11. E. Hartmann, B.A. van der Kolk, M. Olfield (1981), “A preliminary study of the personality of
the nightmare sufferer”, in American Journal of Psychiatry, 138, pp. 794-797; B.A. van der Kolk, R.
Blitz, S. Sherry, E. Hartmann (1984), “Nightmares and trauma: Life-long and traumatic nightmares
in veterans”, in American Journal of Psychiatry, 141, pp. 187-190.
12. B.A. van der Kolk, C. Ducey (1989), “The psychological processing of traumatic experience:
Rorschach patterns in PTSD”, in Journal of Traumatic Stress, 2, pp. 259-274.
13. Al contrario dei ricordi normali, le memorie traumatiche appaiono più come frammenti di
sensazioni, emozioni, reazioni e immagini, che continuano a essere riesperite nel presente. Gli studi
sui ricordi relativi alla Shoa, condotti a Yale, condotti da Dori Laub e Nanette C. Auerhahn, così
come il libro di L. Langer, Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory del 1993 e, più di tutto, le
descrizioni di Pierre Janet del 1889, 1893 e 1905 sulla natura delle memorie traumatiche, ci hanno
aiutato a organizzare ciò che abbiamo visto. Il tutto sarà preso in considerazione nel capitolo sulla
memoria.
14. Le psicoterapie evidence-based sono trattamenti supportati empiricamente (EST), “basati sulle
prove”, quindi sull’evidenza di ef cacia, aderendo alla logica della evidence based medicine. [NdC]
15. D.J. Henderson (1974), “Incest”, in A.M. Freedman, H.I. Kaplan (a cura di), Comprehensive
Textbook of Psychiatry, 2nd ed. Williams & Wilkins, Baltimore, p. 1536.
16. Ibidem.
17. K.H. Seal, D. Bertenthal, C.R. Miner, S. Sen, C. Marmar (2007), “Bringing the war back home:
Mental health disorders among 103,788 U.S. veterans returning from Iraq and Afghanistan seen at
Department of Veterans Affairs facilities”, in Archives of Internal Medicine, 167, 5, pp. 476-482;
C.W. Hoge, J.L. Auchterloine, C.S. Millikien (2006), “Mental health problems, use of Mental
Health Services, and attrition from Military Service after returning from deployment to Iraq or
Afghanistan”, in Journal of the American Medical Association, 295, 9, pp. 1023-1032.
18. D.G. Kilpatrick, B.E. Saunders (1997), Prevalence and Consequencies of Child Victmization:
Results from the National Survey of Adolescents: Final Report. National Crime Victims Research
and Treatment Center, Department of Psychiatry and Behavioral Sciences, Medical University of
South Carolina, Charleston.
19. U.S. Department of Health and Human Services, Administration on Children, Youth and
Families (2007, 2009), Child Maltreatment. Si veda, inoltre, U.S. Department of Health and
Human Services, Administration for Children and Families, Administration on Children, Youth
and Families, Children’s Bureau (2010, 2011), Child Maltreatment.
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La rivoluzione
nella comprensione della mente
e del cervello

Maggiore è il dubbio, maggiore è la consapevolezza; minore è il dubbio,


minore è la consapevolezza. Senza dubbio, non ci può essere
consapevolezza.
C.C. CHANG, The Practice of Zen

Vivi attraverso quel piccolo pezzo di tempo che è tuo, ma quel pezzo di
tempo non è di per sé la tua vita, è la somma di tutte le altre vite che sono
contemporanee alla tua… Quello che sei è espressione della storia.
ROBERT PENN WARREN,1 World Enough and Time

Alla ne degli anni Sessanta, nel corso di un anno sabbatico tra il primo e
il secondo anno di medicina, per caso, mi trovai a essere testimone di un
profondo cambiamento nell’approccio medico alla sofferenza mentale.
Avevo ottenuto un ottimo lavoro come assistente tirocinante in un reparto
sperimentale del Massachusetts Mental Health Center (MMHC), con
l’incarico di organizzare attività ricreative per i pazienti. L’MMHC era da
tempo considerato uno dei migliori ospedali psichiatrici del paese, il ore
all’occhiello dell’impero della Harvard Medical School. L’obiettivo della
ricerca del mio reparto era quello di determinare quale fosse, tra la
psicoterapia e l’uso di farmaci, il trattamento migliore per giovani pazienti
che avevano avuto un primo scompenso psichico, diagnosticato come
schizofrenia.
Le psicoterapie basate sulla parola, derivanti dalla psicoanalisi freudiana,
erano ancora il trattamento elettivo per la malattia mentale all’MMHC.
Tuttavia, nei primi anni Cinquanta, un gruppo di scienziati francesi aveva
scoperto un nuovo composto: la cloropromazina (il cui nome commerciale
era Torazina). Gli scienziati si accorsero che la cloropromazina
“tranquillizzava” i pazienti, rendendoli meno agitati e deliranti. Si fece
così strada l’idea di mettere a punto dei farmaci per curare gravi forme di
malattia mentale, come la depressione, gli attacchi di panico, i disturbi
d’ansia e la mania, nonché per alleviare alcuni dei sintomi più allarmanti
della schizofrenia.
Come assistente, non avevo a che fare direttamente con il progetto di
ricerca del reparto e non mi venne mai detto che tipo di trattamento i
pazienti stessero seguendo. Sapevo solo che erano tutti miei coetanei.
Erano studenti di Harvard, del MIT e dell’Università di Boston. Alcuni
avevano cercato di suicidarsi; altri si tagliavano con coltelli o lame di
rasoio; molti avevano aggredito i compagni di stanza o avevano
terrorizzato genitori e amici con comportamenti imprevedibili e
irrazionali. Il mio lavoro consisteva nel coinvolgerli nelle normali attività
previste per gli studenti del college, come andare a mangiare la pizza o in
campeggio, partecipare alle partite di baseball dei Red Sox2 o praticare la
vela sul ume Charles.
Essendo praticamente un novellino, prestavo estrema attenzione durante
gli incontri in reparto, cercando di decifrare i discorsi e le logiche, molto
complicate, dei pazienti. Mi toccò imparare a trattare le loro “esplosioni”
irrazionali e il ritiro terrorizzato. Ricordo che una mattina trovai un
paziente in piedi, nella sua camera da letto, immobile come una statua,
con un braccio in posizione di difesa e il viso congelato dalla paura.
Rimase lì, fermo, per almeno dodici ore. I medici mi dissero che il nome
di quella condizione era catatonia, ma neanche i manuali, che in seguito
consultai, riportavano indicazioni su cosa si dovesse fare in merito.
Lasciammo che la catatonia facesse il suo corso.

Gli albori del trauma


Trascorsi molte notti e molti ne settimana in quell’unità, venendo a
contatto con situazioni che i medici non potevano vedere durante le loro
brevi visite. I pazienti, non riuscendo a dormire, vagavano spesso, nel buio
del reparto, stretti nelle loro vestaglie, per cercare qualcuno con cui
parlare. La quiete della notte sembrava aiutarli ad aprirsi, tanto da
raccontarmi di aver subito abusi sici, aggressioni e molestie: i
perpetratori erano, per lo più, i loro stessi genitori, a volte alcuni parenti
e, altre volte, compagni di classe o vicini di casa.
Condividevano con me i loro ricordi di quando, di notte, indifesi e
terrorizzati nel loro letto, sentivano il padre (o il danzato) picchiare la
madre o entrambi i genitori minacciarsi in modo orribile l’un l’altro con,
in sottofondo, il rumore dei mobili che si rompevano. Qualcun altro mi
parlava del rientro a casa del padre ubriaco: sentiva i suoi passi sul
pianerottolo, il suo ingresso in casa, quindi veniva tirato fuori dal letto e
punito per chissà quale immaginaria disobbedienza. Molte donne
riportavano di rimanere distese, ma sveglie, immobili, nell’attesa
dell’inevitabile: la molestia da parte del fratello o del padre.
Durante il giro mattutino, i giovani medici presentavano i casi ai loro
supervisori, un rituale che agli assistenti di reparto era permesso osservare
in silenzio. Raramente si menzionavano storie come quelle che avevo
ascoltato. Tuttavia, in seguito, molte ricerche avrebbero confermato la
rilevanza di quelle confessioni notturne: oggi è risaputo che più della metà
delle persone che chiedono un aiuto psichiatrico è composta da pazienti
che sono stati aggrediti, abbandonati, trascurati, o addirittura violentati,
da bambini, o che sono stati testimoni di violenza domestica.3 Ma queste
esperienze sembravano bandite dai giri di visita. Ero, spesso, sorpreso dal
modo spassionato con cui si parlava dei sintomi dei pazienti e dal tempo
impiegato a cercare di affrontare l’ideazione suicidaria e i comportamenti
autodistruttivi, a scapito di quello che si sarebbe potuto dedicare alla
comprensione delle possibili cause della disperazione e del sentimento di
impotenza che i pazienti manifestavano. Ero anche colpito dalla poca
attenzione rivolta ai traguardi raggiunti e alle aspirazioni espresse dai
pazienti, alle persone che stavano loro a cuore, che amavano o odiavano; a
ciò che li motivava e coinvolgeva, a tutto ciò che, invece, li bloccava e a
ciò che li faceva star bene: in altre parole, all’ecologia della loro vita.
Pochi anni dopo, da giovane medico, mi scontrai con la rigidità, nella
fattispecie particolarmente evidente, del modello medico vigente.
Lavoravo in nero in un ospedale cattolico, eseguendo esami sici su
donne, ammesse a ricevere un trattamento elettroconvulsivo per la
depressione. Con la tipica curiosità dell’immigrato, pensai che sarebbe
stato molto utile studiare i loro referti e chiedere alle pazienti della loro
vita. Molte di loro raccontavano storie di matrimoni complicati, di gli
dif cili e della colpa di avere abortito.
Nel parlare, era come se si rivitalizzassero, ringraziandomi spesso in
modo caloroso per l’ascolto che avevo rivolto loro. Alcune pazienti, dopo
essere riuscite a raccontare così tanto di sé, si chiedevano se davvero
avessero ancora bisogno di un trattamento elettroconvulsivo. Mi sentivo
sempre triste alla ne di questi incontri, sapendo che il trattamento, che
sarebbe stato somministrato la mattina seguente, avrebbe cancellato
completamente il ricordo della nostra conversazione. Non sono riuscito a
mantenere a lungo quel lavoro.
Nei miei giorni di riposo dal reparto del MMHC, andavo spesso alla
Countway Library of Medicine per saperne di più sui pazienti che avrei
dovuto aiutare. Un sabato pomeriggio incappai in un trattato, venerato
ancora oggi: Dementia praecox (1911) di Eugen Bleuler.
Le osservazioni di Bleuler erano affascinanti:
Tra le allucinazioni somatiche di tipo schizofrenico, quelle sessuali sono di gran lunga le più
diffuse e le più importanti. Questi pazienti sperimentano qualsiasi forma di estasi e di piacere
connessa alla soddisfazione sessuale normale e anormale, ma ancor più frequentemente
qualsiasi pratica oscena e persino disgustosa che la fantasia più spinta possa evocare. I pazienti
maschi sono privati del loro liquido seminale e stimolati ad avere erezioni dolorose. Le pazienti
femmine sono violentate e ferite nei modi più tremendi… Al di là del signi cato simbolico di
tali allucinazioni, la maggior parte di esse corrisponde a sensazioni reali.4

Ne rimasi molto colpito: i nostri pazienti avevano allucinazioni, che i


medici indagavano e annotavano regolarmente, come segni della gravità
del loro disturbo. Ma se le storie che avevo sentito durante la notte fossero
state vere, quelle “allucinazioni” avrebbero potuto essere, in realtà, un
ricordo frammentato di un’esperienza realmente vissuta? Le allucinazioni
costituivano solo un imbroglio del cervello malato? Le persone potevano
davvero descrivere e provare sensazioni siche che non avevano mai
sperimentato? Esiste una linea di demarcazione chiara e de nita tra la
creatività e la fantasia patologica? E tra memoria e immaginazione?
Queste domande sono, a oggi, inevase, ma la ricerca ha dimostrato che le
persone che hanno subito abusi in età infantile avvertono spesso
sensazioni (come dolori addominali), in assenza di causa sica evidente;
sentono voci che li avvertono di un pericolo o che li accusano di aver
commesso crimini efferati.
Non vi era dubbio alcuno che molti pazienti del reparto mettessero in
atto comportamenti violenti, bizzarri o autolesivi, soprattutto quando si
sentivano frustrati, ostacolati o fraintesi. Alcuni avevano eccessi di collera,
lanciavano piatti, fracassavano nestre e si tagliavano con schegge di
vetro. A quel tempo, non avevo idea del perché qualcuno potesse reagire a
una semplice richiesta (per esempio: “Lasciami togliere quella sostanza
appiccicosa dai tuoi capelli”) con tanta rabbia o terrore. Di solito, seguivo
le indicazioni degli infermieri esperti, che mi insegnavano quando fare
“marcia indietro” e, nel caso in cui non funzionasse, mi istruivano su
come contenere un paziente. Ero sorpreso e spaventato dalla
soddisfazione che, a volte, provavo dopo aver “messo a tappeto” un
paziente, in modo da consentire a un’infermiera di fargli un’iniezione e,
pian piano, cominciavo a rendermi conto di quanto fosse utile la
formazione professionale nell’aiutarci a mantenere il controllo nel
confronto con realtà terri che e confusive.
Sylvia era una splendida studentessa diciannovenne dell’Università di
Boston che, di solito, sedeva da sola in un angolo del reparto, spaventata a
morte, praticamente muta: si diceva che fosse la danzata di un
importante ma oso di Boston e questo aveva creato attorno a lei un alone
di mistero. Dopo aver ri utato di mangiare per più di una settimana e aver
rapidamente cominciato a perdere peso, i medici decisero di alimentarla
in modo forzato. Ci vollero tre di noi per tenerla ferma, un infermiere per
inserirle in gola il tubo di gomma e un altro ancora per versare i liquidi nel
tubo. Più tardi, durante una confessione notturna, Sylvia, con fare timido
ed esitante, mi parlò della sua infanzia e degli abusi sessuali perpetrati da
parte del fratello e dello zio. Mi resi conto allora, che il nostro modo di
“prenderci cura” di lei doveva averle fatto esperire sensazioni e sentimenti
molto simili a quelli che si possono provare nel corso di uno stupro di
gruppo. Questa esperienza, e altre simili, mi aiutarono a formulare la
seguente regola per i miei allievi: se si fa qualcosa a un paziente che non si
farebbe mai a un amico o a un bambino, chiediamoci se non si stia
inconsapevolmente replicando un trauma del passato di quella persona.
Nel mio ruolo di animatore, notai altre cose: in gruppo, i pazienti si
mostravano incredibilmente gof e scoordinati nei movimenti sici. In
campeggio, la maggior parte di loro si sentiva incapace e impotente sin dal
momento in cui cominciavo a piantare le tende. Durante una tempesta sul
ume Charles, rischiammo di capovolgerci, perché i pazienti si
stringevano gli uni addosso agli altri in modo rigido, incapaci di
comprendere la necessità di cambiare posizione, per bilanciare il peso
sulla barca. Durante le partite di pallavolo, i membri del personale erano
molto più coordinati dei pazienti. Un’altra caratteristica di quei pazienti
era che anche i discorsi ordinari apparivano pomposi, impostati:
mancavano di spontaneità e armonia nei movimenti e nelle espressioni
facciali, caratteristiche che, solitamente, si ritrovano in un gruppo di
amici. La rilevanza di queste osservazioni mi fu chiara dopo aver
incontrato Peter Levine e Pat Ogden, due terapeuti sensomotori: nei
capitoli successivi, illustrerò il modo in cui il trauma si esprime nel corpo
delle persone.

Dare senso alla sofferenza


Dopo l’anno trascorso in reparto, ripresi a studiare medicina e, una volta
laureato, tornai al MMHC per specializzarmi in psichiatria, entusiasta di
seguire quella formazione. Molti psichiatri famosi si erano specializzati in
quell’istituto; tra loro, Eric Kandel, che, in seguito, vinse il premio Nobel
per la siologia o la medicina. Durante il mio internato, Allan Hobson
scoprì le cellule cerebrali, responsabili della produzione dei sogni, in un
laboratorio nel seminterrato dell’ospedale e i primi studi sulle basi
chimiche della depressione erano stati condotti presso il MMHC. Ma, per
molti di noi specializzandi, l’interesse più grande era costituito dai
pazienti. Trascorrevamo sei ore al giorno con loro, incontrando poi
un’équipe di psichiatri senior per condividere le nostre osservazioni, porre
le nostre domande, facendo a gara a chi adducesse le osservazioni più
argute.
Il nostro grande maestro, Elvin Semrad, ci scoraggiava dal leggere i
manuali di psichiatria durante il primo anno (questa dieta da “fame
intellettuale” spiega perché molti di noi divennero, in seguito, lettori
voraci e scrittori proli ci). Semrad non voleva che la nostra percezione
della realtà fosse oscurata dalle pseudocertezze, fornite dalle diagnosi
psichiatriche. Ricordo di avergli chiesto una volta: “Come chiameresti
questo paziente: schizofrenico o schizoaffettivo?”. Fece una pausa e si
accarezzò il mento, apparentemente perso in pensieri profondi. “Penso
che lo chiamerei Michael McIntyre”, rispose.
Semrad ci insegnò che la maggior parte della sofferenza umana è legata
all’amore e alla perdita e che il lavoro dei terapeuti consiste nell’aiutare le
persone a “riconoscere, vivere e sopportare” la realtà della vita, con tutti i
suoi piaceri e i suoi dispiaceri. “Le maggiori cause della nostra sofferenza
sono le bugie che raccontiamo a noi stessi”, diceva, esortandoci a essere
onesti con noi stessi su ogni aspetto della nostra esperienza. Diceva,
spesso, che le persone non possono mai migliorare senza sapere ciò che
sanno e senza provare ciò che sentono.
Ricordo la mia sorpresa nel sentire questo illustre professore di Harvard
confessare quanto si sentisse confortato, durante la notte, dal contatto del
sedere di sua moglie accanto a lui. La condivisione di questi suoi semplici
bisogni umani ci aiutò a riconoscerne la basilare, ma necessaria rilevanza
per la vita di tutti noi. Il mancato ascolto e il mancato riconoscimento di
tali bisogni si traducano in una vita di stenti, in cui perdono d’importanza
sia la so sticatezza dei nostri pensieri sia i successi che possiamo
raggiungere. Il professore ci insegnò che la guarigione dipende dalla
conoscenza esperienziale: si può essere pienamente responsabili della
propria vita solo se è possibile riconoscere la realtà del proprio corpo, in
tutte le sue dimensioni viscerali.
La nostra professione, però, si stava muovendo in una direzione diversa.
Nel 1968, l’American Journal of Psychiatry pubblicò i risultati dello studio
condotto dal reparto dove ero stato assistente. Essi dimostravano in modo
inequivocabile che pazienti schizofrenici, curati con la sola
farmacoterapia, stavano meglio di coloro che, tre volte alla settimana,
facevano colloqui con i migliori terapeuti di Boston.5 Questo studio
rappresentò una delle tante pietre miliari di un percorso che, via via,
modi cò il modo in cui medicina e psichiatria si avvicinavano ai problemi
psicologici: da espressioni in nitamente variabili di sentimenti e relazioni
intollerabili si stava giungendo a un modello di malattia mentale che
parlava di “disturbi” distinti.
Il modo in cui la medicina studia la sofferenza umana è, da sempre,
determinato dalla tecnologia disponibile in un dato periodo storico. Prima
dell’Illuminismo, le anomalie del comportamento umano erano attribuite
a Dio, al peccato, alla magia, alle streghe e agli spiriti maligni. Fu solo nel
XIX secolo che gli scienziati, in Francia e in Germania, iniziarono a
studiare il comportamento come adattamento alla complessità del mondo.
Ora stava emergendo un nuovo paradigma: la rabbia, la lussuria,
l’orgoglio, l’avidità, l’avarizia e l’ignavia – così come tutti gli altri problemi
con cui gli esseri umani si sono da sempre scontrati – venivano classi cati
come “disturbi” risolvibili con la somministrazione di farmaci mirati.6
Molti psichiatri cominciarono a sentirsi sollevati e felici di diventare “veri
scienziati”; come i loro colleghi medici che dirigevano laboratori,
svolgevano esperimenti sugli animali, possedevano attrezzature costose, e
potevano somministrare complicati test diagnostici: così facendo, avevano
messo da parte le vecchie teorie di loso come Freud e Jung. Un
importante manuale di psichiatria osò affermare: “La causa della malattia
mentale è oggi considerata una anomalia del cervello, uno squilibrio
chimico”.7
Come i miei colleghi, abbracciai con entusiasmo la rivoluzione
farmacologica. Nel 1973, divenni il primo specializzando-capo in
psicofarmacologia al MMHC. Fui anche il primo psichiatra a Boston a
somministrare il litio a pazienti con disturbo maniaco-depressivo (avevo
letto del lavoro di John Cade con il litio in Australia e avevo ricevuto
l’autorizzazione dell’ospedale per provarlo). Con il litio, una donna che,
da 35 anni, ogni mese di maggio, metteva in atto un comportamento
maniacale tendendo poi a deprimersi no a mostrare condotte suicidarie
nel mese di novembre, si era stabilizzata, rimanendo emotivamente
“regolata” per tre anni, ovvero no a quando le fu consentito l’accesso alle
cure farmacologiche. Facevo anche parte del primo gruppo di ricerca
degli Stati Uniti, incaricato di testare l’antipsicotico Clozaril su pazienti
cronici, “parcheggiati” nelle corsie di un vecchio e malsano manicomio.8
Alcune delle loro risposte avevano del miracoloso: persone che avevano
trascorso gran parte della loro vita chiuse nelle proprie terri canti realtà
erano ora in grado di tornare alle loro famiglie e di far parte della
comunità; pazienti sommersi dall’oscurità della disperazione iniziavano a
rispondere alla bellezza del contatto umano e al piacere di lavorare e
giocare. Questi risultati sorprendenti ci rendevano ottimisti perché,
nalmente, avevamo il potere di scon ggere la miseria umana.
L’uso dei farmaci antipsicotici costituì un fattore importante nella
riduzione del numero di persone che vivevano negli ospedali psichiatrici
negli Stati Uniti da oltre 500.000 pazienti nel 1955 si arrivò a meno di
100.000 nel 1996.9 Per i giovani, che non sanno come fosse il mondo
prima dell’avvento di questi trattamenti, il cambiamento può apparire
pressoché inimmaginabile.
Durante il mio primo anno di medicina, in visita al Kankakee State
Hospital nell’Illinois, avevo visto un’inserviente lavare con un tubo di
gomma dozzine di pazienti nudi, sporchi, deliranti, in una stanza spoglia,
attrezzata di grondaie per il de usso delle acque. Questo ricordo mi
appare oggi come un vero e proprio incubo, non un qualcosa a cui ho
realmente assistito. Il mio primo lavoro, dopo aver terminato l’internato
nel 1974, consistette nel ricoprire il ruolo di penultimo direttore di quello
che, una volta, era stato un istituto molto ambito, lo State Hospital di
Boston. In passato, aveva ospitato migliaia di pazienti e si estendeva per
centinaia di ettari di terreno, con dozzine di edi ci, tra cui serre, giardini e
laboratori, molti dei quali erano già allora in rovina. In quel periodo, mi
resi conto che i pazienti venivano progressivamente dispersi nelle
“comunità”, termine generico indicante i rifugi anonimi e le case di cura,
dove la maggior parte dei pazienti niva per essere ricoverata (ironia della
sorte, l’ospedale era nato come un “asylum” – parola che signi ca
“rifugio”, ma che via via assunse una connotazione sinistra. Era, in realtà,
una comunità protetta, dove tutti erano a conoscenza dei nomi e delle
idiosincrasie di ogni paziente). Nel 1979, poco dopo essere andato a
lavorare alla VA, le porte del Boston State Hospital vennero
de nitivamente chiuse, lasciando all’interno una città fantasma.
Durante la mia permanenza al Boston State Hospital, continuavo
parallelamente a lavorare nel laboratorio di psicofarmacologia del
MMHC, che stava inaugurando un nuovo corso sperimentale. Nel 1960,
alcuni scienziati del National Institutes of Health iniziarono a sviluppare
tecniche per isolare e misurare ormoni e neurotrasmettitori del sangue e
del cervello.
I neurotrasmettitori sono messaggeri chimici, che trasportano
informazioni da neurone a neurone, permettendoci di impegnarci in
modo ef cace nelle varie situazioni.
Ora che gli scienziati stavano trovando prove che livelli anormali di
noradrenalina erano associati alla depressione e livelli anormali di
dopamina alla schizofrenia, c’era la speranza di poter individuare farmaci
che avessero come target speci che anomalie cerebrali. Questa speranza,
al momento, non si era mai completamente concretizzata, ma gli sforzi di
misurare le modalità con cui i farmaci possono in uenzare i sintomi
mentali portarono a un altro profondo cambiamento nella professione. La
necessità dei ricercatori di costruire un modo preciso e sistematico per
comunicare le loro scoperte condusse allo sviluppo dei cosiddetti Criteri
diagnostici per la ricerca, a cui contribuii come assistente ricercatore. Tali
criteri costituirono, in ne, la base del primo manuale diagnostico dei
problemi psichiatrici, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association, comunemente noto
come la “bibbia della psichiatria”. Nella prefazione dell’epocale edizione
del DSM-III, del 1980, si riconosceva, con modestia, come questo sistema
diagnostico fosse piuttosto impreciso – così impreciso da non poter essere
usato per scopi forensi o assicurativi.10 Come vedremo, l’approccio
moderato ebbe vita breve.

Lo shock inevitabile
Preoccupato dalle tante domande aperte e persistenti sullo stress
traumatico, cominciò a intrigarmi l’idea che il campo nascente delle
neuroscienze potesse fornire alcune risposte e inizai, così, a partecipare
alle riunioni dell’American College of Neuropsychopharmacology
(ACNP). Nel 1984, l’ACNP organizzò un gran numero di conferenze
interessanti sullo sviluppo dei farmaci, ma fu solo poche ore prima del
mio volo di linea per tornare a Boston che mi trovai a seguire una
presentazione da parte di Steven Maier, dell’Università del Colorado.
Maier aveva collaborato con Martin Seligman dell’Università della
Pennsylvania. L’argomento del suo intervento era l’impotenza appresa
negli animali. Maier e Seligman avevano ripetutamente somministrato
dolorose scosse elettriche a cani, intrappolati in gabbie chiuse.
Chiamarono questa condizione, “shock inevitabile”.11 Essendo un amante
dei cani, mi resi conto che non avrei mai potuto svolgere questo tipo di
ricerca, ma ero curioso di conoscere l’impatto di una crudeltà simile sugli
animali.
Dopo la somministrazione di diverse scosse elettriche, i ricercatori
aprivano le porte delle gabbie, dando, comunque, delle scosse ai cani. I
cani del gruppo di controllo, che non avevano mai ricevuto delle scosse
elettriche, scappavano immediatamente, ma i cani che avevano subito lo
“shock inevitabile” non tentavano in alcun modo di fuggire, nemmeno
quando la porta della gabbia veniva spalancata. Rimanevano lì a guaire e a
defecare. La mera opportunità di scappare non fa sì che gli animali
traumatizzati, o le persone traumatizzate, prendano la via della libertà.
Come i cani di Maier e Seligman, molte persone traumatizzate possono,
semplicemente, rinunciare a fuggire. Piuttosto che rischiare di
sperimentare nuove possibilità, rimangono bloccate nella paura che già
conoscono. Ero attratto dal lavoro di Maier. Quello che avevano fatto a
quei poveri cani era esattamente quello che era successo ai miei pazienti
traumatizzati: erano stati esposti a qualcuno (o a qualcosa) che aveva
in itto loro un terribile dolore, da cui non avevano avuto modo di fuggire.
Ho ripensato rapidamente ai pazienti che avevo trattato. Quasi tutti, in
varia misura, si erano trovati intrappolati o immobilizzati, incapaci di fare
alcunché per scongiurare l’inevitabile. La loro risposta di fuga o di attacco
era stata sventata e il risultato era stato sia un’estrema agitazione sia il
collasso.
Maier e Seligman scoprirono che i cani traumatizzati producevano
quantità di ormoni dello stress molto più elevate del normale. Questi dati
confermavano quanto si stava cominciando a conoscere rispetto alle basi
biologiche del trauma e dello stress. Un gruppo di giovani ricercatori, tra i
quali Steve Southwick e John Krystal di Yale, Arieh Shalev della Hadassah
Medical School di Gerusalemme, Frank Putnam del National Institute of
Mental Health (NIMH) e Roger Pitman, poi ad Harvard, stavano
scoprendo che tutte le persone traumatizzate continuano a secernere
grandi quantità di ormoni dello stress, anche dopo che il pericolo è
passato. Rachel Yehuda, al Mount Sinai di New York, si confrontò con
noi rispetto alla scoperta paradossale che mostrava che i livelli di
cortisolo, l’ormone dello stress, erano bassi nel PTSD. Queste scoperte
cominciarono ad avere un senso solo quando la sua ricerca chiarì che il
cortisolo mette ne alla risposta stressogena, inviando un segnale di “tutto
a posto”, e che, nel PTSD, l’ormone dello stress, di fatto, non ritorna al
livello basale al venir meno del pericolo.
Idealmente, il nostro sistema ormonale legato allo stress dovrebbe
fornire una risposta immediata alla minaccia, per poi tornare rapidamente
in equilibrio. Nei pazienti con PTSD, tuttavia, questo sistema non
funziona. Le risposte di attacco/fuga/congelamento persistono anche
quando il pericolo è svanito e, come nel caso dei cani, impediscono di
tornare alla normalità. Al contrario, la continua secrezione di ormoni dello
stress esita negli stati di panico e agitazione e, nel lungo periodo,
danneggia irrimediabilmente la salute.
Quel giorno persi l’aereo: dovevo assolutamente parlare con Steve
Maier. Il suo lavoro mi diede suggerimenti preziosi, non solo per le
problematiche profonde dei miei pazienti, ma anche per la ricerca di
potenziali strategie e idee per la loro soluzione. Seligman e Maier avevano
scoperto, per esempio, che l’unico modo per insegnare ai cani
traumatizzati a evitare la scossa elettrica, una volta aperte le gabbie, era
quello di portarli, più e più volte, fuori dalle gabbie stesse in modo che
potessero sperimentare sicamente come fare a cavarsela.
Mi chiedevo, allora, se anch’io non potessi dare una mano ai pazienti nel
recupero della fondamentale capacità di orientamento, dicendo loro che
non avevano avuto modo di difendersi. E mi chiedevo se i miei pazienti
avessero anche bisogno di un’esperienza sica, per ripristinare un senso
somatico, viscerale, di controllo. Che cosa sarebbe accaduto se avessero
potuto imparare a muoversi per sfuggire a una situazione potenzialmente
minacciosa, simile al trauma in cui erano stati intrappolati e
immobilizzati? Come discuterò nella parte quinta del libro, dedicata al
trattamento, questa è stata una delle conclusioni a cui, alla ne, sono
arrivato.
Ulteriori studi sugli animali – topi, ratti, gatti, scimmie ed elefanti –
portarono a risultati interessanti.12 Per esempio, quando i ricercatori
introdussero nell’esperimento un suono forte e fastidioso, i topi che erano
stati allevati in un ambiente caldo, con abbondanza di cibo, si diressero,
immediatamente, verso la tana. Allo stesso modo, i topi cresciuti in un
ambiente rumoroso, con scorte di cibo scarse, corsero verso la tana, anche
dopo aver trascorso del tempo in un ambiente più piacevole:13 gli animali
spaventati tornavano alla tana, indipendentemente dal fatto che la tana
fosse sicura o meno. Pensai ai miei pazienti provenienti da famiglie
abusanti, alle quali ritornavano, nendo per esserne ripetutamente feriti.
Le persone traumatizzate sono condannate a cercare rifugio in ciò che è
familiare? A fronte di ciò, perché non aiutarli a legarsi a luoghi e attività
protettivi e piacevoli? E, soprattutto, è possibile tutto ciò?14

La dipendenza dal trauma:


il dolore del piacere e il piacere del dolore
Una delle cose più sbalorditive per me e per il mio collega Mark
Greenberg, con cui conducevo dei gruppi psicoterapeutici per i veterani
del Vietnam, fu osservare come, nonostante i loro sentimenti di orrore e di
dolore, molti di essi sembrassero “tornare alla vita” soltanto nel momento
in cui potevano parlare della loro caduta da un elicottero e dei loro
compagni agonizzanti (l’ex corrispondente del New York Times, Chris
Hedges, che ha raccolto un numero elevato di testimonianze su guerre
spietate e violente, ha intitolato il suo libro War Is a Force That Gives Us
Meaning15).16 Molte persone traumatizzate ricercano esperienze che alla
maggior parte di noi apparirebbero ripugnanti17 e, spesso, i pazienti
lamentano un vago senso di vuoto e di noia quando non sono arrabbiati, o
non si sentono sottomessi, o non sono coinvolti in qualche attività
pericolosa.
La mia paziente Julia era stata brutalmente violentata e minacciata con
una pistola, in una stanza d’albergo, all’età di sedici anni. Poco dopo,
ebbe una relazione con un uomo violento che la faceva prostituire. Veniva
regolarmente picchiata. Fu più volte arrestata per prostituzione, ma
tornava sempre dal suo protettore. Alla ne, i suoi nonni intervennero,
nanziandole un programma di riabilitazione intensiva. Dopo aver
completato con successo il trattamento in un reparto ospedaliero, Julia
iniziò a lavorare come receptionist, seguendo dei corsi presso l’università
locale. Per il suo corso di sociologia, scrisse una tesina sulla possibilità di
liberalizzare la prostituzione, dopo aver letto le memorie di alcune
prostitute piuttosto note. Pian piano, cominciò ad abbandonare tutti i
corsi universitari e, rapidamente, anche la relazione con un compagno di
corso si inasprì: disse che la annoiava a morte e che trovava repellenti
persino i suoi pantaloncini. In seguito, rimorchiò in metropolitana il
tossicodipendente che, per primo, l’aveva picchiata e perseguitata,
ritrovando la motivazione per tornare in terapia dopo essere stata
violentemente pestata per l’ennesima volta.
Freud aveva coniato il seguente termine per queste riattualizzazioni
traumatiche: “coazioni a ripetere”. Insieme a molti suoi seguaci, credeva
che tali riattualizzazioni (o re-enactment18) fossero un tentativo inconscio
di controllare una situazione dolorosa, volto a raggiungere il
padroneggiamento e la risoluzione del trauma. Tuttavia, non ci sono prove
per questa teoria: la ripetizione aumenta solo l’odio verso se stessi,
portando con sé ulteriore dolore. Anche il rivivere ripetutamente il
trauma in terapia, infatti, può rafforzare la preoccupazione e il rimuginio
su quanto accaduto.
Mark Greenberg e io, avevamo deciso di saperne di più sugli
“attrattori”, ovvero sulle cose che ci affascinano, ci motivano e ci fanno
sentire vivi. Normalmente, gli attrattori hanno lo scopo di farci stare
meglio. Allora, perché così tante persone sono attratte da situazioni
pericolose o dolorose? Avevamo, in ne, trovato uno studio che spiegava
come le attività paurose o dolorose possano, in un secondo momento,
diventare esperienze eccitanti19. Nel 1970, Richard Solomon,
dell’Università della Pennsylvania, aveva dimostrato che il corpo impara a
adattarsi a tutti i tipi di stimoli. Si diventa dipendenti dalle droghe
ricreative perché, nell’immediato, fanno sentire molto bene, ma anche
attività come la sauna, la maratona o il paracadutismo, che, inizialmente,
procurano disagio e persino terrore, alla ne possono diventare molto
piacevoli. Questo adattamento graduale segnala il raggiungimento di un
nuovo equilibrio chimico all’interno del corpo: è questo il modo in cui i
maratoneti riescono a ottenere un senso di benessere e di euforia dallo
spingere il loro corpo al limite.
A questo punto, proprio come con la tossicodipendenza, cominciamo a
desiderare di svolgere quell’attività, deprimendoci qualora non sia
possibile farlo. Col tempo, le persone sono più tormentate dalla sofferenza
dell’astinenza che dall’attività in sé. Questa teoria potrebbe spiegare
perché alcune persone paghino per essere picchiate, o si brucino con le
sigarette o perché siano attratte solo da persone che fanno loro del male.
La paura e l’avversione, in modo perverso, si trasformano in piacere.
Solomon aveva ipotizzato che le endor ne – prodotti chimici simili alla
mor na che il cervello secerne in risposta allo stress – giochino un ruolo
cruciale nei meccanismi paradossali della dipendenza, prima descritta.
Ripensai alla sua teoria quando, da topo da biblioteca, trovai un
documento intitolato Pain in Men Wounded in Battle [Il dolore degli
uomini feriti in battaglia] pubblicato nel 1946. Dopo aver osservato che il
75% dei soldati gravemente feriti sul fronte italiano non chiese la mor na,
un chirurgo, di nome Henry K. Beecher, ipotizzò che “le emozioni forti
possono bloccare il dolore”.20 Le osservazioni di Beecher avrebbero
potuto essere rilevanti per le persone con PTSD? Mark Greenberg, Roger
Pitman, Scott Orr e io decidemmo di chiedere a otto veterani del Vietnam
se fossero disposti a sottoporsi a un test sul dolore, mentre guardavano
alcune scene di un lm. La prima scena mostrata era tratta da Platoon di
Oliver Stone (1986), un lm con immagini violente; durante la proiezione,
misuravamo per quanto tempo i veterani potessero tenere la mano destra
immersa in un secchio di acqua ghiacciata. Ripetemmo questo
esperimento con un lmato che non presentava scene di violenza. Sette
degli otto veterani mantennero le mani nell’acqua fredda per un tempo
più lungo del 30%, durante la proiezione di Platoon. Calcolammo, poi,
che la quantità di analgesia prodotta, guardando quindici minuti di un
lm di combattimento, era equivalente a quella prodotta da un’iniezione
di otto milligrammi di mor na, solitamente somministrata in Pronto
Soccorso per fratture al torace.
Potevamo concludere che l’ipotesi di Beecher, secondo cui “le emozioni
forti possono bloccare il dolore”, fosse il risultato del rilascio di sostanze
simili alla mor na, generate dal cervello. Tutto ciò suggeriva che, per
molte persone traumatizzate, la riesposizione allo stress potrebbe fornire
una sensazione simile alla percezione del sollievo dall’ansia.21
L’esperimento si era rivelato interessante, pur non spiegando il motivo per
cui Julia continuasse a tornare dal suo protettore violento.

Calmare il cervello
L’incontro dell’ACNP del 1985 fu, se possibile, ancora più stimolante di
quello dell’anno precedente. Jeffrey Gray, un professore del Kings
College, tenne una conferenza in cui parlava dell’amigdala, un gruppo di
cellule cerebrali che determina se un suono, un’immagine, o una
sensazione corporea possano costituire una minaccia. I dati di Gray
mostravano che la sensibilità dell’amigdala dipende, almeno in parte, dalla
quantità di serotonina presente in quella parte del cervello. Gli animali
con bassi livelli di serotonina si mostravano iper-reattivi a stimoli stressanti
(come suoni forti), mentre livelli elevati di serotonina inibivano il sistema
di difesa, diminuendo la probabilità di una risposta aggressiva o di
congelamento rispetto a potenziali minacce.22
Tutto ciò mi spingeva a un’importante considerazione: i miei pazienti
erano, spesso, inclini a scoppi di rabbia rispetto a provocazioni banali e
nivano per sentirsi devastati al minimo ri uto. E così mi interessai al
ruolo della serotonina nel PTSD. Altri ricercatori avevano dimostrato che
esemplari di scimmie maschi-dominanti avevano livelli di serotonina
molto più alti, rispetto ad animali di rango più basso, ma il livello di
serotonina diminuiva quando veniva impedito loro di mantenere il
contatto visivo con le scimmie che avevano dominato. Al contrario, le
scimmie di basso rango, che avevano ricevuto supplementi di serotonina,
si distinguevano dal gruppo, mostrando atteggiamenti di leadership.23.
L’ambiente sociale interagisce con la chimica del cervello. La
manipolazione di una scimmia verso una posizione di dominanza
gerarchica inferiore aveva diminuito i livelli di serotonina, mentre
l’incremento chimico della serotonina aveva elevato il rango delle scimmie
prima subordinate.
Le implicazioni per le persone traumatizzate erano evidenti. Come per
gli animali del dottor Gray, che avevano bassi livelli di serotonina, le
persone traumatizzate erano iper-reattive e la loro capacità di far fronte
alle situazioni era, spesso, compromessa. Se fossimo riusciti a trovare il
modo per aumentare la serotonina nel cervello, forse avremmo potuto
occuparci, contemporaneamente, di entrambi i problemi. A quello stesso
congresso del 1985, avevo sentito che le aziende farmaceutiche stavano
sviluppando due nuovi prodotti, utili alla risoluzione dei problemi appena
descritti ma, dal momento che nessuno dei farmaci era disponibile, avevo
condotto degli esperimenti, per un breve periodo, con un integratore
alimentare naturale, l’L-triptofano, un precursore chimico della
serotonina, i cui risultati si erano rivelati deludenti. Uno dei farmaci sotto
indagine non arrivò mai sul mercato. L’altro era la uoxetina che,
conosciuta come Prozac, divenne una delle sostanze psicoattive di
maggior successo.
L’8 febbraio del 1988, un lunedì, il Prozac venne messo sul mercato dalla
società farmaceutica Eli Lilly. Il primo paziente che vidi quel giorno era
una giovane donna con una terribile storia di abuso infantile e con una
grave sintomatologia bulimica: trascorreva gran parte della sua vita tra
abbuffate e condotte di eliminazione del cibo. Le prescrissi il Prozac e,
quando tornò, il giovedì successivo, disse: “Gli ultimi giorni sono stati
molto diversi: ho mangiato quando avevo fame e ho trascorso il resto del
tempo svolgendo i miei compiti scolastici”. È stata una delle affermazioni
più importanti che io abbia mai ascoltato nel mio studio.
Il venerdì vidi un’altra paziente a cui avevo prescritto il Prozac il lunedì
precedente. Era una signora con una depressione cronica, madre di due
gli in età scolare, preoccupata per i suoi fallimenti sia come madre sia
come moglie e sopraffatta dalle richieste dei genitori, che l’avevano
maltrattata da bambina. Dopo quattro giorni di Prozac, mi chiese se
potesse saltare l’appuntamento del lunedì successivo, il “President’s
Day”.24 “Dopo tutto”, mi spiegò, “non devo andare a prendere i miei gli
alla lezione di sci, lo farà mio marito, e quel giorno staremo fuori. È molto
bello che i bambini possano avere dei bei ricordi di noi, che ci divertiamo
insieme”.
Si trattava di una paziente che faceva fatica a superare la giornata. Dopo
quella seduta, chiamai una persona di mia conoscenza alla Eli Lilly,
dicendole: “Avete a disposizione un farmaco che aiuta le persone a stare
nel presente invece di sentirsi bloccati nel passato”. In seguito, la Eli Lilly
mi elargì un piccolo nanziamento per studiare gli effetti del Prozac nel
PTSD in sessantaquattro persone – 22 donne e 42 uomini –; era il primo
studio sugli effetti di questa nuova classe di farmaci sul PTSD. La nostra
équipe della Trauma Clinic coinvolse 33 soggetti non veterani, mentre i
miei collaboratori, ex colleghi presso la VA, ingaggiarono 31 veterani di
guerra. Per otto settimane, metà di ogni gruppo ricevette Prozac e l’altra
metà un placebo. Fu uno studio condotto in cieco: né noi, né i pazienti
sapevamo quale sostanza venisse somministrata, in modo che le ipotesi
teoriche non in ciassero le nostre valutazioni.
Tutti i pazienti – anche coloro che avevano ricevuto il placebo –
evidenziavano miglioramenti di un certo rilievo. La maggior parte degli
studi sul trattamento del PTSD dimostra un signi cativo effetto del
placebo. Le persone che hanno il coraggio di partecipare a uno studio per
il quale non sono pagate, in cui verranno più volte bucate con degli aghi, e
in cui c’è solo un 50% di possibilità di ottenere un farmaco attivo, sono,
indubbiamente, molto motivate a risolvere i loro problemi. La
ricompensa, forse, coincide con l’attenzione che viene loro riservata, con
la possibilità di rispondere alle domande su come si sentono e pensano. In
questo senso, si può concludere che, forse, i baci di una madre che calma
il proprio glio siano equiparabili a un effetto placebo.
Il Prozac si dimostrò decisamente più ef cace rispetto al placebo per i
pazienti della Trauma Clinic. I pazienti dormivano meglio, avevano un
maggiore controllo sulle loro emozioni ed erano meno preoccupati del
passato, rispetto a coloro che avevano ricevuto una compressa di
zucchero.25 Tuttavia, in modo sorprendente, il Prozac non ebbe alcun
effetto sui veterani di guerra della VA: i sintomi di PTSD rimanevano
invariati. Questi risultati furono confermati dalla maggior parte degli studi
farmacologici sui veterani di guerra svolti negli anni successivi: mentre
alcuni mostravano miglioramenti modesti, la maggior parte dei pazienti
non ne aveva bene ciato affatto. Non sono mai stato in grado di spiegare
questo risultato, e non posso accettare la spiegazione più comune: ricevere
una pensione o un sostentamento per l’invalidità impedisce alle persone di
stare meglio. Dopo tutto, l’amigdala non sa nulla di pensioni, rileva solo
minacce.
Tuttavia, i farmaci come il Prozac o lo Zoloft, il Celexa, il Cymbalta e il
Paxil hanno dato un contributo sostanziale al trattamento dei disturbi
correlati al trauma. Nel nostro studio sul Prozac, utilizzammo il test di
Rorschach per misurare come le persone traumatizzate percepissero
l’ambiente circostante. I risultati ci diedero un indizio importante su come
questa classe di farmaci (formalmente noti come inibitori selettivi della
ricaptazione della serotonina, o SSRI) potesse funzionare. Prima di
prendere il Prozac, le reazioni dei pazienti erano in larga misura
dipendenti dalle loro emozioni. Mi viene in mente, nella fattispecie, una
paziente olandese (non dello studio sul Prozac) che mi contattò per una
violenza subita nell’infanzia e che si convinse che l’avrei violentata, non
appena riconobbe il mio accento olandese. Il Prozac apportò una
sostanziale differenza, conferendo ai pazienti con PTSD un senso
progettuale26 e aiutandoli a esercitare un considerevole controllo sui loro
impulsi. Jeffrey Gray aveva ragione: l’aumento del livello di serotonina
rendeva i miei pazienti meno reattivi.
Il trionfo della farmacologia
Non ci volle molto perché la farmacologia rivoluzionasse la psichiatria. I
farmaci diedero ai medici un maggior senso di ef cacia e fornirono uno
strumento che andava oltre la terapia della parola. Produssero anche
redditi e pro tti. Le sovvenzioni da parte dell’industria farmaceutica
sostenevano laboratori pieni di studenti e laureati entusiasti, consentendo
l’acquisto di strumenti so sticati. I dipartimenti di Psichiatria, da sempre
situati nei sotterranei degli ospedali, iniziarono a spostarsi verso i piani
alti, sia in termini di posizione concreta sia di prestigio.
Un segnale di questo cambiamento si ebbe al MMHC, dove, nei primi
anni del 1990, la piscina dell’ospedale fu pavimentata per far spazio a un
laboratorio e il campo da basket interno divenne un magazzino per i
farmaci. Per decenni, medici e pazienti avevano democraticamente
condiviso il piacere di giocare in piscina e giocare a pallone in giardino.
Avevo trascorso ore in palestra con i pazienti, quando ero un assistente di
corsia: l’unico posto in cui tutti noi potevamo ripristinare un senso di
benessere sico e che rappresentava un’isola in mezzo alla miseria con cui
convivevamo ogni giorno era diventato un luogo per “aggiustare” i
pazienti.
La rivoluzione della farmacologia, iniziata come una promessa,
potrebbe, alla ne, aver fatto sia male sia bene. La teoria secondo cui la
malattia mentale è causata principalmente da squilibri chimici nel
cervello, correggibili con farmaci speci ci, è, ormai, largamente accettata,
da parte sia dei media sia dei consumatori, nonché dalla classe medica.27
In molti casi, i farmaci hanno rimpiazzato la terapia, permettendo ai
pazienti di reprimere i loro problemi senza affrontare le questioni di
fondo. Gli antidepressivi possono fare tutta la differenza del mondo nel
favorire il sonno quotidiano dei pazienti e, se bisogna operare una scelta
tra assumere un sonnifero o bere no a stordirsi ogni notte per poter
dormire almeno un po’, non vi è alcun dubbio su quale sia la cosa
migliore. Per le persone stremate dal tentativo di farcela da sole attraverso
lezioni di yoga, allenamenti quotidiani o semplicemente tenendo duro, i
farmaci spesso rappresentano un “rimedio salvavita”. Gli SSRI possono
essere molto utili per rendere le persone traumatizzate meno schiave delle
loro emozioni, ma devono essere presi in considerazione in aggiunta a un
trattamento più ampio.28
Dopo aver condotto numerosi studi sui farmaci per il PTSD, capii che
gli psicofarmaci hanno un importante rovescio della medaglia: niscono
col “distrarre” dall’occuparsi dei problemi sottostanti. Il modello della
malattia mentale rischia di “prendere il sopravvento” sul destino delle
persone e rischia di rendere i medici e le compagnie assicurative
responsabili del perpetuarsi dei problemi dei pazienti.
Negli ultimi trent’anni, gli psicofarmaci sono diventati un pilastro della
cultura medica, con conseguenze non molto chiare. Consideriamo il caso
degli antidepressivi. Se fossero davvero ef caci come siamo stati indotti a
credere, la depressione dovrebbe essere diventata ormai un problema di
poco conto nella nostra società. Invece, anche se l’uso degli antidepressivi
continua ad aumentare, non si è per nulla modi cato il numero di ricoveri
ospedalieri per depressione. Il numero di persone affette da depressione è
triplicato nel corso degli ultimi due decenni e, oggi, un americano su dieci
assume antidepressivi.29
La nuova generazione di farmaci antipsicotici, come Abilify, Risperdal,
Zyprexa e Seroquel, risulta vendutissima negli Stati Uniti. Nel 2012, sono
stati spesi 1526,228 milioni di dollari per l’Abilify: per nessun altro
farmaco si è mai registrata una spesa così ingente. Al terzo posto c’è il
Cymbalta, un antidepressivo che ha fruttato ben oltre un miliardo di
dollari,30 anche se non è mai stata dimostrata la sua maggior ef cacia
rispetto agli antidepressivi di vecchia generazione, come il Prozac, per i
quali sono disponibili anche i corrispondenti generici, molto più
economici. Medicaid, il programma sanitario governativo per i pazienti
meno abbienti, spende molto più in antipsicotici rispetto a qualsiasi altra
classe di farmaci.31 Nel 2008, l’anno più recente a cui possiamo riferirci
per disporre di dati completi, sono stati spesi 3,6 miliardi di dollari per i
farmaci antipsicotici, rispetto agli 1,65 miliardi di dollari del 1999. Il
numero di persone, al di sotto dei vent’anni, che ha ricevuto delle
prescrizioni dal Medicaid per farmaci antipsicotici è triplicato tra il 1999 e
il 2008. Il 4 novembre 2013, Johnson & Johnson ha accettato di pagare
più di 2,2 miliardi di dollari tra cause penali e civili, per difendersi dalle
accuse di aver impropriamente promosso l’antipsicotico Risperdal nel
trattamento di pazienti anziani, adulti, bambini e persone con disabilità.32
Ma non c’è alcuna accusa formale per i medici che li hanno prescritti.
Mezzo milione di bambini negli Stati Uniti assume attualmente
antipsicotici. È quattro volte più probabile che bambini appartenenti a
famiglie con basso reddito ricevano antipsicotici rispetto ai bambini
coperti da assicurazione. Questi farmaci, spesso, vengono utilizzati per
rendere i bambini abusati e trascurati più trattabili. Nel 2008, a 19.045
bambini, tra zero e cinque anni, sono stati prescritti antipsicotici
attraverso Medicaid.33 Uno studio, effettuato sulla base dei dati forniti da
Medicaid, relativi a tredici stati, indica che il 12,4% dei bambini in
af damento ha ricevuto antipsicotici, rispetto al 1,4% della popolazione
infantile generale, che rientra nei requisiti Medicaid.34 Questi farmaci
rendono i bambini più gestibili da un punto di vista comportamentale e
meno aggressivi, ma interferiscono con la motivazione, il gioco e la
curiosità, indispensabili per lo sviluppo di un buon funzionamento e per
diventare membri operativi della società. I bambini che assumono questi
farmaci sono anche a rischio di diventare obesi e diabetici. Nel frattempo,
le overdose di farmaci, implicanti combinazioni di psicofarmaci e
antidolori ci, continuano ad aumentare.35
Dato che i farmaci sono diventati così redditizi, è raro che le principali
riviste mediche pubblichino studi sui trattamenti non farmacologici per
curare i problemi psichici.36 I clinici che prendono in considerazione
questi trattamenti sono, in genere, etichettati come “alternativi”. Studi
relativi alle cure non farmacologiche riescono dif cilmente a ottenere dei
nanziamenti, a meno che non prevedano protocolli cosiddetti
standardizzati, mediante i quali pazienti e terapeuti procedono attraverso
passaggi rigidamente strutturati, al ne di determinare piccoli
aggiustamenti, basati sulle necessità del singolo paziente. La medicina
convenzionale si impegna strenuamente per raggiungere una qualità di
vita migliore per mezzo della chimica, ma la possibilità di cambiare
effettivamente la nostra siologia e l’equilibrio interiore con mezzi diversi
dai farmaci non viene quasi mai contemplata.

Adattamento o malattia?
Il modello della malattia mentale poggia su quattro punti cardine: 1) la
capacità di farci reciprocamente del male si interfaccia con quella di
prenderci cura l’uno dell’altro. Ricostruire relazioni e comunità è
fondamentale per il ripristino del benessere; 2) il linguaggio ci dà il potere
di cambiare noi stessi e gli altri, comunicando le nostre esperienze,
aiutandoci a de nire ciò che sappiamo e trovando un senso comune alle
cose; 3) abbiamo la capacità di regolare la nostra siologia, comprese
alcune delle cosiddette funzioni involontarie del corpo e del cervello,
attraverso alcune attività di base come la respirazione, il movimento, e il
tocco; 4) possiamo cambiare le condizioni sociali per creare ambienti in
cui i bambini e gli adulti possano sentirsi al sicuro e crescere in prosperità.
Quando ignoriamo queste dimensioni essenziali per l’umanità, priviamo
le persone dell’opportunità di guarire dal trauma e di riconquistare la loro
autonomia. Essere un paziente, anziché un partecipante attivo del proprio
processo di cura, fa sì che la persona sofferente venga separata dalla
comunità di appartenenza, divenendo estranea al proprio senso di sé
interno. Dati i limiti dei farmaci, cominciavo a chiedermi se si potessero
trovare modi più naturali per aiutare le persone a gestire la risposta post-
traumatica.

1. Poeta e scrittore statunitense, fondatore del New Criticism. [NdC]


2. Squadra di baseball della Major League Baseball, nata nel 1901. [NdC]
3. G. Ross Baker, P.G. Norton, V. Flintoft, R. Blais, A. Brown, J. Cox, E. Etchells, W.A. Ghali, P.
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9. E.F. Torrey (1997), Out of the Shadows: Confronting America’s Mental Illness Crisis. John Wiley
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Community Mental Health Act del presidente Kennedy del 1963, in cui il governo federale si è
fatto carico delle spese inerenti la salute mentale e ha premiato gli stati che si sono occupati del
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15. Letteralmente, “la guerra è una forza che ci dà signi cato”; in italiano, il titolo del libro è Il
fascino oscuro della guerra, edito da Laterza nel 2004. [NdC]
16. C. Hedges (2003), Il fascino oscuro della guerra, tr. it. Laterza, Bari 2004.
17. B.A. van der Kolk (1989), “The compulsion to repeat trauma: Revictimization, attachment and
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18. Nel testo verrà utilizzato il termine inglese. [NdC]
19. R.L. Solomon (1980), “The opponent-process theory of acquired motivation: The costs of
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20. H.K. Beecher (1946), “Pain in men wounded in battle”, in Annals of Surgery, 123(1), pp. 96-
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21. B.A. van der Kolk, M.S. Greenberg, S.P. Orr (1986), “Pain perception and endogenous opioids
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R.K. Pitman, B.A. van der Kolk, S.P. Orr, M.S. Greenberg (1990), “Naloxone reversible stress
induced analgesia in Post Traumatic Stress Disorder”, in Archives of General Psychiatry, 47, pp.
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22. J.A. Gray, N. McNaughton (1996), “The neuropsychology of anxiety: Reprise”, in Nebraska
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23. M.J. Raleigh, G.L. Brammer, M.T. McGuire (1984), “Social and environmental in uences on
blood serotonin concentrations in monkeys”, in Archives of General Psychiatry, 41, pp. 505-510.
24. Festa degli Stati Uniti d’America, nata per commemorare il compleanno di George Washington
e celebrata, a livello federale, il terzo lunedì di febbraio. [NdC]
25. B.A. van der Kolk, D. Dreyfuss, M. Michaels, D. Shera, R. Berkowitz, R. Fisler, G. Saxe (1994),
“Fluoxetine in Post Traumatic Stress”, in Journal of Clinical Psychiatry, pp. 517-522.
26. Per gli amanti del Rorschach, aveva capovolto il rapporto C + CF/FC.
27. G.E. Jackson (2005), Rethinking Psychiatric Drugs: A Guide for Informed Consent,
AuthorHouse, Bloomington, IN; R. Whitaker (2011), Anatomy of an Epidemic: Magic Bullets,
Psychiatric Drugs and the Astonishing Rise of Mental Illness in America, Random House, New
York.
28. Torneremo su questo argomento nel capitolo 15, dove si discute il nostro studio, che mette a
confronto l’uso del Prozac con l’EMDR e in cui si dimostra che l’EMDR conduce a risultati
migliori a lungo termine nel trattamento della depressione, in persone che hanno subito un trauma
in età adulta.
29. J.M. Zito, D.J. Safer, S. Dosreis, J.F. Gardner, L. Magder, K. Soeken, M. Boles, F. Lynch, M.A.
Riddle (2003), “Psychotropic practice patterns for Youth: A 10-Year perspective”, in Archives of
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30. http://en.wikipedia.org/ wiki/ List_ of_ largest_ selling_ pharmaceutical_ products.
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35. A.J. Hall, J.E. Logan, R.L. Toblin, J.A. Kaplan, J.C. Kraner, D. Bixler (2008), “Patterns of
abuse among unintentional pharmaceutical overdose fatalities”, in Journal of the American Medical
Association, 300(22), pp. 2613-2620.
36. Negli ultimi dieci anni due redattori capo della più prestigiosa rivista medica professionale
degli Stati Uniti, il New England Journal of Medicine, la dottoressa Marcia Angell e il dottor Arnold
Relman, si sono dimessi dai loro incarichi a causa del potere esagerato dell’industria farmaceutica
sulla ricerca medica, sugli ospedali e sui medici stessi. In una lettera al New York Times, il 28
dicembre 2004, Angell e Relman sottolinearono che l’anno precedente una società farmaceutica
aveva speso il 28% dei propri introiti (più di 6 miliardi di dollari) in marketing e spese
amministrative, e solo la metà – in ricerca e sviluppo, trattenendo – cosa consueta per l’industria
farmaceutica – il 30%dell’utile netto. I redattori conclusero così: “La professione medica deve
rompere la sua dipendenza dall’industria farmaceutica e formarsi per conto proprio”. Purtroppo, è
probabile che questo movimento sia simile a ciò che fanno i politici che si svincolano dai
nanziatori delle loro campagne elettorali.
3

Scrutare il cervello
La rivoluzione delle neuroscienze

Se potessimo guardare, attraverso il cranio, il cervello di una persona


coscientemente pensante e se l’area della quota ottimale di eccitabilità
fosse luminosa, riusciremmo a vedere, sulla super cie cerebrale, una
macchia brillante, con fantastici bordi ondulanti, che uttuano
continuamente per forma e dimensioni, circondata da un’oscurità, più o
meno profonda, che copre il resto dell’emisfero.
IVAN PAVLOV

Si osservano tantissime cose guardando.


YOGI BERRA1

Nei primi anni Novanta, le nuove tecniche di brain imaging aprirono le


porte alla possibilità, no ad allora impensabile, di giungere a una
comprensione so sticata del modo in cui il cervello elabora
l’informazione. Macchine gigantesche, da milioni di dollari, basate su una
tecnologia sica e informatica avanzata, fecero delle neuroscienze una
delle più popolari aree di ricerca. La Tomogra a a emissione di positroni
(PET), prima, e la Risonanza magnetica funzionale (fMRI), poi,
consentirono agli scienziati di visualizzare in che modo le varie parti del
cervello si attivano, quando le persone sono coinvolte in certi compiti o
quando ricordano eventi del passato. Per la prima volta, si è potuto
osservare il cervello nel momento esatto in cui elabora i ricordi, le
sensazioni e le emozioni, e si è potuto cominciare a mappare i circuiti
della mente e della coscienza. La precedente tecnologia, che misurava le
sostanze chimiche del cervello, come la serotonina o la norepinefrina,
aveva fatto sì che gli scienziati si occupassero del carburante dell’attività
neurale, che era un po’ come cercare di capire il funzionamento del
motore di un’automobile, studiando la benzina. Il neuroimaging aveva
reso possibile guardare dentro il motore. E ciò ha radicalmente cambiato
la nostra conoscenza del trauma.
La Harvard Medical School è stata ed è un istituto all’avanguardia nella
rivoluzione operata dalle neuroscienze e, nel 1994, un giovane psichiatra,
Scott Rauch, fu designato a primo direttore del Laboratorio di
neuroimaging del Massachusetts General Hospital. Dopo aver preso in
considerazione le domande più importanti a cui la nuova tecnologia
avrebbe potuto rispondere e letto alcuni articoli che avevo scritto, Scott
mi chiese se pensassi di poter studiare insieme a lui cosa accade nel
cervello delle persone che hanno dei ashback.
Avevo appena terminato una ricerca sulle modalità di elaborazione dei
ricordi traumatici (che verrà illustrata nel capitolo 12), durante la quale i
partecipanti mi avevano raccontato di quanto fosse angosciante essere
dirottati all’improvviso dalle immagini, dalle emozioni e dai suoni del
passato. Poiché molti di essi mi avevano con dato che avrebbero voluto
sapere quale scherzo, durante gli episodi di ashback, il cervello stesse
tirando loro, chiesi a otto di essi se volessero tornare in clinica, stendersi
immobili dentro lo scanner (un’esperienza completamente nuova, che ho
descritto nei dettagli), mentre noi ricreavamo una scena, riproducente gli
eventi dolorosi che li ossessionavano. Con mia grande sorpresa, tutti e
otto si dissero d’accordo, per lo più manifestando la speranza che ciò che
avremmo appreso sulla loro sofferenza potesse essere d’aiuto ad altre
persone.
La mia assistente, Rita Fisler, che aveva lavorato con noi prima di entrare
alla Harvard Medical School, si sedette accanto a ciascuno dei
partecipanti, costruendo in modo accurato una scena che ricreava il loro
trauma momento per momento. L’intento era proprio quello di
raccogliere soltanto frammenti isolati della loro esperienza, come
immagini, suoni ed emozioni particolari, piuttosto che l’intera storia,
perché questo è il modo in cui il trauma viene esperito. Rita, inoltre,
chiese ai partecipanti di descrivere una scena riguardante momenti in cui,
solitamente, si sentivano al sicuro e controllati. Una persona descrisse il
suo rituale mattutino; un’altra, l’essere seduta nel portico di una fattoria
che si affaccia sulle colline nel Vermont. Avremmo usato questo script2 per
una seconda scansione, in modo da avere una misura di riferimento.
Dopo una valutazione accurata degli script da parte dei partecipanti (che
leggevano in silenzio – modalità meno sopraffacente del sentire o del
parlare), Rita preparò una voce registrata, che sarebbe stata fatta ascoltare
loro, mentre si trovavano dentro lo scanner.
Di seguito, un esempio di script:
Hai sei anni e sei pronto per andare a letto. Senti tua madre e tuo padre che urlano uno contro
l’altro. Hai paura e senti una stretta allo stomaco. Tu, il tuo fratellino e la tua sorellina siete tutti
vicini in cima alle scale. Attraverso la ringhiera, vedi che il papà sta immobilizzando la mamma –
che cerca di divincolarsi – tenendola ferma per le braccia. La mamma piange, sputa e sibila come
un animale. Sei tutto rosso in viso e accaldato. La mamma si libera, corre verso la sala da pranzo e
rompe un vaso cinese molto costoso. Gridi ai tuoi genitori di smetterla, ma ti ignorano. La tua
mamma corre al piano di sopra e la senti rompere il televisore. I tuoi fratellini cercano di
nasconderla nel ripostiglio. Ti batte forte il cuore e stai tremando.

Alla prima seduta, spiegai lo scopo dell’ossigeno radioattivo che i


partecipanti avrebbero respirato: nel momento in cui ciascuna parte del
cervello si attiva più o meno metabolicamente, il suo livello di consumo di
ossigeno cambia in modo repentino e viene rilevato dallo scanner. Nel
corso della procedura, ci sarebbe stato un monitoraggio della pressione
sanguigna e del battito cardiaco, in modo da comparare questi segnali
siologici con l’attività cerebrale.
Qualche giorno più tardi, i nostri partecipanti arrivarono al laboratorio
di neuroimaging. Marsha, un’insegnante di quarant’anni dell’immediata
periferia di Boston, fu la prima volontaria a sottoporsi alla scansione. Il
suo script riguardava il giorno in cui, tredici anni prima, era andata a
prendere la sua bambina di cinque anni, Melissa, al campeggio
giornaliero. Poco dopo essersi messe in viaggio, Marsha sentì un segnale
persistente, che indicava la non corretta allacciatura della cintura di
sicurezza di Melissa. Allungandosi per sistemarla, nì per passare con il
rosso. Un’altra macchina investì la sua da destra, uccidendo la glia sul
colpo. In ambulanza, durante il tragitto verso il Pronto Soccorso, morì
pure il bimbo di sette mesi che Marsha portava in grembo.
All’improvviso, Marsha, dalla donna allegra, “l’anima della festa”, che
era sempre stata, si trasformò in una persona depressa e ossessionata dalla
vergogna per se stessa. Lasciò il suo lavoro di insegnante per uno da
impiegata, presso l’amministrazione della scuola, poiché lavorare
direttamente con i bambini era diventato intollerabile: così come per molti
genitori che hanno perso i loro gli, il sorriso allegro dei bambini si era
trasformato per lei in un potente trigger.3 Pur trincerandosi dietro il suo
lavoro d’uf cio, riusciva a malapena a superare la giornata. Nel vano
tentativo di tenere a bada le sue emozioni, lavorava giorno e notte.

Ero fuori dallo scanner, mentre Marsha si sottoponeva alla procedura e


seguivo le sue reazioni siologiche sul monitor. Appena il registratore si
accese, il suo cuore cominciò a battere forte e la pressione si alzò
improvvisamente. Al solo ascoltare la storia, si attivavano le stesse risposte
siologiche occorse durante l’incidente, tredici anni prima. Appena il
racconto registrato si concluse e il battito e la pressione sanguigna di
Marsha ritornarono normali, le facemmo sentire un secondo racconto
registrato: il momento in cui si alzava dal letto per lavarsi i denti. Questa
volta, il suo battito cardiaco e la pressione sanguigna non cambiarono.
Uscita dallo scanner, Marsha appariva distrutta, estenuata e congelata.
Aveva il respiro corto, gli occhi sbarrati e le spalle collassate: l’immagine
esatta della vulnerabilità e dell’essere indifesa. Cercai di confortarla,
chiedendomi, al contempo, se qualunque cosa avessimo scoperto sarebbe
valsa il prezzo del suo stress.
Non appena gli otto partecipanti ebbero completato la procedura, Scott
Rauch andò a lavorare con i consulenti matematici e statistici, per creare
immagini composite che comparassero l’arousal4 prodotto da un ashback
con lo stato del cervello a riposo. Dopo poche settimane mi mandò i
risultati, che vedremo di seguito. Attaccai i risultati della scansione sul
frigorifero in cucina e, nel corso dei mesi successivi, li ssavo tutte le sere.
Credo di essermi sentito nello stesso modo in cui devono essersi sentiti i
primi astronomi, scrutando una nuova costellazione attraverso il
telescopio.
C’erano tanti puntini e colori enigmatici sulla scansione, ma il fatto che
l’area di maggiore attivazione cerebrale corrispondesse a una grande
macchia rossa nella zona destra più bassa del cervello, che è l’area limbica,
o cervello emotivo, non costituiva una grande sorpresa. Era già ben noto
che le emozioni intense attivano il sistema limbico, in particolare l’area
che, al suo interno, è chiamata amigdala. È compito dell’amigdala
avvisarci di un pericolo incombente o attivare una risposta somatica allo
stress. Il nostro studio aveva chiaramente dimostrato che, quando le
persone traumatizzate sono esposte a immagini, suoni o pensieri relativi
alle loro speci che esperienze, l’amigdala reagisce con l’attivazione di uno
stato di allarme anche, come nel caso di Marsha, tredici anni dopo
l’evento. L’attivazione di quest’area della paura dà il via a una cascata di
ormoni dello stress e di impulsi nervosi, che innalzano la pressione
sanguigna, il battito cardiaco e l’immissione d’ossigeno, preparando il
corpo all’attacco/fuga.5 I monitor, attaccati alle braccia di Marsha,
registrarono uno stato siologico di arousal angosciato, anche se la
paziente era sempre stata consapevole di trovarsi al sicuro dentro lo
scanner.

Un orrore inesprimibile
Il risultato più sorprendente per noi era costituto da una macchia bianca
nel lobo frontale sinistro della corteccia, nella regione chiamata area di
Broca. In questo caso, il cambiamento di colore indicava una
disattivazione signi cativa di quell’area del cervello, spesso interessata nei
pazienti con ictus, quando l’af usso di sangue in quella regione è
bloccato. Se l’area di Broca non funziona, è impossibile tradurre in parole
pensieri ed emozioni. Le nostre scansioni mostravano che l’area di Broca
si spegneva tutte le volte in cui era sollecitato un ashback. In altre parole,
c’era la prova visiva che gli effetti del trauma non differiscono affatto dagli
effetti di lesioni siche come l’ictus, anzi, possono sovrapporsi a essi.
Tutto il trauma è preverbale. Shakespeare cattura questo orrore
inesprimibile in Macbeth, dopo la scoperta del corpo assassinato del re:
“O orrore, orrore, orrore! Né la lingua né il cuore sanno concepirti o
nominarti! La Rovina ha compiuto il suo capolavoro!”.6 Quando si
trovano in condizioni estreme, le persone possono gridare oscenità,
chiamare la mamma, urlare di terrore, o semplicemente spegnersi. Vittime
di aggressione o di incidenti siedono mute e congelate in Pronto Soccorso;
i bambini traumatizzati “perdono la lingua” e si ri utano di parlare.
Tantissimi ritratti di soldati mostrano uomini dagli occhi vuoti che ssano,
muti, l’abisso.
Anche a distanza di tanti anni le persone traumatizzate hanno enormi
dif coltà a raccontare agli altri cosa sia accaduto loro. Il loro corpo rivive
il terrore, la rabbia e l’impotenza così come l’impulso all’attacco o alla
fuga, ma questi sentimenti sono pressoché impossibili da proferire. Il
trauma, per sua natura, ci porta al limite della comprensione, tagliandoci
fuori da un linguaggio condiviso o da un passato immaginabile.
Questo non signi ca che le persone non parlino di una tragedia che è
accaduta loro. Presto o tardi, come i veterani del capitolo 1, arrivano con
ciò che molti di essi chiamano la loro “storia di copertura”, che offre una
qualche spiegazione dei loro sintomi e del loro comportamento, a uso del
pubblico. Queste storie, comunque, raramente contengono la verità più
intima dell’esperienza. È enormemente dif cile organizzare l’esperienza
traumatica di un individuo in un racconto coerente – una storia con un
inizio, una parte centrale e una ne. Persino un reporter esperto, come il
famoso corrispondente Ed Murrow,7 faticò a comunicare le atrocità che
aveva visto quando, nel 1945, fu liberato il campo di concentramento
nazista di Buchenwald: “Prego perché voi crediate a ciò che dico. Ho
riportato tutto ciò che ho visto e sentito: ma in modo parziale. Per il resto,
che è la gran parte, non ci sono parole”.
Laddove il linguaggio non sia disponibile, le immagini ossessive
catturano l’esperienza e ritornano sotto forma di incubi o ashback. In
contrasto con la disattivazione dell’area di Broca, un’altra regione, l’area
19 di Brodmann, risultava attiva nei partecipanti alla nostra ricerca. Si
tratta di una regione della corteccia visiva che registra le immagini che,
per prime, entrano nel cervello. Eravamo sorpresi nel vedere il cervello
attivato per così tanto tempo dopo l’esperienza originale del trauma. In
condizioni normali, le immagini grezze, registrate nell’area 19, si
diffondono rapidamente in altre aree del cervello che danno senso a ciò
che si è visto. Ancora una volta, eravamo testimoni di una regione
cerebrale che si riaccendeva come se il trauma stesse accadendo in quel
preciso momento.
Come verrà trattato nel capitolo 12, che parla della memoria, altri
frammenti signi cativi del trauma non elaborati, come suoni, odori e
sensazioni siche, sono anche registrati separatamente dalla storia in sé.
Sensazioni simili innescano, spesso, un ashback che ritorna alla
coscienza, apparentemente immodi cato dallo scorrere del tempo.

Spostare in una parte del cervello


Le scansioni rivelavano, inoltre, come, durante i ashback, il cervello dei
nostri soggetti si accendesse soltanto sul lato destro. C’è una vasta e varia
letteratura scienti ca e divulgativa, relativa alla differenza tra il cervello
destro e quello sinistro. Durante gli anni Novanta, mi era giunta voce che
qualcuno avesse cominciato a dividere il mondo in persone che usano
prevalentemente la parte sinistra del cervello (persone logiche, razionali) e
persone che privilegiano la parte destra (persone creative, intuitive), ma
non avevo prestato molta attenzione a questa idea. In ogni caso, le nostre
scansioni mostravano chiaramente che immagini del trauma passato
attivavano l’emisfero destro del cervello e disattivavano quello sinistro.
Ora sappiamo che le due metà del cervello parlano linguaggi differenti.
La destra è intuitiva, emotiva, visiva, spaziale e tattile e la sinistra è
linguistica, sequenziale e analitica. Mentre la metà sinistra del cervello
riguarda tutto ciò che è verbalizzabile, la parte destra contiene la musica
dell’esperienza. La parte destra comunica mediante le espressioni facciali
e il linguaggio del corpo e mediante la costruzione dei suoni dell’amore e
della tristezza: cantare, piangere, imprecare, ballare o imitare. Il cervello
destro è il primo a svilupparsi nel grembo materno, e supporta la
comunicazione non verbale tra mamma e bambino. Sappiamo che il
cervello sinistro diventa attivo nel momento in cui i bambini cominciano a
comprendere il linguaggio e a capire come parlare. Questo li aiuta a dare
un nome alle cose, a confrontarle, a capire le loro interrelazioni e ad
iniziare a comunicare in un modo unico e soggettivo le loro esperienze agli
altri.
I lati sinistro e destro del cervello elaborano anche le tracce del passato
in modi completamente diversi.8 Il cervello sinistro ricorda fatti, statistiche
e il vocabolario degli eventi. Viene chiamato in causa per spiegare le
nostre esperienze e per conferire a esse un ordine. Il cervello destro
immagazzina i ricordi del suono, del tatto, dell’odore e delle emozioni che
i fatti evocano. Reagisce automaticamente alle voci, alle con gurazioni del
viso e ai luoghi di cui abbiamo fatto esperienza nel passato. Tutto ciò è
percepito come una verità intuitiva: è così che stanno le cose. Anche nel
momento in cui elenchiamo le virtù di una persona amata a un amico, le
nostre emozioni possono essere mosse, più nel profondo, dal modo in cui
il suo viso ci ricorda la zia che amavamo a quattro anni.9
In circostanze normali, i due lati del cervello lavorano insieme più o
meno agevolmente, anche in persone che, si dice, abbiano una
propensione a usare una parte invece dell’altra. Tuttavia, avere, nel
cervello, una parte o l’altra spenta anche solo parzialmente, o avere una
parte completamente lobotomizzata (come qualche volta accadeva nei
primi interventi al cervello) è invalidante.
La disattivazione del cervello sinistro ha un impatto diretto sulla
capacità di organizzare l’esperienza in sequenze logiche e di tradurre i
nostri sentimenti e percezioni dissociate in parole (l’area di Broca, che si
spegne durante i ashback, si trova nel lato sinistro). Se non abbiamo la
capacità di sequenziare, non possiamo identi care causa ed effetto, capire
le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni o creare piani coerenti
per il futuro. Le persone molto angosciate riferiscono, talvolta, di “stare
per perdere la testa”. In termini tecnici, queste persone stanno
sperimentando la perdita delle loro funzioni esecutive.
Quando qualcosa riporta le persone traumatizzate al passato, il loro
cervello destro reagisce come se l’evento traumatico stesse accadendo nel
presente. Ma, poiché il loro cervello sinistro non funziona molto bene,
non sono consapevoli di stare rivivendo e rimettendo in atto il passato:
sono effettivamente furiose, terrorizzate, arrabbiate, in preda alla
vergogna o congelate. Passata la tempesta emotiva, è possibile che
possano cercare qualcuno a cui attribuire la colpa di tutto questo. Si
comportano in quel modo perché tu eri 10 minuti in ritardo, o perché tu
hai bruciato le patate o perché tu “non mi ascolti mai”. Naturalmente,
tutti noi agiamo in questo modo di tanto in tanto, ma quando ci
calmiamo, riusciamo – si spera – ad ammettere i nostri errori. Il trauma
interferisce con questo tipo di consapevolezza e, negli anni, le nostre
ricerche ne hanno dimostrato il motivo.

Bloccati nell’attacco/fuga
Ciò che era successo a Marsha nello scanner cominciava gradualmente ad
assumere un signi cato. Tredici anni dopo la sua tragedia, avevamo
attivato le sensazioni – suoni e immagini dell’incidente – che erano ancora
immagazzinate nella sua memoria. Queste sensazioni, venute a galla,
avevano sollecitato il suo sistema di allarme, innescando una reazione
simile a quando si era trovata in ospedale, nel momento in cui le veniva
data la notizia della morte della glia. I tredici anni trascorsi erano stati
come annullati. Il battito cardiaco accelerato e la pressione sanguigna
ri ettevano il suo stato siologico allarmato e angosciato.
L’adrenalina è uno degli ormoni critici nell’innesco della risposta di
attacco o fuga di fronte a un pericolo. L’incremento dell’adrenalina era
responsabile del drammatico aumento del battito cardiaco e della
pressione sanguigna nei partecipanti all’esperimento, nel momento in cui
ascoltavano i racconti del trauma. In condizioni normali, le persone
reagiscono alla minaccia con un temporaneo aumento degli ormoni dello
stress. Cessata la minaccia, gli ormoni si dissipano e il corpo ritorna alla
normalità. Gli ormoni dello stress delle persone traumatizzate, di contro,
ci mettono molto tempo a ritornare sotto controllo e aumentano
velocemente – e in modo sproporzionato – in risposta a stimoli stressogeni
anche di lieve entità. Gli effetti insidiosi degli ormoni dello stress
costantemente attivati si declinano in problemi di memoria e di
attenzione, irritabilità e disturbi del sonno. Contribuiscono, inoltre, a
molti problemi di salute a lungo termine, attribuibili a una maggiore
vulnerabilità del sistema sico, in un particolare individuo.
A oggi, sappiamo che c’è un’altra possibile risposta alla minaccia, una
risposta che le nostre scansioni non riescono ancora a misurare. Alcune
persone semplicemente negano: il loro corpo registra la minaccia, ma la
mente consapevole procede come se niente fosse accaduto. Tuttavia,
anche se la mente può imparare a ignorare i messaggi del cervello
emotivo, i segnali d’allarme non si fermano. Il cervello emotivo continua a
lavorare e gli ormoni dello stress continuano a mandare segnali ai muscoli,
perché si preparino all’azione o si immobilizzino nel collasso. Gli effetti
sici sugli organi vanno avanti senza tregua, no a manifestarsi sotto
forma di malattie. Medicine, droghe e alcol possono temporaneamente
attutire o cancellare sensazioni e vissuti intollerabili. Ma il corpo continua
a conservarne le tracce.
La reazione di Marsha nello scanner è interpretabile da vari punti di
vista, ciascuno dei quali condizionerà la scelta terapeutica. Ci si può, per
esempio, focalizzare sulle evidenti rotture neurochimiche e siologiche,
responsabili del disequilibrio biochimico che si riproponeva tutte le volte
che ricordava la morte della glia. A fronte di ciò, bisognerà cercare un
farmaco – o una combinazione di farmaci – in grado di attenuare la
reazione o, nel migliore dei casi, restaurare l’equilibrio chimico. In base ai
risultati delle nostre scansioni, alcuni dei miei colleghi del MGH10
cercarono dei farmaci capaci di rendere le persone meno reattive agli
effetti dell’aumento dell’adrenalina.
È possibile, inoltre, sostenere con forza l’idea che Marsha fosse
ipersensibile ai suoi ricordi e, in tal caso, il trattamento migliore avrebbe
potuto coincidere con una qualche forma di desensibilizzazione.11 Dopo
aver ripetutamente descritto i dettagli del trauma al terapeuta, le risposte
biologiche cominciano a cambiare, tanto che si può pensare e ricordare
che “quello era ciò che accadeva allora e questo è ciò che accade ora”,
piuttosto che rivivere continuamente l’esperienza.
Per più di cento anni, qualsiasi manuale di psicologia e psicoterapia ha
indicato gli approcci fondati sulla parola come risolutivi nella cura di
vissuti stressanti. Ma, come abbiamo visto, è l’esperienza stessa del trauma
che impedisce di fare ciò. Non importa di quanta capacità intuitiva e di
comprensione disponiamo, il cervello razionale è – di base –
impossibilitato a parlare con il cervello emotivo, al di fuori dalla propria
realtà. Rimango sempre impressionato da quanto sia dif cile, per le
persone che hanno vissuto l’indicibile, trasmettere l’essenza della loro
È
esperienza. È molto più facile, per chi parla di ciò che ha subito,
raccontare una storia di vittimizzazione e di rivalsa che notare, sentire e
mettere in parole la realtà della propria esperienza interna.
Le nostre scansioni hanno rivelato come il loro terrore persistesse e
potesse essere attivato da molteplici aspetti dell’esperienza quotidiana. I
soggetti non avevano integrato l’esperienza nel usso corrente della loro
vita. Continuavano a essere “là” e non sapevano come fare a essere “qui”,
pienamente vivi nel presente.
Tre anni dopo aver partecipato al nostro studio, Marsha venne da me
come paziente. La trattai con successo con l’EMDR, argomento del
capitolo 15.

1. Lawrence Peter Berra, soprannominato “Yogi”, è un ex giocatore di baseball, allenatore e


aforista americano. Ha giocato quasi sempre nei New York Yankees. Il suo soprannome si deve alle
frasi celebri relative alla sua losofia di vita, applicata allo sport. Qualcuno sostiene che
Hanna&Barbera abbiano tratto ispirazione da lui per dare il nome al loro celebre orso, amico di
Bubu. [NdC]
2. Si è scelto di lasciare il termine inglese script, largamente usato in ambito cinematogra co come
sinonimo di copione, sceneggiatura, e, ormai, entrato nel linguaggio psicologico, ma anche
comune. [NdC]
3. Letteralmente, “grilletto”. In psicotraumatologia, si riferisce a qualunque segnale, situazione o
evento inneschi una risposta traumatica o riporti all’evento traumatico, riattivando le stesse
emozioni, cognizioni, sensazioni presenti e vissute nel momento del veri carsi dell’evento stesso.
[NdC]
4. Il termine, correntemente usato in psicologia, si riferisce a una condizione del sistema nervoso,
in risposta a uno stimolo signi cativo e intenso, relativa a un generale stato di eccitazione,
caratterizzato da vigilanza attentivo-cognitiva e da un assetto reattivo alle sollecitazioni esterne.
[NdC]
5. B. Roozendaal, S. McEwen, S. Chattarji (2009), “Stress, memory and the amygdala”, in Nature
Reviews Neuroscience, 10, n. 6, pp. 423-433.
6. Da Macbeth di William Shakespeare, Atto II, Scena II (Mondadori, Milano 1976). [NdC]
7. Noto giornalista americano, morto il 25 aprile 1965. Famoso per i suoi notiziari durante la
Seconda guerra mondiale, seguiti da milioni di persone negli Stati Uniti e in Canada. Si dice che
una sua frase celebre “good night and good luck”, avesse ispirato la famosa canzone dei Clash,
London Calling. [NdC]
8. R. Joseph (1995), The Right Brain and the Unconscious, Plenum Press, New York.
9. Il lm L’Assalto (basato sul racconto L’Attentato di Harry Mulisch), che vinse l’Oscar come
Miglior Film Straniero nel 1986, è un ottimo esempio di come le prime tracce emotive profonde
determinino forti passioni in età adulta.
10. Massachusetts General Hospital.
11. Questa è l’essenza della terapia cognitivo-comportamentale. Si veda, a tal proposito, E.B. Foa,
M.J. Friedman, T.M. Keane (2000), Effective Treatments for PTSD: Practice Guidelines from The
International Society for Traumatic Stress Studies, Guilford Press, New York.
Parte seconda

Il cervello traumatizzato
4

Lottare per la propria vita


Anatomia della sopravvivenza

Prima della scoperta del cervello, non vi era nessun colore, né suono
nell’universo e non c’era alcun sapore o aroma e probabilmente non c’era
un senso delle cose e non vi era alcun sentimento né emozione. Prima del
cervello, l’universo era anche privo di dolore e ansia.
ROGER SPERRY1

L’11 settembre del 2001, Noam Saul, un bambino di cinque anni, è stato
testimone dello schianto del primo aereo di linea contro il World Trade
Center. Era nella sua classe alla PS 234,2 a meno di 500 metri di distanza.
Insieme ai suoi compagni, con la guida dell’insegnante, era corso giù per
le scale no all’ingresso, dove gli studenti furono riuniti e riaf dati ai
genitori, che li avevano lasciati pochi istanti prima. Noam, suo fratello
maggiore e il loro papà erano tre delle decine di migliaia di persone che, la
mattina dell’11 settembre, cercavano di sopravvivere tra le macerie, la
cenere e il fumo della Lower Manhattan.
Dieci giorni dopo, andai a trovarli perché erano miei amici. Quella sera,
i genitori di Noam e io decidemmo di fare due passi nell’oscurità
misteriosa di quella cavità ancora fumante, dove un tempo sorgeva la
Torre 1, facendoci strada tra le squadre di soccorso che, da tutto il giorno,
lavoravano sotto i ri ettori bollenti. Al nostro ritorno, Noam era ancora
sveglio e mi mostrò un disegno che aveva fatto alle 9.00 del 12 settembre.
Il disegno raf gurava ciò che aveva visto il giorno prima: un aereo che si
schiantava contro una torre, una palla di fuoco, i vigili del fuoco, e le
persone che si lanciavano dalle nestre. Nella parte inferiore
dell’immagine, inoltre, aveva disegnato qualcos’altro: un cerchio nero, ai
piedi degli edi ci. Non avevo idea di cosa fosse e glielo chiesi. “Un
trampolino”, rispose. Cosa ci faceva un trampolino lì? Noam mi spiegò:
“Così che le persone possono salvarsi la prossima volta che dovranno
saltare”. Ero sbalordito. Quel bambino di cinque anni, testimone di un
indicibile caos e di un enorme disastro avvenuto appena ventiquattro ore
prima, aveva fatto quel disegno e aveva usato la sua immaginazione per
elaborare ciò che aveva visto, potendo così andare avanti con la sua vita.
Noam era stato fortunato. Tutta la sua famiglia era uscita incolume dal
disastro, era cresciuto circondato dall’amore ed era stato in grado di
capire che la tragedia, di cui erano stati testimoni, era giunta al termine.
Durante i disastri, i bambini, di solito, prendono esempio dai propri
genitori: se i loro caregiver riescono a mantenere la calma e a rispondere ai
loro bisogni, possono sopravvivere a incidenti terribili senza riportare
gravi cicatrici psicologiche.
Ma l’esperienza di Noam ci permette di vedere, a grandi linee, due
aspetti cruciali della risposta adattiva alla minaccia, fondamentali per la
sopravvivenza umana. Nel momento del disastro, Noam era stato in grado
di assumere un ruolo attivo fuggendo, diventando così protagonista del
proprio salvataggio. E, una volta al sicuro in casa propria, il campanello
d’allarme attivatosi nel suo corpo e nel suo cervello si era spento. In
questo modo, la sua mente riuscì a dare un senso a ciò che era accaduto,
immaginando persino un’alternativa creativa a quello che aveva visto: un
trampolino di salvataggio.
Al contrario di Noam, alcune persone traumatizzate si bloccano, si
fermano nella loro crescita, perché non riescono a integrare le nuove
esperienze nella vita attuale. Fui preso da una profonda commozione
quando i veterani dell’esercito di Patton mi regalarono, per Natale, un
orologio militare della Seconda guerra mondiale, che costituiva anche un
triste promemoria dell’anno in cui le loro vite si erano letteralmente
fermate: il 1944. Il trauma subito aveva fatto sì che organizzassero la
propria vita come se l’evento stesse ancora accadendo – immutato e
immutabile – e come se qualsiasi nuovo fatto o incontro fosse contaminato
dal passato.

Dopo un trauma, il mondo è percepito con un sistema nervoso


differente. L’energia del sopravvissuto è convogliata verso la repressione
del caos interiore, a scapito della possibilità di coinvolgersi in modo
autentico nelle attività della vita quotidiana. Questi tentativi di mantenere
il controllo sulle reazioni siologiche insopportabili possono tradursi in
una svariata gamma di sintomi sici, come bromialgia, sindrome da
affaticamento cronico e altre malattie autoimmuni. Tutto ciò rende
ragione della fondamentale importanza di coinvolgere, nella cura del
trauma, tutto l’organismo: corpo, mente e cervello.

Organizzarsi per sopravvivere


La gura a p. 61 mostra la risposta di tutto il corpo a una minaccia.
Quando il sistema di allarme del cervello è acceso, si innesca
automaticamente una risposta preprogrammata di fuga, che origina
dall’attivazione delle aree più antiche del cervello. Come in altri animali, i
nervi e le sostanze chimiche che compongono la struttura di base del
cervello hanno una connessione diretta con tutto il nostro corpo. Quando
l’attivazione delle aree più antiche del cervello prende il sopravvento, il
cervello superiore, la nostra mente cosciente, si spegne parzialmente e il
corpo si prepara a correre, a nascondersi, a combattere o, a volte, si
congela. Prima di essere pienamente consapevoli della situazione, il nostro
corpo può essere già in movimento. Se le risposte di
attacco/fuga/congelamento hanno successo e riusciamo a sfuggire al
pericolo, recuperiamo il nostro equilibrio interno e gradualmente
“riconquistiamo i nostri sensi”.
Se, per qualche motivo, la risposta siologica è impedita – per esempio,
quando le persone sono bloccate, intrappolate o, comunque,
impossibilitate a intraprendere azioni ef caci, come quando ci si trova in
una zona di guerra, coinvolti in un incidente stradale o si è vittime di un
episodio di violenza domestica o di stupro – il cervello continua a
secernere l’ormone dello stress e i circuiti elettrici cerebrali seguitano ad
accendersi inutilmente.3 Anche molto tempo dopo l’evento minaccioso, il
cervello può persistere nell’inviare al corpo segnali di fuga da una
minaccia che non esiste più. Almeno a partire dal 1889, quando lo
psicologo francese Pierre Janet pubblicò il primo resoconto scienti co
sullo stress traumatico,4 è stato riconosciuto che i sopravvissuti a eventi
traumatici sono inclini a “proseguire l’azione o, meglio, il tentativo
(inutile) di svolgere quell’azione, iniziata al momento dell’evento”. Essere
in grado di muoversi o di fare qualcosa per proteggersi è un fattore
essenziale nel determinare se un’esperienza traumatica lascerà cicatrici
profonde che rimarranno per molto tempo.
In questo capitolo approfondirò la risposta del cervello al trauma. Più le
neuroscienze si sviluppano, più ci rendiamo conto che vi è una vasta rete
di aree cerebrali interconnesse, organizzata per aiutarci a sopravvivere e a
crescere. Capire il modo in cui lavorano queste aree è fondamentale per la
comprensione dell’impatto del trauma su ogni parte dell’organismo
umano e può servire come guida indispensabile alla risoluzione dello
stress traumatico.

Il cervello dal basso verso l’alto


Il lavoro più importante del cervello è assicurare la nostra sopravvivenza,
anche nelle condizioni più avverse. Tutto il resto è secondario. Per farlo, il
cervello ha bisogno di: 1) generare segnali interni che registrino ciò di cui
il corpo ha bisogno, come il cibo, il riposo, la protezione, il sesso, e la
sicurezza; 2) creare una mappa che ci orienti su dove andare a soddisfare
tali esigenze; 3) produrre l’energia e le azioni indispensabili a quanto
sopra esposto; 4) avvertirci dei pericoli e delle opportunità lungo il
cammino evolutivo; 5) regolare le nostre azioni in base ai bisogni del
momento.5 Poiché gli esseri umani sono mammiferi, creature che possono
sopravvivere e prosperare soltanto in gruppo, tutti questi imperativi
richiedono coordinamento e collaborazione. I problemi psicologici
originano dal malfunzionamento dei nostri segnali interni, dal
dirottamento delle mappe orientative, dallo stato di paralisi che ci
impedisce di muoverci, dalla non corrispondenza tra azione e bisogno e
dalla rottura dei rapporti interpersonali. Ogni struttura del cervello che
stiamo trattando ha un ruolo essenziale nello svolgimento di queste
funzioni primarie e, come vedremo, il trauma può interferire con ciascuna
di esse.
Il nostro cervello razionale, cognitivo è, in realtà, la parte più giovane
dell’encefalo e occupa soltanto il 30% circa dello spazio interno al nostro
cranio. Il cervello razionale ha a che fare principalmente con il mondo
esterno: è deputato a capire come funzionano cose e persone, come
realizzare i nostri obiettivi, come gestire il tempo e dare una processualità
alle azioni. Al di sotto del cervello razionale, ve ne sono altri due,
evolutivamente più antichi e, in qualche misura, separati, responsabili di
tutto il resto: la gestione e il monitoraggio, momento per momento, della
siologia del nostro corpo, l’individuazione del senso di agio e di
sicurezza, delle situazioni di pericolo, dello stato di fame e di stanchezza,
del desiderio, della nostalgia, dell’eccitazione, del piacere e del dolore.
Il cervello si evolve dal basso verso l’alto, sviluppandosi, livello per
livello, in ogni bambino nel grembo materno, così come nel corso
dell’evoluzione. La parte più primitiva, già attiva al momento della
nascita, è la parte antica del cervello animale, chiamata spesso cervello
rettiliano. Si trova nel tronco encefalico, appena al di sopra del punto in
cui il midollo spinale entra nel cranio. Il cervello rettiliano è responsabile
di tutte le attività che i bambini appena nati possono fare: mangiare,
dormire, svegliarsi, piangere, respirare; percepire la temperatura, la fame,
l’umidità, e il dolore; liberare il corpo dalle tossine, urinando e defecando.
Il tronco encefalico e l’ipotalamo (collocato proprio al di sopra)
controllano i livelli energetici del corpo. Coordinano il funzionamento del
cuore e dei polmoni e anche il sistema endocrino e immunitario,
assicurandosi che questi sistemi vitali di base si mantengano entro un
equilibrio interno relativamente stabile, noto come omeostasi.
Respirare, mangiare, dormire, succhiare e urinare sono attività talmente
basilari che è facile trascurarne l’importanza, nel momento in cui
prendiamo in considerazione la complessità della mente e del
comportamento. Tuttavia, se il sonno è disturbato o l’intestino non
funziona, o se si è in un costante stato di fame o, addirittura, quando un
semplice contatto ci fa urlare di paura (come spesso accade ai bambini e
agli adulti traumatizzati), signi ca che all’interno dell’organismo c’è un
disequilibrio. È incredibile constatare quanti problemi psicologici siano
collegati a dif coltà relative al sonno, all’appetito, al tatto, alla digestione e
all’arousal. Qualsiasi trattamento ef cace per il trauma non può non
tenere conto di queste funzioni corporee di base.
Proprio al di sopra del cervello rettiliano vi è il sistema limbico, noto
anche come cervello mammaliano, in quanto tutti gli animali che vivono in
gruppo e allevano i propri piccoli ne possiedono uno. Lo sviluppo di
quest’area del cervello inizia, effettivamente, dopo la nascita: è il luogo
delle emozioni, il sistema di controllo del pericolo, il giudice di ciò che è
piacevole o spaventoso, l’arbitro di ciò che è determinante o meno per la
sopravvivenza. È anche un posto di comando centrale per fronteggiare le
s de insite nella vita, all’interno della nostra rete sociale complessa.
Il sistema limbico si plasma con l’esperienza, in collaborazione con il
corredo genetico del bambino e il temperamento innato (tutti i genitori
che hanno più di un glio notano rapidamente come i neonati differiscano
alla nascita per l’intensità e la qualità delle loro reazioni a eventi simili).
Qualsiasi cosa accada a un bambino contribuisce alla mappa emotiva e
percettiva del mondo, costruita dal suo cervello in via di sviluppo. Come
spiega il mio collega Bruce Perry, lo sviluppo del cervello è “uso
dipendente”.6 È un altro modo per descrivere la neuroplasticità e, cioè, la
scoperta relativamente recente che neuroni che “si attivano insieme, si
collegano insieme”. Quando un circuito si attiva in modo ripetuto, può
diventare uno schema prede nito: la risposta che, con maggiore
probabilità, verrà innescata. Se ci si sente al sicuro e amati, il cervello si
specializza nell’esplorazione, nel gioco e nella cooperazione; se si è
spaventati e indesiderati, il cervello diventerà esperto nella gestione dei
sentimenti di paura e di abbandono.
Fin dalla primissima infanzia, impariamo a conoscere il mondo
muovendoci, afferrando gli oggetti, gattonando e scoprendo cosa succede
quando piangiamo, sorridiamo o protestiamo. Sperimentiamo
costantemente il nostro ambiente circostante: in che maniera le nostre
interazioni cambiano il modo in cui si sente il corpo? Immaginate di
partecipare a una festa di compleanno di una bambina di due anni e
notate che la piccola Kimberly si coinvolge con voi, gioca, “ irta”, senza
alcun bisogno di usare la parola. Queste prime esplorazioni plasmano le
strutture limbiche dedicate alle emozioni e alla memoria, che, comunque,
possono anche essere marcatamente modi cate dalle esperienze
successive: possono subire mutamenti positivi grazie a una relazione
amicale intima e data o al fatto di vivere un bel primo amore, mentre, di
contro, subiranno cambiamenti negativi se la persona è esposta a
un’aggressione violenta, a fenomeni di bullismo implacabili o a una grave
trascuratezza.
Il cervello rettiliano e il sistema limbico costituiscono – insieme – quello
che chiamerò, nel corso di questo libro, il “cervello emotivo”.7 Il cervello
emotivo è il cuore del sistema nervoso centrale e il suo compito
fondamentale è quello di badare al nostro benessere: se rileva un pericolo
o un’opportunità speciale, come un partner che promette bene, ci avvisa,
af nché si rilasci una piccola quantità di ormoni. Le conseguenti
sensazioni viscerali (che vanno dalla nausea lieve a una stretta di panico al
petto) interferiranno su qualsiasi attività la mente stia svolgendo,
spingendoci a muoverci in direzioni differenti. Pur in misura
impercettibile, queste sensazioni hanno un’enorme in uenza sulle piccole
e grandi decisioni che prendiamo nel corso della vita: su ciò che scegliamo
di mangiare, su dove ci piace dormire e con chi, sulla musica che
prediligiamo, sulle attività ricreative, come il giardinaggio o il cantare in
un coro, su chi sceglierci come amico o su chi detestare.
Il cervello emotivo possiede un’organizzazione e una biochimica
cerebrali più semplici di quelli della neocorteccia e valuta in modo
generico le informazioni in entrata. Pertanto, salta a conclusioni basate su
somiglianze approssimative in contrasto con il cervello razionale,
organizzato per classi care le informazioni attraverso una complessa serie
di opzioni (l’esempio da manuale è quello relativo al trasalire di paura alla
vista di un serpente, per poi rendersi conto che si tratta solo di una corda
avvolta a spirale). Il cervello emotivo avvia piani di fuga preprogrammati,
come la risposta di attacco/fuga. Queste reazioni muscolari e siologiche
sono automatiche, messe in moto senza alcun pensiero o alcuna
piani cazione da parte nostra, lasciando la nostra coscienza e le nostre
capacità razionali in sospeso, potendone recuperare l’utilizzo dopo, spesso
molto dopo, che il pericolo si è estinto.
Occupiamoci, in ne, dello strato superiore del cervello, la neocorteccia.
Condividiamo questo strato più esterno – che negli esseri umani è molto
più denso – con altri mammiferi. Nel secondo anno di vita, i lobi frontali,
che costituiscono la maggior parte della neocorteccia, cominciano a
svilupparsi a un ritmo rapido. I loso antichi chiamavano i sette anni
“l’età della ragione”. Per noi, la prima elementare costituisce il preludio di
cose future, di una vita organizzata attorno alle capacità del lobo frontale:
stare seduti immobili, mantenere il controllo s nterico, usare il linguaggio
invece di passare all’azione, comprendere un pensiero astratto e
simbolico; piani care per l’immediato futuro, essere in sintonia con
insegnanti e compagni di scuola.
I lobi frontali sono responsabili di ciò che ci rende unici all’interno del
regno animale:8 ci permettono, cioè, di usare il linguaggio e il pensiero
astratto, nonché di assorbire e integrare una grande quantità di
informazioni, attribuendo alle stesse un senso. Nonostante il nostro
entusiasmo per le imprese linguistiche degli scimpanzé e delle scimmie
Rhesus, soltanto gli esseri umani padroneggiano le parole e i simboli
necessari a creare contesti condivisi, spirituali e storici che modellano la
nostra vita.
I lobi frontali permettono di progettare e ri ettere, immaginare e creare
scenari futuri. Ci aiutano a prevedere le conseguenze di un’azione (per
esempio, presentare una domanda per un nuovo lavoro) o dell’omissione
di un’azione (per esempio, non pagare l’af tto). Ci consentono la facoltà
di scegliere e sono alla base della nostra sorprendente creatività.
Generazioni di lobi frontali, in stretta collaborazione tra loro, hanno
creato quella cultura che ci ha permesso di passare dalle canoe alle
carrozze trainate da cavalli, alle lettere, ai jet, alle auto ibride, e alle e-mail.
Sono i lobi frontali che hanno realizzato il trampolino salvavita di Noam.

Specchiarsi gli uni negli altri:


la neurobiologia interpersonale
Fondamentali per comprendere il trauma, i lobi frontali sono anche la
sede dell’empatia – la capacità di “sentirci in” qualcun altro. Una delle
sensazionali scoperte delle neuroscienze moderne ha avuto luogo nel
1994, quando, casualmente, un gruppo di scienziati italiani ha individuato
nella corteccia delle cellule specializzate, divenute poi note con il nome di
neuroni specchio.9 I ricercatori avevano attaccato degli elettrodi a singoli
neuroni nella zona premotoria di una scimmia, impostando poi un
computer per monitorare con precisione quali neuroni si attivassero
quando la scimmia raccoglieva arachidi o afferrava una banana. A un
certo punto, un ricercatore, dopo aver collocato delle palline di cibo in
una scatola, si rese conto, sollevando lo sguardo verso il computer, che le
cellule cerebrali attivate nella scimmia erano esattamente le stesse dei
movimenti motori. Ma la scimmia non stava mangiando, né era in
movimento: guardando il ricercatore, il suo cervello ne stava
indirettamente rispecchiando le azioni.
Seguirono numerosi esperimenti simili in tutto il mondo e divenne
presto evidente che i neuroni specchio potevano far luce su molti aspetti
della mente che in precedenza erano considerati inspiegabili, come
l’empatia, l’imitazione, la sincronia, e anche lo sviluppo del linguaggio.
Uno scrittore paragonò i neuroni specchio a un “Wi-Fi neurale”:10 non
cogliamo soltanto il movimento di un’altra persona, ma anche lo stato
emotivo e le intenzioni. Quando le persone sono in sincronia l’una con
l’altra, tendono ad assumere posture simili e ad avere gli stessi ritmi
prosodici. Ma i neuroni specchio ci rendono anche sensibili alla negatività
degli altri, rispondendo alla rabbia altrui con la furia o essendo contagiati
dalla depressione di chi ci sta vicino. Parlerò ancora dei neuroni specchio
più avanti in questo libro, perché il trauma, inevitabilmente, ha a che fare
con il non essere visti, il non essere rispecchiati e il non essere presi in
considerazione. Il trattamento deve riattivare la capacità di rispecchiare e
di essere rispecchiati in sicurezza, ma anche la capacità di non essere
dirottati dalle emozioni negative degli altri.

Come chiunque abbia lavorato con persone con danni cerebrali, o si sia
preso cura di genitori affetti da demenza, ha imparato a proprie spese, i
lobi frontali sono essenziali per portare avanti relazioni armoniose con i
nostri simili. Capire che le altre persone possono pensare e sentire in
modo diverso da noi è un importantissimo passo evolutivo, che avviene
intorno ai due o ai tre anni. A quell’età, si impara a capire le ragioni degli
altri, in modo che ci si possa adattare e stare al sicuro in gruppi che hanno
percezioni, aspettative e valori diversi. Senza lobi frontali attivi e essibili,
le persone diventano creature abitudinarie, con relazioni super ciali e
routinarie, senza inventiva e innovazione e, tanto meno, scoperta e
meraviglia.
I nostri lobi frontali possono anche (talvolta, ma non sempre) fermare
azioni che potrebbero metterci in imbarazzo o portarci a fare del male agli
altri. Non dobbiamo mangiare tutte le volte che abbiamo fame o baciare
qualcuno tutte le volte che ne abbiamo voglia o esplodere tutte le volte
che siamo arrabbiati. Ma è esattamente su quella linea sottile tra l’impulso
e il comportamento accettabile che comincia la maggior parte dei nostri
problemi. Più intenso è l’input sensorio e viscerale del cervello emotivo,
minore sarà la capacità del cervello razionale di mettervi un freno.

Identi care il pericolo: il cuoco e il rilevatore di fumo


Il pericolo fa parte della vita e il cervello è responsabile della sua
rilevazione e dell’organizzazione della risposta conseguente.
L’informazione sensoriale del mondo esterno arriva attraverso gli occhi, il
naso, le orecchie e la pelle. Queste sensazioni convergono nel talamo,
un’area del sistema limbico che funge da “cuoco” all’interno del cervello.
Il talamo mescola tutti gli input delle nostre percezioni in una zuppa
autobiogra ca perfettamente amalgamata, nell’esperienza integrata e
coerente del “questo è ciò che sta succedendo a me”.11
Le sensazioni vengono poi trasmesse in due direzioni: in basso, verso
l’amigdala (due piccole strutture a forma di mandorla, che si trovano nella
parte più profonda del sistema limbico, il cervello inconscio), e in alto,
verso i lobi frontali, dove raggiungono la consapevolezza cosciente. Il
neuroscienziato Joseph LeDoux de nisce il percorso verso l’amigdala “la
via breve”, poiché è estremamente veloce, e il percorso che va alla
corteccia frontale “la via lunga”, poiché richiede diversi millisecondi in
più nel bel mezzo di un’esperienza minacciosa sopraffacente. Tuttavia,
l’elaborazione del talamo può interrompersi, così che le informazioni
visive, uditive, olfattive e tattili vengono codi cate come isolate, come
frammenti dissociati, dis-integrando l’elaborazione normale della
memoria: la dimensione temporale si congela e il pericolo presente sembra
durare per sempre.
La funzione principale dell’amigdala, che chiamo il “rilevatore di fumo”,
è quella di individuare se l’informazione in entrata sia rilevante o meno
per la nostra sopravvivenza.12 L’amigdala svolge questa funzione in modo
rapido e automatico, grazie all’aiuto del feedback dell’ippocampo, una
struttura vicina, che confronta la nuova informazione con le esperienze
passate. Se l’amigdala riconosce una minaccia – per esempio, un
potenziale scontro con un veicolo che sopraggiunge in direzione opposta,
o una persona per strada che ci guarda in modo minaccioso – invia un
messaggio istantaneo all’ipotalamo e al tronco encefalico, che secernono
l’ormone dello stress, sollecitando il sistema nervoso autonomo (SNA) a
organizzare di concerto una risposta di tutto il corpo. Poiché l’amigdala
elabora le informazioni che riceve dal talamo più velocemente dei lobi
frontali, “decide” se le informazioni in arrivo costituiscano una minaccia
per la nostra sopravvivenza, anche prima di poter essere consapevoli del
pericolo stesso. Prima di realizzare cosa stia accadendo, infatti, il nostro
corpo può essere già in movimento. I segnali di pericolo dell’amigdala
innescano il rilascio di potenti ormoni dello stress, come il cortisolo e
l’adrenalina, che aumentano la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna
e la frequenza respiratoria, preparandoci ad attaccare o a scappare. A
pericolo scampato, il corpo ritorna piuttosto velocemente a uno stato
normale. Ma se la ripresa si dovesse bloccare, il corpo è sollecitato a
difendersi, con conseguente agitazione e costante stato di attivazione. Se,
in condizioni normali, il rilevatore di fumo funziona abbastanza bene nel
captare i segnali di pericolo, il trauma aumenta il rischio di mal
interpretare il signi cato di una situazione rischiosa o sicura. Si possono
avere relazioni con gli altri solo nella misura in cui sia possibile valutare
con precisione se le loro intenzioni siano benevole o pericolose. Anche un
piccolo fraintendimento può portare a incomprensioni dolorose nei
rapporti familiari e lavorativi. Funzionare in modo ef cace in un ambiente
di lavoro complesso o in una casa piena di bambini richiede la capacità di
valutare rapidamente come si sentono le persone, aggiustando
continuamente – e di conseguenza – il proprio comportamento. Sistemi di
allarme difettosi portano a scoppi d’ira o a collassi, in risposta a commenti
di poco conto o a espressioni facciali innocue.

Veri care la risposta allo stress: la torre di controllo


Se l’amigdala è il rilevatore di fumo del cervello, potremmo pensare ai lobi
frontali – e in particolare alla corteccia prefrontale mediale (MPFC),13 che
si trova direttamente sopra i nostri occhi – come a una torre di controllo
che offre una panoramica dall’alto: l’odore di fumo che sentiamo è il
segnale che la nostra casa è in amme e dobbiamo prepararci a scappare
velocemente, oppure proviene dalla bistecca che stiamo cucinando a
fuoco troppo alto? L’amigdala non emette simili giudizi, ci prepara
semplicemente ad attaccare o a fuggire, prima ancora che i lobi frontali
abbiano la possibilità di procedere a valutazioni ponderate. Se non si è
troppo agitati, i lobi frontali possono ripristinare l’equilibrio, aiutandoci a
farci realizzare che si sta rispondendo a un falso allarme, interrompendo,
di conseguenza, la risposta allo stress.
Di solito, le capacità esecutive della corteccia prefrontale consentono
alle persone di osservare quello che sta succedendo, di prevedere cosa
accadrà se agiranno in un certo modo e di compiere scelte consapevoli.
Essere in grado di stare – in modo calmo e oggettivo – con i propri
pensieri, emozioni e sentimenti (capacità che chiamerò mindfulness in
questo libro), per poi prendersi il tempo di rispondere, permette al
cervello esecutivo di inibire, organizzare e modulare le reazioni
automatiche cablate, preprogrammate dal cervello emotivo. Questa
capacità è fondamentale per preservare le relazioni con gli altri esseri
umani. Fintanto che i lobi frontali funzionano correttamente, è
improbabile che si perda la calma se un cameriere è in ritardo con il
nostro ordine o se un agente di un’assicurazione mette la nostra chiamata
in attesa (la nostra torre di controllo ci dice anche che la rabbia e le
minacce altrui sono espressione del loro stato emotivo). Quando tale
sistema si inceppa, diventiamo come animali condizionati: alla minima
rilevazione di pericolo, entriamo automaticamente in modalità
“attacco/fuga”.
Nel PTSD, il fondamentale equilibrio tra l’amigdala (il rivelatore di
fumo) e i lobi frontali (la torre di controllo) cambia radicalmente, cosa che
rende molto più dif cile controllare emozioni e impulsi. Studi di
neuroimaging su persone con stati emotivi elevati rivelano che paura,
tristezza e rabbia intense aumentano l’attivazione di aree cerebrali
sottocorticali, implicate nelle emozioni, e riducono signi cativamente
l’attività in varie aree del lobo frontale, in particolare nel MPFC. Quando
ciò si veri ca, le capacità inibitorie dei lobi frontali vengono meno e le
persone “perdono la testa”: hanno risposte di trasalimento rispetto a
qualsiasi suono acuto, si infuriano alla minima frustrazione oppure si
congelano se qualcuno le tocca.14

Effettivamente, affrontare lo stress dipende dall’equilibrio tra il


rilevatore di fumo e la torre di controllo. Se si vogliono gestire al meglio le
emozioni, il cervello offre due opzioni: è possibile imparare a regolarle
dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto. Conoscere la differenza tra
la regolazione top-down e bottom-up è essenziale per comprendere il
trattamento dello stress traumatico. La regolazione top down rinforza la
capacità della torre di controllo di monitorare le nostre sensazioni siche.
La meditazione mindfulness e lo yoga possono aiutarci in questo. La
regolazione bottom-up comporta una ritaratura del sistema nervoso
autonomo (che, come abbiamo visto, ha origine nel tronco encefalico).
Possiamo accedere al SNA attraverso il respiro, il movimento o il contatto.
La respirazione è una delle poche funzioni del corpo che si trova sia sotto
il controllo consapevole sia sotto quello autonomo. Nella parte quinta di
questo libro, esploreremo tecniche speci che per aumentare sia la
regolazione top-down sia quella bottom-up.

Il cavaliere e il cavallo
Giunti n qui, mi preme solo sottolineare che l’emozione non è
contrapposta alla ragione; le nostre emozioni assegnano un valore
all’esperienza e, pertanto, sono alla base della ragione. L’esperienza di sé è
il prodotto dell’equilibrio tra il cervello emotivo e quello razionale.
Quando questi due sistemi sono in equilibrio, ci “sentiamo noi stessi”.
Tuttavia, quando è in gioco la nostra sopravvivenza, questi sistemi
possono funzionare in modo relativamente indipendente.
Se, per esempio, mentre si sta guidando, si sta chiacchierando con un
amico e, improvvisamente, si vede spuntare, con la coda dell’occhio, un
camion, si smette immediatamente di parlare, si schiacciano i freni e si
sterza per sottrarsi al pericolo. Se la nostra reazione istintiva ci ha salvati
da una collisione, si potrà riprendere dal punto in cui ci eravamo
interrotti. Ma l’essere in grado di farlo dipende, in gran parte, dalla
velocità con cui le reazioni viscerali, che si erano innescate con la
percezione della minaccia, regrediscono.
Il neuroscienziato Paul MacLean, che ha sviluppato il modello del
cervello trino di cui ho parlato in questo volume, paragona il rapporto tra
il cervello razionale e il cervello emotivo a quello tra un cavaliere esperto e
il suo cavallo indisciplinato.15 Finché il tempo è buono e il percorso è
tranquillo, il cavaliere può sentire di avere un ottimo controllo. Ma rumori
improvvisi o minacce di altri animali possono far imbizzarrire il cavallo,
costringendo il cavaliere ad aggrapparsi per salvarsi la vita. Allo stesso
modo, quando le persone sentono che è in gioco la loro sopravvivenza o
che sono in balia della rabbia, dei desideri, della paura, dell’eccitazione
sessuale, non riescono ad ascoltare la voce della ragione e non ha molto
senso discutere con loro. Ogni volta che il sistema limbico realizza che si
tratta di vita o di morte, le comunicazioni tra questo e i lobi frontali si
indeboliscono irrimediabilmente.
Gli psicologi, di solito, cercano di aiutare le persone a utilizzare l’intuito
e la capacità di capire per gestire il loro comportamento. Tuttavia, la
ricerca neuroscienti ca dimostra che i problemi psicologici non sono
quasi mai il risultato di difetti di comprensione; la maggior parte dei
problemi nasce dalle pressioni provenienti da regioni più profonde del
cervello, deputate alla percezione e all’attenzione. Quando il campanello
d’allarme del cervello emotivo continua a segnalare una situazione di
pericolo, nessuna azione intuitiva riuscirà a spegnerlo. Mi viene in mente
la comicità con cui un autore di reato, sette volte recidivo, esaltava le virtù
delle tecniche imparate in un programma di gestione della rabbia: “Sono
eccezionali e funzionano molto bene, nché non ti arrabbi veramente”.
Quando il nostro cervello emotivo e quello razionale sono in con itto
(come quando siamo arrabbiati con qualcuno che amiamo, spaventati da
qualcuno da cui dipendiamo, o amiamo qualcuno di irraggiungibile), ne
consegue una sorta di braccio di ferro. Questa guerra è, in gran parte,
combattuta sulla scena delle esperienze viscerali – viscere, cuore, polmoni
– e comporterà sia disagio sico sia disperazione psicologica. Nel capitolo
6, si parlerà di come il cervello e le viscere interagiscono in condizioni di
sicurezza e di pericolo, argomento importante in quanto ritenuto la chiave
per comprendere le svariate manifestazioni siche del trauma.
Vorrei concludere questo capitolo esaminando ancora due scansioni
cerebrali che illustrano alcune delle caratteristiche principali dello stress
traumatico: il rivivere all’in nito, il riesperire suoni, immagini ed
emozioni, e la dissociazione.

Il cervello traumatizzato di Stan e Ute


In una bella mattina di settembre del 1999, Stan e Ute Lawrence, una
coppia di professionisti sulla quarantina, usciva di casa, a London,
nell’Ontario, per partecipare a un incontro d’affari a Detroit. A metà del
tragitto, si imbatterono in un tto muro di nebbia che, in una frazione di
secondo, tolse completamente la visibilità. Stan frenò di colpo, fermandosi
di traverso sull’autostrada e mancando di poco un enorme camion. Un
autoarticolato volò sul bagagliaio della loro auto; furgoni e automobili si
scontrarono tra di loro, colpendo anche la loro auto. Le persone, uscite
dalle macchine, venivano investite mentre correvano nel tentativo di
salvarsi la vita. I rumori assordanti degli scontri si susseguivano e, a ogni
urto, pensavano sarebbe stata la ne. Stan e Ute erano rimasti intrappolati
nella macchina numero tredici di un tamponamento a catena di 87 auto: il
peggior disastro stradale nella storia del Canada.16
Sopraggiunse un silenzio inquietante. Stan cercava di aprire le portiere e
i nestrini, ma l’autoarticolato, che aveva schiacciato il bagagliaio, era
incuneato contro la macchina. Improvvisamente, qualcuno battè sul loro
tetto. Una ragazza urlava: “Fatemi uscire da qui, sto bruciando!”.
Impotenti, la videro morire mentre la sua macchina si consumava tra le
amme. Immediatamente dopo, si accorsero di un camionista in piedi sul
cofano della loro auto, con un estintore. Stava fracassando il parabrezza
per liberarli e Stan si arrampicò attraverso l’apertura. Voltandosi per
aiutare la moglie, si accorse che Ute se ne stava seduta, congelata sul suo
sedile. Stan e il camionista la tirarono fuori e un’ambulanza li portò in
Pronto Soccorso. A parte alcuni tagli, furono ritenuti sicamente illesi.
A casa, quella notte, né Stan né Ute volevano andare a dormire.
Sentivano che se si fossero lasciati andare, sarebbero morti. Erano
irritabili, agitati, nervosi. Quella notte, e per molte notti a venire, bevvero
enormi quantità di vino per stordire la paura. Non riuscivano a fermare le
immagini che li tormentavano e si ripetevano, ininterrottamente, le
seguenti domande: cosa sarebbe accaduto se fossero usciti prima di casa?
Cosa sarebbe accaduto se non avessero rallentato?
Dopo tre mesi, chiesero una consulenza alla dottoressa Ruth Lanius, una
psichiatra dell’Università del Western Ontario. La dottoressa Lanius, che
era stata una mia allieva al Trauma Center pochi anni prima, disse loro di
voler esaminare il loro cervello, con una fMRI, prima di iniziare un
trattamento. La fMRI misura l’attività neurale, tracciando i cambiamenti
nel usso sanguigno del cervello e, a differenza della PET, non richiede
l’esposizione a radiazioni. La dottoressa Lanius usò lo stesso tipo di
immaginazione guidata da uno script che avevamo usato a Harvard, per
catturare le immagini, i suoni, gli odori e altre sensazioni che Stan e Ute
avevano sperimentato, intrappolati nella loro macchina.
Stan fu esaminato per primo e venne immediatamente travolto da un
ashback, proprio come Marsha, nella nostra ricerca a Harvard. Uscì
dallo scanner completamente sudato, con il battito cardiaco e la pressione
sanguigna alle stelle: “Mi sentivo esattamente così durante l’incidente”,
riferì, “Ero certo di stare per morire e che non c’era nulla che potessi fare
per salvarmi”. Stan non ricordava l’incidente come qualcosa che era
accaduto tre mesi prima, ma lo stava rivivendo esattamente in quel
momento.

Dissociare e rivivere
La dissociazione è l’essenza del trauma. L’esperienza travolgente è divisa e
frammentata, così che emozioni, suoni, immagini, pensieri e sensazioni
siche, legati al trauma, assumono una vita propria. I frammenti sensoriali
del ricordo intrudono nel presente, dove vengono letteralmente rivissuti.
Finché non si risolve il trauma, l’ormone dello stress, che il corpo secerne
per proteggersi, si mantiene in circolo; i movimenti difensivi e le risposte
emotive continuano a essere rimessi in atto. A differenza di Stan, tuttavia,
molte persone possono non essere consapevoli della relazione tra i loro
sentimenti, le reazioni “folli” e gli eventi traumatici che stanno rimettendo
in atto. Non hanno idea del perché rispondono anche a una seccatura di
poco conto come se fossero sul punto di essere annientati.
I ashback e il rivivere sono sintomi, in qualche modo, peggiori del
trauma stesso. L’evento traumatico ha un inizio e una ne: a certo punto,
termina. Ma per le persone con un PTSD, un ashback può veri carsi in
qualsiasi momento, sia che siano sveglie o addormentate. Non c’è modo di
sapere quando accadrà di nuovo o per quanto tempo durerà. Le persone
che soffrono di ashback organizzano spesso la loro vita, cercando di
proteggersi dagli stessi. Vanno in palestra in modo compulsivo a sollevare
pesi (scoprendo, comunque, di non essere mai abbastanza forti), si
stordiscono con le droghe o cercano di coltivare un illusorio senso di
controllo, esponendosi a situazioni altamente pericolose (come il
motociclismo, il bungee jumping o la guida di ambulanze). Combattere
costantemente pericoli invisibili è faticoso e lascia affaticati, depressi e
stanchi.
Se gli elementi del trauma vengono continuamente rimessi in gioco,
l’ormone dello stress che vi si accompagna imprime i ricordi nella mente
in modo sempre più profondo. Di solito, con il passare del tempo, gli
eventi perdono pian piano di consistenza. Non potendo comprendere nel
profondo ciò che sta accadendo loro, è impossibile che le persone si
sentano pienamente vive. Diventa sempre più dif cile sentire le gioie e le
fatiche della vita quotidiana e concentrarsi sui normali compiti: non essere
completamente vivi nel presente mantiene saldamente imprigionati nel
passato.
Le risposte attivate dei trigger si manifestano in vari modi. I veterani
possono reagire al minimo segnale: urtare un ostacolo per strada o vedere
un bambino che gioca lungo la via, come se fossero in una zona di guerra;
si spaventano facilmente, andando incontro a scoppi di rabbia o
all’obnubilamento. Le vittime di abuso sessuale infantile possono
anestetizzare la propria sessualità, per poi provare un’intensa vergogna se
si eccitano con sensazioni o immagini che richiamano le loro molestie,
anche quando quelle sensazioni sono associate al naturale piacere
connesso a speci che parti del corpo. Se i sopravvissuti ai traumi sono
costretti a parlare delle proprie esperienze, si può osservare un aumento
della pressione sanguigna o, in altri casi, un inizio di un attacco di
emicrania. Altre persone possono spegnersi emotivamente e non sentire
alcun cambiamento sostanziale. Tuttavia, in laboratorio, non abbiamo
problemi a rilevare le uttuazioni del loro battito cardiaco e l’ormone
dello stress che ribolle nel loro corpo.
Queste reazioni sono irrazionali e solitamente avvengono fuori dal
controllo volontario. Impulsi ed emozioni, a malapena controllabili e
intensi, fanno sì che le persone si sentano pazze, non appartenenti alla
razza umana. Sentirsi obnubilati alla festa di compleanno dei propri
bambini o in risposta alla morte di persone care, fa sì che ci si senta dei
“mostri”. E così la vergogna diventa l’emozione dominante, e nascondere
la verità la preoccupazione centrale.
Queste persone, raramente, sono in contatto con le cause del loro
sentimento di alienazione. Ed è a questo punto che entra in gioco la
psicoterapia: è l’inizio del prendere consapevolezza delle emozioni
generate dal trauma, dando alle persone la possibilità di sentirsi e di
osservare se stesse. L’idea di fondo è, tuttavia, che il sistema di percezione
della minaccia sia stato ritarato e che le reazioni siche siano condizionate,
di conseguenza, dalle impronte del passato.
Il trauma che è iniziato “là fuori” è rimesso in atto, ora, sul campo di
battaglia del nostro corpo, senza che vi sia una connessione consapevole
tra ciò che è accaduto allora e quello che sta succedendo in questo
momento dentro di noi. La s da non è imparare ad accettare le cose
terribili che sono accadute, ma imparare a ottenere la padronanza sulle
proprie sensazioni interne e sulle emozioni. Percepire, nominare e
identi care ciò che sta succedendo all’interno di noi è il primo passo verso
la guarigione.

Il rilevatore di fumo lavora no all’esaurimento


La scansione cerebrale di Stan mostra il suo ashback in azione. Questa è
la forma che assume il cervello nel momento in cui rivive il trauma: l’area
nell’angolo in basso a destra, accesa in modo evidente, l’area nell’angolo
in basso a sinistra, spenta, e quattro buchi bianchi simmetrici attorno al
centro (si può riconoscere l’amigdala accesa e la parte sinistra del cervello
disattivata, come nello studio di Harvard, discusso nel capitolo 3).
L’amigdala di Stan non distingueva tra passato e presente. Era attivata
come se l’incidente d’auto stesse accadendo in quel momento, generando
la produzione di potenti ormoni dello stress e attivando le risposte del
sistema nervoso. Tutto ciò era responsabile della sudorazione e del
tremore, del battito cardiaco accelerato e dell’elevata pressione sanguigna:
risposte completamente normali e potenzialmente salvavita, se un camion
si è appena schiantato contro la vostra auto.
È importante avere un rilevatore di fumo ef ciente: non si vuole essere
colti alla sprovvista da un violento incendio, ma se ci si agita no al delirio
tutte le volte che si sente odore di fumo, tutto ciò può diventare
estremamente distruttivo. Sì, è necessario notare se qualcuno è adirato
con noi, ma se l’amigdala è lanciata a tutta birra, il rischio è che la paura
che le persone vi odino si cronicizzi, insieme all’idea che gli altri vogliano
intenzionalmente farvi del male.
Il cronometro si inceppa
Sia Stan sia Ute erano diventati ipersensibili e irritabili dopo l’incidente;
ciò suggeriva che la loro corteccia prefrontale stesse lottando per
mantenere il controllo sullo stress. I ashback di Stan esitavano in reazioni
più estreme.
Le due aree bianche nella parte anteriore del cervello (in alto nella
gura) sono la parte destra e la parte sinistra della corteccia prefrontale
dorsolaterale. Quando queste aree sono disattivate, le persone perdono il
senso del tempo e sono intrappolate nel momento, senza avere il senso del
passato, del presente o del futuro.17
I due sistemi cerebrali, indispensabili all’elaborazione mentale del
trauma, sono quelli che si occupano dell’intensità emotiva e del contesto.
L’intensità emotiva è de nita dal rilevatore di fumo, l’amigdala, e dal suo
contrappeso, la torre di controllo, la corteccia prefrontale mediale. Il
contesto e il signi cato di un’esperienza sono determinati dal sistema che
include la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e l’ippocampo. Il
DLPFC si trova a lato nel cervello anteriore, mentre il MPFC è al centro.
Le strutture lungo la linea mediana del cervello sono dedicate
all’esperienza di sé interna, mentre quelle sul lato riguardano
maggiormente le relazioni con l’ambiente circostante. Il DLPFC ci
comunica in che modo la nostra esperienza attuale si correla al passato e
come può in uenzare il futuro – si può pensare al DLPFC come a un
cronometro cerebrale. Sapere che qualunque cosa stia accadendo è
circoscritta e che, presto o tardi, nirà, rende la maggior parte delle
esperienze tollerabile. È vero anche il contrario: le situazioni, cioè,
diventano intollerabili se si percepiscono come interminabili. La maggior
parte di noi sa, dalle proprie esperienze tristi, che il dolore profondo è in
genere accompagnato dalla sensazione che questo stato disperato durerà
per sempre e dalla convinzione che non si potrà mai superare la perdita. Il
trauma è l’esperienza estrema del “durerà per sempre” .
La scansione di Stan rivela perché le persone possono guarire dal trauma
solo quando le strutture cerebrali, messe fuori uso dall’evento originale,
ritornano a essere attive (e questo, tra l’altro, spiega anche perché l’evento
sia registrato nel cervello come un trauma in prima battuta). Si dovrebbe
rivisitare il passato, in terapia, solo nel momento in cui le persone sono,
biologicamente parlando, saldamente radicate nel presente e hanno la
sensazione di essere il più possibile calme, al sicuro e centrate (“grounded”
signi ca che si può percepire di avere il sedere sulla la sedia, vedere la luce
che entra dalla nestra, sentire la tensione nei polpacci e osservare il vento
che, fuori, agita gli alberi). Essere ancorati nel presente, mentre si rivive il
trauma, apre la possibilità di comprendere, nel profondo, che i terribili
eventi accaduti appartengono al passato. Perché ciò si veri chi, la torre di
controllo, il cuoco e il cronometro del cervello devono essere
sincronizzati. La terapia non funziona, nché le persone continuano a
essere trascinate indietro nel passato.

Il talamo si spegne
Guardiamo ancora la scansione del ashback di Stan: si possono vedere
due fori più chiari nella metà inferiore del cervello. Si tratta delle parti
destra e sinistra del talamo, spente durante il ashback così come durante
il trauma originale. Come avevo detto, il talamo funziona come un
“cuoco” – o come una stazione di scambio che raccoglie sensazioni
uditive, visive e tattili per poi integrarle nella zuppa della nostra memoria
autobiogra ca. Il collasso del talamo spiega soprattutto perché il trauma
non possa essere riferito come un racconto, una narrazione con un inizio,
una parte centrale e una ne, ma come una serie di impronte sensoriali
isolate: immagini, suoni e sensazioni siche, accompagnati da emozioni
intense, di solito terrore e impotenza.18
In circostanze normali, il talamo agisce anche come un ltro o come un
portiere. Questo ne fa una componente essenziale dell’attenzione, della
concentrazione e del processo di nuovi apprendimenti – tutte funzioni
compromesse dal trauma. Quando siamo seduti a leggere, possiamo
sentire musica in sottofondo, il rombare del traf co o un debole brontolio
nello stomaco, che ci dice che è tempo di fare uno spuntino. Se siamo in
grado di rimanere concentrati sulla pagina, è perché il talamo ci sta
aiutando a distinguere tra informazioni sensoriali rilevanti e informazioni
che si possono tranquillamente ignorare. Nel capitolo 19, dedicato al
neurofeedback, discuteremo di alcune prove utilizzate per misurare
l’ef cacia del funzionamento di questi sistemi di chiusura e apertura,
nonché dei modi per rinforzarli.
Le persone con PTSD hanno le porte spalancate. In mancanza di un
ltro, sono in sovraccarico sensoriale costante. Per farvi fronte, cercano di
chiudersi, sviluppando una visione limitata, iperfocalizzata. Se non
possono spegnersi naturalmente, niscono per fare ricorso a droghe o
alcol, nel tentativo di tenere il mondo fuori. La tragedia è che il prezzo
della chiusura comprende anche l’inaccessibilità alle fonti di piacere e di
gioia.
Depersonalizzazione: scissione del sé
Diamo ora un’occhiata all’esperienza di Ute nello scanner. Non tutte le
persone reagiscono a un trauma esattamente nello stesso modo, ma, in
questo caso, la differenza è particolarmente evidente, poiché Ute era
seduta proprio accanto a Stan nella macchina distrutta. Ute aveva risposto
allo script del trauma con ottundimento emotivo: la sua mente si era
svuotata, e quasi tutte le aree del suo cervello mostravano un’attività
notevolmente diminuita. Il battito cardiaco e la pressione sanguigna non
erano elevati. Alla domanda su come si era sentita durante la scansione,
rispose: “Come al momento dell’incidente: non ho sentito niente”.
Il termine medico per la risposta di Ute è depersonalizzazione.19
Chiunque si occupi di persone traumatizzate, che siano esse uomini,
donne o bambini, si confronta, prima o poi, con sguardi ssi nel vuoto e
menti assenti, la manifestazione esteriore della reazione di congelamento
biologico. La depersonalizzazione è un sintomo della dissociazione
massiva, provocata dal trauma. I ashback di Stan provenivano dai suoi
sforzi frustrati di fuggire all’impatto: sollecitate dallo script, tutte le
emozioni, le sensazioni frammentate e dissociate riecheggiavano ancora
nel presente. Invece di lottare per fuggire, Ute aveva dissociato la sua
paura, in modo da non sentire nulla.
Mi capita di essere frequentemente in contatto con la dissociazione
quando, nel mio studio, i pazienti mi parlano di storie terribili, senza
alcuna connotazione emotiva: tutta l’energia abbandona la stanza e devo
compiere un grosso sforzo per continuare a rimanere attento. Un paziente
spento ti costringe a lavorare molto più faticosamente per mantenere viva
la terapia e, spesso, ci si ritrova a pregare perché l’ora trascorra
rapidamente. Dopo aver visto la scansione di Ute, iniziai ad avere un
approccio molto diverso nei confronti dei pazienti spenti. Con quasi ogni
parte del cervello disconnessa, i pazienti non possono, ovviamente,
pensare, sentire profondamente, ricordare o dare un senso a ciò che sta
succedendo. La convenzionale terapia verbale, in tali circostanze, è
praticamente inutile.
Nel caso di Ute, era possibile ipotizzare il motivo per cui avesse risposto
in modo così diverso da Stan: stava utilizzando una strategia di
sopravvivenza, che il suo cervello aveva imparato nell’infanzia, per
affrontare la severità della madre. Il padre di Ute era morto quando la
paziente aveva nove anni, e la madre, successivamente, divenne cattiva e
umiliante nei suoi confronti. A un certo punto, Ute aveva scoperto di
riuscire a spegnere la mente quando la madre le urlava contro.
Trentacinque anni dopo, intrappolata nell’auto distrutta, Ute mise in atto
automaticamente la stessa strategia di sopravvivenza che il suo cervello
aveva appreso: scomparire.
La s da, per le persone come Ute, è quella di diventare vigili e coinvolte,
compito, questo, dif cile, ma necessario se ci si vuole riappropriare della
vita (Ute stessa trovò un modo per guarire: scrisse un libro sulla sua
esperienza e avviò con successo una rivista, intitolata Mental Fitness).
Questo caso è emblematico della necessità di un approccio terapeutico
bottom-up. L’obiettivo è, in realtà, quello di cambiare la siologia del
paziente, il suo rapporto con le sensazioni corporee. Al Trauma Center
lavoriamo misurando le funzioni di base come la frequenza cardiaca e la
respirazione. Aiutiamo i pazienti a evocare e a sentire le percezioni
corporee, toccando i punti dell’agopuntura.20 Interazioni ritmiche con
altre persone sono altrettanto ef caci – lanciarsi reciprocamente un
pallone da spiaggia, rimbalzare su una palla da pilates, usare i tamburi o
ballare al ritmo di musica.
Il numbing è l’altro lato della medaglia nel PTSD. Molte persone,
sopravvissute a traumi e che non hanno seguito un trattamento, iniziano
come Stan, con ashback improvvisi, per poi diventare obnubilati nella
vita. Se il rivivere il trauma può essere un’esperienza drammatica,
spaventosa e potenzialmente autodistruttiva, la mancanza di presenza, nel
tempo, può rivelarsi ancora più dannosa. Questo è un problema di
particolare rilevanza con i bambini traumatizzati. I bambini agitati
attirano l’attenzione, quelli spenti non preoccupano nessuno, facendo sì,
in questo modo, che si perdano, a poco a poco, il loro futuro.

Imparare a vivere nel presente


La s da, nel trattamento del trauma, non è solo quella di avere a che fare
con il passato, ma anche, e forse di più, quella di pensare quanto sia
importante migliorare, giorno dopo giorno, la qualità dell’esperienza
quotidiana. Uno dei motivi per cui le memorie traumatiche diventano
dominanti nel PTSD è che è molto dif cile sentirsi veramente vivi nel
momento presente. Quando non si può essere completamente nel
presente, ci si dirige verso i luoghi in cui ciò è possibile, anche se questi
luoghi sono pieni di orrore e di infelicità.
Molti approcci al trattamento dello stress traumatico si focalizzano sulla
desensibilizzazione dei pazienti nei confronti del loro passato, con
l’aspettativa che la riesposizione ai loro traumi ridurrà le esplosioni
emotive e i ashback. Credo che questo si basi su un malinteso di ciò che
signi ca stress traumatico. Dovremmo aiutare i nostri pazienti a vivere
pienamente e in modo sicuro nel presente. Per fare ciò, dobbiamo
contribuire a sollecitare quelle strutture cerebrali che si sono spente, nel
momento in cui sono stati travolti dal trauma. La desensibilizzazione può
renderci meno reattivi, ma se non si possono sentire la soddisfazione e il
piacere nelle piccole cose quotidiane, come fare una passeggiata, cucinare
un pasto, o giocare con i bambini, la vita ci passerà accanto senza che noi
ce ne accorgiamo.

1. R. Sperry (1981), “Changing priorities”, in Annual Review of Neuroscience, 4, pp. 1-15.


2. PS 234: Independence School, una delle scuole più popolari della Lower Manhattan a New York,
nelle immediate vicinanze di quello che fu il World Trade Center. [NdC]
3. A.A. Lima, A. Fiszman, C. Marques-Portella, M.V. Mendlowicz, E.S.F. Coutinho, D.C.B. Maia,
W. Berger, V. Rocha-Rego, E. Volchan, J.J. Mari, I. Figueira (2010), “The impact of tonic
immobility reaction on the prognosis of Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Psychiatric
Research, 44(4), pp. 224-228.
4. P. Janet (1889), L’automatismo psicologico, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
5. R.R. Llinás (2002), I of the Vortex: From Neurons to Self, MIT Press, Cambridge, MA. Vedi
anche R. Carter, C.D. Frith (1998), Mapping the Mind, University of California Press, Berkeley, CA;
R. Carter, (2009), The Human Brain Book, Penguin, New York; J.J. Ratey (2001), A User’s Guide to
the Brain, Pantheon Books, New York, p. 179.
6. B.D. Perry, R. Pollard, T. Blakely, W. Baker, D. Vigilante (1995), “Childhood trauma, the
neurobiology of adaptation, and use dependent development of the brain: How states become
traits”, in Infant Mental Health Journal, 16(4), pp. 271-291.
7. Sono in debito con il mio compianto amico David Servan-Schreiber, che per primo ha fatto
questa distinzione nel suo libro Guarire, tr. it. Sperling&Kup er, Milano 2008
8. E. Goldberg (2001), L’anima del cervello: lobi frontali, mente e civiltà, tr. it. UTET, Torino 2004.
9. G.E. Rizzolatti, L. Craighero (2004), “The Mirror-Neuron System”, in Annual Review of
Neuroscience, 27, pp. 169-192. Vedi anche M. Iacoboni, R.P. Woods, M. Brass, H. Bekkering, J.C.
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Schippers, A. Roebroeck, R. Renken, L. Nanetti, C. Keysers (2010), “Mapping the information
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developmental psychology and cognitive neuroscience”, in Philosophical Transactions of the Royal
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10. D. Goleman (2006), Intelligenza emotiva, tr. it., BUR, Milano 2011. Vedi anche V.S.
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great leap forward’ in human evolution”, in Edge, 31,  http:// edge.org/conversation/mirror-
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evolution (retrieved April 13, 2013).
11. G.M. Edelman, J.A. Gally (2013), “Reentry: A key mechanism for integration of brain
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12. J. LeDoux (2012), “Rethinking the emotional brain”, in Neuron, 73(4), pp. 653-676. Vedi
anche J.S. Feinstein, R. Adolphs, A. Damasio, D. Tranel (2011), “The human amygdala and the
induction and experience of fear”, in Current Biology, 21(1), pp. 34-38.
13. La corteccia prefrontale mediale è la parte centrale del cervello (ciò che i neuroscienziati
chiamano “le strutture della linea mediana”). Questa zona del cervello comprende un
conglomerato di strutture correlate le une con le altre: la corteccia prefrontale orbitale, la corteccia
prefrontale mediale inferiore e dorsale, e una grande struttura chiamata cingolato anteriore; tali
strutture sono tutte coinvolte nel monitoraggio dello stato interno dell’organismo e selezionano la
risposta appropriata. Si veda, per esempio, D. Diorio, V. Viau, M.J. Meaney (1993), “The role of
the medial prefrontal cortex (cingulate gyrus) in the regulation of hypothalamic-pituitary-adrenal
responses to stress”, in Journal of Neuroscience, 13(9), pp. 3839-3847; J.P. Mitchell, M.R. Banaji,
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learning: Contribution of medial prefrontal cortex”, in Neuroscience Letters, 163, pp. 109-113;
L.M. Shin, S.L. Rauch, R.K. Pitman (2006), “Amygdala, medial prefrontal cortex, and
hippocampal function in PTSD”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 1071(1), pp. 67-
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Disorder: The role of medial prefrontal cortex and amygdala”, in Neuroscientist, 15(5), pp. 540-
548; M.R. Milad, I.E. Vidal-Gonzalez, G.J. Quirk (2004), “Electrical stimulation of medial
prefrontal cortex reduces conditioned fear in a temporally speci c manner”, in Behavioral
Neuroscience, 118(2), p. 389.
14. B.A. van der Kolk (2006), “Clinical implications of neuroscience research in PTSD”, in Annals
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15. P.D. Maclean (1990), The Triune Brain in Evolution: Role in Paleocerebral Functions, Springer,
New York.
16. U. Lawrence (2009), The Power of Trauma: Conquering Post Traumatic Stress Disorder,
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17. R. Carter, D.F. Christopher (1998), Mapping the Mind, University of California Press, Berkeley,
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future consequences following damage to human prefrontal cortex”, in Cognition, 50(1), pp. 7-15;
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18. H.S. Duggal (2002), “New-onset PTSD after thalamic infarct”, in American Journal of
Psychiatry, 159(12), pp. 2113-a. Vedi anche R.A. Lanius, P.C. Williamson, M. Densmore, M.
Gupta, R. Neufeld (2001), “Neural correlates of traumatic memories in Post-traumatic Stress
Disorder: A functional MRI investigation”, in American Journal of Psychiatry, 158(11), pp. 1920-
1922; I. Liberzon, S.F. Taylor, L.M. Fig, R.A. Koeppe (1996), “Alteration of corticothalamic
perfusion ratios during a PTSD ashback”, in Depression and Anxiety, 4(3), pp. 146-150.
19. R. Noyes Jr, R. Kletti (1977), “Depersonalization in response to life-Ehreatening danger”, in
Comprehensive Psychiatry, 18(4), pp. 375-384. Si veda anche M. Siena, G.E. Berrios (1998),
“Depersonalization: Neurobiological perspectives”, in Biological Psychiatry, 44(9), pp. 898-908.
20. D. Church, O. Pina, C. Reategui, A. Brooks (2012), “Single-session reduction of the intensity of
traumatic memories in abused adolescents after EFT: A randomized controlled pilot study”, in
Traumatology, 18(3), pp. 73-79; D. Feinstein, D. Church (2010), “Modulating gene expression
through psychotherapy: The contribution of noninvasive somatic interventions”, in Review of
General Psychology, 14(4), pp. 283-295. Vedi anche www.vetcases.com.
5

Connessioni corpo-cervello

La vita è una questione di ritmo. Noi vibriamo, i nostri cuori pompano


sangue. Siamo una macchina del ritmo, ecco cosa siamo.
MICKHEY HART1

Alla ne della sua carriera, nel 1872, Charles Darwin pubblicò


L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali.2 Fino a qualche
anno fa, gran parte delle dissertazioni scienti che sulle teorie di Charles
Darwin si era concentrata sull’Origine delle specie (1859) e sull’Origine
dell’uomo e la selezione sessuale (1871). Ma L’espressione delle emozioni si
rivela una straordinaria esplorazione dei fondamenti della vita emotiva,
ricca di osservazioni e di aneddoti in uenzati da decenni di ricerche, ma
anche da storie tratte dalla quotidianità dei gli di Darwin e dal
comportamento dei suoi animali domestici. È, inoltre, una pietra miliare
del libro illustrato: uno dei primi libri di sempre a includere, al suo
interno, delle fotogra e (la fotogra a era, allora, una tecnologia
relativamente nuova e, come la maggior parte degli scienziati, Darwin
voleva avvalersi delle tecniche più all’avanguardia per illustrare il suo
punto di vista). Il libro è ancora oggi pubblicato, facilmente reperibile in
una recente edizione, con una magni ca introduzione e con il commento
di Paul Ekman, un moderno pioniere nello studio delle emozioni.
Le ri essioni iniziali di Darwin riguardano l’evidenza di come
l’organizzazione sica sia comune a tutti i mammiferi, esseri umani
compresi: polmoni, fegato, cervello, apparato digerente e organi sessuali
mantengono e perpetuano la vita. Sebbene oggi molti scienziati
potrebbero accusarlo di antropomor smo, Darwin, in realtà, si mette
dalla parte degli amanti degli animali, quando proclama: “L’uomo e gli
animali superiori, specialmente i primati, hanno alcuni istinti in comune…
hanno i medesimi sensi, le intuizioni e le sensazioni, le stesse passioni,
affezioni ed emozioni, anche le più complesse, come la gelosia, il sospetto,
l’emulazione, la gratitudine e la magnanimità”.3 Osserva che noi umani
condividiamo alcune delle espressioni somatiche delle emozioni animali. Il
sentire che i capelli dietro al collo si rizzano quando siamo spaventati o il
mostrare i denti quando siamo arrabbiati possono essere intesi solo come
il retaggio di un lungo processo evoluzionistico.

Secondo Darwin, le emozioni dei mammiferi originano


fondamentalmente dalla biologia: sono una fonte indispensabile di
motivazione per iniziare un’azione. Le emozioni (dal latino emovere,
muovere fuori, scuotere) danno forma e direzione a qualsiasi cosa
facciamo e la loro espressione primaria avviene attraverso i muscoli del
viso e del corpo. Questi movimenti facciali e sici comunicano il nostro
stato mentale e le nostre intenzioni agli altri; le espressioni di rabbia e le
posture minacciose avvisano di fare marcia indietro. La tristezza sollecita
cura e attenzione. La paura segnala impotenza o ci allerta di un pericolo.
In modo istintivo, leggiamo la dinamica relazionale tra due persone
semplicemente dalla loro tensione o rilassatezza, dalla loro postura o dal
tono di voce, dal cambiamento delle espressioni del viso. Guardando un
lm in una lingua che non si conosce, riusciamo comunque a cogliere la
qualità delle relazioni tra gli attori. Comprendiamo, spesso, nel medesimo
modo, gli altri mammiferi (scimmie, cani, cavalli).
Darwin va avanti a osservare che lo scopo principale delle emozioni è
quello di iniziare un movimento, che riporterà l’organismo alle condizioni
di sicurezza ed equilibrio sico. Ecco il suo commento sull’origine di ciò
che oggi potremmo chiamare PTSD:
I comportamenti per evitare o scappare da un pericolo si sono chiaramente evoluti per rendere
ogni organismo competitivo in termini di sopravvivenza. Ma in modo inappropriato una fuga
prolungata o un comportamento di evitamento potrebbero mettere l’animale in una posizione
di svantaggio rispetto alla riproduzione, utile per una ef cace preservazione della specie; ciò
poiché la riproduzione, a sua volta, dipende dall’accudimento, dalla protezione e
dall’accoppiamento, che sono il contrario dell’evitamento e della fuga.4

In altre parole, se un organismo è bloccato su una modalità di


sopravvivenza, le sue energie sono impiegate per combattere nemici
invisibili, il che non lascia spazio per il nutrimento, la cura, l’amore. Per
noi umani, ciò signi ca che, nché la mente si difende da assalti
inesistenti, i nostri legami più intimi ne sono minacciati, insieme alla
capacità di immaginare, piani care, giocare, apprendere e prestare
attenzione ai bisogni delle altre persone.
Darwin, inoltre, scrisse in merito alle connessioni mente-corpo che
stiamo ancora oggi esplorando. Emozioni intense coinvolgono non
soltanto la mente, ma anche l’intestino e il cuore: “Cuore, intestino e
cervello comunicano intimamente attraverso il nervo ‘pneumogastrico’, il
nervo maggiormente coinvolto nell’espressione e nella gestione delle
emozioni sia negli uomini sia negli animali. Quando la mente è fortemente
eccitata, in uenza istantaneamente lo stato delle viscere; così sotto
eccitamento, ci sarà molta azione e reazione reciproca tra questi due
importanti organi del corpo”.5
La prima volta che mi sono imbattuto in questo passaggio di Darwin,
l’ho letto e riletto con eccitazione crescente. In modo del tutto naturale,
sperimentiamo le nostre emozioni più devastanti come sensazioni di
strappi all’intestino e di crepacuore. Finché registriamo le emozioni
principalmente nella nostra testa, rimaniamo pressoché in controllo, ma
sentirsi come se il petto cedesse o come se ci stessero prendendo a pugni
nello stomaco è insopportabile. Siamo disposti a tutto per far sparire
queste sensazioni odiose – aggrappandoci disperatamente a un altro essere
umano, o anestetizzandoci con droghe e alcol oppure tagliandoci la pelle
con un coltello – per sostituire le emozioni sopraffacenti con percezioni
de nibili. Quanti problemi di salute mentale, dalla dipendenza da
sostanze a comportamenti autolesivi, iniziano come tentativi di gestire il
dolore sico insopportabile legato alle nostre emozioni? Se Darwin avesse
ragione, la soluzione risiederebbe nel trovare il modo di aiutare le persone
a modi care il paesaggio sensoriale interno del proprio corpo.
Questa comunicazione bidirezionale tra corpo e mente è stata a lungo
ignorata dalla scienza occidentale, rappresentando, invece, una parte
fondante delle pratiche di guarigione tradizionali in molte altre parti del
mondo, in special modo in India e in Cina. Oggi tutto ciò sta
trasformando la nostra comprensione del trauma e della sua cura.

Una nestra sul sistema nervoso


Tutta la miriade di piccoli segni che registriamo in modo istintivo nel
corso di una conversazione – cambiamenti muscolari e tensioni nel viso
delle altre persone, movimenti oculari e dilatazione delle pupille, tono e
velocità della voce –, così come le uttuazioni nel nostro mondo interiore
– la salivazione, l’inghiottire, il respiro e il battito cardiaco – sono unite da
un unico sistema regolatore.6 Si tratta, infatti, del prodotto della sincronia
tra due rami del Sistema nervoso autonomo (SNA): il simpatico, che
agisce come un acceleratore del corpo, e il parasimpatico, che funge da
freno.7 Questi due sistemi costituiscono “i reciproci” di cui parlava
Darwin e, lavorando insieme, giocano un ruolo importante nella gestione
del usso energetico del corpo: l’uno provvede al suo consumo, l’altro alla
sua conservazione.
Il Sistema nervoso simpatico (SNS) è responsabile dell’arousal, con le
risposte di attacco/fuga (la “fuga o comportamento evitante” di Darwin).
Il nome “simpatico” venne attribuito a questo sistema quasi duemila anni
fa dal medico romano Galeno, che ne aveva osservato il funzionamento
con le emozioni (sym pathos). Il SNS porta il sangue ai muscoli per le
azioni rapide, sollecitando in parte le ghiandole surrenali a secernere
adrenalina, che velocizza il battito cardiaco e aumenta la pressione
sanguigna.
Il secondo ramo del Sistema nervoso autonomo è il Sistema nervoso
parasimpatico (“contro le emozioni”), che promuove funzioni
autoconservative, come la digestione e la cura delle ferite. Sollecita il
rilascio di acetilcolina per mettere un freno all’arousal, calmando il cuore,
rilassando i muscoli e riportando il respiro alla normalità. Come
sottolineava Darwin, “attività di accudimento, protezione e di
accoppiamento” dipendono dal SNP.
C’è un modo piuttosto semplice per avere esperienza di questi due
sistemi. Quando facciamo un respiro profondo, attiviamo il sistema
nervoso simpatico. La conseguente esplosione di adrenalina velocizza il
cuore, e questo spiega perché molti atleti fanno pochi respiri corti e
profondi prima di iniziare una competizione. L’espirazione, a sua volta,
attiva il sistema parasimpatico, che rallenta il cuore. Se si segue un corso
di meditazione o di yoga, il maestro, probabilmente, incoraggerà a
prestare particolare attenzione all’espirazione, dato che respiri lunghi e
profondi calmano. Mentre respiriamo, aumentiamo e rallentiamo
continuamente il battito cardiaco, ed è per questa ragione che l’intervallo
fra due successivi battiti non è mai precisamente lo stesso. Una
misurazione, chiamata variabilità del battito cardiaco (heart rate
variability, HRV), può essere usata per testare la essibilità di questo
sistema, e un buon HRV – maggiore è la uttuazione meglio è – è un
segnale che il freno e l’acceleratore del nostro sistema di arousal stanno
entrambi funzionando in modo appropriato ed equilibrato. L’acquisizione
di uno strumento di misura dell’HRV ha comportato una vera e propria
svolta e, nel capitolo 16, spiegherò come si può usare l’HRV nel
trattamento del PTSD.

Il codice d’amore neurale8


Nel 1994, Stephen Porges, allora ricercatore dell’Università del Maryland
e ora docente all’Università del Nord Carolina, presentò la Teoria
polivagale, costruita a partire dalle osservazioni di Darwin e integrata da
140 anni di scoperte scienti che, che si sono aggiunti a quelle prime
intuizioni. Polivagale si riferisce ai molti rami del nervo vago – il “nervo
pneumogastrico” di Darwin – che connette numerosi organi, quali
cervello, polmoni, cuore, stomaco e intestino. La Teoria polivagale ci ha
fornito una più so sticata comprensione della biologia della sicurezza e
del pericolo, quella, cioè, basata sulla sottile in uenza reciproca tra le
esperienze viscerali del nostro corpo e le voci e i visi delle persone intorno
a noi. Ci ha spiegato che un tipo di volto o un tono di voce rassicurante
possono modi care considerevolmente il modo in cui ci sentiamo. Ci ha
chiarito perché il sapere di essere visti e sentiti dalle persone importanti
della nostra vita può farci sentire calmi e al sicuro e perché essere ignorati
o ri utati può indurre reazioni di rabbia o di collasso mentale. Ci ha
aiutati a capire perché una sintonizzazione focalizzata con un’altra
persona può farci uscire da stati disorganizzati e di terrore.9
In sintesi, la teoria di Porges ha fatto sì che guardassimo oltre gli effetti
dell’attacco o della fuga e che mettessimo le relazioni sociali di fronte e al
centro della nostra comprensione del trauma. Inoltre, ha suggerito nuovi
approcci alla cura, focalizzandosi sul rafforzamento del sistema corporeo,
per regolare l’arousal.
Gli esseri umani sono sintonizzati in modo stupefacente sui sottili
cambiamenti emotivi delle persone (e degli animali) che stanno intorno a
loro. Deboli cambiamenti nella tensione della fronte, delle rughe intorno
agli occhi, della curvatura delle labbra e dell’inclinazione del collo ci
segnalano, in modo rapido, quanto ciascuno di noi sia a suo agio,
sospettoso, rilassato o impaurito.10
I neuroni specchio registrano la nostra esperienza interna, e il nostro
corpo procede con adattamenti interni a qualunque cosa notiamo. In
modo analogo, i muscoli del viso forniscono agli altri indizi, relativi al
nostro essere calmi o eccitati, al fatto che il nostro cuore sia agitato o
quieto, al fatto che siano pronti a piombare su di loro o a scappare.
Quando il messaggio che proviene da un’altra persona è “sei al sicuro con
me”, ci rilassiamo. Se abbiamo la fortuna di avere delle buone relazioni, ci
sentiamo anche nutriti, supportati e ritemprati nel momento in cui
guardiamo l’altro negli occhi.
La nostra cultura ci porta a focalizzarci sulla nostra personale unicità,
ma, a un livello più profondo, esistiamo a fatica come organismi
individuali. Il nostro cervello è concepito per far sì che noi si funzioni
come membri di una tribù. Siamo parte di quella tribù anche quando
siamo da soli, sia che ascoltiamo musica (che altre persone hanno creato)
sia che guardiamo una partita di basket alla televisione (i nostri muscoli si
tendono insieme ai giocatori che corrono e saltano) o che prepariamo un
foglio di calcolo per un incontro sulle vendite (anticipando le reazioni del
capo). La maggior parte della nostra energia è spesa per connetterci con
gli altri.
Se si va al di là dei sintomi speci ci che compongono le diagnosi
psichiatriche formali, ci si rende conto che quasi tutte le malattie mentali
comprendono sia la dif coltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e
funzionali sia problemi nella regolazione dell’arousal (rabbia,
spegnimento, ipereccitazione, disorganizzazione). Solitamente, si tratta di
una combinazione di queste due componenti. L’attenzione costante della
medicina, rivolta alla ricerca del farmaco speci co per la cura di un
particolare “disordine”, distrae dall’occuparsi, invece, del modo in cui i
nostri problemi interferiscono con la possibilità di funzionare come
membri di una tribù.

Sicurezza e reciprocità
Qualche anno fa, ho sentito Jerome Kagan, professore emerito di
psicologia infantile a Harvard, dire al Dalai Lama che, in questo mondo,
per ogni atto di crudeltà ci sono centinaia di piccoli atti di gentilezza e
connessione. È sua convinzione che “essere benevoli, piuttosto che
malevoli, è, con tutta probabilità, una caratteristica intrinseca alla nostra
specie”. Potersi sentire al sicuro con le altre persone è forse l’aspetto più
importante della salute mentale; connessioni sicure sono fondamentali per
una vita signi cativa e soddisfacente. Svariati studi sulle risposte ai disastri
nel mondo hanno dimostrato che il supporto sociale costituisce la
protezione più potente contro la sopraffazione prodotta dallo stress
traumatico.
Per supporto sociale non si intende la mera presenza di altri. Il punto
cruciale è la reciprocità: essere veramente sentiti e visti dalle persone
intorno a noi, sentire di essere compresi nella mente e nel cuore di
qualcun altro. Per come siamo fatti, abbiamo bisogno del sentimento
viscerale di sicurezza per calmarci, curarci e crescere. Nessun dottore
potrebbe prescrivere una ricetta per l’amicizia e l’amore: sono capacità
complesse, che si conquistano a fatica. Non si deve per forza avere una
storia traumatica per sentirsi consapevolmente impauriti a una festa con
sconosciuti, ma il trauma ha il potere di trasformare il mondo intero in un
raduno di alieni.
Molte persone traumatizzate hanno la sensazione di non essere in
sincronia con gli altri. Molte di loro trovano conforto all’interno di gruppi
in cui possono raccontare le loro esperienze di combattimento, stupro o
tortura ad altri che hanno storie ed esperienze simili. La condivisione di
storie traumatiche e di vittimizzazione allevia il bruciante senso di
isolamento, ma spesso si paga il prezzo della negazione dell’esperienza
individuale: l’appartenenza è garantita soltanto dalla conformità al codice
comune.
Isolarsi, all’interno di un gruppo di vittime rigidamente de nito,
promuove una visione dell’esterno come irrilevante nella migliore delle
ipotesi e come pericolosa nella peggiore. Gang, partiti politici estremisti e
culti religiosi possono dare conforto, ma, raramente, incrementano la
essibilità mentale necessaria a essere pienamente aperti a ciò che la vita
ha da offrire e, pertanto, non possono liberare i loro membri dai traumi.
Persone ben funzionanti sono in grado di accettare le differenze
individuali e di riconoscere l’umanità degli altri.
Negli ultimi vent’anni, si è ampiamente dimostrato che adulti o bambini,
troppo attivati o bloccati per trarre conforto dagli esseri umani, si sentono
sollevati dalle relazioni con altri mammiferi. Cani, cavalli e anche del ni
rappresentano una compagnia meno complicata, favorendo, al contempo,
il necessario senso di sicurezza. In particolare, cani e cavalli sono
attualmente molto utilizzati nella cura di gruppi di pazienti
traumatizzati.11

Tre livelli di sicurezza


Dopo un trauma, il mondo è esperito attraverso un sistema nervoso
differente, che implica una percezione alterata del rischio e della
sicurezza. Porges ha coniato il termine “neurocezione” per descrivere la
capacità di valutare il pericolo e la sicurezza, insiti nell’ambiente di
ciascuno di noi. La grande s da da affrontare nella cura di persone con
una neurocezione fallace risiede nel cercare di “resettare” la loro
siologia, facendo in modo che i meccanismi di sopravvivenza smettano di
agire a loro svantaggio. Tutto ciò signi ca aiutare queste persone a
rispondere adeguatamente a situazioni di pericolo, ma, cosa più
importante, a recuperare la capacità di percepire la sicurezza, la
rilassatezza e la vera reciprocità.
Ho a lungo trattato e fatto colloqui con sei persone, sopravvissute a un
incidente aereo. Due di loro hanno raccontato di aver perso coscienza
durante il disastro; anche se non feriti sicamente, si erano spenti da un
punto di vista mentale. Due erano andati in panico, sentendosi angosciati
per molto tempo nel corso del trattamento. Altri due erano riusciti a
rimanere calmi, tirando fuori le risorse per aiutare i compagni passeggeri a
evacuare il relitto in amme. Ho trovato una gamma di risposte simili nei
sopravvissuti a stupro, incidenti automobilistici e tortura. Nel precedente
capitolo, abbiamo visto come Stan e Ute abbiano avuto reazioni
radicalmente differenti nel ricordare l’incidente in autostrada, che
avevano vissuto anco a anco. Come ci si spiega questa variabilità di
risposta: focalizzata, collassata o angosciata?
La teoria di Porges ci fornisce una risposta: il sistema nervoso autonomo
regola tre stati siologici fondamentali. Il livello di sicurezza sperimentato
determina l’attivazione di uno di essi in un particolare momento. Se ci si
sente minacciati, si va istintivamente al primo livello, il coinvolgimento
sociale: chiediamo aiuto, supporto e conforto alle persone intorno a noi.
Ma se nessuno ci presta soccorso, o ci troviamo immediatamente in
pericolo, l’organismo ritorna a una modalità più primitiva di
sopravvivenza: attacco o fuga. Attacchiamo chi ci attacca o scappiamo
verso un posto sicuro. Tuttavia, se tutto ciò non funziona – non riusciamo
a fuggire, siamo trattenuti o intrappolati – l’organismo cerca di
preservarsi, spegnendosi e spendendo il minor quantitativo possibile di
energia. Siamo, quindi, in uno stato di congelamento (freeze) o collasso.
Qui entra in causa il nervo vago plurirami cato, di cui descriverò
brevemente l’anatomia, essendo fondamentale nella comprensione di
come le persone affrontano il trauma. Il sistema di coinvolgimento sociale
dipende dai nervi, che originano nei centri regolatori del tronco
encefalico, primariamente il vago – noto anche come il decimo nervo
craniale – insieme ai nervi contigui, che attivano i muscoli del viso, della
gola, del medio orecchio, dell’apparato vocale o della laringe. Quando
domina il vagale ventrale complesso (VVC), sorridiamo quando gli altri ci
sorridono, annuiamo quando siamo d’accordo e corrucciamo la fronte
quando gli amici ci parlano delle loro sfortune. Quando il VVC è attivato,
manda, inoltre, segnali al cuore e ai polmoni, calmando il battito cardiaco
e aumentando la profondità del respiro. Ci sentiamo, quindi, calmi e
rilassati, centrati o piacevolmente eccitati.

Qualsiasi minaccia alla nostra sicurezza o alle nostre connessioni sociali


sollecita cambiamenti nelle aree innervate dal VVC. Quando accade
qualcosa di stressante, segnaliamo automaticamente la nostra agitazione
con le espressioni facciali e il tono della voce, modi che volte a invitare gli
altri a venire in nostro soccorso.12 Se nessuno risponde alla nostra richiesta
di aiuto, tuttavia, la minaccia aumenta e si attiva il più antico sistema
limbico. Subentra il sistema nervoso simpatico, mobilitando muscoli,
cuore e polmoni per l’attacco o la fuga.13 La nostra voce si fa concitata e
stridente e il cuore comincia a pompare più velocemente. Se un cane è
nella stanza, comincerà a saltare e ringhiare perché riesce a captare l’odore
delle nostre ghiandole sudoripare.

In ne, se non vi è via d’uscita alcuna, e non c’è niente che si possa fare
per prevenire l’inevitabile, si attiverà l’ultimo sistema di emergenza: il
vagale dorsale complesso (DVC). Questo sistema si estende dal di sotto
del diaframma allo stomaco, al fegato, all’intestino, e riduce drasticamente
il metabolismo in tutto il corpo. Si avverte un tuffo al cuore (sentiamo il
cuore “cadere”), non si riesce a respirare e il nostro intestino smette di
funzionare (letteralmente, “ce la facciamo addosso”). Questo è il
momento in cui ci distacchiamo, collassiamo e ci congeliamo.
Attacco/fuga versus collasso
Come abbiamo visto nelle scansioni cerebrali di Stan e Ute, il trauma si
esprime non solo nelle risposte di attacco o fuga, ma anche attraverso lo
spegnimento e il distacco dal momento presente. Ciascuna risposta
corrisponde a un livello diverso di attività cerebrale: il sistema
mammaliano di attacco o fuga, che ci protegge e ci preserva dallo
spegnimento, e il cervello rettiliano, che innesca la risposta di collasso. La
differenza fra questi due sistemi è facilmente osservabile in qualsiasi
grande negozio di animali. Cuccioli di gatto e di cane, topi e gerbilli
giocherellano e, quando sono stanchi, si avvicinano l’un l’altro, “pelle a
pelle”, impilati. Al contrario, serpenti e lucertole giacciono immobili agli
angoli delle loro gabbie, insensibili all’ambiente.14 Questa sorta di
immobilizzazione, generata dal cervello rettiliano, è caratteristica di molte
persone cronicamente traumatizzate, opposta al panico e alla rabbia
mammaliani, che rendono i sopravvissuti a traumi più recenti spaventati e
spaventanti.
Quasi tutti conosciamo la sensazione prodotta dalla risposta di
attacco/fuga per eccellenza, la rabbia al volante: una minaccia improvvisa
innesca un intenso impulso a muoversi e attaccare. Il pericolo spegne il
nostro sistema di coinvolgimento sociale, riduce la responsività alla voce
umana e aumenta la sensibilità ai segnali di minaccia. Eppure, per molte
persone, il panico e la rabbia sono preferibili al loro contrario: spegnersi
ed essere morti per il mondo. L’attivazione del sistema attacco/fuga fa sì
che le persone si sentano almeno piene di energia. Questo ci spiega perché
un così alto numero di persone abusate e traumatizzate si senta
profondamente vivo di fronte a un pericolo reale, mentre appaia
obnubilato in situazioni magari più complesse ma oggettivamente sicure,
come feste di compleanno o cene familiari.
Quando la lotta o la fuga non tengono a bada la minaccia, si attiva
l’ultima alternativa: il cervello rettiliano, il sistema di emergenza di base. È
molto più probabile che questo sistema venga coinvolto in circostanze di
immobilità sica, come quando si è tenuti fermi dall’aggressore o quando
un bambino non ha vie di scampo di fronte a un caregiver terrorizzante.
Collasso e distacco sono controllati dal DVC, una parte
evoluzionisticamente più antica del sistema nervoso parasimpatico,
associata a sintomi digestivi come diarrea e nausea. Rallenta, inoltre, il
cuore e induce una respirazione super ciale. Una volta subentrato questo
sistema, le altre persone cessano di esistere, così come noi stessi. La
consapevolezza si spegne e possiamo non avvertire più alcun dolore sico.

Come si diventa umani


Secondo la grande teoria di Porges, il VVC si è evoluto nei mammiferi per
supportare una vita sociale via via più complessa. Tutti i mammiferi,
compresi gli esseri umani, si mettono insieme per accoppiarsi, per nutrire i
loro piccoli, per difendersi da nemici comuni e per coordinare azioni di
caccia e di reperimento del cibo. Più ef cace è il VVC nella
sincronizzazione delle attività dei sistemi simpatico e parasimpatico, e
meglio la siologia di ciascun individuo si sintonizzerà su quella degli altri
membri della tribù.
Concepire in questo modo il VVC rende evidente come i genitori, in
modo del tutto naturale, aiutino i loro bambini a regolarsi. I neonati, per
de nizione, non sono esseri molto sociali; dormono per la maggior parte
del tempo e si svegliano quando hanno fame o sono bagnati. Dopo essere
stati accuditi, spendono una piccola quantità di tempo guardandosi
intorno, agitandosi, sollevandosi, ma ben presto tornano a dormire,
seguendo i loro ritmi interni. Nelle prime fasi della vita, sono piuttosto
alla mercé del funzionamento alternato del loro sistema nervoso simpatico
e parasimpatico e il loro sistema rettiliano dirige la maggior parte dello
spettacolo.
Ma, giorno dopo giorno, stimoliamo lo sviluppo della sincronicità del
VVC attraverso i balbettii, i sorrisi e i versi che rivolgiamo loro. Queste
interazioni guidano l’arousal emotivo del bambino verso la sincronia con il
suo ambiente. Il VVC controlla la funzione del poppare, la deglutizione,
le espressioni facciali e i suoni prodotti dalla laringe. La stimolazione di
queste funzioni in un infante è accompagnata da un senso di piacere e di
sicurezza, alla base del comportamento sociale futuro.15 Come il mio
amico Ed Tronick mi ha insegnato tanto tempo fa, il cervello è un organo
culturale: l’esperienza forgia il cervello.
Essere in sintonia con altri membri della nostra specie attraverso il VVC
è enormemente grati cante. Ciò che inizia come un’interazione
sintonizzata tra madre e bambino continua con la ritmicità di una bella
partita di basket, la sincronia del tango, l’armonia di un canto corale o
dell’esecuzione di un pezzo di jazz o di musica da camera: tutte queste
cose incrementano un profondo senso di piacere e di connessione.
Possiamo parlare di trauma quando quel sistema fallisce: ovvero quando
si implora per la propria vita, ma gli aggressori ignorano le suppliche;
quando si è un bambino terrorizzato che giace nel letto, sentendo la
propria madre che grida af nché il suo compagno smetta di picchiarla,
quando vediamo il nostro compagno intrappolato sotto un pezzo di
lamiera e non si è forti abbastanza per sollevarlo; quando si vuole spingere
via il prete che ci sta abusando, ma si ha paura di essere puniti.
L’immobilizzazione è all’origine di molti traumi. Mentre siamo immobili,
subentra, con molta probabilità, il DVC: il cuore rallenta, il respiro
diventa super ciale e, come degli zombie, si perde il contatto con noi
stessi e con l’ambiente. Ci si dissocia, si sviene e si collassa.

Difesa o rilassamento?
Steve Porges mi ha aiutato a capire che lo stato di base dei mammiferi è
quello di stare sempre un po’ in guardia. Per sentirci emotivamente vicini
a un altro essere umano, tuttavia, il nostro sistema di difesa deve spegnersi
temporaneamente. Per giocare, accoppiarsi e nutrire i propri piccoli, il
cervello ha bisogno di disattivare la naturale vigilanza.
Molti individui traumatizzati sono troppo vigili per godere dei piaceri
ordinari che la vita ha da offrire, mentre altri sono troppo obnubilati per
assimilare le nuove esperienze, o per rilevare i segnali di un effettivo
pericolo. Quando i rilevatori di fumo del cervello non funzionano a
dovere, le persone non corrono più quando dovrebbero scappare da un
pericolo o non lottano quando dovrebbero difendersi. Lo storico studio
ACE (Adverse Childhood Experiences, Eperienze infantili negative), di
cui parlerò più diffusamente nel capitolo 9, ha dimostrato che donne con
una storia precoce di abuso e di trascuratezza hanno una probabilità sette
volte maggiore di essere stuprate in età adulta. Donne che, da bambine,
hanno assistito alla violenza, subita dalle loro madri a opera dei loro
compagni, hanno una possibilità molto consistente di divenire, a loro
volta, vittime di violenza domestica.16
Molte persone si sentono al sicuro nché possono limitare i contatti
sociali a conversazioni super ciali, ma il contatto sico concreto può
provocare reazioni intense. Tuttavia, come sottolinea Porges, raggiungere
un qualsiasi tipo di intimità profonda – un abbraccio intimo, dormire con
un compagno e il sesso – richiede il concedersi di sperimentare
un’immobilizzazione senza paura.17 È particolarmente complicato per le
persone traumatizzate discernere quando sono realmente al sicuro e in
grado di mettere in atto il loro apparato difensivo da quando sono in
pericolo. Ciò richiede esperienze che possano ristabilire il senso di
sicurezza sica, tema su cui ritorneremo spesso nei capitoli seguenti.

Nuovi approcci al trattamento


Una volta che abbiamo compreso che adulti e bambini traumatizzati sono
bloccati nell’attacco/fuga o cronicamente spenti, come facciamo ad
aiutarli a disattivare tali manovre difensive, che in passato ne hanno
assicurato la sopravvivenza?
Persone particolarmente dotate, che lavorano con i sopravvissuti ai
traumi, sanno intuitivamente come fare. Steve Gross era responsabile del
programma di gioco al Trauma Center. Steve si aggirava spesso per i
corridoi dell’ambulatorio con un pallone da spiaggia variopinto e, quando
vedeva bambini arrabbiati o “congelati” in sala d’attesa, rivolgeva loro,
per un attimo, un grande sorriso. I bambini rispondevano di rado. Dopo
un po’ tornava, lasciando cadere “casualmente” il pallone vicino al
bambino e, piegandosi a recuperarlo, lo spingeva piano verso
quest’ultimo, che, di solito, in modo poco convinto, lo ritirava indietro. A
poco a poco, Steve riusciva a ottenere uno scambio reciproco, che si
concludeva con un sorriso sul volto di entrambi.
Da movimenti semplici e ritmicamente sintonizzati, Steve aveva creato
un piccolo posto sicuro, in cui il sistema di coinvolgimento sociale poteva
iniziare a riemergere. Allo stesso modo, persone gravemente traumatizzate
possono ottenere maggiori bene ci, semplicemente aiutando a sistemare
le sedie prima di una riunione o unendosi agli altri nel riprodurre con le
dita un ritmo musicale sulle sedute delle poltrone, di quanti ne
potrebbero acquisire, standosene seduti su quelle stesse sedie a parlare dei
fallimenti della loro vita.
Una cosa è certa: gridare contro qualcuno che è già fuori controllo può
solo provocare un’ulteriore disregolazione. Così come i cani
indietreggiano per paura quando gridiamo e scodinzolano quando
parliamo loro in modo cantilenante, gli esseri umani rispondono a una
voce severa con paura, rabbia o spegnimento, e a toni allegri aprendosi e
rilassandosi. In parole povere, non si può fare a meno di rispondere a
questi indicatori di sicurezza e di pericolo.
Purtroppo, il nostro sistema educativo, così come molti approcci alla
cura del trauma, tende a bypassare il sistema di coinvolgimento sociale,
chiamando in causa, invece, solo le capacità cognitive della mente. A
dispetto degli effetti – ampiamente documentati – della rabbia, della
paura e dell’ansia sull’abilità di ragionamento, molti programmi
continuano a ignorare la necessità di coinvolgere il sistema di sicurezza del
cervello, prima di cercare di promuovere nuovi modi di pensare. Le
ultime cose che dovrebbero essere eliminate dai programmi scolastici
sono i cori, l’educazione sica, la ricreazione e qualunque cosa implichi
movimento, gioco e coinvolgimento piacevole. Quando i bambini sono
oppositivi, in assetto difensivo, obnubilati o arrabbiati, è, inoltre,
importante riconoscere che questo “cattivo comportamento” può
rimettere in gioco schemi d’azione che si erano stabilizzati per
sopravvivere a minacce gravi, anche se sono schemi d’azione intensamente
sconvolgenti e sgradevoli.
Il lavoro di Porges ha avuto un profondo effetto sul modo in cui i
colleghi del Trauma Center e io organizziamo il trattamento di bambini
abusati e di adulti traumatizzati. È vero che, probabilmente, a un certo
punto, avremmo comunque sviluppato un programma di yoga terapeutico
per le donne, dato che è stato dimostrato che lo yoga è molto ef cace per
aiutarle a calmarsi e a stabilire il contatto con il corpo dissociato.
Avremmo, con altrettanta probabilità, messo a punto un programma
teatrale nelle scuole dei quartieri poveri di Boston, con dei corsi di karate
per i sopravvissuti a stupri, chiamato impact model mugging (modello di
impatto all’assalto) e avremmo realizzato tecniche di gioco e modalità
corporee, come la stimolazione sensoriale, che viene ora usata con i
sopravvissuti in tutto il mondo (tutte queste tecniche e molte altre saranno
illustrate nella parte quinta).
Ma la teoria polivagale ci ha aiutati a capire perché tutte queste tecniche
così differenti e non convenzionali funzionano così bene. Ci ha permesso
di divenire più consapevoli nel combinare approcci top-down (che
attivano il coinvolgimento sociale) con metodi bottom-up (che calmano la
tensione sica nel corpo). Siamo più aperti al valore di approcci
terapeutici antichi e non farmacologici, che sono stati a lungo praticati al
di fuori della medicina occidentale, che vanno dagli esercizi di
respirazione (pranayama) e di cantilena, alle arti marziali come il qigong,
alle percussioni e ai canti e ai balli di gruppo. Tutti questi metodi si
basano sui ritmi interpersonali, sulla consapevolezza viscerale, sulla
comunicazione vocale e facciale che aiuta le persone a modi care gli stati
di attacco/fuga, a riorganizzare la loro percezione del pericolo e ad
aumentare la capacità di gestire le relazioni.
Il corpo conserva le tracce:18 se la memoria del trauma è codi cata nelle
viscere, nelle emozioni sconvolgenti e di crepacuore, nei disturbi
autoimmuni e nei problemi muscolo/scheletrici, e se la comunicazione
viscere/cervello/mente è la via maestra per la regolazione emotiva, ciò
richiede un radicale mutamento nel nostro modo di concepire la terapia.

1. Michael Steven Hartmann, noto come Mickey Hart, è un percussionista e musicologo


americano, batterista dei Grateful Dead. Appassionato etnomusicologo e scrittore, da sempre
impegnato nella ricerca delle radici mistiche e mitologiche delle percussioni. [NdC]
2. C. Darwin (1972), L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it. Bollati
Boringhieri, Torino 1999.
3. C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, tr. it. Newton, Roma 2006, p. 77.
4. Ibidem
5. Ibidem
6. P. Ekman (1978), Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, tr. it.
Amrita, Torino 2010. Si veda, inoltre, C.E. Izard (1979), The Maximally Discriminative Facial
Movement Coding System (MAX), University of Delaware Instructional Resource Center, Newark,
DE. S.W. Porges (2011), La teoria polivagale: Fondamenti neuro siologici delle emozioni,
dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione, tr. it. Fioriti, Roma 2012
7. Questo è il nome che Stephen Porges e Sue Carter diedero al sistema
ventrovagale.  http://www.pesi.com/bookstore/A_Neural_Love_Code__The_Body_s_Need_to
_Engage_and_Bond-details.aspx
8. Questo è il nome che Stephen Porges e Sue Carter diedero al sistema
ventrovagale.http://www.pesi.com/bookstore/A_Neural_Love_Code__The_Body_s_Need_to
_Engage_and_Bond-details.aspx
9. S.S. Tomkin (1962), Affect, Imagery, Consciousness, vol. 1: The Positive Affects. Springer, New
York; S.S. Tomkin (1963), Affect, Imagery, Consciousness, vol. 2: The Negative Affects, Springer,
New York.
10. P. Ekman (2007), I volti della menzogna. Gli indizi dell’inganno nelle relazioni interpersonali, tr.
it. Giunti, Firenze 2010; P. Ekman (1980), The Face of Man: Expressions of Universal Emotions in a
New Guinea Village, Garland, New York
11. Si veda, per esempio, B.M. Levinson (1984), “Human/companion animal therapy”, in Journal
of Contemporary Psychotherapy, 14 (2), pp. 131-144; D.A. Willis (1997), “Animal therapy”, in
Rehabilitation Nursing, 22 (2), pp.78-81; A.H. Fine (2010) (a cura di), Handbook on Animal-
Assisted Therapy: Theoretical Foundations and Guidelines for Practice, Academic Press, San Diego.
12. P. Ekman, R.W. Levenson, W.V. Friesen (1983), “Autonomic nervous system activity
distinguishes between emotions”, in Science, 221, pp. 1208-1210.
13. J.H. Jackson (1948), “Evolution and dissolution of the Nervous System”, in J. Taylor (a cura
di), Selected Writings of John Hughlings Jackson, Stapes Press, London, pp. 45-118.
14. È stato Porges a suggerirmi questa analogia del negozio di animali.
15. S.W. Porges, J.A. Doussard-Roosevelt, A.K. Maiti (1994), “Vagal tone and the physiological
regulation of emotion”, in N.A. Fox (a cura di), The Development of Emotion Regulation:
Biological and Behavioral Considerations, Monographs of the Society for Research in Child
Development, 59(240), pp.167-186.  http://www.amazon.com/The-Development-Emotion-
Regulation-Considerations/dp/0226259404).
16. V. Felitti, R.F. Anda, D.D. Nordenberg, F. Williamson, A.M. Spitz, V. Edwards, M.P. Kossa,
J.S. Marks (1998), “Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the
leading causes of death in adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in American
Journal of Preventive Medicine, 14(4), pp. 245-258.
17. S.W. Porges (1995), “Orienting in a defensive world: Mammalian modi cations of our
evolutionary heritage: A polyvagal theory”, in Psychophysiology, 32, pp. 301-318.
18. B.A. van der Kolk (1994) “The body keeps the score: Memory and the evolving psychobiology
of Post-traumatic Stress”, in Harvard Review of Psychiatry,1(5), pp. 253-265
6

Perdere il corpo,
perdere se stessi

Vorrei pregarvi di aver pazienza verso quanto nel vostro cuore vi si


prospetta irrisolto e di avere care le domande stesse…Vivete adesso le
vostre domande. Così, forse, riuscirete, a poco a poco, senza
accorgervene, a giungere un giorno ad avere la possibilità di vivere le
risposte.
RAINER MARIA RILKE, Lettere a un giovane poeta

Sherry entrò nel mio uf cio con le spalle curve e il mento che quasi le si
appoggiava sul petto. Prima ancora che venisse pronunciata una parola, il
suo corpo comunicava la paura di affrontare il mondo. Notai anche che le
maniche lunghe coprivano solo parzialmente le croste sugli avambracci.
Dopo essersi seduta, mi disse, con un tono di voce acuto e monocorde, di
non riuscire a smettere di strapparsi la pelle delle braccia e del petto, no
a sanguinare.
Per quanto potesse ricordare, la madre aveva sempre gestito una casa
d’accoglienza, spesso affollata da una quindicina di ragazzi strani,
fortemente agitati, spaventati e spaventanti, che sparivano all’improvviso
così come erano arrivati. Sherry era cresciuta prendendosi cura dei
bambini che transitavano in casa, sentendo che non c’era un posto per lei
e per i suoi bisogni. “So di non essere stata voluta”, mi disse, “Non
ricordo esattamente quando sono giunta a una simile conclusione, ma i
segnali di questa comprensione stavano nelle cose che mia madre mi
diceva, come, per esempio: “Sai, non credo che tu appartenga a questa
famiglia. Credo che ci abbiano dato la bambina sbagliata”. Sherry riferiva
queste cose sorridendo, ma, come spesso accade, le persone ricorrono
all’ironia quando devono parlare delle cose più dolorose.
Nel corso degli anni, il nostro gruppo di ricerca aveva trovato svariate
conferme rispetto al fatto che l’abuso emotivo cronico e la grave
trascuratezza possano essere altrettanto devastanti quanto l’abuso sico e
le molestie sessuali.1 Sherry si rivelava un esempio vivente di questi
risultati: il non essere visti, il non essere riconosciuti e il non avere
nessuno a cui rivolgersi per sentirsi al sicuro sono sconvolgenti a qualsiasi
età, ma risultano particolarmente distruttivi per i bambini piccoli, che
stanno ancora cercando di trovare il loro posto nel mondo.
Sherry si era laureata, ma, al momento, lavorava, senza alcuna
soddisfazione, come impiegata; viveva sola con i suoi gatti e non aveva
amici intimi. Quando le chiesi delle relazioni sentimentali, mi disse di aver
avuto un’unica “relazione” con l’uomo che l’aveva rapita, durante una
vacanza studio in Florida. L’uomo l’aveva tenuta prigioniera e l’aveva
violentata ripetutamente per cinque giorni consecutivi. Sherry ricordava
di essere rimasta raggomitolata su se stessa, terrorizzata e congelata per la
maggior parte del tempo, no a quando si era resa conto di poter provare
a scappare, uscendo mentre l’uomo era in bagno. Una volta fuori, chiamò
la madre per chiedere aiuto, ma quest’ultima ri utò di ricevere la
chiamata. Sherry, alla ne, riuscì a tornare a casa, sostenuta da un centro
contro la violenza domestica.
Mi riferì di aver iniziato a strapparsi la pelle per ottenere un po’ di
sollievo dalla sensazione di ottundimento. Le sensazioni siche la facevano
sentire più viva, ma la facevano anche vergognare profondamente: era
dipendente da queste azioni, ma non riusciva a interromperle. Aveva
consultato molti professionisti della salute mentale prima di me e le erano
state rivolte continuamente domande sui “comportamenti suicidari”. Era
anche stata sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio da uno
psichiatra, che si era ri utato di curarla, almeno nché non avesse
promesso di smetterla di strapparsi la pelle. Tuttavia, nella mia esperienza,
i pazienti che si tagliano o si tolgono la pelle, come Sherry, sono raramente
pazienti suicidari: stanno, di fatto, cercando di sentirsi meglio nel solo
modo che conoscono.
Per molti, questo è un concetto di dif cile comprensione. Come ho
detto nel capitolo precedente, il modo più comune di affrontare momenti
di grave stress è quello di cercare le persone che amiamo, con dando nel
loro aiuto e nel loro sostegno, per riuscire ad andare avanti. È possibile
calmarsi anche impegnandosi in un’attività sica, come andare in
bicicletta o in palestra. Apprendiamo queste strategie di regolazione
emotiva n dal primo momento in cui qualcuno ci nutre se siamo
affamati, ci copre se abbiamo freddo o ci culla quando stiamo male o
abbiamo paura. Ma se nessuno ci ha mai rivolto sguardi amorevoli o si è
sciolto in un sorriso guardandoci, se nessuno si è mai precipitato ad
aiutarci (ma, piuttosto, ci ha sempre detto: “Non piangere o ti darò io
qualcosa per cui piangere”), allora dobbiamo necessariamente trovare
altre strategie di cura. E, probabilmente, si farà ricorso a qualcosa che ci
dia un po’ di sollievo, come, per esempio, farmaci, alcol, condotte
alimentari anoressiche o bulimiche o il tagliarsi.
Se, da una parte, Sherry si presentava puntuale a ogni appuntamento,
rispondendo alle domande con assoluta sincerità, dall’altra, sentivo di non
aver costruito quella connessione vitale, necessaria perché la terapia
funzionasse. Essendo particolarmente colpito da quanto Sherry fosse
congelata e tesa, le suggerii di consultare Liz, una collega che praticava i
massaggi terapeutici, con cui mi ero trovato a lavorare qualche tempo
prima. Al primo incontro, Liz chiese a Sherry di stendersi sul lettino da
massaggio, spostandosi alla base dello stesso e tenendole delicatamente i
piedi. Sdraiata, con gli occhi chiusi, Sherry, improvvisamente, gridò in
preda al panico: “Dove sei?”. Era come se avesse perso le tracce di Liz,
che pure era lì, con le mani sui suoi piedi.
Sherry è stata una delle prime pazienti a insegnarmi la profonda
disconnessione del corpo, tipica di tante persone traumatizzate e
gravemente trascurate. Scoprii che la mia formazione professionale, così
concentrata sul capire e sull’intuire, aveva largamente tralasciato
l’importanza del corpo che vive e respira, vale a dire, la base del nostro Sé.
Sherry sapeva che strapparsi la pelle era un atto autolesivo legato alla
trascuratezza materna, ma il fatto di comprendere l’origine dell’impulso
non faceva alcuna differenza nell’aiutarla a controllarlo.

Perdere il corpo
Sulla base di questa realizzazione, ero piuttosto colpito dal constatare che
molti pazienti non riuscivano a percepire intere aree del loro corpo.
Talvolta, chiedevo loro di chiudere gli occhi e di dirmi cosa avessi messo
sulla loro mano protesa. Che fosse una chiave di un’auto, una moneta, o
un apriscatole, non riuscivano, quasi mai, a indovinare di cosa si trattasse:
in parole povere, le loro percezioni sensoriali non funzionavano.
Parlai di ciò con il mio amico Alexander McFarlane, australiano, che si
era trovato a osservare lo stesso tipo di fenomeno. Nel suo laboratorio di
Adelaide aveva preso in considerazione il seguente quesito: se non
guardiamo, come facciamo a sapere che stiamo tenendo in mano una
chiave della macchina? Per riconoscere un oggetto tenuto nel palmo della
mano, è necessario percepirne la forma, il peso, la temperatura, la
consistenza e la posizione. Ciascuna di queste esperienze sensoriali viene
trasmessa a una parte diversa del cervello, che, in seconda istanza, dovrà
integrarle in un’unica percezione. McFarlane scoprì che le persone con
PTSD avevano, spesso, dif coltà ad arrivare a un’immagine unica.2
Quando i nostri sensi si attutiscono, non ci sentiamo più “pienamente
vivi”. In un articolo intitolato “What is an emotion?” (1884),3 William
James, padre della psicologia americana, riportava un caso eclatante di
“insensibilità sensoriale” in una donna con cui aveva fatto dei colloqui:
“Non ho… sensazioni umane”, gli aveva detto. “[Sono] circondata da
tutto ciò che può rendere la vita felice e piacevole, ma mi manca la
capacità di goderne e di sentire… Ciascuno dei miei sensi, ogni parte del
mio stesso Sé è come se fosse separata da me e non mi permette alcun
sentimento; questa impossibilità sembra dipendere da un vuoto che sento
nella parte anteriore della testa e che mi pare essere causa della
diminuzione della sensibilità su tutta la super cie del mio corpo, perché
mi sembra di non raggiungere mai realmente gli oggetti che tocco. Tutto
questo sarebbe una cosa abbastanza da poco, ma per me il suo effetto è
spaventoso, perché l’impossibilità di percepire qualsiasi tipo di sensazione
e qualsiasi tipo di divertimento, sebbene ne abbia bisogno e lo desideri,
rende la mia vita una tortura incomprensibile”. Questa risposta al trauma
solleva un importante quesito: come fanno le persone traumatizzate a
imparare a integrare esperienze sensoriali comuni, in modo da vivere
emotivamente regolate, sentendosi al sicuro e intere nel loro corpo?
Come facciamo a sapere di essere vivi?
I primi studi di neuroimaging su persone traumatizzate erano, per lo più,
simili a quelli che abbiamo visto nel capitolo 3: si concentravano, cioè, sul
modo in cui i soggetti reagivano a speci che sollecitazioni dell’evento
traumatico. In seguito, nel 2004, la mia collega Ruth Lanius, che si era
occupata delle scansioni del cervello di Ute e Stan Lawrence, mise sul
tavolo una nuova questione: cosa succede nel cervello dei sopravvissuti al
trauma, quando non stanno pensando al passato? I suoi studi sul cervello
inattivo, la default state network (DSN), hanno scritto un nuovo capitolo
nella comprensione di come il trauma intacchi l’autoconsapevolezza e,
nello speci co, l’autoconsapevolezza sensoriale.4
La dottoressa Lanius aveva raggruppato sedici canadesi “normali”, per
sottoporli a scansione cerebrale, in un lasso di tempo in cui veniva chiesto
loro di non pensare a nulla di particolare. Naturalmente, questo non è un
compito facile per nessuno: nché siamo svegli, il nostro cervello ribolle in
continuazione. La dottoressa, infatti, aveva suggerito ai soggetti di portare
l’attenzione al loro respiro, cercando di svuotare il più possibile la mente.
In un secondo momento, replicò l’esperimento con diciotto persone con
storie di abuso grave e cronico durante l’infanzia. Cosa fa, dunque, il
cervello quando non ci passa nulla di particolare per la mente? Ne risultò
che si presta attenzione a noi stessi: lo stato di default attiva le aree del
cervello che contribuiscono alla creazione del senso di “sé”.
Analizzando le scansioni dei soggetti normali, Ruth scoprì l’attivazione
di quelle stesse regioni DSN, descritte da altri ricercatori prima di lei. Mi
piace chiamare queste regioni il Mohawk5 dell’autoconsapevolezza:
strutture della linea mediana del cervello, che partono proprio da sopra gli
occhi, attraversano il centro del cervello, arrivando no alla parte
posteriore. Tutte queste strutture della linea mediana sono coinvolte nel
nostro senso di sé. La regione più vasta, attivata nella parte posteriore del
cervello, è il cingolato posteriore, che ci conferisce la sensazione sica di
dove siamo, una sorta di GPS interno. Tale area è strettamente collegata
alla corteccia prefrontale mediale (MPFC), la torre di controllo, di cui ho
parlato nel capitolo 4 (questa connessione non è visualizzabile nella
scansione, in quanto non è misurabile tramite fMRI). Il cingolato
posteriore è, inoltre, collegato con le aree del cervello che registrano
sensazioni provenienti dal resto del corpo: l’insula, che trasmette i
messaggi dalle viscere ai centri emotivi; i lobi parietali, che integrano le
informazioni sensoriali; il cingolato anteriore, che coordina emozioni e
pensiero. Tutte queste aree contribuiscono alla coscienza. Le immagini di
contrasto delle scansioni dei diciotto pazienti con PTSD da trauma dello
sviluppo precoce e grave erano sorprendenti: non si registrava quasi
alcuna attivazione delle aree cerebrali deputate al senso di sé; l’MPFC, il
cingolato anteriore, la corteccia parietale e l’insula non erano per nulla
illuminati; l’unica zona che mostrava una leggera attivazione era il
cingolato posteriore, responsabile dell’orientamento di base nello spazio.
Ci poteva essere una sola spiegazione per risultati simili: in risposta al
trauma stesso, per far fronte alla paura che persiste anche molto tempo
dopo l’evento traumatico, questi pazienti avevano imparato a spegnere le
aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni che
accompagnano e de niscono il terrore. Eppure, nella vita di tutti i giorni,
quelle stesse aree cerebrali sono responsabili della registrazione dell’intera
gamma delle emozioni e delle sensazioni che danno sostanza
all’autoconsapevolezza, al senso di chi siamo. Ciò di cui eravamo
testimoni era un tragico adattamento: nel tentativo di annullare le
sensazioni terri canti, i pazienti traumatizzati morti cano la capacità di
sentirsi pienamente vivi.
La non attivazione dell’area mediale prefrontale potrebbe spiegare il
motivo per cui molte persone traumatizzate perdono determinazione e
orientamento. Mi sono sempre sorpreso di quanto spesso i pazienti mi
chiedano consigli in merito a cose della quotidianità e di come, in ne, non
li seguano. Ora ero in grado di capire che il rapporto con il proprio
mondo interno è compromesso. Come avrebbero potuto prendere
decisioni o compiere delle azioni, senza riuscire a de nire quale fosse la
propria volontà o, più precisamente, ciò che le sensazioni corporee – la
base di tutte le emozioni – stavano cercando di dire loro? La mancanza di
autoconsapevolezza nelle vittime di trauma infantile cronico è, talvolta,
così profonda da non permettere ai pazienti di riconoscersi allo specchio.
Scansioni cerebrali mostrano che questo non è il risultato di una mera
disattenzione: le strutture addette all’autoriconoscimento risultano “messe
al tappeto”, così come quelle correlate all’esperienza di sé.
Quando Ruth Lanius mi mostrò i risultati del suo lavoro, mi tornò alla
mente una frase dei miei studi classici. Si suppone che il matematico
Archimede, spiegando le leve, abbia detto: “Datemi un punto d’appoggio
e vi solleverò il mondo”, che, tradotto nelle parole del grande terapeuta
corporeo Moshe Feldenkrais, potrebbe essere: “Non si può fare ciò che si
vuole, se non si sa cosa si sta facendo”. Le implicazioni di tutto ciò sono
chiare: per sentirsi presenti bisogna sapere dove si è ed essere consapevoli
di ciò che ci sta accadendo. Se il sistema del senso di Sé è danneggiato,
bisogna trovare il modo di riattivarlo.

Il sistema del senso di sé


Era affascinante constatare quanto Sherry bene ciasse dei massaggi:
giorno dopo giorno, si sentiva più rilassata e intraprendente nella vita
quotidiana e, al contempo, più rilassata e aperta nei miei confronti. Era
molto coinvolta nella terapia e autenticamente curiosa del suo
comportamento, dei suoi pensieri e sentimenti. Aveva smesso di strapparsi
la pelle e, con l’arrivo dell’estate, cominciò a trascorrere le serate in
veranda, a chiacchierare con i suoi vicini. Aderì, inoltre, al coro della
chiesa, una meravigliosa esperienza di sincronia di gruppo.
Fu in questo periodo che incontrai Antonio Damasio, durante un
incontro di un piccolo think tank6 organizzato da Dan Schacter, preside
del Dipartimento di Psicologia di Harvard. In una serie di brillanti articoli
scienti ci e in alcuni libri, Damasio aveva chiarito il rapporto tra gli stati
del corpo, le emozioni e la sopravvivenza. Neurologo che aveva curato
centinaia di persone con varie forme di danno cerebrale, era affascinato
dalla coscienza e dall’identi cazione delle aree del cervello necessarie a
sapere ciò che sentiamo. Ha dedicato la sua carriera alla mappatura di ciò
che è responsabile della nostra esperienza di “sé”. La lettura di Emozioni e
coscienza, a mio parere il suo libro più importante, è stata una rivelazione.7
Damasio inizia con il sottolineare la profonda divisione tra il senso di sé e
la vita sensoriale del corpo. Come spiega poeticamente, “Talvolta usiamo
la mente non per scoprire i fatti, ma per nasconderli. Usiamo una parte
della mente come schermo per impedire a un’altra sua parte di sentire
quel che accade altrove. La schermatura non è necessariamente
intenzionale – il nostro offuscamento non è sempre deliberato; in ogni
caso, lo schermo nasconde davvero. Tra le cose che nasconde nel modo
più ef cace, vi è il corpo, il nostro stesso corpo, e con ciò intendo i suoi
meandri, le sue parti interne. Come un velo nasconde il corpo a difesa del
pudore, ma non troppo, lo schermo elimina in parte dalla mente gli stati
interni del corpo, quelli che costituiscono il usso della vita nel suo
vagabondare quotidiano”.8 Egli continua, dicendo che questo “schermo”
può lavorare a nostro favore, permettendoci di fronteggiare problemi
pressanti del mondo esterno. Ma questo ha un costo: “Tende a impedirci
di cogliere quali possano essere l’origine e la natura di ciò che chiamiamo
sé”.9 Basandosi sul lavoro del secolo scorso di William James, Damasio
afferma che il nucleo dell’autoconsapevolezza esita nelle sensazioni siche,
che trasmettono gli stati interni del corpo.
Questi sentimenti primordiali ri ettono lo stato corrente del corpo rispetto a varie dimensioni
– per esempio lungo la scala che va dal piacere al dolore – e originano nel tronco encefalico e
non a livello corticale. Tutti i sentimenti delle emozioni sono variazioni musicali complesse sul
tema dei sentimenti primordiali.10

Il mondo sensoriale comincia a costituirsi ancor prima della nascita. Nel


grembo materno, sentiamo il liquido amniotico sulla nostra pelle,
sentiamo i deboli suoni del sangue che scorre, percepiamo il tubo
digerente al lavoro, ci incliniamo e dondoliamo, seguendo i movimenti di
nostra madre. Dopo la nascita, la sensazione sica de nisce il rapporto
con noi stessi e con ciò che ci circonda. Cominciamo con l’essere il nostro
essere bagnati, la nostra fame, la sazietà, la sonnolenza. Una cacofonia di
suoni e immagini che si imprimono nel nostro sistema nervoso
incontaminato. Anche dopo aver acquisito coscienza e uso del linguaggio,
il sistema di sensazioni corporee ci trasmette dei feedback essenziali sulla
nostra condizione, momento per momento. Il suo costante mormorio
comunica i cambiamenti viscerali, dei muscoli del nostro viso, del torace e
delle estremità, segnalandoci dolore e benessere, nonché pulsioni come
fame ed eccitazione sessuale. Le sensazioni siche sono in uenzate anche
da ciò che accade intorno a noi: l’incontro con qualcuno che conosciamo,
il sentire suoni particolari – un pezzo di un brano musicale, una sirena – o
la percezione di un cambiamento di temperatura. Tutto ciò sposta il focus
dell’attenzione e, senza che ne siamo consapevoli, plasma, di conseguenza,
pensieri e azioni.
Come abbiamo visto, il lavoro del cervello è quello di monitorare e
valutare costantemente ciò che accade in noi e intorno a noi. Queste
valutazioni vengono trasmesse attraverso messaggi chimici del circolo
ematico e attraverso impulsi elettrici nei nervi, provocando deboli o
importanti cambiamenti nel corpo e nel cervello. Tali cambiamenti, di
solito, avvengono interamente senza alcun input cosciente o
consapevolezza: le regioni sottocorticali del cervello sono
sbalorditivamente ef cienti nel regolare il respiro, il battito cardiaco, la
digestione, la secrezione ormonale e il sistema immunitario. Tuttavia,
questi sistemi possono essere sopraffatti da una minaccia corrente o dalla
percezione della stessa. Ciò spiega la vasta gamma di problemi sici che i
ricercatori hanno documentato nelle persone traumatizzate.
Anche il sé cosciente gioca un ruolo fondamentale nel mantenimento
dell’equilibrio interno: per mantenere il nostro corpo al sicuro, abbiamo
bisogno di cogliere le sensazioni siche e di agire in base a esse. Realizzare
di aver freddo ci obbliga a indossare un maglione; il sentirsi affamati o
intontiti ci dice che il livello di zucchero nel sangue è basso, suggerendoci
di mangiare qualcosa, così come la pressione della vescica piena ci spinge
ad andare in bagno. Damasio sottolinea che tutte le strutture cerebrali che
registrano i vissuti di fondo sono collocate vicino alle aree che controllano
le funzioni di gestione di base, come il respiro, l’appetito, il controllo
s nterico e il ritmo sonno-veglia: “Questo è dovuto al fatto che le
conseguenze delle emozioni e dell’attenzione sono intimamente legate al
fondamentale compito di gestire la vita nell’ambito dell’organismo,
mentre, d’altro canto, non è possibile gestire la vita e mantenere
l’equilibrio omeostatico in mancanza di dati sullo stato presente del corpo
dell’organismo”.11 Damasio chiama queste aree del cervello, deputate a
governare le funzioni di base, “proto-sé” perché creano la “conoscenza
non verbale” che soggiace al nostro senso di sé cosciente.

Il sé sotto minaccia
Nel 2000, Damasio e i suoi colleghi pubblicarono un articolo sulla rivista
scienti ca più prestigiosa del mondo, Science, in cui rivelavano che
rivivere le emozioni negative provoca cambiamenti signi cativi in aree
cerebrali, che ricevono segnali nervosi dai muscoli, dall’intestino e dalla
pelle: da tutte quelle aree che sono essenziali nella regolazione delle
funzioni corporee di base. Le scansioni cerebrali dell’équipe mostravano
che la riesposizione a un evento del passato, connotato emotivamente,
comporta effettivamente il riesperire le stesse sensazioni viscerali, vissute
durante l’evento originario. Un tipo speci co di emozione generava uno
schema caratteristico, diverso da tutti gli altri. Per esempio, una zona
particolare del tronco encefalico “era attiva nella tristezza e nella rabbia,
ma non nella felicità e nella paura”.12 Tutte queste regioni cerebrali sono
gestite dal sistema limbico, che tradizionalmente è connesso alle emozioni:
è possibile riconoscerne il loro coinvolgimento tutte le volte che
ricorriamo a espressioni linguistiche comuni, che legano le forti emozioni
con il corpo; per esempio, “mi fa venire il voltastomaco”, “mi fai
accapponare la pelle”, “avevo un nodo alla gola”, “ho avuto un colpo al
cuore”, “mi fa rizzare i capelli in testa”.
L’elementare sistema del sé del tronco encefalico e il sistema limbico si
attivano in modo massivo quando le persone devono affrontare la
minaccia di morte, che determina un sentimento travolgente di paura e
terrore, accompagnato da un intenso arousal siologico. Per le persone
che stanno rivivendo un trauma, niente ha senso; sono intrappolate in
situazioni in cui si tratta sempre di vita o di morte, uno stato di paura
paralizzante o di rabbia cieca. Mente e corpo sono costantemente attivati,
come se queste persone fossero esposte a un pericolo imminente. Hanno
risposte di trasalimento anche a rumori di lieve entità e sono frustrateda
irritazioni di poco conto. Hanno un sonno cronicamente disturbato, e il
cibo, spesso, perde quell’aspetto di piacere dei sensi. Tutto ciò, a sua
volta, può innescare disperati tentativi di spegnimento delle emozioni
stesse, attraverso il freezing o la dissociazione.13
Come fanno le persone a recuperare il controllo quando il loro cervello
animale è coinvolto in una battaglia per la sopravvivenza? Realisticamente,
si può essere capaci di esercitare un qualche tipo di controllo, se ciò che
accade nel profondo del cervello animale determina i nostri vissuti e se le
sensazioni corporee sono orchestrate dalle strutture sottocorticali
(subconscie)?

Il senso di autoef cacia: essere padroni della propria vita


Agency14 è il termine tecnico che indica il sentimento di avere “in carico”
la propria vita: sapere dove si è, sapere di avere voce in capitolo in ciò che
ci accade e sapere di poter avere un’ef cacia su ciò che ci sta intorno.
I veterani che tiravano i pugni contro la parete di cartongesso della VA
cercavano di affermare la loro agency: facevano accadere qualcosa,
nendo però per sentirsi ancora più fuori controllo. Molti di questi
uomini, che una volta erano duciosi, rimanevano intrappolati in un
circolo vizioso che li portava a oscillare tra l’attività frenetica e
l’immobilismo.
L’agency inizia con ciò che gli scienziati chiamano interocezione, la
consapevolezza di vissuti sensoriali sottili provenienti dall’interno del
nostro corpo: maggiore è questa consapevolezza, e maggiore sarà la
capacità di controllare la nostra vita. Sapere cosa sentiamo è il primo passo
per capire perché ci sentiamo in quel modo.
Se siamo consapevoli dei continui cambiamenti del mondo interno e di
quello esterno, possiamo, di conseguenza, affrontarli e gestirli; non
riusciremo a farlo, però, se la nostra torre di controllo, l’MPFC, non
impara a osservare ciò che accade all’interno. È per questa ragione che
praticare la mindfulness, che rafforza l’MPFC, è fondamentale per la
risoluzione del trauma.15
Dopo aver visto il bellissimo lm La marcia dei pinguini, mi ritrovai a
pensare a qualcuno dei miei pazienti. I pinguini sono stoici e affettuosi ed
è tragico sapere che, da tempo immemorabile, dal mare si addentrano per
più di cento chilometri nella terraferma, sopportano indicibili disagi per
raggiungere le zone di riproduzione, e perdono, nell’esposizione del
viaggio, tantissime uova ancora vitali, per poi, quasi ridotti alla fame,
trascinarsi di nuovo verso l’oceano. Se i pinguini avessero i nostri lobi
frontali, potrebbero usare le loro piccole pinne per costruirsi degli igloo,
potrebbero pensare a una miglior divisione del lavoro, riuscendo a
riorganizzare le loro scorte di cibo. Molti dei miei pazienti sono
sopravvissuti al trauma con estremo coraggio e tenacia, rimettendosi,
però, continuamente nella stessa situazione problematica: il trauma aveva
danneggiato la loro “bussola interna”, defraudandoli dell’immaginazione
necessaria a realizzare condizioni di vita migliori.
La neuroscienza dell’individualità e dell’agency convalida le terapie
somatiche, sviluppate dai miei amici Peter Levine16 e Pat Ogden.17
Prenderò in esame nel dettaglio queste terapie e altri approcci
sensomotori nella parte quinta di questo volume, ma, in sostanza, il loro
obiettivo è triplice:
– estrapolare le informazioni corporee, bloccate e congelate nel trauma;
– aiutare i pazienti a familiarizzare (invece che a reprimere) con le energie
rilasciate dall’esperienza interna;
– completare le azioni siche autopreservanti che non hanno potuto
compiere, essendo stati intrappolati, trattenuti o immobilizzati dal
terrore.
Le sensazioni viscerali ci segnalano ciò che è sicuro, ciò che dà
sostentamento o ciò che minaccia, anche se non riusciamo a spiegare
perché ci si senta esattamente in quel modo. Il nostro sensore interno ci
invia continuamente messaggi impercettibili sui bisogni del nostro
organismo. Le sensazioni viscerali ci aiutano a valutare ciò che sta
accadendo intorno a noi. Ci avvertono che il ragazzo che si sta
avvicinando potrebbe rappresentare una minaccia, ma ci trasmettono
anche l’informazione relativa al fatto che una camera esposta a ovest,
circondata da emerocallidi,18 infonde serenità. Se si ha una buona
connessione con le sensazioni interne – se ci si può dare del fatto che ci
diano informazioni accurate – si potrà sentire di padroneggiare il proprio
corpo, i propri sentimenti e noi stessi.
Tuttavia, le persone traumatizzate si sentono continuamente in pericolo
dentro il loro corpo: il passato vive in forma di tormentoso disagio
interiore. Il loro corpo è costantemente bombardato da segnali viscerali di
pericolo e, nel tentativo di controllare questi processi, si specializzano
nell’ignorare le sensazioni viscerali, annebbiando la consapevolezza di ciò
che viene messo in gioco dentro di loro: imparano a nascondersi da se
stessi.
Quanto più le persone cercano di eliminare o ignorare i segnali interni di
pericolo, tanto più ne sono invase, frastornate, confuse, per poi
vergognarsene. Le persone che non riescono facilmente a notare cosa
accade dentro di loro sono inclini a rispondere a qualsiasi cambiamento
sensoriale sia spegnendosi sia andando in panico: sviluppano la paura
della paura stessa.
Noi, oggi, sappiamo che i sintomi dell’attacco di panico sono così
persistenti perché il soggetto sviluppa la paura delle sensazioni corporee
associate all’attacco stesso. L’attacco di panico può essere sollecitato da
qualcosa che la persona riconosce come irrazionale, ma la paura delle
sensazioni corporee innesca un’escalation che con uisce nell’emergenza di
tutto il corpo. Le espressioni “morto di paura” e “congelato dalla paura”
(essere collassati e obnubilati) descrivono precisamente, costituendone la
base viscerale, i vissuti correlati al trauma e al terrore. L’esperienza della
paura deriva dalle risposte primitive alla minaccia, nelle quali la fuga è
stata in qualche modo ostacolata. La vita delle persone sarà tenuta in
ostaggio dalla paura, ntanto che le esperienze sensoriali non si
modi cheranno.
Il prezzo dell’ignorare o del distorcere i messaggi provenienti dal corpo
è quello di perdere la capacità di valutare ciò che è veramente pericoloso o
dannoso per noi, e, cosa altrettanto negativa, ciò che è sicuro o nutriente.
La regolazione del sé dipende dall’avere una buona relazione con il
proprio corpo, senza la quale si deve per forza fare af damento su una
regolazione esterna, che va dai farmaci, alle droghe, all’alcol, alla
rassicurazione costante, all’accondiscendenza compulsiva verso i desideri
degli altri.
Molti dei miei pazienti rispondono allo stress non notandolo né
nominandolo, ma sviluppando emicranie o attacchi d’asma.19 Sandy,
un’infermiera domiciliare di mezza età, mi raccontava di essersi sentita
terrorizzata e sola, come può sentirsi un bambino non visto dai suoi
genitori alcolisti. Gestiva questi vissuti adottando un atteggiamento
ossequioso verso tutti coloro da cui si trovava a dipendere (e io, il suo
terapeuta, non facevo eccezione). Ogniqualvolta suo marito le rivolgeva
un’osservazione poco affettuosa, veniva colta da un attacco di asma. Prima
di accorgersi di non riuscire più a respirare, era già troppo tardi perché
l’inalatore potesse essere ef cace e doveva essere portata in Pronto
Soccorso. Mettere a tacere le nostre grida d’aiuto interne non impedisce
agli ormoni dello stress di mobilitare il corpo. Nonostante Sandy avesse
imparato a ignorare i suoi problemi relazionali e a bloccare i segnali sici
di disagio, questi ultimi si palesavano in sintomi che chiedevano la sua
attenzione. La sua terapia si focalizzò sull’identi cazione del collegamento
tra le sensazioni siche e le emozioni e la incoraggiai, inoltre, a partecipare
a un corso di kickboxing: durante i tre anni in cui fu mia paziente, non
ebbe mai la necessità di andare in Pronto Soccorso.
Sintomi somatici in assenza di cause siche conosciute sono molto
frequenti in adulti e bambini traumatizzati: dolori cronici alla schiena e al
collo, bromialgia, emicrania, problemi digestivi, sindrome da colon
irritabile, sindrome da affaticamento cronico e varie forme di asma.20 I
bambini traumatizzati presentano un livello di asma cinquanta volte
maggiore rispetto ai loro coetanei.21 La ricerca ha dimostrato che adulti e
bambini con attacchi di asma fatali non erano consapevoli di avere
problemi di respirazione prima degli attacchi stessi.

Alessitimia: non ci sono parole per le emozioni


Avevo una zia vedova con una dolorosa storia traumatica che era diventata
una nonna ad honorem dei nostri bambini. Ci faceva spesso visita e, in
quelle occasioni, svolgeva un mucchio di attività: confezionava tende,
riordinava gli scaffali della cucina, rammendava i vestiti dei bambini, e
parlava molto poco. Era sempre desiderosa di aiutare, ma era dif cile
capire cosa le facesse piacere. Dopo qualche giorno di reciproci
convenevoli, la conversazione cominciava a languire e dovevo impegnarmi
molto per riempire i silenzi. L’ultimo giorno del suo soggiorno, portavo la
zia all’aeroporto, dove mi abbracciava freddamente per salutarmi, mentre
le lacrime scendevano sul suo viso. Senza alcuna traccia di ironia, si
lamentava del vento freddo del Logan International Airport che le faceva
lacrimare gli occhi. Il suo corpo sentiva la tristezza che la mente non
riusciva a riconoscere: si stava allontanando dalla nostra giovane famiglia,
i suoi parenti più stretti ancora in vita.
Gli psichiatri chiamano questo fenomeno alessitimia – un termine greco
che indica l’impossibilità di tradurre in parole le emozioni. Molti bambini
e adulti traumatizzati non possono descrivere ciò che sentono,
semplicemente perché non riescono a identi care il signi cato delle loro
sensazioni siche. Possono sembrare furiosi, ma negare di essere
arrabbiati; possono apparire terrorizzati, ma dire che stanno bene. Il non
essere in grado di discernere ciò che accade all’interno del corpo causa la
mancanza di contatto con i propri bisogni, con una conseguente dif coltà
a prendersi cura di sé: mangiare una adeguata quantità di cibo al
momento giusto o dormire quando se ne sente il bisogno.
Come nel caso di mia zia, gli alessitimici sostituiscono il linguaggio
dell’azione con quello dell’emozione. Alla domanda: “Come ti sentiresti se
avessi visto un camion arrivare a 130 km/h?”, la maggior parte delle
persone risponderebbe: “Sarei terrorizzato “ o “Sarei congelato dalla
paura”. Un alessitimico, invece, potrebbe rispondere: “Come mi sento?
Non lo so… Mi toglierei di mezzo”.22 Tendono a registrare le emozioni
come problemi sici piuttosto che come segnali che meritano la loro
attenzione. Invece di sentirsi arrabbiati o tristi, sperimentano dolori
muscolari, irregolarità intestinali o altri sintomi senza causa medica. Circa
tre quarti dei pazienti con anoressia nervosa e più della metà di tutti i
pazienti con bulimia sono spiazzati dai sentimenti e hanno grande
dif coltà a descriverli.23 Mostrando immagini di volti arrabbiati o
sofferenti a soggetti con alessitimia, i ricercatori rilevarono l’impossibilità,
da parte dei soggetti in questione, di identi care i sentimenti delle persone
fotografate.24
Uno dei primi maestri nel campo dell’alessitimia è stato lo psichiatra
Henry Krystal, che aveva lavorato con più di mille sopravvissuti alla
Shoah, nello sforzo di comprendere gli effetti del trauma psichico
massivo.25 Krystal – sopravvissuto anch’egli al campo di concentramento –
scoprì che molti dei suoi pazienti avevano magari raggiunto un grande
successo professionale, ma le loro relazioni intime erano povere e
distaccate. Sopprimere i propri sentimenti aveva permesso loro di
prendere parte ad affari di importanza mondiale, ma a un prezzo molto
elevato. Avevano imparato a spegnere quelle che, una volta, erano state
emozioni sopraffacenti e, di conseguenza, non sapevano più riconoscere
ciò che sentivano. Pochi di loro avevano interesse per la terapia.
Paul Frewen, dell’University of Western Ontario, aveva fatto una serie di
scansioni cerebrali di persone con PTSD, che soffrivano di alessitimia.
Uno dei partecipanti gli aveva detto: “Non so cosa sento, è come se la
testa e il corpo non fossero collegati. Sto vivendo in un tunnel, in una
nebbia, non importa ciò che accade, ho sempre la stessa reazione:
ottundimento, il nulla. Fare un idromassaggio, ustionarsi o essere
violentato comportano tutti lo stesso vissuto. Il mio cervello non sente”.
Frewen e la sua collega Ruth Lanius scoprirono che maggiore è la
mancanza di contatto con i propri sentimenti, minore è l’attività delle aree
cerebrali connesse al senso di sé.26
Poiché le persone traumatizzate hanno, spesso, dif coltà a percepire ciò
che sta succedendo nel loro corpo, non possono disporre di risposte
variegate alla frustrazione e reagiscono allo stress o diventando “distratti e
persi” o con una rabbia eccessiva. Qualunque sia la loro risposta, non
riescono quasi mai a riferire ciò che li sconvolge. Questo fallimento del
contatto con il proprio corpo contribuisce alla largamente documentata
mancanza di capacità autoprotettive e all’alto tasso di rivittimizzazione,27
ma anche alla notevole dif coltà a provare piacere, a essere sensuali e a
trovare un senso alle cose.
Le persone con alessitimia possono migliorare, imparando a riconoscere
il rapporto tra le sensazioni siche e le emozioni, più o meno come le
persone daltoniche possono entrare nel mondo del colore, imparando a
distinguere e ad apprezzare le sfumature di grigio. Come mia zia e i
pazienti di Henry Krystal, di solito, gli alessitimici sono riluttanti a fare
ciò: la maggior parte di questi pazienti sembra aver preso la decisione
inconscia che è meglio continuare a frequentare i dottori e curare le
malattie, piuttosto che impegnarsi nel doloroso lavoro di affrontare i
demoni del passato.
Depersonalizzazione
Un gradino più in basso sulla scala dell’auto-oblio c’è la
depersonalizzazione: la perdita del senso di se stessi. La scansione del
cervello di Ute, di cui ho parlato nel capitolo 4, è, con il suo marcato
spegnimento, una rappresentazione vivida della depersonalizzazione.
La depersonalizzazione è frequente durante le esperienze traumatiche.
Una volta fui aggredito a tarda notte in un parco vicino a casa mia e,
osservando la scena dall’alto, mi vidi giacere nella neve con una piccola
ferita alla testa, circondato da tre adolescenti muniti di coltello.
Avevo dissociato il dolore delle loro coltellate sulle mani e non sentivo la
minima paura, così da negoziare, in tutta calma, af nché mi si restituisse il
mio portafoglio svuotato. Credo di non aver sviluppato un PTSD, in
parte, perché ero molto curioso di vivere un’esperienza che avevo studiato
così accuratamente in altre persone, e in parte perché avevo l’illusione di
riuscire a fare un identikit dei miei aggressori da mostrare alla polizia.
Naturalmente, i rapinatori non vennero mai catturati, ma la mia fantasia
di vendetta mi aveva dato una soddisfacente sensazione di agency.
Le persone traumatizzate non sono così fortunate e si sentono separate
dal loro corpo. Una descrizione particolarmente precisa della
depersonalizzazione viene dallo psicoanalista tedesco Paul Schilder, che a
Berlino, nel 1928, scriveva:28 “Per le persone depersonalizzate il mondo
appare strano, particolare, estraneo, onirico. Gli oggetti si percepiscono,
talvolta, di dimensioni stranamente ridotte e, talvolta, privi di spessore. I
suoni sembrano provenire da lontano… Le emozioni, dal canto loro,
subiscono una marcata alterazione. I pazienti si lamentano di non essere
in grado di vivere né il dolore né il piacere… E di essere diventati estranei
a se stessi”.
Ero rimasto affascinato nell’apprendere che un gruppo di
neuroscienziati dell’Università di Ginevra29 aveva indotto esperienze simili
al “sentirsi fuori dal corpo”, somministrando lievi scosse di corrente
elettrica in un punto speci co del cervello, il punto di congiunzione
parieto-temporale. In una paziente, la scossa produsse una sensazione
simile all’essere appesa al sof tto, nell’atto di osservare il suo corpo; in
un’altra, suscitò la sensazione inquietante che qualcuno fosse in piedi
dietro di lei. Questa ricerca conferma ciò che i nostri pazienti ci dicono: il
sé può essere staccato dal corpo e vivere un’esistenza fantasma per conto
proprio. Analogamente, Lanius, Frewen e un gruppo di ricercatori
dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi,30 fecero delle scansioni
cerebrali su persone che avevano dissociato il terrore, dimostrando il
totale spegnimento dei centri cerebrali della paura, durante il ricordo di
un evento traumatico.

Farsi amico il corpo


Le vittime di traumi non possono guarire ntanto che non familiarizzano
e “diventano amiche” delle loro sensazioni corporee. Essere spaventati
signi ca vivere in un corpo sempre in allerta. Persone arrabbiate vivono in
corpi arrabbiati. Il corpo dei bambini abusati è teso e sulla difensiva,
almeno no a quando non si riesce a trovare un modo per rilassarsi e
sentirsi al sicuro. Per cambiare, le persone hanno bisogno di prendere
coscienza delle proprie sensazioni e del modo in cui il corpo interagisce
con il mondo che lo circonda. L’autoconsapevolezza corporea è il primo
passo per liberarsi dalla tirannia del passato.
Ma come possono fare le persone ad aprirsi e a esplorare il loro mondo
interno, fatto di sensazioni e di emozioni? Nella mia pratica clinica
comincio il processo terapeutico aiutando i miei pazienti a notare prima e
a descrivere poi i vissuti del loro corpo: non le emozioni come la rabbia o
l’ansia o la paura, ma le sensazioni siche sottostanti alle emozioni, come,
per esempio, pressione, calore, tensione muscolare, formicolio, senso di
collasso e di vuoto, e così via. Lavoro anche sull’individuazione delle
sensazioni associate al rilassamento e al piacere. Aiuto i pazienti a
prendere coscienza del proprio respiro, dei propri gesti e dei movimenti.
Chiedo loro di prestare attenzione ai minimi cambiamenti corporei, quali
il senso di oppressione al petto o crampi allo stomaco, quando parlano di
eventi negativi da cui dichiarano di non essere stati disturbati.
Notare queste sensazioni per la prima volta può essere piuttosto
doloroso, e può scatenare dei ashback, in seguito ai quali le persone si
raggomitolano su se stesse o assumono posizioni difensive: sono re-
enactment somatici di un trauma non elaborato e, molto probabilmente,
richiamano le posture assunte al momento dell’evento traumatico. A
questo punto, i pazienti possono essere sommersi da immagini e
sensazioni siche e il terapeuta deve avere familiarità con l’arginare i
torrenti di sensazioni ed emozioni, per impedire che essi si ri-
traumatizzino ricordando il passato (insegnanti, infermieri e agenti di
polizia sono, spesso, molto preparati a calmare reazioni di terrore, perché
molti di loro si confrontano quasi ogni giorno con persone fortemente
disorganizzate e fuori controllo).
Troppo spesso, tuttavia, si ricorre alla prescrizione di farmaci come
Abilify, Zyprexa, Seroquel, invece di insegnare alle persone le competenze
utili a gestire simili reazioni siche angoscianti. Naturalmente, i farmaci
attutiscono solamente le sensazioni e non fanno niente per risolverle o
trasformarle da agenti tossici in alleati.
Il modo più naturale che gli esseri umani hanno a disposizione per
calmare le loro angosce è quello di aggrapparsi a un’altra persona. Ciò
signi ca che i pazienti che sono stati violati sicamente o sessualmente si
trovano di fronte a un dilemma: desiderano disperatamente un contatto,
ma, al contempo, sono terrorizzati dal tocco sico. La mente ha bisogno
di essere rieducata a sentire le sensazioni siche e il corpo ha bisogno di
essere aiutato a tollerare e a godere del benessere del contatto. Gli
individui che non hanno consapevolezza emotiva riescono, con la pratica,
a collegare le loro sensazioni siche agli eventi psicologici. In seguito,
lentamente, possono riconnettersi con se stessi.31

Connettersi con se stessi, connettersi con gli altri


Concluderò questo capitolo con un ultimo studio che dimostra il “costo”
del perdere il proprio corpo. Dopo aver scansionato il cervello a riposo,
Ruth Lanius e il suo gruppo si concentrarono su un’altra questione di vita
quotidiana: cosa succede nelle persone con trauma cronico quando
devono sostenere un contatto diretto?
Molti pazienti che frequentano il mio studio non sono in grado di
stabilire un contatto visivo. È immediato dedurre quanto siano angosciati
dalla dif coltà a sostenere il mio sguardo. Si scopre sempre che si sentono
disgustosi e che non possono tollerare che io veda quanto siano
spregevoli. Non mi è mai venuto in mente che questi intensi sentimenti di
vergogna potessero ri ettersi in un’attività cerebrale anomala. Ruth
Lanius, ancora una volta, aveva dimostrato che la mente e il cervello sono
indistinguibili – ciò che accade in uno è registrato nell’altro.
Ruth aveva acquistato un dispositivo costoso che mostrava un video con
un personaggio animato a un soggetto, che si trovava in uno scanner (in
questo caso, il cartone animato assomigliava a un affabile Richard Gere).
Il personaggio poteva avvicinarsi sia frontalmente (guardando
direttamente la persona) sia lateralmente, con uno sguardo evitante: si
potevano comparare, così, gli effetti di un contatto visivo diretto
sull’attivazione cerebrale con quelli di uno sguardo sfuggente.32
La differenza più evidente tra il gruppo di controllo e il gruppo dei
sopravvissuti a un trauma cronico stava nell’attivazione della corteccia
prefrontale in risposta a uno sguardo diretto. La corteccia prefrontale
(PFC) aiuta solitamente a valutare la persona che viene verso di noi e i
nostri neuroni specchio contribuiscono a carpirne le intenzioni. Tuttavia, i
soggetti con PTSD non attivavano alcuna parte del loro lobo frontale:
questo signi ca che non nutrivano alcuna curiosità per lo sconosciuto.
Reagivano esclusivamente con un’attivazione intensa nel profondo del
cervello emotivo, cioè nelle aree primitive conosciute come sostanza grigia
periacqueduttale, che generano sussulti, ipervigilanza, posture di chiusura
e altri comportamenti autoprotettivi. Non vi era l’attivazione di nessuna
parte del cervello connessa al coinvolgimento sociale. In risposta all’essere
guardati, andavano immediatamente “in modalità di sopravvivenza”.
Cosa implica tutto ciò in termini di abilità relazionali e amicali? Cosa ci
dice in merito alla capacità di intraprendere un percorso terapeutico? Le
persone con PTSD possono con dare a un terapeuta le loro paure più
profonde? Per avere relazioni autentiche, bisogna essere in grado di
riconoscere gli altri come individui separati, ognuno con le proprie
motivazioni e intenzioni speci che. Se, da una parte, è necessario farsi
valere, dall’altra, è altrettanto indispensabile riconoscere che le altre
persone abbiano, a loro volta, i loro programmi. Il trauma può rendere
tutto ciò vago e fumoso.

1. K.L. Walsh, M. Blaustein, W.G. Knight, J. Spinazzola, B.A. van der Kolk (2007), “Resiliency
factors in the relation between childhood sexual abuse and adulthood sexual assault in college-age
women”, in Journal of Child Sexual Abuse, 16(1), pp. 1-17.
2. A.C. McFarlane (2010), “The long-term costs of traumatic stress: Intertwined physical and
psychological consequences”, in World Psychiatry, 9(1), pp. 3-10.
3. W. James (1884),“What is an emotion?”, in Mind, 9, pp. 188-205.
4. R.L. Bluhm, P.C. Williamson, E.A. Osuch, P.A. Frewen, T.K. Stevens, K. Boksman (2009),
“Alterations in default network connectivity in Post-traumatic Stress Disorder related to early-life
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McFarlane, R.L. Blume, K.A. Moores, C.R. Clark, M.E. Shaw (2010), “Switching between
executive and default mode networks in Post-traumatic Stress Disorder: Alterations in functional
connectivity”, in Journal of Psychiatry & Neuroscience, 35(4), p. 258.
5. ll taglio alla Mohawk, noto come taglio alla moicana, che prende spunto dall’acconciatura
dell’omonima tribù dei nativi americani, consiste nella rasatura ai due lati della testa, che lascia una
striscia centrale di capelli lunghi e “sparati”. [NdC]
6. Think tank, signi ca, letteralmente, “serbatoio di pensiero”, pensatoio. Si tratta di gruppi,
indipendenti da appartenenze politiche, che si dedicano all’analisi di svariate questioni della vita
pubblica, sociale, scienti ca. Il primo think tank venne istituito durante la seconda guerra
mondiale dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, per analizzare l’andamento della guerra.
[NdC]
7. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000. Damasio recentemente ha
detto: “La consapevolezza è stata inventata per poter conoscere la vita”, p. 31.
8. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 45.
9. Ibidem, p. 45.
10. A. Damasio (2010), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, tr. it. Adelphi,
Milano 2012, p. 35.
11. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2000, pp. 329-330.
12. A. Damasio, T.G. Grabowski, A. Bechara, H. Damasio, L.L.B. Ponto, J. Parvizi, R.D. Hichwa
(2000), “Subcortical and cortical brain activity during the feeling of self-generated emotions”, in
Nature Neuroscience, 3(10), pp. 1049-1056.
13. T.S. Reinders, E.R.S. Nijenhuis, A.M. Paans, J. Korf, A.T. Willemsen, J.A. den Boer (2003),
“One brain, two selves”, in NeuroImage, 20, pp. 2119-2125. Vedi anche E.R.S. Nijenhuis, O. van
der Hart, K. Steele, “The emerging psychobiology of trauma-related Dissociation and Dissociative
Disorders”, in H. D’Haenen, J.A. den Boer, P. Willner (2002), Biological Psychiatry, Wiley, West
Sussex, UK, vol. 2, pp. 1079-1198; J. Parvizim, A.R. Damasio (2001), “Consciousness and the brain
stem”, in Cognition, 79, pp. 135-159; F.W. Putnam (1994), “Dissociation and Disturbances of
Self”, in D. Cicchetti, S.L. Toth (1994), Dysfunctions of the Self, University of Rochester Press,
New York, vol. 5, pp. 251-265; F.W. Putnam (1997), La dissociazione nei bambini e negli
adolescenti. Una prospettiva evolutiva, tr. it. Astrolabio, Roma 2005.
14. Concetto mutuato dalla teoria sociale-cognitiva, l’agentività umana può essere intesa come la
capacità di agire in modo attivo e trasformativo nel contesto in cui si è inseriti e si realizza
attraverso la facoltà di generare azioni, nalizzate a ottenere degli scopi. Riguarda tutti gli atti
compiuti intenzionalmente, indipendentemente dal loro esito, con una sottostante convinzione di
poter avere effettivamente un’in uenza sugli accadimenti. [NdC]
15. A. D’Argembeau, P. Ruby, F. Collette, C. Degueldre, E. Balteau, A. Luxen, P. Maquet, E.
Salmon (2007), “Distinct regions of the medial prefrontal cortex are associated with self-referential
processing and perspective taking”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 19(6), pp. 935-944. Vedi
anche N.A. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg., J. Bean, D. McKeon, Z. Fatima (2007), “Attending to
the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2(4), pp. 313-322; B.K. Holzel, U. Ott, T. Gard, H. Hempel,
M. Weygandt, M. Morgen, D. Vaitl (2008), “Investigation of mindfulness meditation practitioners
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16. P.A. Levine (2008), Healing Trauma: A Pioneering Program for Restoring the Wisdom of Your
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Body Releases Trauma and Restores Goodness, North Atlantic Books, Berkeley, CA.
17. P. Ogden, K. Minton (2000), “Sensorimotor psychotherapy: One method for processing
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trauma e il corpo. Manuale di psicoterapia sensomotoria, tr. it. Istituto di Scienze Cognitive, Sassari
2012.
18. Famiglia di piante a cui appartengono i gigli e varie forme di lilium. [NdC]
19. D.A. Bakal (2001), Minding the Body: Clinical Uses of Somatic Awareness, Guilford Press, New
York.
20. Sul tema ci sono innumerevoli studi. Per un approfondimento si segnala: J. Wolfe, P.P.
Scnhnurr, P.J. Brown, J. Furey (1994), “Post-traumatic Stress Disorder and war-zone exposure as
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21. P.K. Trickett, J.G. Noll, F.W. Putnam (2011), “The impact of sexual abuse on female
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22. K. Kosten, F. Giller Jr. (1992), ”Alexithymia as a predictor of treatment response in Post-
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23. G.J. Taylor, R.M. Bagby (2004), “New trends in alexithymia research”, in Psychotherapy and
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International Universities Press, New York, p. 120.
29. S. Arzy, L. Overney, T. Landis, O. Blanke (2006), “Neural mechanisms of embodiment:
Asomatognosia due to premotor cortex damage”, in Archives of Neurology, 63(7), pp. 1022-1025.
Vedi anche S. Arzy, M. Seeck, S. Ortigue, L. Spinelli, O. Blanke (2006), “Induction of an illusory
shadow person”, in Nature, 443(7109), p. 287; S. Arzy, G. Thut, C. Mohr, C.M. Michel, O. Blanke
(2006), “Neural basis of embodiment: Distinct contributions of temporoparietal junction and
extrastriate body area”, in Journal of Neuroscience, 26(31), pp. 8074-8081; O. Blanke, T. Landis, L.
Spinelli, M. Seeck (2004), “Out-of-body experience and autoscopy of neurological origin”, in
Brain, 127, 2, pp. 243-258; M. Sierra, J. Gomez, J.J. Molina, R. Luque, J.F. Muñoz, A.S. David
(2005), “Unpacking the depersonalization syndrome: An exploratory factor analysis on the
Cambridge Depersonalization Scale”, in Psychological Medicine, 35, pp. 1523-1532.
30. A.A.T. Reinders, E.R.S. Nijenhuis, J. Quak, J. Korf, J. Haaksma, A.M. Paans, J.A. den Boer
(2006), “Psychobiological characteristics of Dissociative Identity Disorder: A symptom
provocation study”, in Biological Psychiatry, 60(7), pp. 730-740.
31. Nel suo libro Focusing del 1982, Eugene Gendlin ha coniato il termine “sensazione sentita”
(felt sense): “Una sensazione sentita non è un’esperienza mentale, ma sica. L’impressione corporea
di una situazione, di una persona o di un avvenimento” (tr. it. Astrolabio, Roma, 2001, p. 44).
32. C. Steuwe, J.K. Daniels, P.A. Frewen, M. Densmore, S. Pannasch, T. Beblo, J. Reiss, R.A.
Lanius (2014), “Effect of direct eye contact in PTSD related to interpersonal trauma: An fMRI
study of activation of an innate alarm system”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 9(1),
pp. 88-97.
Parte terza

La mente dei bambini


7

Sulla stessa lunghezza d’onda


Attaccamento e sintonizzazione

Le radici della resilienza sono da ricercarsi in quella sensazione di essere


compresi e presenti nella mente e nel cuore di un altro che ci ama, che è
sintonizzato e che è padrone di sé.
DIANA FOSHA

La Children Clinic al Massachusetts Mental Health Care era gremita di


bambini disturbati e disturbanti. Erano creature selvagge, che non erano
in grado di stare ferme, che picchiavano e mordevano altri bambini e,
talvolta, anche i membri dello staff. Potevano correre incontro e
aggrapparsi a chiunque in un momento e, un momento dopo, correre via,
spaventati. Alcuni si masturbavano in modo compulsivo, altri in erivano
su oggetti, animali e su se stessi. Erano, al tempo stesso, affamati d’affetto
e arrabbiati, provocatori. Le bambine, in particolare, potevano essere
oltremodo compiacenti. Ma sia che fossero oppositivi o appiccicosi,
nessuno di questi bambini sembrava capace di esplorare o di giocare nei
modi tipici dei bambini della loro età. Alcuni di essi avevano un senso di
sé molto poco sviluppato: non riuscivano a riconoscersi allo specchio.
A quel tempo, sapevo assai poco di bambini, a parte quello che i miei
due gli in età prescolare mi insegnavano. Ma avevo la fortuna di avere
una collega come Nina Fish-Murray, che aveva studiato a Ginevra con
Jean Piaget, oltre ad aver cresciuto cinque bambini suoi. Piaget aveva
basato le sue teorie sullo sviluppo del bambino su un’osservazione diretta
e meticolosa dei bambini stessi, a partire dai suoi gli piccoli, e Nina aveva
importato quello spirito all’interno dell’incipiente Trauma Center al
MMHC.
Nina era sposata con il primo direttore di dipartimento della facoltà di
Psicologia di Harvard, Henry Murray, uno dei pionieri della Teoria della
personalità, e incoraggiava attivamente ciascun giovane membro della
facoltà che condividesse i suoi interessi. Era affascinata dalle mie storie sui
veterani perché le ricordavano i bambini in dif coltà con cui aveva
lavorato presso le scuole pubbliche di Boston. La posizione privilegiata di
Nina e il suo carisma ci permisero di accedere alla Children’s Clinic,
gestita da psichiatri, che si interessavano poco di trauma.
Henry Murray, tra le altre cose, era diventato famoso per aver costruito
il diffusissimo Test di appercezione tematica. Il TAT è un test cosiddetto
proiettivo, che si avvale di una serie di tavole che sondano il modo in cui il
mondo interno delle persone plasma la loro visione del mondo. A
differenza delle tavole del Rorschach che usavamo con i veterani, le tavole
del TAT riportano scene realistiche ma ambigue e, talvolta, inquietanti: un
uomo e una donna che malinconicamente guardano lontano l’uno
dall’altra, un bambino che guarda un violino rotto. Ai soggetti viene
chiesto di raccontare cosa sta succedendo nell’immagine, cosa era
accaduto prima e cosa accadrà dopo. Nella maggior parte dei casi, le
interpretazioni fornite rivelano velocemente i temi che af iggono i
pazienti.
Nina e io decidemmo di mettere a punto una serie di tavole selezionate
ad hoc per i bambini, e basate su delle fotogra e che avevamo ritagliato
dalle riviste della sala d’attesa dell’ambulatorio. Il nostro primo studio
metteva a confronto dodici bambini, di età compresa tra i sei e gli undici
anni, della Children’s Clinic, con un gruppo di bambini di una scuola
delle vicinanze, combinandoli nel modo più simile possibile per età, razza,
livello di intelligenza e composizione familiare.1 Ciò che differenziava i
nostri pazienti era l’abuso subito all’interno della famiglia. Il gruppo
includeva un ragazzino gravemente contuso dalle ripetute percosse subite
dalla madre, una bambina molestata dal padre all’età di quattro anni, due
ragazzini legati sistematicamente a una sedia e frustati, e una ragazzina
che, all’età di cinque anni, aveva visto la propria madre (una prostituta)
stuprata, smembrata, bruciata e messa nel cofano di una macchina. Il
protettore della madre era sospettato di aver abusato sessualmente di lei.
I bambini del nostro gruppo di controllo vivevano anch’essi in povertà
in una zona depressa di Boston ed erano stati più volte testimoni di
violenze scioccanti. Nel corso del nostro lavoro, un ragazzo della loro
scuola aveva cosparso di benzina un compagno e gli aveva dato fuoco. Un
altro ragazzo era stato colpito dal fuoco incrociato, mentre si recava a
scuola con il padre e un amico. Fu ferito all’inguine e il suo amico restò
ucciso. Data l’esposizione a un così elevato tasso di violenza, le loro
riposte sarebbero state differenti da quelle dei bambini ospedalizzati?

Una delle nostre tavole illustrava una scena familiare: due ragazzini
sorridenti, che guardavano il papà riparare una macchina. Ciascun
bambino che guardava la tavola si focalizzava sul pericolo a cui sembrava
esposto l’uomo steso sotto il veicolo. Mentre il gruppo di controllo
raccontava storie con un nale positivo – la macchina sarebbe stata
riparata e probabilmente il papà e i bambini sarebbero andati da
McDonald’s –, i bambini traumatizzati narravano storie raccapriccianti.
Una ragazzina disse che la bambina nella foto avrebbe fracassato il cranio
del padre con un martello. Un bambino di nove anni, abusato sicamente
in modo grave, riferì una storia articolata, relativa a come il ragazzo nella
foto avrebbe rimosso il cric con un colpo di piede, in modo tale che la
macchina stritolasse il corpo del padre, con uno spargimento di sangue in
tutto il garage.
Nel raccontare queste storie, i nostri pazienti erano molto eccitati e
disorganizzati. Dovevamo trascorrere un considerevole quantitativo di
tempo al distributore dell’acqua fredda, facendo due passi, prima di
mostrare loro la tavola successiva. Era un “tantino” sorprendente che
quasi tutti avessero una diagnosi di ADHD e che fossero tutti sotto
Ritalin, anche se il farmaco non sembrava di certo ridurre la loro
attivazione in questa situazione.
I ragazzini abusati davano poi risposte simili a un’immagine,
apparentemente innocua, di una donna incinta, di pro lo, di fronte a una
nestra. Per esempio, la bambina di sette anni, abusata a quattro,
cominciò a parlare di peni e vagine, chiedendo varie volte a Nina:
“Quante persone ti sei scopata?”. Come tante altre bambine abusate della
nostra ricerca, si agitò così tanto da indurci a fermarci. Una bambina di
sette anni del gruppo di controllo assunse l’umore triste della gura: la sua
storia riguardava una signora vedova, che guardava mestamente fuori
dalla nestra, in preda alla nostalgia del marito. Ma, alla ne, la signora
avrebbe trovato un uomo amorevole, che sarebbe stato un buon padre per
il suo bambino.
Alla tavola successiva, malgrado il loro allarme rispetto alla dif coltà,
osservammo che i bambini non abusati con davano ancora in un universo
essenzialmente benevolo e riuscivano a immaginare delle vie d’uscita da
situazioni complicate. Sembravano sentirsi protetti e al sicuro all’interno
delle loro famiglie e, inoltre, si sentivano amati da almeno uno dei
genitori, e questo faceva una differenza sostanziale nella loro motivazione
a svolgere i compiti scolastici e a imparare.
Le risposte dei bambini dell’ambulatorio erano preoccupanti. Le
immagini più innocenti provocavano vissuti intensi di pericolo,
aggressione, eccitazione sessuale e terrore. Non avevamo selezionato
queste immagini perché contenenti un signi cato implicito, che persone
particolarmente sensibili avrebbero potuto scoprire; erano immagini
ordinarie di vita quotidiana. Potevamo solo giungere alla conclusione che,
per i bambini abusati, il mondo intero fosse pieno di trigger. Finché
riescono a rappresentarsi solo esiti disastrosi anche rispetto a situazioni
relativamente innocue, chiunque entri nella stanza, qualsiasi straniero,
qualsiasi immagine su uno schermo o su un manifesto possono essere
percepiti come precursori di una catastrofe. Sotto questa luce, il
comportamento bizzarro dei bambini della Children’s Clinic risultava
perfettamente comprensibile.2
Con mia grande sorpresa, le discussioni d’équipe menzionavano
raramente le terribili esperienze di vita dei bambini e l’impatto di quei
traumi sui loro vissuti, sui loro pensieri e sulla capacità di autoregolazione.
I loro referti medici, inoltre, erano pieni di etichette diagnostiche:
“Disturbo della condotta” o “Disturbo oppositivo-provocatorio” per i
bambini arrabbiati e ribelli; o “Disturbo bipolare”. L’ADHD era una
diagnosi in comorbilità in quasi tutti i pazienti. Il trauma sottostante,
dunque, era oscurato da questa valanga di diagnosi?
A quel punto, avevamo due grosse s de da affrontare. Una riguardava
l’appurare se le diverse visioni del mondo dei bambini normali potevano
tenere conto della loro resilienza e, a un livello più profondo, il
comprendere il modo in cui ciascun bambino crea effettivamente la sua
mappa del mondo. L’altra domanda, ugualmente importante, era la
seguente: è possibile aiutare la mente e il cervello di bambini brutalizzati a
ridisegnare una mappa interna, che contempli un senso di ducia e di
sicurezza nel futuro?

Uomini senza madri


I primi soggetti della ricerca sulla relazione vitale tra l’infante e la propria
madre erano stati uomini inglesi di elevato livello sociale, strappati da
ragazzini alle loro famiglie, per essere mandati in collegio, educati in
ambienti esclusivamente maschili. Durante la mia prima visita alla famosa
Tavistock Clinic di Londra fui attratto da una collezione di fotogra e in
bianco e nero di alcuni grandi psichiatri del ventesimo secolo; la
collezione era appesa alle pareti che delimitavano la scalinata principale:
John Bowlby, Wilfred Bion, Harry Guntrip, Ronald Fairbairn e Donald
Winnicott. Ciascuno di essi, a suo modo, aveva esplorato il modo in cui le
esperienze precoci diventano predittive delle relazioni future con gli altri e
come il senso di sé più intimo si costruisca attraverso gli scambi minuto
per minuto con i nostri caregiver.
Si sa che gli scienziati orientano i loro lavori sulla base dei propri
problemi, così da diventare esperti in materie che altri danno per scontate
(o, come la ricercatrice attaccamentista Beatrice Beebe mi disse una volta,
la maggior parte della ricerca è una “ricerca di me stessa”). Questi uomini,
che studiavano il ruolo delle madri nella vita dei bambini, erano stati
mandati essi stessi in collegio in tenera età, fra i sei e i dieci anni, molto
prima di quando avrebbero dovuto affrontare il mondo da soli. Bowlby
stesso mi disse che proprio una simile esperienza di collegio aveva
probabilmente ispirato il racconto di George Orwell 1984, che esprime
brillantemente come gli esseri umani possano essere indotti alla rinuncia
di tutto ciò che hanno di caro e di vero – incluso il proprio senso di sé –
pur di essere amati e validati da qualcuno che possa costituire per loro un
punto di riferimento.
Dato che Bowlby era intimo amico dei Murray, ho avuto il privilegio di
discutere con lui del suo lavoro, durante le sue visite a Harvard. Era nato
in una famiglia aristocratica (suo padre era chirurgo della famiglia del re)
e insegnava psicologia, medicina e psicoanalisi nei templi
dell’establishment britannico. Dopo aver frequentato l’Università di
Cambridge, aveva lavorato con i giovani delinquenti del London’s East
End, un quartiere notoriamente violento e ad alto tasso criminale, che era
stato fortemente devastato nel corso del Blitz.3 Durante e dopo il suo
servizio militare nella Seconda guerra mondiale, osservò gli effetti degli
sfollamenti al tempo della guerra e degli asili di gruppo, che separavano i
bambini piccoli dalle loro famiglie. Studiò, inoltre, l’effetto
dell’ospedalizzazione, dimostrando che anche separazioni di breve durata
(ai genitori allora non era permesso di rimanere in visita durante la notte)
accrescevano la sofferenza dei bambini. Dalla ne degli anni Quaranta,
Bowlby divenne persona non grata alla comunità psicoanalitica britannica,
a causa della sua affermazione radicale, secondo la quale il
comportamento disturbato dei bambini è da intendersi come una risposta
a esperienze di vita reali, alla trascuratezza, alla brutalità e alla
separazione, piuttosto che come il prodotto di fantasie sessuali infantili.
Irremovibile, dedicò il resto della sua vita a sviluppare quella che diventò
famosa come la Teoria dell’attaccamento.4
Una base sicura
Non appena si viene al mondo, si strilla per annunciare la nostra presenza.
Immediatamente, qualcuno interagisce con noi, ci fa il bagnetto, ci cambia
il pannolino, riempie il nostro stomaco e, cosa più importante, le madri ci
mettono sulla loro pancia o sul loro seno per un delizioso contatto pelle-a-
pelle. Siamo creature profondamente sociali; per noi, la vita consiste nel
trovare il nostro posto all’interno della comunità degli esseri umani. Amo
in modo particolare la seguente espressione del grande psichiatra francese
Pierre Janet: “Ogni vita è un’opera d’arte, costruita con qualsiasi mezzo a
nostra disposizione”.
Crescendo, impariamo a prenderci cura di noi stessi sia sicamente sia
emotivamente, ma la prima lezione nella cura di noi stessi ci viene
impartita dal modo in cui siamo stati accuditi. Il padroneggiamento
dell’abilità di autoregolazione dipende, in larga misura, da quanto sono
state armoniche le prime interazioni con i nostri caregiver.
I bambini i cui genitori costituiscono fonti di conforto e di forza
af dabili hanno un vantaggio nella vita, una sorta di protezione contro il
peggio che la sorte può riservare loro.
John Bowlby ha affermato che i bambini sono attratti da volti e voci e
che sono squisitamente sensibili alle espressioni facciali, alla postura, al
tono di voce, ai cambiamenti siologici, al ritmo del movimento e
all’inizio dell’azione. Considerava questa capacità innata un prodotto
dell’evoluzione, necessario alla sopravvivenza di queste creature inermi. I
bambini, inoltre, sono programmati per scegliere un adulto particolare (o,
al massimo, pochi), con il quale sviluppare il loro sistema di
comunicazione naturale. Ciò crea un legame di attaccamento primario.
Più sensibile è l’adulto nei confronti del bambino, più profondo sarà il
legame d’attaccamento e, con molta più probabilità, il bambino potrà
sviluppare delle modalità relazionali sane con le persone intorno a lui.
Bowlby si recava spesso al Regent’s Park di Londra, dove aveva modo di
osservare in modo sistematico l’interazione tra i bambini e le loro madri.
Mentre le madri erano sedute tranquillamente sulle panchine del parco,
lavorando a maglia o leggendo il giornale, i bambini si allontanavano a
esplorare l’ambiente, girandosi, di tanto in tanto, a dare un’occhiata, per
sincerarsi che la mamma li stesse ancora guardando. Ma se qualcuno si
fermava, magari catturando l’interesse della madre con il pettegolezzo del
momento, i bambini tornavano indietro di corsa e stavano lì vicino, per
essere sicuri di avere ancora la sua attenzione. Se gli infanti e i bambini
piccoli si accorgono di non essere l’oggetto della concentrazione totale
della madre, si innervosiscono. Quando le madri spariscono dalla loro
vista, i bambini cominciano a piangere, inconsolabili, no al loro ritorno:
a quel punto, si calmano e riprendono il loro gioco.
Bowlby ha inteso l’attaccamento come una base sicura, dalla quale il
bambino si muove per andare verso il mondo. Nel corso dei cinquant’anni
successivi, la ricerca ha palesemente confermato che disporre di una base
sicura favorisce il senso di autonomia e instilla il senso di compassione e di
aiuto verso chi soffre. Dall’intimo “dare e ricevere” del legame di
attaccamento, i bambini imparano che le altre persone hanno sentimenti e
pensieri che sono sia simili sia differenti dai propri. In altre parole, si
“sincronizzano” con il proprio ambiente e con le persone intorno a loro e
sviluppano l’autoconsapevolezza, l’empatia, il controllo degli impulsi e
l’automotivazione: tutto ciò che rende possibile il divenire membri
partecipi di una più grande cultura sociale. Ai bambini della nostra
Children’s Clinic queste qualità mancavano totalmente.

La danza della sintonizzazione


I bambini si attaccano a chiunque funzioni come il loro caregiver
primario. Tuttavia, la qualità di quell’attaccamento – che sia sicuro o
insicuro – fa un’importante differenza nel corso della vita di un bambino.
L’attaccamento sicuro è garantito dalla sintonizzazione emotiva del
caregiver. La sintonizzazione inizia dai più sottili livelli sici di interazione
tra i neonati e il caregiver, e ciò conferisce al neonato la sensazione di
essere accolto e capito. Come dice il ricercatore attaccamentista Colyn
Trevarthen: “Il cervello coordina i movimenti ritmici del corpo e li guida
ad agire in sintonia con il cervello delle altre persone. Gli infanti sentono e
apprendono la musicalità dal parlare delle loro madri, anche prima di
venire al mondo”.5
Nel capitolo 4, ho illustrato la scoperta dei neuroni specchio, i
collegamenti tra un cervello e l’altro, che ci conferiscono facoltà
empatiche. I neuroni specchio cominciano a funzionare alla nascita.
Quando il ricercatore Andrew Meltzoff apriva la bocca o mostrava la
lingua a bambini di appena sei ore, questi ultimi ripetevano prontamente
le sue azioni6 (i neonati possono focalizzare il loro sguardo solamente su
oggetti situati nel raggio di 20 o 30 cm – quanto basta per vedere la
persona che li accudisce). L’imitazione è la nostra più importante abilità
sociale. Ci permette di captare e di ri ettere automaticamente il
comportamento dei nostri genitori, degli insegnanti e dei pari.
La maggior parte dei genitori si relaziona ai propri bambini in modo così
spontaneo, da rendersi raramente conto di come si svolge la
sintonizzazione. Ma un invito di un amico, il ricercatore attaccamentista
Ed Tronick, mi diede l’opportunità di osservare più da vicino quel
processo. Da uno specchio unidirezionale presso l’Harvard’s Laboratory
of Human Development, guardavo una madre che giocava col suo bimbo
di due anni, mentre era seduto su un seggiolone di fronte a lei.
Stavano facendo dei gorgoglii reciproci e stavano trascorrendo dei
momenti meravigliosi, nché la madre si avvicinò per stro nare il naso su
quello del bambino, che, eccitato, le tirò i capelli. La madre fu colta di
sorpresa e gridò di dolore, liberandosi della mano del bambino, con una
smor a di disappunto. Il bambino mollò immediatamente la presa e si
allontanarono sicamente l’uno dall’altra. Per entrambi, la fonte di piacere
si era trasformata in una fonte di stress. Chiaramente spaventato, il
bambino si coprì la faccia con la mano per evitare la vista della mamma
arrabbiata. La madre, dal canto suo, rendendosi conto dell’agitazione del
bambino, riorientò l’attenzione su di lui, facendo dei vocalizzi
rassicuranti, nel tentativo di calmare le acque. Il bambino aveva ancora gli
occhi coperti, ma il desiderio di connettersi presto riemerse. Cominciò a
sbirciare per vedere se il campo era libero, mentre la mamma gli si
avvicinava con un’espressione preoccupata. Ma, appena cominciò a
solleticargli la pancia, lasciò andare le braccia, si ruppe in una risata felice
e l’armonia fu ristabilita: bambino e mamma erano di nuovo sintonizzati.
L’intera sequenza di piacere, rottura, riparazione e nuovo piacere richiese
poco meno di dodici secondi.
Tronick e altri ricercatori hanno ormai dimostrato che bambini e
genitori, sincronizzati a livello emotivo, lo sono anche a livello sico.7 I
bambini non sanno regolare i loro stati emotivi e, tanto meno, i
cambiamenti del battito cardiaco, i livelli ormonali, l’attività del sistema
nervoso che accompagna le emozioni. Quando un bambino è in sincronia
con il suo caregiver, il suo senso di gioia si ri ette nel battito cardiaco e nel
respiro regolari, e in un basso livello di ormoni dello stress. Il suo corpo è
calmo, così come le sue emozioni. Nel momento in cui questa musica si
interrompe, come spesso accade nel corso della vita quotidiana, si
modi cano anche tutti questi fattori siologici. Si può dire che l’equilibrio
viene ripristinato quando la siologia si calma.
Rassicuriamo i nostri bambini, ma i genitori iniziano presto a insegnare
ai propri gli a tollerare più alti livelli di attivazione, lavoro che, spesso,
spetta ai padri (una volta ho sentito lo psicologo John Gottman dire: “Le
madri accarezzano, i padri stuzzicano”). Imparare a gestire l’attivazione è
un’abilità fondamentale della vita, e i genitori lo devono fare per i loro
gli, prima che questi lo facciano per se stessi. Se quella sensazione
fastidiosa nella pancia provoca il pianto nel bambino, arriva il seno o il
biberon. Se il bambino è spaventato, qualcuno lo calma e lo culla nché
non torna sereno. Se vomita, qualcuno lo lava e lo pulisce. Associare
sensazioni intense alla sicurezza, al conforto e alla padronanza,
rappresenta la base dell’autoregolazione, dell’autorassicurazione e
dall’autonutrimento, un tema al quale ritornerò spesso nel corso di questo
libro.
Un attaccamento sicuro, unito al coltivare la competenza, contribuisce
alla costruzione di un locus of control interno, fattore essenziale per una
gestione sana delle insidie della vita.8 I bambini con un attaccamento
sicuro imparano cosa li fa stare bene; scoprono cosa fa stare male loro e gli
altri; acquisiscono un senso di potere: il fatto che le loro azioni possano
modi care il proprio sentire e le risposte degli altri. I bambini con un
attaccamento sicuro imparano a differenziare le situazioni che sono in
grado di gestire da quelle per cui è necessario chiedere aiuto. Imparano
che possono giocare un ruolo attivo nella risoluzione di situazioni dif cili.
Di contro, bambini con storie di abuso e grave trascuratezza imparano che
il loro terrore, le loro implorazioni e il loro pianto non hanno alcun effetto
sui caregiver. Niente di ciò che possono fare o dire interrompe le botte o
suscita attenzione o aiuto. In effetti, sono destinati a mollare di fronte agli
ostacoli che la vita, in seguito, presenterà loro.
Divenire reali
Contemporaneo di Bowlby, il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott è
considerato il padre della moderna ricerca sulla sintonizzazione. Le sue
osservazioni minuziose di madri e bambini iniziano con il modo in cui le
madri abbracciano i loro bambini. Winnicott pensava che queste
interazioni siche costituissero le basi per la costruzione del senso di sé
del bambino e, insieme a esso, di un senso di identità per tutta la vita. Il
modo in cui una madre abbraccia il proprio bambino sottolinea “la
capacità di sentire il corpo come un posto in cui vive la psiche”.9 La
sensazione viscerale e cinestesica di come i nostri corpi si incontrano getta
le fondamenta di ciò che sperimentiamo come “reale”.10
Winnicott era certo che la stragrande maggioranza delle madri si
sintonizzi abbastanza bene sui propri bambini: essere ciò che ha de nito
“una madre suf cientemente buona” non richiede poi un così grande
talento.11 Le cose, tuttavia, rischiano di prendere una piega decisamente
brutta se le madri non sono in grado di sintonizzarsi sulla realtà sica del
loro bambino. Se una madre non soddisfa i bisogni e gli impulsi del
bambino, “il bambino diventa l’idea che la madre si è fatta di lui”. Dover
ridurre le proprie sensazioni interne e cercare di adattarle ai bisogni del
caregiver, implica che il bambino percepisca che c’è “qualcosa di
sbagliato” nel proprio modo di essere. I bambini che non hanno
sperimentato una sintonizzazione sica sono suscettibili allo spegnimento
del feedback diretto del proprio corpo, il posto del piacere, della nalità e
della direzione.
Dagli anni in cui furono introdotte le idee di Bowlby e di Winnicott, la
ricerca sull’attaccamento in tutto il mondo ha dimostrato che la gran parte
dei bambini ha un attaccamento sicuro. Con la crescita, la loro storia di
accudimento af dabile e responsivo li aiuterà a tenere a bada la paura e
l’ansia. Limitando l’esposizione ad alcuni eventi di vita travolgenti
(traumi), che collassano il sistema di autoregolazione, questi bambini
manterranno un fondamentale stato di sicurezza emotiva lungo tutto il
corso della loro vita. L’attaccamento sicuro, inoltre, fornisce una matrice
per le relazioni del bambino, che capta il sentimento dell’altro e, all’inizio,
impara a raccontare un gioco dalla realtà, sviluppando un buon uto per
situazioni ingannevoli e persone pericolose. Di solito, i bambini con
attaccamento sicuro diventano piacevoli compagni di gioco e fanno tante
esperienze autoconvalidanti con i loro pari. L’aver imparato a essere in
sintonia con le altre persone fa sì che questi bambini riescano a notare i
sottili cambiamenti della voce e delle espressioni facciali, adattando, di
conseguenza, il proprio comportamento a tali modi cazioni. Imparano a
vivere secondo una visione condivisa del mondo e, probabilmente,
diventeranno membri apprezzati della comunità.
Questa spirale ascendente può, tuttavia, essere ribaltata dall’abuso e
dalla trascuratezza. I bambini abusati sono spesso molto sensibili ai
cambiamenti nella voce e nel volto, ma sono inclini a percepirli come
minacce, piuttosto che come suggerimenti per ripristinare la sincronia. Il
dottor Seth Pollak, dell’Università del Wisconsin, aveva mostrato una
serie di facce a un gruppo di bambini normali di 8 anni e confrontato le
loro risposte con quelle di un gruppo di bambini abusati di pari età. Su
una gamma di espressioni che andava dalla rabbia alla tristezza, i bambini
abusati erano ipervigili rispetto alle più sottili sfumature della rabbia.12

Questa è una delle ragioni per cui i bambini abusati diventano così
facilmente dif denti o spaventati. Immaginiamo come debba essere farsi
strada in un mare di facce lungo il corridoio della scuola, cercando di
capire chi potrebbe aggredirci. I bambini che reagiscono in modo
esagerato all’aggressività dei loro pari, che non si accorgono dei bisogni
degli altri bambini, che spengono o perdono il controllo dei propri
impulsi, sono, con tutta probabilità, evitati o esclusi dalle occasioni di
gioco o dall’opportunità di fermarsi a dormire a casa di qualcuno.
Possono, in ne, imparare a mascherare la paura, mostrando una durezza
di facciata, oppure possono trascorrere tantissimo tempo da soli,
guardando la TV o giocando con i videogiochi, rimanendo ancora più
indietro nell’acquisizione delle abilità interpersonali e di autoregolazione
emotiva.
Cinque anni fa, durante la vigilia di Natale, sono stato chiamato a
valutare un ragazzo di quattordici anni al Suffolk County Jail, che mi
disse: “Nessuno, ma proprio nessuno, mi presta mai attenzione”. Risultava
che fosse stato colto a scassinare diverse volte in passato. Conosceva la
polizia e i poliziotti conoscevano lui. Con una punta di piacere nella voce,
raccontò che, quando i poliziotti lo avevano sorpreso nel bel mezzo del
soggiorno, avevano gridato: “Oh mio Dio, ancora Jack, quel piccolo glio
di puttana”. Qualcuno lo aveva riconosciuto; qualcuno conosceva il suo
nome. Qualche istante dopo, Jack confessò: “Sai, è per questo che vale la
pena di fare quello che faccio”. I bambini fanno più o meno qualsiasi cosa
per sentirsi visti e connessi.

Vivere con i genitori che si hanno


I bambini possiedono un istinto biologico all’attaccamento: non hanno
scelta. A seconda di come saranno i loro genitori o caregiver, ovvero se
saranno amorevoli e accudenti oppure distanti, insensibili, ri utanti o
abusanti, i bambini svilupperanno uno stile di coping,13 basato sul
tentativo di poter essere soddisfatti in almeno qualcuno dei propri
bisogni.
Si dispone, ormai, di metodi af dabili per la valutazione e
l’identi cazione di questi stili di coping, in larga misura grazie al lavoro di
due scienziate americane, Mary Ainsworth e Mary Main, e ai loro colleghi,
che hanno trascorso migliaia di ore osservando coppie di madri e
bambini, nel corso di numerosi anni. Su questi studi, Ainsworth aveva
creato un programma di ricerca chiamato Strange situation, che mirava a
identi care come un bambino reagisce alla temporanea separazione dalla
madre. Così come aveva osservato Bowlby, i bambini con attaccamento
sicuro apparivano stressati quando la madre li lasciava, ma mostravano
piacere al suo riavvicinamento e, dopo una breve veri ca di
rassicurazione, si riassestavano, riprendendo a giocare.
Quando i bambini hanno un attaccamento insicuro la situazione si
complica. I bambini, che hanno un caregiver primario poco rispondente o
ri utante imparano a gestire l’ansia in due modi differenti. I ricercatori
notarono che qualcuno sembrava perennemente agitato e richiedente con
la madre, mentre altri erano più passivi e ritirati. In entrambi i gruppi, il
contatto con le madri non era suf ciente a calmarsi, non ritornavano al
loro gioco in maniera soddisfatta, così come accadeva ai bambini con un
attaccamento sicuro.
In un pattern, chiamato “attaccamento evitante”, i bambini si
mostravano come se niente li infastidisse: non piangevano
all’allontanamento della madre e la ignoravano al suo ritorno. Questo non
signi ca, tuttavia, che fossero anaffettivi. Il loro battito cardiaco
accelerato, infatti, evidenziava uno stato di costante iper-arousal. I miei
colleghi e io chiamiamo questo pattern “agente, ma non senziente”.14
Alcune madri di bambini evitanti non mostravano piacere nel toccare i
loro bambini. Avevano dif coltà a coccolarli e ad abbracciarli, non
usavano le espressioni facciali e la voce per creare dei ritmi di piacevole
reciprocità con loro.
In un altro pattern, chiamato “attaccamento ansioso” o “ambivalente”, i
bambini attiravano continuamente l’attenzione su di sé piangendo,
gridando, aggrappandosi all’adulto o strillando: sono i bambini “senzienti,
ma non agenti”.15 Questi bambini sembrano aver realizzato che, se non
danno spettacolo, nessuno presterà loro attenzione. Diventavano
fortemente agitati quando non sapevano dove fosse la madre, ma
ricavavano scarso conforto dal suo ritorno. E anche se non sembravano
godere della sua compagnia, rimanevano passivamente o rabbiosamente
concentrati su di lei, anche in situazioni in cui altri bambini avrebbero
preferito giocare.16
Gli attaccamentisti pensano che queste tre strategie di attaccamento
“organizzato” (sicuro, evitante e ansioso) funzionano perché elicitano il
migliore attaccamento che un particolare tipo di caregiver possa fornire. I
bambini che incontrano un pattern di attaccamento strutturato, anche se
caratterizzato da distanza emotiva e insensibilità, sanno adattarsi a
mantenere la relazione. Ciò non signi ca che non ci siano problemi: i
pattern di attaccamento spesso persistono in età adulta. Bambini ansiosi
da piccoli diventano adulti ansiosi, mentre bambini evitanti diventeranno
probabilmente adulti che non hanno accesso alle proprie emozioni e a
quelle degli altri (sviluppando, magari, convinzioni come “Non c’è niente
di sbagliato in una buona sculacciata. Sono stato picchiato anch’io e
questo ha fatto di me la persona di successo che sono oggi”). A scuola, i
bambini evitanti sono propensi a fare i bulli con altri bambini, mentre
quelli ansiosi diventano, spesso, le loro vittime.17 Lo sviluppo, tuttavia,
non è lineare, e molte esperienze di vita possono concorrere a modi care
questo assetto iniziale.
Esiste, altresì, un altro gruppo che è meno stabilmente adattato, un
gruppo che costituisce la gran parte dei bambini che trattiamo e una
sostanziale percentuale degli adulti che frequentano le cliniche
psichiatriche. Circa venti anni fa, Mary Main e i suoi colleghi a Berkeley
cominciarono a identi care un gruppo di bambini (circa il 15% di quelli
osservati) che sembravano incapaci di capire come fare a coinvolgere i
loro caregiver. L’aspetto di cruciale importanza coincideva con il fatto che
gli stessi caregiver rappresentassero una fonte di stress o di terrore per i
bambini.18
I bambini, in questa situazione, non avevano nessuno a cui rivolgersi e
dovevano affrontare un dilemma irrisolvibile: le loro madri erano, al
contempo, indispensabili alla sopravvivenza e fonte di terrore.19 Non
potevano né tentare un approccio verso di loro (le “strategie” sicure e
ambivalenti), né spostare l’attenzione (la “strategia” evitante), né fuggire.20
Se si osservano tali bambini in una scuola materna o in un laboratorio di
studio dell’attaccamento, si può notare come guardino i loro genitori
quando entrano nella stanza e come subito dopo distolgano la loro
attenzione da essi. Incapaci di scegliere tra il cercare l’intimità e l’evitare i
propri genitori, possono oscillare le mani o dondolare sulle ginocchia,
sembrare di andare in trance, apparire congelati con le braccia alzate,
alzarsi per salutare i genitori e subito dopo buttarsi per terra. Non saper
distinguere chi è sicuro o a chi si appartiene può portare a essere
estremamente affettuosi con gli estranei oppure a non darsi di nessuno.
Main denominò questo pattern “attaccamento disorganizzato”.
L’attaccamento disorganizzato è “paura senza ne”.21

Diventare disorganizzati dentro


I genitori coscienziosi, spesso, si allarmano quando vengono a conoscenza
delle ricerche sull’attaccamento, preoccupandosi del fatto che la loro
occasionale impazienza o una ordinaria rottura nella sintonizzazione
possano danneggiare i propri gli in modo permanente. Nella vita reale, ci
sono legami soggetti a fraintendimenti, risposte inopportune e fallimenti
nella comunicazione. Poiché madri e padri non sono attenti o sono
semplicemente preoccupati per altre questioni, i bambini sono spesso
lasciati a cavarsela da soli nella scoperta di come ci si possa calmare. Entro
certi limiti, ciò non costituisce un problema. I bambini hanno bisogno di
gestire le frustrazioni e le delusioni. Con caregiver “suf cientemente
buoni”, i bambini imparano che le connessioni interrotte possono essere
riparate. La questione critica coincide con l’avere o meno incorporato il
sentimento di essere profondamente al sicuro con i propri genitori o con
altri caregiver.22
In uno studio sui pattern di attaccamento, su duemila bambini
provenienti da ambienti “normali” della classe media, il 62% risultò
essere sicuro, il 15% evitante, il 9% ansioso (altrimenti noto come
ambivalente) e il 15% disorganizzato.23 In modo molto interessante,
questo vasto studio dimostrò che il genere del bambino e la sua indole di
base rivestivano uno scarso effetto sullo stile di attaccamento; per
esempio, bambini con un temperamento “dif cile” non avevano una
maggiore probabilità di sviluppare uno stile disorganizzato. Bambini
provenienti da gruppi appartenenti a un più basso ceto sociale avevano un
rischio maggiore di essere disorganizzati,24 poiché i genitori erano spesso
gravemente stressati dall’instabilità economica e familiare.
I bambini che non si sentono sicuri durante l’infanzia hanno dif coltà a
regolare l’umore e le risposte emotive, una volta divenuti più grandi.
All’asilo, molti bambini disorganizzati sono sia aggressivi sia discontinui
nel mantenimento dell’attenzione e poco partecipi, e possono sviluppare
un’importante varietà di problemi psichiatrici.25 Mostrano, inoltre, un
maggiore stress psicologico, come si evince dalla frequenza del battito
cardiaco, dalla variabilità dello stesso,26 dalla risposta dell’ormone dello
stress e dagli indici immunitari abbassati.27 È possibile resettare
automaticamente questa dis-regolazione biologica sulla normalità, una
volta che il bambino matura o è collocato in un ambiente sicuro? Per
quello che ne sappiamo, no.
L’abuso da parte dei genitori non è la sola causa dell’attaccamento
disorganizzato: genitori che devono avere a che fare con un loro trauma
personale, come un abuso domestico o uno stupro o la morte recente di
un genitore o di un fratello, sono, a loro volta, emotivamente instabili e
inconsistenti nell’offrire maggiore conforto e protezione.28 Se qualsiasi
genitore ha bisogno di tutto l’aiuto possibile per far sì che i gli crescano
sicuri, i genitori traumatizzati, in particolare, vanno supportati nel
compito di sintonizzarsi sui bisogni dei loro bambini.
I caregiver, spesso, non si rendono conto di non essere sintonizzati.
Ricordo perfettamente una videoregistrazione che mi ha mostrato Beatrice
Beebe.29 Riguardava una giovane madre che giocava con il suo bambino di
tre mesi. Tutto andava per il meglio, nché il bambino si allontanò,
girando la testa a segnalare di avere bisogno di una pausa. Ma la madre
non colse questo suggerimento e intensi cò gli sforzi per coinvolgerlo,
avvicinandosi di più con il viso e alzando il tono di voce. All’ulteriore
indietreggiare del bambino, continuò a venire avanti, sollecitandolo. Alla
ne, il bambino cominciò a gridare e, a quel punto, la mamma lo mise giù
e si allontanò, desolata. Naturalmente, la mamma si sentì tremenda, ma, in
realtà, aveva semplicemente ignorato un indizio rilevante. È facile
immaginare come questa mancata sintonizzazione, ripetuta continuamente
nel tempo, possa gradualmente condurre a una cronica disconnessione
(chiunque abbia allevato un bambino con le coliche, o un bambino
iperattivo, sa bene quanto rapidamente aumenti lo stress quando sembra
che niente funzioni). Il persistente fallimento nel calmare i propri bambini
e nello stabilire una piacevole interazione faccia-a-faccia, con molta
probabilità, conduce le madri a percepire il proprio glio come un
bambino dif cile; ciò le fa sentire fallite e le porta a desistere dall’offrirgli
conforto.
In pratica, è spesso dif cile distinguere i problemi che derivano da un
attaccamento disorganizzato da quelli che derivano dal trauma: il più delle
volte si intrecciano reciprocamente. La mia collega Rachel Yehuda studiò
il tasso di PTSD in newyorchesi adulti, che erano stati aggrediti o
stuprati.30 Coloro, le cui madri erano sopravvissute all’Olocausto, avevano
una probabilità signi cativamente elevata di sviluppare gravi problemi
psicologici, dopo queste esperienze traumatiche. La spiegazione più
ragionevole è che la loro educazione abbia prodotto una siologia
vulnerabile, rendendo per loro dif cile riguadagnare un proprio
equilibrio, dopo essere stati violati. Yehuda trovò una simile vulnerabilità
in gli di donne incinte che si trovavano al World Trade Center in quella
fatidica data del 2001.31
In modo simile, le reazioni dei bambini a eventi dolorosi sono
fortemente determinate da quanto sono calmi o stressati i loro genitori. Il
mio ex studente Glenn Saxe, ora direttore del Dipartimento di Psichiatria
del bambino e dell’adolescente alla NYU, dimostrò che, quando i bambini
venivano ospedalizzati per il trattamento di ustioni gravi, era possibile
prevedere lo sviluppo di un PTSD, a seconda di quanto si sentivano al
sicuro con le loro madri.32 La sicurezza dell’attaccamento alla madre
fungeva da predittore rispetto alla quantità di mor na necessaria a lenire il
loro dolore: più sicuro era l’attaccamento, meno antidolori co si rendeva
necessario.
Un altro collega, Claude Chetomb, che dirige il Family Trauma Research
Program alla NYU Langone Medical Center, studiò 112 bambini di New
York, che erano stati testimoni diretti degli attacchi terroristici dell’11
settembre.33 I bambini le cui madri avevano una diagnosi di PTSD o di
depressione, mostravano durante il follow-up, una probabilità sei volte
maggiore di sviluppare signi cativi problemi emotivi e undici volte
maggiore di rispondere in modo esageratamente aggressivo alla loro
esperienza.
Anche i bambini i cui padri avevano una diagnosi di PTSD mostravano
problemi comportamentali, ma Chetomb ha scoperto che questo era un
effetto indiretto e mediato dalle madri (vivere con un coniuge irascibile,
ritirato o terrorizzato impone, con tutta probabilità, un maggiore peso
psicologico sul partner, inclusa la depressione).
Se non si dispone di un senso di sicurezza interno, è dif cile distinguere
la sicurezza dal pericolo. Se ci si sente costantemente obnubilati,
situazioni potenzialmente pericolose possono farci sentire vivi. Se ci si
convince di essere una cattiva persona (altrimenti, per quale altro motivo i
genitori ci avrebbero trattato in quel modo?), ci si comincia ad aspettare
che le altre persone ci tratteranno in modo orribile. Probabilmente ci si
merita tutto questo e, comunque, non c’è niente che si possa fare in
merito. Quando individui disorganizzati hanno delle autorappresentazioni
come queste, sono sostanzialmente programmati per essere traumatizzati
da esperienze successive.34

Gli effetti a lungo termine


dell’attaccamento disorganizzato
All’inizio degli anni Ottanta, la mia collega Karlen Lyons-Ruth, una
ricercatrice dell’attaccamento di Harvard, cominciò a videoregistrare le
interazioni faccia-a-faccia tra madri e gli a sei, dodici e diciotto mesi.
Registrò ancora le interazioni quando i bambini avevano cinque anni e,
successivamente, a sette o otto anni.35 Provenivano tutti da famiglie ad alto
rischio: il 100% rientrava nelle linee-guida federali sulla povertà e le
madri erano, per circa la metà, genitori singoli.
L’attaccamento disorganizzato si palesava in due modi distinti. Un
gruppo di madri sembrava troppo preoccupato dai suoi stessi problemi
per seguire i propri bambini. Erano spesso intrusive e ostili. Alternavano
atteggiamenti di ri uto dei loro bambini a comportamenti celanti
l’aspettativa che fossero i bambini a soddisfare i loro bisogni. Un altro
gruppo di madri pareva impotente e spaventato. Davano, spesso,
l’impressione di essere fragili e dolci e non sapevano come fare a essere
l’adulto della relazione, e sembravano volere che fossero i propri gli a
confortarle. Non riuscivano a incontrare i propri gli dopo essersi
allontanate e non li tiravano su quando erano stressati. Questo
comportamento non appariva intenzionale, ma, semplicemente, non erano
in grado di sintonizzarsi sui loro bambini e di rispondere alle loro richieste
e, in questo modo, non riuscivano a consolarli o a rassicurarli. Le madri
ostili/intrusive avevano una maggiore probabilità di avere alle spalle storie
infantili di abuso sico o di violenza domestica assistita, mentre, per
quelle ritirate/dipendenti, vi era una maggiore probabilità che avessero
storie di abuso sessuale o che avessero perso un genitore (ma non che
avessero subito un abuso sico).36
Mi sono sempre chiesto in che modo i genitori comincino ad abusare dei
propri gli. Dopo tutto, crescere la prole in modo sano si colloca al vero
centro del nostro senso umano di scopo e signi cato. Cosa può indurre i
genitori a ferire intenzionalmente i propri gli o a trascurarli? La ricerca
di Karlen mi ha fornito una risposta: guardando i suoi video, ho potuto
constatare che i bambini diventavano sempre più inconsolabili, cupi e
resistenti alle loro madri non sintonizzate. Allo stesso tempo, le madri
diventavano via via più frustrate, scon tte e impotenti nelle loro
interazioni. Nel momento in cui le madri realizzano che il bambino non è
un proprio partner all’interno di una relazione sintonizzata, ma bensì un
estraneo frustrante, arrabbiato e disconnesso, la scena è pronta per il
successivo abuso.
Circa diciotto anni dopo, quando questi bambini avevano più o meno
vent’anni, Lyons-Ruth fece uno studio di follow-up per sondare le loro
capacità di adattamento. I bambini con pattern di comunicazione emotiva
gravemente interrotta con le loro madri a diciotto mesi erano diventati
giovani adulti con un senso di sé instabile, con un’impulsività autolesiva
(per esempio, spendevano in modo esagerato, avevano una sessualità
promiscua, abusavano di sostanze, guidavano in modo spericolato e
avevano condotte di binge-eating), rabbia intensa, inappropriata e
ricorrenti comportamenti suicidari.
Karlen e i suoi colleghi si aspettavano che il comportamento
ostile/intrusivo da parte delle madri fosse il più potente predittore
dell’instabilità mentale dei loro bambini da adulti, ma scoprirono il
contrario. Il ritiro emotivo aveva un impatto più profondo e più a lungo
termine. La distanza emotiva e l’inversione di ruolo (in cui le madri si
aspettano che siano i bambini a curarsi di loro) erano, in modo speci co,
collegate al comportamento aggressivo auto- ed eterodiretto nei giovani
adulti.

Dissociazione: sapere e non sapere


Lyons-Ruth era particolarmente interessata al fenomeno della
dissociazione, che si manifesta nel sentirsi persi, sopraffatti, abbandonati e
disconnessi dal mondo e nel considerarsi non amati, vuoti, impotenti, in
trappola e oppressi. Trovò un’“impressionante e inaspettata” relazione tra
la mancata sintonizzazione e il coinvolgimento materno durante i primi
due anni di vita e i sintomi dissociativi nei giovani adulti. Lyons-Ruth
concluse che i bambini che non sono stati realmente visti e riconosciuti
dalle loro madri sono soggetti ad alto rischio di divenire adolescenti
incapaci di riconoscere e di vedere.37
Bambini che vivono all’interno di relazioni sicure imparano a
comunicare non soltanto la frustrazione e lo stress, ma anche il loro sé
emergente, i loro interessi, i loro desideri e obiettivi. Ricevere una risposta
sintonizzata protegge i bambini (e gli adulti) dai livelli estremi di arousal
spaventato. Ma se il nostro caregiver ignora i nostri bisogni, o è infastidito
dalla nostra stessa esistenza, si impara ad anticipare il ri uto e il ritiro. Ci
si arrangia così come si può, bloccando l’ostilità o il ri uto della propria
madre, e ci si comporta come se non avesse importanza, anche se il corpo,
probabilmente, rimane in uno stato di forte allerta, pronto a scongiurare
batoste, deprivazione o abbandono. La dissociazione implica, al
contempo, sapere e non sapere.38
Bowlby scrisse: “Ciò che non può essere comunicato all’altro (alla
propria madre) non può essere comunicato a se stessi”.39 Se non possiamo
tollerare ciò che sappiamo o sentire ciò che sentiamo, l’unica strada
percorribile è quella del diniego e della dissociazione.40 Forse l’effetto a
lungo termine più devastante di questo spegnimento è il non sentirsi reali
internamente, una condizione che abbiamo appurato nei bambini della
Children’s Clinic e che vediamo nei bambini e negli adulti che arrivano al
Trauma Center. Quando non ci si sente reali, niente ha importanza, e
questa condizione preclude la difesa dal pericolo. In alternativa, si può
ricorrere a misure estreme, nel tentativo di sentire qualcosa, magari
tagliandosi con una lama di rasoio oppure ingaggiandosi in risse con
sconosciuti.
La ricerca di Karlen dimostrò che si impara presto a dissociarsi: abusi
successivi o altri traumi non hanno spiegato i sintomi dissociativi nei
giovani adulti.41
Abuso e trauma chiarivano la presenza di molti altri problemi, ma non la
dissociazione cronica e l’aggressività verso di sé. La sottostante questione
critica era che questi pazienti non sapevano come sentirsi al sicuro. La
mancanza di sicurezza all’interno delle relazioni primarie aveva
profondamente danneggiato il senso di una loro realtà interiore,
favorendo un eccessivo attaccarsi all’altro e un comportamento autolesivo:
povertà, genitorialità singola, o sintomi psichiatrici nella madre non erano
suf cienti a giusti care sintomi simili.
Questo non vuol dire che l’abuso infantile sia irrilevante,42 ma che la
qualità dell’accudimento primario è intrinsecamente importante per la
prevenzione dei disturbi mentali indipendenti da altri traumi.43 Per questa
ragione, il trattamento deve tener conto degli effetti di eventi traumatici
speci ci, ma anche delle conseguenze del non essere stati rispecchiati, del
non aver ricevuto la giusta sintonizzazione, del non aver fruito di un
accudimento consistente e affettivo, ovvero deve tener conto della
dissociazione e della mancanza di autoregolazione.
Ripristinare la sincronia
I pattern precoci di attaccamento creano delle mappe interne che
tracciano le nostre relazioni nel corso della vita, non solo nei termini di ciò
che ci aspettiamo dagli altri, ma anche nei termini di quanto conforto e
piacere possiamo sperimentare in loro presenza. Dubito che il poeta E.E.
Cummings44 avrebbe potuto scrivere le sue strofe gioiose “mi piace il mio
corpo quando è con il tuo corpo… muscoli meglio e nervi di più”, se le
sue esperienze precoci fossero state facce congelate e sguardi ostili.45
Le nostre mappe relazionali sono implicite, incise nel cervello emotivo e
non reversibili semplicemente attraverso la comprensione di come sono
state create. Ci si può rendere conto che la paura dell’intimità ha a che
fare con la depressione post-partum di nostra madre o con il fatto che essa
stessa sia stata molestata da bambina, ma ciò, da solo, non basta ad aprirci
alla felicità e a un coinvolgimento ducioso con gli altri.
Il fatto di averlo capito, tuttavia, può aiutarci a iniziare a esplorare altri
modi di connettersi nelle relazioni, sia per amor proprio sia per non
trasmettere un attaccamento insicuro ai nostri bambini. Nella quinta parte
di questo libro, illustrerò una serie di approcci per sanare i sistemi di
sintonizzazione danneggiati, attraverso corsi di ritmicità e reciprocità.46
Essere in sincronia con se stessi e con gli altri richiede l’integrazione dei
nostri sensi incorporati: vista, udito, tatto ed equilibrio. Se questo non
accade da neonati o nella prima infanzia, ci sono buone possibilità di
sviluppare disturbi nell’integrazione sensoriale successiva (rispetto ai quali
trauma e trascuratezza non sono per niente le uniche spiegazioni). Essere
in sincronia con se stessi signi ca essere in risonanza con i suoni e i
movimenti che connettono, che sono incorporati nei ritmi sensoriali
quotidiani del cucinare e del pulire, dell’andare a letto e dello svegliarsi.
Essere in sincronia può signi care condividere facce divertenti e abbracci,
esprimere piacere o disapprovazione al momento giusto, lanciarsi
reciprocamente la palla o cantare insieme. Al Trauma Center, abbiamo
sviluppato programmi per insegnare ai genitori la connessione e la
sintonizzazione, e i miei pazienti mi hanno raccontato di molti altri modi
di ripristinare la loro sincronia, che vanno dal cantare in un coro al
danzare balli di sala, al far parte di una squadra di basket, di un complesso
jazz o di gruppi di musica da camera. Ciascuna di queste attività
incrementa un senso di sintonia e di piacere condiviso.

1. N. Murray, E. Koby, B.A. van der Kolk (1987), “The effects of abuse on childern’s thoughts”, in
B.A. van der Kolk (a cura di), Psycological Trauma, American Psychiatric Press, Washington, DC.
2. La ricercatrice attaccamentista Mary Main raccontò a dei bambini di 6 anni la storia di una
bambina la cui madre se ne era andata via, chiedendo loro di creare una storia relativa a cosa
sarebbe accaduto dopo. Quasi tutti i bambini di sei anni, con attaccamento sicuro, riportavano
alcune storie fantasiose con un nale positivo, mentre bambini di cinque anni, con attaccamento
disorganizzato, avevano l’attitudine a immaginare nali catastro ci e spesso davano risposte
inquietanti, come “i genitori moriranno”, oppure “la bambina si ucciderà”, in M. Main, N. Kaplan,
J. Cassidy (1985), “Security in infancy, childhood and adulthood: A move to level of
representation”, in Monographs of the Society for Research in Child Development.
3. Campagna di bombardamento strategico, condotta sulla Gran Bretagna dal settembre del 1940
al maggio del 1941, dalla Luftwaffe. [NdC]
4. J. Bowlby (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre, tr. it. Bollati
Boringhieri, Torino 1999; J. Bowlby (1975), Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla
madre, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2000; J. Bowlby (1980), Attaccamento e perdita, vol. 3: La
perdita della madre, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2001.
5. C. Trevarthen (1999), “Musicality and the intrinsic motive pulse: Evidence from human
psychobiology and rhythms, musical narrative, and the origins of human communication”, in
Muisae Scientiae, Special Issue, pp. 157-213.
6. A. Gopnik, A.N. Meltzoff (1997), Words, Thoughts and Theories. MIT Press, Cambridge, MA;
A.N. Meltzoff, M.K. Moore (1983), “Newborn infants imitate adult facial gestures”, in Child
Development, 54(3), pp. 702-709; A. Gopnik, A.N. Meltzoff, P.K. Kuhl (2009), Tuo glio è un
genio, tr. it., Dalai Editore, Milano 2010.
7. E.Z. Tronick (1989), “Emotions and emotional communication in infants”, in American
Psychologist, 44(2), p. 112; vedi anche E.Z. Tronick (2007), Regolazione emotiva. Nello sviluppo e
nel processo terapeutico, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008; E.Z. Tronick, M. Beeghly (2011),
“Infants’ meaning-making and the development of mental health problems”, in American
Psychologist, 66(2), p. 107, e A.V. Sravish, E.Z. Tronick, T. Hollstein, M. Beeghley (2013), “Dyadic
exibility during the Face-to-Face Still Face Paradigm: A dynamic systems analysis of its temporal
organization”, in Infant Behavior and Development, 36, 3, pp. 432-437.
8. M. Main (1996), “Overview of the Field of Attachment”, in Journal of Consulting and Clinical
Psychology, 64, 2, pp. 237-243.
9. D.W. Winnicott (1971), Gioco e realtà, tr. it. Armando, Roma 2001. Si vedano anche D.W.
Winnicott (1965), “The maturational processes and the facilitating environment”, in The
International Psycho-Analytical Library, 64, pp. 1-276; D.W. Winnicott (1975), Dalla pediatria alla
psicoanalisi, tr. it. Martinelli-Giunti, Firenze 1998.
10. Come abbiamo visto nel capitolo 6, e come Damasio ha ampiamente dimostrato, questo senso
della realtà interna, almeno in parte, origina dall’insula, la struttura cerebrale che gioca un ruolo
centrale nella comunicazione mente-corpo e che è, spesso, compromessa in persone con storie di
trauma cronico.
11. D.W. Winnicott (1956), “La preoccupazione materna primaria”, in Dalla pediatria alla
psicoanalisi, tr. it. Martinelli-Giunti, Firenze 1998, pp. 357-363.
12. S.D. Pollak, D. Cicchetti, K. Hornung, A. Reed (2000), “Recognizing emotion in faces:
Developmental effects of child abuse and neglect”, in Developmental Psychology, 36(5), p. 679.
13. Ci sono modalità di adattamento con cui si affrontano situazioni stressanti. Ci possono essere
modalità funzionali e disfunzionali. Secondo Lazarus e Folkman, il coping è un insieme di sforzi
cognitivi e comportamentali, compiuti per rispondere alle richieste esterne, in base alle risorse
disponibili. [NdC]
14. P.M. Crittenden (1994), “IV Peering into black box: An exploratory treatise on the
development of self in young children”, in Disorders and Dysfunctions of the Self, 5, p. 79; P.M.
Crittenden, A. Landini (1992), Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento, tr. it. Raffaello
Cortina, Milano 2008.
15. P.M. Crittenden (1992), “Children’s Strategies for Coping with Adverse Home Environments:
An Interpretation Using Attachment Theory”, in Child Abuse and Neglect, 16(3), pp. 329-343.
16. Main, op. cit., 1990
17. Ibidem
18. Ibidem
19. E. Hesse, M. Main (2006), “Frightened, threatening, and dissociative parental behavior in low-
risk samples: Description, discussion and interpretations”, in Development and Psychopathology,
18, 2, pp. 306-343. Si veda anche E. Hesse, M. Main (2000), “Disorganized infant, child and adult
attachment: Collapse in behavioral and attentional strategies”, in Journal of the American
Psychoanalytic Association, 48(4), pp. 1097-1127.
20. M. Main, “Overview of The Field of Attachment”, op. cit.
21. E. Hesse, M. Main, 1995, op. cit., p. 310.
22. Abbiamo osservato ciò da un punto di vista biologico quando, nel capitolo 5, abbiamo parlato
di “immobilizzazione senza paura”. S.W. Porges (1995), “Orienting a difensive world: Mammalian
modi cations of our evolutionary heritage: A polyvagal theory”, in Psychophysiology, 32, pp. 301-
318.
23. M.H. Van Ijzendoorn, C. Schuengel, M. Bakermans-Kranenburg (1999), “Disorganized
attachment in early childhood: Meta-analysis of precursors, concomitants and Sequelae”, in
Development and Psychopathology, 11, pp. 225-249.
24. M.H. Van Ijzendoorn, op. cit.
25. N.W. Boris, M. Fueyo, C.H. Zeanah (1997), “The clinical assessment of attachment in children
under ve”, in Journal of The American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 36(2), pp. 291-
293; K. Lyons-Ruth (1996), “The role of disorganized early attachment patterns”, in Journal of
Consulting and Clinical Psychology, 64(1), p. 64.
26. S.W. Porges, J.A. Doussard-Roosvelt, A. Lourdes-Portales, S.I. Greenspan (1996), “Infant
regulation of the vagal ‘brake’ predicts child behavior problems: A psychobiological model of
social behavior”, in Developmental Psychobiology, 29(8), pp. 697-712.
27. L. Hertsgaard, M. Gunnar, M. Farrel Erickson, M. Nachmias (1995), “Adrenocortical
responses to the Strange Situation in infants with disorganized/disoriented attachment
relationships”, in Child Development, 66(4), pp. 1100-1106; G. Spangler, K.E. Grossmann (1993),
“Biobehavioral organization in securely and insecurely attached infants”, in Child Development,
64(5), pp. 1439-1450.
28. M. Main, E. Hesse (1990), op. cit. M.H. Van Ijzendoorn, C. Schuengel, M. Bakermans-
Kranenburg (1999), “Disorganized Attachment in Early Childhood”, op. cit.
29. B. Beebe, F.M. Lachmann (2002), Infant Research e trattamento negli adulti. Un modello
sistemico-dinamico delle interazioni, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2003.
30. R. Yehuda, J. Scheidler, M. Wainberg, K. Binder-Brynes, B.A. Duvdevani (1998),
“Vulnerability to post-traumatic stress disorder in adult offspring of Holocaust survivors”, in
American Journal of Psychiatry, 155(9), pp. 1163-1171. Vedi anche R. Yehuda, J. Scheidler, E.L.
Giller, L.G. Siever, K. Binder-Brynes (1998), “Relationship between post-traumatic stress disorder
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31. R. Yehuda, S. Mulherin Engel, S.R. Brand, J. Seckl, G.S. Berkowitz (2005), “Transgenerational
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33. C.M. Chemtob, Y. Nomura, R.A. Abramovitz (2008), “Impact of conjoined exposure to the
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37. K. Lyons-Ruth (2003), “The two-person construction of defenses: Disorganized attachment
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38. G. Whitmer (2001), “On the nature of dissociation”, in Psychoanalytic Quarterly, 70(4), pp.
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39. M.S. Ainsworth, J. Bowlby (1991), “An ethological approach to personality development”, in
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40. K. Lyons-Ruth, D. Jacobvitz (1999); M. Main (1993); K. Lyons-Ruth (2003), “Dissociation and
the parent-infant dialogue: A longitudinal perspective from attachment research”, in Journal of the
American Psychoanalytic Association, 51(3), pp. 883-911.
41. L. Dutra, J.F. Bureau, B. Holmes, A. Lyubchik, K. Lyons-Ruth (2009), “Quality of early care
and childhood trauma: A prospective study of developmental pathways to dissociation”, in Journal
of Nervous and Mental Disease, 197(6), p. 383. Si veda anche K. Lyons-Ruth, J.F. Bureau, B.
Holmes, A. Easterbrooks, N.H. Brooks (2013), “Borderline symptoms and suicidality/self-injury in
late adolescence: Prospectively observed relationship correlates in infancy and childhood”, in
Psychiatry Research, 206, n. 2-3, pp. 273-281.
42. Per la meta-analisi dei relativi contributi sull’attaccamento disorganizzato e il maltrattamento
infantile, vedi C. Schuengel, M.J. Bakermans-Kranenburg, M.H. van IJzendoorn (1999),
“Frightening maternal behavior linking unresolved loss and disorganized infant attachment”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 67(1), p. 54.
43. K. Lyons-Ruth, D. Jacobvitz (2003), “La disorganizzazione dell’attaccamento: perdite non
elaborate, violenza relazionale e cadute nelle strategie comportamentali e attentive”, in J. Cassidy,
R. Shaver (a cura di), Manuale dell’Attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche, tr. it. Fioriti,
Roma 2010, pp. 591-631. Si veda anche E. O’Connor, J.F. Bureau, K. McCartney, K. Lyons-Ruth
(2011), “Risks and outcomes associated with disorganized/controlling patterns of attachment at
age three years in the National Institute of Child Health & Human Development Study of Early
Child Care and Youth Development”, in Infant Mental Health Journal, 32(4), pp. 450-472; K.
Lyons-Ruth, J.F. Bureau, B. Holmes, A. Easterbrooks, N.H. Brooks (2013), “Borderline symptoms
and suicidality/self-injury in late adolescence: Prospectively observed relationship correlates in
infancy and childhood”, in Psychiatry Research, 206, 2-3, pp. 273-81.
44. Edward Estlin Cummings. Poeta, illustratore, pittore, saggista e drammaturgo americano,
morto nel 1962. Celebre il suo libro La stanza enorme (1922). Noto per un uso poco convenzionale
delle regole grammaticali e della punteggiatura, i suoi testi risultano spesso di dif cile
comprensione. La strofa di questa pagina è tratta dalla poesia Mi piace il mio corpo quand’è con il
tuo da Poesie, Scheiwiller, Milano 1961, traduzione di Mary De Rachewiltz. [NdC]
45. Disponiamo ancora di poche informazioni in merito ai fattori che in uenzano l’evoluzione di
queste anomalie regolatorie precoci, ma si suppone che gli eventi di vita, la qualità delle altre
relazioni e forse anche i fattori genetici possano apportare delle modi cazioni nel corso del tempo.
È, ovviamente, essenziale studiare in che misura una genitorialità coerente e consistente di bambini
con precoci storie di abuso e trascuratezza possa riaggiustare i sistemi biologici.
46. E. Warner, J. Koomar, B. Lary, A. Cook (2003), “Can the body change the score? Application
of sensory modulation principles in the treatment of traumatized adolescents in residential
settings”, in Journal of Family Violence, 28(7), pp. 729-738.
8

Intrappolati nella relazione


Il costo dell’abuso e della trascuratezza

Il “viaggio notturno in mare” è il viaggio nelle nostre parti interne che


sono divise, negate, sconosciute, indesiderate, espulse ed esiliate nei
diversi mondi sotterranei della consapevolezza… L’obiettivo di questo
viaggio è di riunirci con noi stessi. Questo ritorno a casa può essere
sorprendentemente doloroso, per no brutale. Per intraprenderlo,
dobbiamo necessariamente, e per prima cosa, accettare di non mandare
nulla in esilio.
STEPHEN COPE

Marilyn era una donna di circa trentacinque anni, alta, dall’aspetto


atletico, infermiera di sala operatoria in una città poco lontana. Da
qualche mese, aveva cominciato a giocare a tennis al club sportivo con
Michael, un vigile del fuoco di Boston. Preferiva stare alla larga dagli
uomini, ma con Michael – mi disse – si era sentita man mano sempre più a
proprio agio e aveva, quindi, accettato i suoi inviti a uscire per una pizza
dopo le partite. Parlavano di tennis, di lm, dei loro nipoti – niente di
troppo personale. Evidentemente, Michael apprezzava la sua compagnia,
ma Marilyn era convinta che fosse perché non la conosceva sul serio.
Un sabato sera di agosto, dopo il tennis e la pizza, Marilyn invitò
Michael a rimanere nel suo appartamento. Rimasti soli, Marylin iniziò a
sentirsi “nervosa e strana”. Ricordava di avergli chiesto di andare per
gradi, ma di non avere ben chiaro cosa fosse successo in seguito. Dopo un
paio di bicchieri di vino e una replica di Law & Order, pare si fossero
addormentati sul letto. Verso le due del mattino, Michael si girò nel
sonno. Il contatto del corpo di Michael col suo fece letteralmente
esplodere Marylin, che aggredì Michael con pugni, graf e morsi, urlando:
“Bastardo, sei un bastardo!”. Michael si era svegliato di soprassalto, aveva
afferrato in fretta i suoi vestiti ed era fuggito via. Dopo che Michael se ne
fu andato, Marilyn rimase seduta sul letto per ore, stordita per ciò che era
accaduto. Si sentiva profondamente umiliata e si odiava per quello che
aveva fatto: prese così la decisione di rivolgersi a me per affrontare il suo
terrore degli uomini e i suoi attacchi di rabbia, apparentemente
inspiegabili.
Il mio lavoro con i veterani di guerra mi aveva dato gli strumenti per
ascoltare storie dolorose come quella di Marilyn, senza cercare di arrivare
immediatamente alla soluzione del problema. La terapia inizia, spesso,
con un comportamento inspiegabile: un’aggressione a un danzato nel bel
mezzo della notte, il terrore quando qualcuno ti guarda negli occhi, il
ritrovarsi coperti di sangue dopo essersi tagliati con un pezzo di vetro o il
vomitare intenzionalmente dopo ogni pasto. Ci vogliono tempo e pazienza
per far sì che la verità, che si nasconde dietro questi sintomi, venga alla
luce.

Terrore e ottundimento
Durante il colloquio, Marilyn mi disse che Michael era il primo uomo che
aveva portato a casa negli ultimi cinque anni, ma non era la prima volta in
cui aveva perso il controllo quando un uomo passava la notte con lei. Mi
ripeteva di sentirsi sempre tesa e distaccata nel contatto diretto con un
uomo e che c’erano state altre volte in cui si era “ritrovata” nel suo
appartamento, rannicchiata in un angolo, incapace di ricordare con
chiarezza l’accaduto.
Marilyn, inoltre, riferiva di sentirsi come se “stesse facendo nta” di
avere una vita: fatta eccezione per il tennis al club e il suo lavoro in sala
operatoria, viveva sempre in uno stato di ottundimento. Qualche anno
prima, aveva scoperto di riuscire a smorzare l’obnubilamento tagliandosi
con una lametta di rasoio, salvo poi spaventarsi per aver realizzato di aver
bisogno di alzare sempre più il tiro per ottenere un qualche sollievo,
tagliandosi via via più profondamente e frequentemente. Aveva, quindi,
provato con l’alcol, ma questo comportamento le ricordava suo padre e il
suo bere fuori controllo, nendo così con il provare disgusto verso se
stessa. In sostituzione di ciò, aveva, dunque, pensato di dedicarsi al tennis,
praticandolo in modo fanatico, tutte le volte che poteva: in questo modo,
si sentiva viva.
Quando le chiesi del suo passato, Marilyn disse che “doveva aver avuto”
un’infanzia felice, ma, di fatto, ricordava molto poco di sé prima dei
dodici anni. Mi disse di essere stata un’adolescente timida, almeno no a
uno scontro violento con il padre alcolizzato, in seguito al quale, all’età di
sedici anni, era scappata di casa. Aveva continuato a vivere la sua vita
frequentando il college e ottenendo una laurea in infermieristica, senza
alcun aiuto da parte dei suoi genitori. Si vergognava del fatto che in quel
periodo andava a letto con chiunque, cosa che descriveva come “cercare
l’amore in tutti i luoghi sbagliati”.

Come spesso facevo con i nuovi pazienti, le chiesi di disegnare un


ritratto di famiglia, e, vedendo il suo disegno, (riprodotto qui sopra),
decisi di procedere con cautela.
Chiaramente Marilyn nascondeva ricordi terribili, ma non poteva
permettersi di riconoscere ciò che il suo stesso disegno rivelava. Aveva
disegnato una bambina sconvolta e terrorizzata, intrappolata in una sorta
di gabbia, minacciata non solo da tre gure terri canti – una delle quali
senza occhi – ma anche da un enorme pene eretto, proteso verso il suo
spazio. Eppure questa donna aveva appena detto che “doveva aver avuto”
un’infanzia felice.
Come ha scritto il poeta Auden:
La verità, come l’amore e il sonno,
risente degli approcci troppo intensi.1
Rifacendomi a questi versi, che chiamo “la regola di Auden”, non forzai
Marilyn a raccontarmi ciò che ricordava. Ho imparato, infatti, che non è
importante sapere ogni dettaglio del trauma vissuto dal paziente. Ciò che
è fondamentale, invece, è che i pazienti stessi imparino a tollerare di
sentire ciò che sentono e di sapere ciò che sanno. Raggiungere questo
traguardo può richiedere settimane o addirittura anni. Decisi di iniziare il
trattamento di Marilyn invitandola a entrare in un gruppo terapeutico già
formato, in cui potesse trovare supporto e accoglienza, prima di affrontare
il motivo della dif denza, della vergogna e della rabbia.
Come mi aspettavo, Marilyn arrivò alla prima riunione del gruppo
terrorizzata, proprio come la bambina del disegno della famiglia; rimase
silenziosa, senza entrare in contatto con nessuno. Avevo scelto questo
gruppo perché i membri si erano sempre mostrati disponibili ad accettare
nuovi partecipanti, magari troppo spaventati per parlare. Sapevano, per
loro stessa esperienza, che svelare i segreti è un processo graduale. Questa
volta, invece, con mia sorpresa, posero molte domande invadenti sulla vita
sentimentale di Marilyn, facendomi venire in mente il disegno della
bambina “sotto assedio”. Era quasi come se Marilyn avesse
involontariamente arruolato il gruppo per rimettere in scena il suo passato
traumatico. Ero, quindi, intervenuto per aiutarla a mettere alcuni con ni
su ciò di cui voleva parlare e, così, cominciò ad assestarsi.
Tre mesi dopo, Marilyn disse al gruppo di essere, talvolta, inciampata e
caduta durante il tragitto tra la metropolitana e il mio studio e di essere
preoccupata per la sua vista, che sembrava iniziare a “perdere colpi”:
durante le partite di tennis, infatti, le era capitato di mancare numerose
palle. Pensai di nuovo al suo disegno e, in particolare, alla bambina
sconvolta dai grandi occhi terrorizzati. Perdere la funzionalità in qualche
parte del corpo poteva essere una sorta di “sintomo di conversione”, con
cui i pazienti esprimono i loro con itti? Parecchi soldati delle due guerre
mondiali avevano sofferto di paralisi, non riconducibili a lesioni siche, e
mi ero imbattuto in casi di “cecità isterica” in Messico e in India.
Eppure, come medico, non mi sentivo di concludere, senza ulteriori
valutazioni, che tutto ciò fosse “tutto nella sua testa”. Inviai Marilyn ai
colleghi del Massachusetts Eye and Ear In rmary e chiesi loro di svolgere
un’indagine diagnostica molto approfondita . Diverse settimane dopo,
arrivò l’esito dei test: Marilyn soffriva di un lupus eritematoso alla retina,
una malattia autoimmune che stava consumando la sua vista, e
necessitava, dunque, di un trattamento immediato. Fui colto da un certo
sgomento: Marilyn era la terza persona, quell’anno, alla quale, dopo i miei
sospetti su una possibile storia di incesto, veniva diagnosticata una
malattia autoimmune, una malattia, cioè, in cui il corpo inizia ad attaccare
se stesso.
Dopo essermi assicurato che Marilyn ricevesse le cure mediche
adeguate, mi consultai con due dei miei colleghi del Massachusetts
General, gli psichiatri Scott Wilson e Richard Kradin, che dirigevano il
laboratorio di immunologia. Raccontai loro la storia di Marilyn, mostrai il
suo disegno e chiesi loro di collaborare a una ricerca. Acconsentirono,
dedicandosi allo studio in modo generoso e gratuito, accollandosi anche le
ingenti spese dell’intera valutazione immunologica. Raccogliemmo le
adesioni di dodici donne con storie di incesto, che non stavano
assumendo farmaci, e quelle di dodici donne mai traumatizzate e, a loro
volta, non in cura farmacologica: un gruppo di controllo
straordinariamente dif cile da trovare (Marilyn non era inclusa nel
campione; generalmente non chiediamo ai nostri pazienti di partecipare
alle nostre ricerche).
Una volta terminato lo studio e analizzati i dati, Richard riscontrò, nelle
donne con storie di incesto, anomalie cellulari CD45 nel rapporto tra RA
e RO, rispetto al gruppo di donne non traumatizzate. Le cellule CD45
sono le “cellule memoria” del sistema immunitario. Alcune di esse,
chiamate cellule RA, sono attivate da pregresse esposizioni a tossine;
rispondono velocemente, quindi, a minacce ambientali precedentemente
incontrate. Le cellule RO, al contrario, sono una sorta di riserva per nuove
s de; si attivano per affrontare minacce al corpo mai affrontate in
precedenza. Il rapporto tra RA e RO indica, quindi, l’equilibrio esistente
tra le cellule che riconoscono le tossine già note e le cellule che si attivano
di fronte a nuove informazioni. Nei pazienti con storia di incesto, la
proporzione di cellule RA, pronte ad attivarsi, è più alta del normale.
Questo rende il sistema immunitario ipersensibile alla minaccia e incline a
mettere in atto una difesa anche quando non è necessario, nendo anche
per attaccare le cellule del proprio corpo.
Il nostro studio dimostrò che, a un livello profondo, i corpi delle vittime
di incesto hanno dif coltà a distinguere il pericolo dalla sicurezza. Ciò
signi ca che l’impronta del trauma passato non consiste solo in percezioni
distorte di informazioni provenienti dall’esterno; l’organismo stesso ha un
problema nel capire come sentirsi al sicuro. Il passato è impresso non solo
nella loro mente e nelle erronee interpretazioni di eventi innocui (per
esempio, l’inveire di Marilyn contro Michael, che l’aveva accidentalmente
toccata nel sonno), ma anche nel nucleo del loro essere: la sicurezza del
proprio corpo.2

Una mappa del mondo sbrindellata


Come fanno le persone a imparare che cosa è sicuro e che cosa non lo è,
ciò che è dentro e ciò che è fuori, a cosa ci si dovrebbe opporre e cosa,
invece, può essere accettato? Il modo migliore per comprendere l’impatto
degli abusi e della trascuratezza sui minori è quello di ascoltare ciò che
persone come Marilyn possono insegnarci. Approfondendo la sua
conoscenza, mi fu chiaro che aveva una visione del tutto personale di
come funziona il mondo.
Da bambini siamo al centro del nostro universo e interpretiamo tutto ciò
che accade da una vantaggiosa posizione egocentrica. Se i nostri genitori o
i nonni ci ripetono continuamente che siamo i più belli e i più bravi del
mondo, non mettiamo in dubbio il loro giudizio: siamo convinti di essere
esattamente come dicono. E, in fondo in fondo, qualunque altra cosa ci
dovesse capitare di imparare su di noi, ci portiamo sempre dietro quella
sensazione: siamo, fondamentalmente, adorabili. Di conseguenza, ci
sentiremmo profondamente offesi se qualcuno, in seguito, dovesse
trattarci male. Non ci sembrerà vero perché non suona familiare: non è
come a casa. Ma se, durante l’infanzia, siamo stati abusati o gravemente
trascurati, o siamo cresciuti in una famiglia in cui la sessualità è stata
vissuta come qualcosa di disgustoso, la nostra mappa interna conterrà un
messaggio diverso. Il senso di noi stessi sarà caratterizzato da disprezzo e
umiliazione, saremo più propensi a pensare: “Lui (o lei) mi conosce a
fondo, sa come sono” e, se maltrattati, non protesteremo.
Il passato di Marilyn aveva plasmato la sua visione di qualsiasi relazione.
Era convinta che gli uomini fossero non interessati ai sentimenti altrui e
che se ne andassero via, una volta ottenuto quello che volevano. Ma
neanche delle donne ci si poteva dare. Erano troppo deboli per
difendersi, vendevano i loro corpi per fare in modo che gli uomini si
prendessero cura di loro e, in caso di dif coltà, non avrebbero alzato un
dito per aiutarla. Questa visione del mondo si palesava negli atteggiamenti
di Marilyn nei confronti dei suoi colleghi di lavoro: era sospettosa verso
chi si mostrava gentile con lei e redarguiva i colleghi alla minima
inosservanza del codice infermieristico. Quanto a se stessa, si percepiva
come un seme cattivo, una persona fondamentalmente tossica, che faceva
del male a chi le stava vicino.
Tempo fa, quando incontravo pazienti come Marilyn, ero solito cercare
di contrastare le loro convinzioni, provando ad aiutarli a vedere il mondo
in un modo più positivo e più essibile. Un giorno, una donna di nome
Kathy era seduta proprio davanti a me. Un membro del gruppo era
arrivato tardi per un guasto all’auto e Kathy si era sentita subito in colpa:
“La settimana scorsa avevo notato che la tua auto era malmessa; sapevo
che avrei dovuto offrirti un passaggio”. Il suo atteggiamento autocritico
nì per raggiungere un livello così elevato da indurla, qualche minuto
dopo, ad attribuirsi la responsabilità della violenza sessuale subita: “Me la
sono cercata: avevo sette anni e volevo bene al mio papà. Volevo che
anche lui mi volesse bene, e ho fatto quello che lui voleva che facessi. È
stata colpa mia”. Intervenni per rassicurarla, dicendole: “Ma, insomma,
eri solo una bambina, doveva essere tuo padre a mantenere i con ni”.
Kathy si girò verso di me. “Sai, Bessel”, disse, “so quanto sia importante
per te essere un buon terapeuta, così quando fai commenti stupidi come
questo, di solito ti ringrazio molto. Dopo tutto, io sono sopravvissuta a un
incesto, sono stata educata a prendermi cura dei bisogni di uomini adulti e
insicuri. Ma, dopo due anni, mi do abbastanza di te da poterti dire che
questi commenti mi fanno sentire malissimo. Sì, è vero; io mi biasimo
istintivamente per tutto il male che accade alla gente intorno a me. So che
non è razionale e mi sento veramente stupida per quello che provo, ma lo
faccio. Quando cerchi di portarmi a essere più ragionevole, nisco per
sentirmi ancora più sola e isolata, e mi si conferma la sensazione che
nessuno al mondo potrà mai capire che cosa si prova a essere me”.
L’avevo sinceramente ringraziata per il suo feedback e, da allora, ho
cercato di non dire più ai miei pazienti che non avrebbero dovuto sentirsi
nel modo in cui si sentivano. Kathy mi aveva insegnato che avevo una
responsabilità più grande: dovevo aiutarli a ricostruire la loro mappa
interna del mondo.
Come ho scritto nel capitolo precedente, i ricercatori che si occupano di
attaccamento hanno dimostrato che i nostri primi caregiver non solo ci
nutrono, ci vestono e ci consolano quando siamo abbattuti, ma plasmano
anche il modo in cui il nostro cervello in rapido sviluppo percepisce la
realtà. Le interazioni con i nostri caregiver ci insegnano ciò che è sicuro e
ciò che è pericoloso, su chi possiamo contare e chi, invece, ci deluderà; in
altri termini, quello che ci serve per soddisfare i nostri bisogni. Questa
informazione è incorporata nella trama e nel tessuto dei nostri circuiti
cerebrali e costituisce il modello di come pensiamo a noi stessi e al mondo
che ci circonda. Queste mappe interiori diventano molto stabili nel
tempo.
Ciò non signi ca, tuttavia, che le mappe non possano essere modi cate
dall’esperienza. Un rapporto d’amore profondo, soprattutto durante
l’adolescenza, quando il cervello attraversa, ancora una volta, un periodo
di crescita esponenziale, può effettivamente trasformarci. Lo stesso vale
per la nascita di un bambino: i nostri bambini, spesso, ci insegnano come
amare. Gli adulti che sono stati abusati o trascurati da bambini possono
ancora imparare la bellezza dell’intimità e della ducia reciproca o
possono fare una profonda esperienza spirituale, che li apre a un universo
più grande. Al contrario, mappe in precedenza “incontaminate” possono
essere così alterate da un’aggressione o da uno stupro da dirottare tutte le
strade verso il terrore o la disperazione. Poiché tali risposte non sono
ragionevoli, non possono, in quanto tali, essere cambiate semplicemente
riformulando le credenze irrazionali di fondo. Le nostre mappe del
mondo sono codi cate nel cervello emotivo e cambiarle signi ca dover
riorganizzare la parte del sistema nervoso centrale, di cui parlerò nella
parte di questo libro dedicata al trattamento.
Tuttavia, imparare a riconoscere pensieri e comportamenti irrazionali
può essere un importante primo passo. Persone come Marilyn, spesso,
scoprono che le loro teorie non sono sovrapponibili a quelle dei loro
amici. Se sono fortunate, amici e colleghi spiegheranno loro, a parole,
invece che con le azioni, che la loro s ducia e il loro odio per se stessi
rendono dif cile la collaborazione. Ma ciò accade raramente, e
l’esperienza di Marilyn ne era un esempio: dopo aver aggredito Michael,
quest’ultimo non aveva mostrato alcun interesse a chiarire e Marilyn aveva
perso sia un amico sia il suo compagno di tennis preferito. È a questo
punto che persone intelligenti e coraggiose come Marilyn, che riescono a
tenere un assetto curioso e determinato per provare a far fronte alle loro
ripetute scon tte, iniziano a cercare aiuto.
Generalmente, il cervello razionale può spegnere il cervello emotivo,
purché le nostre paure non ci dirottino (per esempio, la paura per essere
stati fermati dalla polizia può trasformarsi istantaneamente in gratitudine
verso l’agente, che ci avverte di un incidente più avanti). Ma, nel momento
in cui ci sentiamo intrappolati, infuriati o ri utati, siamo portati ad
attivare vecchie mappe e a seguirne le direzioni. Il cambiamento inizia
quando impariamo a “padroneggiare” il nostro cervello emotivo. Ciò
signi ca cominciare a osservare e tollerare le sensazioni di crepacuore e
stretta allo stomaco, che esprimono infelicità e umiliazione. Solo dopo
aver imparato a sopportare ciò che accade dentro di noi, si può iniziare a
essere amici di quelle emozioni che mantengono le nostre mappe sse e
immutabili, piuttosto che a estinguerle.

Imparare a ricordare
Circa un anno dopo l’ingresso di Marilyn nel gruppo, un altro membro,
Mary, chiese il permesso di parlare di ciò che le era accaduto quando
aveva tredici anni. Mary lavorava come guardia carceraria e aveva avuto
una relazione sadomaso con un’altra donna. Voleva che il gruppo fosse a
conoscenza del suo passato, nella speranza che i membri diventassero più
tolleranti nei confronti delle sue reazioni esagerate, che la portavano a
chiudersi in se stessa o a saltare alla minima provocazione. Riuscendo, a
fatica, a far venire fuori le parole, Mary ci disse che una sera, quando
aveva tredici anni, era stata violentata dal fratello maggiore e da un
gruppo di suoi amici: rimase incinta e la madre la fece abortire in casa, sul
tavolo della cucina. Il gruppo, con molta sensibilità, si sintonizzò sul
racconto di Mary, offrendole un grande supporto nei momenti di pianto
disperato. Ero profondamente commosso dalla loro empatia: stavano
consolando Mary nello stesso modo in cui dovevano aver desiderato
essere confortati durante la condivisione, in passato, dei loro traumi.
Quasi allo scadere del tempo a disposizione, Marilyn chiese di poter
disporre di qualche minuto ancora per parlare di ciò che aveva provato
durante la seduta. Il gruppo acconsentì e, così, disse: “Ascoltando questa
storia, mi chiedo se io sia stata, a mia volta, abusata sessualmente”. Devo
essere rimasto a bocca aperta: sulla base del disegno della famiglia, ero
sempre stato convinto che fosse, almeno in parte, consapevole di essere
stata abusata; aveva reagito come una vittima di incesto nei confronti di
Michael e si comportava costantemente come se il mondo fosse un luogo
terri cante.
Eppure, anche avendo disegnato una bambina abusata sessualmente,
Marilyn o, almeno, il suo sé cognitivo, verbale, non aveva alcuna idea di
cosa le fosse realmente accaduto. Il suo sistema immunitario, i suoi
muscoli e il suo sistema di paure ne avevano memoria, ma nella sua mente
cosciente mancava una storia che potesse comunicare l’esperienza. Il
trauma veniva riattualizzato nella vita, ma non aveva una narrativa cui fare
riferimento. Come vedremo nel capitolo 12, la memoria traumatica
differisce in molti modi da un ricordo normale e coinvolge molti livelli
della mente e del cervello.
Attivata dalla storia di Mary e sollecitata dagli incubi che ne seguirono,
Marilyn iniziò una terapia individuale con me, cominciando a occuparsi
del suo passato. In un primo momento, visse ondate di intenso e dilagante
terrore. Provò a interrompere la terapia per diverse settimane, ma quando
capì che non poteva più dormire e che avrebbe dovuto chiedere dei
permessi sul lavoro, riprese le sedute. Come mi disse più tardi: “Il mio
unico criterio per capire se una situazione sia dannosa o meno coincide
con la sensazione espressa da queste parole ‘se non ne vengo fuori, tutto
ciò nirà per uccidermi”.
Cominciai a insegnare a Marilyn alcune tecniche che la aiutavano a
calmarsi, come prestare attenzione alla respirazione profonda – dentro e
fuori, dentro e fuori, al ritmo di sei respiri al minuto – notando le
sensazioni nel corpo. Questa tecnica si combinava con il tamburellare i
punti di agopressione, cosa che la aiutò a non sentirsi sopraffatta.
Lavorammo anche con la mindfulness: imparare a tenere la sua mente
viva, mentre consentiva al corpo di sentire le sensazioni che temeva,
permise a Marilyn di fare un passo indietro e osservare la sua esperienza,
piuttosto che essere immediatamente dirottata dalle sue emozioni. Aveva
cercato di smorzare o eliminare questi sentimenti con l’alcol e con
l’esercizio sico, ma, ora, aveva iniziato a sentirsi abbastanza sicura per
poter ricordare quello che le era successo da bambina. Così come aveva
guadagnato padronanza delle sue sensazioni siche, cominciava anche a
essere in grado di capire la differenza tra passato e presente: ora, se si
fosse sentita, nella notte, s orata dalla gamba di qualcun altro, avrebbe
potuto essere in grado di riconoscere che si trattava della gamba di
Michael, la gamba del suo bel compagno di tennis, che aveva invitato nel
suo appartamento. Quella gamba non apparteneva a nessun altro e il suo
tocco non signi cava che qualcuno stesse cercando di molestarla. Ciò le
permise di sapere, in modo totale e sico, di essere una donna di
trentaquattro anni, non una bambina.
Quando Marilyn, nalmente, cominciò ad accedere ai suoi ricordi,
emersero dei ashback della carta da parati di camera sua. Si rese conto,
allora, che quella carta rappresentava il punto su cui si era concentrata
durante la violenza subita dal padre, all’età di otto anni. Le molestie
l’avevano spaventata ben oltre la sua capacità di sopportazione e, per
questo, le aveva cancellate dalla sua memoria. Dopo tutto, doveva
continuare a vivere con quest’uomo, suo padre, colui che l’aveva
aggredita. Marilyn ricordò di essersi rivolta a sua madre per chiedere aiuto
e protezione, ma, correndo da lei per cercare di nascondersi affondando il
viso nella sua gonna, aveva ricevuto solo un debole abbraccio. A volte sua
madre rimaneva in silenzio; altre volte piangeva o rimproverava
aspramente Marilyn perché “faceva arrabbiare papà così tanto”. La
bambina terrorizzata non trovava nessuno che la proteggesse, nessuno che
le offrisse forza o rifugio.
Come scrisse Roland Summit nel suo classico studio The Child Sexual
Abuse Accomodation Syndrome: “Iniziazione, intimidazione,
stigmatizzazione, isolamento, impotenza e colpevolizzazione dipendono
dalla realtà terri cante dell’abuso sessuale che il bambino ha subito.
Qualsiasi tentativo da parte del bambino di svelare il segreto viene
neutralizzato dalla cospirazione del silenzio e dal discredito degli adulti.
‘Non preoccuparti per questo tipo di cose’; ‘Non potrebbero mai
accadere nella nostra famiglia’. ‘Come puoi anche solo aver pensato una
cosa così terribile?’; ‘Non farmi mai sentire una cosa del genere di
nuovo!’. Il bambino, nella maggior parte dei casi, non chiede e non
racconta mai”.3
Dopo quarant’anni che faccio questo lavoro, mi scopro ancora
regolarmente a pensare, quando i pazienti mi raccontano della loro
infanzia: “È incredibile”. Essi stessi sono, spesso, increduli così come lo
sono io: com’è possibile che i genitori in iggano simili torture e infondano
un simile terrore al proprio glio? Alcuni pazienti insistono sull’idea di
essersi inventati le cose oppure di stare esagerando. Tutti si vergognano
per quello che è successo loro, si colpevolizzano, arrivando a credere di
aver subito cose terribili in quanto persone orribili.
Marilyn cominciava ora a chiedersi come quella bambina inerme avesse
imparato a “spegnersi” e a diventare accondiscendente a qualsiasi cosa le
venisse chiesto di fare. Aveva fatto di tutto per sparire: sentendo i passi del
padre nel corridoio che portava alla sua camera da letto, “andava con la
testa fra le nuvole”. Un’altra mia paziente, con un’esperienza simile, fece
un disegno che descriveva perfettamente il funzionamento di questo
processo. Quando suo padre iniziava a toccarla, faceva in modo di
scomparire; galleggiava no al sof tto, guardando verso il basso un’altra
bambina nel letto.4 Era contenta di non essere veramente lei – era
qualcun’altra a essere molestata.
Guardando queste teste, separate dai loro corpi da una nebbia
impenetrabile, mi si aprirono letteralmente gli occhi sull’esperienza della
dissociazione, molto comune tra le vittime di incesto. Marilyn stessa, più
tardi, si rese conto di come, anche da adulta, avesse continuato a
galleggiare sul sof tto, durante le situazioni di intimità sessuale. Nel
periodo in cui era stata più attiva sessualmente, un partner le aveva detto
quanto fosse stata straordinaria a letto in una certa occasione, tanto da
aver fatto fatica a riconoscerla: aveva per no parlato in un modo diverso.
Di solito, non si ricordava quello che era successo, ma, altre volte, si
arrabbiava e diventava aggressiva. Non aveva consapevolezza di chi fosse
dal punto di vista sessuale, e così, pian piano, rinunciò agli uomini,
almeno no a Michael.

Odiare la propria casa


I bambini non scelgono i loro genitori, né possono capire che i genitori
possano, semplicemente, essere troppo depressi, infuriati, o dissociati per
stare lì con loro o che il comportamento dei genitori possa aver poco a che
vedere con loro. I bambini non hanno alternativa, se non organizzarsi per
sopravvivere all’interno delle famiglie che hanno. A differenza degli
adulti, non hanno altre autorità a cui rivolgersi per chiedere aiuto: i
genitori sono le autorità. Non possono af ttare un appartamento o andare
a vivere con qualcun altro: la loro sopravvivenza concreta è incatenata ai
loro caregiver. I bambini percepiscono – anche se non sono esplicitamente
minacciati – che parlare agli insegnanti delle percosse o delle molestie
potrebbe comportare delle punizioni. Pertanto, concentrano piuttosto le
loro energie sul non pensare a quanto è successo e sul non sentire gli
strascichi del terrore e del panico nel loro corpo. Poiché non possono
tollerare di sapere ciò che hanno vissuto, non possono neanche capire che
la loro rabbia, il terrore o il collasso hanno a che fare con quell’esperienza.
Non parlano, ma agiscono e gestiscono i loro sentimenti infuriandosi,
spegnendosi o facendo ricorso all’accondiscendenza e alla s da.
I bambini sono anche programmati per essere fondamentalmente fedeli
ai loro caretaker, anche se sono stati abusati da essi. Il terrore aumenta il
bisogno di attaccamento, anche se la fonte di conforto è, al contempo, la
fonte di terrore. Non ho mai incontrato un bambino di età inferiore ai
dieci anni, torturato in casa (con ossa rotte e pelle bruciata) che, avendone
la possibilità, non sceglierebbe di stare con la sua famiglia piuttosto che
andare in adozione. Naturalmente, il rimanere aggrappato al proprio
aggressore non è una prerogativa dell’infanzia. Molti ostaggi hanno pagato
la cauzione per i loro aggressori, hanno espresso il desiderio di sposarli o
hanno avuto rapporti sessuali con loro; le vittime di violenza domestica,
spesso, “coprono” i loro abusanti. I giudici mi dicono come si sentano
umiliati nel cercare di proteggere le vittime di violenza domestica
emanando ordini restrittivi, per poi scoprire che molte delle vittime, in
segreto, permettono ai loro partner di tornare a casa.
C’è voluto molto tempo prima che Marilyn fosse pronta a parlare del
suo abuso: non era disposta a venir meno alla lealtà verso la sua famiglia e,
nel suo profondo, sentiva di avere ancora bisogno di loro per proteggersi
dalle sue paure. Il prezzo di questa fedeltà si declina in insostenibili
sentimenti di solitudine, disperazione e di inevitabile rabbia, legata
all’impotenza. La rabbia che non ha un oggetto viene reindirizzata contro
se stessi, in forma di depressione, odio verso di sé e condotte autolesive.
Uno dei miei pazienti mi disse: “È come odiare casa tua, la tua cucina, le
pentole e le padelle, il tuo letto, le tue sedie, il tavolo, i tuoi tappeti”.
Nulla ci fa sentire al sicuro, men che meno il nostro corpo.
Imparare a darsi è una s da importante. Un’altra delle mie pazienti,
una maestra di scuola, il cui nonno l’aveva violentata ripetutamente prima
dei sei anni, mi scrisse la seguente e-mail: “Ho cominciato a rimuginare
sulla pericolosità dell’aprirmi con te e, in mezzo al traf co, sulla via di casa
dopo la nostra seduta, appena imboccata la Strada 124, mi sono resa
conto di aver infranto la regola di non attaccarmi a te e ai miei studenti”.
Durante la seduta successiva, mi disse di essere stata violentata dal suo
tutor di laboratorio al college. Le chiesi se avesse cercato aiuto e sporto
denuncia. Rispose: “Non riuscivo ad attraversare la strada verso
l’ambulatorio. Avevo disperatamente bisogno di aiuto, ma stando ferma lì,
ho sentito nel profondo che sarei stata ancora più male e che tutto ciò
sarebbe stato irrimediabilmente vero. Ho dovuto, dunque, nascondere
tutto ciò, ai miei genitori e a chiunque altro”.
Dopo averle detto di essere preoccupato per ciò che le stava
succedendo, mi scrisse un’altra e-mail: “Sto cercando di ricordare a me
stessa che non ho fatto nulla per meritare questo trattamento. Non credo
di aver mai avuto nessuno che mi guardasse in questo modo e che mi
dicesse di essere preoccupato per me e tengo a tutto ciò come a un tesoro:
l’idea di valere la preoccupazione di qualcuno che rispetto e che capisce
quanto io stia strenuamente combattendo in questo momento”.
Per sapere chi siamo – per avere un’identità – dobbiamo sapere (o
almeno sentire di sapere) che cosa è e che cosa era “reale.” Dobbiamo
osservare ciò che vediamo intorno a noi e identi carlo correttamente;
dobbiamo anche essere in grado di aver ducia nei nostri ricordi e di
distinguerli dalla nostra immaginazione. Perdere la capacità di fare queste
distinzioni è un segno di ciò che lo psicoanalista William Niederland
chiamò “assassinio dell’anima”. La cancellazione della consapevolezza e la
coltivazione della negazione sono, spesso, essenziali per la sopravvivenza,
ma il prezzo è che si perda la traccia di chi si è, di ciò che si sente e di
coloro in cui si può avere ducia.5
Ripetere il trauma
Un ricordo del trauma infantile di Marilyn riaf orò in un sogno, in cui
sentiva di stare per essere soffocata e di non riuscire a respirare. Un
tovagliolo bianco da tè le era stato avvolto intorno alle mani e veniva poi
sollevata con l’asciugamano intorno al collo, in modo da non poter
toccare terra con i piedi. Si svegliò in preda al panico, pensando di stare
sicuramente per morire. Il suo sogno mi ricordò gli incubi dei veterani di
guerra: le immagini dei volti e delle parti del corpo che avevano visto in
battaglia erano precise e immutate. Questi sogni erano così terri canti da
indurli a cercare di non addormentarsi la notte; solo il sonnecchiare di
giorno, non associato alle imboscate notturne, li faceva sentire quasi al
sicuro.
Durante questa fase della terapia, Marilyn fu più volte sommersa da
immagini e sensazioni, legate al sogno del soffocamento. Si ricordò di
quando era seduta in cucina, a quattro anni, con gli occhi gon , mal di
collo, e il naso sanguinante, mentre il padre e il fratello la deridevano
chiamandola stupida, stupida bambina. Un giorno Marilyn disse: “Mentre
mi stavo lavando i denti, ieri sera, sono stata sopraffatta dalla sensazione
di essere bastonata. Ero come un pesce fuor d’acqua, muovevo
violentemente il mio corpo, come se dovessi lottare contro la mancanza di
aria. Singhiozzavo e soffocavo, mentre mi lavavo i denti. Il panico mi
saliva in petto con la sensazione di essere bastonata. Ho dovuto usare
tutta la forza che avevo per non urlare ‘NONONONONONO’ mentre
ero lì, davanti al lavandino”. Dopodiché, Marilyn era andata a letto e si
era addormentata, svegliandosi però, come un orologio, ogni due ore, per
tutta la notte.
Il trauma non viene memorizzato come un racconto con un inizio, una
parte centrale e una ne. Come verrà illustrato in dettaglio nei capitoli 11
e 12, le memorie, inizialmente, riaf orano come nel caso di Marilyn: come
ashback che contengono frammenti di esperienza, immagini isolate,
suoni e sensazioni siche che, inizialmente, non hanno altro contenuto
oltre alla paura e al panico. Marilyn, da bambina, non aveva avuto modo
di dare voce all’indicibile, e non avrebbe comunque fatto alcuna
differenza: non c’era nessuno ad ascoltare.
Come molti sopravvissuti ad abusi infantili, Marilyn aveva mostrato il
potere della forza vitale, la voglia di vivere e di riprendersi la propria vita,
l’energia che contrasta l’annientamento del trauma. A poco a poco, capii
che l’unica cosa che permette di curare il trauma è il rispetto per la
dedizione alla sopravvivenza, che ha reso i miei pazienti capaci di
sopportare gli abusi e, in seguito, di tollerare le buie notti dell’anima che,
inevitabilmente, si incontrano sul cammino per la guarigione.

1. W.H. Auden (1941), The Double Man. Random House, New York. [Wystan Hugh Auden (1907-
1973), gura di spicco degli anni Trenta e uno dei più importanti poeti inglesi del Novecento. La
sua produzione artistica è stata in uenzata da Freud, soprattutto per ciò che concerne la lettura
psicoanalitica della società contemporanea e delle sue disfunzionalità. Marx ha ispirato il suo
impegno politico nei movimenti di sinistra e la sua concezione dell’arte al servizio dell’impegno
politico stesso. Per Auden, il poeta deve essere un portavoce degli oppressi, contro ogni forma di
dittatura. NdC]
2. S.N. Wilson, B.A. van der Kolk, J. Burbridge, R. Fisler, R. Kradin (1999), “Phenotype of blood
lymphocytes in PTSD suggests chronic immune activation”, in Psychosomatics, 40(3), pp. 222-225.
Vedi anche M. Uddin, A.E. Aiello, D.E. Wildman, K.C. Koenen, G. Pawelec, R. de los Santos, E.
Goldmann, S. Galea (2010), “Epigenetic and immune function pro les associated with Post-
traumatic Stress Disorder”, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States
of America, 107(20), pp. 9470-9475; M. Altemus, M. Cloitre, F.S. Dhabhar (2003), “Enhanced
cellular immune response in women with PTSD related to childhood abuse”, in American Journal
of Psychiatry, 160(9), pp. 1705-1707; e N. Kawamura, Y. Kim, N. Asukai (2001), “Suppression of
cellular immunity in men with a past history of Post-traumatic Stress Disorder”, in American
Journal of Psychiatry, 158(3), pp. 484-486.
3. R. Summit (1983), “The child sexual abuse accomodation syndrome”, in Child Abuse & Neglect,
pp. 177-193.
4. Uno studio che utilizzava la fMRI presso l’Università di Losanna, in Svizzera, ha dimostrato che
quando le persone hanno delle esperienze extracorporee, e guardano a se stesse dall’alto, come se
fossero sul sof tto, stanno attivando la corteccia temporale superiore del cervello. O. Blanke, C.
Mohr, C.M. Michel, A. Pascual-Leone, P. Brugger, M. Seeck, T. Landis, e G. Thut (2005), “Linking
out-of-body experience and self processing to mental own-body imagery at the temporoparietal
junction”, in Journal of Neuroscience, 25(3), pp. 550-557. Vedi anche O. Blanke, T. Metzinger
(2009), “Full-body illusions and minimal phenomenal selfhood”, in Trends in Cognitive Sciences,
13(1), pp. 7-13.
5. Una bambina, abusata sessualmente da un adulto, è incastrata in una situazione confusa e
caratterizzata da un con itto di lealtà: rivelare l’abuso signi ca tradire e fare del male al
perpetratore (un adulto da cui probabilmente dipende in termini di sicurezza e protezione), ma
nascondere l’abuso aumenta il suo senso di vergogna e di vulnerabilità. Di un simile dilemma si è
occupato per la prima volta Sándor Ferenczi nel 1933. L’articolo di riferimento, del 1949, è “The
confusion of tongues between the adult and the child: The language of tenderness and the
language of passion”, in International Journal of Psychoanalysis, 30(4), pp. 225-230. Tale tema è
stato affrontato, nel tempo, da numerosi autori.
9

Cosa c’entra l’amore


con tutto questo?

Iniziazione, intimidazione, stigmatizzazione, isolamento, impotenza e


vergogna dipendono dalla terri cante realtà dell’abuso sessuale infantile…
“Non preoccuparti di cose come questa; non sono mai accadute nella
nostra famiglia”. “Come puoi aver pensato una cosa così terribile?”, “Non
farmi sentire una cosa simile un’altra volta”.  I bambini, in media, non
chiedono e non raccontano mai.
ROLAND SUMMIT,1 The Child Sexual Abuse Accomodation Syndrome

In che modo pensiamo a persone come Marilyn, Mary e Kathy, e in che


modo pensiamo di poterle aiutare? L’inquadramento della loro situazione,
la diagnosi che formuliamo, determinerà la scelta del trattamento. Pazienti
come queste ricevono, spesso, cinque o sei diagnosi diverse durante il loro
iter psichiatrico. Se i medici si focalizzano sulle variazioni dell’umore,
saranno etichettate come bipolari e verranno loro prescritti il litio e il
valproato. Se i professionisti sono maggiormente attratti dalla
disperazione, verrà posta una diagnosi di depressione maggiore e saranno
curate con antidepressivi. Se il dottore si concentra sull’agitazione e sulla
dif coltà di attenzione, queste pazienti potranno essere categorizzate
come ADHD e trattate con il Ritalin o altri stimolanti. E se, in ne,
all’équipe clinica capita di raccogliere una storia traumatica e il paziente
fornisce effettivamente in modo volontario questa importante
informazione, allora potrebbe essere diagnosticato un PTSD. Nessuna di
queste diagnosi sarà completamente scorretta e nessuna di queste
descriverà in modo esaustivo chi sono realmente questi pazienti e di che
cosa soffrono.
La psichiatria, in quanto specializzazione della medicina, aspira a
de nire la malattia mentale con la stessa precisione, lasciatemelo dire, di
una diagnosi di cancro al pancreas o di infezione da streptococco dei
polmoni. Data la complessità della mente, del cervello e dei sistemi umani
di attaccamento, tuttavia, non siamo ancora riusciti ad accedere a un tipo
di precisione simile. Comprendere cosa c’è di “sbagliato” nelle persone è
di solito più una questione di assetto mentale del medico (ed è relativa a
ciò che le compagnie assicurative sono disposte a pagare) piuttosto che un
fatto oggettivo, veri cabile.
I primi seri tentativi di creare un manuale sistematico di diagnosi
psichiatrica risalgono al 1980, con la pubblicazione del Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali, l’elenco uf ciale di tutte le
malattie mentali, riconosciuto dall’American Psychiatric Association
(APA). L’introduzione al DSM-III avvertiva esplicitamente che le
categorie in esso contenute non erano così suf cientemente precise da
poter essere utilizzate in ambito forense o per scopi assicurativi.
Nondimeno, il manuale divenne gradualmente uno strumento di enorme
potere: le compagnie assicurative richiedevano una diagnosi DSM per
poter procedere ai rimborsi; no a poco tempo fa i nanziamenti di
ricerca erano basati su diagnosi DSM, e i programmi universitari si
fondano tutt’oggi sulle categorie DSM. Le etichette DSM si sono fatte
strada anche nella cultura popolare. Milioni di persone sanno che Tony
Soprano2 soffre di attacchi di panico e depressione e che Carrie Mathison
di Homeland lotta con un disturbo bipolare. Il manuale è diventato
un’industria virtuale, che ha procurato all’American Psychiatric
Association ben più di 100 milioni di dollari.3 Ma la vera domanda è: ha
avuto bene ci simili per i pazienti, ai quali dovrebbe, in realtà, servire?
Una diagnosi psichiatrica ha conseguenze importanti: la diagnosi guida il
trattamento e seguire la terapia sbagliata può avere esiti disastrosi.
Un’etichetta diagnostica, inoltre, si attacca alle persone per il resto della
loro vita e in uenza profondamente il modo in cui esse si de niscono. Ho
incontrato tantissimi pazienti che mi hanno detto di “essere” bipolari o
borderline o di “avere” il PTSD, come se fossero stati condannati a
rimanere in una prigione sotterranea, proprio come il Conte di Monte
Cristo.
Nessuna di queste diagnosi tiene conto del talento originale che molti di
questi pazienti sviluppano o delle energie creative che hanno messo
insieme per sopravvivere. Queste diagnosi, troppo spesso, sono meri
elenchi di sintomi, che fanno sì che pazienti come Marilyn, Kathy e Mary
vengano viste come donne senza controllo, che hanno bisogno di essere
“aggiustate”.
Il dizionario de nisce la diagnosi come: “a. L’atto o il processo di
identi cazione o di determinazione della natura o della causa della
malattia o della sofferenza, attraverso la valutazione della storia del
paziente, degli esami, e della revisione dei dati di laboratorio. b.
L’opinione derivante da tale valutazione”.4 In questo capitolo e nel
prossimo, prenderemo in considerazione il punto d’incontro tra le
diagnosi uf ciali e ciò di cui i pazienti soffrono veramente, e discuteremo
di come i miei colleghi e io abbiamo cercato di cambiare il modo di
diagnosticare pazienti con storie di trauma cronico.

Come si raccoglie una storia traumatica?


Nel 1985, ho cominciato a collaborare con la psichiatra Judith Herman, il
cui primo libro, Father-Daughter Incest, era stato appena pubblicato.
Lavoravamo entrambi al Cambridge Hospital (uno degli ospedali
universitari di Harvard) e, condividendo entrambi un interesse rispetto al
modo in cui il trauma aveva condizionato le vite dei nostri pazienti,
avevamo iniziato a incontrarci regolarmente, scambiandoci ri essioni.
Eravamo colpiti da quanti pazienti, diagnosticati come affetti da Disturbo
borderline di personalità (BPD), ci raccontavano storie orribili della loro
infanzia. Il BPD è caratterizzato da relazioni dipendenti e altamente
instabili, repentini cambiamenti d’umore e comportamento
autodistruttivo, come automutilazioni e ripetuti tentativi di suicidio. Allo
scopo di scoprire se c’era, di fatto, una relazione tra il trauma infantile e il
BPD, mettemmo a punto uno studio scienti co, inviando una richiesta di
nanziamento, prontamente ri utata dal National Institute of Mental
Health.
Imperterriti, Judy e io decidemmo di nanziare di persona lo studio,
trovando un alleato in Chris Perry, il direttore scienti co del Cambridge
Hospital, che il National Institute of Mental Health aveva sovvenzionato
per studiare il BPD e altre diagnosi simili, i cosiddetti Disturbi di
personalità, in pazienti reclutati presso il Cambridge Hospital. Perry aveva
raccolto un’enorme quantità di dati preziosi su questi soggetti, ma non
aveva mai indagato la presenza di abuso o trascuratezza nell’infanzia. Pur
non nascondendo il suo scetticismo in merito alla nostra proposta, si
mostrò molto generoso con noi, organizzando le interviste con
cinquantacinque pazienti dell’ambulatorio ospedaliero, e si disse
d’accordo sul procedere a un confronto tra i nostri risultati e i documenti
del vasto archivio che aveva già raccolto.
La prima domanda a cui Judy e io dovevamo trovare una risposta era:
come si raccoglie una storia traumatica? Non si può chiedere di punto in
bianco a un paziente: “Sei stato molestato da bambino?”, oppure “Tuo
padre ti picchiava?”, dato che qualsiasi persona, indistintamente, si
vergogna dei traumi che ha subito. Pensammo così di costruire
un’intervista, il Traumatic Antecedents Questionnaire (TAQ).5 L’intervista
iniziava con una serie di domande semplici: “Dove vivi?” e “Con chi
vivi?”; “Chi paga i conti e chi fa da mangiare e pulisce?”, e proseguiva con
domande via via più complesse: “Su chi fai af damento nella vita di tutti i
giorni?”, oppure “Quando sei malato, chi fa la spesa o ti porta dal
dottore?”; “Con chi parli quando sei agitato?”. In altre parole, chi ti
supporta emotivamente e sicamente? Alcuni pazienti ci rispondevano in
modo sorprendente: “il mio cane” o “il mio terapeuta”, o “nessuno”.
Il questionario proseguiva con domande simili, riguardanti l’infanzia:
“Chi viveva in casa? Quanto spesso uscivi? Chi si prendeva
principalmente cura di te?”. Molti pazienti riportavano frequenti
traslochi, con cambi di scuola nel bel mezzo dell’anno. Molti di loro
avevano dei caregiver primari che erano stati in prigione, in ospedali
psichiatrici, o arruolati nell’esercito. Altri si erano spostati di casa in casa o
avevano vissuto con una serie di parenti diversi.
La sezione successiva del questionario era dedicata alle relazioni
infantili: “Chi, della tua famiglia, era particolarmente affezionato a te?”,
“Chi ti trattava come una persona speciale?”. A questa seguiva una
domanda critica, che, per quanto ne sappia, non era stata mai posta prima
all’interno di uno studio scienti co: “C’era qualcuno con cui ti sentivi al
sicuro durante la tua infanzia?”. Uno su quattro dei pazienti intervistati
non ricordava nessuno con cui si fosse sentito al sicuro da bambino.
Abbiamo veri cato la risposta “nessuno” nei nostri fogli di lavoro senza
commentare, ma eravamo scioccati. Immaginiamo di essere un bambino e
di non disporre di alcuna fonte di sicurezza e di farci strada nel mondo
senza protezione e senza essere visti.
Le domande continuavano: “Chi dettava le regole in casa e faceva
rispettare la disciplina?”; “Come erano educati i bambini? Parlando con
loro, sgridandoli, sculacciandoli, picchiandoli, rinchiudendoli?”, “In che
modo i tuoi genitori risolvevano i loro con itti?”. A quel punto, le “chiuse
erano uf cialmente aperte”6 e molti pazienti fornivano volontariamente
informazioni dettagliate sulla loro infanzia. Una donna aveva assistito allo
stupro della sorella minore; un’altra ci raccontò di avere avuto il suo
primo rapporto sessuale a otto anni, con suo nonno. Uomini e donne ci
raccontavano di rimanere svegli tutta la notte ad ascoltare il rumore degli
schianti sui mobili e le urla dei genitori; una giovane donna era scesa in
cucina e aveva trovato sua madre in una pozza di sangue. Altri
raccontavano di essere stati dimenticati alle scuole elementari o di tornare
a casa e non trovare nessuno, trascorrendo poi la notte da soli. Una
donna, che era poi diventata cuoca, aveva imparato a cucinare,
preparando i pranzi per la sua famiglia, dopo che la madre era stata
imprigionata a seguito di una condanna per droga. Un’altra aveva nove
anni quando si era trovata ad afferrare e stabilizzare il volante
dell’autovettura perché sua madre, ubriaca, stava zigzagando bruscamente
su un’autostrada a quattro corsie, durante l’ora di punta.
I nostri pazienti non avevano avuto la possibilità di andarsene o di
scappare in quei momenti; non avevano avuto nessuno a cui rivolgersi o
un posto dove nascondersi. In qualche modo, avevano dovuto gestire il
proprio terrore e la propria disperazione. Probabilmente, andavano a
scuola il mattino seguente, cercando di far nta che tutto andasse bene.
Judy e io ci rendemmo conto che i problemi del gruppo BPD, la
dissociazione e la dipendenza disperata da chiunque potesse essere una
fonte d’aiuto, erano, probabilmente, cominciati come un modo di gestire
le emozioni sopraffacenti e l’inevitabile brutalità.
Dopo le nostre interviste, Judy e io codi cammo le risposte dei pazienti,
il che signi ca tradurle in numeri per le analisi statistiche, e Chris Perry le
aggiunse a tutte le altre informazioni su questi pazienti, immagazzinate nel
computer centrale di Harvard. Un sabato mattina di aprile ci lasciò un
messaggio, chiedendoci di andare nel suo uf cio, dove trovammo una
folta pila di stampati, in cima ai quali Chris aveva posizionato una striscia
di Gary Larson,7 riguardante un gruppo di scienziati che studiavano i
del ni ed erano confusi da quegli strani suoni “aw blah es span yol”.8 I
risultati lo avevano convinto che senza comprendere il linguaggio del
trauma e dell’abuso non si può effettivamente capire il BPD.
Come abbiamo riportato in seguito sull’American Journal of Psychiatry,
l’81% dei pazienti con diagnosi di BPD al Cambridge Hospital aveva una
storia grave di abuso infantile e/o di trascuratezza; nella stragrande
maggioranza dei casi, l’abuso iniziava prima dei sette anni.9 La scoperta
era particolarmente importante, perché suggeriva che l’impatto dell’abuso
dipende, almeno in parte, dall’età in cui inizia. Più tardi, la ricerca di
Martin Teicher al MacLean Hospital dimostrò che diverse forme di abuso
hanno effetti diversi su varie aree cerebrali, in differenti stadi dello
sviluppo.10 Anche se, da allora in poi, numerosi studi scienti ci hanno
replicato i nostri risultati,11 ricevo ancora regolarmente delle pubblicazioni
scienti che in revisione, in cui si ritrovano frasi come “si ipotizza che i
pazienti borderline possano avere storie di trauma nell’infanzia”. Cosa
deve succedere perché un’ipotesi acquisti lo status di fatto
scienti camente provato?
Il nostro studio aveva confermato chiaramente le conclusioni di John
Bowlby.
Quando i bambini si sentono pervasivamente arrabbiati o in colpa o sono cronicamente
spaventati di essere abbandonati, raccontano di questi vissuti in modo onesto; perché è la loro
esperienza. Quando, per esempio, i bambini temono l’abbandono, non si tratta di una
controreazione alle loro spinte omicidarie interne; lo temono perché sono stati abbandonati
sicamente o psicologicamente; o sono stati ripetutamente minacciati di essere abbandonati.
Quando i bambini sono arrabbiati in modo pervasivo, è perché sono stati ri utati e trattati con
durezza. Quando i bambini vivono un con itto interno intenso rispetto ai loro vissuti di
rabbia, è perché, probabilmente, l’espressione di questi vissuti è vietata o, anche, pericolosa.

Bowlby notò che, quando i bambini sono costretti a ripudiare le


esperienze drammatiche che hanno vissuto, emergono problemi gravi,
come “una s ducia cronica nei riguardi delle altre persone, un’inibizione
della curiosità, un non fare af damento sulle proprie capacità percettive, e
una tendenza a pensare che tutto sia irreale”.12 Come vedremo, tutto ciò
ha delle importanti implicazioni per il trattamento.
Il nostro studio ci ha fatto guardare oltre l’impatto di particolari eventi
terri ci – il focus della diagnosi di PTSD –, portandoci a osservare gli
effetti a lungo termine della brutalizzazione e della trascuratezza
all’interno delle relazioni primarie di accudimento. A questo punto, si
pone un altro fondamentale quesito: quali sono le terapie ef caci per le
persone che hanno una storia di abuso e, in particolare, per chi ha
frequenti idee suicidarie e ricorre ad atti autolesivi?

Autolesionismo
Durante il tirocinio, fui chiamato per tre notti di seguito intorno alle tre
per medicare una donna che si tagliava il collo con qualunque tipo
d’oggetto le capitasse per le mani. Mi raccontava, talvolta con una punta
di trionfo, che tagliarsi la faceva sentire molto meglio. Non mi ero mai
chiesto il perché. Perché alcune persone gestiscono la loro agitazione
giocando tre set di tennis o bevendo un martini doppio, mentre altre si
tagliano le braccia con una lama di rasoio? Il nostro studio aveva
dimostrato che avere una storia di abuso sico e sessuale nell’infanzia
costituisce un forte predittore di ripetuti tentativi di suicidio e di atti
autolesivi come il cutting.13 Mi chiedevo se i pensieri suicidari tormentosi
iniziassero molto presto nella vita e se la speranza di morire o il
danneggiare se stessi costituissero una forma di conforto, di progetto di
fuga. In altri termini, l’in iggersi il dolore può costituire un tentativo
disperato di avere un qualche senso di controllo?
Il database di Chris Perry aveva aggiunto le informazioni su tutti i
pazienti che erano stati trattati negli ambulatori dell’ospedale,
comprendendo anche i referti sulla suicidarietà e sul comportamento
autodistruttivo. Dopo tre anni di terapia, approssimativamente i due terzi
dei pazienti erano migliorati in modo evidente. Ora la domanda era: quali
membri del gruppo bene ciarono della terapia e quali, invece,
continuarono ad avere idee suicidarie e autodistruttive? Attraverso il
confronto tra il comportamento attuale dei pazienti e le risposte date
all’intervista TAQ, potevamo fruire di qualche dato interessante. I
pazienti che rimanevano autodistruttivi ci avevano raccontato di non
essersi mai sentiti al sicuro con nessuno da bambini; ci avevano riferito di
essere stati abbandonati, sballottati da un posto all’altro e generalmente
lasciati al loro destino.
Giunsi alla conclusione che, se si dispone del ricordo di essersi sentiti al
sicuro durante i primi anni di vita, le tracce degli affetti più precoci
possono essere riattivate da relazioni sintonizzate da adulti, qualora si
realizzino nella vita attuale o all’interno di un buon assetto terapeutico.
Tuttavia, se manca il ricordo precoce dell’essersi sentiti amati e al sicuro, i
recettori del cervello che rispondono alla tenerezza umana possono
semplicemente non essersi sviluppati.14 Se così fosse, in che modo le
persone possono imparare a calmarsi e a sentirsi centrate nel loro corpo?
E, di nuovo, tutto ciò ha un’importante implicazione per la terapia.
Pertanto, ritornerò su questa domanda nella quinta parte di questo
volume, dedicata al trattamento.

Il potere della diagnosi


Il nostro studio confermava, inoltre, l’esistenza di una popolazione
traumatizzata piuttosto differente dai veterani di guerra e dalle vittime di
incidenti, per i quali era stata creata la diagnosi di PTSD. Persone come
Marilyn e Kathy, così come i pazienti che Judy e io avevamo studiato e i
bambini degli ambulatori clinici del MMCH, di cui ho parlato nel
capitolo 7, non necessariamente ricordano i loro traumi (uno dei criteri
per la diagnosi di PTSD) o, almeno, non sono tormentati da ricordi
speci ci del loro abuso, ma continuano a comportarsi come se fossero
ancora in pericolo. Vanno da un estremo all’altro; hanno dif coltà a stare
sul compito e si accaniscono continuamente su se stessi e sugli altri. In
qualche misura, le loro dif coltà si sovrappongono a quelle dei veterani di
guerra, pur presentando differenze sostanziali, relative al fatto che la loro
infanzia traumatica abbia impedito loro di sviluppare alcune delle
capacità mentali che i soldati adulti possedevano prima che accadesse
l’evento traumatico.
Su questa base, alcuni di noi15 andarono a consulto da Robert Spitzer,
che, dopo aver diretto la stesura del DSM-III, stava rivedendo il manuale.
Ascoltò attentamente ciò che avevamo da dirgli. A suo parere, era molto
probabile che i clinici, che trascorrevano giorni e giorni a trattare un tipo
speci co di popolazione di pazienti, potessero sviluppare una competenza
considerevole di quel particolare tipo di sofferenza e, così, ci suggerì di
mettere a punto uno studio, una cosiddetta prova di campo, per
confrontare i problemi di gruppi differenti di individui traumatizzati.16
Spitzer mi af dò la responsabilità del progetto. Per prima cosa,
costruimmo una rating scale17 comprendente tutti i differenti sintomi di
trauma riportati dalla letteratura scienti ca; in un secondo momento,
intervistammo 525 adulti in cinque aree del paese, per appurare se
particolari tipi di popolazione soffrissero di diverse costellazioni di
problemi. La nostra popolazione si divideva in tre gruppi: quelli con storie
di abuso sico e sessuale nell’infanzia, vittime recenti di violenza
domestica e persone che erano state recentemente esposte a disastri
naturali.
C’erano evidenti differenze fra i tre gruppi, in particolare tra quelli che
si collocavano alle estremità dello spettro: vittime di abuso infantile e
adulti sopravvissuti a disastri naturali. Gli adulti che erano stati abusati da
bambini avevano, spesso, dif coltà di concentrazione, spiegabili con
l’essere sempre al limite, ed erano pieni di odio verso se stessi. Avevano
enormi dif coltà nel coinvolgersi in relazioni intime, oscillando spesso da
rapporti sessuali promiscui, ad alto rischio e insoddisfacenti, a un totale
spegnimento sessuale. Avevano, inoltre, evidenti “buchi” mnesici,
comportamenti autolesivi e una miriade di problemi di salute. I
sopravvissuti a disastri naturali riportavano raramente sintomi simili.
Si erano formati gruppi di lavoro speci ci, che si occupavano di
suggerire revisioni relative a ciascuna diagnosi principale per la nuova
edizione del DSM. Presentai i risultati del lavoro sul campo al nostro
gruppo sul PTSD per il DSM-IV e, in diciannove contro due, votammo
per creare una nuova diagnosi per le vittime da trauma relazionale:
“disturbo da stress estremo, non altrimenti speci cato” (DESNOS), o, in
breve, “PTSD complesso”.18 Con immenso stupore, la diagnosi, che il
nostro gruppo aveva approvato in modo così schiacciante, non compariva
nel volume nale. Nessuno di noi era stato consultato.
Era una tragica esclusione: in questo modo, un grande numero di
pazienti non avrebbe potuto essere accuratamente diagnosticato, e clinici
e ricercatori non sarebbero stati in grado di sviluppare – in modo
empirico – dei trattamenti adeguati. Non si può creare un trattamento per
una condizione medica che non esiste. Non disporre di una diagnosi
metteva i terapeuti di fronte a un serio dilemma: come si trattano le
persone che stanno affrontando le conseguenze di un abuso, di un
tradimento, di un abbandono, dal momento che siamo indotti a porre
diagnosi di Depressione, Attacchi di panico, Disturbo bipolare o di
Personalità borderline, che non descrivono esattamente la loro reale
condizione?
Le conseguenze dell’abuso e della trascuratezza da parte della gura
primaria di attaccamento sono enormemente più comuni e complesse
dell’impatto di un uragano o di un incidente motociclistico. Chi ha deciso
di dare questa forma attuale al nostro sistema diagnostico, pertanto, ha
deliberatamente pensato di non riconoscere tale evidenza. A oggi, dopo
vent’anni e quattro successive revisioni, il DSM e l’intero sistema che si
basa su di esso omette la realtà delle vittime di abuso e trascuratezza
infantile, esattamente come è stata per anni ignorata la terribile situazione
dei veterani, prima che il PTSD fosse introdotto nel 1980.

L’epidemia nascosta
Come si trasforma un neonato, con tutte le sue promesse di vita e le sue
in nite capacità, in un barbone trentenne ubriaco? Come spesso accade
con le grandi scoperte, l’internista Vincent Felitti si imbatté, per caso,
nella risposta a questa domanda. Nel 1985, Felitti dirigeva il Kaiser
Permanente’s Department of Preventive Medicine a San Diego, che, al
tempo, poteva contare sul più vasto programma di screening del mondo.
Gestiva, inoltre, un ambulatorio sull’obesità, dove veniva utilizzata una
tecnica chiamata “digiuno assoluto integrato”, nalizzata a una drastica
perdita di peso senza l’ausilio della chirurgia. Un giorno, un’aiuto-
infermiera di 28 anni si palesò nel suo studio. Felitti accolse la
convinzione della donna che l’obesità costituisse il suo problema
principale e la inserì nel suo programma. Dopo 51 settimane, il suo peso
era sceso da 185 a 59 kg.
Quando Felitti la rivide per la visita di controllo dopo alcuni mesi,
tuttavia, aveva riguadagnato molto più peso di quanto si pensi sia
biologicamente possibile in così poco tempo. Cosa era accaduto? Il suo
corpo snello aveva attratto un collega, che cominciò a irtare con lei,
proponendole di fare sesso. A quel punto, corse a casa a mangiare: la
donna si abbuffava durante il giorno e mangiava da sonnambula la notte.
Felitti sottolineò questa reazione esagerata e la paziente rivelò una lunga
storia di incesto con suo nonno.
Era solo il secondo caso di incesto che Felitti aveva incontrato in ventitré
anni di pratica medica, ma, dopo solo dieci giorni, gli toccò sentire
un’altra storia simile. Indagando più accuratamente, Felitti e la sua équipe
scoprirono in modo scioccante che la maggior parte delle pazienti obese
aveva, in comorbidità, una storia di abusi sessuali infantili, oltre a una
marea di problemi familiari.
Nel 1990, Felitti presentò, ad Atlanta, al congresso della North
American Association for the Study of Obesity, i dati delle interviste dei
primi 286 pazienti del suo gruppo. Le reazioni ciniche di alcuni esperti lo
colsero di sorpresa: perché credeva a quelle pazienti? Non pensava forse
che avrebbero potuto addurre qualsiasi spiegazione per dare una
giusti cazione alle loro vite fallimentari? Un epidemiologo del Center for
Disease Control and Prevention (CDC), tuttavia, lo incoraggiò a
intraprendere uno studio ancora più esteso, costruito per la popolazione
generale, e lo invitò a un incontro con un piccolo gruppo di ricercatori al
CDC. Ne risultò la monumentale indagine sull’Adverse Childhood
Experience (oggi conosciuta come studio ACE), una collaborazione tra il
CDC e il Kaiser Permanente, che vedeva Robert Anda e Vincenzo Felitti
come ricercatori principali.
Più di cinquantamila pazienti del Kaiser arrivavano ogni anno al
Dipartimento di Medicina preventiva per un controllo generale e, nel
corso del processo, compilavano un questionario medico esteso. Felitti e
Anda impiegarono più di un anno a inserire dieci nuove domande,19 per
coprire in modo puntuale categorie de nite di esperienze infantili
sfavorevoli, che includessero l’abuso sico e sessuale, la trascuratezza
sica ed emotiva, il disfunzionamento familiare, come, per esempio,
l’avere avuto genitori divorziati, con malattie mentali, piuttosto che
genitori drogati o in prigione. Chiesero, inoltre, a 25.000 pazienti
consecutivi se fossero disposti a dare informazioni circa gli eventi della
propria infanzia; 17.421 risposero di sì. Le loro risposte furono poi
confrontate con i dettagliati referti medici di tutti i pazienti, che il Kaiser
conservava.
Lo studio ACE rivelò che le esperienze di vita traumatiche durante
l’infanzia e l’adolescenza erano molto più comuni di quanto ci si
aspettasse. I partecipanti allo studio erano per lo più bianchi, appartenenti
alla classe media, di mezza età, con una buona formazione, con una
situazione nanziaria abbastanza stabile da poter contare su
un’assicurazione medica: eppure soltanto un terzo dei partecipanti non
aveva riportato esperienze infantili negative.
– Uno su dieci soggetti aveva risposto sì alla domanda: “Un genitore o un
altro adulto le ha mai detto parolacce, l’ha insultata o umiliata?”.
– Più di ¼ dei soggetti rispose sì alle domande: “Uno dei suoi genitori l’ha
spesso o molto spesso spinta, afferrata, schiaffeggiata o le ha lanciato
qualcosa contro?” e “Uno dei suoi genitori spesso o molto spesso l’ha
colpita così forte da lasciarle segni o lesioni?”. In altre parole, più di ¼
della popolazione degli Stati Uniti è stata abusata sicamente in modo
ripetuto durante l’infanzia.
– Alle domande “Un adulto o una persona più grande di lei di almeno 5
anni ha mai toccato il suo corpo in una maniera sessuale?” e “Un adulto
o una persona più grande di lei di almeno 5 anni ha mai tentato di avere
un qualche tipo di rapporto sessuale con lei (orale, anale o vaginale)?”, il
28% delle donne e il 18% degli uomini rispose in modo affermativo.
– Una su otto persone rispose in modo affermativo alle domande: “Da
bambino ha visto qualche volta sua madre, spesso o molto spesso,
spinta, afferrata, schiaffeggiata o che qualcosa le venisse lanciato
contro?” e “Da bambino ha visto qualche volta, spesso o molto spesso,
sua madre presa a calci, botte, colpita con un pugno o con qualcosa di
molto duro?”.20
A ogni risposta positiva veniva attribuito un valore uno, conducendo a
un possibile punteggio ACE che andava da zero a dieci. Per esempio, una
persona che aveva sperimentato frequenti abusi verbali, che aveva una
madre alcolizzata e i cui genitori avevano divorziato, avrebbe ottenuto un
punteggio ACE di 3. Dei due terzi dei soggetti che avevano riportato
esperienze negative, l’87% aveva un punteggio di 2 o più. Uno su sei dei
soggetti aveva un punteggio ACE di 4 o più.
In breve, Felitti e la sua squadra avevano scoperto che le esperienze
negative sono correlate tra loro, anche se di solito sono prese in esame
separatamente. Le persone, solitamente, non crescono in una casa in cui
l’unico problema è avere un fratello in prigione, mentre tutto il resto
procede nel migliore dei modi. Non vivono in famiglie in cui le madri
sono regolarmente picchiate, mentre il resto della vita è tutto rose e ori.
Gli eventi di abuso non sono mai fatti isolati e, per ogni esperienza
negativa aggiuntiva riportata, lo scotto da pagare, in termini di danno
conseguente, aumenta.
Felitti e il suo gruppo trovarono che gli effetti del trauma infantile si
palesano, in prima istanza, a scuola. Più della metà dei soggetti che
avevano ottenuto un punteggio ACE di 4 o più riportavano di avere avuto
problemi di apprendimento o comportamentali, in confronto con il 3% di
quelli che avevano ottenuto un punteggio pari a/di zero. Quando i
bambini crescono, infatti, non “diventano troppo grandi per” gli effetti
delle loro esperienze precoci. Come scrive Felitti, “le esperienze
traumatiche si perdono, spesso, nel tempo e sono cancellate dalla
vergogna, dal segreto, dai tabù sociali”, ma lo studio rivelava che l’impatto
del trauma era pervasivo nella vita adulta di questi pazienti. Per esempio,
un alto punteggio ACE risultava correlato con un alto assenteismo sul
posto di lavoro, con problemi economici e scarse entrate nel corso della
vita.
Le sofferenze personali hanno esiti devastanti. All’aumentare del
punteggio ACE, aumenta in modo marcato la presenza di depressione
cronica in età adulta. Per chi ottiene un punteggio ACE di 4 o più, la sua
prevalenza è del 66% per le donne e del 35% per gli uomini, confrontata
con un tasso generale del 12% per chi ottiene un punteggio ACE di zero.
Anche la probabilità di essere sotto antidepressivi o antidolori ci aumenta
in proporzione. Come ha puntualizzato Felitti, trattare oggi esperienze
che sono accadute 50 anni fa implica dei costi enormi. I farmaci
antidepressivi e antidolori ci costituiscono una porzione signi cativa della
nostra spesa sanitaria nazionale, che appare in rapido aumento21 (ironia
della sorte, la ricerca dimostrò che pazienti depressi, senza una precedente
storia di abuso e trascuratezza, tendono a rispondere molto meglio agli
antidepressivi rispetto a pazienti con un retroterra di abuso e
trascuratezza).22
I tentativi di suicidio autodichiarati salgono esponenzialmente con
l’aumentare dei punteggi ACE. Da un punteggio zero a uno di 6, la
percentuale di tentativi di suicidio sale di circa il 5,000%. Più una persona
si sente isolata e non protetta e più la morte appare come l’unica via di
uscita. Se pensiamo che costituisce notizia di prima pagina il collegamento
tra fattori ambientali e l’aumento del 30% di rischio per certe forme di
cancro, ci rendiamo conto ancora di più di quanto queste cifre
drammatiche siano trascurate.
Come parte del loro iniziale esame medico, ai partecipanti veniva posta
la seguente domanda: “Si è mai considerato un alcolista?”. Persone con
un punteggio ACE di 4 avevano una probabilità sette volte maggiore di
essere alcolisti da adulti rispetto a soggetti che avevano un punteggio pari
a zero. Per coloro che avevano un punteggio di sei o maggiore, la
probabilità di fare uso di droga per via endovenosa (IV) era del 4,600%
maggiore rispetto a chi otteneva un punteggio pari a zero.
Alle donne era chiesto se avessero subito degli stupri in età adulta. A un
punteggio ACE pari a zero corrispondeva una prevalenza di eventi di
stupro pari al 5%; a un punteggio di quattro o più la prevalenza si
assestava al 33%. Perché ragazze abusate o trascurate hanno una così alta
probabilità di essere stuprate più tardi nella vita? Le risposte a queste
domande hanno delle implicazioni che vanno ben oltre lo stupro. Per
esempio, numerosi studi hanno dimostrato che ragazze che, durante la
loro crescita, sono state testimoni di violenza domestica presentano un
rischio molto più elevato di nire esse stesse in relazioni violente, mentre
per i ragazzi che hanno assistito a violenza domestica il rischio che si
trasformino in abusanti delle loro partner è sette volte maggiore.23 Più del
12% dei partecipanti allo studio aveva assistito al pestaggio della propria
madre.
La lista dei comportamenti ad alto rischio previsti dal punteggio ACE
includeva fumo, obesità, gravidanza indesiderata, partner sessuali
multipli, e malattie sessualmente trasmissibili. Il prezzo da pagare in
termini di maggiori problemi di salute, in ne, era considerevole: coloro
che avevano ottenuto un punteggio ACE di 6 o più avevano una
probabilità del 15% o maggiore, rispetto a coloro che avevano ottenuto
un punteggio ACE di zero, di soffrire correntemente di una delle
principali cause di morte negli Stati Uniti, come il disturbo polmonare
cronicamente ostruttivo (COPD), ischemia cardiaca, malattie epatiche.
Queste persone avevano una probabilità due volte maggiore di soffrire di
cancro e quattro volte maggiore di avere un en sema. Lo stress che –
persistentemente – rimane nel corpo, continua a farsi sentire per diverso
tempo.
Quando i problemi sono in realtà delle soluzioni
A dodici anni di distanza da quel trattamento, Felitti vide nuovamente la
donna, la cui enorme perdita e l’altrettanto enorme riacquisto di peso
avevano dato origine alla sua ricerca. Gli raccontò di aver fatto, in seguito,
ricorso alla chirurgia bariatrica e di aver cominciato a pensare al suicidio,
dopo aver perso 43 kg. Era stata ricoverata cinque volte in ospedale
psichiatrico e aveva subito tre cicli di elettroshock, nel tentativo di ridurre
l’ideazione suicidaria. Felitti sottolinea che l’obesità, che è considerata un
problema rilevante di salute pubblica, può rappresentare, per molti, una
soluzione personale. Consideriamo le implicazioni: se si sbaglia nel fornire
a un paziente la soluzione a un suo problema, non soltanto interromperà,
con tutta probabilità, il trattamento, come accade spesso nei programmi
di disintossicazione, ma possono af orare problemi ulteriori.
Una donna vittima di stupro disse a Felitti: “Chi è in sovrappeso viene
trascurato, ed è così che ho bisogno di sentirmi”.24 Il peso può proteggere
anche gli uomini. Felitti ricorda due guardie della prigione di Stato nel
suo programma sull’obesità. Avevano prontamente riguadagnato il peso
che avevano perso, perché si sentivano molto più al sicuro “da grandi e
grossi” nei bracci della prigione. Un altro paziente maschio divenne obeso
dopo il divorzio dei suoi e in seguito al suo trasferimento dal nonno,
violento alcolista. Spiegò: “Non è che io mangiassi perché avessi fame o
cose del genere. Era proprio un modo di sentirmi sicuro. Fino alla ne
della scuola materna venivo picchiato continuamente. Quando ho messo
peso non è più successo”.
Il gruppo di studio ACE arrivò a questa conclusione: “Sebbene si
comprenda appieno che ogni adattamento (per esempio, fumare, bere,
fare uso di droga, obesità) sia pericoloso per la salute, è molto dif cile da
mollare. Va, inoltre, tenuto presente che molti rischi di salute sul lungo
termine potrebbero, altresì, costituire dei bene ci soggettivi nel breve
termine. Impariamo continuamente dai nostri pazienti quali siano i
bene ci di questi “rischi di salute”. “L’idea che il problema sia la
soluzione, sebbene sia disturbante per alcuni, risiede nel fatto che forze
opposte coesistono ordinariamente nei sistemi biologici… ciò che si vede,
il problema presente, rappresenta probabilmente solo il marcatore del
problema reale, sepolto nel tempo, cancellato dai segreti, dalla vergogna e,
talvolta, dall’amnesia del paziente, nonché, spesso, dal disagio del
clinico”.

L’abuso infantile:
il più grave problema di salute pubblica negli Stati Uniti
Quando Robert Anda presentò i risultati dello studio ACE, non riusciva a
trattenere le lacrime. Nel corso della sua carriera al CDC aveva lavorato in
diverse aree ad alto rischio, come la ricerca sul tabacco e la salute
cardiovascolare. Ma, quando i risultati dello studio ACE cominciarono ad
apparire sullo schermo del suo computer, si rese conto di essersi
imbattuto nella più grave e costosa questione di salute pubblica degli Stati
Uniti: l’abuso infantile. Aveva calcolato che i costi totali superavano quelli
per il cancro e per le malattie cardiache e che riuscire a estirpare l’abuso
infantile in America avrebbe ridotto il tasso generale di depressione di più
della metà, l’alcolismo di due terzi e il suicidio, l’uso di droga per via
endovenosa e la violenza domestica di tre quarti.25 Avrebbe, inoltre, avuto
un effetto potente sulle prestazioni sul posto di lavoro e largamente
diminuito il bisogno di incarcerazioni.
Nel 1964, la pubblicazione del resoconto del ministro della sanità su
fumo e salute pubblica aveva inaugurato campagne mediche e legali
lunghe decenni, cambiando la vita quotidiana e le aspettative di salute sul
lungo termine di milioni di persone. Il numero di fumatori americani
scese dal 42% fra gli adulti nel 1965 al 19% nel 2010 e si stimava che
approssimativamente 800.000 morti di cancro al polmone fossero state
evitate tra il 1975 e il 2000.26
Lo studio ACE non ebbe, tuttavia, un simile effetto. Malgrado
l’esistenza di studi di follow-up e la pubblicazione di ricerche scienti che
in tutto il mondo, la realtà quotidiana dei bambini come Marilyn e di
quelli degli ambulatori clinici e dei centri di terapia residenziale nel paese
rimaneva e rimane pressoché la medesima. Ancora adesso, i bambini sono
sottoposti ad alte dosi di agenti psicotropi, che li rendono più trattabili ma
che danneggiano la loro capacità di provare piacere e curiosità, di crescere
e svilupparsi emotivamente e intellettualmente e di diventare membri
effettivi della società.
1. Ronald Summit, psichiatra, ha sviluppato, nel 1983, un modello diagnostico, chiamato The Child
Sexual Abuse Accomodation Syndrome (Sindrome di adattamento all’abuso sessuale infantile), che si
compone di cinque cluster: –segretezza rispetto all’abuso, spesso determinata dalla minaccia di
ripercussioni se svelato;–impotenza emotiva a opporsi o a ribellarsi;–intrappolamento e
adattamento: il bambino non ha vie di scampo rispetto al subire l’abuso e, di conseguenza, impara
a adattarvisi;–svelamento ritardato, con ittuale e non convinto dell’abuso;–ritrattazione delle
accuse, da parte del bambino, nel tentativo di ristrutturare la famiglia, qualora il disvelamento
dovesse costituire una minaccia di disgregazione familiare. [NdC]
2. Personaggio della serie televisiva I soprano. Boss italo-americano dell’organizzazione mafiosa
immaginaria dei Di Meo, creato dallo sceneggiatore e regista David Chase. [NdC]
3. G. Greenberg (2013), The Book of Woe: The DSM and the Unmaking of Psychiatry, Penguin,
New York.
4. http://www.thefreedictionary.com/diagnosis
5. Il TAQ può essere scaricato dal sito del Trauma Center:  www.traumacenter.org/
products/instruments.php
6. Metafora del football. [NdC]
7. Fumettista statunitense, inventore di The Far Side, striscia composta da un’unica vignetta, spesso
senza didascalia, che compare in numerose riviste in tutto il mondo. In Italia è stata pubblicata,
no al 1995, da Linus. Le vignette riguardano dialoghi surreali tra gli uomini e gli animali, a ruoli
invertiti, con l’uomo considerato razza inferiore. [NdC]
8. Potrebbe essere equivalente a “par lar a ra bo”. [NdC]
9. J.L. Herman, J.C. Perry, B.A. van der Kolk (1989), “Childhood trauma in Borderline Personality
Disorder”, in American Journal of Psychiatry, 146(4), pp. 490-499
10. Teicher trovò cambiamenti signi cativi nella corteccia orbitofrontale (OFC), una regione
cerebrale coinvolta nel processo decisionale e nella regolazione del comportamento, in risposta alle
richieste sociali. M.H. Teicher, S.L. Andersen, A. Polcari, C.M. Anderson, C.P. Navalta, D.M. Kim
(2003), “The neurobiological consequences of early stress and childhood maltreatment”, in
Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 27(1), pp. 33-44. Vedi, inoltre, M.H. Teicher (2002), “Scars
that won’t heal: The neurobiology of child abuse”, in Scienti c American, 286(3), pp. 54-61; M.H.
Teicher, J. Samson, A. Polcari, C.E. McGrrenery (2006), “Sticks, stones, and hurtful words:
Relative effects of various forms of childhood maltreatment”, in American Journal of Psychiatry
163(6), pp. 993-1000; A. Bechara, A.R. Damasio, H. Damasio, S.W. Anderson (1994),
“Insensitivity to future consequences following damage to human prefrontal cortex”, in Cognition,
50, pp. 7-15. Danni in quest’area comportano: tendenza esagerata al turpiloquio, scarse interazioni
sociali, gioco d’azzardo compulsivo, abuso di alcol e droghe, ridotte capacità empatiche. M.L.
Kringelbach, E.T. Rolls (2004), “The functional neuroanatomy of the human orbitofrontal cortex:
Evidence from neuroimaging and neuropsychology”, in Progress in Neurobiology, 72, pp. 341-372.
L’altra area problematica identi cata da Teicher era il precuneo, un’area cerebrale implicata nella
comprensione di se stessi e nella capacità di cogliere le differenze tra le nostre percezioni e quelle
degli altri. A.E. Cavanna, M.R. Trimble (2006), “The precuneus: A review of its functional anatomy
and behavioural correlates”, in Brain, 129, pp. 564-583.
11. S. Roth, E. Newman, D. Pelcovitz, B.A. van der Kolk, F.S. Mandel (1997), “Complex PTSD in
victims exposed to sexual and physical abuse: Results from the DSM-IV field trial for Post-
traumatic Stress Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 10, pp. 539-555; B.A. van der Kolk, D.
Pelcovitz, S. Roth, F.S. Mandel (1996), “Dissociation, Somatization, and Affect Dysregulation: The
Complexity of Adaptation to Trauma”, in American Journal of Psychiatry, 153, pp. 83-93; D.
Pelcovitz, B.A. van der Kolk, S. Roth, F.S. Mandel, S. Kaplan, P. Resick (1997), “Development of a
criteria set and a Structured Interview for Disorders of Extreme Stress (SIDES)”, in Journal of
Traumatic Stress, 10, pp. 3-16; S.N. Ogata, K.R. Silk, S. Goodrich (1990), “Childhood sexual and
physical abuse in adult patients with Borderline Personality Disorder”, in American Journal of
Psychiatry, 147, pp. 1008-1013; M.C. Zanarini, F.R. Frakenbourg, E.D. Dubo, A.E. Sickel, A.
Trikha, A. Levin, V. Reynolds (1998), “Axis I comorbidity of Borderline Personality Disorder”, in
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Quaytman, R.L. Ogden (1990), “Frequency and correlates of childhood sexual and physical abuse
histories in adult female borderline inpatients”, in American Journal of Psychiatry, 147, pp. 214-
216; D. Westen, P. Ludolph, B. Misle, S. Ruf ns, J. Block (1990), “Physical and sexual abuse in
adolescent girls with Borderline Personality Disorder”, in American Journal of Orthopsychiatry, 60,
pp. 55-66; M.C. Zanarini, A.A. Williams, R.E. Lewis, R.B. Reich, S.C. Vera, M.F. Marino, A. Levin,
F.R. Frankenburg (1997), “Reported pathological childhood experiences associated with the
development of Borderline Personality Disorder”, in American Journal of Psychiatry, 154, pp. 1101-
1106.
12. J. Bowlby (1988), Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, tr. it.
Raffaello Cortina, Milano 1989.
13. B.A. van der Kolk, J.C. Perry, J.C. Herman (1991), “Childhood origins of self- destructive
behavior”, in American Journal of Psychiatry, 148, pp. 1665-1671.
14. Questo concetto è ulteriormente supportato dal lavoro del neuroscienziato Jaak Panksepp, che
dimostrò che i piccoli ratti che non erano stati leccati dalle madri durante la prima settimana di vita
non sviluppavano i recettori degli oppioidi nella corteccia cingolata anteriore, una parte del
cervello connessa all’af liazione e al senso di sicurezza. Si veda E.E. Nelson, J. Panksepp (1998),
“Brain substrates of infant-mother attachment: Contributions of opioids, oxytocin, and
norepinephrine”, in Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 22(3), pp. 437-452. Si veda anche J.
Panksepp, B.H. Herman, T. Vilberg, P. Bishop, F.G. DeEskinazi (1981), “Endogenous opioids and
social behavior”, in Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 4, pp. 473-487; J. Panksepp, E. Nelson,
S. Siviy (1994), “Brain opioids and mother-infant social motivation”, in Acta paediatrica, 83(397),
pp. 40-46.
15. La delegazione che ha incontrato Spitzer comprendeva anche Judy Herman, Jim Chu e David
Pelcovitz.
16. B.A. van der Kolk, S. Roth, D. Pelcovitz, S. Sunday, J. Spinazzola (2005), “Disorders of
extreme stress: The empirical foundation of a complex adaptation to trauma”, in Journal of
Traumatic Stress, 18(5), pp. 389-399. Vedi anche J.L. Herman (1992), “Complex PTSD: A
syndrome in survivors of prolonged and repeated trauma”, in Journal of Traumatic Stress, 5(3), pp.
377-391; C. Zlotnick, A.L. Zakrisky, M.T. Shea, E. Costello, A. Begin, T. Pearlstein, E. Simpson
(1996), “The long-term sequelae of sexual abuse: Support for a Complex Post-traumatic Stress
Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 9(2), pp. 195-205; S. Roth, E. Newman, D. Pelcovitz,
B.A. van der Kolk, F.S. Mandel (1997), “Complex PTSD in victims exposed to sexual and physical
abuse: Results from the DSM-IV Field Trial for Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of
Traumatic Stress, 10(4), pp. 539-555; D. Pelcovitz, B.A. van der Kolk, S. Roth, F. Mandel, S. Kaplan
(1997), “Development and validation of the structured interview for measurement of disorders of
extreme stress”, in Journal of Traumatic Stress, 10, pp. 3-16.
17. Le rating scales sono strumenti costituiti da una serie di item relativi agli elementi psico-
comportamentali da individuare e che segnalano il grado di gravità a cui fare riferimento. Si
utilizzano come strumenti di misura e/o di rilevazione standardizzata. [NdC]
18. B.C. Stolbach, P. Minshew, V. Rompale, R.Z. Dominguez, T. Gazibara, R. Fink (2013),
“Complex trauma exposure and symptoms in urban traumatized children: A preliminary test of
proposed criteria for Developmental Trauma Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 26(4), pp.
483-491. B.A. van der Kolk, D. Pelcovitz, S. Roth, F.S. Mandel (1996), “Dissociation, somatization,
and affect dysregulation: The complexity of adaptation to trauma”, in American Journal of
Psychiatry, 153, pp. 83-93. Vedi anche D.G. Kilpatrick, H.S. Resnick, Jr. Freedy (1998), “Post-
traumatic Stress Disorder Field Trial: Evaluation of the PTSD Construct - Criteria A Through E”,
in DSM-IV Sourcebook, vol. 4, American Psychiatric Press, Washington, pp. 803-844; T.
Luxenberg, J. Spinazzola, B.A. van der Kolk (2001) “Complex trauma and Disorders of Extreme
Stress (DESNOS) Diagnosis, Part one: Assessment”, in Directions in Psychiatry, 21(25), pp. 373-
392; B.A. van der Kolk, S. Roth, D. Pelcovitz, S. Sunday, J. Spinazzola (2005), “Disorders of
extreme stress: The empirical foundation of a complex adaptation to trauma”, in Journal of
Traumatic Stress, 18(5), pp. 389-399.
19. Tutto ciò è reperibile sul sito web dello studio ACE: http://acestudy.org/
20. http://www.cdc.gov/ace/ ndings.htm; http://acestudy.org/download; V. Felitti, R.F. Anda, D.
Nordenberg, D.F. Williamson, A.M. Spitz, V. Edwards, M.P. Koss, J.S. Marks (1998),
“Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the leading causes of
death in adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in American Journal of
Preventive Medicine, 14(4), pp. 245-258; si veda anche Reading, R. (2006), “The enduring effects of
abuse and related adverse experiences in childhood: A convergence of evidence from neurobiology
and epidemiology”, in Child: Care, Health and Development, 32(2), pp. 253-256; V.J. Edwards,
J.W. Holden, R.F. Anda, V. Felitti (2003), “Experiencing multiple forms of childhood maltreatment
and adult mental health: Results from the Adverse Childhood Experiences (ACE) Study”, in
American Journal of Psychiatry, 160(8), pp. 1453-1460; S.R. Dube, R.F. Anda, V. Felitti, V.
Edwards, J.B. Croft (2002), “Adverse childhood experiences and personal alcohol abuse as an
adult”, in Addictive Behaviors, 27(5), pp. 713-725; S.R. Dube, V. Felitti, M. Dong, D.P. Chapman,
W.H. Giles, R.F. Anda (2003), “Childhood abuse, neglect, and household dysfunction and the risk
of illicit drug use: The Adverse Childhood Experiences Study”, in Pediatrics, 111(3), pp. 564-572.
21. S.A. Strassels (2009), “Economic burden of prescription opioid misuse and abuse”, in Journal
of Managed Care Pharmacy, 15(7), pp. 556-562.
22. C.B. Nemeroff, C. Heim, M.E. Thase, D.N. Klein, A.J. Rush, A.F. Schatzberg, P.T. Ninan, J.P.
McCullough, P.M. Waiss, D.L. Dunner, B.O. Rothbaum, S. Korstein, G. Keitner, M.B. Keller
(2003), “Differential responses to psychotherapy versus pharmacotherapy in patients with chronic
forms of major depression and childhood trauma”, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, 100(24), pp. 14293-14296. Vedi anche C. Heim, P.M.
Plotsky, C.B. Nemeroff (2004), “Importance of studying the contributions of early adverse
experience to neurobiological ndings in Depression”, in Neuropsychopharmacology, 29(4), pp.
641-648.
23. B.E. Carlson (1990), “Adolescent observers of marital violence”, in Journal of Family Violence,
5(4), pp. 285-299. Si vedano anche B.E. Carlson (1984), “Children’s observations of Interparental
violence”, in A.R. Roberts (a cura di), Battered Women and Their Families, Springer, New York,
pp. 147-167; J.L. Edelson (1999), “Children’s witnessing of adult domestic violence”, in Journal of
Interpersonal Violence, 14(8), pp. 839-870; K. Henning, H. Leitenberg, P. Coffey, T. Turner, R.T.
Bennett (1996), “Long-term psychological and social impact of witnessing physical con ict
between parents”, in Journal of Interpersonal Violence, 11(1), pp. 35-51; E.N. Jouriles, C.M.
Murphy, M. O’Leary (1989), “Interpersonal aggression, marital discord, and child problems”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 57(3), pp.1453-1455; J.R. Kolko, E.H. Blakely, D.
Engelman (1996), “Children who witness domestic violence: A review of empirical literature”, in
Journal of Interpersonal Violence, 11(2), pp. 281-293; J. Wolak, D. Finkelhor (1998), “Children
exposed to partner violence”, in J.L. Jasinski, L. Williams (a cura di), Partner Violence: A
Comprehensive Review of 20 Years of Research, Sage, Thousand Oaks, CA.
24. Molte di queste affermazioni derivano da conversazioni con Vincent Felitti, riprese da J.E.
Stevens (2012), “The Adverse Childhood Experiences study – the largest public health study you
never heard of”, in Huf ngton Post, 8.  http://www.huf ngtonpost.com/jane-ellen-stevens/the-
adverse-childhoodexp_1_b_1943647.html.
25. Rischio Attribuibile nella Popolazione: si riferisce alla differenza di rischio tra popolazione
generale e popolazione non esposta, rapportata al rischio della popolazione generale. [In altri
termini, si riferisce alla proporzione di eventi sfavorevoli che si potrebbero evitare nell’intera
popolazione, se si impedisse l’esposizione della stessa al fattore di rischio (fonte: Saperi.doc,
Centro per la Documentazione sulla Salute Perinatale e Riproduttiva). NdC]
26. National Cancer Institute (2012), “Nearly 800,000 deaths prevented due to declines in
smoking” (comunicato stampa), March 14, disponibile sul
sito: http://www.cancer.gov/newscenter/newsfromnci/2012/TobaccoControlCISNET.
10

Il trauma in età evolutiva


L’epidemia nascosta

L’idea che le esperienze negative accadute nella prima infanzia portino a


sconvolgimenti signi cativi nello sviluppo è più un’intuizione clinica che
un fatto sostanziato dalla ricerca. Non ci sono prove della presenza di
danni evolutivi causati, nel tempo, da qualche tipo di sindrome
traumatica.
Rifiuto della diagnosi di Trauma dello sviluppo
American Psychiatric Association, maggio 2011

La ricerca sugli effetti dei maltrattamenti precoci racconta una storia


diversa: il maltrattamento primario provoca effetti negativi e duraturi sullo
sviluppo del cervello. Il nostro cervello è modellato dalle nostre prime
esperienze. Il maltrattamento è uno scalpello che dà forma al nostro
cervello, perché riesca ad affrontare le lotte, ma al costo di ferite profonde
e durature. L’abuso nell’infanzia non è qualcosa che si “supera”. È un
male di cui dobbiamo prendere atto e con cui dobbiamo fare i conti, se
vogliamo fare qualcosa per spezzare il ciclo incontrollato di violenza che
c’è in questo paese.
MARTIN TEICHER, Scienti c American

Ci sono centinaia di migliaia di bambini come quelli che sto per


descrivere, che sprecano un’enorme quantità di risorse, spesso senza alcun
bene cio sostanziale. Questi bambini niscono per riempire le carceri, i
servizi sociali e gli ambulatori medici. La maggior parte delle persone li
conosce solo attraverso le statistiche. Decine di migliaia di insegnanti,
assistenti sociali, giudici e operatori della salute mentale passano le
giornate nel tentativo di aiutarli e i contribuenti ne pagano le spese.
Anthony aveva solo due anni e mezzo quando è stato inviato al nostro
Trauma Center da un centro di assistenza per bambini: gli operatori non
riuscivano a gestire il suo persistente comportamento aggressivo, fatto di
morsi e spinte, né il suo ri uto a dormire, il suo pianto inconsolabile, il
suo sbattere la testa e il suo dondolio. Non si sentiva sicuro con nessun
membro dello staff e oscillava tra il collasso scoraggiato e la s da rabbiosa.
Quando lo incontrammo insieme alla madre, Anthony le si aggrappava
addosso con fare ansioso, nascondendo il viso, mentre lei continuava a
ripetergli: “Non fare così”. Ebbe una risposta di trasalimento allo sbattere
di una porta da qualche parte lungo il corridoio, nendo per rifugiarsi
ancor di più nel grembo della madre. Al ri uto di quest’ultima, cominciò
a sbattere la testa, rintanato in un angolo. “Fa così per darmi fastidio”,
commentò la signora. Alle domande sulla sua storia, rispose di essere stata
abbandonata dai suoi genitori e allevata da una serie di parenti che la
picchiavano, la ignoravano e avevano iniziato ad abusare sessualmente di
lei, all’età di tredici anni. Era rimasta incinta di un danzato ubriaco, che
l’aveva lasciata dopo che lei gli aveva comunicato di aspettare un
bambino. Anthony era proprio come suo padre, un buono a nulla. La
donna aveva avuto liti violente con numerosi partner, dopo il padre di
Anthony; era sicura che le liti avvenissero di sera tardi, per cui Anthony
non avrebbe potuto in alcun modo accorgersene.
Se Anthony fosse stato ricoverato in un ospedale, sarebbe
probabilmente stata diagnosticata una serie di differenti disturbi
psichiatrici: Depressione, Disturbo oppositivo provocatorio, Ansia,
Disturbo reattivo dell’attaccamento, ADHD e PTSD. Nessuna di queste
diagnosi, tuttavia, avrebbe chiarito cosa non andasse in Anthony: era
spaventato a morte, lottava per la sua vita e non aveva ducia nel fatto che
sua madre potesse aiutarlo.
Poi c’era Maria, quindici anni, latina, una dell’oltre mezzo milione di
bambini che, negli Stati Uniti, crescono in af do o all’interno di
programmi di trattamento residenziale. Maria era obesa e aggressiva.
Aveva una storia di abusi sessuali, sici ed emotivi e, dagli otto anni in poi,
aveva vissuto in più di venti posti diversi. Le pile di cartelle cliniche che
l’accompagnavano la descrivevano come mutacica, vendicativa, impulsiva,
irresponsabile e autolesiva, con sbalzi d’umore estremi e un
temperamento esplosivo. La descrizione che Maria faceva di se stessa era
la seguente: “Spazzatura, senza alcun valore, reietta.”
Dopo diversi tentativi di suicidio, Maria fu collocata in uno dei nostri
centri di trattamento residenziale. Inizialmente era muta e ritirata e
diventava violenta quando la gente le stava troppo vicino. In seguito ad
alcuni fallimenti terapeutici, si pensò a un programma di ippoterapia,
dove si prendeva cura quotidianamente del suo cavallo, imparando il
dressage. Due anni dopo, mi trovai a parlare con Maria del suo diploma di
scuola superiore. Era stata accettata in un college di quattro anni. Alla
domanda su cosa l’avesse aiutata di più, rispose: “Il cavallo di cui mi sono
presa cura”. Aggiunse che soltanto con il cavallo aveva cominciato a
sperimentare di sentirsi al sicuro: l’aspettava tutti i giorni e si mostrava
felice delle sue cure. Maria aveva iniziato a sentire un legame viscerale con
un’altra creatura e a parlare con lui, come con un amico. A poco a poco,
iniziò a comunicare anche con gli altri bambini inseriti nel programma e,
in ne, con il suo counselor.
Virginia era una ragazza bianca di tredici anni, adottata. Era stata
separata dalla madre biologica, tossicodipendente; dopo la malattia e la
conseguente morte della prima madre adottiva, Virginia passò da un
af do all’altro, prima di essere adottata nuovamente. Virginia si mostrava
seduttiva con qualsiasi maschio incontrasse e raccontava di abusi sessuali e
sici subiti da parte di varie babysitter e genitori af datari temporanei.
Era arrivata al nostro programma di trattamento residenziale dopo tredici
ricoveri d’urgenza per tentati suicidi. Il personale la descriveva come una
ragazza isolata, controllante, esplosiva, seduttiva, invadente, vendicativa e
narcisista. Descriveva se stessa come disgustosa e diceva che avrebbe
preferito essere morta. Le diagnosi contenute nella sua cartella clinica
erano: Disturbo bipolare, Disturbo esplosivo intermittente, Disturbo
reattivo dell’attaccamento, Disturbo da de cit di attenzione (ADD)
sottotipo iperattivo, Disturbo oppositivo provocatorio (ODP), e Disturbo
da uso di sostanze. Ma chi è, in realtà, Virginia? Come possiamo aiutarla
ad avere una vita?1
Possiamo sperare di risolvere i problemi di questi bambini solo se
de niamo correttamente ciò che succede loro e se facciamo qualcosa in
più della messa a punto di nuovi farmaci atti a controllarli o del trovare
“il” gene responsabile della loro “malattia”. La s da è quella di scoprire il
modo di aiutarli ad avere una vita soddisfacente e, così facendo,
risparmiare centinaia di milioni di dollari dei contribuenti. Questo
processo inizia con il guardare in faccia i fatti.

Geni cattivi?
Avendo a che fare con disturbi pervasivi e genitori così disfunzionali,
saremmo tentati di attribuire i problemi dei bambini semplicemente a geni
cattivi. La tecnologia orienta continuamente nuove direzioni per la ricerca
e, dal momento in cui si è potuto disporre di test genetici, la psichiatria si
è adoperata per trovare le cause genetiche della malattia mentale. Scoprire
un collegamento genetico è sembrato particolarmente rilevante per la
schizofrenia, una forma di malattia mentale abbastanza comune (colpisce
circa l’1% della popolazione), grave e dirompente e che, sicuramente,
risente di una familiarità. Eppure, dopo trent’anni e milioni di dollari usati
per la ricerca, non siamo riusciti a individuare dei modelli genetici
coerenti per la schizofrenia o per qualsiasi altra malattia psichiatrica.2
Alcuni dei miei colleghi hanno lavorato sodo anche per scoprire i fattori
genetici che predispongono le persone a sviluppare lo stress3 traumatico.
La ricerca, in questo campo, continua, ma, nora, non è sfociata in alcuna
risposta valida.4
Studi recenti hanno disconfermato del tutto la convinzione banale che
“avere” un particolare gene conduca a una manifestazione speci ca. Una
singola caratteristica può essere – come si è dimostrato – il prodotto di
una combinazione di più geni. Ancora più importante è stata la scoperta
che i geni non sono immutabili: gli eventi di vita possono sollecitare
messaggi biochimici che li attivano o li silenziano, tramite il collegamento
a gruppi metilici, un gruppo di atomi di carbonio e idrogeno sull’esterno
del gene (un processo chiamato metilazione) che può rendere il gene
stesso più o meno sensibile ai messaggi da parte del corpo. Gli eventi di
vita possono cambiare il comportamento dei geni, ma non ne alterano la
struttura fondamentale. Schemi di metilazione, tuttavia, sono trasmissibili
ai discendenti: un fenomeno noto come epigenetica. Ancora una volta, il
corpo tiene traccia, ai livelli più profondi dell’organismo.
Uno degli esperimenti più citati in epigenetica fu condotto dal
ricercatore Michael Meaney alla McGill University. Studiando alcuni ratti
neonati e le loro madri,5 Meaney scoprì che il modo e il tempo in cui una
madre ratto lecca e pulisce i suoi cuccioli, durante le prime dodici ore
dopo la loro nascita, in uisce sui processi chimici cerebrali connessi allo
stress, modi cando la con gurazione di oltre un migliaio di geni. I ratti
leccati intensamente dalle loro madri sono più coraggiosi e producono
livelli più bassi di ormoni dello stress in situazioni stressanti, rispetto a
quelli le cui madri sono meno accudenti. Questi ratti riescono anche a
guarire più rapidamente, con un equilibrio che si portano dietro per tutta
la vita. Sviluppano anche collegamenti più spessi nell’ippocampo, un
centro fondamentale per l’apprendimento e la memoria, e sono più
performanti in un compito che è fondamentale per i roditori: trovare la
via d’uscita da un labirinto.
Abbiamo, inoltre, iniziato a imparare che le esperienze stressanti
in uenzano l’espressione genetica anche negli esseri umani. I bambini le
cui madri in gravidanza erano state costrette a vivere in case non riscaldate
durante una tempesta di ghiaccio prolungata nel Québec mostravano
maggiori cambiamenti epigenetici rispetto ai gli delle madri che avevano
usufruito del riscaldamento, riattivato dopo solo un giorno.6 Il ricercatore
Moshe Szyf, della McGill University, ha confrontato i pro li epigenetici di
centinaia di bambini nati ai poli estremi della scala sociale del Regno
Unito, misurando gli effetti dell’abuso infantile su entrambi i gruppi. Le
differenze di classe sociale sono state associate con speci ci e diversi
pro li epigenetici, ma i bambini abusati, in entrambi i gruppi, avevano in
comune modi cazioni speci che in 73 geni. Szyf dichiarò: “Le principali
modi che nel nostro corpo possono avvenire non solo a opera di prodotti
chimici e di tossine, ma anche in seguito al modo in cui il mondo sociale
parla al mondo cablato”.7

Le scimmie rispondono ad annose domande


su natura e educazione
Uno dei migliori contributi alla comprensione di come la genitorialità e
l’ambiente in uenzino l’espressione genetica proviene dal lavoro di
Stephen Suomi, capo del Laboratorio di etologia comparativa del
National Institutes of Health.8 Per oltre quarant’anni, Suomi ha studiato
la trasmissione della personalità attraverso generazioni di scimmie Rhesus,
che condividono il 95% dei geni umani, percentuale superata solo da
scimpanzé e bonobo. Come gli esseri umani, le scimmie Rhesus vivono in
grandi gruppi sociali con complesse alleanze e rapporti gerarchici, e solo i
membri che si sanno adattare alle richieste del gruppo sopravvivono e
prosperano.
Le scimmie Rhesus assomigliano agli esseri umani anche nei modelli di
attaccamento. I cuccioli dipendono dal contatto sico e intimo con le loro
madri e, così come Bowlby aveva osservato nell’uomo, crescono
osservando le loro reazioni all’ambiente, tornando dalle loro madri tutte le
volte che si sentono spaventati o persi. Una volta diventati più
indipendenti, il gioco con i coetanei rappresenta il modo elettivo per
imparare a stare al mondo.
Suomi individuò due tipologie di personalità che nivano, regolarmente,
per mettersi nei guai: le scimmie tese e ansiose, che si mostrano timorose,
ritirate e depresse anche in situazioni in cui le altre scimmie continuano a
giocare e a esplorare, e quelle molto aggressive, che piantano così “tante
grane” da essere, spesso, evitate, picchiate o uccise. Entrambe le tipologie
sono biologicamente diverse dalle loro coetanee. Nelle prime settimane di
vita, si rilevano anomalie nei livelli di eccitazione, nella produzione degli
ormoni dello stress e nel metabolismo delle sostanze chimiche del
cervello, come la serotonina, e né la loro biologia, né il loro
comportamento tendono a modi carsi con la maturazione. Suomi scoprì
una vasta gamma di comportamenti geneticamente determinati. Per
esempio, le scimmie tese e ansiose (classi cate come tali sulla base sia del
loro comportamento sia dei loro alti livelli di cortisolo, a sei mesi di vita),
in situazioni sperimentali, consumano più alcol rispetto alle altre scimmie
quando raggiungono l’età di quattro anni. Anche le scimmie
geneticamente aggressive fanno abuso di alcol: bevono no a svenire,
mentre quelle ansiose ne fanno un uso funzionale a calmarsi.
L’ambiente sociale, dal canto suo, contribuisce in modo sostanziale al
comportamento e alla biologia. Le femmine tese e ansiose non giocano
bene con le altre scimmie e, quindi, spesso mancano di sostegno sociale al
momento del parto e si mostrano trascuranti e abusanti nei confronti dei
primogeniti, diventando, però, madri diligenti e attente ai loro piccoli,
qualora entrino in gruppi sociali stabili. In alcune condizioni, essere una
mamma ansiosa può fornire gran parte della protezione che occorre. Le
madri aggressive, invece, non si portano dietro alcun vantaggio sociale:
sono molto punitive con la prole, picchiano di sovente, danno calci e
morsi. Se i cuccioli sopravvivono, impediscono loro di avvicinarsi e di fare
amicizia con i loro coetanei.
Nella vita reale, è impossibile dire se il comportamento aggressivo o
ansioso delle persone sia il risultato dei geni dei genitori o se derivi da una
madre abusante o da entrambe le cose. Ma, in laboratorio, è possibile
allontanare i cuccioli di scimmia con geni vulnerabili dalla madre
biologica e farli allevare da madri accudenti oppure metterli in gruppi di
gioco con i coetanei.
Le giovani scimmie che vengono portate via dalle loro madri alla nascita
e che vengono allevate esclusivamente dai loro coetanei si attaccano
fortemente fra loro. Queste scimmie si aggrappano disperatamente l’una
all’altra e non riescono a staccarsi abbastanza per impegnarsi in
esplorazioni sane e in attività ludiche. I rari momenti di gioco, inoltre,
mancano di quella complessità e fantasia tipiche delle scimmie normali.
Le scimmie in questione niscono per essere ansiose: si spaventano in
situazioni nuove e sono prive di curiosità. Indipendentemente dalla loro
predisposizione genetica, le scimmie cresciute con i coetanei reagiscono in
modo esagerato a sollecitazioni minime: il loro livello di cortisolo aumenta
in risposta a forti rumori, molto più di quanto non accada per le scimmie
allevate dalle loro madri. Il metabolismo della serotonina è per no più
anomalo di quello delle scimmie geneticamente predisposte
all’aggressività, ma che sono state cresciute dalle loro madri. Questo porta
a concludere che, se non altro nelle scimmie, le esperienze primarie
in uiscono sulla biologia almeno quanto la genetica.
Le scimmie e gli esseri umani condividono le stesse due varianti del gene
della serotonina (le varianti sono note come alleli trasportatori di
serotonina, corto e lungo). Negli esseri umani, l’allele corto è stato
associato all’impulsività, all’aggressività, alla ricerca di sensazioni intense,
ai tentativi di suicidio e alla depressione grave. Suomi ha dimostrato che,
almeno nelle scimmie, l’ambiente plasma la modalità con cui questi geni
in uenzano il comportamento. Le scimmie con l’allele corto, che erano
state allevate da una madre adeguata, si comportavano normalmente e
non avevano de cit nel metabolismo della serotonina. Quelle che erano
state allevate dai coetanei correvano il rischio di sviluppare una
propensione a comportamenti aggressivi e a rischio.9 Allo stesso modo, un
ricercatore della Nuova Zelanda, Alec Roy, ha scoperto che gli esseri
umani con l’allele corto mostravano tassi più alti di depressione rispetto a
quelli con la versione lunga, anche se ciò era vero solo per chi aveva anche
una storia di abuso infantile o di trascuratezza grave. La conclusione è
lampante: i bambini che hanno la fortuna di avere un genitore sintonico e
attento non svilupperanno problemi di tipo genetico.10
Il lavoro di Suomi supporta tutto quello che abbiamo imparato sia dai
colleghi che studiano l’attaccamento umano sia dalla nostra ricerca clinica:
relazioni precoci sicure e tutelanti costituiscono fattori basilari di
protezione sul lungo termine. Inoltre, anche i genitori con le proprie
vulnerabilità genetiche possono proteggere i loro gli, a condizione che
diano loro il giusto sostegno.

Il National Child Traumatic Stress Network


Quasi ogni malattia, dal cancro alla retinite pigmentosa, trova gruppi di
patrocinatori che ne promuovono lo studio e ne incoraggiano il
trattamento. Ma, no al 2001, anno in cui il Congresso istituì il National
Child Traumatic Stress Network, non c’era alcuna organizzazione globale
ad avere come ne quello di incrementare la ricerca e la cura dei bambini
traumatizzati.
Nel 1998 ricevetti una chiamata da Adam Cummings dalla Cummings
Foundation Nathan, che mi comunicava l’interesse a studiare gli effetti del
trauma sull’apprendimento. Risposi che, se da un lato era stato fatto un
ottimo lavoro su quell’argomento,11 mancava, però, un forum dove
discutere le scoperte acquisite. Lo sviluppo mentale, biologico o morale
dei bambini traumatizzati non veniva insegnato sistematicamente né a
operatori e pediatri, né nelle scuole di specializzazione di psicologia o di
assistenza sociale.
Adam e io decidemmo di occuparci di questo problema e, circa otto
mesi più tardi, venne costituito un gruppo di esperti, che comprendeva
rappresentanti del Dipartimento di Salute mentale e dei servizi umani, del
Dipartimento di giustizia, il senatore Ted Kennedy – come consulente
sanitario – e un gruppo di miei colleghi che si erano specializzati in traumi
infantili. Condividevamo tutti una conoscenza di base di come il trauma
intacchi mente e cervello in via di sviluppo ed eravamo tutti consapevoli
di come il trauma infantile sia radicalmente diverso dallo stress traumatico
negli adulti. Il gruppo concluse che, per porre la questione del trauma
infantile all’attenzione globale, dovesse nascere un’organizzazione
nazionale che promuovesse sia lo studio del trauma nell’infanzia sia la
formazione di insegnanti, giudici, ministri, genitori adottivi, medici,
assistenti sociali, infermieri e professionisti della salute mentale; di
chiunque, cioè, si occupasse di bambini vittime di abusi o traumatizzati.
Un membro del nostro gruppo di lavoro, Bill Harris, che conosceva
bene la legislazione relativa all’infanzia, andò a lavorare con il personale
del senatore Kennedy in modo da poter trasformare le nostre idee in
legge. Il disegno di legge, proposto dal National Child Traumatic Stress
Network, fu approvato dal Senato con una travolgente adesione
bipartisan e, dal 2001, la rete vide una moltiplicazione dei suoi centri, che,
da 17, diventarono 150 in tutta la nazione. Guidato dai centri di
coordinamento della Duke University e della UCLA, il NCTSN
comprende università, ospedali, agenzie locali, programmi di
riabilitazione per dipendenza da sostanze, cliniche per la salute mentale,
scuole di specializzazione. Ogni paese, a sua volta, collabora con il sistema
scolastico locale, con ospedali, enti assistenziali, rifugi per senzatetto,
programmi di giustizia minorile, case di accoglienza per donne
maltrattate, per un totale di oltre 8300 partner af liati.
Una volta che il NCTSN divenne attivo e funzionante, si poté disporre
di mezzi per arrivare a un pro lo più chiaro dei bambini traumatizzati, in
ogni parte del paese. Il mio collega del Trauma Center, Joseph Spinazzola,
portò avanti un’indagine, che esaminava i documenti di quasi duemila
bambini e adolescenti, afferenti agli enti di tutto il network.12 Trovammo
presto conferma di quanto sospettavamo: la grande maggioranza dei
bambini proveniva da famiglie estremamente disfunzionali. Più della metà
erano bambini emotivamente abusati e/o avevano avuto un caregiver
troppo inadeguato per riuscire a prendersi cura dei loro bisogni. Quasi il
50% dei bambini aveva temporaneamente perso il caregiver, a causa di un
arresto o perché immesso in un programma di trattamento o perché
arruolato nell’esercito; erano stati, quindi, curati da estranei, genitori
adottivi o parenti lontani. Circa la metà riferiva di aver assistito a violenza
domestica; un quarto di essere, a sua volta, vittima di abusi sessuali e/o
sici. In altre parole, i bambini e gli adolescenti dell’indagine
rispecchiavano i pazienti di mezza età e della classe media del Kaiser
Permanente, che avevano ottenuto un alto punteggio ACE nello studio
sulle Esperienze infantili negative, guidato da Vincent Felitti.

Il potere della diagnosi


Negli anni Settanta, non c’era modo di classi care i sintomi ad ampio
raggio di centinaia di migliaia di veterani di ritorno dal Vietnam. Come
abbiamo visto nei capitoli iniziali di questo libro, ciò costrinse i clinici a
procedere a una qualche forma di improvvisazione nel trattamento di
pazienti, non potendo fruire di risultati empirici, basati su ricerche
sistematiche, che ne orientassero la scelta terapeutica. L’adozione della
diagnosi di PTSD nel DSM-III del 1980 portò ad approfonditi studi
scienti ci, con uendo nello sviluppo di trattamenti ef caci, utili non solo
per i veterani di guerra, ma anche per le vittime di una serie di eventi
traumatici, tra cui lo stupro, l’aggressione e gli incidenti stradali.13 Un
esempio del grande vantaggio di disporre di una diagnosi speci ca è dato
dal fatto che, tra il 2007 e il 2010, il Dipartimento della Difesa abbia speso
più di 2,7 miliardi di dollari per il trattamento e la ricerca sul PTSD nei
veterani di guerra, mentre nell’anno scale 2009 il solo Department of
Veterans Affairs aveva speso 24,5 milioni dollari in una ricerca interna sul
PTSD.
La de nizione DSM del PTSD è abbastanza semplice: una persona viene
esposta a un evento terribile che “ha implicato morte, o minaccia di
morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità sica propria o di altri”,
che causa “paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore”; tutto ciò
si traduce in una serie di manifestazioni: esperienza traumatica rivissuta in
modo persistente ( ashback, incubi, sensazione che l’evento sia ancora in
corso), evitamento persistente e invalidante (di persone, luoghi, pensieri o
sentimenti associati al trauma, a volte amnesia per importanti parti del
trauma) e aumento dell’arousal (insonnia, ipervigilanza, o irritabilità).
Questa descrizione suggerisce una storia chiara: una persona è,
improvvisamente e inaspettatamente, devastata da un evento atroce e non
sarà mai più la stessa. Il trauma può essere nito, ma continua a essere
riprodotto in una continua ripetizione di memorie e in un sistema nervoso
che si è riorganizzato.
Quanto era importante questa de nizione per i bambini che stavamo
seguendo? Dopo un singolo episodio traumatico – un morso di un cane,
un incidente o l’essere stati testimoni di una sparatoria a scuola – i
bambini possono sviluppare sintomi di PTSD simili a quelli degli adulti,
anche se vivono in case dove si sentono al sicuro e ricevono supporto.
Grazie alla diagnosi di PTSD, ora possiamo trattare questi problemi in
maniera abbastanza ef cace.
Nel caso di bambini disturbati, con storie di abusi e di abbandono, come
quelli che vediamo negli ambulatori, nelle scuole, negli ospedali e nelle
stazioni di polizia, le origini traumatiche dei comportamenti sono meno
evidenti, soprattutto perché raramente essi riferiscono di essere stati
picchiati, abbandonati, o molestati, nonostante venga loro chiesto. L’82%
dei bambini traumatizzati visti dal NCTSN non soddisfaceva i criteri
diagnostici per il PTSD.14 A causa del loro mutismo, della loro
sospettosità e dell’aggressività, ricevevano diagnosi pseudoscienti che,
quali “Disturbo oppositivo provocatorio”, che signi ca “questo bambino
mi disgusta e non fa nulla di ciò che dico”; oppure “ Disturbo dirompente
da disregolazione dell’umore”, che signi ca “ha un carattere capriccioso”.
Avendo così tanti problemi, questi ragazzi niscono per accumulare
numerose diagnosi nel corso del tempo. Prima del compimento dei
vent’anni, a molti pazienti sono già state attribuite quattro, cinque, sei o
anche più etichette inquietanti, ma prive di signi cato. Se questi pazienti
accedono a un trattamento, ricevono ciò che viene de nito “il metodo del
giorno”: farmacoterapia, interventi comportamentali o terapie espositive.
Questo tipo di trattamento raramente funziona e, anzi, nisce per
aggravare la situazione.
Dato che il NCTSN si trovava a curare un numero sempre crescente di
bambini, diventava sempre più evidente il bisogno di rifarsi a una diagnosi
esplicativa della realtà della loro esperienza. Si iniziò con un database di
quasi ventimila bambini, trattati nei vari paesi afferenti alla rete,
raccogliendo tutte le pubblicazioni scienti che reperibili sui bambini
maltrattati e trascurati. Ne risultò, così, una selezione di 130 studi
particolarmente rilevanti, che descrivevano più di centomila bambini e
adolescenti di tutto il mondo. Venne istituito un gruppo di lavoro di
dodici clinici/ricercatori specializzati nel trauma15 in età evolutiva, che si
riunì due volte l’anno per quattro anni allo scopo di mettere a punto una
proposta di diagnosi appropriata, che si era convenuto di chiamare
Disturbo da trauma dello sviluppo.16
La sistematizzazione dei risultati delineava un pro lo coerente: 1) un
modello pervasivo di disregolazione; 2) problemi di attenzione e
concentrazione; 3) dif coltà di relazione con se stessi e con gli altri. Gli
stati d’animo e i sentimenti di questi bambini oscillavano repentinamente
da un estremo all’altro: dalla collera e dal panico al distacco, alla piattezza,
alla dissociazione.
Quando erano sconvolti (e lo erano per la maggior parte del tempo), non
potevano né calmarsi né descrivere quello che sentivano.
Avere un sistema biologico che secerne continuamente ormoni dello
stress per affrontare minacce reali o immaginarie implica lo sviluppo di
problemi sici: disturbi del sonno, mal di testa, dolore inspiegabile,
ipersensibilità al tatto o al suono. Essere così agitati o “spegnersi” ostacola
l’abilità di focalizzare l’attenzione e la concentrazione. Per alleviare la
tensione, questi bambini ricorrono alla masturbazione costante, al
dondolio o ad azioni autolesive (mordersi, tagliarsi, bruciarsi, picchiarsi,
strapparsi i capelli, pizzicarsi la pelle no a sanguinare). Tale assetto,
inoltre, porta a dif coltà nell’elaborazione del linguaggio e nella
coordinazione motoria ne. Incanalando tutta l’energia verso il controllo,
pertanto, si manifesta una dif coltà a prestare attenzione a quelle cose –
come i compiti scolastici – che non sono direttamente rilevanti per la
sopravvivenza. Pertanto, l’ipervigilanza li rende facilmente distratti.
La grave trascuratezza e l’abbandono determinano la loro smisurata
bisognosità e la tendenza a un af damento totale, anche ai loro
persecutori. L’essere stati costantemente picchiati, molestati, o maltrattati
in altri modi non può che portare a percepirsi come difettosi e senza
valore. E, sulla base di questo senso di autodisgusto, di difettosità e di
disvalore, sorprende che non si dino di nessuno? E, in ne, se mettiamo
insieme la percezione di essere spregevoli e la loro iper-reattività anche a
frustrazioni di poco conto, non è dif cile comprendere quanto sia
problematico per questi bambini farsi degli amici.
Dopo aver pubblicato i primi articoli sui nostri risultati, sviluppammo
una rating scale validata,17 raccogliendo dati su circa 350 bambini e sui
loro genitori naturali o adottivi, per dimostrare come la sola diagnosi di
Disturbo da trauma dello sviluppo riuscisse a coprire l’intera gamma di
ciò che sembrava non funzionare in quei bambini. Questo al ne di porre
una singola diagnosi che, al contrario di più etichette, avrebbe consentito
di attribuire, senza equivoci, la causa dei loro problemi a un insieme di
episodi traumatici e a un attaccamento disturbato.
Nel febbraio 2009, fu presentata la nostra nuova proposta diagnostica di
Disturbo traumatico dello sviluppo all’American Psychiatric Association,
precisando quanto segue nella lettera di presentazione:
I bambini che crescono in un contesto che li espone a costante pericolo, maltrattamenti e
sistemi di caregiving caotici sono considerati malati in base agli attuali sistemi diagnostici, che
pongono l’accento sul controllo del comportamento, senza riconoscere l’impatto del trauma
relazionale. Studi su traumi infantili ricorrenti, come l’abuso infantile o la trascuratezza, hanno
dimostrato con molta evidenza che, a seguito di tali esperienze, i bambini sviluppano problemi
cronici e gravi di regolazione emotiva, di controllo degli impulsi, dell’attenzione e dei sistemi
cognitivi, di dissociazione, di relazioni interpersonali, di schemi relazionali e del sé. In assenza
di una diagnosi trauma-speci ca, questi bambini sono attualmente diagnosticati con una media
di 3-8 disturbi in comorbidità. L’abitudine, sempre più frequente, di riferirsi a diagnosi
multiple con bambini traumatizzati ha conseguenze gravi: s da la semplicità, oscura la
chiarezza dell’eziologia del disturbo, corre il rischio di relegare il trattamento e l’intervento
psicologico a un piccolo aspetto della psicopatologia del bambino, piuttosto che promuovere
un approccio terapeutico globale.

Poco tempo dopo, mi capitò di intervenire a una conferenza a


Washington DC, in cui parlai del Disturbo traumatico dello sviluppo, in
presenza di operatori della salute mentale, provenienti da tutto il paese,
che ci diedero la loro adesione, scrivendo, a loro volta, una lettera
all’APA. La lettera iniziava con il sottolineare che il National Association
of State Mental Health Program Directors si occupava di circa 6,1 milioni
di persone ogni anno, con un budget di 29,5 miliardi di dollari, e
concludeva così: “Esortiamo l’APA ad aggiungere il trauma dello sviluppo
alla sua lista di aree prioritarie, sia per chiarire e meglio caratterizzare la
sua evoluzione e le conseguenze cliniche, sia per sottolineare la forte
necessità di cominciare a diagnosticare il trauma dello sviluppo nella
valutazione dei pazienti”.
Ero ducioso che questa lettera avrebbe garantito la seria presa in
considerazione, da parte dell’APA, della proposta, ma, alcuni mesi dopo
la nostra presentazione, Matthew Friedman, direttore esecutivo del
Centro nazionale per la cura del PTSD e presidente dell’équipe che si
occupava del DSM, ci informò che sarebbe stato improbabile che il DTS
venisse incluso nel DSM-5. Spiegò che l’APA pensava che non fosse
necessaria alcuna diagnosi per saturare la “nicchia diagnostica mancante”.
Un milione di bambini che vengono abusati o trascurati ogni anno negli
Stati Uniti rappresenta una “nicchia diagnostica”?
La lettera proseguiva così: “L’idea che le esperienze negative accadute
nella prima infanzia portino a danni imponenti nel processo di crescita è
da considerarsi più un’intuizione clinica che un dato empirico. Questa
dichiarazione viene fatta di frequente, ma non può essere sostenuta da
studi prospettici”. Così, abbiamo aggiunto diversi studi prospettici nella
nostra proposta. Diamo un’occhiata a solo due di essi.

Modi in cui le relazioni plasmano il processo evolutivo


A partire dal 1975, e per almeno trent’anni, Alan Sroufe e i suoi colleghi
seguirono 180 bambini e le loro famiglie attraverso il Minnesota
Longitudinal Study of Risk and Adaptation.18 All’inizio della ricerca, si
discuteva molto intensamente sul ruolo nello sviluppo umano della natura
versus l’educazione, del temperamento versus l’ambiente. Lo studio
cercava di dare delle risposte a queste dissertazioni: il trauma non era
ancora un argomento popolare e l’abuso infantile e la trascuratezza non ne
costituivano l’oggetto centrale, almeno in prima battuta, no a quando
non si delinearono come i fattori predittivi più importanti del
funzionamento adulto.
Lavorando con le agenzie mediche e sociali locali, i ricercatori
reclutarono inizialmente madri caucasiche suf cientemente povere da
ricevere assistenza dal servizio pubblico, ma che avevano diversi
background di provenienza e svariati tipi e livelli di supporto per svolgere
la funzione genitoriale. Lo studio iniziava tre mesi prima della nascita dei
bambini e li seguiva per 30 anni, no all’età adulta, valutando e, nel caso,
misurando, tutti gli aspetti più importanti del loro funzionamento,
registrando, al contempo, gli eventi signi cativi della loro vita. Prendeva,
inoltre, in esame alcuni quesiti fondamentali: come imparano i bambini a
prestare attenzione, mentre regolano la loro attivazione (cioè, evitando
“alti e bassi”) e mentre mantengono i loro impulsi sotto controllo? Di
quali supporti hanno bisogno e quando tali supporti sono necessari?
Dopo lunghe interviste e valutazioni con i futuri genitori, il vero inizio
della ricerca avvenne nella nursery dei neonati, dove i ricercatori
osservavano gli infanti e intervistavano le infermiere che li accudivano, per
effettuare poi visite a domicilio sette e dieci giorni dopo la nascita. Prima
che i bambini venissero iscritti in prima elementare, venivano
attentamente valutati, insieme ai loro genitori, per un totale di quindici
volte. Dopo di che, i bambini erano intervistati e testati, a intervalli
regolari, no all’età di ventotto anni, con indicazioni continue da parte di
madri e insegnanti.
Sroufe e i suoi colleghi scoprirono la stretta interconnessione tra qualità
delle cure e fattori biologici: in modo affascinante, questi risultati
facevano quasi da cassa di risonanza – seppur con maggiore complessità –
a ciò che Stephen Suomi aveva scoperto nel suo laboratorio con i primati.
Nulla è immodi cabile: né la personalità della madre, né le anomalie
neurologiche del bambino alla nascita, né il suo QI, né il suo
temperamento – compreso il suo livello di attivazione e reattività allo
stress – potevano essere fattori predittivi rispetto allo sviluppo di gravi
problemi comportamentali in adolescenza.19 La questione chiave pareva,
piuttosto, essere legata alla natura della relazione genitore- glio: al modo,
cioè, in cui i genitori sentivano e interagivano con i loro bambini.
Come per le scimmie di Suomi, la combinazione bambini vulnerabili –
caregiver in essibili generava bambini appiccicosi e tesi. Un
comportamento insensibile, invadente e intrusivo da parte dei genitori a
sei mesi era predittivo di iperattività e problemi di attenzione sin dagli
anni della scuola materna.20
Focalizzandosi su molti aspetti dello sviluppo, in particolare sui rapporti
con i caregiver, gli insegnanti e i coetanei, Sroufe e i suoi colleghi
scoprirono che i caregiver non solo aiutano i bambini a mantenere lo stato
di attivazione entro limiti tollerabili, ma permettono loro di sviluppare la
capacità di regolare da soli il proprio stato di attivazione. I bambini
esposti regolarmente e in misura spropositata a stati di iperarousal e di
disorganizzazione non sviluppano una corretta sintonizzazione dei propri
sistemi cerebrali inibitori ed eccitatori e crescono aspettandosi di perdere
il controllo in presenza di qualcosa di sconvolgente. Questi bambini fanno
parte di una popolazione a rischio: nella tarda adolescenza, a metà di loro
veniva diagnosticata una grande quantità di problemi di salute mentale. Il
paradigma, quindi, era n troppo chiaro: bambini con un accudimento
coerente si mostravano, nel tempo, regolati, mentre un caregiving
discontinuo aveva come conseguenza un’attivazione cronica e siologica,
riscontrabile in questi ragazzi nel corso dello sviluppo. I gli di genitori
imprevedibili, spesso, nivano per richiedere in modo pretenzioso
l’attenzione su di sé, mostrandosi estremamente frustrati di fronte alle
piccole s de. Il continuo stato di attivazione li rendeva cronicamente
ansiosi: necessitavano di rassicurazioni sia nel gioco sia nelle attività di
scoperta, crescendo, di conseguenza, nervosi, e ciò andava a scapito
dell’esplorazione e della curiosità.
Una trascuratezza primaria grave da parte dei genitori o un accudimento
rigido portavano a problemi di comportamento a scuola, costituendo un
fattore predittivo di problemi con i coetanei e di mancanza di empatia per
il disagio degli altri.21 Questo pattern comportamentale creava un circolo
vizioso: l’attivazione cronica, associata alla mancanza di contenimento da
parte dei genitori, rendeva i bambini dirompenti, oppositivi e aggressivi. I
bambini distruttivi e aggressivi sono impopolari e ottengono ulteriori
ri uti e punizioni non solo da parte dei loro caregiver, ma anche dagli
insegnanti e dai coetanei.22
Sroufe imparò molto anche sulla resilienza: la capacità di riprendersi
dalle avversità. Il predittore di gran lunga più importante del grado in cui
i soggetti del suo studio sarebbero riusciti ad affrontare le delusioni
inevitabili della vita era costituito dal livello di sicurezza, fornito dal
caregiver, nei primi due anni di vita. Sroufe, informalmente, mi disse che
pensava che la resilienza in età adulta potesse essere prevista in base a
quanto le madri considerassero amabili i loro gli all’età di due anni.23

Gli effetti a lungo termine dell’incesto


Nel 1986, Frank Putnam e Penelope Trickett, sua collega al National
Institute of Mental Health, diedero il via al primo studio longitudinale
sull’impatto degli abusi sessuali sullo sviluppo femminile.24 Fino alla
pubblicazione dei risultati di questa ricerca, la nostra conoscenza sugli
effetti dell’incesto si basava esclusivamente sui racconti dei bambini che
avevano appena rivelato il loro abuso e sui resoconti degli adulti, che
stavano ricostruendo l’incesto che li aveva segnati, anni o addirittura
decenni dopo l’accaduto. Nessuno studio aveva mai seguito le ragazze nel
loro processo di crescita, per esaminare come l’abuso sessuale avesse
in uenzato il loro rendimento scolastico, le relazioni con i coetanei e la
percezione di sé, così come la vita amorosa. Putnam e Trickett presero
anche in considerazione i cambiamenti nel tempo degli ormoni dello
stress, degli ormoni riproduttivi, della funzione immunitaria e di altre
misure siologiche. Esplorarono, inoltre, i potenziali fattori protettivi,
come l’intelligenza e il sostegno della famiglia e dei colleghi.
I ricercatori reclutarono, con molta attenzione, ottantaquattro ragazze
inviate dal District of Columbia Department of Social Services, con una
storia di abuso sessuale da parte di un membro della famiglia. Questo
gruppo fu confrontato con un altro gruppo di ottantadue ragazze di pari
età, razza, status socioeconomico e costellazione familiare, che non
avevano mai subito abusi. L’età media di partenza era undici anni.
Durante i 20 anni successivi, i due gruppi furono accuratamente valutati
per sei volte: una volta all’anno per i primi tre anni, poi a diciotto anni, a
diciannove e a venticinque. Le madri parteciparono alle prime valutazioni
e, nelle ultime sedute, furono coinvolti i loro gli. Il 96% delle ragazze –
percentuale notevole –, ormai diventate donne, aderì alla ricerca per
l’intero suo corso.
I risultati erano inequivocabili: rispetto alle ragazze della stessa età, razza
e ambiente, le ragazze vittime di abusi sessuali soffrivano di una vasta
gamma di conseguenze profondamente negative, tra cui de cit cognitivi,
depressione, sintomi dissociativi, sviluppo sessuale problematico, alti tassi
di obesità e automutilazioni. Le vittime di abuso abbandonavano la scuola
superiore, soffrivano di malattie importanti e si rivolgevano al servizio
sanitario in misura più elevata del gruppo di controllo. Mostravano,
inoltre, anomalie nella risposta dell’ormone dello stress e una pubertà
precoce, accumulando una serie di diagnosi psichiatriche, apparentemente
non correlate.
La ricerca di follow-up rilevò molti dettagli su come l’abuso in uisca
sullo sviluppo. Per esempio, a ogni valutazione, alle ragazze di entrambi i
gruppi veniva chiesto di parlare della cosa peggiore accaduta loro durante
l’anno precedente. I ricercatori misuravano i cambiamenti siologici che
avevano luogo in concomitanza con i loro racconti, per valutarne il grado
di attivazione: durante la prima valutazione, tutte le ragazze reagivano con
disagio. Tre anni più tardi, in risposta alla stessa domanda, le ragazze non
abusate mostravano ancora sofferenza, ma le ragazze vittime di abusi si
mostravano chiuse e distaccate. La loro biologia ben si abbinava alle loro
reazioni osservabili: durante la prima valutazione, tutte le ragazze
evidenziavano un aumento del cortisolo, l’ormone dello stress; tre anni
dopo, le ragazze abusate facevano registrare una diminuzione del
cortisolo, nel parlare dell’evento più stressante accaduto l’anno
precedente. Con l’andare del tempo, il corpo si adatta al trauma cronico.
Una delle conseguenze del numbing è che gli insegnanti, gli amici e le
persone in generale probabilmente non si accorgono di quanto una
ragazza possa essere agitata; la ragazza stessa può non registrare questa
informazione. Se esce dall’intorpidimento, non reagisce allo stress nel
modo in cui dovrebbe: per esempio, con un’azione protettiva.
Lo studio di Putnam aveva anche messo in evidenza gli effetti pervasivi a
lungo termine dell’incesto su amicizie e relazioni sentimentali. Prima della
pubertà, le ragazze non abusate solitamente avevano diverse amiche,
avevano anche un ragazzo che funzionava come una sorta di spia,
fornendo loro informazioni sull’universo sconosciuto di quelle strane
creature, chiamate maschi. In adolescenza, i contatti con i ragazzi
aumentavano gradualmente. Al contrario, le ragazze vittime di abuso
raramente, prima della pubertà, avevano amici intimi, ragazze o ragazzi;
ma l’adolescenza porta con sé contatti con i ragazzi caotici e spesso
traumatizzanti.
La mancanza di amici, durante la scuola elementare, fa una differenza
sostanziale. Oggi siamo consapevoli di quanto crudeli possano essere le
bambine di terza, quarta e quinta elementare. Si tratta di un periodo
complesso e instabile, gli amici tendono a rivoltarsi l’uno contro l’altro e le
alleanze sono inclini a dissolversi, per esclusioni e tradimenti. Ma c’è un
lato positivo: con il tempo, le ragazze arrivano alla scuola media e la
maggior parte di loro comincia a padroneggiare tutta una serie di abilità
sociali, tra cui la capacità di identi care ciò che sentono, di negoziare con
gli altri, di ngere di essere interessate a persone che non stimano e così
via. E la maggior parte di esse costruisce una rete di sostegno al
femminile, abbastanza stabile da rivelarsi una sorta di squadra di de-
brie ng dello stress. Quando, lentamente, le ragazze entrano nel mondo
della sessualità e degli appuntamenti galanti, queste relazioni forniscono
loro lo spazio per ri ettere, spettegolare e discutere del signi cato del
tutto.
Le vittime di abusi sessuali hanno un percorso di sviluppo
completamente diverso. Non hanno amici di nessun genere, perché non
possono darsi; odiano se stesse e la loro stessa natura è nemica: ciò le
porta a reagire in modo eccessivo o a essere obnubilate. Non possono
tenere il passo nei normali giochi di inclusione/esclusione, all’insegna
dell’invidia, in cui ai giocatori è richiesto di rimanere calmi, anche sotto
stress. Gli altri ragazzi, di solito, non vogliono avere niente a che fare con
loro: sono semplicemente troppo strane.
Ma questo è solo l’inizio dei guai. Le ragazze vittime di abuso, isolate,
con storie di incesto, si sviluppano sessualmente circa un anno e mezzo
prima delle ragazze non abusate. Gli abusi sessuali accelerano il loro
orologio biologico e la secrezione degli ormoni sessuali. Abbastanza
presto, durante la pubertà, le ragazze abusate mostravano valori di
testosterone e di androstenedione, gli ormoni che alimentano il desiderio
sessuale, da tre a cinque volte più alti rispetto alle ragazze del gruppo di
controllo.
I risultati dello studio di Putnam e Trickett continuano a essere
pubblicati, ma è già stata creata una strada preziosa per i medici che si
occupano di ragazze vittime di abusi sessuali. Al Trauma Center, per
esempio, uno dei nostri medici riferì che, un lunedì mattina, una paziente
di nome Ayesha era stata violentata – di nuovo – durante il ne settimana.
Era scappata dalla casa famiglia alle 5 del sabato, era andata in un posto
malfamato a Boston, dove, di solito, si radunano tossicodipendenti, aveva
fumato qualche droga e fatto uso di altre, per poi salire in una macchina
con un gruppo di ragazzi. Alle 5 di domenica mattina, aveva subito una
violenza di gruppo. Come molti degli adolescenti che vediamo, Ayesha
non sa dire ciò che vuole o di cui ha bisogno e non riesce nemmeno a
pensare a come proteggersi. Al contrario, vive in un mondo di azioni. Il
cercare di spiegare il suo comportamento nei termini di
vittima/perpetratore non è utile, così come non lo è utilizzare etichette
come “Depressione”, “Disturbo oppositivo provocatorio”, “Disturbo
esplosivo intermittente”, “Disturbo bipolare” o una qualsiasi delle altre
opzioni offerte dai nostri manuali diagnostici. Il lavoro di Putnam ci ha
aiutati a capire come Ayesha sperimentasse il mondo: perché non può
dirci cosa accade dentro di lei, perché è così impulsiva e manca di
autoprotezione, e perché ci consideri spaventosi e invadenti, piuttosto che
come persone potenzialmente supportive.
Il DSM-5: un’autentica accozzaglia di “diagnosi”
Il DSM-5, pubblicato nel maggio del 2013, comprende circa trecento
disturbi, racchiusi in 945 pagine. Il manuale offre una grande varietà di
possibili etichette per i problemi associati a gravi traumi occorsi
precocemente, tra cui alcune nuove etichette come il Disturbo da
disregolazione dell’umore dirompente,25 Automutilazione non suicidaria,
Disturbo esplosivo intermittente, il Disturbo da impegno sociale disinibito
e il Disturbo da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e
della condotta.26
Prima della ne del XIX secolo, i medici classi cavano le malattie
secondo le manifestazioni sintomatiche, come febbre e pustole; non era
irragionevole, dato che avevano poco altro da aggiungere.27 Questo
metodo cambiò quando scienziati come Louis Pasteur e Robert Koch
scoprirono che molte malattie erano causate da batteri invisibili a occhio
nudo. La medicina, poi, fu trasformata dai tentativi di scoprire i modi per
eliminare questi organismi, piuttosto che dal trattare solamente le ulcere e
le febbri causate dagli stessi. Con il DSM-5, la psichiatria è regredita alla
pratica medica degli inizi del XIX secolo. A parte il fatto di conoscere
l’origine di molti dei problemi che identi ca, le sue “diagnosi” descrivono
fenomeni super ciali che ignorano completamente le cause sottostanti.
Prima della pubblicazione del DSM-5, l’American Journal of Psychiatry
aveva divulgato i risultati delle prove di validità delle varie nuove diagnosi,
evidenziando che il DSM è fortemente carente di ciò che, nel mondo della
scienza, è de nito “attendibilità”, vale a dire la capacità di produrre
risultati coerenti e replicabili. In altre parole, manca di validità scienti ca.
Stranamente, la mancanza di attendibilità e di validità non ha posto
ostacoli alla pubblicazione del DSM-5, nonostante l’opinione quasi
universale secondo cui il manuale non apporterebbe alcuna miglioria al
precedente sistema di classi cazione.28 Tutto ciò potrebbe essere
adducibile al fatto che l’APA abbia guadagnato 100 milioni di dollari con
il DSM-IV e abbia previsto (visto che tutti i professionisti della salute
mentale, molti avvocati e altri professionisti sono obbligati ad acquistare
l’ultima edizione) di guadagnare un analogo importo anche con il DSM-5?
L’ attendibilità diagnostica non è un problema astratto: se i medici non
riescono ad accordarsi su ciò che af igge i loro pazienti, non c’è modo di
fornire un trattamento adeguato. Quando non c’è alcuna relazione tra
diagnosi e cura, un paziente non diagnosticato è destinato a essere un
paziente maltrattato. Non gradiremmo che ci togliessero l’appendicite
quando il problema riguarda un calcolo renale, e non vorremmo essere
etichettati come “oppositivi” quando, in realtà, il nostro comportamento è
radicato nel tentativo di proteggerci contro un pericolo reale.
In una dichiarazione rilasciata nel giugno 2011, la British Psychological
Society si è lamentata con l’APA, affermando che nel DSM-5 le cause
della sofferenza psicologica sono state identi cate “come collocate
all’interno degli individui” e sono state trascurate “le innegabili cause
sociali di molti di questi problemi”.29 Questa critica si è aggiunta alla
marea di proteste da parte dei professionisti americani, tra cui i leader
dell’American Psychological Association e dell’American Counseling
Association. Perché i rapporti e le condizioni sociali non sono stati presi
in considerazione?30 Se si presta attenzione solo alla biologia fallace e ai
geni difettosi, considerandoli cause uniche dei problemi mentali, e si
ignorano abbandono, abusi e privazione, si rischia di imbattersi in molti
vicoli ciechi, quelli in cui le generazioni precedenti attribuivano la
responsabilità di tutto alle cattive madri.
Il ri uto più inatteso del DSM-5 è arrivato dal National Institute of
Mental Health, che nanzia la maggior parte della ricerca psichiatrica in
America. Nell’aprile 2013, poche settimane prima della pubblicazione
uf ciale del DSM-5, il direttore del NIMH, Thomas Insel, ha annunciato
che il suo ente non poteva più sostenere “le diagnosi basate sui sintomi”
del DSM-5.31 Piuttosto, l’istituto avrebbe devoluto i suoi nanziamenti a
quelli che vengono chiamati Research Domain Criteria (RDoC),32 utili per
creare un modello per studi che potessero andare oltre le attuali categorie
diagnostiche. Per esempio, una delle aree di interesse del NIMH è
costituita dai “Sistemi di modulazione/arousal (arousal, ritmo circadiano,
sonno e veglia)”, che si rivelano disturbati a vari livelli in molti pazienti.
Come il DSM-5, la cornice RDoC concettualizza le malattie mentali solo
come disturbi cerebrali. Ciò signi ca che il futuro nanziamento della
ricerca esplorerà i circuiti cerebrali “e altre misure neurobiologiche” alla
base dei problemi mentali.
Insel considera questo come un primo passo verso una sorta di
“medicina di precisione che ha trasformato la diagnosi e il trattamento del
cancro”. La malattia mentale, tuttavia, non è affatto simile al cancro: gli
esseri umani sono animali sociali e i problemi mentali riguardano il non
essere in grado di relazionarsi con gli altri, il non essere in armonia, il non
appartenere e, in generale, il non riuscire a collocarsi sulla stessa
lunghezza d’onda. Tutto ciò che ci riguarda – il nostro cervello, la nostra
mente e il nostro corpo – è orientato verso la collaborazione nei sistemi
sociali. È la nostra più potente strategia di sopravvivenza, la chiave del
nostro successo come specie, ed è proprio ciò che collassa nella maggior
parte delle forme di sofferenza mentale. Come abbiamo visto nella
seconda parte di questo volume, le connessioni neurali del cervello e del
corpo sono di vitale importanza per la comprensione della sofferenza
umana, ma è importante non ignorare le basi della nostra umanità: le
relazioni e le interazioni, che plasmano la mente e il cervello quando
siamo giovani e danno sostanza e signi cato alla vita nella sua interezza.
Le persone con storie di abuso, grave trascuratezza, o privazione grave
rimarranno misteriose e, in gran parte, non trattate, a meno che non
ascoltiamo il monito di Alan Sroufe: “Per comprendere appieno il modo
in cui ci trasformiamo nelle persone che siamo – la complessità, lo
sviluppo, passo dopo passo, delle nostre attitudini, delle capacità e del
nostro comportamento nel tempo – abbiamo bisogno di più di un elenco
di ingredienti, indipendentemente dalla loro importanza. È necessario
comprendere il processo evolutivo e come tutti questi fattori lavorino
insieme e in modo continuo nel tempo”.33
Gli operatori della salute mentale di prima linea, come gli assistenti
sociali e i terapeuti sottopagati e sopraffatti, sembrano essere d’accordo
con il nostro approccio. Poco dopo che l’APA ha respinto l’inclusione del
Disturbo traumatico dello sviluppo nel DSM, migliaia di medici,
provenienti da tutto il paese, hanno elargito piccoli contributi al Trauma
Center, per aiutarci ad avviare un ampio studio scienti co, noto come
prova di campo, per studiare ulteriormente il DTS. Tale sostegno ci ha
permesso di intervistare, con strumenti costruiti ad hoc, centinaia di
bambini, genitori biologici e adottivi e operatori della salute mentale in
cinque diverse aree, nel corso degli ultimi anni. I primi risultati di questi
studi sono stati pubblicati e la maggior parte di essi sarà resa nota quando
questo libro andrà in stampa.34
Che differenza farebbe la diagnosi di DTS?
Una prima risposta è che la diagnosi di DTS concentrerebbe la ricerca e il
trattamento (per non parlare delle sovvenzioni) sui principi fondamentali,
alla base dei mutevoli sintomi di bambini e adulti cronicamente
traumatizzati: disregolazione pervasiva biologica ed emotiva, fallimento e
disturbo dell’attaccamento, problemi di concentrazione e focalizzazione
sul compito, mancanza di competenza e un senso estremamente fragile di
identità personale coerente. Questi problemi trascendono e includono
quasi tutte le categorie diagnostiche, ma è più probabile che il trattamento
che non le considera prioritarie e centrali ne perda l’aspetto essenziale. La
nostra grande s da è quella di applicare le lezioni apprese dalla
neuroplasticità e dalla essibilità dei circuiti cerebrali, riprogrammare il
cervello e riorganizzare la mente di quelle persone che sono cablate dalla
vita stessa a percepire gli altri come una minaccia e a sentire se stessi come
privi di speranza.
Il sostegno sociale è una necessità biologica, non è un’opzione, e questa
realtà dovrebbe essere la spina dorsale di tutta la prevenzione e del
trattamento. Riconoscere i profondi effetti del trauma e della privazione
sullo sviluppo del bambino non conduce a incolpare i genitori. Possiamo
immaginare che i genitori abbiano fatto del loro meglio, ma tutti i genitori
hanno bisogno di aiuto per allevare i gli. Quasi tutte le nazioni
industrializzate, con l’eccezione degli Stati Uniti, lo riconoscono e
forniscono una qualche forma di supporto garantito alle famiglie. James
Heckman, vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 2000, ha
dimostrato che programmi di alto livello per la prima infanzia, che
coinvolgono i genitori e promuovono le competenze di base nei bambini
svantaggiati, portano a risultati, in termini di miglioramenti, che vanno
oltre il costo sostenuto.35
Nei primi anni Settanta lo psicologo David Olds lavorava in un centro
diurno a Baltimora, dove molti dei bambini in età prescolare provenivano
da contesti devastati da povertà, violenza domestica e abuso di droghe.
Consapevole che occuparsi solo dei problemi scolastici dei bambini non
era suf ciente per migliorare le loro condizioni di vita in casa, avviò un
programma di visite domiciliari, in cui infermiere specializzate aiutavano
le madri a fornire un ambiente sicuro e stimolante per i loro gli e,
gradualmente, le portavano a immaginare un futuro migliore per se stesse.
Vent’anni dopo, i bambini inseriti nel programma non solo erano più sani,
ma era anche meno probabile che riferissero di essere stati abusati o
gravemente trascurati rispetto ai bambini le cui madri non erano state
aiutate. Era anche più probabile che avessero terminato gli studi, non
fossero stati in carcere e lavorassero con un buon stipendio. Gli
economisti hanno calcolato che ogni dollaro investito nelle visite
domiciliari, nei programmi diurni e nei programmi prescolari faceva
risparmiare sette dollari in costi di assistenza, spesa sanitaria, trattamento
per abuso di sostanze, incarcerazione, oltre a determinare maggiori
entrate scali per un lavoro meglio pagato.36
Quando vado a insegnare in Europa, vengo, spesso, contattato da
funzionari dei ministeri della sanità dei paesi scandinavi, del Regno Unito,
della Germania o dei Paesi Bassi: mi si chiede di trascorrere un
pomeriggio con loro e di condividere le ultime ricerche sul trattamento di
bambini e adolescenti traumatizzati e delle loro famiglie. Lo stesso vale
per molti dei miei colleghi. Questi paesi si sono già impegnati per
un’assistenza sanitaria globale, assicurando un salario minimo garantito,
pagando la maternità o la paternità ai genitori dopo la nascita di un glio e
garantendo un’assistenza di alta qualità ai gli di madri che lavorano.
Questo approccio alla salute pubblica potrebbe avere a che fare con il
fatto che il tasso di carcerazione in Norvegia è di 71/100.000, nei Paesi
Bassi 81/100.000 e negli Stati Uniti 781/100.000, mentre il tasso di
criminalità in questi paesi è molto più basso che nel nostro e il costo delle
cure mediche è pari a circa la metà? Il 70% dei carcerati in California ha
trascorso diverso tempo in af damento durante lo sviluppo. Gli Stati
Uniti spendono 84 miliardi dollari all’anno per incarcerare persone e circa
44.000 dollari per persona; i paesi del Nord Europa spendono una
frazione di tale importo e investono, di contro, nell’aiutare i genitori a
crescere i propri gli in un ambiente sicuro e prevedibile. I loro punteggi
ai test accademici e i tassi di criminalità sembrano ri ettere il successo di
quegli investimenti.
1. Questi casi si riferiscono alle prove di campo DTS, condotte congiuntamente da Julian Ford,
Joseph Spinazzola e me.
2. H.J. Williams, M.J. Owen, M.C. O’Donovan (2009), “Schizophrenia genetics: New insights from
new approaches”, in British Medical Bulletin, 91, pp. 61-74. Vedi anche P.V. Gejman, A.R. Sanders,
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3. R. Yehuda, J.D. Flory, L.C. Pratchett, J. Buxbaum, M. Ising, F. Holsboer (2010), “Putative
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4. K.C. Koenen (2007), “Genetics of post-traumatic stress disorder: Review and recommendations
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33.
6. M. Szyf (2011), “The early life social environment and DNA methylation: DNA methylation
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78.
7. M. Szyf, P. McGowan, M.J. Meaney (2008), “The social environment and the epigenome”, in
Environmental and Molecular Mutagenesis, 49(1), pp. 46-60. È, a oggi, ampiamente dimostrato che
esperienze di vita di ogni genere modi cano le espressioni genetiche. Si consulti, per esempio: D.
Mehta, T. Klengel, K.N. Conneely, A.K. Smith, A. Altmann, T.W. Pace, E.B. Binder (2013),
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10. A. Roy, E. Gorodetsky, Q. Yuan, D. Goldman, M.A. Enoch (2010), “Interaction of FKBP5, a
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11. A.S. Masten, D. Cicchetti (2010), “Developmental cascades”, in Development and
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12. J. Spinazzola, J.D. Ford, M. Zucker, B.A. van der Kolk, S. Silva, S.F. Smith, M. Blaustein
(2005), “Survey evaluates complex trauma exposure, outcome, and intervention among children
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13. R.C. Kessler, C.B. Nelson, K.A. McGonagle (1996), “The epidemiology of co-occuring
addictive and mental disorders”, in American Journal of Orthopsychiatry, 66(1), pp. 17-31. Vedi
anche Institute of Medicine of the National Academies (2008), Treatment of Post-traumatic Stress
Disorder. National Academies Press, Washington, DC; C.S. North, A.M. Suris, M. Davis, R.P.
Smith (2009), “Toward validation of the diagnosis of Post-traumatic Stress Disorder”, in American
Journal of Psychiatry, 166(1), pp. 34-40.
14. J. Spinazzola, J.D. Ford, M. Zucker, B.A. van der Kolk, S. Silva, S.F. Smith, M. Blaustein
(2005), “Survey evaluates complex trauma exposure, outcome, and intervention among children
and adolescents”, in Psychiatric Annals, 35(5), pp. 433-439.
15. Il nostro gruppo era formato da Bob Pynoos, Frank Putnam, Glenn Saxe, Julian Ford, Joseph
Spinazzola, Marylene Cloitre, Bradley Stolbach, Alexander McFarlane, Alicia Lieberman, Wendy
D’Andrea, Martin Teicher, e Dante Cicchetti.
16. I criteri proposti per il Disturbo traumatico dello sviluppo si trovano in Appendice.
17. http://www.traumacenter.org/products/instruments.php
18. Altre informazioni su Sroufe si trovano su: www.cehd.umn.edu/icd/people/faculty/cpsy/sroufe.
Altri link e notizie si possono trovare su Minnesota Longitudinal Study of Risk and Adaptation e le
sue pubblicazioni su  http://www.cehd.umn.edu/icd/research/parent-
child/  e  http://www.cehd.umn.edu/icd/research/parent-child/publications/. Vedi anche L.A.
Sroufe, W.A. Collins (2009), The Development of the Person: The Minnesota Study of Risk and
Adaptation from Birth to Adulthood, Guilford Press, New York; L.A. Sroufe (2005), “Attachment
and development: A prospective, longitudinal study from birth to adulthood”, in Attachment &
Human Development, 7(4), pp. 349-367.
19. L.A. Sroufe (2005), The Development of the Person: The Minnesota Study of Risk and
Adaptation from Birth to Adulthood, Guilford Press, New York. La ricercatrice Karlen Lyons-Ruth
a Harvard ottenne risultati analoghi in un campione di bambini, seguito per circa diciotto anni:
attaccamento disorganizzato, inversione di ruolo, e mancanza di comunicazione materna all’età di
tre anni sono tra i più importanti predittori di rischio che i bambini afferiscano al sistema di salute
mentale e ai servizi sociali a diciotto anni.
20. D. Jacobvitz, L.A. Sroufe (1987), “The early caregiver-child relationship and attention de cit
disorder with hyperactivity in kindergarten: A prospective study”, in Child Development, 58(6), pp.
1496-1504.
21. G.H. Jr. Elder, T. van Nguyen, A. Caspi (1985), “Linking family hardship to children’s lives”, in
Child Development, 56(2), pp. 361-375
22. Per i bambini abusati sicamente la probabilità di essere diagnosticati come Disturbo
oppositivo provocatorio o Disturbo della condotta era di circa tre volte maggiore. Neglect e abuso
sessuale raddoppiavano l’eventualità di sviluppare un Disturbo d’ansia. L’indisponibilità
psicologica di un genitore o l’abuso sessuale raddoppiavano, a loro volta, la probabilità di
sviluppare in futuro un PTSD. La possibilità di ricevere diagnosi multiple era del 54% per i
bambini che erano stati abbandonati, del 60% per coloro che avevano subito abusi sici, e del
73% per i bambini che avevano subito anche un abuso sessuale.
23. Questa citazione si basa sul lavoro di Emmy Werner, che studiò 698 bambini nati sull’isola di
Kauai per quarant’anni, a partire dal 1955. Lo studio dimostrò che la maggior parte dei bambini,
cresciuti in famiglie instabili, era esposta a problemi di delinquenza, malattie mentali e siche, e
instabilità familiare. Un terzo di tutti i bambini ad alto rischio mostrava una buona quota di
resilienza, con probabilità di trasformarsi in adulti premurosi, competenti e duciosi. I fattori
protettivi erano: 1. essere un bambino attraente, 2. avere un forte legame con una gura di
riferimento, sostitutiva di quella genitoriale (come una zia, una babysitter, o un’insegnante), 3.
l’appartenenza a gruppi sociali o religiosi. E.E. Werner, R.S. Smith (1992), Overcoming the Odds:
High Risk Children from Birth to Adulthood, Ithaca and London: Cornell University Press, New
York.
24. P.K. Trickett, J.G. Noll, F.W. Putnam (2011), “The impact of sexual abuse on female
development: Lessons from a multigenerational, longitudinal research study”, in Development and
Psychopathology, 23, pp. 453-476. Vedi anche J.G. Noll, P.K. Trickett, F.W. Putnam (2003), “A
prospective investigation of the impact of childhood sexual abuse on the development of
sexuality”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 71, pp. 575-586; P.K. Trickett, C.
McBride-Chang, F.W. Putnam (1994), “The classroom performance and behavior of sexually
abused females”, in Development and Psychopathology, 6, pp. 183-194; P.K. Trickett, F.W. Putnam
(1990), Sexual Abuse of Females: Effects in Childhood, National Institute of Mental Health,
Washington; F.W. Putnam, P.K. Trickett (1987), The Psychobiological Effects of Child Sexual Abuse,
W.T. Grant Foundation, New York.
25. Nei sessantatré studi sul Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, non è stata posta
alcuna domanda sull’attaccamento, sul PTSD, sui traumi, sugli abusi sui minori, o sull’abbandono.
La parola “maltrattamento” viene menzionata in uno solo dei 63 articoli e in modo super ciale.
Non si parlava di genitorialità, di dinamiche familiari, né di terapia familiare.
26. In Appendice, in fondo al DSM, si possono trovare i cosiddetti codici V, etichette diagnostiche
senza un riconoscimento uf ciale, ovvero diagnosi che non sono ammissibili per il rimborso
assicurativo. Tra queste, si rintracciano situazioni di abuso infantile, trascuratezza, abuso sico
infantile e abuso sessuale infantile.
27. Ibidem., p. 121
28. Mentre scriviamo, il DSM-5 risulta al settimo posto nella lista dei best-seller di Amazon. L’APA
ha guadagnato 100 milioni di dollari con la precedente edizione del DSM. La pubblicazione del
DSM costituisce, con il contributo dell’industria farmaceutica e delle quote associative, la
principale fonte di reddito dell’APA.
29. G. Greenberg (2013), The Book of Woe: The DSM and the Unmaking of Psychiatry, Penguin,
New York, p. 239.
30. In una lettera aperta all’APA, David Elkins, il presidente di una delle divisioni dell’American
Psychological Association, si lamentava del fatto che il “DSM-5 si basasse su prove empiriche
fragili, su uno scarso interesse nei confronti della salute pubblica, e sulla concettualizzazione del
disturbo mentale come fenomeno principalmente medico”. La sua lettera è stata sottoscritta da
quasi cinquemila persone. Il presidente della American Counseling Association ha inviato una
lettera a nome dei 115.000 acquirenti del DSM al presidente dell’APA, anche per contestare la
qualità scienti ca sottesa al DSM-5, scrivendo: “Sollecito l’APA a rendere pubblico il lavoro del
comitato di revisione scienti ca, nominato per rivedere le modi che proposte, nonché per
consentire una valutazione di tutte le prove dei dati raccolti dai gruppi di esperti esterni e
indipendenti”.
31. Thomas Insel aveva già fatto delle ricerche sull’ormone dell’attacccamento (ossitocina) in
primati non umani.
32. National Institute of Mental Health, “NIMH Research Domain Criteria (RDoC),”  http://
www.nimh.nih.gov/research-priorities/rdoc/nimh-research-domain-criteria-rdoc.shtml.
33. L.A. Sroufe, B. Egeland, A. Carlson, W. Andrew Collins (2005), The Development of the
Person: The Minnesota Study of Risk and Adaptation from Birth to Adulthood, Guilford Press, New
York.
34. B.A. van der Kolk (2005), “Developmental trauma disorder: Toward a rational diagnosis for
children with complex trauma histories”, in Psychiatric Annals, 35(5), pp. 401-408; W. D’Andrea,
J. Ford, J. Spinazzola, B.A. van der Kolk (2012), “Understanding interpersonal trauma in children:
Why we need a developmentally appropriate trauma diagnosis”, in American Journal of
Orthopsychiatry, 82, pp. 187-200; J.D. Ford, D. Grasso, C. Green, J. Levine, J. Spinazzola, B.A. van
der Kolk (2013), “Clinical signi cance of a proposed developmental trauma disorder diagnosis:
Results of an international survey of clinicians”, in Journal of Clinical Psychiatry, 74(8), pp. 841-
849. Risultati aggiornati nel campo del disturbo da trauma dello sviluppo sono disponibili sul
sito: www.traumacenter.org.
35. J.J. Heckman (2006), “Skill formation and the economics of investing in disadvantaged
children”, in Science, 312 (5782), pp. 1900-1902.
36. D. Olds, C.R. Jr. Henderson, R. Cole, J. Eckenrode, H. Kitzman, D. Luckey, L. Pettitt, K.
Sidora, P. Morris, J. Powers (1998), “Long-term effects of nurse home visitation on children’s
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Ganzel, C.R. Jr. Henderson, E. Smith, D.L. Olds, J. Powers (2000), “Preventing child abuse and
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Godoy, B. Paulicin, J.J. Briggs-Gowan (2011), “A randomized controlled trial of child FIRST: A
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B.C. Stolbach, R. Minshew, V. Rompala, R. Dominguez, T. Gazibara, R. Finke (2013), “Complex
trauma exposure and symptoms in urban traumatized children: A preliminary test of proposed
criteria for Developmental Trauma Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 26(4), pp. 483-491.
Parte quarta

L’impronta del trauma


11

Svelare i segreti
Le “falle” della memoria traumatica

Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano queste due qualità. Sono
pieni di silenzio, e questa anzi è la loro virtù più forte, e rimangono tali
anche se la realtà si fa diversa. Sono visioni mute che mi parlano con lo
sguardo e coi gesti, ed è il loro silenzio che mi commuove nel profondo.
ERICH MARIA REMARQUE
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Nella primavera del 2002 mi fu chiesto di valutare un giovane uomo che


dichiarava di essere stato abusato sessualmente, da bambino, da Paul
Shanley, un prete cattolico che aveva prestato servizio nella sua parrocchia
a Newton, Massachusetts. A distanza di venticinque anni, quell’uomo
sembrava aver dimenticato l’abuso no a quando non era venuto a sapere
dell’indagine aperta sul prete, per molestie su dei ragazzini. La domanda
che mi si poneva era la seguente: sebbene avesse apparentemente
“rimosso” l’abuso per più di un decennio, i suoi ricordi potevano
considerarsi af dabili e io ero in grado di testimoniare la cosa davanti a un
giudice?
Condividerò il racconto di quest’uomo, che chiamerò Julian (uso uno
pseudonimo, nonostante il suo nome vero sia sui registri pubblici, perché
spero abbia ottenuto una qualche forma di privacy e di pace, con il
passare degli anni1), attingendo dai miei appunti originali sul caso.
Le sue esperienze descrivono la complessità della memoria traumatica.
Le controversie sul caso contro Padre Shanley sono, a loro volta, tipiche
delle passioni che possono suscitare situazioni come questa, n dai tempi
in cui gli psichiatri, alla ne del diciannovesimo secolo, descrissero per la
prima volta la natura atipica dei ricordi traumatici.

Travolti da sensazioni e immagini


L’11 febbraio 2001, Julian stava prestando servizio militare in una base
aerea. Durante la conversazione telefonica giornaliera con la sua ragazza,
Rachel, quest’ultima accennò all’articolo di fondo che aveva letto quella
mattina sul Boston Globe. Un prete di nome Shanley era sospettato di
molestie su minori. Non le aveva parlato una volta di padre Shanley, che
era stato il prete nella sua parrocchia a Newton? “Ti ha mai fatto niente?”,
gli chiese. In prima battuta, Julian ricordò padre Shanley come un uomo
molto gentile, che gli era stato di grande aiuto dopo il divorzio dei suoi.
Ma, con il procedere della conversazione, cominciò ad andare in panico.
Improvvisamente, vide il pro lo di Shanley sul telaio della porta, con le
mani protese a quarantacinque gradi, che guardava sso Julian, mentre
urinava. Sopraffatto dalle emozioni, disse a Rachel: “Devo andare”.
Chiamò il suo comandante, che arrivò accompagnato dal primo sergente,
e lo portarono dal cappellano della base. Julian ricorda di avergli detto:
“Sai cosa sta accadendo a Boston? È successo anche a me”. Nel momento
in cui si sentì pronunciare quelle parole, sapeva per certo che Shanley lo
aveva molestato, anche se non ne ricordava i dettagli. Julian si sentiva
estremamente imbarazzato di essere così emotivo; era stato sempre un
ragazzo forte, che aveva tenuto tutto per sé.
Quella notte se ne stette seduto in un angolo del suo letto, rannicchiato,
pensando di stare per perdere la testa e terrorizzato di poter essere
rinchiuso. Nel corso delle settimane successive, le immagini cominciarono
a scorrere nella mente, insieme alla paura di stare per impazzire
completamente. Pensò di prendere un coltello e con ccarselo nella
gamba, per interrompere il usso di immagini mentali. In un secondo
momento, gli attacchi di panico cominciarono ad accompagnarsi a crisi,
che chiamava “crisi epilettiche”. Si graf ava no al sanguinamento e si
sentiva sempre caldo, sudato e agitato. Tra un attacco di panico e l’altro si
sentiva “come uno zombie”; si osservava a distanza, come se ciò che gli
stava accadendo appartenesse a qualcun altro.
In aprile ricevette un congedo amministrativo: mancavano giusto dieci
giorni per poter ottenere tutti i bene ci del suo caso.
Quando Julian entrò nel mio studio, circa un anno dopo, mi trovai
davanti un ragazzo gentile, muscoloso, con l’aria depressa e scon tta. Mi
disse che si sentiva malissimo per aver lasciato l’aeronautica. Voleva farne
la sua carriera e aveva sempre ricevuto valutazioni eccellenti. Amava le
s de e il lavoro di squadra, e ora gli mancavano la disciplina e la struttura
della vita militare.
Julian era nato in un sobborgo di Boston ed era il secondo di cinque
gli. Quando aveva all’incirca sei anni, suo padre aveva abbandonato la
famiglia, perché non poteva tollerare di vivere con la madre di Julian, una
donna labile emotivamente. Julian e il padre vanno piuttosto d’accordo,
ma, talvolta, lo rimprovera per aver lavorato troppo per supportare la sua
famiglia e per averlo abbandonato nelle mani di una madre squilibrata.
Nessun genitore o fratello ha mai ricevuto un supporto psichiatrico o ha
fatto mai uso di droghe.
Julian era un atleta molto popolare alla scuola superiore. Sebbene avesse
molti amici, stava bene da solo e nascondeva di essere uno studente
povero, bevendo e divertendosi. Si vergognava di aver appro ttato della
sua popolarità e del suo bell’aspetto per fare sesso con molte ragazze.
Diceva di volere chiamare molte di loro per scusarsi di averle trattate
male.
Mi riferì, inoltre, di aver sempre odiato il suo corpo. Alla scuola
superiore, assumeva steroidi per pomparsi e marjuana quasi tutti i giorni.
Non era andato al college e, dopo il diploma, aveva praticamente vissuto
come un senzatetto per circa un anno, non riuscendo più a stare con la
madre. Si era arruolato per rimettere la sua vita sui giusti binari.
Julian incontrò padre Shanley a sei anni, quando andava a catechismo
nella chiesa parrocchiale. Ricordava che padre Shanley lo portava fuori
dalla classe per la confessione. Padre Shanley raramente indossava la
tonaca e Julian ricordava i suoi pantaloni di velluto a coste blu scuro.
Andavano in una grande stanza con due sedie, una di fronte all’altra, dove
c’era un inginocchiatoio. Le sedie erano tappezzate di rosso e c’era un
cuscino di velluto rosso sull’inginocchiatoio. Giocavano a carte, una sorta
di gioco di guerra, che sfociava in uno strip poker. In seguito, ricordò di
essere stato in piedi davanti a uno specchio in quella stanza. Padre
Shanley lo faceva chinare. Ricordò che padre Shanley gli metteva il dito
nell’ano. Non pensa che padre Shanley lo abbia mai penetrato con il pene,
ma che lo abbia fatto diverse volte con il dito.
Oltre a ciò, i suoi ricordi erano abbastanza incoerenti e frammentari.
Aveva dei ash della faccia di Shanley e di episodi isolati: Shanley in piedi
sulla porta del bagno; il prete che camminava sulle ginocchia e che “lo”
muoveva intorno alla sua lingua. Non riusciva a dire quanti anni avesse,
mentre tutto ciò accadeva. Ricordava che il prete gli diceva in che modo
fare sesso orale, ma non ricordava esattamente se lo avesse fatto.
Ricordava di aver distribuito i volantini in chiesa e che, dopo, padre
Shanley lo faceva sedere vicino a lui sulla panca, accarezzandolo con una
mano e tenendo la mano di Julian su di sé con l’altra. Rammentava che,
divenuto più grande, padre Shanley gli passava vicino e gli accarezzava il
pene. A Paul non piaceva, ma non sapeva come fare a porre ne alla cosa.
Dopo tutto, mi disse, “Padre Shanley era la cosa più vicina a Dio nelle mie
vicinanze”.
In aggiunta a questi frammenti di memoria, stavano chiaramente
prendendo forma e delineandosi le tracce del suo abuso sessuale. Qualche
volta, durante i rapporti sessuali con la sua ragazza, l’immagine del prete
irrompeva nella sua mente e, come disse, “la perdeva”. Una settimana
dopo il nostro colloquio, la sua ragazza gli aveva messo un dito in bocca e,
in modo scherzoso, aveva detto: “Fai un buon pompino”. Julian esplose e
cominciò a gridare: “Se lo dici ancora una volta ti uccido, cazzo!”. Dopo,
spaventati, cominciarono entrambi a piangere. Ne risultò una delle “crisi
epilettiche” di Julian, a seguito della quale si richiuse in posizione fetale,
tremando e piagnucolando come un bambino. Mentre me ne parlava,
Julian sembrava molto piccolo e spaventato.
Oscillava tra il provare dispiacere per l’uomo vecchio che era diventato
padre Shanley e il volere semplicemente “portarlo in una stanza da
qualche parte e ucciderlo”. Aveva, inoltre, parlato più volte di come si
vergognasse, di come fosse dif cile ammettere di non essere riuscito a
proteggersi: “Nessuno mi ha mai fottuto e ora mi tocca parlare con lei di
tutto questo”. Julian aveva un’immagine di sé come di una persona
grande, forte.
Come si spiega una storia come quella di Julian? Anni di apparente
amnesia, seguiti da immagini frammentate e disturbanti, sintomi sici
eclatanti e improvvise riattualizzazioni? Da terapeuta, che tratta le
persone con un’eredità traumatica, il mio scopo primario non è stabilire
cosa sia esattamente accaduto, ma aiutare le persone a tollerare le
sensazioni, le emozioni e le reazioni che provano, senza esserne sopraffatti
e dirottati. Quando emerge un contenuto di vergogna, la cosa più
importante di cui occuparsi è l’autocolpevolizzazione, il fatto di accettare
che il trauma non è colpa loro, che non è stato causato da qualche loro
difetto e che nessuno può meritarsi quello che è accaduto loro.
Quando c’è di mezzo una causa legale, tuttavia, la determinazione di
colpevolezza diventa primaria, e con essa l’ammissibilità delle prove.
Avevo, in precedenza, valutato dodici soggetti abusati sadicamente da
bambini in un orfanotro o cattolico a Burlington, Vermont. Arrivarono in
consultazione (con molti altri querelanti) più di quarant’anni dopo, e
sebbene nessuno di essi, almeno no alla presentazione della prima
denuncia, avesse avuto contatti con gli altri, i loro ricordi del trauma
erano incredibilmente simili: tutti chiamavano le cose con lo stesso nome
e, allo stesso modo, facevano riferimento ai particolari abusi che ciascuna
suora o prete aveva commesso, nelle stesse stanze, con gli stessi mobili,
come se tutto fosse parte della stessa routine quotidiana. Molti di essi, in
seguito, accettarono un patteggiamento extragiudiziale dalla diocesi del
Vermont.
Prima che un caso vada in giudizio, il giudice convoca una cosiddetta
Daubert hearing,2 per stabilire i parametri delle prove scienti che da
presentare alla giuria. In un caso del 1996, avevo convinto un giudice del
circuito federale di Boston che è frequente, per le persone traumatizzate,
non avere ricordi degli eventi in questione, e avevo spiegato che le
persone possono recuperare le loro memorie soltanto in seguito, magari
sotto forma di frammenti o di pezzi. Lo stesso discorso avrebbe potuto
essere fatto per il caso di Julian. Il mio referto, consegnato al suo
avvocato, rimane con denziale, ma si basa su decenni di esperienza clinica
e di ricerca sulla memoria traumatica, che includono i lavori di alcuni dei
più grandi pionieri della moderna psichiatria.

Memoria ordinaria versus memoria traumatica


Ciascuno di noi sa perfettamente quanto sia mutevole la nostra memoria;
le nostre storie cambiano e sono costantemente sottoposte a revisioni e
aggiornamenti. Quando i miei fratelli, le mie sorelle e io parliamo delle
storie della nostra infanzia, niamo per credere di essere cresciuti in
famiglie diverse, tanto le nostre storie differiscono l’una dall’altra. Le
storie autobiogra che non sono resoconti fedeli della realtà; sono, più che
altro, storie che trasmettono il nostro personale punto di vista sulla realtà.
La straordinaria capacità della mente umana di riscrivere la memoria è
illustrata nel Grant Study of Adult Development, che ha sistematicamente
seguito la salute sica e psicologica di più di duecento studenti maschi di
Harvard del secondo anno, delle classi 1939-1944, no al presente.3
Naturalmente, gli ideatori dello studio non potevano prevedere che la
maggior parte di essi sarebbe andata a combattere nella Seconda guerra
mondiale, ma, grazie a questo, siamo oggi in grado di tracciare le loro
memorie di guerra. Gli uomini furono intervistati in modo puntuale in
merito alla loro esperienza di guerra nel 1945/46 e nel 1989/1990.
Quarant’anni e mezzo dopo, la maggioranza di essi riportava racconti
piuttosto diversi da quelli riferiti nell’immediato dopoguerra. Con il
trascorrere del tempo, gli eventi avevano perso la caratteristica di terrore
intenso. Coloro che, invece, erano stati traumatizzati e avevano sviluppato
un conseguente PTSD, parlavano di quei fatti in maniera sostanzialmente
identica; i loro ricordi si erano preservati pressoché intatti,
quarantacinque anni dopo la ne della guerra.
Il fatto di ricordare o meno un determinato evento e l’accuratezza con
cui lo ricordiamo dipendono da quanto quello speci co evento sia stato
signi cativo per noi e da quanto ci siamo sentiti coinvolti emotivamente
da esso, in quel preciso momento. Il fattore chiave risiede nel nostro
livello di attivazione. Abbiamo tutti dei ricordi associati a particolari
persone, canzoni, odori e posti che ci hanno accompagnato per un certo
periodo. Alcuni di noi ricordano ancora molto vividamente dove si
trovassero e cosa stessero vedendo in quel martedì 11 settembre 2001, ma
soltanto un numero ridotto di noi ricorda i particolari della giornata
precedente, lunedì 10 settembre 2001.
La maggior parte dell’esperienza quotidiana nisce immediatamente
nell’oblio. Se trascorriamo una giornata in modo ordinario, non abbiamo
granché da raccontare quando torniamo a casa la sera. La mente lavora
secondo schemi e mappe, e gli accadimenti che si situano al di fuori di
schemi stabiliti catturano con più probabilità la nostra attenzione. Se
abbiamo avuto un aumento o un amico ci dà una notizia interessante,
tratterremo i dettagli del momento, almeno per un po’ di tempo.
Ricordiamo meglio insulti e ingiurie: l’adrenalina che secerniamo per
difenderci da potenziali minacce ci aiuta a incidere quegli eventi nella
nostra mente. Anche se il contenuto della critica svanisce, l’avversione per
la persona che l’ha pronunciata solitamente rimane.
Se ci accade di assistere a qualcosa di terri cante, come vedere un
bambino o un amico ferito in un incidente, conserveremo una memoria
più vivida e, in larga misura, più accurata dell’evento. Come hanno
dimostrato James McGaugh e colleghi, più adrenalina si produce, più
accurata sarà la nostra memoria.4 Ma tutto ciò è vero soltanto no a un
certo punto. Confrontati con l’orrore, in special modo l’orrore di uno
“shock inevitabile”, il nostro sistema si sovraccarica e collassa.
Naturalmente, non è possibile monitorare ciò che accade durante
un’esperienza traumatica, ma possiamo riattivare il trauma in laboratorio,
così come è stato fatto per le scansioni cerebrali descritte nei capitoli 3 e 4.
Quando vengono attivate le tracce della memoria sensoriale, di quella
visiva e uditiva, il lobo frontale si spegne, insieme, come abbiamo visto,
alle regioni deputate a mettere in parole i sentimenti,5 a quelle atte a
creare il nostro senso di orientamento nel tempo e al talamo, che integra i
dati grezzi delle sensazioni in entrata. A questo punto, subentra il cervello
emotivo, che non è sotto il controllo consapevole e che non comunica a
parole. Il cervello emotivo (l’area limbica e il tronco encefalico) esprime la
sua attivazione alterata attraverso i mutamenti dell’arousal emotivo, della
siologia del corpo e dell’azione muscolare. In condizioni ordinarie,
questi due sistemi di memoria – razionale ed emotivo – collaborano nel
fornire una risposta integrata. Un arousal elevato, tuttavia, non altera
soltanto l’equilibrio fra queste due aree, ma disconnette altre aree
cerebrali, necessarie a un adeguato immagazzinamento e all’integrazione
dell’informazione in entrata, come l’ippocampo e il talamo.6 Ne consegue
che le tracce della memoria traumatica non sono organizzate secondo una
narrativa logica e coerente, ma in frammenti sensoriali ed emotivi:
immagini, suoni e sensazioni siche.7 Julian vedeva un uomo con le
braccia protese, una panca, una scalinata, un gioco di strip poker; sentiva
una sensazione nel suo pene, un angosciante senso di paura. Ma mancava
una storia vera e propria.
Svelare i segreti del trauma
Alla ne del diciannovesimo secolo, quando per la prima volta la medicina
si occupò di studiare metodicamente i problemi mentali, la natura della
memoria traumatica rappresentava uno dei principali argomenti di
discussione. In Francia e in Inghilterra venne pubblicato un
ragguardevole numero di articoli su una sindrome conosciuta come
railway spine, relativa alle conseguenze psicologiche di incidenti ferroviari,
comprendenti una perdita di memoria.

I progressi più rilevanti, tuttavia, arrivarono dagli studi sull’isteria, un


disturbo mentale caratterizzato da crisi emotive, suscettibilità alla
suggestione, contrazioni e paralisi dei muscoli, sintomi – questi – che non
potevano essere spiegati da cause siologiche. Si riteneva che tale
condizione fosse propria di donne instabili, malate immaginarie (il nome
deriva dalla parola greca che signi ca “utero”). L’isteria divenne una
nestra sui misteri della mente e del corpo. I nomi dei più grandi pionieri
della neurologia e della psichiatria, come Jean-Martin Charcot, Pierre
Janet e Sigmund Freud, sono associati alla scoperta che il trauma – e,
nello speci co, il trauma da abuso sessuale infantile8 – si situa all’origine
dell’isteria. Questi primi ricercatori parlano delle memorie traumatiche
come “segreti patogeni”9 o “parassiti mentali”,10 perché, per quanto chi
soffre voglia dimenticare qualsiasi cosa sia accaduta, i ricordi continuano a
forzare la sua consapevolezza, intrappolando la persona in un presente
sempre uguale a se stesso, caratterizzato da orrore esistenziale.11
L’interesse per l’isteria era particolarmente rilevante in Francia e, come
spesso accade, le motivazioni vanno ricercate nella politica del tempo.
Jean-Martin Charcot, riconosciuto all’unanimità come il padre della
neurologia e i cui allievi, come Gilles de la Tourette, diedero il loro nome
a numerosi disturbi neurologici, era molto attivo anche in politica. Dopo
l’abdicazione di Napoleone III, nel 1870, ci fu uno scontro tra i
monarchici (richiamati dal clero) e i sostenitori della nascente Repubblica
Francese, che credevano nella scienza e in una democrazia laica. Charcot
era fermamente convinto che le donne potessero costituire un fattore
critico in questa battaglia, e i suoi studi sull’isteria “davano credibilità a
un campo che era stato considerato al di fuori di una seria investigazione
scienti ca. Prima di Charcot, le isteriche erano state considerate nte
malate e il loro trattamento era rimasto appannaggio di ipnotisti e
guaritori”.12
Charcot portò avanti studi accurati sui correlati neurologici e siologici
dell’isteria sia negli uomini sia nelle donne, che mettevano tutti in primo
piano le memorie incorporate e l’assenza di linguaggio. Per esempio, nel
1889, pubblicò il caso di un paziente chiamato Lelog, che presentava una
paralisi alle gambe, dopo essere stato coinvolto in un incidente con una
carrozza. Pur essendo caduto per terra e avendo perso conoscenza, Lelog
non aveva riportato ferite alle gambe e non si rilevarono segni neurologici
che giusti cassero la paralisi. Charcot scoprì che, poco prima di svenire,
Lelog aveva visto le ruote del calesse avvicinarsi e aveva fortemente
creduto che sarebbe stato investito. Notò che “il paziente […] non
conservava alcun ricordo […] le domande, che gli si rivolgevano su
questo punto, venivano disattese. Non sapeva nulla o quasi”.13
Come molti altri pazienti della Salpêtrière, Lelog esprimeva i suoi vissuti
attraverso il corpo: invece di ricordare l’incidente, aveva sviluppato una
paralisi alle gambe.14
Ma, per me, il vero eroe di questa storia è Pierre Janet, che aiutava
Charcot nella realizzazione di un laboratorio di ricerca dedicato allo
studio dell’isteria alla Salpêtrière. Nel 1889, lo stesso anno in cui fu
costruita la Tour Eiffel, Janet pubblicò il primo resoconto scienti co,
lungo quanto un libro, sullo stress traumatico: L’automatismo psicologico.15
Janet propose che all’origine di quello che oggi chiamiamo PTSD ci fosse
l’esperienza di emozioni veementi o un’attivazione intensamente emotiva.
Questo trattato spiegava che, dopo essere state traumatizzate, le persone
continuano – in modo automatico – a ripetere le stesse azioni e a provare
le stesse emozioni e sensazioni legate al trauma. E, a differenza di Charcot,
che era in primo luogo interessato a misurare e a documentare i sintomi
sici dei pazienti, Janet trascorreva un numero indicibile di ore a parlare
con loro, cercando di capire cosa stesse accadendo nella loro mente.
Sempre al contrario di Charcot, la cui ricerca si focalizzava sulla
comprensione del fenomeno dell’isteria, Janet fu, prima di tutto, un
clinico, il cui obiettivo era quello di curare i suoi pazienti. Per questo
motivo ho studiato le sue relazioni cliniche in modo dettagliato, e Janet è
diventato uno dei miei maestri più importanti.16

Amnesia, dissociazione e riattualizzazione


Janet fu il primo a parlare della differenza tra la “memoria narrativa” – le
storie che le persone raccontano del trauma – e la memoria traumatica
stessa. Uno dei suoi casi clinici riguardava la storia di Irene, una giovane
donna che era stata ricoverata a seguito della morte della madre per
tubercolosi.17 Irene aveva assistito la madre per parecchi mesi,
continuando a lavorare fuori casa per aiutare il padre alcolista e riuscire a
pagare le cure mediche della madre. Quando la madre, alla ne, morì,
Irene, esausta per lo stress e la mancanza di sonno, cercò per diverse ore
di rianimare il cadavere, chiamando la madre e cercando di
somministrarle a forza una medicina per via orale. A un certo punto, il
corpo senza vita della donna cadde dal letto, mentre il padre ubriaco
giaceva svenuto lì vicino. Anche dopo l’arrivo di una zia, che cominciò a
organizzare il funerale, Irene continuava a negare ciò che era accaduto. Fu
necessario convincerla a partecipare al funerale e, durante la cerimonia,
rideva. Qualche settimana dopo, fu ricoverata alla Salpêtrière, dove Janet
si occupò del suo caso.
Oltre all’amnesia sulla morte della madre, Irene accusava un altro
sintomo: molte volte, durante la settimana, ssava, in uno stato di trance,
un letto vuoto, incurante di ciò che accadeva intorno, e cominciava a
prendersi cura di una persona immaginaria. Riproduceva in modo
pedissequo i dettagli della morte della madre, ma non li ricordava.
Le persone traumatizzate ricordano, contemporaneamente, troppo e
troppo poco. Da una parte, Irene non aveva accesso a un ricordo
consapevole della morte della madre, non riusciva a raccontare la storia di
quanto era accaduto. Dall’altra, era costretta a mettere sicamente in atto
gli eventi legati alla morte della madre. Il termine “automatismo” di Janet
rende conto della natura involontaria, inconscia delle azioni.
Janet trattò Irene per molti mesi, principalmente con l’ipnosi. Alla ne,
le chiese nuovamente del decesso della madre. Irene cominciò a piangere
e disse: “Non mi faccia ricordare quelle cose terribili… mia madre era
morta e mio padre ubriaco, come sempre. Mi sono presa cura del suo
corpo esanime per tutta la notte. Ho fatto una serie di cose sciocche per
rianimarla… Il mattino seguente persi la testa”. Non soltanto Irene
riusciva a raccontare la storia, ma aveva completamente recuperato le sue
emozioni: “Mi sento molto triste e abbandonata”. A quel punto, Janet
ritenne la sua memoria “completa”, caratterizzata, cioè, da vissuti
appropriati.
Janet notò delle differenze sostanziali tra la memoria ordinaria e quella
traumatica. Le memorie traumatiche erano attivate da speci ci trigger. Nel
caso di Julian, il trigger era stato il commento seducente della sua ragazza;
per Irene era stato un letto. Quando un elemento dell’esperienza
traumatica viene sollecitato, molto probabilmente altri elementi vi si
assoceranno in modo automatico.
La memoria traumatica non è concentrata: Irene aveva impiegato tre-
quattro ore per rimettere in atto la sua storia, ma le è servito meno di un
minuto per riuscire a raccontare cosa fosse accaduto. La riattualizzazione
traumatica non ha uno scopo, mentre la memoria ordinaria è adattiva; le
nostre storie sono essibili e possono essere modi cate per adeguarsi alle
circostanze. La memoria ordinaria è essenzialmente sociale; è una storia
che raccontiamo con un ne: nel caso di Irene, lo scopo era ottenere
l’aiuto e il conforto del suo dottore; nel caso di Julian, il ne era l’invito a
unirmi alla sua ricerca di giustizia e rivalsa. Ma la memoria traumatica non
ha niente di sociale. La rabbia di Julian rispetto al commento della sua
ragazza non aveva uno scopo utile. Le riattualizzazioni sono congelate nel
tempo, immutevoli, e sono spesso esperienze isolate, umilianti e alienanti.
Janet coniò il termine dissociazione per descrivere la scissione e
l’isolamento delle tracce di memoria che osservava nei suoi pazienti. Aveva
anche previsto quanto fosse pesante il prezzo da pagare per tenere a bada
queste memorie traumatiche. Più tardi, scrisse che, quando i pazienti
dissociano le loro esperienze traumatiche, “si attaccano a un ostacolo
insormontabile”:18 “Non riuscendo a integrare le loro memorie
traumatiche, sembrano perdere anche la loro capacità di assimilare nuove
esperienze. È […] come se la loro personalità si fosse bruscamente
fermata a un certo punto, e non riuscisse più ad aprirsi a nuovi elementi e
alla loro assimilazione”.19 Anticipò che la mancata consapevolezza degli
elementi dissociati, con la relativa assenza di integrazione degli stessi in
una storia accaduta nel passato e, perciò stesso, nita, avrebbe potuto
comportare per i pazienti un lento declino del loro funzionamento
personale e professionale. Questo fenomeno è ora largamente
documentato dalla ricerca contemporanea.20
Janet scoprì che, mentre è normale cambiare e distorcere la nostra
memoria, i pazienti con PTSD sono incapaci di lasciarsi alle spalle
l’evento reale, l’origine di quei ricordi. La dissociazione impedisce al
trauma di integrarsi all’interno dei magazzini della memoria
autobiogra ca, conglomerati e sempre mutevoli, creando, in sostanza, un
sistema di memoria duale. La memoria normale integra gli elementi di
ciascuna esperienza all’interno del usso continuo dell’esperienza di sé,
attraverso un complesso processo di associazione; si pensi a una rete
densa, ma essibile, in cui ciascun elemento esercita una sottile in uenza
su tutti gli altri; ma, nel caso di Julian, le sensazioni, i pensieri e le
emozioni del trauma erano immagazzinati separatamente in frammenti
congelati, dif cilmente comprensibili. Se il problema del PTSD è la
dissociazione, l’obiettivo del trattamento dovrebbe essere l’associazione:
integrare gli elementi dissociati del trauma nella narrativa corrente della
vita, così che il cervello possa riconoscere che “quello era allora e questo è
ora”.

L’origine della “talking cure”


La psicoanalisi nacque nei reparti della Salpêtrière. Nel 1885, Freud andò
a Parigi a lavorare con Charcot e, più tardi, chiamò il suo glio
primogenito Jean-Martin, in onore di Charcot. Nel 1893, Freud e il suo
mentore viennese, Josef Breuer, citarono sia Charcot sia Janet in un
brillante articolo sulle cause dell’isteria. “L’isterico soffrirebbe per lo più di
reminiscenze”, scrivono, e vanno avanti, notando che questi ricordi non
sono soggetti al “processo di logoramento” dei ricordi normali, ma
“persistono per un lungo periodo con straordinaria freschezza”. Né le
persone traumatizzate possono controllare il loro emergere:
“Dobbiamo… accennare a un altro fatto sorprendente… di tali ricordi i
malati non dispongono affatto come degli altri comuni ricordi della loro
vita. Al contrario, queste esperienze sono del tutto assenti dalla memoria dei
malati nel loro stato psichico ordinario o sono presenti soltanto in forma
assai sommaria”21 (il corsivo nei passaggi citati è nell’originale di Freud e
Breuer).
Breuer e Freud credevano che le memorie traumatiche fossero perse
dalla coscienza ordinaria sia perché “la natura del trauma escludeva una
reazione”, sia perché iniziate “in occasione di emozioni gravemente
paralizzanti, quali, per esempio, il terrore”. Nel 1896, Freud, in modo
molto coraggioso, dichiarò che “alla base di tutti i casi di isteria vi è la
seduzione del bambino da parte di un adulto”.22 In seguito, di fronte
all’evidenza di un’epidemia di abusi all’interno delle migliori famiglie di
Vienna, tanto che, come qualcuno aveva notato, avrebbe potuto
includervi persino suo padre, cominciò velocemente a ritrattare. La
psicoanalisi cambiò rotta, ponendo l’enfasi sulle fantasie e sui desideri
inconsci, sebbene Freud, in qualche occasione, continuasse a riconoscere
la realtà dell’abuso sessuale.23 Dopo che gli orrori della Prima guerra
mondiale lo misero di fronte alla realtà delle nevrosi di guerra, Freud
riaffermò come elemento centrale del trauma la mancanza di una memoria
verbale e il fatto che, se una persona non ricorda, è probabile che agisca:
“Non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e
rimosso, e […] piuttosto li mette in atto. Egli reproduce quegli elementi
non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente,
senza rendersene conto”.24
L’eredità nale che l’articolo del 1893 di Breuer e Freud ci ha lasciato è
quella che ora chiamiamo la “talking cure”: “Trovammo, infatti, all’inizio
con mia grande sorpresa, che i singoli sintomi isterici scomparivano subito e
in modo de nitivo quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il
ricordo dell’evento determinante, risvegliando contemporaneamente anche
l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento
nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto
[corsivo nell’originale]. Ricordare senza affetto non produce quasi mai dei
risultati”.
Gli autori spiegano, infatti, che, a meno che non ci sia una “scarica
energetica” dell’evento traumatico, l’affetto “rimane attaccato alla
memoria” e non può essere scaricato. La reazione può essere scaricata da
un’azione – “dalle lacrime alle reazioni di rivalsa”. Ma il linguaggio serve a
sostituire un’azione; con il suo aiuto, un affetto può essere “abreagito” in
modo piuttosto ef cace. “Abbiamo cercato di far capire”, concludono,
“in quale maniera agisce il nostro metodo terapeutico. Esso elimina
l’ef cienza della rappresentazione originariamente non abreagita, in quanto
consente al suo affetto incapsulato di sfociare nel discorso; e la conduce alla
correzione associativa, traendola dalla coscienza normale”.
Anche se la psicoanalisi oggi non è più così praticata, la “talking cure” ha
continuato a vivere e gli psicologi hanno generalmente affermato che
raccontare il trauma nel dettaglio può aiutare le persone a lasciarselo alle
spalle. Questa è anche una premessa di base della terapia cognitivo-
comportamentale (CBT) che oggi viene insegnata nei corsi di laurea in
psicologia in tutto il mondo.
Sebbene le etichette diagnostiche siano cambiate, continuiamo a vedere
pazienti simili a quelli descritti da Charcot, Janet e Freud. Nel 1986, i miei
colleghi e io descrivemmo il caso di una donna che era stata una “cigarette
girl” al Boston’s Cocoanut Grove nightclub, quando fu distrutto da un
incendio nel 1942.25 Durante gli anni Settanta e Ottanta, rimetteva
puntualmente in atto la sua fuga sulla Newbury Street, a pochi isolati dal
luogo dell’evento, con una conseguente ospedalizzazione con una diagnosi
di schizofrenia e disturbo bipolare. Nel 1989, parlai del caso di un
veterano del Vietnam che tutti gli anni, il giorno esatto della morte di un
suo commilitone,26 inscenava una “rapina a mano armata”. Metteva il dito
nella tasca dei pantaloni, dichiarando che si trattava di una pistola, e
intimava a un commesso di vuotare il registratore di cassa, concedendogli,
però, tutto il tempo necessario per chiamare la polizia. Questo tentativo
inconscio di suicidarsi per “mano di un poliziotto” ebbe ne dopo che un
giudice decise di inviarmelo per un trattamento. Una volta affrontata la
colpa per la morte dell’amico, non ci furono più riattualizzazioni.
Tutti questi eventi con uiscono in una domanda importante: come
possono fare i dottori o gli agenti di polizia a riconoscere che certe
persone stanno soffrendo di uno stress traumatico nché queste persone
continuano a mettere in atto invece di ricordare? Se non si conosce la
storia di queste persone, ci sono molte probabilità che vengano etichettate
come matte e punite come criminali, invece di essere aiutate a integrare il
loro passato.

La memoria traumatica sotto processo


Almeno 24 uomini avevano dichiarato di essere stati molestati da Paul
Shanley e molti di essi avevano ottenuto un risarcimento civile
dall’arcidiocesi di Boston. Julian era stato la sola vittima a essere chiamata
a testimoniare nel processo contro Shanley. A febbraio del 2005, l’ex prete
fu riconosciuto colpevole dei capi d’accusa di stupro su un bambino e di
due capi d’accusa di aggressione e percosse su un altro. Il verdetto
stabiliva da dodici a quindici anni di prigione.
Nel 2007 l’avvocato di Shanley, Robert F. Shaw Jr, presentò una mozione
per un nuovo processo, sostenendo le convinzioni di Shanley di essere
vittima di un errore giudiziario. Shaw cercò di perorare la causa che i
“ricordi rimossi” non fossero stati, di fatto, accettati dalla comunità
scienti ca e che le conclusioni, quindi, fossero state basate su una “scienza
spazzatura”, nonché che ci fossero state prove insuf cienti circa lo status
scienti co dei ricordi rimossi prima del processo. L’appello fu ri utato dal
giudice in primo grado, ma, due anni dopo, fu accolto dalla Corte
suprema del Massachusetts. Quasi mille psichiatri e psicologi
rappresentanti di quasi tutti gli Stati Uniti e otto provenienti da paesi
stranieri, designati come amicus curiae,27 asserirono in breve che “non si
era mai dimostrato che esistessero dei ricordi rimossi e che, pertanto, essi
non potevano essere ammessi come prova di evidenza”. Tuttavia, il 10
gennaio del 2010, la Corte – all’unanimità – confermò la condanna di
Shanley, con questa dichiarazione: “In sunto, le conclusioni del giudice in
merito al fatto che la mancanza di prove scienti che non abbia in alcun
modo invalidato la teoria che un individuo possa sperimentare un’amnesia
dissociativa sono supportate dalle testimonianze… non c’è stato abuso di
discrezione nell’ammissione delle testimonianze di esperti in materia di
amnesia dissociativa”.
Nel prossimo capitolo parlerò più estesamente di memoria e di amnesia,
e di come il dibattito sui ricordi repressi, che è cominciato con Freud,
continui a giocare un suo ruolo oggi.

1. Al contrario delle consultazioni cliniche, per le quali esiste un segreto professionale, le perizie
penali sono documenti pubblici, condivisi con gli avvocati, i giudici e le giurie. Prima di iniziare
una perizia, quindi, avverto sempre i clienti circa l’impossibilità di tenere segrete le informazioni
che mi riferiscono.
2. Il giudice, in quanto esperto di diritto, ma non di altri campi, può avvalersi dell’apporto di
esperti per poter giungere a delle decisioni. In particolare, per quanto riguarda l’ammissibilità della
prova scienti ca, il contributo degli esperti, in termini di forma e di sostanza, si è determinato sulla
base di due sentenze storiche, divenute standard, riferimenti a cui rifarsi nei processi successivi: la
sentenza Frye del 1923 e la sentenza Daubert del 1993. Il caso Daubert si riferiva ai probabili
effetti collaterali sul feto del Benedectin, un farmaco contro le nausee in gravidanza prodotto dalla
Merrell Dow Pharmaceuticals. La sentenza Daubert ha implicato che i giudici, in quanto garanti
della legge, avessero l’ultima parola sulla validità delle informazioni acquisite in giudizio. Seppure
si debbano avvalere del parere di esperti, i giudici si riservano il diritto di decidere a chi
riconoscere la quali ca di scienziato: saranno poi gli strumenti processuali a garantire la qualità del
risultato e a fare emergere la migliore scienti cità. Per maggiori informazioni, si consulti il
sito:  http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/lisa-giupponi/giudice-lesperto-e-paradosso-
della-prova-scienti ca/marzo-2013-0. [NdC]
3. K.A. Lee, G.E. Vaillant, W.C. Torrey, G.H. Eider (1995), “A 50-year prospective study of the
psychological sequelae of World War II Combat”, in American Journal of Psychiatry, 152(4), pp.
516-522.
4. J.L. McGaugh, M.L. Hertz (1972), Memory Consolidation, Albion Press, San Francisco; L.
Cahill, J.L. McGaugh (1998), “Mechanisms of emotional arousal and lasting declarative memory”,
in Trends in Neurosciences, 21(7), pp. 294-299.
5. A.F. Arnstein, R. Mathew, R. Ubriani, J.R. Taylor, A.F. Arnstein (1999), “α-1 Noradrenergic
Receptor Stimulation Impairs Prefrontal Cortical Cognitive Function”, in Biological Psychiatry,
45(1), pp. 26-31. Vedi anche A.F. Arnstein (1998), “Enhanced: The biology of being frazzled”, in
Science, 280 (5370), pp. 1711-1712; S. Birnbaum, K.T. Gobeske, K.T. Auerbach, G.R. Taylor
(1999), “A role for norepinephrine in stress-induced cognitive de cits: α-1 Noradrenergic-1-
adrenoceptor mediation in the prefrontal cortex”, in Biological Psychiatry, 46(9), pp. 1266-1274.
6. Y.D. van der Werf, J. Jolles, M.P. Witter, H.B. Uylings (2003), “Special issue: Contributions of
thalamic nuclei to declarative memory functioning”, in Cortex, 39, pp. 1047-1062. Vedi anche B.M.
Elzinga, J.D. Bremmer (2002), “Are the neural substrates of memory the nal common pathway in
Post-traumatic Stress Disorder (PTSD)?”, in Journal of Affective Disorders, 70, pp. 1-17; L.M.
Shin, C.I. Wright, P.A. Canistraro, M.M. Wedlg, K. McMullin, B. Martis, M.L. Maclin, N.B.
Lasko, S.R. Cavanagh, T.S. Krangel, S.P. Orr, R.K. Pitman, P.J. Whalen, S.L. Rauch (2005), “A
functional magnetic resonance imaging study of amygdala and medial prefrontal cortex responses
to overtly presented fearful faces in Post-traumatic Stress Disorder”, in Archives of General
Psychiatry, 62, pp. 273-281; L.M. Williams, A.H. Kemp, K. Felmingham, M. Barton, G. Olivieri,
A. Peduto, E. Gordon, R.A. Bryant (2006), “Trauma modulates amygdala and medial prefrontal
responses to consciously attended fear”, in Neuroimage, 29, pp. 347-357; R.A. Lanius, P.C.
Williamson, K. Boksman, M. Densmore, M. Gupta, R.W. Neufeld, J.S. Gati, R.S. Menon (2002),
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Functional Magnetic Resonance Imaging Investigation”, in Biological Psychiatry, 52, pp. 305-311;
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awareness and autonomic arousal on functional neuroanatomy”, in Neuron, 3, pp. 653-663; M.
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emotion”, in Journal of Neuroscience, 21, RC165; K.N. Ochsner, R.D. Ray, J.C. Cooper, E.R.
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supporting the cognitive down- and up-regulation of negative emotion”, in Neuroimage, 23, pp.
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Contribution of medial prefrontal cortex”, in Neuroscience Letters, 163, pp. 109-113; M.R. Milad,
G.J. Quirk (2002), “Neurons in medial prefrontal cortex signal memory for fear extinction”, in
Nature, 42, pp. 70-74; J. Amat, M.V. Baratta, E. Paul, S.T. Bland, L.R. Watkins, S.F. Maier (2005),
“Medial prefrontal cortex determines how stressor controllability affects behavior and dorsal
Raphe Nucleus”, in Nature Neuroscience, 8, pp. 365-371.
7. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the fragmentary nature of traumatic
memories: Overview and exploratory study”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 505-525.
8. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton, NJ. Vedi anche H.F. Ellenberger (1970), La scoperta dell’inconscio.
Storia della psichiatria dinamica, tr. it. Boringhieri, Torino 1976.
9. T. Ribot (1887), Diseases of Memory, Appleton, pp. 108-109; H.F. Ellenberger (1970), La
scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, tr. it. Boringhieri, Torino 1976.
10. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
11. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton.
12. J.L. Herman (1997), Guarire dal trauma, tr. it. Magi, Roma 2005, p. 23.
13. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Priceton, NJ. Si veda anche, J.M. Charcot (1888), Clinical Lectures on Certain
Diseases of the Nervous System, vol. 3, New Sydenham Society, London.
14. G. Didi-Huberman (2003), L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotogra ca della
Salpêtrière, tr. it. Marietti, Torino 2008. [NdC]
15. P. Janet (1889), L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale sulle forme inferiori
dell’attività umana, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
16. È stato Onno van der Hart a presentarmi il lavoro di Janet, essendo, senza ombra di dubbio, il
più grande studioso vivente della sua opera. Ho avuto il grande privilegio di collaborare fianco a
fianco con Onno nella stesura di un compendio delle idee fondamentali di Janet. B.A. van der
Kolk, O. van der Hart (1989), “Pierre Janet and the breakdown of adaptation in psychological
trauma”, in American Journal of Psychiatry, 146, pp. 1530-1540; B.A. van der Kolk, O. van der
Hart (1991), “The intrusive past: The exibility of memory and the engraving of trauma”, in
Imago, 48, pp. 425-454.
17. P. Janet (1904), “L’amnésie et la dissociation des souvenirs par l’émotion”, in Journal de
Psychologie, 1, pp. 417-453.
18. P. Janet (1925), Psychological Healing, MacMillian, New York, p. 660.
19. P. Janet (1911), L’Etat mental des hystériques, 2nd ed., Félix Alcan, Paris (ristampa, La tte
Reprints, Marsiglia 1983); P. Janet (1907), The Major Symptoms of Hysteria, MacMillian, New York
(ristampa, Hafner, New York 1965); P. Janet (1928), L’évolution de la mémoire et de la notion du
temps, A. Chahine, Paris.
20. J.L. Titchener (1986), “Post-traumatic decline: A consequence of unresolved destructive
drives”, in Trauma and its Wake, 2, pp. 5-19.
21. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
22. S. Freud (1896), “Etiologia dell’isteria”, in Opere, vol. 2, tr. it. Boringhieri, Torino 1968, pp.
329-360.
23. S. Freud (1905), “Tre saggi sulla teoria sessuale”, in Opere, vol. 4, tr. it. Boringhieri, Torino
1970, p. 499: Determinanti per il ripresentarsi dell’attività sessuale sono cause interne e occasioni
esterne: le une e le altre, in casi di malattia nevrotica, indovinabili partendo dalla strutturazione dei
sintomi e precisabili con sicurezza mediante l’indagine psicoanalitica. Parleremo a seguito delle
cause interne; le occasioni accidentali esterne hanno, in quest’epoca, grande e duratura importanza
[qui Freud pone grande enfasi], in prima linea sta l’in uenza della seduzione, che tratta
precocemente il bambino come oggetto sessuale e gli fa conoscere in circostanze che si imprimono
fortemente in lui il soddisfacimento delle zone genitali, soddisfacimento che egli, in seguito, sarà
per lo più costretto a rinnovare in modo onanistico. Questa in uenza può provenire da adulti o da
altri bambini; non posso ammettere di averne sopravvalutato la frequenza e l’importanza nel mio
saggio del 1896, Etiologia dell’isteria, sebbene allora non sapessi ancora che individui rimasti
normali possono avere avuto negli anni dell’infanzia le stesse esperienze [degli isterici] e per questa
ragione attribuissi alla seduzione un valore maggiore che i fattori dati nella costituzione sessuale e
nello sviluppo sessuale. È evidente che non c’è bisogno della seduzione per risvegliare la vita
sessuale del bambino, che tale risveglio può prodursi anche spontaneamente per cause interne. S.
Freud (1916), “Introduzione alla Psicoanalisi”, in Opere, vol. 8, tr. it., Boringhieri, Torino 1976, p.
525: Particolare interesse riveste la fantasia della seduzione, perché n troppo spesso non è una
fantasia bensì un ricordo reale.
24. S. Freud (1914), “Ricordare, ripetere e rielaborare”, in Nuovi consigli sulla tecnica della
psicoanalisi, in Opere, vol. 7, tr. it. Boringhieri, Torino 1975, pp. 355-356. Si veda anche l’intera
edizione delle Opere, tradotte in Italia da Boringhieri.
25. B.A. van der Kolk (1986), Psychological Trauma. APA, Washington, DC.
26. B.A. van der Kolk (1989) “The compulsion to repeat the trauma”, in Psychiatric Clinics of
North America, 12(2), pp. 389-411.
27. È un termine giuridico che, tradotto letteralmente, signi ca “amico della corte”. Con questa
espressione, ci si riferisce a chiunque, che non sia parte in causa, offra volontariamente
informazioni alla corte su un aspetto della legge o su altre parti del caso, per aiutare la corte a
decidere.
12

L’insostenibile pesantezza
del ricordare

Il corpo è come un testo su cui è impressa la nostra memoria; 


ricordare, quindi, non è altro che reincarnarsi.
KATIE CANNON

L’interesse scienti co nei confronti del trauma è stato altalenante negli


ultimi 150 anni. La morte di Charcot, nel 1893, e la nuova teorizzazione di
Freud, che poneva l’accento sul ruolo del con itto interiore, delle difese e
degli istinti nell’insorgenza della sofferenza mentale, contribuirono a una
generale perdita di interesse nei confronti del trauma da parte della
medicina. La psicoanalisi raggiunse rapidamente la popolarità. Nel 1911,
uno psichiatra di Boston, Morton Prince, già collaboratore di William
James e Pierre Janet, si lamentò del fatto che coloro che erano interessati
agli effetti del trauma erano come “i molluschi impantanati dall’alta marea
nel porto di Boston”.
Il disinteresse per il trauma durò solo pochi anni: a causa dello scoppio
della Prima guerra mondiale, nel 1914, medicina e psicologia si trovarono
a confrontarsi con centinaia di migliaia di uomini affetti da strani sintomi
psicologici, condizioni mediche inspiegabili e perdita di memoria. La
nuova tecnologia cinematogra ca diede la possibilità di lmare i soldati e
oggi, su YouTube, possiamo osservare le loro peculiari posture siche, le
espressioni verbali, gli sguardi terrorizzati, i tic, l’espressione sica,
incarnata del trauma: “Una memoria inscritta simultaneamente nella
mente, attraverso immagini e parole, e nel corpo”.1
Già durante i primi anni di guerra, gli inglesi crearono la diagnosi di
“shell shock”,2 che dava diritto ai veterani di accedere a un percorso di
cura e di ottenere la pensione di invalidità. La diagnosi simile e
alternativa,“nevrastenia”, non dava diritto a nessuna delle due
opportunità; la scelta tra le due diagnosi dipendeva dall’orientamento
terapeutico del medico.3
Più di un milione di soldati britannici prestarono servizio sul fronte
occidentale. Solo nelle prime ore del 1° luglio del 1916, durante la
battaglia della Somme,4 l’esercito britannico riportò 57.470 vittime, di cui
19.240 morti: fu il giorno più sanguinoso nella sua storia militare. Lo
storico John Keegan, a proposito del comandante Marshal Douglas Haig,
la cui statua domina oggi la Whitehall a Londra, un tempo il centro
dell’impero britannico, dice: “Nel suo comportamento pubblico e nei suoi
diari privati, non si intravede preoccupazione alcuna per la sofferenza
umana”. Alla battaglia della Somme “inviò il ore della gioventù
britannica a morire o a essere mutilato”.5
Con il proseguire della guerra, lo shell shock comprometteva sempre di
più l’ef cienza delle forze armate. Dibattuto tra l’occuparsi della
sofferenza dei soldati e il perseguire la vittoria contro la Germania, il
British General Staff rilasciò, nel giugno del 1917, il General Routine
Order N. 2384, che recitava: “Mai, in nessun modo, si potrà usare
l’espressione shell shock, né in forma parlata né in forma scritta, né nei
verbali del reggimento né nelle relazioni ospedaliere né in qualsiasi altro
referto medico”. Tutti i soldati che presentavano problemi psichiatrici
avrebbero così ricevuto la sola diagnosi di “NYDN” (“Not Yet
Diagnosed, Nervous”, problemi nervosi non ancora diagnosticati).6 Nel
novembre 1917, il General Staff negò a Charles Samuel Myers, che si
occupava di feriti di guerra in quattro differenti ospedali da campo, il
permesso di presentare un articolo sullo shell shock al British Medical
Journal. I tedeschi furono ancora più duri: considerarono lo shell shock
come un difetto del carattere e lo trattarono con metodi anche crudeli,
come l’elettroshock.
Nel 1922, il governo britannico rilasciò il Southborough Report, il cui
obiettivo era quello di proibire la diagnosi di shell shock in qualsiasi
guerra futura, per non incorrere in ulteriori richieste di risarcimento. Il
report suggeriva l’eliminazione della diagnosi da tutte le nomenclature
uf ciali e insisteva sul vietare la classi cazione di quei casi come “vittime
di guerra, ma valutati come malattie o disagio”.7 Il punto di vista uf ciale
fu che truppe ben addestrate e opportunamente condotte non potessero
soffrire di shell shock, e che da tale sindrome potessero essere affetti
soltanto soldati indisciplinati e svogliati. Mentre la tempesta politica
riguardo alla legittimità di questa diagnosi continuò a imperversare per
molti altri anni, le relazioni su come trattarla al meglio scomparvero dalla
letteratura scienti ca.8
Negli Stati Uniti, la sorte dei veterani fu segnata anche da altri problemi.
Nel 1918, quando i soldati ritornarono a casa dai campi di battaglia
francesi e delle Fiandre, furono accolti come eroi nazionali, proprio come
i soldati che oggi tornano dall’Iraq e dall’Afghanistan. Nel 1924, il
Congresso votò per premiare questi soldati con un bonus di 1,25 dollari
per ogni giorno di servizio oltremare, ma il pagamento fu posticipato al
1945.
Nel 1932, quando gli Stati Uniti attraversarono la Grande Depressione
e, nel maggio di quell’anno, circa quindici milioni di disoccupati e
veterani poveri si accamparono nel Mall di Washington DC,9 chiedendo di
ricevere il pagamento immediato dei loro bonus, il Senato approvò il
disegno di legge per rimandare il pagamento con un voto di 62 a 18. Un
mese dopo, il presidente Hoover ordinò all’esercito di sgombrare
l’accampamento dei veterani. Il comandante dell’esercito, il generale
Douglas MacArthur, si mise a capo delle truppe, supportate da sei carri
armati. Il maggiore Dwight D. Eisenhower teneva i collegamenti con la
polizia di Washington e il maggiore George Patton comandava la
cavalleria. I soldati, armati di fucili, caricarono, lanciando gas lacrimogeni
sulla folla dei veterani. Il mattino successivo, il Mall era deserto e
l’accampamento era stato dato alle amme.10 I veterani non ricevettero
mai le loro pensioni.
Mentre i politici e la medicina voltavano le spalle ai soldati che
rientravano a casa, gli orrori della guerra rimasero impressi nella
letteratura e nell’arte. In Niente di nuovo sul fronte occidentale,11 un
romanzo sulle esperienze di guerra dei soldati al fronte, scritto dall’autore
tedesco Erich Maria Remarque, il protagonista del libro, Paul Baumer,
parla per un’intera generazione: “Oggi mi accorgo che a mia insaputa mi
sono logorato e maturato. Non mi trovo più bene qui; è un mondo
estraneo […]. Le ore migliori sono quelle che passo da solo; almeno
nessuno mi disturba […]. Tutti parlano troppo. Hanno preoccupazioni,
scopi, desideri, che mi è impossibile concepire a modo loro”.12 Pubblicato
nel 1929, divenne immediatamente un best seller internazionale, e fu
tradotto in venticinque lingue. La versione cinematogra ca di Hollywood
del 1930 vinse il Premio Oscar come miglior lm.
Quando Hitler andò al potere, qualche anno più tardi, Niente di nuovo
sul fronte occidentale fu uno dei primi libri de niti “degenerati” dai nazisti
e, per questo, venne bruciato nella piazza di fronte all’Università
Humboldt di Berlino.13 Evidentemente, la consapevolezza degli effetti
devastanti della guerra sulla mente dei soldati avrebbe costituito una
minaccia allo slancio dei nazisti verso un altro periodo bellico.
Negare le conseguenze del trauma può provocare danni al tessuto
sociale: il ri uto di affrontare i danni causati dalla guerra e l’intolleranza
nei confronti della “debolezza” giocarono un ruolo importante nell’ascesa,
in tutto il mondo, negli anni Trenta, del fascismo e del militarismo. I
considerevoli risarcimenti di guerra, stabiliti dal Trattato di Versailles,
umiliarono ulteriormente una Germania già caduta in disgrazia. La società
tedesca, a sua volta, si accanì contro i propri veterani di guerra
traumatizzati, che vennero considerati creature inferiori. Questa lunga
serie di umiliazioni degli impotenti e dei deboli preparò il terreno per il
completo svilimento dei diritti umani sotto il regime nazista: la
giusti cazione morale del forte che assoggetta il debole – il razionale
sotteso alla guerra successiva.

Il nuovo volto del trauma


Lo scoppio della Seconda guerra mondiale spinse Charles Samuel Myers e
lo psichiatra americano Abram Kardiner a pubblicare i risultati del loro
lavoro con i soldati e i veterani della Prima guerra mondiale. Shell Shock
in France 1914-1918 (1940)14 e The Traumatic Neuroses of War (1941)15
costituirono dei riferimenti per gli psichiatri che trattavano i soldati
coinvolti nel nuovo con itto, i quali soffrivano di “nevrosi di guerra”. Lo
sforzo degli Stati Uniti nel con itto fu enorme e i progressi della
psichiatria di frontiera ri etterono quell’impegno. È ancora YouTube a
offrire una nestra diretta sul passato: il documentario Let there Be Light
(1946), del regista hollywoodiano John Houston, mostra come l’ipnosi
fosse il metodo principalmente impiegato per il trattamento della nevrosi
di guerra.16
Nel lm di Houston, realizzato durante il suo servizio presso gli Army
Signal Corps,17 i dottori sono ancora uomini autoritari e i pazienti giovani
uomini terrorizzati, che manifestano, però, il loro trauma in maniera
differente da quelli della Prima guerra mondiale. Questi ultimi erano
distrutti, mostravano tic facciali e collassavano con il corpo paralizzato,
mentre gli uomini della generazione successiva parlano ossequiosamente e
appaiono turbati. Il loro corpo manifesta ancora le tracce del trauma:
hanno lo stomaco sottosopra, il battito cardiaco accelerato, sono
sopraffatti dal panico. Il trauma, tuttavia, non aveva solo colpito il loro
corpo. Lo stato di trance indotto dall’ipnosi consentì loro di mettere in
parole ciò che avevano paura di ricordare: il terrore, la colpa del
sopravvissuto, il con itto di interessi. Mi colpiva che quei soldati, rispetto
ai giovani veterani con cui avevo lavorato, sembrassero reprimere la
rabbia e l’ostilità in modo più consistente. La cultura modella
l’espressione dello stress traumatico.
La teorica femminista Germaine Greer scrisse, riguardo al trattamento
del PTSD di suo padre, dopo la Seconda guerra mondiale: “Quando gli
[uf ciali medici] esaminavano pazienti affetti da gravi disturbi,
invariabilmente ne collocavano l’origine in cause antecedenti al
coinvolgimento in guerra: i pazienti non erano soggetti di prima scelta per
il combattimento… il giudizio dei militari [perché è di questo che si
tratta] sosteneva che non fosse stata la guerra a far ammalare questi
uomini, ma che essi non fossero in grado di combattere la guerra”.18
Dubito che i medici non avessero fatto nulla di buono per il padre della
Greer, ma gli sforzi per cercare di comprendere la sofferenza del padre
ebbero, indubbiamente, un effetto propulsivo sui suoi studi sulla
prevaricazione sessuale, in tutte le sue manifestazioni più violente, come lo
stupro, l’incesto e la violenza domestica.
Quando lavoravo alla VA, mi stupivo del fatto che la grande
maggioranza degli utenti del servizio psichiatrico fosse costituita da
giovani veterani del Vietnam recentemente congedati, mentre i corridoi e
gli ascensori che portavano ai dipartimenti di medicina erano pieni di
uomini anziani. Nel 1983, incuriosito da questa discrepanza, portai avanti
una ricerca sui veterani della Seconda guerra mondiale che frequentavano
gli ambulatori medici. La maggioranza otteneva, alle scale di valutazione
del PTSD, un punteggio positivo, ma la loro terapia si focalizzava più sui
problemi medici che non su quelli psichiatrici. Questi veterani riferivano
della loro angoscia attraverso crampi allo stomaco e dolori al petto
piuttosto che con gli incubi o la collera, di cui, come mostrava la mia
ricerca, pure soffrivano. I medici in uenzano il modo in cui i pazienti
comunicano la loro angoscia: se il paziente si lamenta di incubi terri canti
e il medico prescrive una radiogra a al petto, allora il paziente realizza
che, se si concentra sui sintomi sici, ottiene una maggiore attenzione.
Come era accaduto ai miei parenti, che avevano combattuto o erano stati
catturati durante la Seconda guerra mondiale, molti di questi uomini si
rivelavano estremamente riluttanti a condividere le loro esperienze. La
mia idea era che né i medici né i pazienti volessero rivivere la guerra.
Comunque, leader militari e civili si portarono dietro, dalla Seconda
guerra mondiale, una lezione importante, che la generazione precedente
non aveva saputo cogliere. Dopo la scon tta della Germania nazista e
dell’impero giapponese, gli Stati Uniti supportarono la ricostruzione
dell’Europa attraverso il Piano Marshall, cosa che costituì la base
economica dei successivi cinquant’anni di pace. In patria, il GI Bill
garantiva a milioni di veterani un’istruzione e la possibilità di aprire dei
mutui per comprare casa, azioni che comportarono un generale benessere
economico e che crearono una classe media solida e istruita; le forze
armate accompagnarono la nazione verso l’integrazione razziale e le pari
opportunità. La Veteran Administration aveva creato infrastrutture a
livello nazionale che aiutassero i reduci ad accedere alle cure mediche.
Eppure, nonostante tutta questa attenzione, le cicatrici psicologiche
causate dalla guerra non furono riconosciute e la nevrosi traumatica
scomparve completamente dalla nomenclatura psichiatrica. L’ultimo
scritto scienti co sul trauma da guerra dopo la Seconda guerra mondiale è
datato 1947.19

La riscoperta del trauma


Come precedentemente sottolineato, quando iniziai a lavorare con i
veterani del Vietnam, non c’era un solo libro sul trauma da guerra nella
biblioteca della VA, ma la guerra del Vietnam aveva ispirato numerose
ricerche, determinando la costituzione di organizzazioni culturali e
l’inclusione della diagnosi di PTSD nella letteratura scienti ca. Al tempo
stesso, il trauma stava accendendo l’interesse anche da parte dell’opinione
pubblica.
Nel 1974, il Comprehensive Textbook of Psychiatry di Kaplan e Friedman
asseriva che “l’incesto è estremamente raro e non succede a più di una
persona su 1,1 milioni”.20 Come abbiamo visto nel capitolo 2, questo
autorevole manuale niva quasi per lodare i possibili bene ci dell’incesto:
“una tale attività incestuosa diminuisce la possibilità di psicosi del
soggetto e consente un miglior adattamento al mondo esterno… Nella
grande maggioranza dei casi, non si sta peggio a causa di una simile
esperienza”.
L’erroneità di quelle dichiarazioni divenne evidente nel momento in cui
l’esplosione del movimento femminista, insieme con l’aumento di
consapevolezza sugli effetti del trauma sui veterani di guerra, incoraggiò
decine di migliaia di vittime di abusi sessuali infantili, di violenze
domestiche e di stupri a farsi avanti. Si formarono gruppi di
autocoscienza, gruppi di sopravvissuti e, contemporaneamente, vennero
pubblicati numerosi libri, come The Courage to Heal (1988), un best seller
di auto-aiuto per i sopravvissuti all’incesto, e Guarire dal trauma (1992) di
Judith Herman, che affrontavano le fasi del trattamento e della guarigione
in modo molto dettagliato.
Condizionato dalla storia, iniziai a chiedermi se non ci stessimo
dirigendo verso una riedizione di ciò che era accaduto nel 1895, nel 1917
e nel 1947, vale a dire verso un mancato riconoscimento dell’esistenza
reale del trauma. La fondatezza dei miei dubbi cominciava a essere
corroborata dalla pubblicazione, nei primi anni Novanta, su riviste e
giornali autorevoli, negli Stati Uniti e in Europa, di articoli sulla
cosiddetta “Sindrome dei falsi ricordi”, a causa della quale i pazienti
psichiatrici costruivano, presumibilmente, ricordi inautentici ed elaborati
di abusi sessuali, che dichiaravano essere rimasti silenti per molti anni,
prima di essere recuperati.
L’aspetto sorprendente di questi articoli era il grado di certezza con cui
gli autori affermavano che non c’era prova alcuna che le persone
ricordassero il trauma diversamente da quanto facevano con i ricordi
ordinari. Ho impressa nella mente una telefonata che ricevetti da un noto
settimanale di Londra, che mi comunicava di avere in programma sul
numero in uscita la pubblicazione di un articolo sulla memoria traumatica,
chiedendomi se avessi qualche osservazione da fare in merito. Ero
abbastanza entusiasta della loro richiesta e dissi loro che la perdita di
memoria degli eventi traumatici era stata studiata, per la prima volta, in
Inghilterra, più di un secolo prima. Menzionai i lavori di John Eric
Erichsen e di Frederic Myers, relativi agli incidenti ferroviari degli anni
Sessanta e Settanta dell’Ottocento, nonché gli approfonditi studi di
Charles Samuel Myers e W.H.R. River sui problemi di memoria dei soldati
della Prima guerra mondiale. Suggerii loro, inoltre, di leggere un articolo
pubblicato su The Lancet nel 1944, che descriveva gli strascichi del
salvataggio di tutto l’esercito britannico sulle spiagge di Dunkerque, nel
1940. Più del 10% dei soldati visitati soffriva di amnesia dopo
l’evacuazione.21 La settimana successiva, la rivista raccontò ai suoi lettori
che non c’era alcuna evidenza che le persone perdessero parzialmente o
completamente la memoria dopo l’esposizione a eventi traumatici.
La questione relativa al ritardo nel recupero dei ricordi traumatici non
era poi così controversa quando Myers e Kardiner, per primi, descrissero
questo fenomeno nei loro libri sulle nevrosi di guerra della Prima guerra
mondiale, quando vennero osservate importanti perdite di memoria dopo
l’evacuazione da Dunkerque o quando scrissi dei veterani del Vietnam e
dei sopravvissuti all’incendio del Cocoanut Grove Nightclub.
Tuttavia, durante gli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento,
quando tali problemi di memoria iniziarono a essere comprovati in donne
e bambini vissuti in contesti di violenza domestica, gli sforzi delle vittime
di ottenere giustizia nei confronti dei loro presunti perpetratori
spostarono il dibattito dalla scienza alla politica e alla legge. E questo
divenne, di conseguenza, il teatro degli scandali legati alla pedo lia
all’interno della Chiesa cattolica, in cui studiosi della memoria si
scontravano nei palazzi di giustizia degli Stati Uniti e, più tardi, anche in
quelli dell’Europa e dell’Australia.
Gli esperti, che testimoniavano per conto della Chiesa, sostenevano che i
ricordi di abusi sessuali infantili erano, nel migliore dei casi, inattendibili e
che le accuse mosse dalle presunte vittime erano, molto probabilmente, il
risultato di false memorie, ssate nella loro mente da terapeuti
eccessivamente indulgenti, creduloni o mossi da loro stessi scopi. Durante
questo periodo, esaminai più di cinquanta adulti che, come Julian,
ricordavano di aver subito abusi da parte di sacerdoti. In circa la metà dei
casi, le loro denunce non vennero accolte.

La scienza dei ricordi rimossi


Nell’arco di un periodo che copre ben oltre un secolo, ci sono state, di
fatto, centinaia di pubblicazioni scienti che che documentano come la
memoria del trauma possa essere rimossa, per poi riemergere anni o
decenni più tardi.22 La perdita della memoria è stata riscontrata in vittime
di disastri naturali, incidenti, traumi di guerra, rapimenti, torture, campi
di concentramento e abusi sici e sessuali. La totale perdita di memoria è
più comune nell’abuso sessuale infantile, con un’incidenza che va dal 19%
al 38%.23 Questo dato non è particolarmente controverso: n dal 1980, il
DSM-III ha riconosciuto l’esistenza della perdita di memoria, dovuta a
eventi traumatici, tra i criteri diagnostici per l’amnesia dissociativa:
“l’incapacità di rievocare importanti notizie personali, di solito di origine
traumatica o stressogena, risulta troppo estesa per essere spiegata con una
normale tendenza a dimenticare”. La perdita di memoria è stata, n
dall’introduzione di questa diagnosi, uno dei criteri diagnostici per il
PTSD.
Uno degli studi più interessanti sulla rimozione dei ricordi, iniziato nei
primi anni Settanta, è stato condotto dalla dottoressa Linda Meyer
Williams, che allora era una specializzanda in sociologia all’Università
della Pennsylvania. Williams intervistò 206 ragazze, di età compresa tra i
dieci e i dodici anni, che, in seguito ad abusi sessuali, erano state
ricoverate in Pronto Soccorso. I test di laboratorio, così come le interviste
alle bambine e ai loro genitori, erano stati conservati nelle cartelle cliniche
dell’ospedale. Diciassette anni dopo, Williams fu in grado di rintracciare
136 di quelle bambine, diventate ormai adulte, e di effettuare interviste di
follow-up. Più di un terzo delle donne (38%) non ricordava l’abuso,
documentato dalle cartelle cliniche; quindici donne (12%) dichiaravano
di non aver mai subito abusi da bambine. Più di due terzi (68%)
riferivano altri episodi di abuso sessuale infantile. Le donne più giovani al
momento dell’abuso e quelle che erano state molestate da un conoscente
erano più inclini a dimenticare il loro abuso.
Questo studio valutava anche l’attendibilità dei ricordi recuperati. Una
donna su dieci (il 16% di coloro che ricordavano l’abuso) riferì di averlo
dimenticato in passato, per qualche tempo, e di aver recuperato, solo in
seguito, ciò che era accaduto. Rispetto alle donne che avevano sempre
ricordato le molestie subite, queste donne erano più giovani al momento
dell’abuso e, molto probabilmente, non avevano ricevuto un supporto
adeguato da parte delle loro madri. Inoltre, Williams fu in grado di
determinare che i ricordi recuperati erano accurati tanto quanto quelli che
non erano mai stati persi: i ricordi di tutte le donne erano precisi per ciò
che concerne i fatti salienti dell’abuso, ma nessuna delle loro storie
riportava accuratamente ogni dettaglio, ben descritto nelle loro cartelle.24
Le scoperte di Williams sono supportate dalle recenti ricerche delle
neuroscienze, che mostrano come le memorie recuperate tendano a
rientrare nella banca dati mnesica con alcune modi che.25 Finché un
ricordo è inaccessibile, la mente non è in grado di cambiarlo. Ma, non
appena una storia inizia a essere raccontata, in particolare se la si racconta
ripetutamente, è soggetta a mutamenti: l’atto di raccontare la storia
cambia la storia stessa. La mente non può creare signi cati che vanno al di
là di ciò che conosce e il senso che noi attribuiamo alla nostra vita
in uenza il come e il cosa ricordiamo.
Data l’abbondanza di dati a favore del fatto che il trauma possa essere
dimenticato per poi riemergere anni dopo, come mai all’incirca un
centinaio di rispettabili scienziati della memoria, provenienti da diverse
nazioni, sfruttarono la loro reputazione per supportare l’appello di
rovesciare la condanna di padre Shanley, dichiarando che le “memorie
rimosse” si basavano su “scienza spazzatura”? Poiché la perdita di
memoria e il recupero differito di esperienze traumatiche non erano mai
stati documentati in laboratorio, alcuni scienziati cognitivi negarono
categoricamente l’esistenza di questi fenomeni,26 così come la possibilità
che i ricordi traumatici recuperati fossero accurati.27 Tuttavia, ciò con cui i
medici hanno a che fare in Pronto Soccorso, nei reparti psichiatrici e sul
campo di battaglia è, per forza di cose, molto diverso da quello che gli
scienziati osservano nei loro laboratori sicuri e ben organizzati.
Prendiamo in considerazione, per esempio, l’esperimento noto come
“persi nel centro commerciale”: i ricercatori universitari dimostrarono
come sia relativamente facile imprimere nella mente memorie di eventi
che non si sono mai veri cati, come l’essersi persi, da bambini, in un
centro commerciale.28 Circa il 25% dei soggetti coinvolti in questi studi
“ricorda”, in seguito, di essersi spaventato e tende ad arricchire il
racconto con dettagli mancanti. Tali ricostruzioni, tuttavia, non includono
quel terrore viscerale che un bambino che si è perso ha effettivamente
sperimentato.
Un’altra linea di ricerca ha dimostrato l’inattendibilità delle
testimonianze oculari. I soggetti potevano essere sottoposti alla visione di
un lmato di un’auto che viaggiava su una strada, per poi rispondere,
successivamente, a domande relative alla presenza o meno, durante il
tragitto, di un semaforo o di un segnale di stop; ai bambini poteva essere
chiesto di ricordare l’abbigliamento di un uomo entrato nella loro classe.
Altri esperimenti dimostrarono che le domande rivolte ai testimoni
modi cavano ciò che essi sostenevano di ricordare. Tali studi si rivelarono
preziosi per la messa in dubbio di molti verbali di polizia e certe pratiche
di tribunale, ma hanno poca rilevanza per ciò che concerne la memoria
traumatica.
Il problema fondamentale è questo: eventi che si svolgono in laboratorio
non possono essere considerati equivalenti alle condizioni in cui si creano
i ricordi traumatici. Il terrore e l’impotenza associati al PTSD,
semplicemente, non possono essere indotti de novo in contesti simili.
Siamo in grado di studiare gli effetti di traumi esistenti in laboratorio, così
come abbiamo fatto con i nostri studi sui ashback, guidati dagli script. Il
dottor Roger Pitman svolse una ricerca a Harvard, in cui mostrava agli
studenti universitari un lm intitolato Le facce della morte, che conteneva
lmati di morti violente e di esecuzioni. Questo lm, ora vietato, è così
estremo che nessun comitato etico ne permetterebbe la visione, ma non
indusse lo sviluppo di sintomi di PTSD nei volontari sani di Pitman. Se
vogliamo studiare la memoria traumatica, dobbiamo prendere in esame i
ricordi di persone che sono state veramente traumatizzate.
È interessante notare che, quando l’eccitazione e il pro tto di una
testimonianza in un’aula di tribunale diminuiscono, la controversia
“scienti ca”, a sua volta, scompare e i clinici vengono lasciati da soli a
occuparsi delle rovine delle memorie traumatiche.
Memoria normale versus memoria traumatica
Nel 1994, i miei colleghi del Massachusetts General Hospital e io
decidemmo di intraprendere uno studio sistematico per confrontare il
modo in cui le persone ricordano le esperienze positive e quelle terri che.
Mettemmo annunci su giornali locali, nelle lavanderie e sulle bacheche
delle associazioni studentesche, che recitavano: “Ti è capitato qualcosa di
terribile che non riesci a toglierti dalla mente? Chiama il 727 5500; ti
pagheremo $ 10,00 per partecipare alla nostra ricerca”. In risposta al
nostro primo annuncio, si presentarono settantasei volontari.29
Dopo le debite presentazioni, iniziavamo col chiedere a ciascun
partecipante: “Ci puoi raccontare un evento della tua vita, che non sia
traumatico, ma che pensi non dimenticherai mai?”. Uno dei partecipanti
si alzò e disse: “Il giorno in cui è nata mia glia”; altri menzionarono il
giorno del matrimonio, una vittoria sportiva di squadra o l’aver tenuto il
discorso del diploma. In seguito, chiedevamo loro di concentrarsi su
speci ci dettagli sensoriali di quegli eventi, come, per esempio: “Ti è mai
capitato di essere da qualche parte e di avere improvvisamente
un’immagine vivida di tuo marito il giorno del matrimonio?”. Le risposte
erano sempre negative; “In che modo ti ricordi il corpo di tuo marito
durante la prima notte di nozze?”(ci guardavano in modo piuttosto strano
a seguito di questa domanda). Continuavamo poi: “Hai mai avuto un
ricordo vivido e preciso del discorso che hai tenuto il giorno del
diploma?”; “Hai provato sensazioni intense nel rievocare la nascita del tuo
primo bambino?”. Le risposte a queste domande erano, ancora, negative.
A questo punto, facevamo loro delle domande sui traumi subiti, molti
dei quali – piuttosto gravi – costituivano il motivo della loro
partecipazione alla ricerca: “Ti è mai venuto in mente, improvvisamente,
l’odore del tuo stupratore?”; “Hai mai provato le stesse sensazioni siche
di quando ti hanno violentata?”. Queste domande generavano risposte
emotive potenti: “Questo è il motivo per cui non posso più andare alle
feste, perché se l’alito di qualcuno odora di alcol mi fa sentire come se
venissi violentata di nuovo” o “Non riesco più a fare l’amore con mio
marito, perché, se mi tocca in un modo particolare, mi sento come se fossi
violentata di nuovo”.
C’erano due differenze sostanziali nel modo in cui le persone parlavano
dei ricordi di esperienze positive rispetto a quelli di esperienze
traumatiche: 1) il modo in cui le memorie erano organizzate e 2) le
reazioni siche a questi ricordi. Matrimoni, nascite e lauree erano
rievocati come eventi del passato, storie con un inizio, una parte centrale e
una ne. Nessuno dichiarava di aver dimenticato completamente uno di
questi fatti per un certo periodo della sua vita.
Al contrario, i ricordi traumatici erano disorganizzati. I soggetti
ricordavano alcuni dettagli in modo n troppo intenso (l’odore dello
stupratore, lo squarcio sulla fronte di un bambino morto), ma non
ricordavano la sequenza degli accadimenti o altri dettagli importanti (la
prima persona che aveva prestato loro soccorso o se fosse stata
un’ambulanza piuttosto che un’auto della polizia a portarli in ospedale).
Chiedevamo inoltre ai partecipanti come avessero ricordato il trauma in
tre momenti differenti: subito dopo l’accaduto; nel momento di maggiore
dif coltà a causa dei loro sintomi; la settimana precedente alla nostra
ricerca. Tutti i soggetti traumatizzati dissero di non essere in grado di
affermare con precisione cosa fosse accaduto immediatamente dopo il
trauma (questo non sorprenderà nessuno che abbia lavorato in un Pronto
Soccorso o prestato servizio in ambulanza: chi arriva dopo un incidente
d’auto in cui ha perso la vita un bambino o un amico se ne sta in silenzio,
attonito, stordito dalla paura). Quasi tutti erano intrusi da ashback: si
sentivano travolti da immagini, suoni, sensazioni ed emozioni. Col passare
del tempo, emergevano maggiori dettagli sensoriali ed emozioni, e molti
dei partecipanti cominciavano a poter attribuire un senso a tutto ciò.
Iniziavano a “sapere” cosa era accaduto e a essere in grado di raccontare
la storia ad altre persone, una storia che noi chiamiamo “il ricordo del
trauma”.
A poco a poco, le immagini e i ashback diminuivano in frequenza, ma il
grande miglioramento coincideva con la capacità di ricostruire i dettagli e
la sequenza dell’evento. Al momento del nostro studio, l’85% dei
partecipanti riusciva a raccontare una storia coerente, con un inizio, uno
svolgimento e una ne. Soltanto pochi soggetti non ricordavano dettagli
signi cativi. Notammo che le cinque persone abusate da bambine avevano
riportato i racconti più frammentati – i ricordi si presentavano alla loro
mente ancora come immagini, sensazioni siche ed emozioni intense.
In sostanza, il nostro studio confermò il doppio sistema di memoria che
Janet e i suoi colleghi della Salpêtrière avevano descritto più di cento anni
prima: le memorie traumatiche sono sostanzialmente diverse dalle storie
passate, che raccontiamo. Le memorie traumatiche sono dissociate: le
diverse sensazioni registrate dal cervello al momento del trauma non sono
correttamente assemblate in una storia, in un pezzo di autobiogra a.
Forse la scoperta più importante nel nostro studio è stata che il ricordare
il trauma in tutta la sua interezza non lo risolve necessariamente, come
Breuer e Freud avevano sostenuto nel 1893. La nostra ricerca non
supportava l’idea che il linguaggio potesse costituire un sostituto
dell’azione. La maggior parte dei partecipanti allo studio riusciva a
raccontare una storia coerente e anche a sperimentare il dolore a essa
associato, ma rimaneva tormentata da immagini e sensazioni siche
insopportabili. La ricerca attuale sul trattamento espositivo, alla base della
terapia cognitiva comportamentale, ha ottenuto risultati analogamente
deludenti: la maggior parte dei pazienti curati con questo metodo
continua ad accusare gravi sintomi di PTSD tre mesi dopo la ne del
trattamento.30 Come vedremo, trovare le parole per descrivere quanto è
successo può avere un effetto trasformativo, ma non sempre fa cessare i
ashback, fa migliorare la concentrazione, stimola il coinvolgimento
sociale o riduce l’ipersensibilità alle delusioni e alle offese.

Ascoltare i sopravvissuti
Nessuno vuole ricordare il trauma. A tal proposito, la società non si
distingue dalle vittime stesse. Noi tutti vogliamo vivere in un mondo
sicuro, comodo e prevedibile, e le vittime di traumi ci ricordano che non
sempre è così. Per comprendere il trauma, dobbiamo superare la nostra
naturale riluttanza ad affrontare la realtà e avere il coraggio di ascoltare le
testimonianze dei sopravvissuti.
Nel suo libro Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory (1991),
Lawrence Langer scrive sul suo lavoro presso l’Archivio Video Fortunoff
dell’Università di Yale: “Ascoltando i racconti di chi ha vissuto
l’Olocausto, riportiamo alla luce un mosaico di reperti, che si perde
costantemente all’interno di strati in niti di incompletezza.31 Ci
scontriamo con l’inizio di un racconto permanentemente incompiuto,
pieno di parti mancanti, come se fossimo messi di fronte allo spettacolo di
un testimone titubante, spesso costretto a un silenzio angosciato dalla
schiacciante pressione dei suoi ricordi profondi”. Come disse uno dei
testimoni: “Se tu non sei stato lì, è dif cile descrivere e dire com’è stato. Il
modo in cui funzionano gli uomini in certe condizioni di stress è una cosa,
ma comunicare ed esprimere l’evento a qualcuno che non ha mai saputo
potesse esistere un simile livello di brutalità è un’altra: sembra un
racconto di fantasia”.
Un’altra sopravvissuta, Charlotte Delbo, dopo la liberazione da
Auschwitz, descrisse la sua doppia esistenza: “L’io che era nel campo non
ero io, non era la persona che è qui, di fronte a voi. No, è troppo
incredibile. E tutto ciò che è accaduto a questo altro ‘io’, la persona di
Auschwitz, non mi tocca, me, non mi riguarda, la memoria profonda e la
memoria ordinaria sono così distanti […]. Senza questa scissione, non
sarei stata in grado di tornare alla vita”.32 Riferisce che anche le parole
hanno un duplice signi cato: “Altrimenti, chi [nei campi] è stato
tormentato dalla sete per settimane non sarebbe mai più in grado di dire:
‘sono assetato, prendiamo una tazza di tè’. La parola ‘sete’ [dopo la
guerra] è tornata a essere di uso comune. D’altra parte, se io immagino la
sete che ho provato a Birkenau [gli impianti di sterminio di Auschwitz],
vedo me stessa com’ero: sconvolta, priva di ragione, barcollante”.33
Langer, in modo ossessionante, conclude: “Chi può trovare un sepolcro
adeguato per mosaici della mente così danneggiati, dove possono riposare
in pezzi? La vita va avanti, ma segue contemporaneamente due direzioni
temporali diverse: il futuro non è in grado di sfuggire alla morsa di una
memoria carica di dolore”.34
L’essenza del trauma è che è travolgente, incredibile, e insopportabile.
Ogni paziente richiede che noi si accantoni il senso di ciò che è normale e
si accetti il confronto con una duplice realtà: la realtà di un presente
relativamente sicuro e prevedibile, che vive anco a anco con un passato
catastro co e sempre presente.

La storia di Nancy
Pochi pazienti riescono a esprimere in parole questo concetto di dualità
più vividamente di Nancy, la caposala di un ospedale del Midwest, che è
venuta a Boston diverse volte per delle consultazioni psicologiche con me.
Poco dopo la nascita del suo terzo glio, Nancy si sottopose a quello che
solitamente è considerato un intervento chirurgico di routine: la chiusura
delle tube in laparoscopia, in seguito al quale le tube sono cauterizzate per
impedire gravidanze future. Tuttavia, non avendo ricevuto una dose
adeguata di anestesia, si svegliò a operazione iniziata e rimase cosciente
quasi no alla ne, a volte cadendo in quello che lei chiama “un sonno
leggero” o “sogno”, a volte sperimentando l’orrore della sua situazione.
Non era in grado di allertare l’équipe chirurgica muovendosi o gridando,
perché le era stato dato un miorilassante per evitare contrazioni muscolari
durante l’intervento.
Un certo rischio di “consapevolezza in anestesia” viene stimato in circa
trentamila pazienti chirurgici negli Stati Uniti ogni anno35 e avevo già
veri cato che molte persone erano state traumatizzate dall’esperienza.
Nancy, tuttavia, non aveva voluto citare in giudizio il suo chirurgo o
l’anestesista. Tutti i suoi sforzi si concentrarono sul tentativo di portare il
trauma alla coscienza, in modo da liberarsi delle intrusioni traumatiche
che irrompevano nella sua vita quotidiana. Vorrei concludere questo
capitolo condividendo alcuni passi tratti da una lunga serie di e-mail, in
cui Nancy descriveva il suo viaggio estenuante verso la guarigione.
Inizialmente, Nancy non sapeva che cosa fosse accaduto. “Quando
siamo rientrati a casa ero ancora stordita, non provavo ancora la
sensazione di essere viva o di essere reale all’interno della normale routine
domestica. Quella notte avevo dif coltà a dormire. Sono rimasta per
giorni in quel mio piccolo mondo scollegato. Non riuscivo a utilizzare
l’asciugacapelli, il tostapane, i fornelli o qualsiasi cosa che si scaldasse.
Non riuscivo a concentrarmi su ciò che le persone facevano o dicevano.
Non mi importava. Ero sempre più ansiosa. Dormivo sempre di meno.
Sapevo che mi stavo comportando in modo strano e cercavo di capire
cosa mi stesse spaventando così tanto”.
“La quarta notte dopo l’intervento chirurgico, intorno alle 3,00, iniziai a
capire che il sogno in cui stavo vivendo da tutto quel tempo era collegato
a conversazioni che avevo sentito in sala operatoria. Sono stata
improvvisamente trasportata indietro in quella sala, riuscendo a percepire
il mio corpo paralizzato e bruciante. Sono stata inghiottita da un vortice di
terrore e orrore”. Da allora, spiegava Nancy, ricordi e ashback
intrudevano nella sua vita.
“Era come se la porta si aprisse leggermente, permettendo l’intrusione.
C’era un misto di curiosità e di voglia di fuggire. Continuavo ad avere
paure irrazionali. Avevo una paura mortale di dormire; provavo un senso
di terrore nel vedere il colore blu. Mio marito, purtroppo, portava il peso
della mia malattia: mi scagliavo contro di lui anche quando non avrei
avuto l’intenzione di farlo. In quel periodo, non dormivo più di 2 o 3 ore a
notte e la mia giornata era invasa da ashback. Ero cronicamente in iper-
allerta, mi sentivo minacciata dai miei stessi pensieri e dalla voglia di
fuggirli. Ho perso 10 chili in 3 settimane. La gente continuava a ripetere
che ero in splendida forma”.
“Ho cominciato a pensare di morire. Avevo sviluppato una visione molto
distorta della mia vita, in cui svalutavo tutti i miei successi e ampli cavo i
vecchi fallimenti. Stavo ferendo sempre di più mio marito e constatavo di
non riuscire a difendere i miei gli dalla mia rabbia”.
“Tre settimane dopo l’intervento, sono tornata a lavorare in ospedale. La
prima volta che mi sono trovata a contatto con un paziente, preparato per
un intervento, mi trovavo in ascensore. Avrei voluto scappare
immediatamente, ma, di fatto, non potevo. Ho provato poi una voglia
irrazionale di picchiarlo e, con un grosso sforzo, sono riuscita a
trattenermi. Questo episodio ha provocato un aumento dei ashback, del
terrore e della dissociazione. Ho pianto per tutto il tragitto dal lavoro
verso casa. Dopo di che, sono diventata abile a evitare la situazione. Non
mettevo più piede in un ascensore, non andavo più al bar, rifuggivo i
reparti di chirurgia”.
Pian piano, Nancy riuscì a integrare i suoi ashback e a creare un
comprensibile, seppure orribile, ricordo del suo intervento chirurgico.
Ricordò le rassicurazioni dell’infermiera di sala operatoria e un breve
periodo di sonno ad anestesia iniziata, ricordandosi poi di come avesse
cominciato a risvegliarsi.
“L’intera équipe chirurgica stava ridendo a proposito della relazione di
una delle infermiere nell’istante esatto della prima incisione del bisturi: ne
ho sentito l’impatto, quindi il taglio, poi il sangue caldo che scorreva sulla
mia pelle. Provavo disperatamente a muovermi, a parlare, ma il mio corpo
non reagiva. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Avvertivo un
dolore profondo, come se gli strati muscolari si spezzassero a causa della
loro stessa tensione. Sapevo che non avrei dovuto sentire quelle
sensazioni”.
Nancy, poi, ricordò qualcuno “frugare” nel suo ventre e identi cò
questa sensazione con l’inserimento degli strumenti laparoscopici utilizzati
per l’intervento. Sentì la sua tuba di sinistra che veniva chiusa. “Poi,
improvvisamente, ho provato un dolore bruciante, a seguito della
cauterizzazione. Cercavo di fuggire, ma la punta cauterizzante mi
perseguitava implacabilmente, bruciandomi. Non ci sono veramente
parole per descrivere il terrore di questa esperienza. Questo dolore non
era dello stesso tipo di altri, che avevo conosciuto e sopportato, come un
osso rotto o un parto naturale. Inizia come un dolore estremo, poi
continua inesorabilmente, bruciando lentamente attraverso la tuba. La
paura di essere tagliati con il bisturi impallidisce accanto a
quest’enormità”.
“Poi, improvvisamente, la tuba destra sentiva l’impatto iniziale della
punta del cauterizzatore. Sentendo le risate, ho perso per un attimo la
cognizione di dove mi trovassi. Credevo di essere in una stanza di tortura
e non riuscivo a capire perché mi stessero torturando senza nemmeno
chiedere informazioni… Il mio mondo si era ridotto a una piccola bolla,
che rivestiva il tavolo operatorio. Non avevo il senso del tempo, non avevo
passato, non avevo futuro. C’erano solo dolore, terrore e orrore. Mi
sentivo isolata da tutta l’umanità, profondamente sola nonostante le
persone attorno a me. La bolla si stava chiudendo su di me”.
“Nella mia agonia, devo aver fatto qualche movimento. Ho sentito
l’assistente dire all’anestesista che ero ‘sveglia’. Quest’ultimo, quindi, ha
ordinato la somministrazione di una dose aggiuntiva di anestetico,
dicendo tranquillamente: ‘non c’è bisogno di mettere tutto ciò in cartella’:
è l’ultimo ricordo che ho.”
Nelle successive e-mail che mi scrisse, Nancy lottava per cogliere la
realtà esistenziale del trauma.
“Voglio dirti a cosa assomiglia un ashback. È come se il tempo fosse
piegato o deformato, come se il passato e il presente si congiungessero,
come se si fosse sicamente trasportati nel passato. Aspetti particolari
legati al trauma originale, benigni in realtà, sono completamente
contaminati e diventano oggetti da odiare, da temere, da distruggere se
possibile, o, almeno, da evitare. Per esempio, un ferro da stiro, anche se
giocattolo, un ferro arricciacapelli, vengono visti come strumenti di
tortura. Ogni incontro con un camice da sala operatoria mi dissociava, mi
confondeva, mi faceva sentire sicamente malata e, a volte,
consapevolmente arrabbiata”.
“Il mio matrimonio sta lentamente cadendo a pezzi, mio marito inizia a
rappresentare la gente senza cuore che ride [l’équipe chirurgica] e che mi
fa male. Io esisto in un doppio stato. Un intorpidimento pervasivo mi
copre come una coperta; il contatto con un bambino piccolo mi riporta
alla realtà. Per un momento, sono presente e prendo parte alla vita, non
sono solo un osservatore”.
“È interessante notare che faccio molto bene il mio lavoro e ho
costantemente dei riscontri positivi. La vita procede con un senso di
inautenticità”.
“C’è una certa estraneità, una bizzarria in questa doppia esistenza. Sono
stanca di tutto ciò. Non posso ancora rinunciare alla vita e non posso
illudermi di credere che, se la ignoro, la bestia andrà via. Ho pensato tante
volte di aver richiamato tutti gli eventi dell’intervento chirurgico, solo per
trovarne uno nuovo”.
“Ci sono così tanti pezzi di quei 45 minuti della mia vita che rimangono
sconosciuti. I miei ricordi sono ancora incompleti e frammentari, ma non
penso più di aver bisogno di sapere tutto, per capire cosa è successo”.
“Quando la paura si calma mi rendo conto che posso superarlo, ma una
parte di me dubita che possa riuscirci. Il richiamo del passato è forte; è il
lato oscuro della mia vita, e io devo ritornarci di tanto in tanto. La lotta
può anche essere un modo per sapere che sopravvivo, un ripercorrere la
lotta per la sopravvivenza, cosa che apparentemente ho vinto, ma che non
padroneggio”.
Un primo segnale di ripresa prese forma quando Nancy ebbe bisogno di
un altro intervento chirurgico, questa volta più complicato. Scelse un
ospedale di Boston e chiese un incontro preoperatorio con i chirurghi e
l’anestesista, per discutere la sua esperienza precedente, chiedendo che mi
fosse permesso di essere presente in sala operatoria. Per la prima volta
dopo tanti anni, indossai un camice chirurgico e la accompagnai in sala
operatoria mentre le veniva somministrata l’anestesia. Questa volta Nancy
si svegliò con una sensazione di sicurezza.
Due anni dopo scrissi a Nancy, chiedendole il permesso di usare la sua
esperienza in questo capitolo, e mi rispose, aggiornandomi sul suo
recupero: “Vorrei poter dire che l’intervento chirurgico, a cui gentilmente
mi hai accompagnato, ha posto ne alla mia sofferenza, ma non è così.
Dopo circa sei mesi, ho fatto due scelte che si sono poi rivelate
provvidenziali: ho lasciato il mio terapeuta CBT per lavorare con uno
psichiatra con orientamento psicodinamico e mi sono iscritta a un corso di
pilates”.
“Nell’ultimo mese di terapia, ho chiesto al mio psichiatra perché non
provasse ad ‘aggiustarmi’, come tutti gli altri terapeuti avevano tentato di
fare, fallendo. Mi ha detto che riteneva, dato ciò che ero riuscita a fare con
i miei gli e la mia carriera, che fossi suf cientemente resiliente da guarire
da sola, se avesse creato un ambiente accogliente per me. Questo si
tradusse in un’ora alla settimana che era un po’ come un rifugio, in cui
poter svelare il mistero di un così grave danno subito, per poi ricostruire
un senso di me intero, non frammentato, paci co, non tormentato.
Attraverso il Pilates ho scoperto un nucleo sico forte, trovando un
gruppo di donne che, volontariamente, mi ha accolto e dato sostegno,
cose che non avevo mai sperimentato nella mia vita prima del trauma.
Questa combinazione di rafforzamento del nucleo – psicologico, sociale e
sico – mi ha donato un senso di sicurezza e di padronanza di me stessa,
relegando i miei ricordi in un passato lontano e permettendo al presente e
al futuro di emergere”.

1. A. Young (1997), The Harmony of Illusions: Inventing Post-traumatic Stress Disorder, Princeton
University Press, Princeton, NJ, p. 84.
2. Il termine si riferisce alla peculiare reazione di shock traumatico causato dall’esposizione a
bombardamento. Viene usato per de nire la condizione di psicosi traumatica da bombardamento.
[NdC]
3. F.W. Mott (1916),“Special discussion on shell shock without visible signs of injury”, in
Proceedings of the Royal Society of Medicine, 9, pp. I-XLIV. Vedi anche C.S. Myers (1915), “A
contribution to the study of shell shock”, in Lancet, 1, pp. 316-320; T.W. Salmon (1917), “The care
and treatment of mental diseases and war neuroses (“shell shock”) in the British Army”, in Mental
Hygiene, 1, pp. 509-547; E. Jones, S. Wessely (2005), Shell Shock to PTSD: Military Psychiatry from
1900 to the Gulf, Psychology Press, Hove, UK.
4. Una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale, consistente in una serie di
offensive iniziate dagli anglo-francesi per indebolire le linee tedesche tra Lassigny e Hebuterne,
linea di terra tagliata in due dal fiume Somme, nella Francia settentrionale. Si concluse con un
successo, molto limitato, degli alleati. [NdC]
5. J. Keegan (2011), The First World War, Random House, New York.
6. A.D. MacLeod (2004), “Shell shock, Gordon Holmes and the Great War”, in Journal of the
Royal Society of Medicine, 97(2), pp. 86-89; M. Eckstein (1989), Rites of Spring: The Great War and
the Birth of the Modern Age, Houghton Mif in, Boston.
7. L. Southborough (1922), Report of the War Of ce Committee of Enquiry into “Shell-Shock”, His
Majesty’s Stationery Of ce, London.
8. La vincitrice del premio Booker, Pat Barker, ha scritto una commovente trilogia sul lavoro dello
psichiatra militare W.H.R. Rivers: P. Barker (2008), Regeneration, Penguin UK, London; P. Barker
(1995), The Eye in the Door, Penguin, New York; P. Barker (2008), The Ghost Road, Penguin UK,
London. Ulteriori studi sugli anni successivi alla Prima guerra mondiale si trovano in A. Young
(1997), Harmony of Illusions: Inventing Post-Traumatic Stress Disorder. University Press, Princeton;
B. Shephard (2000), A War of Nerves, Soldiers and Psychiatrists 1914-1994, Jonathan Cape,
London.
9. Centro simbolico di Washington, il Mall (o National Mall) è un parco verde, lungo circa 3 km,
che con na a nord con la Constitution Avenue e a sud con la Indipendence Avenue, a est con il
Capitol e a ovest con il Lincoln Memorial. [NdC]
10. J.H. Bartlett (1937), The Bonus March and the New Deal, M.A. Donohue & Company Chicago,
New York; R. Daniels (1971), The Bonus March: An Episode of the Great Depression, M.A.
Donohue & Company Chicago, New York.
11. Remarque, E.M. (1929), Niente di nuovo sul fronte occidentale, tr. it. Oscar Mondadori, Milano
2001.
12. Ibidem
13. Si veda il sito http://motlc.wiesenthal.com/site/pp.asp? c= gvKVLcMVIuG& b= 395007.
14. C.S. Myers (1940), Shell Shock in France 1914-1918, Cambridge University Press, Cambridge
UK.
15. A. Kardiner (1941), The Traumatic Neuroses of War, Hoeber, New York.
16. http://en.wikipedia.org/wiki/ Let_ There_ Be_ Light_( lm).
17. Corpo dell’esercito americano che svolge funzioni di sviluppo, valutazione e controllo di
sistemi informatici e di comunicazione. [NdC]
18. G. Greer, J. Oxenbould (1990), Daddy, We Hardly Knew You, Penguin UK, London.
19. A. Kardiner, H. Spiegel (1947), War Stress and Neurotic Illness, England Hoeber, Oxford.
20. D.J. Henderson (1974), “Incest”, in Comprehensive Textbook of Psychiatry, 2nd ed. Williams &
Wilkins, Baltimore, p. 1536.
21. W. Sargent, E. Slater (1940), “Acute war neuroses”, in The Lancet, 236(6097), pp. 1-2. Vedi
anche G. Debenham, W. Sargant, D. Hill, E. Slater (1941), “Treatment of war neurosis”, in The
Lancet, 237(6126), pp. 107-109; W. Sargent, E. Slater, “Amnesic syndromes in war”, in Proceedings
of the Royal Society of Medicine, (Section of Psychiatry), 34(12), pp. 757-764.
22. Ogni singolo studio sulla memoria di un abuso sessuale infantile, che si tratti di uno studio
longitudinale, di un lavoro retrospettivo, di campioni clinici o della popolazione generale,
evidenzia che una certa percentuale degli individui vittime di abusi sessuali dimentica l’abuso, per
poi ricordarlo in un secondo momento. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the
fragmentary nature of traumatic memories: Overview and exploratory study”, in Journal of
Traumatic Stress, 8, pp. 505-525; J.W. Hopper, B.A. van der Kolk (2001), “Retrieving, assessing,
and classifying traumatic memories: A preliminary report on three case studies of a new
standardized method”, in Journal of Aggression, Maltreatment & Trauma, 4, pp. 33-71; J.J. Freyd,
A.P. De Prince (2001), Trauma and Cognitive Science, Haworth Press, Binghamton, pp. 33-71; A.P.
De Prince, J.J. Freyd (2001), “The meeting of trauma and cognitive science: Facing challenges and
creating opportunities at the crossroads”, in Journal of Aggression, Maltreatment & Trauma, 4(2),
pp. 1-8; D. Brown, A.W. Sche in, D. Corydon Hammond (1997), Memory, Trauma Treatment and
the Law, Norton, New York; K. Pope, L. Brown (1996), Recovered Memories of Abuse: Assessment,
Therapy, Forensics, American Psychological Association, Washington; L. Terr (1994), Unchained
Memories: True Stories of Traumatic Memories, Lost and Found, Basic Books, New York.
23. E.F. Loftus, S. Polonsky, M.T. Fullilove (1994), “Memories of childhood sexual abuse:
Remembering and repressing”, in Psychology of Women Quarterly, 18(1), pp. 67-84. L.M. Williams
(1994), “Recall of childhood trauma: A prospective study of women’s memories of child sexual
abuse”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 62(6), pp. 1167-1176.
24. L.M. Williams (1995), “Recovered memories of abuse in women with documented child sexual
victimization histories”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 649-673.
25. Il neuroscienziato Jaak Panksepp nel suo recente libro afferma: “I numerosi lavori svolti con gli
animali hanno mostrato che i ricordi che vengono recuperati tendono a essere immagazzinati
nuovamente nella memoria, con alcune modi che. J. Panksepp, L. Biven (2012), Archeologia della
mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.
26. E.F. Loftus (1993), “The reality of repressed memories”, in American Psychologist, 48(5), pp.
518-537. Vedi anche E.F. Loftus, K. Ketcham (1996), The Myth of Repressed Memory: False
Memories and Allegations of Sexual Abuse, Macmillan, New York.
27. J.F. Kihlstrom (1987), “The cognitive unconscious”, in Science, 237(4821), pp. 1445-1452.
28. E.F. Loftus (2005), “Planting misinformation in the human mind: A 30-year investigation of the
malleability of memory”, in Learning & Memory, 12(4), pp. 361-366.
29. B.A. van der Kolk, R. Fisler (1995), “Dissociation and the fragmentary nature of traumatic
memories: Overview and exploratory study”, in Journal of Traumatic Stress, 8(4), pp. 505-525.
30. Ne parlerò nel capitolo 14.
31. L.L. Langer (1991), Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory, Yale University Press, New
Haven, CT.
32. Ibidem, p. 5. 30.L.L. Langer, op. cit., p. 21.
33. L.L. Langer, op. cit., p. 21.
34. L.L. Langer, op. cit., p. 34.
35. J. Osterman, B.A. van der Kolk (1998), “Awareness during anaesthesia and Post-traumatic
Stress Disorder”, in General Hospital Psychiatry, 20, pp. 274-281. Vedi anche K. Kiviniemi (1994),
“Conscious awareness and memory during general anesthesia”, in Journal of the American
Association of Nurse Anesthetists, 62, pp. 441-449; A.D. MacLeod, E. Maycock, “Awareness during
anaesthesia and Post Traumatic Stress Disorder”, in Anaesthesia and Intensive Care, 20(3), pp. 378-
382; F. Guerra (1986), “Awareness and recall: Neurological and psychological complications of
surgery and anesthesia”, in International Anesthesiology Clinics, 24, Hindman, Little Brown BT,
Boston, pp. 75-99; J. Eldor, D.Z.N. Frankel, “Intra-anesthetic awareness”, in Resuscitation, 21, pp.
113-119; J.L. Breckenridge, A.R. Aitkenhead (1983), “Awareness during anaesthesia: A review”, in
Annals of the Royal College of Surgeons of England, 65(2), p. 93.
Parte quinta

Percorsi di cura
13

Guarire dal trauma


Appropriarsi di sé

Non vado in terapia per scoprire che sono un’eccentrica


Vado e trovo l’unica e la sola risposta ogni settimana
E quando parlo della terapia, so che le persone pensano
Che ciò ti rende egoista e innamorato del tuo strizzacervelli
Ma… Oh… come sono innamorata di tutti
Se posso nalmente parlare così tanto di me
DAR WILLIAMS, What do you Hear in these Sounds1

A dirla tutta, nessuno di noi può essere in grado di “trattare” una guerra,
un abuso, uno stupro, una molestia, o qualunque altro evento di simile
portata. Ciò che è successo non può essere cancellato. Quello che si può
fare, invece, è occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente e
nell’anima: di quella sensazione schiacciante sul petto, che chiamiamo
ansia o depressione; della paura di perdere il controllo; dell’essere sempre
in allerta rispetto a un pericolo o a un ri uto; del disgusto verso se stessi,
degli incubi e dei ashback, della nebbia che ci impedisce di essere
concentrati sui compiti e di essere pienamente coinvolti in ciò che
facciamo, dell’essere incapaci di aprire completamente il cuore a un’altra
persona.
Il trauma ci defrauda del sentimento di essere padroni di noi stessi, di
ciò che chiamerò “self-leadership” nei prossimi capitoli.2 La vera s da
insita nel percorso di cura coincide con il ristabilire la padronanza del
corpo e della mente, vale a dire, di noi stessi. Tutto ciò signi ca essere
liberi di sapere ciò che sappiamo ed essere liberi di sentire ciò che
sentiamo, senza esserne sopraffatti o arrabbiati, o in preda alla vergogna o
collassati. Per la maggior parte delle persone, ciò comporta una serie di
obiettivi: 1) identi care dei modi per sentirsi tranquilli e concentrati; 2)
imparare a mantenere la calma rispetto a immagini, pensieri, suoni o
sensazioni siche che ricordano il passato; 3) trovare la via per essere
pienamente presenti nel qui e ora e coinvolti con le persone che ci stanno
intorno; 4) non dover tenere dei segreti con se stessi, come, per esempio,
quelli relativi al come siamo riusciti a sopravvivere.
Questi obiettivi non sono step che vanno raggiunti uno dopo l’altro,
secondo una sequenza pre ssata. Alcuni di essi, infatti, si sovrappongono,
mentre qualcuno può rivelarsi più dif cile da raggiungere rispetto agli
altri: dipende dalle singole situazioni. A tale proposito, dedicherò i
capitoli successivi alla descrizione dei metodi e degli approcci scienti ci a
nostra disposizione per ottenere gli scopi suddetti. Ho cercato, inoltre, di
rendere questi capitoli fruibili sia per i sopravvissuti ai traumi sia per i
loro terapeuti, così come per le persone che stanno attualmente vivendo
una situazione stressante. Ho usato ampiamente ciascuno di questi metodi
di trattamento con i miei pazienti e li ho anche provati su di me. Alcune
persone traggono giovamento da uno solo di questi metodi, ma la maggior
parte bene cia di approcci differenti, magari in diversi stadi del proprio
percorso terapeutico.
Su molte delle tecniche terapeutiche presentate ho condotto degli studi
scienti ci, pubblicando i risultati della ricerca in riviste scienti che peer-
reviewed.3 Gli scopi di questo capitolo sono: offrire una visione d’insieme
dei principi sottostanti alle tecniche, anticipare ciò che verrà preso in
considerazione più avanti e fare dei brevi commenti sui metodi che non
saranno esplorati in modo approfondito in questo volume.

Nuove prospettive di cura


Quando parliamo di trauma, cominciamo, spesso, con il racconto di una
storia o con una domanda: “Cosa è successo durante la guerra?”, “È mai
stato molestato?”, “Le racconterò dell’incidente o dello stupro”,
“Qualcuno, nella sua famiglia, ha mai avuto problemi di alcol?”. Il
trauma, tuttavia, è molto più di una storia accaduta tanto tempo fa. Le
emozioni e le sensazioni siche che ci sono rimaste impresse durante il
trauma sono vissute non come ricordi, ma come reazioni siche devastanti
nel presente.
Per ripristinare il controllo di se stessi, bisogna ripercorrere il trauma:
presto o tardi, toccherà confrontarsi con ciò che è accaduto, ma solo dopo
aver acquisito quella sensazione di sicurezza, indispensabile per non
sentirsi ri-traumatizzati. Trovare il modo di avere a che fare con i vissuti,
intrisi di sensazioni ed emozioni legate al passato, è da considerarsi
l’obiettivo principale.
Come abbiamo visto nella prima parte di questo libro, il motore della
reazione traumatica è situato nel cervello emotivo. Al contrario del
cervello razionale, che si esprime in pensieri, il cervello emotivo si
manifesta attraverso reazioni siche: sensazioni viscerali, battito cardiaco,
respiro corto e super ciale, sensazioni di crepacuore, voce ebile e
strozzata, movimenti sici caratteristici del collasso, della rigidità, della
rabbia e dell’impotenza.
Perché non si può essere ragionevoli? Avere una comprensione di ciò
che ci succede può servire? Il cervello razionale, esecutivo, è piuttosto
abile nell’aiutarci a comprendere da dove provengono certi sentimenti
(per esempio, “Ho paura di avvicinarmi a un ragazzo perché mio padre mi
ha molestata da piccola”, oppure “Ho dif coltà a manifestare l’affetto nei
confronti di mio glio, perché mi sento in colpa per aver ucciso un
bambino in Iraq”). Il cervello razionale, tuttavia, non elimina le emozioni,
le sensazioni o i pensieri (come vivere con un costante senso di minaccia o
sentire di essere, di fondo, una persona orribile, anche se razionalmente si
sa che non si può essere degni di biasimo per il fatto di essere stati
stuprati). Capire perché ci si senta in un certo modo non cambia il modo
in cui ci si sente. Può impedirci, semmai, di lasciarci andare a reazioni
intense (per esempio, aggredire un superiore che ci ricorda un
perpetratore, rompere con un amante al primo diverbio, o cadere nelle
braccia di uno sconosciuto). Più ci sentiamo esausti, tuttavia, più il nostro
cervello razionale rimane sullo sfondo rispetto alla gestione delle nostre
emozioni.4

La terapia del sistema limbico


Nella risoluzione dello stress traumatico, l’obiettivo più importante è
quello di ripristinare il giusto equilibrio tra il cervello emotivo e quello
razionale, così che ci si possa sentire padroni di come si risponde e di
come si conduce la propria vita. Quando siamo catapultati da uno stimolo
esterno in stati di iperarousal o di ipoarousal, siamo spinti fuori dalla
nostra “ nestra di tolleranza”, da quel giusto intermezzo di attivazione
emotiva che è quello che ci permette di funzionare al meglio.5 Diventiamo
reattivi e disorganizzati; i nostri ltri sono inceppati, i suoni e le luci ci
disturbano, immagini sgradite del passato intrudono nella nostra mente e
siamo in preda al panico o alla rabbia. Se si collassa, ci si sente obnubilati
nel corpo e nella mente, i nostri pensieri si fanno confusi e abbiamo
dif coltà anche ad alzarci dalla sedia.
Finché le persone sono in iperarousal o collassano, non possono
apprendere dall’esperienza. Anche se riescono a mantenere il controllo,
sono così tese (gli Alcolisti anonimi la chiamano “astinenza da
nervosismo”) da mostrarsi in essibili, testarde e depresse. La guarigione
dal trauma conduce alla ripresa del funzionamento esecutivo e, con esso,
alla ducia in se stessi, alla capacità di giocare e di essere creativi.
Se vogliamo cambiare le reazioni post-traumatiche, dobbiamo accedere
al cervello emotivo e attuare la “terapia del sistema limbico”: riparare il
sistema di allarme fallace e riportare il cervello emotivo al suo lavoro
ordinario, quello, cioè, di essere una quieta presenza di fondo, che si
prende cura di governare il nostro corpo, assicurandosi che mangiamo,
dormiamo, siamo connessi intimamente ai nostri partner, proteggiamo i
nostri gli e li difendiamo dal pericolo.
Il neuroscenziato Joseph LeDoux e i suoi colleghi dimostrarono che la
sola via conscia di accesso al cervello emotivo è quella
dell’autoconsapevolezza attraverso, per esempio, l’attivazione della
corteccia prefrontale mediale, la parte del cervello che osserva cosa
succede dentro di noi, permettendoci così di sentire ciò che stiamo
sentendo6 (il termine tecnico corrispondente è interocezione, dal latino
“guardare dentro”). Gran parte del nostro cervello cosciente è dedita a
focalizzarsi sul mondo esterno: si occupa di entrare in relazione con gli
altri e di fare piani per il futuro. Tuttavia, ciò non ci aiuta a gestire noi
stessi. La ricerca neuroscienti ca dimostra che il solo modo in cui
possiamo modi care come ci sentiamo consiste nel divenire consapevoli
della nostra esperienza interiore, imparando a diventare amici di ciò che
accade dentro di noi.

Farsi amico il cervello emotivo


1. Affrontare l’iperarousal
Negli ultimi vent’anni, la potente psichiatria si è concentrata sull’uso dei
farmaci per modi care i nostri vissuti emotivi, facendo diventare la
farmacoterapia una modalità consolidata per trattare l’iper- e l’ipoarousal.
Parlerò di farmaci più avanti in questo capitolo, ma, prima, mi preme
porre l’accento sulla pletora di capacità innate di cui disponiamo per
rimetterci in equilibrio. Nel capitolo 5 abbiamo visto come le emozioni
vengono registrate nel corpo. Circa l’80% delle bre del nervo vago (il
nervo che connette il cervello a molti organi interni) è afferente; ciò
signi ca che esse partono dal corpo e arrivano al cervello.7 Pertanto,
possiamo “educare” il nostro sistema di arousal attraverso il modo in cui
respiriamo, cantiamo, ci muoviamo: principio – questo – utilizzato, n
dalla notte dei tempi, in paesi come la Cina e l’India, e presente in
qualsiasi pratica religiosa, anche se sospettosamente considerato
“alternativo” dalla cultura dominante.
In una ricerca nanziata dal National Institute of Mental Health, i miei
colleghi e io abbiamo dimostrato che settimane di pratica yoga riducono,
in modo sostanziale, i sintomi di PTSD di pazienti che non rispondono
positivamente né ai farmaci né ad alcun altro trattamento8 (parlerò di yoga
nel capitolo 16). Il neurofeedback, argomento del capitolo 19, può essere
particolarmente ef cace per bambini e adulti che hanno un così alto
iperarousal o collassamento, da avere dif coltà a concentrarsi e a conferire
un ordine gerarchico alle cose.9
Imparare come fare a respirare lentamente e a rimanere in uno stato di
relativa rilassatezza sica, anche mentre si accede a ricordi dolorosi e
spaventosi, è uno strumento di guarigione essenziale.10 Se,
intenzionalmente, facciamo un po’ di respiri lenti e profondi, siamo in
grado di notare gli effetti del ramo parasimpatico sul nostro arousal (come
spiegato nel capitolo 5). Più si sta concentrati sul proprio respiro e più se
ne trarranno dei bene ci, specialmente se si presta attenzione no alla ne
dell’espirazione e ci si prende un momento, prima di inspirare un’altra
volta. Se si continua a respirare e a notare il movimento dell’aria che entra
ed esce dai nostri polmoni, è possibile pensare al ruolo che gioca
l’ossigeno nel nutrire il nostro corpo e nell’irrorare i nostri tessuti con
l’energia necessaria a farci sentire vivi e coinvolti. Il capitolo 16 sarà
dedicato agli effetti su tutto il corpo di una pratica semplice come questa.
Poiché la regolazione emotiva riveste un ruolo essenziale sugli effetti del
trauma e della trascuratezza, farebbe un’enorme differenza se gli
insegnanti, i sergenti dell’esercito, i genitori adottivi, i professionisti della
salute mentale fossero accuratamente istruiti sulle tecniche di regolazione
emotiva. Ancora oggi sono le maestre della scuola materna e delle
elementari, che hanno a che fare quotidianamente con cervelli immaturi e
comportamenti impulsivi, a occuparsene primariamente, essendo,
peraltro, molto abili nel farlo.11
La psichiatria occidentale dominante e gli approcci psicologici
tradizionali hanno rivolto una scarsa attenzione all’autogestione. In
contrasto con il ricorso, squisitamente occidentale, ai farmaci e alle terapie
verbali, altre tradizioni di tutto il mondo fanno af damento sulla
mindfulness, sul movimento, sul ritmo e sull’azione. Lo yoga in India, il tai
chi e qigong in Cina, e il tamburo ritmico in tutta l’Africa, ne
costituiscono solo alcuni esempi. Le culture giapponese e coreana hanno
dato vita alle arti marziali, centrate sul favorire movimenti nalizzati e
centrati sul presente, abilità danneggiate in individui traumatizzati.
L’aikido, il judo, il tae kwon do e il jujitsu, come la capoeira in Brasile, ne
sono altri esempi. Queste tecniche implicano tutte dei movimenti sici, il
respiro, la meditazione. A parte lo yoga, poche di queste tradizioni
popolari di guarigione non occidentali sono state sottoposte a studi
sistematici per il trattamento del PTSD.

2. Non c’è mente senza mindfulness


Al centro della guarigione c’è l’autoconsapevolezza. Le frasi più
importanti nella terapia del trauma sono: “Nota” e “Cosa succede
dopo?”. Le persone traumatizzate convivono con sensazioni intollerabili:
sentono il cuore spezzato e provano disturbi insopportabili alla bocca
dello stomaco o una stretta al torace. L’evitamento di simili sensazioni,
inoltre, aumenta la possibilità di esserne sopraffatti.
La consapevolezza del corpo mette in contatto con il mondo interno, il
paesaggio del nostro organismo. Il semplice notare la nostra noia, il
nervosismo o l’ansia ci aiuta, in modo repentino, a cambiare prospettiva e
apre a nuove possibilità di risposta, che vanno oltre le reazioni
automatiche e abituali. La mindfulness ci mette in contatto con la natura
transitoria dei nostri sentimenti e percezioni. Se prestiamo attenzione alle
nostre sensazioni corporee, possiamo riconoscere l’andirivieni delle
emozioni e, di conseguenza, aumentare il controllo su di esse.
Le persone traumatizzate hanno spesso paura dei loro vissuti. Magari
non temono più i perpetratori (che, si spera, non siano più nei dintorni
per far loro ancora del male), ma, sicuramente, temono le loro stesse
sensazioni siche, vero pericolo attuale. La preoccupazione di essere
dirottati su sensazioni spiacevoli congela il corpo e spegne la mente.
Anche se il trauma riguarda il passato, il cervello emotivo continua a
generare sensazioni che rendono impauriti e impotenti. Non è
sorprendente che così tanti sopravvissuti al trauma siano mangiatori e
bevitori compulsivi, che abbiano paura di fare l’amore e che evitino
attività sociali. Il loro mondo sensoriale è praticamente bandito.
Per cambiare c’è bisogno di aprirsi alla propria esperienza interna. Il
primo passo consiste nel permettere alla mente di focalizzarsi sulle
sensazioni e nel notare come, in contrasto con l’esperienza senza tempo e
sempre presente del trauma, le sensazioni siche siano transitorie e
rispondano a modi che posturali anche minime, ai cambiamenti nel modo
di respirare e ai mutamenti del pensiero. Una volta che si presta
attenzione alle sensazioni siche, il passo successivo è quello di
etichettarle, per esempio: “Quando sono ansioso, ho una sensazione di
oppressione al petto”. Posso allora dire a un paziente: “Stai su quella
sensazione e nota cosa cambia se fai un respiro profondo o se batti
leggermente il petto proprio sotto la clavicola, o se ti lasci andare al
pianto”. La mindfulness, in termini pratici, calma il sistema nervoso
simpatico, così da abbassare le probabilità di cadere in meccanismi
attacco/fuga.12 Imparare a osservare e a tollerare le proprie reazioni siche
è un prerequisito fondamentale per “rivisitare” il passato in modo sicuro.
Se non si può tollerare ciò che si sta provando nel qui e ora, l’apertura al
passato comporterà solo estremo disagio e ulteriore traumatizzazione.13
Possiamo anche tollerare un elevato grado di disagio, ntanto che siamo
consapevoli del fatto che le emozioni del corpo cambiano continuamente.
In un determinato momento, il petto è costretto, ma, dopo aver fatto un
respiro profondo e aver espirato, il vissuto si ammorbidisce e si può
osservare qualcos’altro, per esempio una tensione alle spalle. A questo
punto, si può cominciare a esplorare cosa accade quando si fa un respiro
profondo e si nota che la gabbia toracica si espande.14 Una volta diventati
più calmi e più curiosi, si può ritornare alla sensazione alla spalla. Non ci
si deve sorprendere se, per esempio, af ora spontaneamente un ricordo in
cui sia stata coinvolta in qualche modo quella spalla. Un passo successivo
è quello di osservare l’interrelazione tra i pensieri e le sensazioni siche.
Come sono registrati nel nostro corpo pensieri speci ci? (pensieri come
“mio padre mi ama” o “la mia ragazza mi ha lasciato” producono
sensazioni differenti?). Essere consapevole di come il corpo organizza
emozioni o ricordi speci ci apre la possibilità al lasciare accadere
sensazioni e impulsi che si erano bloccati per permetterci di
sopravvivere.15 Nel capitolo 20, sui bene ci del lavoro teatrale, verrà
descritto in modo dettagliato questo meccanismo di funzionamento.
Jon Kabat-Zinn, uno dei pionieri della medicina mente/corpo, creò il
programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) allo University
of Massachusetts Medical Center nel 1979, e il suo metodo è stato
accuratamente studiato negli ultimi trent’anni. Egli descrive così la
mindfulness: “Possiamo rappresentarci la consapevolezza come una lente
che concentra le energie disperse e reattive della nostra mente in un’unica
sorgente di energia coerente, che diviene disponibile per vivere, per
risolvere i problemi e per guarirci”.16
Si è visto che la mindfulness ha un effetto positivo su numerosi sintomi
psichiatrici, psicosomatici e correlati allo stress, come, per esempio, la
depressione e il dolore cronico.17 Ne derivano importanti bene ci sulla
salute sica, con un aumento delle risposte immunitarie, della pressione
sanguigna e dei livelli di cortisolo.18 Si è anche dimostrato che essa attiva
le regioni del cervello coinvolte nella regolazione emotiva19 e induce
cambiamenti in regioni correlate alla consapevolezza corporea e alla
paura.20 Le ricerche delle mie colleghe di Harvard, Britta Hölzel e Sara
Lazar, hanno dimostrato che praticare la mindfulness riduce anche
l’attività del rilevatore di fumo del cervello, l’amigdala, e diminuisce,
quindi, la reattività a potenziali trigger.21
3. Relazioni
Un in nito numero di ricerche dimostra che disporre di una buona rete di
supporto costituisce, di per sé, la più potente protezione contro la
traumatizzazione. Sicurezza e terrore sono incompatibili. Quando siamo
terrorizzati, niente ci calma come la voce rassicurante e l’abbraccio deciso
di qualcuno di cui ci diamo. Gli adulti spaventati rispondono allo stesso
tipo di accudimento dei bambini terrorizzati: un abbraccio affettuoso e
cullante e la sicurezza che qualcuno più grande e più grosso si stia
occupando di tutto il resto consentono di dormire tranquilli. Per guarire,
mente, corpo e cervello hanno bisogno di convincersi che ci si possa
quietamente lasciare andare. Ciò accade soltanto quando ci si sente sicuri
a un livello viscerale e ci si può permettere di connettere quel senso di
sicurezza a un passato di impotenza.
Dopo un trauma acuto, come un’aggressione, un incidente, un disastro
naturale, i sopravvissuti richiedono la presenza di persone, facce e voci
familiari, contatto sico, cibo, un posto protettivo e sicuro e del tempo
per dormire. È importante comunicare con le persone amate vicine e
lontane e riunire, al più presto possibile, famiglie e amici in un posto che
sentono come protettivo. I nostri legami di attaccamento sono la più
grande tutela contro la minaccia. Per esempio, bambini che sono separati
dai genitori dopo un evento traumatico hanno molte più probabilità di
sviluppare gravi effetti negativi sul lungo termine. Studi condotti durante
la Seconda guerra mondiale in Inghilterra dimostrarono che i bambini che
vivevano a Londra durante il Blitz ed erano stati mandati in campagna
perché fossero protetti dai bombardamenti tedeschi se la cavarono molto
peggio dei bambini che rimasero con i loro genitori e trascorsero le notti
nei rifugi, a contatto con immagini terri che di persone morte e edi ci
distrutti.22
Gli esseri umani traumatizzati guariscono in contesti relazionali:
famiglie, persone amate, gruppi di auto-aiuto, organizzazioni di veterani,
comunità religiose, o con la psicoterapia. Lo scopo di queste relazioni è di
dare sicurezza emotiva e sica, come, per esempio, la sicurezza rispetto a
sentimenti di vergogna, di rimprovero o di giudizio, e di sostenere il
coraggio di tollerare, affrontare ed elaborare la realtà di ciò che è
successo.
Come abbiamo visto, la maggior parte del cablaggio dei circuiti del
nostro cervello è rivolta all’essere in sintonia con gli altri. La guarigione
dal trauma implica una (ri)connessione con gli altri esseri umani. È per
questa ragione che il trauma relazionale è, generalmente, più dif cile da
trattare del trauma derivante da incidenti stradali o disastri naturali. Nella
nostra società, i traumi più comuni di donne e bambini avvengono per
mano dei genitori o dei partner. L’abuso infantile, la molestia e la violenza
domestica sono tutti in itti da persone che dovrebbero amarci. Tutto ciò
invalida la più importante difesa contro la traumatizzazione: la protezione
da parte delle persone che amiamo.
Se le persone a cui ci rivolgiamo naturalmente per ricevere cure e
protezione ci terrorizzano o ci ri utano, si imparerà a comprimere e a
ignorare ciò che si sente.23 Come abbiamo visto nella terza parte di questo
volume, quando chi si prende cura di noi diventa il nostro peggior
nemico, bisogna trovare dei modi alternativi per affrontare i sentimenti di
paura, di rabbia e di frustrazione. Gestire il terrore da soli dà adito a
un’altra serie di problemi: dissociazione, disperazione, dipendenza da
sostanze, cronico senso di panico e relazioni caratterizzate da alienazione,
disconnessione ed esplosioni di rabbia. I pazienti con storie simili non
riescono a collegare ciò che è accaduto loro tanto tempo prima e il modo
in cui si sentono e si comportano nell’attualità. Tutto sembra impossibile.
La remissione dei sintomi non può avvenire nché non si comprende ciò
che accaduto e si riconoscono i demoni invisibili contro i quali si sta
lottando. Ricordiamo, per esempio, gli uomini che ho descritto nel
capitolo 11, che erano stati abusati da preti pedo li. Andavano in palestra
regolarmente, assumevano steroidi anabolizzanti, erano forti come tori.
Nei nostri colloqui, tuttavia, si comportavano spesso come bambini
spaventati: il bambino ferito nel profondo si sentiva ancora impotente.
Se, da un lato, il contatto umano e la sintonizzazione rappresentano la
fonte dell’autoregolazione siologica, la promessa di intimità, dall’altro,
determina spesso la paura di essere feriti, traditi e abbandonati. La
vergogna gioca un ruolo fondamentale in tutto ciò: “Scoprirai come sono
marcio e disgustoso e mi lascerai non appena ti renderai conto di come
sono in realtà”. I traumi irrisolti possono far pagare un costo pesante in
termini relazionali. Se abbiamo il cuore spezzato perché abbiamo subito
l’aggressione di qualcuno che amavamo saremo costantemente
preoccupati di non essere nuovamente maltrattati e avremo, di
conseguenza, una terribile paura di aprirci, di nuovo, a qualcun altro. È
possibile, quindi, che, inconsapevolmente, siamo noi a trattare male gli
altri prima di esserne, nuovamente, feriti.
Tutto ciò pone dei seri ostacoli al processo di guarigione. Nel momento
in cui ci si rende conto che le reazioni post-traumatiche sono state
innescate da un meccanismo di sopravvivenza, si può trovare il coraggio di
affrontare la propria musica (o cacofonia) interna, ma, per farlo, si avrà
bisogno di aiuto. È necessario trovare qualcuno di cui ci si di abbastanza
da farci accompagnare, qualcuno che possa abbracciare in sicurezza i
nostri vissuti e aiutarci ad ascoltare i messaggi dolorosi del nostro cervello
emotivo. È necessaria una guida, che non abbia paura del nostro terrore e
che possa contenere la rabbia più feroce, qualcuno che possa
salvaguardare il nostro intero, mentre noi esploriamo le esperienze
frammentate che, per lungo tempo, abbiamo tenuto nascoste, persino a
noi stessi. La maggior parte degli individui traumatizzati ha bisogno di
un’ancora e di un duro allenamento per fare questo lavoro.
Scegliere un terapeuta
La formazione di uno psicotraumatologo dovrebbe includere una
conoscenza speci ca dell’impatto del trauma, dell’abuso e della
trascuratezza e la capacità di ricorrere a un discreto numero di tecniche,
volte a: 1) stabilizzare e calmare i pazienti; 2) facilitare l’interruzione
dell’intrusione dei ricordi traumatici e delle riattualizzazioni; 3)
riconnettere i pazienti con i loro compagni e compagne. Idealmente, il
terapeuta dovrebbe anche essere stato un fruitore della terapia che mette
in pratica.
Se, da una parte, è poco etico e inappropriato che i terapeuti vi mettano
a parte dei dettagli delle loro battaglie personali, dall’altra è perfettamente
ragionevole che voi chiediate quale sia la loro formazione psicoterapica,
dove abbiano appreso le loro competenze e se abbiano personalmente
bene ciato della terapia che vi propongono.
Non esiste un “trattamento elettivo” per il trauma, e qualsiasi terapeuta
che creda che il suo particolare metodo sia la sola risposta possibile ai
vostri problemi è da considerarsi un ideologo e, non di certo, qualcuno
interessato seriamente al vostro benessere. Nessun terapeuta può essere,
nel concreto, esperto di qualsiasi trattamento ef cace e deve essere aperto
all’opportunità che voi possiate prendere in considerazione le altre
opzioni esistenti, non soltanto le sue. Deve essere disponibile a imparare
dai suoi pazienti. Genere, razza e vicende personali sono rilevanti soltanto
nella misura in cui interferiscono con la possibilità di far sì che il paziente
si senta al sicuro e compreso.
Vi sentite realmente al sicuro con quel terapeuta? Il terapeuta, in quanto
essere umano, sembra essere a suo agio con se stesso e con voi? Sentirsi al
sicuro è una condizione necessaria per affrontare paure e ansie. Una
persona austera, giudicante, agitata o brusca vi farà sentire spaventati,
abbandonati e umiliati e non vi permetterà di superare il vostro stress
traumatico. Si possono veri care situazioni in cui sarete attivati da vecchi
sentimenti del passato e vi allarmerete, diventando sospettosi nei
confronti del terapeuta, che vi sembra assomigli a qualcuno che una volta
vi ha ferito o ha abusato di voi. Si spera che queste circostanze possano
essere un’importante occasione di lavoro clinico, perché, nella mia
esperienza, i pazienti migliorano se riescono a sviluppare un sentimento
profondamente positivo nei confronti del proprio terapeuta. Non penso
affatto, inoltre, che si possa crescere e cambiare nché non si sente di
avere un certo impatto emotivo sulla persona che ci sta trattando.
Ma il punto è: sentite che il vostro terapeuta è curioso di scoprire chi
siete voi effettivamente e ciò di cui voi, e non qualsiasi altro paziente
affetto da PTSD, avete bisogno? Siete solo una lista di sintomi su qualche
questionario diagnostico oppure il vostro terapeuta si prende il tempo
necessario a capire perché fate ciò che fate e pensate ciò che pensate? La
terapia è un processo collaborativo, una mutua esplorazione del nostro sé.
Pazienti che sono stati brutalizzati dai loro caregiver da bambini spesso
non si sentono al sicuro con nessuno. Chiedo continuamente ai miei
pazienti se, durante la loro infanzia, ci sia stata qualche persona con cui si
siano sentiti al sicuro. Molti di loro si “spremono” nel ricordare quel
professore, quel vicino, quel commesso, quell’allenatore o parroco, che ha
mostrato di essersi preso cura di loro, e quel ricordo rappresenta il seme
dell’imparare a ri-coinvolgersi. L’esistenza della nostra specie è basata
sulla ducia. Lavorare con il trauma signi ca tenere a mente che il modo
in cui siamo sopravvissuti coincide irrimediabilmente con ciò che in noi si
è rotto.
Invito, inoltre, i miei pazienti a immaginarsi se, da neonati, fossero
amorevoli o pieni di energia. Tutti credono di esserlo stati o di averne una
sensazione, prima di essere stati feriti.
Alcune persone non ricordano nessuno con cui si siano sentiti al sicuro.
Per loro, relazionarsi con i cavalli o con i cani può essere più protettivo
che avere a che fare con gli esseri umani. Questo principio è
correntemente applicato e si è rivelato molto ef cace in molti setting
terapeutici: all’interno di prigioni, in programmi terapeutici residenziali e
nella riabilitazione dei veterani. Jennifer, che faceva parte del primo
gruppo di diplomati al Van der Kolk Center24 e che, all’inizio, era una
quattordicenne mutacica e fuori controllo, parlò, durante la sua cerimonia
di diploma, di come il fatto di essere stata investita della responsabilità di
prendersi cura di un cavallo fosse stato un passo importantissimo per lei.
Il legame crescente con quel cavallo l’aveva aiutata a sentirsi abbastanza a
suo agio nel cominciare a relazionarsi con lo staff del centro e poi con il
suo gruppo, a ottenere il suo SATs,25 per poi essere ammessa al college.26

4. Ritmi comuni e sincronia


Fin dal momento in cui veniamo al mondo, le nostre relazioni sono
incorporate in volti, gesti e contatti responsivi. Come abbiamo visto nel
capitolo 7, ciò costituisce la base dell’attaccamento. Il trauma è il risultato
di una rottura nella sincronia della sintonizzazione sica: quando si entra
in una sala d’attesa di un servizio per il PTSD, si può immediatamente
dedurre il tipo di pazienti con cui si ha a che fare, dall’espressione
congelata dei loro volti e dal corpo collassato (ma, al contempo, agitato).
Sfortunatamente, molti terapeuti ignorano questi indizi sici,
focalizzandosi soltanto sulle parole con le quali i pazienti comunicano.
Compresi il potere di guarigione della comunità, espresso nella musica e
nel ritmo, nella primavera del 1997, in Sud Africa, dove ero impegnato a
seguire il lavoro della Truth and Reconciliation Commission. In molti
paesi continuavano a esserci violenze terribili. Un giorno mi trovavo a
condurre un gruppo di sopravvissute a stupri, nel cortile di una clinica di
una cittadina fuori Johannesburg. A poca distanza, si potevano sentire gli
spari dei proiettili, mentre le nuvole di fumo uttuavano sopra i muri del
recinto, con un forte odore di gas lacrimogeni nell’aria. In seguito, venni a
sapere dell’assassinio di più di quaranta persone.
Così, mentre tutto intorno era estraneo e terri cante, questo gruppo mi
appariva n troppo familiare: le donne erano tutte sprofondate sulla sedia
– tristi e congelate –, come accadeva sempre nei gruppi di terapia dello
stupro che ho seguito a Boston. Avvertivo una ben nota sensazione di
impotenza e, circondato da persone collassate, mi sentivo anch’io spento
mentalmente. A un certo punto, una delle donne cominciò a canticchiare,
ondeggiando dolcemente avanti e indietro. Lentamente, prese vita una
sorta di ritmo e, a poco a poco, le si unirono altre donne. Presto, l’intero
gruppo cominciò a cantare, a muoversi e a danzare. Ci fu una
trasformazione sbalorditiva: le persone ritornavano a vivere, i volti
diventavano sintonizzati, la vitalità si ripresentava nei loro corpi. Giurai a
me stesso che avrei applicato quanto stavo vedendo in quel momento e
che avrei studiato come il ritmo, il canto e il movimento possono favorire
la guarigione dal trauma.
Nel capitolo 20, vedremo più nel dettaglio gli effetti bene ci del teatro e
mostrerò come gruppi di persone giovani, tra cui minori autori di reato e
bambini adottati a rischio, possano imparare gradualmente a lavorare
insieme e a dipendere l’uno dall’altro, sia come attori di un dramma
shakespeariano sia come scrittori e protagonisti della versione integrale di
un musical. Diversi pazienti mi hanno riferito di quanto i canti corali,
l’aikido, il tango e il kickboxing li abbiano aiutati, e, con immenso piacere,
passo i loro consigli alle altre persone che curo.
Ho imparato un’altra lezione fondamentale sul ritmo e sulla guarigione
quando ai clinici del Trauma Center fu chiesto di trattare una bambina di
cinque anni mutacica, Ying Mee, adottata da un orfanotro o in Cina.
Dopo mesi di tentativi falliti di stabilire un contatto con lei, le mie
colleghe Deborah Rozelle e Liza Warner si resero conto che il suo sistema
di coinvolgimento ritmico non funzionava, non riusciva a entrare in
risonanza con le voci e i volti delle persone intorno a lei. Pensarono,
pertanto, a un intervento sensomotorio.27
L’ambulatorio di integrazione sensoriale a Watertown, nel
Massachusetts, è un meraviglioso parco giochi al chiuso, pieno di altalene,
tubi pieni di palle di gomma multicolori, così profondi che ci si può
sparire dentro, travi di equilibrio, spazi per strisciare costituiti da tubature
di plastica, e scale a pioli che conducono a piattaforme da cui ci si può
tuffare su materassi imbottiti di schiuma. Gli operatori immersero Ying
Mee nei tubi con le palle di gomma, cercando di farle sentire la sensazione
sulla pelle. La aiutarono a dondolare sull’altalena e a gattonare sotto
coperte calibrate. Dopo sei settimane, qualcosa cambiò: la bambina
cominciò a parlare.28
L’enorme miglioramento di Ying Mee ci suggerì di costruire un
ambulatorio di integrazione sensoriale al Trauma Center, che ora usiamo
anche nei nostri programmi di terapia residenziale. Non abbiamo ancora
esplorato a fondo quanto possa ben funzionare l’integrazione sensoriale
con gli adulti traumatizzati, ma inserisco regolarmente esperienze di
integrazione sensoriale e danza nei miei seminari.
Imparare a sintonizzarsi consente ai genitori (e ai loro bambini) di vivere
un’esperienza viscerale di reciprocità. La terapia di interazione genitore-
bambino (PCIT) è una terapia interattiva che adotta questo metodo, cosi
come la SMART (Sensory Motor Arousal Regulation Treatment),
sviluppata dai miei colleghi del Trauma Center.29
Quando si gioca insieme, ci si sente sicamente sintonizzati e si prova un
senso di connessione e gioia. Esercizi di improvvisazione (come quelli che
trovate sul sito  http://learnimprov.com/) sono, a loro volta, un modo
meraviglioso per far sì che le persone si connettano con la gioia e
l’esplorazione. Poter avere il privilegio di assistere a un mutamento
dell’espressione di persone che, da tristi e cupe, si lasciano andare a uno
scoppio di risate fa capire che l’incantesimo dell’infelicità si è nalmente
rotto.

5. Entrare in contatto
Le principali terapie del trauma hanno dedicato scarsa attenzione a come
poter far sentire le persone traumatizzate al sicuro con le proprie
emozioni e sensazioni. Farmaci inibitori della ricaptazione della
serotonina, quali il Respiridol e il Seroquel, hanno preso il posto di
interventi nalizzati a far entrare in contatto i pazienti con il proprio
mondo sensoriale.30 Eppure, il modo più naturale per calmare lo stress
coincide con l’essere toccati, abbracciati e cullati: aiuta ad abbassare
l’arousal e ci fa sentire integri, al sicuro, protetti e in controllo.
Il tocco, il più elementare strumento di cui disponiamo per calmarci, è
bandito dalla maggior parte degli approcci terapeutici. Non si può guarire
completamente se non ci si sente sicuri nella propria pelle. Incoraggio,
pertanto, i miei pazienti a intraprendere qualsiasi tipo di lavoro sul corpo,
che sia il massaggio terapeutico, il feldenkrais o la terapia cranio-sacrale.
Mi sono informato con il mio esperto di bodywork preferito, Licia Sky,
del suo lavoro con le persone traumatizzate. Ecco una parte di ciò che mi
ha detto: “Non inizio mai una seduta di bodywork senza stabilire un
contatto personale. Questo non vuol dire che mi metta a raccogliere una
storia o che cerchi di capire la persona che ho di fronte o che cosa le sia
accaduto. Voglio appurare dove sono, nel loro corpo, nel qui e ora.
Chiedo loro se c’è qualcosa su cui vorrebbero puntare l’attenzione.
Monitoro costantemente la loro postura, se mi guardano negli occhi, se
appaiono tesi o rilassati, se sono in contatto con me oppure no”.
“La prima cosa da stabilire è se si sentano più al sicuro a faccia in su o a
faccia in giù. Se non li conosco, inizio, di solito, a faccia in su. Sono molto
cauta per quanto riguarda l’abbigliamento, e attenta a far sì che si sentano
al sicuro con qualsiasi capo vogliano tenere addosso. È molto importante
costruire questi con ni all’inizio.”
“Così, con il primo tocco, cerco di trasmettere un contatto fermo e
sicuro. Niente di forzato o di acuto. Niente di troppo veloce. Il tocco è
lento, facile da seguire per il paziente, dolcemente ritmico. Può essere
forte come una stretta di mano. Il primo posto che tocco è la mano e
l’avambraccio, perché è il posto più sicuro dove toccare qualcuno, il posto
in cui le persone possono, a loro volta, toccarci.”
“Bisogna identi care il loro punto di resistenza, il posto in cui si
concentra la tensione maggiore, e trattarlo con la stessa intensità
energetica. Ciò permette di rilasciare la tensione congelata. Non si può
esitare. L’esitazione trasmette la mancanza di ducia in noi stessi. Il
movimento lento, accuratamente sintonizzato sul paziente, è diverso
dall’esitazione. Bisogna trattarli con una straordinaria con denza ed
empatia, lasciare che la pressione del nostro tocco incontri la tensione che
le persone stanno trattenendo nel loro corpo”.
Alla domanda: “Che effetto fa alle persone il lavoro sul corpo?”, Licia ha
risposto così: “Proprio ciò che l’acqua fa con la sete; si può avere sete di
un tocco. Ed è molto confortante essere toccati in modo con denziale,
profondo, fermo, dolce e sensibile. Un tocco e un movimento consapevoli
radicano le persone e permettono loro di scoprire tensioni che possono
aver conservato per un tempo così lungo da non esserne più consapevoli.
Quando si è toccati, si risveglia quella parte del corpo che viene toccata”.
“Il corpo si rimpicciolisce sicamente quando ci sono delle emozioni
compresse. Le spalle si stringono, i muscoli facciali si fanno rigidi. Si
spendono un mucchio di energie a trattenere le lacrime, o qualsiasi suono
o movimento che potrebbe tradire lo stato interiore. Quando la tensione
sica viene rilasciata, le emozioni possono essere espresse. Il movimento fa
sì che il respiro diventi più profondo, e, appena la tensione si attenua,
possono essere liberati anche i suoni espressivi. Il corpo diventa più
sciolto e il respiro più libero di uire. Il tocco rende possibile vivere in un
corpo che può muoversi liberamente, in risposta all’essere mosso”.
“Persone terrorizzate hanno bisogno di acquisire la sensazione di dove il
loro corpo sia localizzato nello spazio e di dove siano i loro con ni. Il
tocco fermo e rassicurante permette loro di stabilire dove si collocano
quei con ni: ciò che è fuori di loro e dove i loro corpi niscono. Scoprono
di non doversi chiedere continuamente chi sono e dove sono. Realizzano
di avere un corpo forte e di non dover stare costantemente in guardia. Il
tocco consente loro di sapere di essere al sicuro”.

6. Agire
Il corpo risponde a esperienze estreme, rilasciando ormoni dello stress,
che sono, spesso, responsabili dello sviluppo di malattie e di altri disturbi.
Gli ormoni dello stress sono, comunque, deputati anche a fornirci la forza
e la perseveranza di rispondere a condizioni eccezionali. Le persone che
attivamente fanno qualcosa per affrontare un disastro, salvando le persone
amate o gli sconosciuti, trasportando le persone in ospedale, facendo
parte di una squadra medica, montando le tende o cucinando i pasti,
utilizzano gli ormoni dello stress nel modo adeguato e, quindi, hanno un
rischio minore di essere traumatizzati (ognuno di noi, tuttavia, ha il
proprio punto di rottura, e anche la persona più preparata può essere
sopraffatta dall’enormità delle s de da affrontare).
Impotenza e immobilizzazione impediscono alle persone di utilizzare gli
ormoni dello stress e di proteggersi. In questi casi succede, infatti, che il
rilascio continuo degli ormoni dello stress contrasti proprio quelle azioni
che gli ormoni stessi dovrebbero alimentare. Talvolta, gli schemi di
attivazione, nalizzati a promuovere azioni adattive, si rivoltano contro
l’organismo e innescano risposte inappropriate di attacco/fuga. Per
ritornare a un funzionamento idoneo, questa persistente risposta di
emergenza deve nire. Il corpo ha bisogno di essere riportato a uno stato-
base di sicurezza e rilassamento, da cui si può mobilitare per agire, in
risposta a un pericolo reale.
A tale proposito, i miei amici e maestri Pat Ogden e Peter Levine hanno
entrambi sviluppato delle potenti terapie basate sul corpo, la sensorimotor
psychotherapy31 e il somatic experiencing.32 In questi approcci terapeutici,
le sensazioni siche e la scoperta delle tracce del trauma passato sul corpo,
in termini di localizzazione e di forma, sono prioritarie rispetto alla storia
di ciò che è accaduto. Prima di lanciarsi nell’elaborazione completa del
trauma, i pazienti sono aiutati a sviluppare le loro risorse interne, per
poter accedere in modo sicuro alle sensazioni e alle emozioni dalle quali
sono stati sopraffatti al momento del trauma. Peter Levine chiama questo
processo tecnica del pendolo: oscillare lentamente avanti e indietro, per
accedere alle sensazioni interne e ai ricordi traumatici. In questo modo, i
pazienti sono aiutati a espandere gradualmente la nestra di tolleranza.
Avendo acquisito una suf ciente tolleranza e consapevolezza delle loro
esperienze siche basate sul trauma, i pazienti scoprono, con molta
probabilità, che i potenti impulsi sici – come colpire, spingere, correre –
sono emersi durante il trauma ma sono stati, contemporaneamente,
soppressi per sopravvivere. Questi impulsi si manifestano in sottili
movimenti corporei come contrarsi, girarsi o ritrarsi. Ampli care questi
movimenti e sperimentare modi per modi carli avvia il processo di
completamento delle “tendenze all’azione” rimaste incomplete e conduce,
in ne, alla risoluzione del trauma. Le terapie somatiche possono aiutare i
pazienti a riposizionarsi nel presente, veri cando che muoversi è sicuro.
Sentire il piacere di compiere azioni ef caci ripristina il senso di potere e
la sensazione di riuscire a difendersi e a proteggersi attivamente.
Nel lontano 1893, il primo grande studioso del trauma, Pierre Janet,
scrisse dell’“atto di trionfo”, e io osservo regolarmente quel trionfo
quando pratico la sensorimotor psychotherapy e il somatic experiencing: nel
momento in cui i pazienti cominciano a percepire sicamente ciò che
poteva essere stata un’azione di attacco o di fuga, si rilassano, sorridono e
manifestano la loro completezza.
Quando le persone sono costrette a sottomettersi a un potere
annichilente, come accade ai bambini abusati, alle donne intrappolate
nella violenza domestica, e a uomini e donne in condizioni di prigionia,
sopravvivono in uno stato di acquiescenza rassegnata. Il modo migliore di
superare schemi radicati di sottomissione è ripristinare una capacità sica
di coinvolgersi e di difendersi. Uno dei metodi orientati al corpo che
preferisco, nalizzati a preparare risposte ef caci di attacco/fuga, è
l’impact model mugging del nostro centro, in cui donne (ma sempre più
frequentemente anche uomini) sono istruite a combattere in una
situazione simulata di attacco.33 Questo programma nacque a Oakland,
California, nel 1971, dopo che una donna, cintura nera di quinto livello di
karate, venne stuprata. Chiedendosi come fosse potuto accadere a una
persona che, teoricamente, poteva essere in grado di uccidere qualcuno
con le sue stesse mani, i suoi amici conclusero che la paura l’avesse resa
inabile. Nei termini di questo libro, le sue funzioni esecutive, i suoi lobi
frontali, erano disconnessi e si trovava, quindi, in un stato di freezing.34 Il
programma di attacco insegna alle donne a ricondizionare la risposta di
freezing, attraverso molte ripetizioni del riposizionamento sull’“ora zero”
(un termine militare che indica il preciso momento dell’attacco) e a
trasformare la paura nell’energia positiva del combattimento.
Una delle mie pazienti, una studentessa universitaria con una storia di
terribile abuso infantile, seguì quel corso. Quando la vidi per la prima
volta, era collassata, depressa e completamente acquiescente. Tre mesi
dopo, durante la cerimonia di diploma, raccontò di aver combattuto con
successo contro un aggressore maschio gigantesco, che era nito steso per
terra (difeso dai suoi colpi soltanto da una tuta protettiva molto resistente)
e di aver tenuto, durante il fronteggiamento, le braccia alzate, secondo la
mossa di karate, scandendo chiaramente e in modo calmo: “No”.
Non troppo tempo dopo, tornando a casa dalla biblioteca dopo
mezzanotte, si imbatté in tre uomini che saltarono improvvisamente fuori
dai cespugli, urlando: “Puttana, dacci i tuoi soldi”. Mi riferì di aver
adottato quella stessa posizione di karate e di aver asserito: “Okay ragazzi,
aspettavo con ansia questo momento, chi mi vuole s dare per primo?”. I
tre scapparono. Se si sta chini e si è così spaventati da guardarsi
continuamente intorno, si diventa una facile preda di persone sadiche, ma
le probabilità di essere infastiditi diminuiscono se il messaggio che ci si
legge in faccia è: “Non farmi arrabbiare”.

Integrare i ricordi traumatici


Non è possibile lasciarsi gli eventi traumatici alle spalle, nché non si è
capaci di fare i conti con il passato, riconoscendo i demoni invisibili
contro cui si sta combattendo. La psicoterapia tradizionale si è focalizzata
essenzialmente sul costruire una narrativa che spieghi perché una persona
si senta in quel modo particolare o, come Sigmund Freud ha ribadito nel
1914, in Ricordare, Ripetere e Rielaborare35 “mentre l’ammalato li vive
come qualcosa di reale e attuale, noi dobbiamo effettuare il nostro lavoro
terapeutico che consiste in gran parte nel ricondurre questi elementi al
passato”. Raccontare la storia è importante; senza storia, i ricordi
diventano congelati, e senza ricordi è impossibile immaginare che le cose
possano essere differenti. Ma, come abbiamo visto nel capitolo 4,
raccontare una storia dell’evento non garantisce che i ricordi traumatici
saranno elaborati e superati.
Tutto ciò ha una spiegazione. Quando le persone ricordano un
accadimento ordinario, non rivivono anche le sensazioni siche, le
emozioni, le immagini, gli odori o i suoni a esso associati. Al contrario,
quando le persone ricordano i traumi in modo completo, ne “hanno”
proprio l’esperienza: sono ingolfati di elementi emotivi e sensoriali del
passato. Le scansioni cerebrali di Stan e Ute Lawrence, le vittime
dell’incidente del capitolo 4, mostrano come tutto ciò si veri chi. Durante
la rievocazione del terribile incidente da parte di Stan, due aree
fondamentali del suo cervello risultavano spente: l’area che conferisce alle
persone la percezione del tempo e della prospettiva, che porta a pensare
“Ciò è accaduto allora e sono al sicuro adesso”, e un’altra aerea che
integra immagini, suoni, sensazioni del trauma all’interno di una storia
coerente. Se queste parti del cervello sono inabilitate, si vive l’evento non
come se avesse un principio, una parte centrale e una ne, ma sotto forma
di frammenti di sensazioni, immagini ed emozioni.
Un trauma può essere elaborato con successo soltanto se tutte quelle
strutture del cervello rimangono collegate. L’EMDR (Eye Moviment
Desensitization and Reprocessing) permise a Stan di accedere ai ricordi
dell’incidente senza esserne sopraffatto. Quando le aree del cervello, il cui
spegnimento è responsabile dei askback, sono accese mentre si ricorda
ciò che è avvenuto, le persone possono integrare i loro ricordi traumatici e
collocarli nel passato.
La dissociazione di Ute (come ricordate, Ute si era completamente
spenta), in vari modi, rendeva dif coltosa la guarigione. Nessuna delle
aree del cervello necessarie a stare nel presente risultava attiva e, pertanto,
era impossibile affrontare il trauma. Se il cervello non è vigile e presente,
non ci sarà né integrazione né risoluzione. La paziente aveva bisogno di
ampliare maggiormente la sua nestra di tolleranza, prima di riuscire ad
affrontare i sintomi del PTSD.
Dalla ne dell’Ottocento – periodo di Pierre Janet e Sigmund Freud –
n dopo la Seconda guerra mondiale, l’ipnosi è stata, di certo, il
trattamento più largamente utilizzato. Su YouTube è ancora disponibile il
documentario Let there be light, del grande regista di Hollywood John
Houston, che mostra uomini con “nevrosi di guerra”, curati con l’ipnosi.
L’ipnosi cadde in disgrazia all’inizio degli anni Novanta e non ci sono
studi recenti sull’ef cacia di questo trattamento per il PTSD. L’ipnosi,
comunque, può indurre uno stato di suf ciente calma, da cui i pazienti
possono osservare le loro esperienze traumatiche senza esserne travolti.
Dal momento che la capacità di osservarsi in modo quieto è un fattore
cruciale per l’integrazione delle memorie traumatiche, è probabile che
l’ipnosi, in qualche forma, ritorni in auge.

Terapia cognitivo-comportamentale
Nel corso della propria formazione, buona parte degli psicologi ha potuto
seguire dei corsi di terapia cognitivo-comportamentale. La CBT fu
dapprima sviluppata per trattare fobie, quali la paura dei ragni, degli
aeroplani, dell’altezza, per aiutare i pazienti a confrontare le loro paure
irrazionali con una realtà inoffensiva. A partire da ciò che li spaventa di
più, i pazienti vengono pian piano desensibilizzati rispetto alle loro paure
irrazionali, utilizzando le loro storie e le loro immagini (“esposizione
immaginativa”), o mettendoli di fronte a situazioni (nella fattispecie,
sicure) scatenanti l’ansia (“esposizione in vivo”), o, in ne, a realtà virtuali,
scene simulate al computer, come, per esempio, in casi di PTSD correlati
a eventi di guerra, a combattimenti per le strade di Fallujah.
L’idea di base della Terapia cognitivo-comportamentale è che i pazienti,
ripetutamente esposti a degli stimoli ansiogeni, in assenza di accadimenti
terri ci reali, inizieranno a sentirsi gradualmente meno agitati; i brutti
ricordi si assoceranno all’informazione “correttiva” di essere al sicuro.36
La CBT, inoltre, cerca di aiutare i pazienti a superare le tendenze evitanti,
rintracciabili in dichiarazioni come: “Di questo non voglio parlare”.37
Sembra semplice, ma, come abbiamo visto, ripercorrere il trauma riattiva
il sistema di allarme del cervello e azzera proprio quelle aree cerebrali che
sono necessarie per integrare il passato, facendo sì che il paziente riviva
continuamente il trauma, invece di risolverlo.
L’esposizione prolungata o “allagamento” è stata studiata molto più
approfonditamente di qualsiasi altro trattamento sul trauma. Ai pazienti
viene chiesto “di portare alla loro attenzione il materiale traumatico e… di
non distrarsi con altri pensieri o attività”.38 La ricerca dimostrò che sono
necessari più di 100 minuti di “allagamento” (in cui stimoli provocanti
l’ansia sono presentati in forma intensa e sostenuta), prima di poter
registrare un decremento dell’ansia.39 L’esposizione, talvolta, aiuta ad
affrontare paura e ansia, ma non è stato provato che risolva questioni
legate alla colpa o ad altre emozioni complesse.40
Contrariamente alla sua ef cacia sulle paure irrazionali, come quella dei
ragni, la CBT non si è dimostrata ugualmente ef cace per gli individui
traumatizzati, in particolare non lo è stata per coloro che hanno una storia
di abuso. Solamente un partecipante su tre con PTSD, che riesce a
completare il percorso di ricerca, mostra qualche segnale di
miglioramento.41 Alla ne di un trattamento di CBT, i pazienti, di solito,
mostrano meno sintomi PTSD, ma di rado guariscono completamente. La
maggior parte continua ad avere sostanziali problemi di salute, di lavoro e
di benessere mentale.42
Nel più vasto studio presentato su CBT e PTSD, più di un terzo dei
pazienti interrompeva il trattamento; il resto mostrava un numero
altamente signi cativo di effetti indesiderati. La maggior parte delle
donne dello studio soffriva ancora di PTSD conclamato dopo tre mesi, e
soltanto il 15% non aveva più i sintomi maggiori del PTSD.43 Una
meticolosa analisi dei lavori scienti ci sulla CBT dimostra bene la sua
ef cacia, ntanto che si rimane all’interno di una relazione terapeutica
supportiva.44 I risultati più scarsi con i trattamenti espositivi si ottengono
per quei pazienti che presentano un cosiddetto “mental defeat”,45 quelli,
cioè, che si sono arresi.46
Essere traumatizzati non signi ca solo essere bloccati nel passato; si
tratta, più che altro, di non essere pienamente vivi nel presente. Una tipica
forma di trattamento espositivo è rappresentata dalla terapia della realtà
virtuale, nella quale i veterani indossano occhialoni high-tech, che
rendono possibile la simulazione della battaglia di Fallujah in modo
particolarmente realistico. Da quello che so, i marines statunitensi
eseguivano molto bene il combattimento. Il problema stava nel non
sopportare di tornare a casa. Studi recenti condotti su veterani australiani
mostrano che il loro cervello viene ricablato per stare in allerta per le
emergenze, a scapito della capacità di riuscire a essere concentrati sui
piccoli dettagli della vita quotidiana47 (maggiori dettagli verranno forniti
nel capitolo 19, dedicato al neurofeedback). Più che della terapia della
realtà virtuale, i pazienti traumatizzati necessitano di una terapia del
“mondo reale”, che li aiuti a sentirsi vivi quando vanno al supermercato
più vicino o quando giocano con i loro bambini, così come si sentivano
per le strade di Baghdad.
I pazienti possono bene ciare di una terapia espositiva soltanto se non
ne vengono sopraffatti. Ne è un buon esempio uno studio sui veterani del
Vietnam, condotto agli inizi degli anni Novanta dal mio collega Roger
Pitman.48 In quel periodo, andavo al laboratorio di Roger tutte le
settimane, perché stavamo portando avanti una ricerca sull’impatto degli
oppioidi del cervello sul PTSD, come descritto nel capitolo 2. Roger mi
mostrava le videoregistrazioni delle sedute terapeutiche e poi discutevamo
su quanto osservato. Insieme alla sua équipe, spingeva i veterani a parlare,
ripetutamente e in modo dettagliato, delle loro esperienze in Vietnam:
molti intervistatori erano costretti a fermarsi perché i veterani erano
troppo angosciati per l’attivarsi dei ashback e, cosa più importante, la
paura persisteva, spesso, dopo le sedute. Alcuni di essi non si
presentarono più, mentre molti altri – che decisero di continuare –
svilupparono sintomi depressivi, paura e rabbia. Alcuni, inoltre,
affrontarono i sintomi, aumentando l’uso di alcol, con un incremento tale
di aggressività e umiliazione, da indurre i familiari a optare per un
ricovero coatto.

Desensibilizzazione
Negli ultimi vent’anni, quasi tutti gli studenti di psicologia hanno
imparato una qualche forma di terapia di desensibilizzazione, volta ad
aiutare i pazienti a essere meno reattivi a certe sensazioni ed emozioni. Ma
è questo l’obiettivo giusto? È possibile che la questione non sia la
desensibilizzazione, ma l’integrazione: rimettere l’evento traumatico al
proprio posto, all’interno dell’intero arco di vita di una persona.
Il concetto di desensibilizzazione mi riporta a pensare al bambino di
circa cinque anni che ho avuto modo di osservare recentemente di fronte
a casa. Suo padre, un uomo gigantesco, lo stava sgridando con un tono di
voce altissimo, mentre il bambino andava in triciclo lungo la mia strada. Il
bambino era visibilmente turbato e il mio cuore batteva all’impazzata,
poiché sentivo, forte, l’impulso di stendere il tizio. A quanta brutalità quel
bambino deve essere stato esposto per apparire così insensibile alla
violenza del padre? La sua indifferenza alle grida paterne deve essere stata
il risultato di una prolungata esposizione, ma, mi chiedevo, a che prezzo?
Sì, possiamo assumere farmaci che smussano le nostre emozioni o
possiamo imparare a desensibilizzarci. In quanto studenti di medicina,
impariamo ad avere un atteggiamento molto distaccato quando dobbiamo
intervenire su un bambino con ustioni di terzo grado. Ma, come ha
mostrato il neuroscienziato Jean Decety dell’Università di Chicago, la
nostra desensibilizzazione al dolore delle altre persone tende a condurci
verso un af evolimento complessivo della sensibilità emotiva.49
Un resoconto fatto su 49.425 veterani di ritorno dalle guerre in Iraq e in
Afghanistan, da poco diagnosticati come PTSD, che avevano chiesto una
terapia alla VA, dimostrò che poco più di uno su dieci riusciva
effettivamente a completare il trattamento consigliato.50 Così come per i
veterani del Vietnam di Pitman, la terapia espositiva, nel modo in cui
viene usualmente praticata, funziona raramente con questo tipo di
pazienti. Possiamo “elaborare” esperienze tremende soltanto se non ci
travolgono. E questo signi ca che sono necessari altri approcci.

Le droghe garantiscono un accesso sicuro al trauma?


Da studente di medicina, trascorsi l’estate del 1966 a lavorare con Jan
Bastiaans, un professore dell’Università di Leida in Olanda, noto per il
suo intervento terapeutico con LSD sui sopravvissuti all’Olocausto.
Dichiarava di aver raggiunto risultati eccellenti, ma, quando i colleghi
ispezionarono i suoi archivi, trovarono pochi dati a supporto delle sue
dichiarazioni. Il potenziale curativo delle sostanze che alterano la mente
per il trattamento del trauma venne, di conseguenza, trascurato no al
2000, quando Michael Mithoefer e i suoi colleghi in Sud Carolina
ottennero il permesso dalla FDA (Food and Drug Administration) di
condurre un esperimento con MDMA (ecstasy). L’MDMA fu classi cata
come sostanza controllata nel 1985, dopo essere stata usata per anni come
droga ricreativa. Come per il Prozac e altri agenti psicotropi, non
sappiamo esattamente in che modo funzioni l’MDMA, ma quello che si sa
è che aumenta la concentrazione di un numero di ormoni importanti,
come l’ossitocina, la vasopressina, il cortisolo e la prolattina.51 E, cosa
fondamentale per il trattamento del trauma, aumenta la consapevolezza di
sé, tanto che le persone riportano frequentemente una più elevata
sensazione di compassione, accompagnata da curiosità, lucidità, ducia,
creatività e connessione. Mithoefer e i suoi colleghi stavano cercando una
medicina che potesse accrescere l’ef cacia della psicoterapia e si
interessarono all’MDMA, poiché notoriamente diminuisce la paura, la
dif denza e l’ottundimento, facilitando l’accesso all’esperienza interiore.52
Pensavano che l’MDMA potesse aiutare i pazienti a stare dentro la
nestra di tolleranza senza essere soverchiati dall’arousal emotivo e
siologico.
Inizialmente, lo studio pilota aveva validato le loro aspettative.53 Il primo
studio, che includeva veterani, vigili del fuoco e agenti di polizia con
PTSD, aveva evidenziato risultati positivi. Nello studio successivo,
all’interno di un gruppo di 20 vittime di aggressione, che avevano avuto
risposte poco signi cative a precedenti interventi terapeutici, a 12 soggetti
era stata somministrata l’MDMA e a 8 un farmaco placebo inattivo. Seduti
o sdraiati in una stanza confortevole, tutti quanti furono sottoposti a due
sedute di psicoterapia nell’arco di otto ore, usando prevalentemente la
terapia dei Sistemi familiari interni (IFS), argomento del capitolo 17 di
questo libro. Due mesi dopo, l’83% dei soggetti che avevano assunto
l’MDMA e seguito la psicoterapia era considerato completamente guarito,
a confronto con il 25% del gruppo placebo. Nessuno dei pazienti mostrò
effetti collaterali negativi. E, cosa ben più interessante, intervistati a un
anno di distanza dalla conclusione della ricerca, i partecipanti mostravano
di aver mantenuto i bene ci ottenuti.
Potendo osservare il trauma da uno stato calmo e consapevole (mindful),
che l’IFS de nisce Sé (un termine di cui parlerò nel capitolo 17), mente e
cervello sono in grado di integrare il trauma all’interno dell’intera trama
della vita. Ciò si distanzia molto da altre tecniche di desensibilizzazione,
che alleviano la risposta agli orrori del passato. Si tratta di associazione e
integrazione, di conferire cioè a un evento terribile del passato che ci ha
sopraffatto lo status di ricordo di qualcosa che è accaduto tanto tempo fa.
Nondimeno, sostanze psichedeliche agiscono in modo potente su storie
problematiche. L’abuso di queste sostanze è facilitato da un’inaccurata
somministrazione e un debole mantenimento dei con ni terapeutici. Ci si
augura che l’MDMA non sia un’altra cura magica, liberata dal vaso di
Pandora.

E i farmaci?
Le persone hanno sempre fatto uso di droghe per affrontare lo stress
traumatico. Ogni cultura e ogni generazione ha le sue preferenze: gin,
vodka, birra o whisky, hashish, marijuana, cannabis o ganja, cocaina,
oppiodi come l’Oxycontin, tranquillanti come il Valium, lo Xanax e il
Klonopin. Quando le persone sono disperate, cercano di fare qualsiasi
cosa per conquistare uno stato di calma e di controllo.54
La psichiatria dominante segue questa tradizione. Negli ultimi dieci
anni, i Departments of Defense and Veterans Affairs hanno dichiarato di
aver speso 4,5 miliardi di dollari in antidepressivi, antipsicotici e
ansiolitici. Nel giugno del 2010, un rapporto interno del Defense
Department Pharmacoeconomic Center del Fort Sam Houston a San
Antonio riportava che 213.972 soldati, cioè il 20% di 1,1 milioni di
militari in servizio attivo esaminati, stavano assumendo una qualche forma
di sostanza psicotropa: antidepressivi, antipsicotici, ipnotici sedativi o
altre sostanze controllate.55
Le droghe, tuttavia, non “curano” il trauma, possono soltanto alleggerire
la manifestazione della siologia disturbata. E non insegnano una lezione
di autoregolazione persistente nel tempo. Possono facilitare il controllo di
sentimenti e comportamenti, ma c’è sempre un qualche prezzo da pagare,
poiché funzionano bloccando i sistemi chimici che regolano il
coinvolgimento, la motivazione, il dolore e il piacere. Alcuni dei miei
colleghi continuano a essere ottimisti: partecipo costantemente a
congressi, dove stimati scienziati discutono sulla ricerca dell’elusiva
bacchetta magica, che miracolosamente resetterà i circuiti della paura nel
cervello (come se lo stress traumatico coinvolgesse soltanto un unico e
semplice circuito cerebrale). Per quanto mi riguarda, mi trovo, a mia
volta, a prescrivere regolarmente dei farmaci.
Pressoché tutti i gruppi di agenti psicotropi sono stati utilizzati per
trattare qualche aspetto del PTSD.56 Gli inibitori della ricaptazione della
serotonina (SSRIs), come il Prozac, lo Zoloft e il Paxil, sono stati studiati
più approfonditamente e possono rendere i vissuti meno intensi e la vita
più gestibile. Pazienti sotto SSRIs si sentono, spesso, più calmi e in
controllo; sentirsi meno sopraffatti facilita, solitamente, il percorso
psicoterapico. Altri pazienti sotto SSRIs si sentono senza slancio, come se
stessero “perdendo smalto”. Affronto tale argomento sotto forma di
questione empirica: osserviamo ciò che funziona e, in ultima analisi,
soltanto il paziente può essere un giudice af dabile. D’altra parte, se un
farmaco SSRI non funziona, bisognerebbe provarne un altro, poiché
ciascuno di essi ha un effetto sottilmente diverso. È piuttosto interessante
che i farmaci SSRIs siano largamente utilizzati per curare la depressione,
malgrado una ricerca che metteva a confronto il Prozac con l’EMDR (Eye
Moviment Desensitization and Reprocessing) in pazienti con PTSD –
alcuni dei quali anche depressi –
abbia palesemente dimostrato una maggiore ef cacia dell’EMDR, in
termini di effetti antidepressivi del Prozac.57 Ritornerò su questo
argomento nel capitolo 15.58
I farmaci che bersagliano il sistema nervoso autonomo, come il
propranololo o la clonidina, diminuiscono l’iperarousal e la reattività allo
stress.59 Questa famiglia di farmaci funziona bloccando gli effetti sici
dell’adrenalina, il carburante dell’arousal, e, quindi, riduce gli incubi,
l’insonnia e la reattività ai trigger del trauma.60 Bloccare l’adrenalina
favorisce l’attività del cervello razionale e rende possibile effettuare delle
scelte: “È veramente ciò che voglio fare?”. Da quando ho cominciato a
integrare mindfulness e yoga nella mia pratica clinica, ricorro meno spesso
a queste medicine, tranne che per aiutare occasionalmente i pazienti ad
avere un sonno più ristoratore.
I pazienti traumatizzati tendono a preferire i farmaci tranquillanti, delle
benzodiazepine come il Klonopin, il Valium, lo Xanax e l’Ativan. In un
certo senso, questi farmaci funzionano come l’alcol, nella misura in cui
rendono più calmi e diminuiscono le preoccupazioni (i proprietari dei
casinò amano i consumatori di benzodiazepine: non si agitano quando
perdono e continuano a scommettere). Tuttavia, proprio come l’alcol, le
“benzo” diminuiscono l’inibizione a inveire contro le persone care. La
maggior parte dei medici di base è riluttante a prescrivere questi farmaci,
perché hanno un elevato potenziale di dipendenza e possono anche
interferire con l’elaborazione del trauma. Pazienti che ne sospendono
l’assunzione, dopo un periodo prolungato, reagiscono con ritiro e
agitazione, con un aumento dei sintomi post-traumatici.
Qualche volta, prescrivo ai miei pazienti bassi dosaggi di benzodiazepine
da usare al bisogno, non su base giornaliera. Devono scegliere quando
usare la loro preziosa riserva e chiedo loro di tenere un diario di ciò che
succede, quando decidono di prendere la pastiglia. Questo dà loro modo
di parlare degli speci ci eventi attivanti.
Pochi studi hanno mostrato come anticonvulsivanti e stabilizzatori
dell’umore, come il litio o il valporato, possano avere un qualche effetto
positivo, riducendo l’iperarousal e il panico.61 I farmaci più controversi
sono gli antipsicotici cosiddetti di seconda generazione, come il Risperdal
e il Seroquel, gli psicofarmaci di gran lunga più venduti negli Stati Uniti
(14,6 miliardi di dollari nel 2008). Basse dosi di questi farmaci servono a
calmare i veterani di guerra e le donne con un PTSD correlato a un abuso
infantile.62 L’uso di questi farmaci può essere, talvolta, giusti cato con
pazienti che si sentono, per esempio, completamente fuori controllo o con
gravi disturbi del sonno, o, in ne, laddove altri metodi abbiano fallito.63
Ma è importante tenere a mente che questi farmaci agiscono bloccando il
sistema della dopamina, che costituisce il motore del piacere e della
motivazione.
Farmaci antipsicotici come il Risperdal, l’Abilify o il Seroquel, possono
indebolire, in misura importante, il cervello emotivo, rendendo i pazienti
meno incostanti o arrabbiati, ma anche pesantemente insensibili ai vissuti
di piacere e di soddisfazione, nonché ai segnali di pericolo. Provocano,
spesso, aumento di peso, accrescono le probabilità di sviluppare il diabete
e rendono i pazienti sicamente inerti, con un correlato senso di
alienazione. Questi farmaci sono largamente usati per trattare bambini
abusati, diagnosticati erroneamente come affetti da Disturbo bipolare o
della regolazione dell’umore. Più di mezzo milione di bambini e
adolescenti in America è, attualmente, sotto farmaci antipsicotici, che
hanno sì un effetto calmante, ma interferiscono fortemente con
l’apprendimento di abilità appropriate per l’età, contrastando lo sviluppo
della socializzazione con i pari.64 Uno studio recente della Columbia
University ha scoperto che le prescrizioni di farmaci antipsicotici per
bambini dai due ai cinque anni, le cui famiglie fruiscono di assicurazioni
private, sono raddoppiate tra il 2000 e il 2007.65 Soltanto il 40% di questi
bambini ha ricevuto una valutazione psichiatrica adeguata.
Prima di perdere il brevetto, la compagnia farmaceutica
Johnson&Johnson aveva distribuito i blocchi LEGO, con la parola
Risperdal stampata sopra, nelle sale d’attesa degli ambulatori psichiatrici.
I bambini provenienti da famiglie a basso reddito hanno una probabilità
quattro volte maggiore di essere curati con farmaci antipsicotici, rispetto a
quelli che possono contare su un’assicurazione privata. In un solo anno, il
Texas Medicaid ha speso 96 milioni di dollari in farmaci antipsicotici per
bambini e adolescenti, inclusi tre neonati non identi cati, ai quali erano
stati somministrati farmaci prima del compimento del primo anno d’età.66
Non si dispone di studi sugli effetti dei farmaci psicotropi sul cervello in
via di sviluppo. Generalmente, dissociazione, autolesionismo, ricordi
frammentati e amnesia non rispondono ad alcuno di questi farmaci.
Lo studio sul Prozac, che ho presentato nel capitolo 2, è stato il primo a
dimostrare che i civili traumatizzati tendono a rispondere molto meglio
alle medicine rispetto ai veterani di guerra.67 Da allora, altri studi hanno
trovato simili discrepanze. A fronte di ciò, sembra alquanto preoccupante
che il Department of Defense e la VA prescrivano enormi quantità di
medicine ai soldati e ai veterani che ritornano dalla guerra, spesso senza
neanche af ancare ai farmaci qualche altra forma di terapia. Tra il 2001 e
il 2011 la VA ha speso circa 1,5 miliardi di dollari in Seroquel e Risperdal,
e il Ministero della Difesa ne speso circa 90 milioni nello stesso periodo,
anche se una rivista scienti ca ha pubblicato, nel 2002, che il Risperdal
non è più ef cace di un placebo nel trattamento del PTSD.68
Analogamente, tra il 2001 e il 2012, la VA ha speso 72,1 milioni di dollari
e il Ministero della Difesa 44,1 in benzodiazepine,69 farmaci che i clinici
generalmente evitano di prescrivere ai civili con PTSD, per la potenziale
dipendenza e la mancanza di ef cacia signi cativa sui sintomi di PTSD.
La strada della guarigione è la strada della vita
Nel primo capitolo di questo libro, vi ho presentato un paziente di nome
Bill, che ho incontrato circa trent’anni fa alla VA. Bill è diventato uno dei
miei più “vecchi” pazienti/maestri, e la nostra relazione è anche la storia
della mia evoluzione nel trattamento del trauma.
Bill aveva prestato servizio militare sanitario in Vietnam dal 1967 al 1971
e, al suo ritorno, cercò di applicare le abilità che aveva appreso
nell’esercito, lavorando in unità per ustionati dell’ospedale locale. Il
lavoro infermieristico lo rendeva stanco, impulsivo, nervoso, ma non era
consapevole del fatto che questi problemi potessero avere qualcosa a che
fare con l’esperienza in Vietnam. Dopotutto, la diagnosi di PTSD non
esisteva ancora, e i ragazzi della classe operaia irlandese di Boston non
consultavano strizzacervelli. Gli incubi e l’insonnia si alleviarono
leggermente, dopo la decisione di lasciare il lavoro di infermiere e di
entrare in seminario. Non aveva chiesto alcun aiuto, almeno no alla
nascita del suo primogenito nel 1978.
Il pianto del suo bambino attivava terribili ashback, in cui vedeva,
udiva e sentiva l’odore dei bambini mutilati e ustionati in Vietnam. Era
talmente fuori controllo che alcuni miei colleghi alla VA avrebbero voluto
ricoverarlo e trattarlo per quella che pensavano fosse una psicosi. Tuttavia,
dopo un po’ di lavoro insieme, cominciò a sentirsi al sicuro con me e a
raccontare, poco per volta, ciò di cui era stato testimone in Vietnam,
iniziando a tollerare, molto lentamente, i suoi vissuti senza esserne
sopraffatto. Questo lo aiutò a riconcentrarsi e a prendersi cura della sua
famiglia e a nire la sua formazione come ministro della Chiesa. Due anni
dopo, diventò pastore della sua parrocchia e credeva che il nostro lavoro
fosse concluso.
Non ebbi più contatti con Bill no a una sua chiamata telefonica, che
arrivò esattamente a distanza di diciotto anni dal nostro primo incontro.
Mi disse di accusare esattamente gli stessi sintomi di prima: ashback,
incubi terribili, sensazione di stare diventando matto. Suo glio aveva
diciotto anni e Bill lo aveva accompagnato ad arruolarsi, nella stessa
caserma da cui era stato mandato in Vietnam. Avevo, a quel punto, una
maggiore esperienza nel trattamento dello stress traumatico, e Bill e io
affrontammo i ricordi speci ci di ciò che aveva visto e sentito e degli odori
che aveva avvertito in Vietnam, dettagli troppo spaventosi da ricordare
durante la nostra prima tranche di trattamento. Riusciva ora a integrare
quei ricordi con l’EMDR, così da farli diventare storie accadute tempo
prima, invece che stimoli che lo trasportavano istantaneamente
nell’inferno del Vietnam. Sentendosi più centrato, volle occuparsi della
sua infanzia: nello speci co, della sua educazione violenta e del senso di
colpa per aver lasciato, con la sua partenza per il Vietnam, il suo fratellino
più piccolo, schizofrenico, in balia dell’ira funesta e imprevedibile del
padre.
Un altro tema importante del lungo periodo trascorso insieme fu il
dolore quotidiano con cui Bill si confrontava in qualità di pastore: doveva
seppellire adolescenti, che aveva battezzato pochi anni prima, uccisi in un
incidente di macchina, e doveva sentire coppie, che aveva sposato da
poco, tornare da lui in crisi, a causa di violenze domestiche. Bill organizzò
un gruppo d’aiuto composto da altri preti che dovevano confrontarsi con
traumi simili e diventò un riferimento importante per la sua comunità.
Il terzo trattamento di Bill iniziò cinque anni dopo, quando, a 53 anni,
fu colpito da una grave malattia neurologica. Aveva improvvisamente
iniziato a percepire paralisi transitorie in diverse parti del corpo e aveva
iniziato ad accettare l’idea di dover trascorrere il resto della vita su una
sedia a rotelle. Pensavo che i suoi problemi potessero essere ascrivibili a
una sclerosi multipla, ma i neurologi non riuscivano a trovare speci che
lesioni, proclamando una sostanziale mancanza di cure per una
condizione simile. Mi disse di quanto fosse grato per l’aiuto della moglie,
che aveva già fatto in modo di costruire una rampa per la sedia a rotelle,
all’ingresso della cucina della loro casa.
Data la sua prognosi incerta, mi premeva far affrontare a Bill, al più
presto possibile, le sensazioni disturbanti del suo corpo, “facendosele
amiche”, così come, tempo prima, aveva imparato a tollerare e a convivere
con i ricordi più dolorosi della guerra. Suggerii che consultasse un esperto
in terapia corporea, che mi aveva fatto conoscere il Feldenkrais, un
approccio dolce e manuale, volto a riadattare le sensazioni siche e i
movimenti muscolari. Quando ritornò per raccontarmi ciò che stava
facendo, espresse un grande piacere per il suo aumentato senso di
controllo. Gli dissi che, da poco, avevo iniziato a praticare yoga al Trauma
Center e lo invitai a prendere in considerazione anche questa ulteriore
possibilità.
Trovò, vicino a casa, un corso di yoga Bikram, una pratica intensa e
forte, di solito riservata a persone giovani e piene di energia. Bill se ne
innamorò, anche se alcune parti del suo corpo, di tanto in tanto, cedevano
durante le lezioni. A dispetto della sua disabilità sica, stava guadagnando
un senso di piacere corporeo e di padronanza che non aveva mai provato
prima.
Il trattamento psicologico aveva aiutato Bill a collocare le tremende
esperienze del Vietnam nel passato. Ora, familiarizzare con il corpo gli
impediva di organizzare la sua vita intorno alla perdita del controllo sico.
Decise di diventare un istruttore di yoga certi cato e cominciò a insegnare
yoga ai veterani che ritornavano dall’Iraq e dall’Afghanistan, nella caserma
locale.
Oggi, dieci anni dopo, Bill continua a essere pienamente coinvolto nella
sua vita, con i suoi gli e i nipoti, nel suo lavoro con i veterani e nella sua
parrocchia. Gestisce le limitazioni siche come se si trattasse di un
inconveniente. A oggi, ha insegnato yoga a più di 1300 veterani di guerra.
Soffre ancora regolarmente di improvvisa debolezza alle membra e, a quel
punto, deve sedersi o stendersi. Ma, come per i ricordi dell’infanzia e del
Vietnam, tali episodi non dominano la sua esistenza. Sono semplicemente
parte della sua storia di vita attuale e in evoluzione.

1. Strofa di una canzone della cantautrice statunitense, Dar Williams. Originaria dello Stato di New
York, si è trasferita a Boston per lavorare nel mondo del teatro, intraprendendo poi la carriera
musicale. [NdC]
2. “Self-leadership” (guida di Sé) è il termine usato da Dick Schwartz nel suo modello terapeutico,
quello dei Sistemi familiari interni, che sarà l’argomento principale del capitolo 17.
3. Le eccezioni sono rappresentate dal lavoro di Pesso e Schwartz, trattato nel dettaglio nei capitoli
17 e 18, che uso correntemente nella mia pratica clinica e di cui ho personalmente bene ciato, ma
che, almeno nora, non ho avuto modo di sottoporre a studi scienti ci.
4. A.F. Arnstein (1998), “Enhanced: The biology of being frazzled”, in Science, 280, (5370), pp.
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5. D.J. Siegel (2010), Il terapeuta consapevole. Guida per il terapeuta al mindsight e all’integrazione
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6. J.E. LeDoux (2000), “Emotion circuits in the brain”, in Annual Review of Neuroscience, 23(1),
pp. 155-184. Vedi anche M.A. Morgan, L.M. Romanski, J.E. LeDoux (1993), “Extinction of
emotional learning: Contribution of medial prefrontal-cortex”, in Neuroscience Letters, 163(1), pp.
109-113; J.M. Moscarello, J.E. LeDoux (2013), “Active avoidance learning requires prefrontal
suppression of amygdala-mediated defensive reactions”, in Journal of Neuroscience, 33(9), pp.
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7. S.W. Porges (2010), “Stress and parasympathetic control”, in Stress Science: Neuroendocrinology,
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13. Come abbiamo visto nel capitolo 5, le scansioni cerebrali delle persone che soffrono di PTSD
mostrano un’attivazione alterata nelle aree associate alla rete di connettività funzionale, solitamente
implicata nella memoria autobiogra ca e nella continuità del senso di Sé.
14. P.A. Levine (2010), In an Unspoken Voice: How the Body Releases Trauma and Restores
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S. Schmidt, H. Walach (2004), “Mindfulness-based stress reduction and health bene ts: A meta-
analysis”, in Journal of Psychosomatic Research, 57(1), pp. 35-43.
18. I circuiti cerebrali implicati nella meditazione mindfulness sono stati ampiamente identi cati:
aumentano la regolazione attentiva e allentano l’interferenza emotiva sui compiti che richiedono
attenzione. Vedi, inoltre, L.E. Carlson, M. Speca, P. Faris, K.D. Patel (2007), “One year pre-post
intervention follow-up of psychological, immune, endocrine and blood pressure outcomes of
Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) in breast and prostate cancer outpatients”, in Brain,
Behavior, and Immunity, 21(8) pp. 1038-1049; e R.J. Davidson, J. Kabat-Zinn, J. Schmacher, M.
Rosenkranz, D. Muller, S.F. Santorelli, F. Urbanowsky, A. Harrington, K. Bonus, J.F. Sheridan
(2003), “Alterations in brain and immune function produced by mindfulness meditation”, in
Psychosomatic Medicine, 65(4), pp. 564-570.
19. Britta Hölzel e i suoi colleghi hanno condotto un’ampia ricerca su meditazione e funzioni
cerebrali. La meditazione coinvolge il PFC dorsomediale, il PFC ventrolaterale e il cingolato
rostrale anteriore (AAC). Vedi B. Holzel, J. Carmody, K. Evans, E. Hoge, J. Dusek, L. Morgan, R.
Pitman, S. Lazar (2010), “Stress reduction correlates with structural changes in the amygdala”, in
Social Cognitive and Affective Neuroscience, 5, pp. 11-17; B. Holzel, J. Carmody, M. Vangel, C.
Congleton, S. Yersamsetti, T. Gard, S. Lazar (2011), “Mindfulness practice leads to increases in
regional brain gray matter density”, in Psychiatry Research, 191(1), pp. 36-43; B. Hölzel, U. Ott, T.
Gard, H. Hempel, M. Weygandt, K. Morgen, D. Vaitl (2008), “Investigation of mindfulness
meditation practitioners with voxel-based morphometry”, in Social Cognitive and Affective
Neuroscience, 3(1), pp. 55-61; B. Hölzel, U. Ott, H. Hempel, A. Hackl, K. Wolf, R. Stark, D. Vaitl
(2007), “Differential engagement of anterior cingulate and adjacent medial frontal cortex in adept
meditators and non-meditators”, in Neuroscience Letters, 421 (1), pp.16-21.
20. La principale struttura cerebrale implicata nella consapevolezza corporea, è l’insula anteriore.
Vedi D. Craig (2003), “Interoception: The sense of the physiological condition of the body”, in
Current Opinion on Neurobiology, 13, pp. 500-505; H.D. Critchley, W.S. Wiens, P. Rotshtein, A.
Ohman, R.J. Dolan (2004), “Neural systems supporting interoceptive awereness”, in Natural
Neuroscience, 7(2), pp. 185-195; N.A.S. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg, J. Bean, D. McKeon, J.
Fatima (2007), “Attending to the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of
self-reference”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 2, pp. 313-322; J.A. Grant, J.
Courtemanche, E.G. Duerden, G.H. Duncan, P. Rainville (2010), “Cortical thickness and pain
sensitivity in zen meditators”, in Emotion, 10 (1), pp. 43-53.
21. S. Bamks (2007), “Amygdala-frontal connectivity during emotion-regulation”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2 (4), pp. 303-312. Vedi anche M.R. Milad, K.T. Eddy, M.
Angastadt, P.J. Nathan, K.L. Phan (2005), “Thickness of ventromedial prefrontal cortex in humans
is correlated with extinction memory”, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the
United States of America, 102(30), pp. 10706-10711; S.L. Rausch, L.M. Hin, E.A. Phelps (2006),
“Neurocircuitry models of Post-traumatic Stress Disorder and extinction: Human neuroimaging
research – past, present, and future”, in Biological Psychiatry, 60 (4), pp. 376-382.
22. A. Freud, D.T. Burlingham (1943), War and Children, New York University Press, New York.
23. Ci sono tre modi differenti in cui le persone affrontano le esperienze sopraffacenti:
dissociazione (essere in un’altra dimensione, spegnersi), depersonalizzazione (sentirsi come se le
cose non accadessero a noi), derealizzazione (sentire che le cose che accadono intorno a noi non
sono reali).
24. I miei colleghi del Justice Resource Institute hanno messo a punto un programma di
trattamento residenziale per gli adolescenti, il Van der Kolk a Glenhaven Academy, che attua molti
degli interventi sul trauma discussi in questo libro, come yoga, integrazione sensoriale,
neurofeedback e teatro. http://www.jri. org/vanderkolk/about. Il modello di trattamento intensivo,
attaccamento, autoregolazione e competenza (ARC) è stato sviluppato dalle mie colleghe Margaret
Blaustein e Kristine Kinniburgh. M. Blaustein, K.M. Kinniburgh (2012), Treating Traumatic Stress
in Children and Adolescents: How to Foster Resilience Through Attachment, Self-Regulation, and
Competency, Guilford Press, New York.
25. Scholastic Aptitude Test e Scholastic Assessment Test: test validi per l’ammissione al college.
[NdC]
26. C.K. Chandler (2011), Animal Assisted Therapy in Counseling, Routledge, New York. Vedi
anche A.J. Cleveland (1995), “Therapy dogs and the dissociative patient: Preliminary
observations”, in Dissociation, 8(4), pp. 247-252; A. Fine (2010), Handbook on Animal Assisted
Therapy: Theoretical Foundations and Guidelines for Practice Academic Press, San Diego.
27. E. Warner, J. Koomar, B. Lary, A. Cook (2013), “Can the body change the score? Application
of sensory modulation principles in the treatment of traumatized adolescents in residential
settings”, in Journal of Family Violence, 28(7), pp. 729-738. Si veda anche A.J. Ayres (1972),
Sensory Integration and Learning Disorders, Western Psychological Services, Los Angeles; H.
Hogdon, K. Kinniburg, D. Gabowitz, M. Blaustein, J. Spinazzola (2013), “Development and
implementation of trauma-informed programming in residential schools using the ARC
framework”, in Journal of Family Violence, 27(8), pp. 679-692; J. Lebel, T. Champagne, N.
Stromberg, R. Coyle (2010), “Integrating sensory and trauma-informed interventions: A
Massachusetts State initiative, part 1”, in Mental Health Special Interest Section Quarterly, 33(1),
pp. 1-4.
28. Sembravano aver attivato il sistema vestibolo-cerebellare, implicato nell’autoregolazione, che
può essere danneggiato da un precoce neglect.
29. A.R. Lyon, K.S. Budd (2010), “A community mental health implementation of Parent-Child
Interaction Therapy (PCIT)”, in Journal of Child and Family Studies, 19(5), pp. 654-668. Vedi
anche A.J. Urquiza, C. Bodiford McNeil (1996), “Parent-Child Interaction Therapy: An intensive
dyadic intervention for physically abusive families”, in Child Maltreatment, 1(2), pp. 134-144;
Borrego Jr., “Research publications”, in Child and Family Behavior Therapy, 20, pp. 27-54.
30. B.A. van der Kolk, D. Dreyfuss, M. Micheals, D. Shera, R. Berkowitz, R. Fisler, G. Saxe (1994),
“Fluoxetine in Post-Traumatic Stress”, in Journal of Clinical Psychiatry, 55(12), pp. 517-522.
31. P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2010), Il trauma e il corpo. Manuale di terapia sensomotoria, tr. it.
Istituto di Scienze Cognitive, Sassari 2012. P. Ogden, J. Fisher (2015), Sensorimotor Psychotherapy:
Interventions for Trauma and Attachment, Norton, New York.
32. P.A. Levine (2010), In an Unspoken Voice, North Atlantic, Berkeley, CA; P.A. Levine (2002),
Traumi e shock emotivi, tr. it. Macro Edizioni, Cesena 2011.
33. Per saperne di più, consultare il sito: http://modelmugging.org/.
34. Termine largamente utilizzato nel linguaggio psicotraumatologico, che indica lo stato di
congelamento. [NdC]
35. S. Freud (1914), “Ricordare, ripetere e rielaborare”, in Nuovi consigli sulla tecnica della
psicoanalisi, in Opere, vol. 7, tr. it. Boringhieri, Torino 1975, p. 357.
36. E. Santini, R.U. Muller, G.J. Quirk (2001), “Consolidation of extinction learning involves
transfer from NMDA-independent to NMDA-dependent memory”, in Journal of Neuroscience, 21,
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37. E.B. Foa, M.J. Kozak (1986), “Emotional processing of fear: Exposure to corrective
information”, in Psychological Bulletin, 99(1), pp. 20-35.
38. C.R. Brewin (2005), “Implications for psychological intervention”, in J.J. Vasterling, C.R.
Brewin (a cura di), Neuropsychology of PTSD: Biological, Cognitive, and Clinical Perspectives.
Guilford, New York, p. 272.
39. T.M. Keane (1995), “The role of exposure therapy in the psychological treatment of PTSD”, in
National Center for PTSD Clinical Quarterly, 5(4), pp. 1-6.
40. E.B. Foa, R.J. McNally (1996), “Mechanisms of change in exposure therapy”, in R. Rapee (a
cura di), Current Controversies in the Anxiety Disorders, Guilford Press, New York, pp. 329-343.
41. J.D. Ford, P. Kidd (1998), “Early childhood trauma and disorders of extreme stress as
predictors of treatment outcome with chronic PTSD”, in Journal of Traumatic Stress, 18, pp. 743-
761. Vedi anche A. McDonagh-Coyle, M.J. Friedman, G.J. McHugo, L.H. Ford, A. Sengupta, K.T.
Mueser, C.C. Demment, D. Fournier, P.P. Scnhnurr, M. Descamps (2005), “Randomized trial of
cognitive-behavioral therapy for chronic Post-traumatic Stress Disorder in adult female survivors
of childhood sexual abuse”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 73(3), pp. 515-524;
Institute of Medicine of the National Academies (2008), Treatment of Post-traumatic Stress
Disorder: An Assessment of the Evidence, National Academies Press, Washington; R. Bradley, J.
Greene, E. Russ, L. Dutra, D. Westen (2005), “A multidimensional meta-analysis of psychotherapy
for PTSD”, in American Journal of Psychiatry, 162(2), pp. 214-227.
42. J. Bisson, N. Ehlers, R. Matthews, S. Pilling, D. Richards, S. Turner (2007), “Psychological
treatments for Chronic Post-traumatic Stress Disorder: Systematic review and meta-analysis”, in
British Journal of Psychiatry, 190, pp. 97-104. Vedi, inoltre, L.H. Jaycox, E.B. Foa, A.R. Morrall
(1998), “In uence of emotional engagement and habituation on exposure therapy for PTSD”, in
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 66, pp. 185-192.
43. “Dropout: esposizioni prolungate (n = 53 [38%]); terapia centrata sul presente (n = 30 [21%])
(P = 0,002). Il gruppo di controllo, inoltre, aveva un alto tasso di incidenti: due morti non per
suicidio, 9 ricoveri in psichiatria, 3 tentativi di suicidio. P.P. Scnhnurr, M.J. Friedman, C.C. Engel,
E.B. Foa, M.T. Shea, B.K. Chow, P.A. Resick, V. Thurston, S.M. Orsillo, R. Haug, C. Turner, N.
Bernardy (2007), “Cognitive behavioral therapy for Post-traumatic Stress Disorder in Women”, in
The Journal of American Medical Association, 297(8), pp. 820-830.
44. R. Bradley, J. Greene, E. Russ, L. Dutra, D. Westen (2005), “A multidimensional meta-analysis
of psychotherapy for PTSD”, in American Journal of Psychiatry, 162(2), pp. 214-227.
45. Mental Defeat: termine coniato da Anke Ehlers nel 1997 e indicante “la perdita di autonomia
percepita, unita a uno stato di rinuncia pervasiva e di sensazione di impotenza e mancanza di
possibilità”. Tale stato si è dimostrato essere predittivo di un disturbo da stress post-traumatico
cronico e di una scarsa risposta a terapie di tipo espositivo. [NdC]
46. J.H. Jaycox, E.B. Foa (1996), “Obstacles in implementing exposure therapy for PTSD: Case
discussions and practical solutions”, in Clinical Psychology and Psychotherapy, 3(3), pp. 176-184.
Vedi anche E.B. Foa, D. Hearst-Ikeda, K.J. Perry (1995), “Evaluation of a brief cognitive-
behavioral program for the prevention of chronic PTSD in recent assault victims”, in Journal of
Consulting and Clinical Psychology, 63, pp. 948-955.
47. Alexander McFarlane, comunicazione personale.
48. R.K. Pitman, B. Altman, E. Greenwald, R.E. Longpre, M.L. Maclin, R.E. Poirè, G.S. Steketee
(1991), “Psychiatric complications during ooding therapy for Post-traumatic Stress Disorder”, in
Journal of Clinical Psychiatry, 52(1), pp. 17-20.
49. J. Decety, K. Michalska, K. Kinzler (2007), “The contribution of emotion and cognition to
moral sensitivity: A neurodevelopmental study”, in Cerebral Cortex, 22(1), pp. 209-220; J. Decety,
C.D. Batson (2007), “Neuroscience approaches to interpersonal sensitivity”, in Social Neuroscience,
2, (3-4), pp. 151-157.
50. K.H. Seal, S. Maguen, B. Cohen, K.S. Gima, T.J. Metzler, L. Ren, D. Bertenthal, C.R. Marmar
(2010), “VA Mental Health Services utilization in Iraq and Afghanistan Veterans in the rst year of
receiving new mental health diagnoses”, in Journal of Traumatic Stress, 23, pp. 5-16.
51. L. Jerome (2007), “(+/-)-3,4-Methylenedioxymethamphetamine (MDMA, “Ecstasy”)
Investigator’s Brochure”, disponibile su
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52. J.H. Krystal, L.H. Price, C. Opshal, C.A. Ricaurte, G.R. Heninger (1992), “Chronic 3, 4-
methylenedioxymethamphetamine (MDMA) use: effects on mood and neuropsychological
function?”, in The American Journal of Drug and Alcohol Abuse, 18(3), pp. 331-341.
53. M.C. Mithoefer, M.T. Wagner, A. Mithoefer, I. Jerome, R. Doblin (2011), “The safety and
ef cacy of ± 3, 4-methylenedioxymethamphetamine-assisted psychotherapy in subjects with
chronic, treatment-resistant post-traumatic stress disorder: the rst randomized controlled pilot
study”, in Journal of Psychopharmacology, 25(4), pp. 439-452; M.C. Mithoefer, M.T. Wagner, A.
Mithoefer, L. Jerome, S. Martin, B. Yazar-Klosinski, Y. Michael, T. Brewerton, R. Doblin (2013),
“Durability of improvement in Post-traumatic Stress Disorder symptoms and absence of harmful
effects or drug dependency after 3, 4-methylenedioxymethamphetamine-assisted psychotherapy: A
prospective long-term follow-up study”, in Journal of Psychopharmacology, 27(1), pp. 28-39.
54. J.D. Bremner (1994), “Neurobiology of Post-traumatic Stress Disorder”, in R.S. Rynoos (a cura
di), Post-traumatic Stress Disorder: A Critical Review, Sidran Press, Lutherville, pp. 43-64.
55.  http://cdn.nextgov.com/nextgov/interstitial.html?v=2.1.1&rf=http%3A%2F%
2Fwww.nextgov.com%2Fhealth%2F2011%2F01%2Fmilitarys-drug-policy- threatens-troops-
health-doctors-say%2F48321%2F.
56. J.R.T. Davidson (1992), “Drug therapy of Post-traumatic Stress Disorder”, in British Journal of
Psychiatry, 160, pp. 309-314. Si veda, inoltre, R. Famularo, R. Kinscherff, T. Fenton (1988),
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Journal of Disorders of Childhood, 142, pp. 1244-1247; F.A. Fesler (1987), “Valproate in combat-
related Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Clinical Psychiatry, 52, pp. 361-364; B.H.
Herman, K. Hammock, A. Arthur-Smith, J. Egan, I. Chartoor, A. Werner, N. Zelnik (1987),
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der Kolk, D. Dreyfuss, M. Micheals, D. Shera, R. Berkowitz, R. Fisler, G. Saxe (1994), “Fluoxetine
in Post-Traumatic Stress”, in Journal of Clinical Psychiatry, 55(12), pp. 517-522.
57. B.A. van der Kolk, J. Spinazzola, M.E. Blaustein, J.W. Hopper, E.K. Hopper, D.L. Korn, W.B.
Simpson (2007), “A randomized clinical trial of Eye Movement Desensitization and Reprocessing
(EMDR), uoxetine, and pill placebo in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder:
Treatment effects and long-term maintenance”, in Journal of Clinical Psychiatry, 68(1), pp. 37-46.
58. R.A. Bryant, T. Sackville, S.T. Dang, M. Moulds, R. Gouthrie (1999), “Treating Acute Stress
Disorder: An evaluation of cognitive behavior therapy and supportive counseling techniques”, in
American Journal of Psychiatry, 156(11), pp. 1780-1786; N.P. Roberts, N. Kitchiner, J. Kenardy, J.
Bisson (2010), “Early psychological interventions to treat Acute Traumatic Stress Symptoms”, in
Cochran Database of Systematic Reviews, 3.
59. Ciò include il recettore alfa1 antagonista della prazosina, il recettore alfa2 antagonista della
clonidina e il recettore beta, antagonista del propranololo. Vedi anche M.J. Friedman, J.R.
Davidson (2007), “Pharmacotherapy for PTSD”, in M.J. Friedman, T.M. Keane, P. Resick (a cura
di), Handbook of PTSD: Science and Practice, Guilford Press, New York, p. 376.
60. M.A. Raskind, E.R. Peskind, D.J. Hoff, K.L Hart, H.A. Holmes, D. Warren, J. Shofer, J.
O’Connell, F. Taylor, C. Gross, K. Rohde, M.E. McFall (2007), “A parallel group placebo
controlled study of prazosin for trauma nightmares and sleep disturbance in combat veterans with
Post-Traumatic Stress Disorder”, in Biological Psychiatry, 61(8), pp. 928-934; F.B. Taylor, P. Martin,
C. Thompson, J. Williams, T.A. Melmann, C. Gross, E.R. Peskind., M.A. Raskind (2008),
“Prazosin effects on objective sleep measures and clinical symptoms in civilian trauma Post-
traumatic Stress Disorder: A placebo-controlled study”, in Biological Psychiatry, 63 (6), pp. 629-
632.
61. Litio, motrigina, carbamazepina, divalproex, gabapentin e topiramato possono aiutare a
controllare l’aggressività e l’irritabilità correlate al trauma. Il valproato si è dimostrato ef cace in
svariati casi di PTSD, come con pazienti militari e veterani con PTSD cronico. M.J. Friedman, J.
Davidson (1991), “Pharmacotherapy for PTSD”; F.A. Fesler (1991) “Valproate in combat-related
Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of Clinical Psychiatry, 52(9), pp. 361-364. Il seguente
studio ha dimostrato una riduzione percentuale del 37,4% dei sintomi di PTSD: S. Akuchekian, S.
Amanat (2004), “The comparison of topiramate and placebo in the treatment of Post-traumatic
Stress Disorder: A randomized, double-blind study”, in Journal of Research in Medical Sciences,
9(5), pp. 240-244.
62. G. Bartzokis, P.H. Lu, J. Turner, J. Mintz, C.S. Saunders (2005), “Adjunctive Risperidone in
the treatment of chronic combat-related Post-traumatic Stress Disorder”, in Biological Psychiatry,
57(5), pp. 474-479. Vedi, inoltre, D.B. Reich, S. Wintemitz, J. Hennen, T. Watts, C. Stanculescu
(2004), “A preliminary study of Risperidone in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder
related to childhood abuse in women”, in Journal of Clinical Psychiatry, 65(12), pp. 1601-1606.
63. Gli altri metodi comprendono interventi che, di solito, aiutano i pazienti traumatizzati a
dormire, come il trazodone, che è un antidepressivo, applicazioni di frequenze “binaural beat”
(letteralmente, “battiti binaurali”; per maggiori approfondimenti, si consulti il
sito, http://www.marcostefanelli.com/subliminale/brain.htm), apparecchiature luce/suono come il
Proteus (per saperne di più, si consulti, in italiano, il
sito  http://salute.11665.com/it/salute/201307/111680.html, oppure  www.brainmachines.com),
monitor HRV come Hearthmath (per approfondimenti si rimanda al sito
italiano:  http://www.ipermind.com/heartmath-gestire-le-emozioni/ o a quello
americano  http://www.heartmath.com/), e iRest, un intervento ef cace, basato sullo yoga
(http://www.irest.us/ o, in italiano,  http://www.cure-naturali.it/tecniche-yoga/972/yoga-
irest/3881/a). [NdC]
64. D. Wilson (2010), “Child’s ordeal shows risks of psychosis drugs for young”, in New York
Times, September 1. Disponibile sul
sito http://www.nytimes.com/2010/09/02/business/02kids.html?pagewanted=all&_r=0.
65. M. Olfson, C. Bianco, S.M. Liu, S. Wang, C.U. Correll (2012), “National trends in the of ce-
based treatment of children, adolescents, and adults with antipsychotics”, in Archives of General
Psychiatry, 69(12), pp. 1247-1256.
66. E. Harris, M. Sorbero, J. Kogan, J. Schuster, B.D. Stein (2012), “Perspectives on systems of
care: Concurrent mental health therapy among Medicaid-enrolled youths starting antipsychotic
medications”, in FOCUS, 10(3), pp. 401-407.
67. B.A. van der Kolk (1994), “The body keeps the score: Memory and the evolving psychobiology
of Post-traumatic Stress”, in Harvard Review of Psychiatry, 1(5), pp. 253-265.
68. B. Brewin (2012), “Mental illness is the leading cause of hospitalization for active-duty troops”.
Nextgov.com, May 17,  http://www.nextgov.com/health/2012/05/mental-illness-leading-cause-
hospitalization-active-duty-troops/55797/.
69. Spese farmacologiche psichiatriche, Department of Veterans
Affairs,  http://www.veterans.senate.gov/imo/media/doc/For%20the%20Record%20-
%20CCHR% 204.30.14.pdf.
14

La parola
Miracolo e tirannia

Date parole al vostro dolore; 


il dolore che non parla sussurra al cuore 
troppo gon o e lo invita a spezzarsi.
WILLIAM SHAKESPEARE, Macbeth1

A malapena possiamo sopportare di guardare. [Eppure] l’ombra potrebbe


condurre a ciò che di meglio nella vita non abbiamo ancora vissuto.
Guardate in cantina, in sof tta, nel bidone dei ri uti. Troverete l’oro.
Troverete un animale che non è stato sfamato o abbeverato. Troverete voi
stessi! Quell’animale trascurato, esiliato, affamato di attenzione, è una
parte di voi.
MARION WOODMAN (come citato da
Stephen Cope in The Great Work of Your Life)

Nel settembre 2001, diverse organizzazioni, tra cui il National Institute of


Health, la casa farmaceutica P zer e la New York Times Company
Foundation organizzarono gruppi di esperti che indicassero quali fossero i
migliori trattamenti per le persone traumatizzate, a seguito dagli attacchi
al World Trade Center. Poiché molti degli interventi utilizzati più
frequentemente per il trattamento del trauma non erano mai stati testati
accuratamente, secondo un campionamento random (al contrario di
quanto accadeva per chi chiedeva un aiuto psichiatrico), pensai che si
trattasse di una straordinaria opportunità per confrontare come
funzionasse quella varietà di approcci differenti. I miei colleghi furono più
cauti e, dopo lunghe discussioni, le commissioni raccomandarono solo
due forme di trattamento: la terapia a orientamento psicoanalitico e la
terapia cognitivo-comportamentale. Perché la terapia analitica? Dal
momento che Manhattan era uno degli ultimi baluardi della psicoanalisi
freudiana, quella di escludere una parte sostanziale di professionisti locali,
che si occupavano di salute mentale, non sarebbe stata una buona politica.
Perché la CBT? Dato che il trattamento comportamentale poteva essere
suddiviso in step concreti e poteva essere “manualizzato” in protocolli
standard, si rivelava il trattamento preferito dai ricercatori, un altro
gruppo di esperti che non poteva essere ignorato. Dopo che queste
indicazioni vennero approvate, aspettammo che i newyorchesi trovassero
la strada verso gli studi dei terapeuti: non si presentò quasi nessuno.
Il dottor Spencer Eth, che gestiva il reparto di psichiatria presso l’ormai
scomparso St. Vincent Hospital nel Greenwich Village, era curioso di
sapere a chi si fossero rivolti i sopravvissuti per ricevere aiuto e, all’inizio
del 2002, insieme ad alcuni studenti di medicina, intervistò 225 persone,
fuggite dalle Torri Gemelle, chiedendo loro cosa si fosse rivelato più utile
per superare gli effetti di quell’esperienza; le risposte furono, in
quest’ordine: agopuntura, massaggi, yoga e EMDR.2 Tra i soccorritori, la
risposta più frequente era: massaggi. Il sondaggio di Eth suggeriva che gli
interventi più utili erano quelli focalizzati sull’alleviare il carico sico
prodotto dal trauma. La discrepanza tra l’esperienza dei sopravvissuti e le
raccomandazioni degli esperti è interessante. Naturalmente, non
sappiamo quanti sopravvissuti, alla ne, avessero cercato terapie più
tradizionali. Ma l’apparente mancanza di interesse verso le terapie della
parola fa nascere una domanda di fondo: qual è il vantaggio di parlare del
proprio trauma?

La verità indicibile
I terapisti hanno una ducia scon nata nel potere della parola di risolvere
il trauma.Tale ducia risale al 1893, quando Freud (e il suo mentore,
Breuer) scrissero che il trauma “scompariva subito e in modo de nitivo
quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento
determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva
accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più
completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto” (corsivo
nell’originale).3
Purtroppo, non è così semplice: gli eventi traumatici sono quasi
impossibili da mettere in parole. Questo è vero per chiunque di noi, non
solo per le persone che soffrono di PTSD. I primi ricordi degli eventi
dell’11 settembre non erano storie, ma immagini: la gente che correva
frenetica per la strada, i loro volti coperti di cenere; un aereo che si
schiantava sulla Torre Uno del World Trade Center; macchie lontane,
ovvero persone che si lanciavano tenendosi per mano. Quelle immagini
venivano riprodotte più e più volte dalla nostra mente e sullo schermo
della televisione, no a quando il sindaco Giuliani e i media ci aiutarono a
creare una storia da poter condividere gli uni con gli altri.
In I sette pilastri della saggezza, T.E. Lawrence ha scritto delle sue
esperienze di guerra: “Avevamo imparato che c’erano tte troppo acute,
dolori troppo profondi, estasi troppo alte per poter essere accolte dai
nostri esseri niti. Quando le emozioni raggiungevano questi picchi, la
mente soffocava; e la memoria impallidiva nché le circostanze non
tornavano a essere normali”.4 Mentre il trauma ci lascia muti, il percorso
per superarlo è lastricato di parole, assemblate con cura, una dopo l’altra,
no a quando l’intera storia può essere rivelata.

Rompere il silenzio
Gli attivisti, nei primi tempi della campagna di sensibilizzazione
sull’AIDS, crearono un potente slogan: “Silenzio = Morte”. Anche il
silenzio sul trauma porta alla morte: la morte dell’anima. Il silenzio
rinforza l’isolamento maligno del trauma. Poter dire a gran voce a un altro
essere umano “Sono stata violentata” o “Sono stata picchiata da mio
marito” o “I miei genitori la chiamavano disciplina, ma era crudeltà” o
“Non lo facevo, no a quando non sono tornato dall’Iraq”, è un segnale
che la guarigione può avere inizio.
Siamo indotti a pensare che il silenzio ci permetta di controllare il
dolore, la paura o la vergogna, ma il “nominare”, il chiamare le cose con il
loro nome, offre la possibilità di esercitare un diverso tipo di controllo.
Quando Adamo fu messo a capo del regno animale, nel Libro della
Genesi, il suo primo atto fu quello di dare un nome a ogni creatura
vivente.
Se si è stati feriti, si ha il bisogno di riconoscere e nominare quello che ci
è successo. Lo so per esperienza personale: ho vissuto costantemente con
la paura del ri uto e dell’abbandono, nché non ho avuto un luogo in cui
concedermi di capire cosa signi casse essere rinchiuso all’età di tre anni
nella cantina di casa da mio padre, a causa di disobbedienze varie. Solo
quando sono riuscito a parlare di come si sentisse quel bambino, solo
quando ho potuto perdonarlo di essere stato così spaventato e sottomesso,
ho iniziato a godere del piacere della mia stessa compagnia. Sentirsi
ascoltati e compresi cambia la nostra siologia; essere in grado di
articolare un sentimento complesso e di riconoscersi nei nostri stessi
sentimenti, attiva il sistema limbico e crea un “momento aha”.5 Al
contrario, silenzio e incomprensione uccidono lo spirito. O, per usare le
parole di John Bowlby: “Quello di cui non siamo in grado di parlare alla
madre [gioco di parole nel testo, (m)other: alla madre e agli altri], non
siamo in grado di dirlo a noi stessi”.
Se ci si nasconde di essere stati molestati, da bambini, da uno zio, si
diventerà fortemente reattivi agli stimoli, come un animale durante un
temporale: si mobilita una risposta di tutto il corpo a causa degli ormoni
che segnalano “pericolo”. Senza un linguaggio e un contesto, la
consapevolezza si può limitare a: “sono spaventato”. Ancora, determinati
a mantenere il controllo, si sarà predisposti a evitare chiunque o qualsiasi
cosa ricordi, anche solo vagamente, il trauma. Si può anche passare, senza
saperne il perché, dall’inibizione e dalla tensione alla reattività e
all’esplosività.
Finché si mantengono segreti e si nascondono informazioni, si è,
fondamentalmente, in guerra con se stessi. Celare il nucleo dei sentimenti
richiede un’enorme quantità di energia, acca la motivazione a
raggiungere gli obiettivi importanti e fa sentire annoiati e spenti. Nel
frattempo, gli ormoni dello stress inondano il corpo e provocano mal di
testa, dolori muscolari, problemi intestinali o sessuali: comportamenti
irrazionali che possono metterci in imbarazzo e ferire le persone che ci
circondano. Solo dopo aver identi cato l’origine di queste risposte, si
possono iniziare a considerare i sentimenti come segnali di un problema
che richiede urgentemente la nostra attenzione.
Ignorare la realtà interiore, inoltre, deteriora il senso di sé, l’identità e le
intenzioni. La psicologa clinica Edna Foa e i suoi colleghi costruirono il
Post-Traumatic Cognitions Inventory per valutare ciò che i pazienti
pensano di se stessi.6 I sintomi di PTSD includono, spesso, affermazioni
come “Mi sento morto dentro”, “Non sarò più in grado di sentire
emozioni normali”, “Sono danneggiato per sempre”, “Mi sento come un
oggetto, non come una persona”, “Non ho futuro” e “Mi sento come se
non conoscessi più me stesso”.
Il punto fondamentale è permettere a se stessi di sapere ciò che si sa.
Questo richiede un’enorme quantità di coraggio. In What it is Like go to
War, il veterano del Vietnam Karl Marlantes è alle prese con i suoi ricordi
legati all’appartenenza a un’unità di combattimento dei marines,
particolarmente preparata, e si confronta con la sua dolorosa scissione
interna:
Per anni sono stato inconsapevole della necessità di sanare quella divisione e non c’era
nessuno, al mio ritorno, a farmelo notare… Perché dovevo supporre che ci fosse solo una
persona dentro di me?… C’è una parte di me che ama solo le mutilazioni, le uccisioni e le
torture. Questa parte di me non è la mia interezza. Ho altri elementi che sono esattamente
l’opposto, dei quali sono orgoglioso. Quindi, sono un assassino? No, ma una parte di me lo è.
Sono un torturatore? No, ma una parte di me lo è. Sento orrore e tristezza quando leggo sui
giornali di un bambino abusato? Sì. Ma ne sono anche affascinato?7

Marlantes ci dice che, per intraprendere la strada della guarigione, deve


necessariamente imparare a dire la verità, anche se fortemente penosa.
Morte, distruzione e dolore hanno bisogno di essere costantemente
giusti cate in mancanza di un qualche senso illusorio da attribuire alla
sofferenza. L’assenza di tale signi cato ingannevole incoraggia a far le cose
mentendo, così da riempire il vuoto di senso.8
Non sono mai stato in grado di dire a nessuno quello che mi stava succedendo dentro. Così ho
ri utato queste immagini, per anni. Ho cominciato a reintegrare quella parte scissa della mia
esperienza solo dopo aver effettivamente iniziato a immaginare quel bambino come un
bambino, il mio bambino forse. In seguito, è emersa questa opprimente tristezza – e la
guarigione. Integrare i sentimenti di tristezza, di rabbia, o di tutto ciò che si è detto, con
l’azione, dovrebbe essere la procedura operativa standard per tutti i soldati che hanno ucciso
qualcuno, guardandolo negli occhi. Non richiede una formazione psicologica so sticata, solo
la formazione di gruppi condotti da un commilitone o da un membro di un plotone che ha in
curriculum qualche giorno di comando e che incoraggi le persone a parlare.9
Riconoscere il terrore e condividerlo con gli altri può ristabilire la
sensazione di essere un membro della razza umana. Dopo il Vietnam, i
veterani che ho avuto in cura trovarono giovamento nella terapia di
gruppo: potendo condividere le atrocità che avevano visto e commesso,
cominciarono, a loro dire, ad aprire il proprio cuore alle loro danzate.
Il miracolo della scoperta di sé
Scoprire il proprio Sé nelle parole è sempre una rivelazione, anche se
trovare le parole per descrivere la realtà interiore può essere un processo
straziante. È per questo che trovo così stimolante il racconto di Helen
Keller relativo alla sua “nascita nel linguaggio”.10
Helen, a diciannove mesi, nel periodo in cui aveva iniziato a pronunciare
le prime parole, fu affetta da un’infezione virale che la privò della vista e
dell’udito. Sorda, cieca e muta, da bambina bella e vivace qual era, si
trasformò in una creatura selvaggia e isolata. Dopo cinque anni di
disperazione, la sua famiglia invitò un’insegnante parzialmente cieca,
Anne Sullivan, a raggiungerli, dalla sua casa di Boston, nelle zone rurali
dell’Alabama, dove abitavano, in qualità di istitutrice di Helen. Anne
iniziò immediatamente a insegnare a Helen un linguaggio dei segni
manuale, compitando le parole sulla sua mano, lettera per lettera: ci
vollero dieci settimane di tentativi di connessione con questa bambina
selvaggia prima di arrivare a una svolta. Anne digitò la parola “acqua” in
una delle mani di Helen, tenendo l’altra sotto la pompa dell’acqua.
Helen, in seguito, descrisse quel momento in La storia della mia vita:
“Acqua! La parola viva, risvegliò la mia anima, dandole luce, speranza,
gioia, la rese libera! C’erano ancora degli ostacoli, è vero, ma ostacoli che,
con il tempo, potevano essere superati. Andai via dal pozzo desiderosa di
imparare. Ogni cosa aveva un nome e ogni nome dava vita a un nuovo
pensiero… Imparai moltissime parole nuove quel giorno”.
Imparare i nomi delle cose permise alla bambina non solo di creare una
rappresentazione interna di ciò che era sicamente invisibile e
impercettibile attorno a lei, ma anche di trovare se stessa: sei mesi più
tardi iniziò a usare la prima persona “io”. La storia di Helen mi ricorda
quei bambini abusati, recalcitranti e poco comunicativi che si incontrano
nei programmi di trattamento residenziale. Prima di acquisire l’uso del
linguaggio, era disorientata e autocentrata e, in passato, chiamava quella
creatura “fantasma”. E, in effetti, i nostri bambini danno l’impressione di
essere dei fantasmi no a quando non scoprono chi sono e non si sentono
abbastanza sicuri per comunicare ciò che sta succedendo loro.
In un libro successivo, Il mondo in cui vivo, Keller descrisse nuovamente
la nascita del suo senso di sé: “Prima di incontrare la mia insegnante, non
sapevo chi fossi. Vivevo in un mondo che era un non mondo… Non avevo
né volontà, né intelletto… Posso ricordare tutto questo, non perché
sapevo che fosse così, ma perché ne ho memoria tattile. Questo mi
permette di ricordare che non ho mai contratto la mia fronte nell’atto di
pensare”.11
I ricordi “tattili” di Helen – le memorie basate solo sul tatto – non
potevano essere condivise. Ma il linguaggio le diede la possibilità di
entrare nella comunità. All’età di otto anni, quando si recò con Anne
all’Istituto Perkins per i non vedenti di Boston (dove Sullivan si era
formata), Helen riuscì, per la prima volta, a comunicare con altri bambini:
“Oh, che felicità”, scrisse. “Parlare liberamente con gli altri bambini!
Sentirsi a casa nel grande mondo!”.
La scoperta del linguaggio da parte di Helen, grazie all’aiuto di Anne
Sullivan, cattura l’essenza della relazione terapeutica: trovare le parole
dove le parole prima non c’erano e, quindi, poter condividere il dolore e i
sentimenti più profondi con un altro essere umano: una delle esperienze
più profonde che ci può capitare di fare. Questa risonanza, in cui parole
n a poco a prima inespresse si possono ora scoprire, pronunciare,
ricevere, è essenziale per interrompere l’isolamento del trauma,
soprattutto se altre persone, nella nostra vita, ci hanno ignorato o ridotto
al silenzio. Comunicare appieno è il contrario dell’essere traumatizzati.

Conoscere se stessi o raccontare la nostra storia?


Il sistema della doppia consapevolezza
Chiunque inizi una psicoterapia basata sulla parola, comunque, si
confronta quasi subito con i limiti della parola stessa. È stato così anche
per la mia analisi personale: se, da un lato, riuscivo a parlare facilmente,
raccontando storie interessanti, dall’altro capivo, con altrettanta
immediatezza, quanto fosse dif cile percepire, nel profondo, i miei vissuti
e comunicarli, al contempo, a qualcun altro.
Entrando in contatto con i momenti più intimi, dolorosi e confusi della
mia vita, mi trovavo, spesso, di fronte a una scelta: potevo concentrarmi
sul rivivere vecchie scene con gli occhi della mia mente e permettermi di
sentire ciò che avevo provato allora, o potevo dire al mio analista, in modo
logico e coerente, ciò che era accaduto. Nell’imboccare questa seconda
strada, perdevo immediatamente il contatto con me stesso e iniziavo a
concentrarmi sulla sua opinione rispetto al mio racconto. Il minimo
accenno di dubbio o giudizio poteva scoraggiarmi e far sì che mi
impegnassi a riguadagnare la sua approvazione.
Da allora, la ricerca neuroscienti ca ha dimostrato l’esistenza di due
forme distinte di autoconsapevolezza: quella che tiene traccia del sé nel
tempo e quella che coglie il sé nel momento presente. Il primo, il nostro sé
autobiogra co, crea collegamenti tra le esperienze e le integra, tramite il
linguaggio, in una storia coerente. Le nostre narrazioni cambiano con i
racconti, così come mutano la nostra prospettiva e il modo in cui
incorporiamo nuove informazioni.
L’altro sistema, la consapevolezza di sé momento per momento, si basa
principalmente sulle sensazioni siche e, se ci sentiamo sicuri di non
esserne travolti, possiamo trovare le parole per comunicare anche
quell’esperienza. Questi due sistemi di conoscenza sono localizzati in
diverse parti del cervello, sostanzialmente scollegate l’una dall’altra.12 Solo
il sistema dedicato alla consapevolezza di sé, che si trova nella corteccia
prefrontale mediale, può cambiare il cervello emotivo.
Nei gruppi terapeutici con i veterani di guerra riuscivo, talvolta, a vedere
questi due sistemi parallelamente in azione. I soldati raccontavano storie
orribili di morte e distruzione, ma notavo che, spesso, il loro corpo,
contestualmente al racconto, trasmetteva un senso di orgoglio e di
appartenenza. Allo stesso modo, molti pazienti mi raccontavano delle
famiglie felici in cui erano cresciuti, mentre il loro corpo si accasciava e il
tono di voce si faceva teso e ansioso. Un sistema crea una storia a uso del
pubblico e, raccontandola più e più volte, niamo probabilmente per
credere che sia questa la storia vera. L’altro sistema, però, registra una
verità differente, che ha a che fare con il modo in cui viviamo la situazione
nel profondo: è a questo sistema che dobbiamo accedere, facendocelo
amico e riconciliandoci con esso.
Proprio di recente, nella mia clinica universitaria, un gruppo di
psichiatri interni e io intervistammo una giovane donna con epilessia del
lobo temporale, che doveva essere valutata a seguito di un tentativo di
suicidio. I medici le rivolsero delle domande di routine sui suoi sintomi,
sui farmaci che stava prendendo, su quanti anni avesse quando le fu
diagnosticata l’epilessia e su cosa l’avesse spinta a cercare di suicidarsi.
Rispose, in modo stereotipato e piatto, che l’epilessia le era stata
diagnosticata all’età di cinque anni; che aveva perso il lavoro; che sapeva
di aver fatto nta di suicidarsi; che si sentiva inutile. Per qualche strano
motivo, uno dei medici le chiese se fosse stata abusata sessualmente.
Questa domanda mi sorprese: non ci aveva fornito alcuna indicazione in
merito a problemi con l’intimità o la sessualità e mi chiedevo se, per caso,
il medico non stesse seguendo uno schema personale.
Eppure, la storia che la nostra paziente ci raccontava non rendeva
ragione del suo crollo dopo la perdita del lavoro. Così le domandai come
avesse vissuto, da bambina, l’apprendere di avere qualcosa che non va nel
cervello. Questa domanda la costrinse a confrontarsi con se stessa, non
avendo a disposizione una risposta preconfezionata per un simile quesito.
Il tono della sua voce si fece sommesso e ci disse che la conseguenza
peggiore di quella diagnosi era stata l’allontanamento del padre, che non
volle più avere a che fare con lei: “Mi vedeva solo come una bambina
difettosa”. Ci riferì, inoltre, di non aver ricevuto il sostegno di nessuno,
dovendosela cavare, di fatto, da sola.
A quel punto, le chiesi cosa provasse adesso per quella bambina, lasciata
da sola con una diagnosi di epilessia. Invece di sciogliersi in lacrime per la
sua solitudine o arrabbiarsi per la mancanza di supporto, rispose con
erezza: “Era stupida, piagnucolosa e dipendente. Avrebbe dovuto
prendere in mano la situazione e farsene una ragione”. Questo sfogo,
ovviamente, proveniva dalla parte di lei che aveva coraggiosamente
provato a combattere con le sue sofferenze, e compresi che tutto ciò,
probabilmente, l’aveva aiutata a sopravvivere. La invitai a permettere alla
bambina spaventata e abbandonata di dirle com’era stato stare da sola con
la sua malattia, aggravata dalla reazione della sua famiglia. Cominciò a
singhiozzare, restando poi in silenzio per un lunghissimo frangente, no a
quando disse: “No, non si meritava questo. Avrebbe dovuto essere
sostenuta; qualcuno avrebbe dovuto prendersi cura di lei”. Un attimo
dopo, ci fu un ulteriore cambiamento e, con fare orgoglioso, mi comunicò
il suo compiacimento per i numerosi risultati raggiunti, nonostante la
mancanza di supporto: era avvenuto l’incontro tra il racconto pubblico e
l’esperienza interna.
Il corpo come ponte
Il racconto del trauma riduce l’isolamento e ci spiega perché le persone
subiscono il proprio modo di fare. Consente ai medici di fare diagnosi, in
modo da poter trattare problemi come insonnia, rabbia, incubi,
ottundimento. I racconti possono anche fornire alle persone un capro
espiatorio. Incolpare è un tratto umano universale, che aiuta le persone a
sentirsi meglio se stanno male; o, come diceva il mio vecchio professore,
Elvin Semrad: “L’odio fa girare il mondo”. Ma le storie possono anche
oscurare una questione più importante, vale a dire, che il trauma cambia
radicalmente e che, in realtà, dopo, non si è più “se stessi.”
È terribilmente dif cile mettere in parole questa sensazione di non
essere più se stessi. Il linguaggio si è evoluto, principalmente, per
condividere “le cose là fuori”, non per comunicare i nostri sentimenti
profondi, la nostra interiorità (d’altronde, il centro del linguaggio nel
cervello si trova nell’area più lontana possibile dal centro di percezione
del proprio sé). La maggior parte di noi procede a descrizioni molto più
accurate delle altre persone di quanto non si riesca a fare con se stessi.
Una volta, mi capitò di sentir dire a Jerome Kagan, psicologo di Harvard:
“Il compito di descrivere le esperienze più private può essere paragonato
al calarsi in un pozzo a raccogliere piccolissime schegge di cristallo,
indossando spessissimi guanti da pugile in pelle”.13
È possibile superare la precarietà delle parole ingaggiando il sistema di
auto-osservazione basato sul corpo, che si esprime mediante sensazioni,
toni di voce e tensioni siche. La percezione delle sensazioni viscerali è
fondamentale per la consapevolezza emotiva.14 Se un paziente mi riferisce
che, quando aveva otto anni, il padre ha abbandonato la famiglia, posso
probabilmente interrompere la narrazione e chiedergli di veri care dentro
di sé l’effetto di quanto mi sta riportando, con domande come: cosa
succede dentro di te quando mi racconti di quel bambino che non ha più
visto suo padre? Dove senti questa sensazione nel corpo? Quando si
attivano le sensazioni viscerali e si ascolta il nostro cuore spezzato –
quando, cioè, si seguono i percorsi interocettivi dei nostri recessi più
profondi – le cose cominciano a cambiare.

Scrivere a se stessi
Ci sono altri modi per accedere al mondo interno dei sentimenti. Uno dei
più ef caci è attraverso la scrittura. Molti di noi sfogano le loro pene
d’amore con lettere arrabbiate, accusatorie, lamentose o tristi, dopo essere
stati traditi o abbandonati dalle persone amate. Ci si sente quasi sempre
meglio dopo, anche se, forse, quelle lettere non verranno mai spedite.
Quando si scrive a se stessi non ci si deve preoccupare del giudizio di altre
persone, basta ascoltare i propri pensieri e lasciare che il loro usso faccia
il suo corso. In un secondo momento, rileggendole, si possono scoprire
verità sconvolgenti.
In quanto membri attivi di una società, siamo chiamati a essere “ ghi”
nelle nostre interazioni giornaliere, magari subordinando i nostri
sentimenti ai compiti che ci siamo assunti. Se parliamo con qualcuno che
non ci fa sentire completamente al sicuro, il nostro revisore sociale va in
allerta, con un conseguente aumento della dif denza. Scrivere è diverso.
Se chiediamo al nostro revisore di lasciarci in pace per un momento,
possono af orare elementi che non pensavamo nemmeno esistessero.
Siamo liberi di entrare in una sorta di trance in cui la penna (o la tastiera)
sembra dirigere tutto ciò che sgorga dall’interno. È possibile collegare
quelle auto-osservazioni e quelle parti narrative del cervello, senza
preoccuparsi di ottenere l’approvazione altrui.
Nella pratica chiamata “di scrittura libera”, è possibile utilizzare
qualsiasi oggetto come un personale test di Rorschach, per avviare un
usso di associazioni libere. Basta guardare un oggetto di fronte a noi e
poi scrivere qualsiasi cosa ci venga in mente, procedendo senza
interruzioni, riletture o cancellature. Un cucchiaio di legno sul bancone
può dare avvio a ricordi piacevoli, come aver fatto la salsa di pomodoro
con la nonna, o spiacevoli, come l’essere stati picchiati da bambini. La
teiera, tramandata di generazione in generazione, può condurre,
attraverso i meandri della mente, ai nostri cari che non ci sono più o alle
vacanze in famiglia, teatro di amore e litigi. Magari emerge, per prima,
un’immagine, poi un ricordo e, in ne, si scriverà un paragrafo che illustra
il tutto. Qualunque cosa appaia sulla carta, sarà la manifestazione di
associazioni che sono solo ed esclusivamente nostre.
I miei pazienti, spesso, traducono in frammenti di scrittura e disegni le
memorie di cui non sono ancora pronti a parlare. Leggendone il
contenuto ad alta voce, potrebbero, probabilmente, esserne sopraffatti,
ma vogliono che io sia a conoscenza della loro lotta interna. Comunico
loro quanto apprezzi il coraggio con cui si concedono di esplorare parti
nora celate e di af darmele. Queste comunicazioni preliminari orientano
il mio piano terapeutico, aiutandomi a decidere, per esempio, se af ancare
al lavoro in corso tecniche di elaborazione somatica, il neurofeedback o
l’EMDR.
Per quanto ne sappia, la prima analisi sistematica sul potere del
linguaggio di alleviare il trauma risale al 1986, quando James Pennebaker,
dell’Università del Texas a Austin, decise di svolgere il corso introduttivo
di psicologia in un laboratorio sperimentale. Pennebaker cominciò a
parlare con molto rispetto della riservatezza, del tenere le cose per sé, cose
che considerava il collante della civiltà.15 Ma era anche convinto del fatto
che le persone pagassero un prezzo piuttosto alto, cercando di negare
l’evidenza.
Iniziò chiedendo a ciascuno studente di pensare a un’esperienza
strettamente personale, che riteneva molto stressante o traumatica. Divise
poi la classe in tre gruppi: al primo era stato chiesto di scrivere ciò che
accadeva, in quel momento, nella vita; al secondo, di illustrare i dettagli
dell’evento traumatico o stressante, e al terzo di raccontare i fatti
dell’esperienza, i sentimenti e le emozioni a essa connessi, nonché
l’impatto che ritenevano avesse avuto sulla loro vita. Tutti gli studenti
scrissero ininterrottamente, quindici minuti al giorno, per quattro giorni
consecutivi, seduti da soli, in una piccola stanza del dipartimento di
psicologia.
Gli studenti presero lo studio molto seriamente, molti di loro rivelando
segreti di cui non avevano mai parlato con nessuno e commuovendosi
spesso, durante la scrittura dei loro racconti. Alcuni con darono agli
assistenti di essere preoccupati di queste esperienze. Dei duecento
partecipanti, sessantacinque scrissero di un trauma infantile. Sebbene la
morte di un membro della famiglia fosse l’argomento più frequente, il
22% delle donne e il 10% degli uomini riferirono di un trauma sessuale,
avvenuto prima dei diciassette anni.
I ricercatori chiesero agli studenti della loro salute e furono sorpresi di
come, spesso, segnalassero spontaneamente storie di problemi sici, più o
meno gravi: cancro, ipertensione, ulcere, in uenza, mal di testa e otiti.16
Coloro che riportarono un abuso sessuale infantile avevano subito almeno
un’ospedalizzazione durante l’anno precedente. Quelli che riportarono
un’esperienza traumatica sessuale nell’infanzia erano stati ricoverati in
ospedale, nell’anno precedente, per una media di 1,7 giorni: quasi il
doppio degli altri.
I ricercatori, quindi, confrontarono il numero di visite richieste
all’ambulatorio medico dai partecipanti durante il mese precedente allo
studio con quello del mese successivo. Il gruppo, che aveva scritto di fatti
ed emozioni legati al trauma, aveva bene ciato maggiormente del lavoro,
con una riduzione del 50% di visite mediche rispetto agli altri due gruppi.
Scrivere in merito ai pensieri e ai sentimenti più profondi relativi al
trauma aveva migliorato il loro umore e portato a un atteggiamento più
ottimista e a una migliore salute sica.
Agli studenti venne poi chiesto di esprimere un giudizio sulla ricerca a
cui avevano partecipato e la loro attenzione si rivolse al modo in cui il
lavoro aveva aumentato la loro comprensione di sé: “Mi ha consentito di
pensare a ciò che ho provato allora. Non avevo mai realizzato quale
portata quei fatti potessero avere avuto su di me”. “Ho dovuto pensare e
risolvere esperienze passate, cosa che mi ha permesso di trovare una sorta
di pace mentale. Dover scrivere di emozioni e sentimenti mi ha aiutato a
capire come mi sentivo e perché”.17
In uno studio successivo, Pennebaker domandò a metà di un gruppo di
settantadue studenti di parlare, registrandola, dell’esperienza più
traumatica della loro vita; l’altra metà discusse dei piani relativi al resto
della giornata. Durante le audioregistrazioni, i ricercatori monitoravano la
reazione siologica degli studenti: la pressione sanguigna, la frequenza
cardiaca, la tensione muscolare e la temperatura della mano.18 I risultati
furono simili: coloro che si lasciarono andare ad ascoltare le proprie
emozioni mostrarono cambiamenti siologici importanti, sia immediati sia
a lungo termine. Pressione arteriosa, frequenza cardiaca e altre funzioni
autonomiche aumentavano durante la registrazione del racconto, per
diminuire sostanzialmente rispetto all’inizio dello studio. Il calo della
pressione sanguigna si poteva rilevare anche a sei settimane dalla
conclusione dell’esperimento.
È ormai ampiamente riconosciuto che le esperienze stressanti – come il
divorzio, gli esami scolastici o la solitudine – abbiano un effetto negativo
sulla funzione immunitaria, ma, al momento dello studio di Pennebaker,
questa era un’idea piuttosto controversa. Basandosi su questi protocolli,
un team di ricercatori dell’Ohio State University College of Medicine mise
a confronto due gruppi di studenti che scrissero o di un trauma personale
o di un problema di poco conto.19 Anche in questo caso, coloro che
descrissero traumi personali ebbero meno bisogno di richiedere una visita
medica, mostrando un miglioramento della salute, in termini di
funzionamento del sistema immunitario, come confermato dall’azione dei
linfociti T (cellule denominate natural killer) e di altri marcatori
immunitari nel sangue. Questo effetto, più evidente immediatamente
dopo la ne dell’esperimento, poteva essere rilevato anche sei settimane
più tardi. Gli esperimenti di scrittura fatti in tutto il mondo con studenti
della scuola elementare, ospiti di case di cura, studenti di medicina,
detenuti in carceri di massima sicurezza, persone affette da artrite,
neomamme e vittime di stupro continuano a dimostrare che scrivere di
eventi sconvolgenti migliora la salute mentale e quella sica.
Un altro aspetto degli studi di Pennebaker catturò la mia attenzione:
quando i suoi soggetti parlavano di questioni intime o dif cili,
cambiavano, spesso, il tono di voce e lo stile linguistico. Le differenze
erano così sorprendenti che Pennebaker si chiese se avesse confuso le
registrazioni. Per esempio, una donna descrisse i suoi programmi per la
giornata con una voce infantile e stridula, ma pochi minuti dopo, quando
parlò di un furto di un centinaio di dollari da un registratore di cassa
aperto, sia il volume sia il tono della voce si fecero molto più bassi, tanto
da farla sembrare una persona completamente diversa. Cambiamenti negli
stati emotivi erano visibili anche negli scritti dei soggetti. Quando i
partecipanti cambiavano argomento, potevano passare dal corsivo al
maiuscolo e di nuovo al corsivo; c’erano anche variazioni di inclinazione
delle lettere e di pressione della penna.
Tali cambiamenti sono chiamati “passaggi di stato” nella pratica clinica,
e si osservano spesso in individui con storie di traumi. I pazienti,
muovendosi da un argomento all’altro, attivano stati emotivi e siologici
nettamente diversi. Il passaggio di stato non si palesa solo in un pattern
vocale completamente diverso, ma anche in espressioni facciali e
movimenti del corpo. Alcuni pazienti mostrano una chiara trasformazione
dell’identità personale: da timida a forte e aggressiva o da ansiosamente
compiacente a decisamente seduttiva. Quando scrivono delle loro paure
più profonde, la loro scrittura diventa spesso più infantile e primitiva.
Trattare come dei bugiardi i pazienti che presentano una tale
mutevolezza degli stati del sé o, magari, intimare loro di smettere di
mostrare quelle parti imprevedibili e fastidiose, può farli precipitare,
probabilmente, nel mutismo. Magari non desisteranno dal chiedere aiuto,
ma, all’ennesima disconferma, trasformeranno il loro grido di aiuto in
azioni concrete: tentativi di suicidio, depressione e attacchi di rabbia.
Come vedremo nel capitolo 17, tali pazienti miglioreranno solo se
entrambi, paziente e terapeuta, apprezzeranno il ruolo che questi diversi
stati hanno giocato nella loro sopravvivenza.
Arte, musica e danza
Ci sono migliaia di terapeuti che fanno un lavoro splendido usando l’arte,
la musica, la danza con i bambini abusati, i soldati che soffrono di PTSD,
le vittime di incesto, i rifugiati, le vittime di tortura; numerosi resoconti
attestano l’ef cacia delle terapie espressive.20 Tuttavia, a oggi, si sa molto
poco su come funzionino e per quali aspetti dello stress traumatico
possano considerarsi elettive: potrebbe rappresentare un’importante s da
logistica e nanziaria fare delle ricerche necessarie a stabilirne il valore
scienti co.
La capacità che l’arte, la musica e la danza hanno di sciogliere il
mutismo che si accompagna al terrore può spiegare perché queste
discipline siano utilizzate nel trattamento del trauma nelle culture di tutto
il mondo. Uno dei pochi studi sistematici per confrontare l’espressione
artistica non verbale e la scrittura è stato fatto da James Pennebaker e
Anne Krantz, una terapeuta di San Francisco, specializzata in danza e
movimento.21 A un terzo di un gruppo di sessantaquattro studenti venne
chiesto di esprimere un’esperienza traumatica personale attraverso
movimenti del corpo, per almeno dieci minuti al giorno per tre giorni
consecutivi, mettendola poi per iscritto per altri dieci minuti. Un secondo
gruppo ballava, ma non scriveva del trauma, e una terza parte era
coinvolta in un programma di esercizi di routine. Nel corso dei tre mesi
seguenti, i membri di tutti i gruppi riferirono di sentirsi meglio e di essere
più felici. Tuttavia, solo il gruppo di movimento espressivo, che aveva
anche scritto dell’episodio traumatico, ne mostrava un’evidenza oggettiva:
una migliore salute sica e una migliore media nei voti scolastici (lo studio
non valutava sintomi speci ci di PTSD). Pennebaker e Krantz trassero
questa conclusione: “Esprimere semplicemente il trauma non è
suf ciente. Per parlare di salute, è necessario mettere le esperienze in
parole”.
Tuttavia, non sappiamo ancora se questa conclusione, ossia che il
linguaggio sia essenziale alla guarigione, sia sempre vera. Gli studi sulla
scrittura, che si sono concentrati sui sintomi di PTSD (al contrario di
quelli legati alla salute generale), sono stati deludenti. Pennebaker mi
avvertì circa il fatto che la maggior parte delle ricerche sulla scrittura,
condotte su pazienti con PTSD, prevedesse situazioni di gruppo, in cui ci
si aspettava di dover condividere le proprie storie. E, inoltre, ribadì
quanto ho descritto in precedenza: lo scopo dello scrivere è scrivere a se
stessi, per far sì che il nostro sé sappia cosa si sta cercando di evitare.

I limiti del linguaggio


Il trauma travolge chi ascolta, tanto quanto chi ne parla. In The Great War
in Modern Memory, il suo autorevole studio della Prima guerra mondiale,
Paul Fussell descrive in modo puntuale quella zona di silenzio creata dal
trauma:
Uno dei fondamenti della guerra… è la collisione tra gli eventi e il linguaggio appropriato – o
ritenuto tale – per descriverli…
Logicamente, non vi è alcun motivo per cui la lingua inglese non possa rendere
perfettamente la realtà di… una guerra: è un linguaggio ricco di termini come sangue, terrore,
angoscia, follia, merda, crudeltà, omicidio, tradimento, dolore e inganno, così come di frasi del
tipo gambe spezzate, avere le budella di fuori, gridare tutta la notte, sanguinare a morte dal retto,
e simili… Non si tratta propriamente di un problema di “linguaggio”, quanto più di gentilezza
e ottimismo… La vera ragione [per la quale i soldati tacciono] è che essi stessi hanno scoperto
che nessuno è così interessato alle cattive notizie che devono riferire. Come può l’ascoltatore
voler essere straziato e scosso quando non è costretto a esserlo? Abbiamo fatto sì che
l’indicibile divenisse indescrivibile: questo sì che è abominevole.22

Parlare di eventi dolorosi non signi ca, necessariamente, stabilire un


senso di comunanza; spesso accade il contrario. Le famiglie e le
organizzazioni possono respingere soci che esibiscono i “panni sporchi”;
amici e parenti possono perdere la pazienza con le persone che restano
bloccate nel loro dolore o nella loro sofferenza. Questo è uno dei motivi
per cui le vittime di traumi spesso si ritirano in se stesse e le loro storie
diventano narrazioni ripetute meccanicamente, in una forma che abbia
meno probabilità di provocare un ri uto.
Trovare luoghi sicuri, che consentano di esprimere il dolore di un
trauma, è una s da enorme ed è il motivo per cui gruppi come gli Alcolisti
anonimi, i Figli adulti di alcolisti, i Tossicodipendenti anonimi e altri
gruppi di sostegno possono essere così importanti. Trovare una comunità
sensibile, in cui raccontare le nostre verità, rende la guarigione possibile.
Questo è anche il motivo per cui i sopravvissuti hanno bisogno di
terapeuti professionisti, preparati ad ascoltare i dettagli strazianti della
loro esperienza. Ricordo la prima volta che un veterano mi parlò
dell’uccisione di un bambino in Vietnam. Ebbi un ashback vivido di
quando avevo circa sette anni e mio padre mi disse che un bambino,
vicino di casa, era stato picchiato a morte dai soldati nazisti, di fronte a
casa nostra, per aver mostrato mancanza di rispetto. La portata della mia
reazione alla confessione del veterano era insopportabile e mi toccò
sospendere la seduta. È per questo che i terapeuti hanno bisogno di
seguire essi stessi una terapia intensiva, in modo da prendersi cura di se
stessi ed essere emotivamente disponibili per i loro pazienti, anche
quando le storie di questi ultimi suscitano sentimenti di rabbia o di
repulsione.
Un problema diverso sorge quando le vittime di traumi rimangono
letteralmente senza parole – quando l’area del cervello che presiede al
linguaggio si spegne.23 Ho avuto modo di vedere questo blocco nelle aule
di tribunale, in molti casi di immigrazione e anche in una azione intentata
contro l’autore di un massacro in Ruanda. Quando chiesi di testimoniare
le loro esperienze, le vittime, spesso, erano così sopraffatte da riuscire a
stento a parlare, cadendo in preda a un panico tale, da non poter
articolare chiaramente le parole per dire cosa fosse successo. La
testimonianza, spesso, veniva respinta in quanto troppo caotica, confusa e
frammentata per essere credibile.
Altri cercano di raccontare la loro storia in modo da evitare di esserne
sollecitati. Questo può farli sembrare testimoni evasivi e inaf dabili. Ho
visto decine di azioni legali respinte perché i richiedenti asilo non erano in
grado di fornire resoconti coerenti delle ragioni che li avevano spinti a
fuggire. Ho conosciuto anche numerosi veterani le cui richieste furono
negate dalla Veterans Administration, perché non erano in grado di dire
esattamente ciò che era accaduto loro.
Confusione e mutismo costituiscono una prassi negli studi di terapia:
ovviamente ci si aspetta che i nostri pazienti diventino sopraffatti se li si
tiene sotto pressione per ottenere i dettagli della loro storia. Per questo
motivo, abbiamo imparato ad applicare la “tecnica del pendolo” nel
nostro approccio al trauma, per usare un termine coniato dal mio amico
Peter Levine. Non evitiamo di affrontare i dettagli, ma insegniamo ai
nostri pazienti come immergere, in sicurezza, un dito nell’acqua per poi
tirarlo fuori di nuovo, in modo da avvicinarsi gradualmente alla verità.
Iniziamo con lo stabilire delle “isole di sicurezza” interne, nel corpo.24
Ciò signi ca aiutare i pazienti a identi care parti del corpo, posture o
movimenti che possano radicarli, ogni volta che si sentono bloccati,
terrorizzati o infuriati. Queste parti, di solito, si trovano al di fuori della
portata del nervo vago, che porta i messaggi di panico al petto, all’addome
e alla gola, e possono servire come alleate nell’integrazione del trauma.
Posso chiedere a una paziente se le sue mani si sentono bene e, se lei dice
di sì, potrei proporle di muoverle, esplorandone la leggerezza, il calore e la
essibilità. In seguito, accorgendomi che il suo petto si contrae e il respiro
si fa ebile, no a scomparire, posso fermarla e chiederle di concentrarsi
sulle sue mani, muovendole, in modo che lei possa sentirsi separata dal
trauma. Oppure posso chiederle di concentrarsi sul suo respiro e prestare
attenzione a come lo può modi care, o, ancora, posso invitarla a sollevare
le braccia su e giù a ogni respiro, con un movimento mutuato dal qigong.
Per alcuni pazienti, toccare i punti di agopressione è un buon esercizio
di ancoraggio.25 Ad altri chiedo di notare il peso del corpo sulla sedia o di
piantare i piedi sul pavimento. Potrei chiedere a un paziente, che sta
sprofondando nel silenzio, di vedere cosa succede quando si siede in
posizione eretta. Alcuni pazienti scoprono da soli le proprie isole di
sicurezza, cominciano a “capire” di essere in grado di modulare le
sensazioni del corpo, per controbilanciare il sentimento di essere fuori
controllo. Questo pone le basi per la risoluzione del trauma: un
movimento pendolare tra stati di esplorazione e di sicurezza, tra il
linguaggio e il corpo, tra ricordare il passato e sentirsi vivi nel presente.

Fare i conti con la realtà


Aver a che a fare con i ricordi traumatici, comunque, è solo l’inizio del
trattamento. Numerosi studi hanno dimostrato che le persone con PTSD
hanno più problemi, in generale, con l’attenzione focalizzata e con
l’apprendimento di nuove informazioni.26 Alexander McFarlane fece una
semplice prova: chiese a un gruppo di persone di elencare, in un minuto,
quante più parole potevano, che iniziassero con la lettera B. I soggetti
normali si aggiravano sulla media di quindici parole; quelli con PTSD
sulle tre o quattro. I soggetti normali esitavano quando vedevano parole
minacciose come “sangue”, “ferita” o “stupro”; i soggetti con PTSD di
McFarlane ebbero una reazione altrettanto esitante alle parole comuni
come “lana”, “gelato” e “bicicletta”.27
Dopo un po’, la maggior parte delle persone affette da PTSD non dedica
una grande quantità di tempo o non si sforza di affrontare il passato: il
loro problema è semplicemente quello di farcela a superare la giornata.
Anche pazienti traumatizzati che danno un reale contributo
all’insegnamento, agli affari, alla medicina, alle arti e che crescono con
successo i loro gli spendono molte energie per affrontare il compito
quotidiano di vivere come comuni mortali.
Un’ulteriore trappola del linguaggio è l’illusione che il nostro pensiero
possa essere facilmente corretto se non “ha senso”. La parte “cognitiva”
della Terapia cognitivo-comportamentale si focalizza sul cambiamento di
questo “pensiero disfunzionale”. Questo è un approccio al cambiamento
dall’alto verso il basso, nel quale il terapeuta affronta o “ristruttura” le
cognizioni negative, come, per esempio, “mettiamo a confronto i tuoi
sentimenti, secondo cui tu saresti colpevole del tuo stupro, con la realtà
dei fatti”, o “confrontiamo la tua paura di guidare con le statistiche attuali
sulla sicurezza stradale”.
Mi viene in mente una donna che, una volta, si presentò, sconvolta,
chiedendo aiuto perché suo glio di due mesi era “troppo egoista”.
Avrebbe mai potuto bene ciare di una scheda informativa sullo sviluppo
del bambino o di una spiegazione sul concetto di altruismo? Informazioni
simili sarebbero state inutili, almeno nché non avesse guadagnato
l’accesso alle parti di sé spaventate e abbandonate: le parti espresse dal
suo terrore della dipendenza.
Non vi è alcun dubbio che le persone traumatizzate abbiano pensieri
irrazionali: “Mi sono sentita in colpa per essere così sexy”. “Gli altri
ragazzi non avevano paura – sono uomini veri”. “Avrei dovuto pensarci
meglio, prima di camminare per quella strada”. È meglio trattare quei
pensieri come ashback cognitivi: non sono discutibili, più di quanto non
lo siano i ashback visivi di un terribile incidente. Sono residui di
incidenti traumatici: pensieri formulati al momento degli accadimenti
traumatici, o poco dopo, e riattivati da condizioni di stress. Un metodo
terapeutico ef cace di occuparsi di questi ashback è l’EMDR, oggetto
del prossimo capitolo.

Diventare qualcuno28
Il motivo per cui le persone sono sopraffatte dal racconto delle proprie
storie coincide con quello per cui si hanno dei ashback cognitivi: il loro
cervello è cambiato. Come osservarono Freud e Breuer, il trauma non
agisce semplicemente come agente di rilascio dei sintomi. Piuttosto, “il
trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un
corpo estraneo, che deve essere considerato come un agente attualmente
ef ciente anche molto tempo dopo la sua intrusione”.29 Se una scheggia
provoca un’infezione, è la risposta del corpo all’oggetto estraneo a
diventare il problema, più che l’oggetto stesso.
Le neuroscienze moderne supportano in modo evidente la nozione di
Freud, secondo cui molti dei nostri pensieri consci sono razionalizzazioni
complesse del usso di istinti, ri essi, motivazioni e ricordi profondi che
scaturiscono dall’inconscio. Come abbiamo visto, il trauma interferisce
con il corretto funzionamento delle aree cerebrali che gestiscono e
interpretano l’esperienza. Un solido senso di sé – quello che consente a
una persona di affermare con sicurezza: “Questo è ciò che penso e sento”
e “Questo è ciò che sta succedendo a me” – dipende da una interazione
sana e dinamica tra queste aree.
Quasi tutti gli studi di brain-imaging di pazienti traumatizzati
sottolineano un’attivazione anormale dell’insula. Questa parte del cervello
integra e interpreta gli input inviati dagli organi interni – tra cui muscoli,
articolazioni e sistema propriocettivo – per generare il senso dell’essere
nel proprio corpo. L’insula può trasmettere segnali all’amigdala, che
innesca risposte di attacco-fuga. Ciò non richiede alcun input cognitivo o
un qualsivoglia riconoscimento consapevole che qualcosa sia andato storto
– ci si sente al limite e non si è in grado di concentrarsi, o, peggio, si
percepisce un senso di disgrazia imminente. Questi potenti sentimenti
sono generati dal profondo del cervello e non possono essere eliminati
dalla ragione o dalla comprensione. L’alessitimia – il non essere in grado
di percepire e comunicare quello che sta succedendo dentro di noi – è il
prodotto della costante aggressione proveniente dalle sensazioni corporee
e dall’eliminazione consapevole dell’origine delle stesse. Solo entrando in
contatto con il corpo, collegandosi visceralmente con il Sé, si può
ritrovare il senso di chi si è, le priorità e i valori. Alessitimia, dissociazione
e chiusura coinvolgono le strutture cerebrali che ci permettono di
concentrarci, di sapere cosa proviamo e di agire per proteggere noi stessi.
Quando queste strutture vitali sono sottoposte a uno shock inevitabile, il
risultato può essere confusione e agitazione, distacco emotivo, spesso
accompagnato da esperienze extracorporee – la sensazione di guardare se
stessi da molto lontano. In altre parole, il trauma fa sentire le persone
come se fossero in qualche altro corpo, o come in nessun corpo. Per
superare il trauma, si ha bisogno di aiuto per tornare in contatto con il
proprio corpo, con il proprio Sé.
Non si discute che il linguaggio sia essenziale: il nostro senso di Sé
dipende dall’essere in grado di organizzare i nostri ricordi in un insieme
coerente.30 Ciò richiede connessioni ben funzionanti tra il cervello
cosciente e il sistema del sé corporeo – connessioni che, spesso, sono
danneggiate dai traumi. La storia completa può essere raccontata solo
dopo aver riparato le strutture e aver preparato il terreno: solo a questo
punto, un non corpo diventa il corpo di qualcuno, quando un nessuno
diventa qualcuno.31

1. Atto IV, scena III. Tr. it. Garzanti, Milano, 1989. [NdC]
2. Spencer Eth a Bessel A. Van Der Kolk, marzo 2002.
3. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188.
4. T.E. Lawrence (1922), I sette pilastri della saggezza, tr. it. Bompiani, Milano 2000.
5. Espressione idiomatica che sta per “momento illuminante” o “momento catartico”. [NdC]
6. E.B. Foa, A. Ehlers, D.M. Clark, D.F. Tolin, S.M. Orsillo (1999), “The Post-traumatic
Cognitions Inventory (PTCI): Development and validation”, in Psychological Assessment, 11(3),
pp. 303-314.
7. K. Marlantes (2011), What It Is Like to Go to War, Grove Press, New York.
8. Ibid., p. 114.
9. Ibid., p. 129.
10. H. Keller (1908), Il mondo in cui vivo, Bocca, Milano 1944, fuori stampa. Si veda anche R.
Shattuck (2004), “A world of words”, in New York Review of Books, February 26.
11. H. Keller (2003), La storia della mia vita, tr. it. Edizioni Paoline, Roma 1981. [In una recente
edizione, del 2014, è stato tradotto come Il silenzio delle conchiglie, tr. it. e/o, Roma 2014, pp. 32-
33. NdT]
12. W.M. Kelley, C.N. MacRae, C.L. Wyland, S. Caglar, S. Inati, T.F. Heatherton (2002), “Finding
the self? An event-related fMRI study”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 14(5), pp. 785-794.
Vedi anche N.A. Farb, Z.V. Segal, H. Mayberg, J. Bean, D. McKeon, Z. Fatima (2007), “Attending
to the present: Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference”, in Social
Cognitive and Affective Neuroscience, 2(4), pp. 313-322. P.M. Niedenthal (2007), “Embodying
emotion”, in Science, 316(5827), pp. 1002-1005; J.M. Allman (2001), “The anterior cingulate
cortex”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 935(1), pp 107-117.
13. J. Kagan (2006), “Dialogue with the Dalai Lama”, Massachusetts Institute of
Technology, http:// www.mindandlife.org/about/history/.
14. A. Goldman, F. De Vignemont (2009), “Is social cognition embodied?”, in Trends in Cognitive
Sciences, 13(4), pp. 154-159. Vedi anche A.D. Craig (2009), “How do you feel now? The anterior
insula and human awareness”, in Nature Reviews Neuroscience, 10, pp. 59-70; H.D. Critchley
(2005), “Neural mechanisms of autonomic, affective, and cognitive integration”, in Journal of
Comparative Neurology, 493(1), pp. 154-166; T.D. Wager, M.L. Davidson, B.L. Hughes, M.A.
Lindquist, K.N. Ochsner (2008), “Prefrontal-subcortical pathways mediating successful emotion
regulation”, in Neuron, 59(6), pp. 1037-1050; K.N. Ochsner, S.A. Bunge, J.J. Gross, J.D. Gabrieli
(2002), “Rethinking feelings: An fMRI study of the cognitive regulation of emotion”, in Journal of
Cognitive Neuroscience, 14(8), pp. 1215-1229; A. D’Argemeau, D. Feyers, S. Majeurs, F. Collette,
M. van der Linden, P. Maquet, E. Salmon (2008), “Self-re ection across time: Cortical midline
structures differentiate between present and past selves”, in Social Cognitive and Affective
Neuroscience, 3(3), pp. 244-252; Y. Ma, D. Bang, C. Wang, M. Allen, C. Frith, A. Roepstorff, S.
Han (2014), “Sociocultural patterning of neural activity during self-re ection”, in Social Cognitive
and Affective Neuroscience, 9(1), pp. 73-80; R.N. Spreng, R.A. Mar, A.S. Kim (2009), “The
common neural basis of autobiographical memory, prospection, navigation, theory of mind, and
the default mode: A quantitative meta-analysis”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 21(3), pp.
489-510; H.D. Critchley (2014), “The human cortex responds to an interoceptive challenge”, in
Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 101(17), pp. 6333-
6334; C. Lamm, C.D. Batson, J. Decety (2007), “The neural substrate of human empathy: Effects
of perspective-taking and cognitive appraisal”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 19(1), pp. 42-
58.
15. J.W. Pennebaker (2012), Opening Up: The Healing Power of Expressing Emotions, Guilford
Press, New York, p. 12.
16. Ibidem, p. 19.
17. Ibidem, p. 35.
18. Ibidem, p. 50.
19. J.W. Pennebaker, J.K. Kiecolt-Glaser, R. Glaser (1988), “Disclosure of traumas and immune
function: Health implications for psychotherapy”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology,
56(2), pp. 239-245.
20. D.A. Harris (2007), “Dance/movement therapy approaches to fostering resilience and recovery
among African adolescent torture survivors”, in Torture, 17(2), pp. 134-155; M. Bensimon, D.
Amir, Y. Wolf (2008), “Drumming through trauma: Music therapy with post-traumatic soldiers”, in
Arts in Psychotherapy, 35(1), pp. 34-48; M. Weltman (1986), “Movement therapy with children
who have been sexually abused”, in American Journal of Dance Therapy, 9(1), pp. 47-66; H.
Englund (1998), “Death, trauma and ritual: Mozambican refugees in Malawi”, in Social Science &
Medicine, 46(9), pp. 1165-1174; H. Tefferi (1996), Building on Traditional Strengths: The
Unaccompanied Refugee Children from South Sudan; D. Tolfree (1996), Restoring Playfulness:
Different Approaches to Assisting Children Who Are Psychologically Affected by War or
Displacement, Radda Barnen, Stockholm, pp. 158-173; N. Boothby (1996), “Mobilizing
communities to meet the psychosocial needs of children in war and refugee crises”, in Minefields in
Their Hearts: The Mental Health of Children in War and Communal Violence, Yale University
Press, New Haven, pp. 149-164; S. Sandel, S. Chaiklin, A. Lohn (1993), Foundations of
Dance/Movement Therapy: The Life and Work of Marian Chace, American Dance Therapy
Association, Columbia; K. Callaghan (1993), “Movement psychotherapy with adult survivors of
political torture and organized violence”, in Arts in Psychotherapy, 20(5), pp. 411-421; A.E.L. Gray
(2001), “The body remembers: Dance movement therapy with an adult survivor of torture”, in
American Journal of Dance Therapy, 23(1), pp. 29-43.
21. A.M. Krantz, J.W. Pennebaker (2007), “Expressive dance, writing, trauma, and health: When
words have a body.” In Whole Person Healthcare, 3, pp. 201-229.
22. P. Fussell (1975), The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, London.
23. Questi risultati sono stati replicati nei seguenti studi: J.D. Bremner (1999), “Does stress damage
the brain?”, in Biological Psychiatry, 45(7), pp. 797-805; I. Liberzon, S.F. Taylor, R. Amdur, T.D.
Jung, K.R. Chamberlain, S. Minoshima, R.A. Koeppe, L.M. Fig (1999), “Brain activation in PTSD
in response to trauma-related stimuli”, in Biological Psychiatry, 45(7), pp. 817-826; L.M. Shin, S.M.
Kosslyn, R.J. McNally, N.M. Alpert, W.L. Thompson, S.L. Rauch, M.L. Macklin, R.K. Pitman
(1997), “Visual imagery and perception in Post-traumatic Stress Disorder: A positron emission
tomographic investigation”, in Archives of General Psychiatry 54(3), pp. 233-241; L.M. Shin, S.M.
Kosslyn, R.J. McNally, N.M. Alpert, W.L. Thompson, S.L. Rauch (1999), “Regional cerebral blood
ow during script-driven imagery in childhood sexual abuse-related PTSD: A PET investigation”,
in American Journal of Psychiatry, 156(4), pp. 575-584.
24. Non so dire con precisione se questo termine sia stato coniato da me o da Peter Levine. Ho una
videoregistrazione in cui Peter me lo accredita, ma la maggior parte di ciò che so sulla tecnica del
pendolo l’ho imparata da lui.
25. Un piccolo corpus di prove empiriche sostiene l’asserzione che la stimolazione dei punti di
agopressione produce risultati migliori e strategie di esposizione che incorporano tecniche di
rilassamento convenzionali (www.vetcases.com). D. Church, O. Pina, C. Reategui, A. Brooks
(2012), “Single-session reduction of the intensity of traumatic memories in abused adolescents
after EFT: A randomized controlled pilot study”, in Traumatology, 18(3), pp. 73-79; D. Feinstein,
D. Church (2010), “Modulating gene expression through psychotherapy: The contribution of
noninvasive somatic interventions”, in Review of General Psychology, 14(4), pp. 283-295.
26. T. Gil, A. Calev, D. Greenberg, S. Kugelmass, B. Lerer (1990), “Cognitive functioning in Post-
traumatic Stress Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 3(1), pp. 29-45; J.J. Vasterling, L.M.
Duke, K. Brailey, J.L. Constans, A.N. Jr. Allain, P.B. Sutker (2002), “Attention, learning, and
memory performances and intellectual resources in Vietnam veterans: PTSD and no disorder
comparisons”, in Neuropsychology, 16(1), p. 5.
27. In uno studio di brain-imaging i soggetti con PTSD disattivavano l’area del cervello deputata al
linguaggio, l’area di Broca, in risposta a vocaboli neutri; in altri termini: il decremento nel
funzionamento dell’area di Broca, che è stato ritrovato nei pazienti affetti da PTSD (vedi capitolo
3), non occorreva solamente in risposta a ricordi traumatici, ma avveniva anche quando era chiesto
loro di prestare attenzione a parole neutre. Ciò signi ca che, come gruppo, i pazienti traumatizzati
hanno più dif coltà ad articolare ciò che sentono e pensano riguardo a eventi ordinari. Il gruppo
PTSD, inoltre, mostrava una riduzione nell’attivazione della corteccia prefrontale-mediale (mPFC),
l’area del lobo frontale che, come abbiamo visto, trasmette la consapevolezza del proprio sé, e
smorza l’attivazione dell’amigdala, il rilevatore di fumo. Ciò rendeva più dif cile per questi pazienti
inibire una risposta di paura da parte del cervello a fronte di semplici compiti linguistici, e, ancora,
rendeva più dif coltoso prestare attenzione e continuare con la propria vita. Vedi, K.A. Moores,
C.R. Clark, A.C. McFarlane, G.C. Brown, A. Puce, D.J. Taylor (2008), “Abnormal recruitment of
working memory updating networks during maintenance of trauma-neutral information in post-
traumatic stress disorder”, in Psychiatry Research: Neuroimaging, 163(2), pp. 156-170.
28. Il titolo del testo contiene un gioco di parole che scompone la parola somebody (“qualcuno” in
italiano) in some body (nel senso di “qualche corpo”). [NdC]
29. J. Breuer, S. Freud (1892) “Comunicazione preliminare: sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici”, in Opere, vol. 1, tr. it. Boringhieri, Torino 1967, pp. 175-188, p. 178.
30. D.L. Schacter (1996), Alla ricerca della memoria. Il cervello, la mente e il passato, tr. it. Giulio
Einaudi Editore, Torino 2007.
31. In inglese, il solito gioco di parole no body/some body. [NdC]
15

Lasciare andare il passato


EMDR

È stato un sogno soltanto o una visione?


La musica è svanita, dormo? Son sveglio?
JOHN KEATS

David, un appaltatore di mezza età, mi venne inviato a causa dei suoi


violenti attacchi di rabbia, che stavano trasformando la sua vita in un
inferno. Nel corso della prima seduta, mi raccontò di un episodio occorso
l’estate dei suoi 23 anni. Lavorava come bagnino in una piscina e, un
pomeriggio, venne aggredito da un gruppo di ragazzi che giocavano e
bevevano birra. Aveva intimato loro di non bere alcol, poiché vietato dal
regolamento: uno di loro gli cavò l’occhio sinistro con una bottiglia di
birra rotta. A distanza di trent’anni, aveva ancora incubi e ashback di
quel dolore lancinante.
Era estremamente giudicante nei confronti del glio adolescente e,
spesso, lo redarguiva alla minima disobbedienza, ma, soprattutto, non
riusciva a manifestare affetto nei confronti della moglie. Era come se la
tragica perdita dell’occhio lo autorizzasse a maltrattare le altre persone,
odiando profondamente la persona rabbiosa e vendicativa che era
diventato. Notava che gli sforzi di gestire la rabbia lo rendevano
cronicamente teso e si chiedeva se la paura di perdere il controllo avesse
compromesso la sua capacità di amare e di avere degli amici.
Al secondo colloquio, lo sottoposi a una procedura chiamata Eye
Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR). Chiesi a David di
andare indietro con la memoria no all’aggressione e di soffermarsi sui
dettagli, cercando di riportare alla mente le immagini dell’evento, i suoni
che aveva sentito e i pensieri che erano af orati: “Lascia soltanto che quei
momenti ritornino”, gli dissi.
Gli chiesi poi di seguire con lo sguardo il mio dito indice, mentre si
muoveva lentamente avanti e indietro, a circa 30 cm dal suo occhio destro.
In pochi secondi, af orò una cascata di rabbia e di terrore, accompagnata
da sensazioni vivide di dolore, del sangue che scorre lungo le guance, e di
rendersi conto di non riuscire a vedere. Durante la rievocazione di queste
sensazioni, pronunciavo occasionalmente qualcosa di incoraggiante,
continuando a muovere il dito avanti e indietro. Dopo qualche minuto, mi
fermavo e gli chiedevo di fare un respiro profondo. Poi gli suggerivo di
prestare attenzione a ciò che c’era, in quel momento, nella sua mente:
emerse uno scontro che aveva avuto a scuola. Gli dissi di notarlo e di stare
su quel ricordo. Af orarono altri ricordi, in modo apparentemente
casuale: cercare gli aggressori in ogni dove, aver voglia di far loro del
male, azzuffarsi in una sala interna di un bar. All’emergere di un ricordo o
di una sensazione, lo esortavo semplicemente a notarli, riprendendo i
movimenti con il dito.
Alla ne di quella seduta, sembrava più calmo e visibilmente sollevato.
Mi disse che il ricordo dell’accoltellamento aveva perso di intensità e
cominciava a delinearsi qualcosa di spiacevole, accaduto molto tempo
prima: “Si è realmente riassorbito”, disse pensieroso, “eppure mi ha
destabilizzato per parecchi anni, ma sono sorpreso di come, alla ne, sia
riuscito a ritagliarmi una buona vita”.
Alla nostra terza seduta, la settimana successiva, affrontammo l’esito del
trauma: il ricorso, negli anni, a droghe e alcol per gestire la rabbia. A ogni
ripetizione delle sequenze EMDR, af oravano più ricordi. David riferiva
di aver parlato con una guardia carceraria che conosceva la sua volontà di
uccidere il suo aggressore e di aver, poi, in carcere, desistito dal compiere
quell’azione. La rievocazione di questa decisione ebbe un effetto
profondamente liberatorio. Si considerava un mostro senza controllo, ma
l’essersi reso conto di aver rinunciato alla vendetta lo rimetteva in contatto
con un lato consapevole e generoso di sé.
A quel punto, si rese spontaneamente conto di stare trattando suo glio
nello stesso modo in cui si era sentito verso i suoi aggressori adolescenti.
Al termine della nostra seduta, gli chiesi se potessi vederlo insieme alla sua
famiglia, così che potesse spiegare al glio cosa gli era accaduto e
chiedergli perdono. Alla nostra quinta e ultima seduta, mi disse di essere
riuscito a dormire meglio e che, per la prima volta nella vita, provava un
senso di pace interiore. Un anno dopo, chiamò per informarmi non
soltanto di aver raggiunto una maggiore intimità con la moglie e di aver
iniziato a praticare yoga insieme a lei, ma anche di ridere molto di più,
traendo un piacere reale dalle sue attività di giardinaggio e di
falegnameria.

Imparare l’EMDR
Così come con David, mi è capitato di sperimentare tante volte, negli
ultimi 20 anni, l’EMDR: un approccio che permette di rendere le “ri-
produzioni” dolorose del trauma qualcosa che appartiene al passato. Fui
introdotto a questo metodo da Maggie, una giovane e coraggiosa
psicologa che lavorava in una casa di accoglienza per ragazze abusate
sessualmente. Maggie litigava continuamente, scontrandosi con quasi
tutti, eccetto che con le ragazze tredicenni e quattordicenni, di cui si
prendeva cura. Faceva uso di droghe, si accompagnava a ragazzi
pericolosi e, spesso, violenti, aveva frequenti alterchi con i suoi superiori,
e traslocava da un posto a un altro perché non riusciva a tollerare i suoi
coinquilini (né loro lei). Non ho mai capito come avesse fatto a ottenere
un diploma di laurea in psicologia in una buona università.
Maggie era stata inviata a una terapia di gruppo, che stavo conducendo
con donne con problemi simili ai suoi. Durante la seconda seduta, riferì di
come suo padre l’avesse stuprata due volte, una volta a cinque anni e
un’altra a sette. Era convinta di essere colpevole. Amava suo padre,
spiegava, e, quindi, doveva essere stata per forza così seduttiva da indurlo
a non potersi controllare. Mentre ascoltavo il suo ricordo, pensai: “Non
può dare la colpa al padre e, quindi, deve dare la colpa a tutti gli altri”,
compresi i terapeuti precedenti, per non averla aiutata a stare meglio.
Come molti sopravvissuti al trauma, raccontava una storia con le parole e
un’altra con le azioni, attraverso le quali continuava a rimettere in atto vari
aspetti del trauma.
Così, un giorno, Maggie arrivò al gruppo, desiderosa di parlare di
un’esperienza particolarmente rilevante che aveva fatto durante il week
end in un corso di formazione sull’EMDR. A quel tempo, pensavo solo
che l’EMDR fosse una nuova mania, in cui i terapeuti muovevano le dita
davanti agli occhi dei loro pazienti. A me e ai miei colleghi universitari
sembrava ancora una di quelle pazzie che, da sempre, hanno af itto la
psichiatria, ed ero convinto che questa si sarebbe rilevata un’altra delle
disavventure di Maggie.
Maggie ci disse che, durante la sua seduta EMDR, aveva ricordato in
modo vivido l’abuso del padre quando aveva sette anni e lo aveva
rievocato dall’interno del suo corpo di bambina. Poteva sicamente
sentire come fosse piccola: poteva sentire il grande corpo del padre e
l’odore di alcol del suo respiro. E ancora, ci disse, l’osservazione
dell’evento era avvenuta attraverso il punto di vista del suo sé di 29 anni.
Scoppiò a piangere: “Ero così piccola. Come può un uomo cosi grande
fare questo a una bimba così piccola?”. Pianse per un po’, poi disse: “Ora
è nita. Ora so cosa è accaduto. Non era colpa mia. Ero una bimba
piccola e non avrei potuto far niente di così grave da indurlo a
molestarmi”. Ero sbalordito. Avevo a lungo cercato di trovare dei modi
per far sì che le persone potessero rivisitare il loro passato traumatico
senza ritraumatizzarsi. Sembrava che Maggie avesse avuto un’esperienza
realistica come un ashback, non essendone stata dirottata nel passato.
L’EMDR riusciva a rendere questa cosa suf cientemente sicura, in modo
da far sì che le persone potessero accedere alle tracce del trauma? Poteva
trasformarle in memorie di eventi accaduti nel passato?
Maggie fece poche altre sedute di EMDR e restò nel nostro gruppo
abbastanza a lungo per mostrarci i suoi cambiamenti. Era molto meno
irritabile e manteneva un sardonico senso dell’umorismo, che mi piaceva
molto. Pochi mesi dopo, fu coinvolta da un tipo di uomo molto diverso da
quello da cui era stata attratta no a quel momento. Lasciò il gruppo,
annunciando di aver risolto il suo trauma, e io decisi che era ora di seguire
una formazione EMDR.

EMDR: primi contatti


Come molte scoperte scienti che, la nascita dell’EMDR si deve a
un’osservazione casuale. Un giorno del 1987, la psicologa Francine
Shapiro, passeggiando in un parco, assorta in ricordi dolorosi, notò che
rapidi movimenti oculari producevano un enorme sollievo dallo stress.
Era possibile costruire una modalità di trattamento sulla base di
un’esperienza così fulminea? Come era possibile che un processo semplice
come quello non fosse mai stato osservato prima? All’inizio, scettica
riguardo alla sua osservazione, sottopose il metodo ad anni di
sperimentazione e ricerca, costruite gradualmente su una procedura
standardizzata, che poteva essere insegnata e testata all’interno di studi
controllati.1
Arrivai al mio corso EMDR col bisogno di elaborare un mio trauma.
Qualche settimana prima, il prete gesuita che dirigeva il mio reparto al
Massachusetts General Hospital, aveva improvvisamente deciso di
chiudere la Trauma Clinic, lasciandoci soli a lottare per trovare una nuova
sede e nuovi fondi per trattare i nostri pazienti, formare i nostri allievi e
condurre le nostre ricerche. Nello stesso periodo, il mio amico Frank
Putnam, che stava portando avanti uno studio a lungo termine su ragazze
abusate sessualmente, di cui ho parlato nel capitolo 10, fu licenziato dal
National Institute of Health, e Rick Kluft, il maggiore esperto di
dissociazione del paese, lasciò il suo reparto all’Institute of Pennsylvania
Hospital. Si trattava chiaramente di una coincidenza, ma tutto il mio
mondo pareva essere sotto assedio.
Mi sembrava che lo stress vissuto per la sorte della Trauma Clinic
potesse essere utile per testare l’EMDR. Nel seguire le dita del mio collega
con gli occhi, mi vennero in mente ricordi inde niti della mia infanzia;
conversazioni familiari accese durante l’ora di cena, scontri con i
compagni di scuola durante la ricreazione, lanci di sassi alla nestra di un
capannone con mio fratello maggiore, e ciascuno di questi aveva la forma
di immagini “ipnopompiche”, vivide e uttuanti, come quelle che si
possono vedere dormendo no a tardi la domenica mattina, e che
dimentichiamo nel momento in cui ridiventiamo completamente
consapevoli.
Dopo circa mezz’ora, il mio collega in formazione e io rivisitammo la
scena in cui il mio superiore mi diceva che avrebbe chiuso l’ambulatorio.
A quel punto, avvertii una sorta di rassegnazione: “Okay, è successo. Ora
è tempo di andare avanti”. Io non guardavo mai indietro; l’ambulatorio si
sarebbe ricostruito e sarebbe persino migliorato. L’EMDR era il solo
motivo per cui sono riuscito a lasciare andare la rabbia e lo stress?
Naturalmente, non lo sapevo per certo, ma il mio viaggio mentale – dalle
scene non correlate dell’infanzia no all’archiviazione de nitiva
dell’episodio – era qualcosa che non avevo mai sperimentato all’interno di
una terapia fondata sulla parola.
Ciò che accadde dopo, durante il mio turno di terapeuta EMDR, fu
ancora più intrigante. Ruotai in un gruppo differente e il mio nuovo
collega, che non avevo mai incontrato prima, mi disse di volere rimettere
in ordine alcuni ricordi della sua infanzia, che riguardavano suo padre, di
cui però non voleva parlare. Non avevo mai lavorato sul trauma di
qualcuno senza conoscerne “la storia” ed ero disturbato e frustrato dal
suo ri uto di condividerne i dettagli. Quando cominciai a muovere le dita
davanti ai suoi occhi, sembrava fortemente stressato, si mise a
singhiozzare e il suo respiro si fece rapido e super ciale. Ma, ogni volta
che gli ponevo le domande previste dal protocollo, si ri utava di dirmi
cosa stesse af orando nella sua mente.
Alla ne della seduta di 45 minuti, il mio collega mi disse di essersi
trovato così male con me che non mi avrebbe mai mandato un paziente.
D’altro canto, mi disse, l’EMDR aveva risolto la questione dell’abuso del
padre. Se, da una parte, ero scettico e sospettavo che la sua scortesia nei
miei confronti fosse uno strascico dei suoi vissuti irrisolti verso il padre,
dall’altra non vi era dubbio alcuno sul fatto che apparisse più rilassato.
Mi rivolsi al mio trainer EMDR, Gerald Puk, e gli riferii del mio
imbarazzo. A quest’uomo chiaramente non piacevo ed era sembrato
profondamente stressato durante la seduta EMDR, ma ora mi stava
dicendo che la sofferenza, durata molti anni, era nita. Come facevo a
sapere se avesse o meno risolto i suoi problemi, se non voleva parlarmi di
ciò che era accaduto durante la seduta?
Gerry sorrise e mi chiese se, per caso, non fossi diventato psichiatra per
risolvere delle mie questioni personali. Confermai che molte persone, che
mi conoscono, pensano che sia così. Mi chiese, inoltre, se pensassi che
fosse molto signi cativo che le persone mi raccontassero i propri traumi e,
di nuovo, risposi in modo affermativo. A quel punto disse: “Sai, Bessel,
forse hai bisogno di imparare a mettere da parte le tue tendenze
voyeuristiche. Se è così importante per te ascoltare le storie traumatiche,
perché non vai al bar, metti un paio di dollari sul tavolo e dici al tuo
vicino: ‘Ti pago da bere se mi parli della tua storia traumatica’. Ma,
secondo me, hai bisogno di differenziare il tuo desiderio di ascoltare le
storie dal processo interno di guarigione del tuo paziente”. Presi a cuore il
monito di Gerry e provai un certo senso di piacere nel ripeterlo ai miei
allievi.
Lasciai il mio training EMDR, preoccupato per tre questioni che mi
affascinano tuttora:
– L’EMDR sblocca qualcosa nella mente/cervello, permettendo alle
persone un rapido accesso ai ricordi e alle immagini del passato,
associati in modo vago. E ciò sembra aiutarle a porre le esperienze
traumatiche all’interno di un contesto o di una prospettiva più ampi.
– Le persone possono guarire dal trauma senza parlarne. L’EMDR li rende
capaci di osservare le loro esperienze in un modo nuovo, senza bisogno
di uno scambio verbale con un’altra persona.
– L’EMDR può essere ef cace anche se paziente e terapeuta non hanno
una relazione di ducia. Quest’ultimo punto si rivelava particolarmente
affascinante perché il trauma, come ben si sa, raramente lascia le persone
con un cuore aperto e ducioso.
Da quel momento in poi, ho applicato l’EMDR a pazienti che parlavano
swahili, mandarino e bretone, tutte lingue delle quali sapevo solo dire
“Nota questo” e le istruzioni di base dell’EMDR (avevo sempre un
traduttore disponibile, ma soprattutto per spiegare le fasi del processo).
Poiché l’EMDR non richiede che i pazienti parlino dell’intollerabile o
spieghino al terapeuta perché si sentano così angosciati, esso permette
loro di rimanere totalmente concentrati sulla loro esperienza interna, con
risultati, talvolta, straordinari.

Studiare l’EMDR
La Trauma Clinic venne salvata da un manager del Massachusetts
Department of Mental Health, che aveva seguito il nostro lavoro con i
bambini e che ora ci chiedeva di formare un’unità di crisi comunitaria per
l’area di Boston. Tutto ciò era suf ciente a coprire le nostre spese di base,
mentre al resto provvedeva un gruppo professionale molto attivo, che
apprezzava ciò che stavamo facendo, ivi compreso il potere, recentemente
scoperto, dell’EMDR nel curare alcuni dei pazienti che non eravamo stati
in grado di aiutare prima.
I miei colleghi e io cominciammo a condividere le videoregistrazioni
delle sedute EMDR con i pazienti con PTSD, che ci consentivano di
osservare incredibili miglioramenti, settimana dopo settimana.
Cominciammo così a misurare formalmente i loro progressi su una rating
scale PTSD standardizzata. Prendemmo accordi con Elizabeth Matthew,
una giovane specialista in neuroimaging presso il New England Deaconess
Hospital, per avere dodici scansioni cerebrali dei pazienti, prima e dopo il
trattamento. Appena dopo tre sedute di EMDR, otto su dodici
mostravano un signi cativo decremento nel loro punteggio PTSD. Sulle
loro scansioni potevamo vedere un evidente incremento nell’attivazione
del lobo prefrontale dopo il trattamento, così come una maggiore attività
nel cingolato anteriore e nei gangli della base. Questo cambiamento
rendeva conto della modalità differente di esperire ora il loro trauma.
Un uomo disse: “Lo ricordo come se fosse qualcosa di reale, ma più
distante. Di solito, ero sommerso dal ricordo, mentre questa volta
galleggio in super cie. Ho la sensazione di essere in controllo”. Una
donna ci disse: “Prima, sentivo ciascun passaggio del ricordo. Ora è come
se fosse intero, invece che frammentato, e, quindi, più affrontabile”. Il
trauma aveva perso la sua immediatezza, diventando una storia di
qualcosa accaduto tanto tempo prima.
Di conseguenza, ci assicurammo dei nanziamenti dal National
Institutes of Mental Health, per confrontare gli effetti dell’EMDR con
dosi standard di Prozac o placebo.2 Dei nostri 88 pazienti, 30 furono
trattati con EMDR, a 28 fu somministrato il Prozac e al resto il placebo.
Dopo otto settimane, il loro miglioramento del 42% fu maggiore di quello
ottenuto con altri trattamenti etichettati come evidence based.
Il gruppo Prozac fece leggermente meglio di quello placebo, ma di poco.
Questo è tipico della maggior parte degli studi sui farmaci per il PTSD:
semplicemente si evidenzia un miglioramento che va dal 30 al 42%;
quando i farmaci funzionano, si aggiunge un’ulteriore percentuale, che
varia dal 5 al 15%. Tuttavia, i pazienti trattati con l’EMDR evidenziavano
risultati migliori di quelli curati con Prozac e con il placebo: dopo otto
sedute di EMDR, un paziente su quattro era sostanzialmente guarito (il
punteggio PTSD si era assestato su livelli trascurabili), rispetto all’uno su
dieci del gruppo Prozac. Ma la differenza sostanziale si evidenziava nel
tempo: intervistando i nostri soggetti otto mesi dopo, il 60% di coloro che
erano stati trattati con EMDR segnalava una guarigione completa. Come
disse il grande psichiatra Milton Erickson, una volta spostato il tronco, il
ume inizia a uire. Non appena le persone cominciano a integrare i
ricordi traumatici, continuano a migliorare spontaneamente. Di contro,
tutti coloro che assumono il Prozac sono inclini a ricadute dopo la
sospensione del trattamento farmacologico.
Questo studio è stato signi cativo perché ha dimostrato che una terapia
trauma-speci ca, focalizzata sul PTSD, come l’EMDR, poteva essere
molto più ef cace dei farmaci. Altri studi hanno confermato che, se i
pazienti assumono il Prozac, o altri farmaci simili come Celexa, Paxil e
Zoloft, i sintomi del PTSD spesso migliorano, ma soltanto in
concomitanza con la terapia farmacologica, e questo rende tale terapia
molto più dispendiosa sul lungo termine (è interessante che, a dispetto del
fatto che il Prozac sia uno dei maggiori antidepressivi, il nostro studio
abbia dimostrato che l’EMDR produce, altresì, una maggiore riduzione
dei punteggi relativi alla depressione rispetto all’assunzione di
antidepressivi).
Un altro risultato essenziale della nostra ricerca è il seguente: gli adulti
con storie di trauma nell’infanzia rispondevano in modo molto diverso al
trattamento EMDR rispetto a coloro che erano stati traumatizzati da
adulti. Alla ne delle otto settimane, circa la metà del gruppo dei pazienti
traumatizzati da adulti, trattati con EMDR, appariva completamente
guarita, mente soltanto il 9% del gruppo di coloro che erano stati abusati
da bambini mostrava un miglioramento così evidente. Otto mesi più tardi,
il tasso di guarigione del gruppo di pazienti traumatizzati da adulti era del
73%, a confronto con il 25% di quelli con storie di abuso infantile. Il
gruppo di pazienti abusati da bambini aveva piccole ma sostanzialmente
positive risposte al Prozac.
Questi risultati rinforzano quelli riportati nel capitolo 9: l’abuso cronico
nell’infanzia provoca differenze sostanziali, nell’adattamento mentale e
biologico, rispetto a eventi traumatici circoscritti in età adulta. L’EMDR è
un trattamento potente per i ricordi traumatici bloccati, ma non risolve
necessariamente gli effetti del tradimento e dell’abbandono, che
accompagnano l’abuso sico e sessuale durante l’infanzia. Otto settimane
di terapia di qualsiasi tipo raramente sono suf cienti a risolvere l’eredità
di un trauma di così lungo corso.
Dal 2014, il nostro studio EMDR aveva il risultato più positivo di ogni
altro studio pubblicato su persone che avevano sviluppato un PTSD, a
seguito di un evento traumatico occorso in età adulta. Ma, a dispetto di
questi risultati e di quelli di una dozzina di altri studi, molti dei miei
colleghi continuano a essere scettici riguardo all’EMDR, forse perché
sembra troppo bello per essere vero, troppo semplice per essere potente:
posso comprendere questo tipo di scetticismo poiché l’EMDR è una
procedura inusuale. È interessante notare che, dal primo studio scienti co
di rilievo, che sottoponeva all’EMDR alcuni veterani in servizio con
PTSD, ci si aspettava che l’EMDR sarebbe stato così poco ef cace da
essere considerato una condizione di controllo e di confronto con la
terapia del rilassamento assistita con biofeedback. Con sorpresa dei
ricercatori, dodici sedute di EMDR si rivelavano essere il trattamento più
ef cace.3 L’EMDR è diventato, da allora, uno dei trattamenti per il PTSD
autorizzati dal Department of Veterans Affairs.

L’EMDR è una terapia espositiva?


Alcuni psicologi hanno ipotizzato che, poiché l’EMDR desensibilizza
realmente le persone al materiale traumatico, potesse inserirsi nell’ambito
delle terapie espositive. Una descrizione più accurata del metodo
potrebbe essere quella secondo cui l’EMDR integra il materiale
traumatico. Dai risultati della nostra ricerca, era chiaro che, dopo un
trattamento EMDR, il trauma fosse percepito come un evento
coerentemente situato nel passato e non più sotto forma di sensazioni e
immagini staccate dal contesto.
I ricordi evolvono e cambiano, sono sottoposti, cioè, a un lungo
processo di integrazione e reinterpretazione, che avviene in modo
automatico nel cervello/mente, senza intervento alcuno da parte del sé
conscio. Una volta completata l’elaborazione, l’esperienza si integra con
gli altri eventi di vita e smette di avere vita propria.4 Come abbiamo visto,
il PTSD è il prodotto del fallimento di questo processo e, pertanto, il
ricordo rimane bloccato, non digerito e grezzo.
Sfortunatamente, la formazione degli psicologi di rado prevede
l’insegnamento del funzionamento del sistema di elaborazione dei ricordi
nel cervello. Una simile omissione può condurre a scelte terapeutiche
scorrette. Al contrario delle fobie (per esempio, la fobia dei ragni,
collegata a una speci ca paura irrazionale), lo stress post-traumatico è il
risultato di una sostanziale riorganizzazione del sistema nervoso centrale,
determinata dall’esposizione a una minaccia reale di morte (o dall’assistere
alla morte di qualcun altro), che riorganizza l’esperienza di sé (come
impotente) e l’interpretazione della realtà (il mondo intero diventa un
posto pericoloso).
Durante la fase di elaborazione, i pazienti si mostrano estremamente
agitati e, man mano che si procede nella rivisitazione della vicenda
traumatica, si registra un evidente aumento del battito cardiaco, della
pressione sanguigna e degli ormoni dello stress. Se riescono a stare dentro
la procedura, ripercorrendo il trauma, diventano via via meno reattivi e
meno inclini a disorganizzarsi quando ricordano l’evento. Ne consegue
che ottengano punteggi più bassi alle scale PTSD. Per ciò che ne
sappiamo, tuttavia, il semplice esporre qualcuno a un vecchio trauma non
porta a un’integrazione dei ricordi nel contesto generale di vita e non
ripristina quel livello di piacevolezza nelle relazioni e nello svolgimento
delle attività della vita sperimentato prima del trauma.
Di contro, l’EMDR, così come i trattamenti che saranno descritti nei
capitoli successivi, come i Sistemi familiari interni, lo yoga, il
Neurofeedback, la Terapia psicomotoria e il teatro, non si focalizza
soltanto sulla regolazione dei ricordi intensi attivati dal trauma, ma anche
sul ristabilire il senso di padronanza, di coinvolgimento e di impegno,
attraverso il controllo del corpo e della mente.

Elaborare il trauma con l’EMDR


Kathy era una studentessa di ventuno anni di un’università della zona.
Durante il nostro primo incontro, appariva terrorizzata. Da tre anni, era in
psicoterapia con un terapeuta, di cui si dava e dal quale si sentiva capita,
pur non essendoci stati reali progressi. Mi venne inviata dal servizio di
salute mentale dell’università, a seguito del terzo tentativo di suicidio, con
la speranza che la nuova tecnica, di cui avevo parlato loro, potesse
aiutarla.
Come molti altri miei pazienti traumatizzati, Kathy riusciva a essere
completamente centrata sullo studio. Era capace di concentrarsi nella
lettura di un libro o nella stesura di un articolo scienti co, lasciando fuori
tutto il resto della sua vita. Tutto ciò faceva di lei una studentessa
brillante, che però, di contro, non aveva la più pallida idea di come
relazionarsi in modo amorevole con se stessa, nel contatto intimo con un
partner.
Kathy mi raccontò di essere stata costretta dal padre a prostituirsi tante
volte durante la sua infanzia, cosa che normalmente mi avrebbe indotto a
usare l’EMDR solo come terapia aggiuntiva. Kathy, tuttavia, si rivelò una
“virtuosa” dell’EMDR, guarendo completamente dopo otto sedute:
nora, nella mia esperienza terapeutica con persone che hanno subito un
così grave trauma infantile, questo è, senz’altro, il tempo di cura più
breve. Le sedute risalgono a quindici anni fa. L’ho incontrata
recentemente perché mi ha chiesto un consulto sull’opportunità o meno
di adottare un terzo bambino: era una delizia. Appariva brillante,
divertente e coinvolta appieno nelle relazioni familiari e nel suo lavoro di
assistente universitario di Sviluppo infantile.
A questo punto, vorrei condividere i miei appunti sulla quarta seduta
EMDR di Kathy, non solo per mostrare ciò che classicamente accade in un
incontro, ma anche per evidenziare la mente umana in azione, durante
l’integrazione dell’esperienza traumatica. Non esistono scansioni cerebrali
o rating scale in grado di misurare quest’azione, e persino una
videoregistrazione riesce solo a far intravedere il modo in cui l’EMDR
libera il potere immaginativo della mente.
Kathy era seduta su una poltrona di fronte a me, con un’angolazione di
45°, più o meno a distanza di un metro. Le chiesi di portare alla mente un
ricordo particolarmente doloroso, incoraggiandola a porre attenzione ai
suoni, alle immagini, ai pensieri e alle sensazioni siche del ricordo (i miei
appunti non riportano il ricordo preciso, che credo non mi avesse riferito,
dato che non l’ho scritto).
Le chiesi se fosse “nel ricordo” e, dopo la sua risposta affermativa, le
domandai quanto fosse disturbante su una scala da zero a 10. Circa 9,
disse. A quel punto, la invitai a seguire il movimento delle mie dita con gli
occhi. Di tanto in tanto, dopo aver completato un set di circa 25
movimenti, dicevo: “Fai un respiro profondo”, seguito da “Cosa accade
ora?”, oppure “Cosa arriva alla mente ora?”, e Kathy mi riferiva i suoi
pensieri. A ogni cambiamento di tono di voce, espressione facciale,
movimento del corpo o tipo di respiro, indicante l’emergere di un tema
emotivamente signi cativo, dicevo “Notalo”, e riprendevo un altro set di
movimenti oculari, durante il quale non parlava. A parte queste poche
parole, anch’io rimasi in silenzio per tutti i 45 minuti.
Ecco l’associazione che Kathy riportò, dopo la prima sequenza di
movimenti oculari: “Mi accorgo di avere delle ferite, di quando mi ha
legato le mani dietro la schiena. L’altra ferita è di quando mi ha marchiata,
per rivendicarmi come sua, e ci sono [indica] i segni dei morsi”. Sembrava
sbalordita, ma sorprendentemente calma, quando disse: “Ricordo di
essere cosparsa di benzina – mi fece una foto con la Polaroid – e dopo ero
sommersa dall’acqua. Sono stata stuprata da mio padre e da due suoi
amici; ero legata a un tavolo; ricordo che mi stupravano con le bottiglie di
Budweiser”.
Il mio stomaco era serrato, ma non mi lasciavo andare a commenti, salvo
dire a Kathy di notare cosa stava accadendo. Dopo circa trenta movimenti
avanti e indietro, mi fermai poiché mi accorsi che stava sorridendo;
quando le chiesi cosa stesse pensando, mi rispose: “Mi sono vista a un
corso di karate: grandioso! Li ho presi veramente a calci nel culo! Li ho
visti indietreggiare e ho gridato: ‘non vedete che mi state facendo del
male? Non sono la vostra ragazza’”. Dissi allora: “Stai su questo” e ripresi
le sequenze di movimenti oculari. Alla ne, Kathy affermò: “Ho
l’immagine di due me: quella bambina furba e graziosa… e quella piccola
zoccola. Tutte queste donne, che non riescono a prendersi cura di se
stesse o di me o dei loro compagni, lasciandomi alla mercé di questi
uomini”. Cominciò a singhiozzare durante la sequenza successiva e,
quando ci fermammo, disse: “Ho visto quanto fossi piccola, la
brutalizzazione di quella bambina piccola. Non era colpa mia”. Feci
cenno di sì e dissi. “È proprio così. Stai su questo”. Dopo il set successivo,
Kathy disse: “Sto immaginando la mia vita ora, il mio me grande che
abbraccia il mio piccolo me e dice: ‘sei al sicuro ora’”. Annuii in modo
incoraggiante e continuai.
Le immagini continuavano ad af orare: “Ho delle immagini di una
ruspa meccanica, che demolisce la casa in cui sono cresciuta. È nita!”.
Dopodiché, proseguì su un binario differente: “Sto pensando a quanto mi
piace Jeffrey [un ragazzo di uno dei suoi corsi]. Sto pensando che
potrebbe non volere uscire con me. Sto pensando che non so gestire la
cosa. Non sono mai stata la ragazza di nessuno prima e non so come si
faccia”. Le chiesi cosa pensava fosse necessario sapere e cominciai la
sequenza successiva. “Ora c’è una persona che vuole solo stare con me, è
n troppo semplice. Non so proprio come essere me stessa con gli uomini.
Sono pietri cata”.
Non appena ricominciò a seguire le mie dita, Kathy si mise a
singhiozzare. Quando mi fermai, mi disse: “È emersa un’immagine di me
e di Jeffrey, seduti in una caffetteria. Mio padre si avvicina alla porta.
Inizia a gridare a gran voce mentre brandisce un’ascia, dice: ‘ti ho detto
che tu appartieni a me’. Mi mette sul tavolo e mi stupra e dopo stupra
Jeffrey”. A quel punto, il suo pianto si fa dirotto: “Come ci si può aprire a
qualcuno quando si hanno delle visioni di tuo padre che prima violenta te
e poi entrambi?”. Volevo confortarla, ma sapevo quanto fosse importante
continuare a far uire le sue associazioni. Le chiesi di concentrarsi su ciò
che sentiva nel corpo: “Lo sento nei miei avambracci, nelle mie spalle e
nel mio seno destro. Voglio solo essere protetta”. Continuammo l’EMDR
e, quando ci fermammo, Kathy sembrava rilassata: “Ho sentito Jeffrey
dire che va bene, che era stato mandato qui per prendersi cura di me. Che
io non ho fatto niente e che lui vuole stare con me per il mio bene”. Le
chiesi di nuovo cosa sentisse nel corpo: “Mi sento veramente in pace. Un
po’ barcollante, come quando si usano muscoli nuovi. Un po’ di sollievo.
Jeffrey sa già tutto questo. Mi sento viva e sento che è tutto nito. Ma ho
paura perché mio padre ha un’altra bambina piccola e questo mi rende
molto, molto triste. Voglio salvarla”.
Riprendendo la stimolazione, tuttavia, il trauma ritornò, insieme ad altri
pensieri e immagini: “Ho bisogno di vomitare… ho intrusioni di molti
odori – colonia di pessima qualità, alcol, vomito”. Pochi minuti dopo,
Kathy pianse: “Sento veramente mia madre qui, ora. Sembra che io voglia
perdonarla. Ho la sensazione che la stessa cosa sia accaduta a lei, si sta
scusando continuamente con me. Mi sta dicendo che è accaduto a lei, che
era stato mio nonno. Mi sta anche dicendo che mia nonna è molto
dispiaciuta per non essere stata lì a proteggermi”. Le chiesi di fare dei
respiri profondi e di stare su qualunque cosa stesse emergendo in quel
momento.
Con l’aiuto dell’EMDR, Kathy riuscì a integrare i ricordi del suo trauma
e a usare la sua immaginazione per scacciarli, arrivando a un senso di
completamento e di controllo. Ciò è avvenuto senza grosse sollecitazioni
da parte mia e senza alcuna discussione sui particolari della sua esperienza
(non ho mai sentito il bisogno di approfondire l’accuratezza dei ricordi, le
esperienze erano reali per lei, e il mio lavoro consisteva nell’aiutarla a
gestirle nel presente). Il processo aveva liberato qualcosa nella sua
mente/cervello, che favoriva l’attivazione di immagini, sentimenti e
pensieri nuovi; era come se la sua forza di vita emergesse, per darle nuove
possibilità progettuali per il futuro.5
Come abbiamo visto, i ricordi traumatici persistono sotto forma di
sentimenti, sensazioni e immagini dissociate, immodi cate. Per me la
caratteristica più rilevante dell’EMDR è la sua evidente capacità di
attivare una serie di sensazioni, emozioni, immagini e pensieri spontanei e
apparentemente non correlati, collegati con il ricordo originario. Questo
modo di riassemblare le vecchie informazioni in nuovi pacchetti può
corrispondere esattamente al modo in cui integriamo le esperienze
ordinarie, non traumatiche, giorno dopo giorno.

Esplorare i collegamenti con il sonno


Poco tempo dopo aver imparato l’EMDR, mi fu chiesto di parlare del mio
lavoro al laboratorio del sonno, diretto da Allan Hobson al Massachusetts
Mental Health Center. Hobson (insieme al suo professore, Michel Jouvet)6
era famoso per aver scoperto dove si generano i sogni nel cervello, e uno
dei suoi ricercatori assistenti, Robert Stickgold, aveva, subito dopo,
iniziato a esplorare la funzione dei sogni. Mostrai al gruppo una
videoregistrazione di una paziente, che aveva sofferto per tredici anni di
una grave forma di PTSD a seguito di un terribile incidente d’auto e che,
dopo solo due sedute di EMDR, si era trasformata, da vittima impotente e
angosciata, in una donna duciosa e assertiva. Bob ne era affascinato.
Poche settimane dopo, un’amica di famiglia di Stickgold divenne così
depressa, dopo la morte del suo gatto, da dover essere ospedalizzata. Lo
psichiatra tirocinante concluse che la morte del gatto avesse attivato un
ricordo irrisolto della madre della donna, quando aveva dodici anni, e la
mise in contatto con Roger Solomon, un formatore EMDR molto noto,
che la curò con successo. La donna chiamò Stickgold e disse: “Bob, devi
studiarlo. È veramente strano, ha a che fare con il cervello, non con la
mente”.
Subito dopo, fu pubblicato un articolo sulla rivista Dreaming, che
riportava come l’EMDR fosse correlato ai movimenti oculari rapidi del
sonno (REM), la fase del sonno in cui si sogna.7 La ricerca aveva già
dimostrato come il sonno, e il sonno onirico in particolare, giochi un
ruolo di grande importanza nella regolazione dell’umore. Come
puntualizzava l’articolo di Dreaming, gli occhi si muovono rapidamente
avanti e indietro durante il sonno REM, così come fanno nell’EMDR.
L’aumento del sonno REM riduce la depressione, mentre meno stiamo in
fase REM, più probabilità abbiamo di diventare depressi.8
Naturalmente, il PTSD è, come noto, associato con un sonno disturbato,
e il ricorso a modalità autocurative, come alcol e droghe, ostacola
ulteriormente il sonno REM. Quando lavoravo alla VA, i miei colleghi e io
avevamo osservato che, frequentemente, i veterani con PTSD si
svegliavano, subito dopo essere entrati in fase REM,9 probabilmente
perché avevano attivato un frammento del trauma durante un sogno.10
Altri ricercatori, d’altro canto, avevano notato questo fenomeno,
ritenendolo irrilevante per la comprensione del PTSD.11
Oggi sappiamo che sia il sonno profondo sia il sonno REM giocano un
ruolo importante nel modo in cui i nostri ricordi cambiano nel tempo. Il
cervello, durante il sonno, riforma il ricordo, aumentando la traccia
dell’informazione emotivamente rilevante, mentre agevola l’af evolirsi del
materiale irrilevante.12 Con una serie di studi particolarmente accurati,
Stickgold e i suoi colleghi mostrarono che il cervello, durante il sonno,
può dare senso a informazioni la cui rilevanza non è chiara mentre siamo
svegli, e integrarle in un più ampio sistema di memoria.13
I sogni continuano a rimettere in scena, a ricombinare, a reintegrare
pezzi di vecchi ricordi per mesi e, talvolta, per anni.14 Aggiornano
ininterrottamente la realtà sotterranea, che orienta l’attenzione della
mente sveglia. E, cosa forse più rilevante per l’EMDR, nel sonno REM
attiviamo associazioni più distanti rispetto sia alla fase non-REM sia al
normale stato di veglia. Per esempio, quando i pazienti vengono svegliati
durante il sonno non-REM e viene loro somministrato il test di
associazioni di parole, producono risposte standard: caldo/freddo,
duro/sof ce ecc. Svegliati durante il sonno REM, procedono ad
associazioni meno convenzionali, come ladro/sbagliato.15 Dopo il sonno
REM, risolvono, inoltre, semplici anagrammi in modo più agevole. Questo
cambiamento rispetto all’attivazione di associazioni distanti potrebbe
spiegare perché i sogni sono così bizzarri.16
Stickgold, Hobson e i loro colleghi, inoltre, hanno scoperto che i sogni
aiutano a forgiare nuove relazioni tra ricordi apparentemente non
correlati.17 Scorgere nuove connessioni è la caratteristica cardine della
creatività e, inoltre, come abbiamo visto, è essenziale per guarire.
L’incapacità di ricombinare le esperienze è, a sua volta, una delle
caratteristiche più impressionanti del PTSD. Mentre Noam, nel capitolo
4, riusciva a immaginare un trampolino per salvare le future vittime del
terrorismo, le persone traumatizzate sono intrappolate in associazioni
congelate: chiunque indossa un turbante cercherà di uccidermi, qualsiasi
uomo mi trovi attraente vorrà stuprarmi.
In ne, Stickgold evidenzia un chiaro collegamento tra l’EMDR e
l’elaborazione del ricordo nei sogni: “Se la stimolazione bilaterale
dell’EMDR può modi care lo stato cerebrale in una maniera simile a
quella vista durante il sonno REM, allora c’è una buona evidenza relativa
al fatto che l’EMDR possa sfruttare i processi sonno-dipendenti, bloccati
o inef caci in chi soffre di PTSD, per permettere un’elaborazione ef cace
del ricordo e la risoluzione del trauma”.18 L’istruzione di base dell’EMDR,
“Tieni a mente quell’immagine e guarda solo le mie dita che si muovono
avanti e indietro”, può veramente ben riprodurre cosa accade nel cervello
mentre si sogna. Quando questo libro andrà in stampa, Ruth Lanius e io
staremo studiando in che modo reagisce il cervello, sia che si ricordi un
evento traumatico sia che si ricordi un’esperienza ordinaria, ai movimenti
oculari saccadici, mentre i soggetti si trovano dentro uno scanner fMRI.
Restate sintonizzati.

Associazione e integrazione
Al contrario delle terapie espositive tradizionali, l’EMDR dedica
veramente poco tempo alla fase di “rivisitazione” del trauma originale. Il
trauma in sé è certamente il punto di partenza, ma il focus è sullo
stimolare e aprire i processi associativi. Come il nostro studio
Prozac/EMDR ha messo in evidenza, i farmaci possono af evolire le
immagini e le sensazioni di terrore, che, tuttavia, rimangono incorporate
nella mente e nel corpo. Al contrario dei soggetti che miglioravano con il
Prozac, i cui ricordi erano solamente indeboliti, non integrati come un
evento che è accaduto nel passato e che ora produce una forte ansia, quelli
trattati con l’EMDR non rivivevano più le tracce distintive del trauma: era
diventata la storia di un terribile evento, accaduto molto tempo prima.
Come mi ha detto uno dei miei pazienti, facendo un gesto sprezzante con
la mano: “È nita”.
Non sappiamo ancora in che modo funziona l’EMDR, e lo stesso vale
per il Prozac. Il Prozac ha un effetto sulla serotonina, ma è ancora da
chiarire se i suoi livelli si alzano o si abbassano e in quali cellule del
cervello, e perché ciò fa sì che le persone si sentano meno spaventate. Noi
probabilmente non sappiamo precisamente perché parlare con un amico
dato ci dia un profondo sollievo, e mi sorprendo del fatto che poche
persone siano interessate ad approfondire questa materia.19
I clinici hanno soltanto un obbligo: fare qualunque cosa possa aiutare i
loro pazienti a stare meglio. A fronte di ciò, la pratica clinica è sempre
stata un ricettacolo di sperimentazioni. Alcuni esperimenti falliscono, altri
hanno successo, e altri, come l’EMDR, la Terapia comportamentale
dialettica e la Terapia dei sistemi familiari interni, stanno cambiando il
modo di fare terapia. Per validare tutti questi trattamenti occorrono
decenni, e il processo è intralciato dal fatto che i nanziamenti di ricerca
vengano elargiti a metodi che hanno già dimostrato di funzionare. Ma mi
consola molto il pensiero della storia della penicillina: sono intercorsi
circa quarant’anni tra la scoperta delle sue proprietà antibiotiche da parte
di Alexander Fleming, nel 1928, e la dimostrazione nale dei suoi
meccanismi, nel 1965.

1. F. Shapiro, M.S. Forrest (1997), EMDR: una terapia innovativa per il superamento dell’ansia,
dello stress e dei disturbi di origine traumatica, tr. it. Astrolabio, Roma 1998.
2. B.A. van der Kolk, J. Spinazzola, M.E. Blaustein, J.W. Hopper, E.K. Hopper, D.L. Korn, W.B.
Simposon (2007), “A randomized clinical trial of Eye Movement Desensitization and Reprocessing
(EMDR), uoxetine, and pill placebo in the treatment of Post-traumatic Stress Disorder:
Treatment effects and long-term maintenance”, in Journal of Clinical Psychiatry, 68(1), pp. 37-46.
3. J.C. Carlson, C.M. Chetomb, K. Rusnak, N.L. Hedlund, M.Y. Muraoka (1998), “Eye Movement
Desensitization and Reprocessing (EDMR) treatment for combat-related Post-traumatic Stress
Disorder”, in Journal of Traumatic Stress, 11(1), pp. 3-24.
4. J.D. Payne, R. Propper, M.P. Walker, R. Stickgold (2006), “Sleep increases false recall of
semantically related words in the Deese-Roediger-McDermott Memory Task”, in Sleep, 29, p.
A373.
5. B.A. van der Kolk, C.P. Ducey (1989), “The psychological processing of traumatic experience:
Rorschach patterns in PTSD”, in Journal of Traumatic Stress, 2 (3), pp. 259-274.
6. M. Jouvet (1999), The Paradox of Sleep: The Story of Dreaming, MIT Press Cambridge, MA.
7. R. Greenwald (1995), “Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR): A new kind
of dreamwork?”, in Dreaming, 5(1), pp. 51-55.
8. R. Cartwright, E. Baher, J. Kirby, S.T. Pandi-Permural, J. Kabat (2003), “REM sleep reduction,
mood regulation and remission in untreated depression”, in Psychiatry Research, 121(2), pp. 159-
167. Vedi, inoltre, R. Cartwright, A. Luten, M. Young, P. Mercer, M. Bears (1998), “Role of REM
sleep and dream affect in overnight mood regulation: A study of normal volunteers”, in Psychiatry
Research, 81(1), pp. 1-8.
9. R. Greenberg, C.A. Pearlman, D. Gampel (1972), “War neuroses and the adaptive function of
REM sleep”, in British Journal of Medical Psychology, 45(1), pp. 27-33. Ramon Greenberg e
Chester Pearlman, così come il nostro laboratorio, trovarono che i veterani si svegliano non appena
entrano in fase REM. Molte persone traumatizzate fanno uso di alcol e di droga per riuscire a
dormire. Queste sostanze, tuttavia, impediscono loro di trarre pieno bene cio dai sogni
(l’integrazione e la trasformazione della memoria) e di guarire dal PTSD.
10. B.A. van der Kolk, R. Blitz, W. Burr, S. Sherry, E. Hartmann (1984), “Nightmares and trauma:
A comparison of nightmares after combat with lifelong nightmares in veterans”, in American
Journal of Psychiatry, 141(2), pp. 187-190.
11. N. Breslau, T. Roth, L. Rosenthal, P. Andreski (1996), “Sleep disturbance and psychiatric
disorders: A longitudinal epidemiological study of young adults”, in Biological Psychiatry, 39(6),
pp. 411-418.
12. R. Stickgold, L. Scott, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1999), “Sleep-induced changes in
associative memory”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 11(2), pp. 182-193. Vedi anche R.
Stickgold (2007), “Of sleep, memories and trauma”, in Nature Neuroscience, 10(5), pp. 540-542;
B.B. Rasch, C. Buchel, S. Gais, J. Born (2007), “Odor cues during slow-wave sleep prompt
declarative memory consolidation”, in Science, 315(5817), pp. 1426-1429.
13. E.J. Wamsley, M. Tucker, J.D. Payne, J.A. Benavides, R. Stickgold (2005), “Dreaming of a
learning task is associated with enhanced sleep-dependent memory consolidation”, in Current
Biology, 20(9), pp. 850-855.
14. R. Stickgold (2005), “Sleep-dependent memory consolidation”, in Nature, 437, pp. 1272-1278.
15. R. Stickgold, L. Scott, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1999), “Sleep-induced changes in
associative memory”, in Journal of Cognitive Neuroscience, 11(2), pp. 182-193.
16. J. Williams, J. Merritt, C. Rittenhouse, J.A. Hobson (1992), “Bizarreness in dreams and
fantasies: Implications for the activation-synthesis hypothesis”, in Consciousness and Cognition,
1(2), pp. 172-185.
17. M.P. Walker, C. Liston, J.A. Hobson, R. Stickgold (2002), “Cognitive exibility across the
sleep-wake cycle: REM-sleep enhancement of anagram problem solving”, in Cognitive Brain
Research, 14, pp. 317-324.
18. R. Stickgold (2002), “EMDR: A putative neurobiological mechanism of action”, in Journal of
Clinical Psychology, 58, pp. 61-75.
19. Ci sono numerosi studi su come i movimenti oculari facilitino l’elaborazione e la
trasformazione delle memorie traumatiche. M. Sack (2008), “Alterations in autonomic tone during
trauma exposure using Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) - Results of a
preliminary investigation”, in Journal of Anxiety Disorders, 22(7), pp. 1264-1271; L. Bossini, A.
Fagiolini, P. Castrogiovanni (2007), “Neuroanatomical changes after Eye Movement
Desensitization and Reprocessing (EMDR) treatment in Post-traumatic Stress Disorder”, in The
Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences, 19 (4), pp. 475-476; P. Levine, S. Lazrove,
B.A. van der Kolk (1999), “What psychological testing and neuroimaging tell us about the
treatment of Post-traumatic Stress Disorder by Eye Movement Desensitization and Reprocessing”,
in Journal of Anxiety Disorders, 13n (1-2), pp. 159-172; M.L. Harper, T. Rasolkhani Kalhorn, J.F.
Drozd (2009), “On the neural basis of EMDR therapy: Insights from QEEG studies”, in
Traumatology 15(2), pp. 81-95; K. Lansing, D.G. Amen, C. Hanks, L. Rudy (2005), “High
resolution brain SPECT imaging and Eye Movement Desensitization and Reprocessing in police
of cers with PTSD”, in The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences, 17(4), pp. 526-
532; T. Ohtani, K. Matsuo, K. Kasai, T. Kato, N. Kato (2009), “Hemodynamic responses of Eye
Movement Desensitization and Reprocessing in Post-traumatic Stress Disorder”, in Neuroscience
Research, 65(4), pp. 375-383; M. Pagani, G. Högberg, D. Salmaso, D. Nardo, Ö. Sundin, C.
Jonsson, T. Hällström (2007), “Effects of EMDR psychotherapy on 99mtc-HMPAO distribution in
occupation-related Post-Traumatic Stress Disorder”, in Nuclear Medicine Communications, 28, pp.
757-765; H.P. Söndergaard, U. Elofsson (2008), “Psychophysiological studies of EMDR”, in
Journal of EMDR Practice and Research, 2(4), pp. 282-288.
16

Imparare
ad abitare il proprio corpo
La pratica yoga

Appena cominciamo a ri-esperire una connessione viscerale con i bisogni


del nostro corpo, emerge una speci ca capacità nuova: quella di amarsi
con calore. Sperimentiamo una nuova autenticità nel prenderci cura di noi
stessi, che reindirizza la nostra attenzione alla nostra salute, alla nostra
dieta, alla nostra energia, alla nostra gestione del tempo. Questa maggiore
cura di sé nasce spontaneamente e naturalmente, non come una risposta a
un “dovrebbe”. Siamo in grado di sperimentare un piacere immediato e
intrinseco nella cura di noi stessi.
STEPHEN COPE, Yoga and the Quest for True Self

La prima volta che vidi Annie, era sprofondata su una sedia nella mia sala
d’aspetto, indossava jeans sbiaditi e una t-shirt viola di Jimmy Cliff. Le sue
gambe tremavano visibilmente e mantenne lo sguardo sso sul pavimento,
anche dopo il mio invito a entrare. Avevo pochissime informazioni su di
lei: aveva quarantasette anni e insegnava a bambini con bisogni speciali. Il
suo corpo comunicava in modo evidente che era troppo terrorizzata per
impegnarsi in una conversazione – o anche per fornire alcune
informazioni di base, come il suo indirizzo o il suo piano assicurativo. Le
persone così spaventate non riescono a pensare in modo lineare e qualsiasi
richiesta venga fatta loro, provoca un’ulteriore chiusura. Se mostriamo un
atteggiamento insistente, il rischio è che queste persone scappino e che
non si facciano più vedere.
Dopo essersi trascinata nel mio studio, Annie se ne stava in piedi,
respirando a fatica: sembrava un uccello congelato. Sapevo che non
avremmo potuto fare nulla nché non fossi riuscito ad aiutarla a calmarsi.
Mi spostai a due metri di distanza da lei e, assicurandomi che avesse libero
accesso alla porta, la incoraggiai a fare dei respiri leggermente più
profondi. Respiravo con lei e le chiesi di seguire il mio esempio,
sollevando delicatamente le braccia dai miei anchi, mentre lei inspirava,
e abbassandole, quando lei espirava: una tecnica di qigong, insegnatami
da uno dei miei studenti cinesi. Seguiva i miei movimenti di sottecchi, con
gli occhi sempre ssi sul pavimento e trascorremmo, in questo modo,
circa mezz’ora. Di tanto in tanto, con tranquillità, le chiedevo di prestare
attenzione a come sentiva i piedi sul pavimento, notando l’espansione e la
contrazione del suo petto, a ogni respiro. Il suo respiro si fece, pian piano,
più lento e profondo, il suo viso si addolcì, la schiena si raddrizzò un po’ e
riuscì a sollevare lo sguardo, più o meno al livello del mio pomo d’Adamo.
Si cominciava a intravedere la persona che si nascondeva dietro quel
terrore travolgente. Alla ne, più rilassata, mi mostrò il barlume di un
sorriso, una sorta di riconoscimento del fatto che occupassimo entrambi
quella stanza. Le suggerii di fermarci lì, almeno per il momento – le avevo
già fatto troppe richieste – e le chiesi se volesse tornare una settimana più
tardi. Annuì, borbottando: “Sei piuttosto bizzarro”.
Dopo aver conosciuto meglio Annie, cominciai a dedurre, in base agli
appunti che aveva scritto e ai disegni che mi aveva dato, che, da bambina
molto piccola, fosse stata abusata in modo brutale, sia dal padre sia dalla
madre. L’intera storia veniva raccontata con gradualità, poiché Annie
aveva imparato a rievocare lentamente alcune delle cose che le erano
accadute, senza che il suo corpo fosse dirottato verso un’ansia
incontrollabile.
Appresi che Annie era straordinariamente preparata e attenta nel suo
lavoro con i bambini con bisogni speciali (testai alcune delle tecniche che
mi aveva spiegato sui bambini del nostro ambulatorio e si rivelarono
estremamente ef caci). Parlava liberamente dei bambini cui insegnava, ma
si interrompeva immediatamente appena si toccava l’argomento delle sue
relazioni con gli adulti. Sapevo che era sposata, ma raramente faceva
menzione del marito. Reagiva, spesso, ai disaccordi o agli scontri
azzerando la mente. Ricorreva ai tagli sulle braccia e sul petto, per gestire
il vissuto di essere travolta dalle emozioni. Aveva trascorso anni in terapie
di vario genere e aveva provato molti farmaci diversi, che si erano
dimostrati poco ef caci nella cura delle sensazioni generate da un passato
terribile. Aveva subito anche numerosi ricoveri in ospedali psichiatrici, a
fronte delle condotte autolesive, senza bene ci visibili.
Nelle nostre prime sedute di terapia, dato che Annie poteva solo
accennare a quello che stava provando e pensando prima di chiudersi e
raggelarsi, ci concentravamo su modalità atte a calmare il caos siologico
interno. Abbiamo utilizzato tutte le tecniche che avevo imparato nel corso
degli anni, come il respirare focalizzando l’attenzione sull’espirazione, in
modo da attivare il sistema nervoso parasimpatico, che produce
rilassamento. Le insegnai anche come premere con le dita su una sequenza
di punti di agopressione su varie parti del suo corpo, una pratica spesso
insegnata con il nome di EFT (Emotional Freedom Technique), che si era
rivelata utile per aiutare i pazienti a rimanere all’interno della nestra di
tolleranza e che, spesso, aveva avuto effetti positivi sui sintomi del PTSD.1

L’eredità di uno shock inevitabile


Poiché ora siamo in grado di identi care i circuiti cerebrali coinvolti nel
sistema di allarme, sappiamo, più o meno, cosa stesse accadendo nel
cervello di Annie, mentre se ne stava seduta, quel primo giorno, nella mia
sala d’aspetto: il suo rilevatore di fumo, la sua amigdala, riconvertita a
interpretare situazioni sicure come segni premonitori di pericoli di morte,
stava inviando segnali urgenti al suo cervello “di sopravvivenza”
(rettiliano), af nché combattesse, si congelasse, o fuggisse. Annie metteva
in atto tutte queste reazioni in contemporanea, rivelandosi visibilmente
agitata e mentalmente immobile.
Come abbiamo visto, sistemi di allarme danneggiati si manifestano in
diversi modi: se il rilevatore di fumo non funziona, non ci si può dare
dell’accuratezza di ciò che si percepisce. Per esempio, una volta stabilito
un buon contatto con me, Annie iniziò ad attendere con impazienza i
nostri incontri successivi, pur arrivando nel mio studio in uno stato di
forte panico. Un giorno, ebbe un ashback della sua eccitazione all’idea
che suo padre arrivasse a casa presto, ma anche del fatto che, in seguito,
quella sera stessa, era stata molestata. Per la prima volta, Annie si rese
conto che la sua mente associava automaticamente l’entusiasmo del vedere
qualcuno che amava al terrore di essere molestata.
I bambini piccoli sono particolarmente abili nel suddividere l’esperienza
in compartimenti: in tal senso, il naturale amore di Annie per il padre e il
terrore delle sue aggressioni erano collocati in stati di coscienza separati.
Da adulta, Annie incolpava se stessa per l’abuso subito, perché credeva
che la bambina amorevole e vivace ne avesse dato il permesso al padre,
come se avesse lei stessa provocato le molestie.
La sua mente razionale le diceva che tutto ciò non aveva senso, ma
questa convinzione scaturiva dal profondo delle sue emozioni, dal cervello
di “sopravvivenza”, dal cablaggio di base del suo sistema limbico. Non
sarebbe cambiato nulla, nché non si fosse sentita abbastanza sicura,
all’interno del suo corpo, da tornare a rivivere quella esperienza in
mindfulness, avendo la possibilità di appurare come si fosse sentita e di
cosa avesse fatto, in realtà, quella bambina piccola, durante l’abuso.

L’ottundimento interno
Il ricordo dell’impotenza può essere immagazzinato sotto forma di
tensione muscolare o di sensazioni di frammentazione delle zone corporee
coinvolte: la testa, la schiena e gli arti nelle vittime di incidenti, la vagina e
il retto nelle vittime di abusi sessuali. Le vite di molti sopravvissuti al
trauma iniziano a ruotare attorno al trattenere e al neutralizzare
esperienze sensoriali indesiderate: molte persone che ho incontrato nella
mia pratica clinica si sono trasformate in veri e propri esperti dello
stordimento di se stessi.
Queste persone possono diventare gravemente obese o anoressiche, o
dipendenti dall’esercizio sico o dal lavoro. Almeno la metà delle persone
traumatizzate cerca di offuscare il proprio mondo interno intollerabile con
droghe o alcol. L’altra faccia del numbing è la ricerca di emozioni forti.
Molte persone si tagliano per eliminare la sensazione di essere obnubilate,
mentre altre provano il bungee jumping o attività ad alto rischio, come la
prostituzione e il gioco d’azzardo. Ognuno di questi metodi può dare un
illusorio e paradossale senso di controllo.
Quando le persone sono cronicamente arrabbiate o spaventate, la
tensione muscolare costante, alla ne, porta a spasmi, mal di schiena,
emicrania, bromialgia e altre forme di dolore cronico. Queste persone
possono farsi visitare da più specialisti, sottoporsi a numerosi test
diagnostici e farsi prescrivere molti farmaci, alcuni dei quali portano a un
sollievo temporaneo, ma tutto ciò non riesce a risolvere il problema di
fondo. La diagnosi inizierà a de nire la loro realtà, senza che venga mai
identi cata come un sintomo del tentativo di far fronte al trauma subito.
I primi due anni della mia terapia con Annie sono serviti ad aiutarla a
imparare a tollerare le sue sensazioni siche per quello che erano: solo
sensazioni nel presente, con un inizio, una parte centrale e una ne.
Lavorammo insieme af nché riuscisse a stare suf cientemente calma da
poter prestare attenzione a ciò che sentiva, in modo non giudicante,
arrivando a identi care le immagini intrusive e i vissuti correlati come
residui di un passato terribile e non come minacce senza ne alla sua vita
odierna.
I pazienti come Annie ci inducono continuamente a trovare nuovi modi
per aiutarli a regolare l’attivazione e a controllare la loro siologia. Questo
è il motivo per cui i miei colleghi del Trauma center e io ci siamo orientati
sulle pratiche yoga.

Trovare il nostro metodo di yoga:


la regolazione dal basso verso l’alto
Il nostro interesse per lo yoga iniziò nel 1998, essendo venuti a
conoscenza, Jim Hopper e io, di un nuovo marcatore biologico: la
variabilità della frequenza cardiaca (HRV), che di recente si è scoperto
essere un buon indicatore del funzionamento del sistema nervoso
autonomo. Come ricorderete dal capitolo 5, il Sistema nervoso autonomo
è il sistema di sopravvivenza più semplice del nostro cervello: i suoi due
rami regolano l’attivazione in tutto il corpo. In parole povere, il Sistema
nervoso simpatico (SNS) usa sostanze chimiche, come l’adrenalina, per
fornire carburante al corpo e al cervello e per innescare le azioni, mentre il
Sistema nervoso parasimpatico (SNP) usa l’acetilcolina per la regolazione
delle funzioni di base del corpo, come digerire, guarire da una ferita e
organizzare i cicli di sonno-veglia. Quando stiamo bene, questi due sistemi
lavorano in stretta connessione per mantenerci in uno stato ottimale di
connessione con il nostro ambiente e con noi stessi.
La variabilità della frequenza cardiaca misura l’equilibrio tra i sistemi
simpatico e parasimpatico. Quando inspiriamo, stimoliamo il SNS e ciò si
traduce in un aumento della frequenza cardiaca. L’espirazione stimola il
SNP, che diminuisce la velocità del battito cardiaco. Negli individui sani,
inspirazioni ed espirazioni costanti producono costanti uttuazioni
ritmiche del ritmo cardiaco: la buona variabilità della frequenza cardiaca è
una misura del benessere di base.
Perché la variabilità della frequenza cardiaca è così importante? Quando
il nostro sistema nervoso autonomo è ben equilibrato, godiamo di un
ragionevole livello di controllo sulla nostra risposta a frustrazioni, a
delusioni minime o a circostanze in cui ci sentiamo insultati o trascurati,
accedendo a una condizione da cui possiamo valutare con calma cosa ci
sta succedendo. Un’ef cace modulazione dell’arousal ci permette di
controllare i nostri impulsi e le nostre emozioni: nché riusciamo a
mantenere la calma, possiamo scegliere la nostra modalità di risposta. Gli
individui con una scarsa capacità di regolare il Sistema nervoso autonomo
vanno facilmente in un assetto fuori controllo, sia mentalmente sia
sicamente. Dal momento che il Sistema nervoso autonomo organizza
l’attivazione sia del corpo sia del cervello, una bassa HRV – vale a dire, la
mancanza di uttuazione della frequenza cardiaca in risposta alla
respirazione – non solo ha effetti negativi sui pensieri e sui sentimenti, ma
anche sul modo in cui il corpo risponde allo stress. La mancanza di
coerenza tra respirazione e frequenza cardiaca rende le persone
suscettibili di contrarre una grande quantità di malattie siche, quali
malattie cardiache e cancro, e mentali, come la depressione e il PTSD.2
Per approfondire ulteriormente quest’aspetto, acquistammo una
macchina per misurare l’HRV e iniziammo a mettere fasce in grado di
registrare la profondità e il ritmo della respirazione, attorno al petto dei
partecipanti alla ricerca con e senza PTSD, mentre piccoli monitor,
collegati ai lobi delle loro orecchie, ne registravano le pulsazioni. Dopo
aver testato circa sessanta soggetti, si evidenziava in modo chiaro la
presenza di una HRV insolitamente bassa in soggetti con PTSD. In altre
parole, nei soggetti con PTSD il Sistema nervoso simpatico e quello
parasimpatico non sono in sincronia.3 Tutto ciò implicava una nuova
svolta nella complicata storia del trauma: si confermava il
malfunzionamento di un altro sistema di regolazione cerebrale.4 Fallimenti
nel mantenimento in equilibrio di questo sistema spiegano il motivo per
cui le persone traumatizzate come Annie sono così portate a rispondere in
modo esagerato a sollecitazioni di scarsa intensità: i sistemi biologici, che
hanno lo scopo di aiutarci a fronteggiare l’imprevedibilità della vita, si
dimostrano, in ciò, fallaci.
A questo punto, sorgeva un’ulteriore domanda empirica: c’è modo di
migliorare l’HRV? Avevo un incentivo personale per approfondire questa
domanda: scoprii che la mia stessa HRV non era abbastanza stabile da
garantirmi una salute sica a lungo termine. Trovai degli studi su Internet
che dimostravano che la maratona aumenta notevolmente l’HRV.
Purtroppo, questa informazione non si rivelava granché utile, dal
momento che né io né i nostri pazienti potevamo considerarci dei buoni
candidati per la maratona di Boston.
Google elencò anche diciassettemila siti yoga nei quali si sosteneva che
lo yoga migliorasse l’HRV, ma non si riuscì a trovare nessuno studio di
supporto. Lo yoga ha sviluppato un metodo meraviglioso per aiutare le
persone a trovare l’equilibrio interno e la salute, ma, nel 1998, non era
stato fatto molto lavoro sulla valutazione del suo apporto agli strumenti
della tradizione medica occidentale.
Da allora, tuttavia, i metodi scienti ci hanno cominciato a dimostrare
che la modi cazione del modo in cui si respira migliora la regolazione
della rabbia e aiuta a gestire la depressione e l’ansia5 e che lo yoga può
avere un effetto bene co su una grande varietà di problemi medici, come
l’ipertensione, l’elevata secrezione di ormone dello stress,6 l’asma e il mal
di schiena.7 Tuttavia, nessuna rivista psichiatrica aveva pubblicato delle
ricerche sull’uso dello yoga con i pazienti con PTSD, almeno no al
nostro lavoro del 2014.8
Dopo qualche giorno dalla comparsa dei nostri risultati su Internet,
David Emerson, un insegnante di yoga alto e dinoccolato, arrivò al
Trauma Center. Ci comunicò di aver sviluppato una variante di hatha yoga
appositamente studiata per il PTSD e di avere tenuto dei corsi per
veterani in un centro locale e presso il Boston Area Rape Crisis Center,
lavorando con donne violentate. Eravamo interessati a lavorare con lui?
Ebbene, la visita di Dave si trasformò in un programma di yoga molto
stimolante e, a tempo debito, il National Institutes of Health ci
sovvenzionò una ricerca per studiare gli effetti dello yoga sul PTSD. Il
lavoro di Dave contribuì anche al miglioramento della mia pratica yoga e
mi aiutò a diventare un docente a Kripalu, un centro yoga sulle montagne
del Berkshire, nel Massachusetts occidentale (durante questo percorso, la
mia HRV migliorò).
Con la scelta di esplorare lo yoga per migliorare l’HRV, ci stavamo
dirigendo verso un approccio più ampio al problema. Avremmo potuto,
infatti, acquistare semplicemente un qualsiasi dispositivo, anche a un
prezzo ragionevole, per addestrare le persone a rallentare la loro
respirazione e a sincronizzarla con il battito cardiaco, producendo uno
stato di “coerenza cardiaca” , come rappresentato dal modello mostrato
nella prima illustrazione di cui sopra:9 oggi ci sono una varietà di
applicazioni che possono contribuire a migliorare l’HRV con l’aiuto di
uno smartphone.10 Nel nostro ambulatorio, sono disponibili delle
postazioni dove i pazienti possono allenare la loro HRV e sollecito tutti i
pazienti che, per un motivo o un altro, non possono praticare lo yoga, le
arti marziali o il qigong, a esercitarsi a casa (per saperne di più, si consulti
il paragafo Risorse).
Esplorare lo yoga
La nostra decisione di studiare yoga ci condusse alle radici dell’impatto
del trauma sul corpo. I corsi sperimentali si tenevano in una stanza,
generosamente prestataci da uno studio vicino. David Emerson e le sue
colleghe, Dana Moore e Jodi Carey, si offrirono come istruttori volontari,
e il mio gruppo di ricerca trovò il modo di misurare meglio gli effetti dello
yoga sul funzionamento psicologico. Dopo un battage pubblicitario dei
nostri corsi, con volantini distribuiti al supermercato e nelle lavanderie,
intervistammo una dozzina di persone che ci avevano contattato. Alla ne,
avevamo selezionato trentasette donne con gravi storie traumatiche, che
erano state per parecchi anni in terapia, senza trarne molti bene ci. Metà
delle volontarie vennero inserite a caso nel gruppo yoga, mentre l’altra
metà avrebbe seguito un trattamento psicologico consolidato, la Terapia
dialettico-comportamentale (DBT), che insegna come usare la
mindfulness per raggiungere stati di calma e di controllo. E, in ne, un
ingegnere del MIT mise a punto un so sticato computer, in grado di
misurare simultaneamente l’HRV di otto persone (il gruppo di studio
includeva più corsi, ciascuno con un numero massimo di otto
partecipanti). Se, da una parte, lo yoga migliorava signi cativamente sia i
sintomi di attivazione del PTSD sia la relazione con il proprio corpo
(“Ora mi prendo cura del mio corpo”, “Ascolto quello di cui il mio corpo
ha bisogno”), dall’altra, otto settimane di DBT non erano suf cienti a
modi care né i livelli di arousal né i sintomi PTSD. Così, il nostro
interesse per lo yoga, gradualmente, cominciò ad ampliarsi e a includere
non solo la veri ca della sua ef cacia in termini di modi ca dell’HRV
(cosa che, in effetti, produce),11 ma anche la possibilità di permettere alle
persone traumatizzate di imparare ad abitare, in modo confortevole, i loro
corpi torturati.
In seguito, abbiamo messo a punto anche un programma di yoga per
marines a Camp Lejeune, collaborando, con successo, con vari altri
programmi per l’attuazione di corsi di yoga per i veterani con PTSD.
Anche se non disponiamo di dati di ricerca, sembra che per i veterani lo
yoga sia stato altrettanto ef cace che per le donne della nostra ricerca.
Tutti i programmi dei corsi di yoga comprendono una combinazione di
pratiche di respirazione (pranayama), allungamenti o posizioni (asana) e
meditazione. Le diverse scuole di yoga si contraddistinguono per l’enfasi
che pongono sull’intensità e sull’importanza che attribuiscono a queste
componenti di base. Per esempio, variazioni di velocità e di profondità
nella respirazione, nell’uso della bocca, delle narici e della gola producono
risultati diversi, e alcune tecniche hanno potenti effetti sull’energia.12 Nei
nostri corsi, utilizziamo un approccio semplice. Molti dei nostri pazienti
sono a malapena consapevoli del loro respiro, e così il fatto di imparare a
concentrarsi su inspirazione ed espirazione, per notare se la respirazione è
veloce o lenta e contare quanti respiri si fanno in certe posizioni, può
costituire, di per sé, una conquista importante.13
Pian piano, inseriamo una serie limitata di posizioni classiche. Non è
importante arrivare a fare le asana nel modo giusto, ma far sì che i
partecipanti riescano a osservare attentamente quali muscoli sono attivi in
momenti distinti. Le sequenze sono progettate per creare un ritmo tra
tensione e rilassamento, qualcosa che speriamo i pazienti impareranno a
percepire nella loro vita, giorno dopo giorno.
Non insegniamo la meditazione in quanto tale, ma favoriamo la
mindfulness, incoraggiando gli allievi a prendere consapevolezza di cosa
sta accadendo alle diverse parti del corpo, a seconda delle posizioni. Le
nostre ricerche continuano a dimostrare quanto sia dif cile, per le persone
traumatizzate, sentirsi completamente rilassate e sicamente al sicuro nel
loro corpo. Misuriamo l’HRV dei soggetti, collocando piccoli monitor
sulle loro braccia durante lo shavasana (posizione del cadavere), postura
nale nella maggior parte dei corsi, durante la quale i praticanti si trovano
a faccia in su, palmi rivolti verso l’alto, braccia e gambe rilassati.
Valutavamo, per avere un segnale chiaro, l’eccessiva attività muscolare,
anziché il rilassamento: invece di entrare in uno stato di riposo tranquillo,
i muscoli dei nostri allievi continuavano, spesso, a prepararsi a combattere
nemici invisibili. È molto importante, nel processo di cura del trauma, la
capacità di raggiungere uno stato di totale rilassamento e di abbandono
sicuro.

Imparare l’autoregolazione
Dopo il successo dei nostri studi pilota, mettemmo a punto un
programma terapeutico di yoga presso il Trauma Center. Pensavo potesse
essere un’opportunità per Annie, così da sviluppare una maggiore
attenzione al suo corpo, e la spinsi a provare. La prima lezione si era
rivelata dif cile: il solo fatto di essere stata corretta dall’istruttore l’aveva
terrorizzata, tanto da tagliarsi, una volta arrivata a casa: il suo sistema di
allarme interpretava come un’aggressione anche un tocco leggero sulla sua
schiena. Al tempo stesso, Annie intuiva che lo yoga le avrebbe potuto
offrire un modo per liberarsi dal costante senso di pericolo che sentiva nel
corpo. Con il mio incoraggiamento, decise di tornare la settimana
successiva.
Annie aveva sempre trovato più facile scrivere delle sue esperienze,
piuttosto che parlarne. Dopo la sua seconda lezione di yoga, mi scrisse:
“Non so bene perché lo yoga mi terrorizzi così tanto, ma so che sarà una
incredibile risorsa per la mia guarigione e questo è il motivo per cui sto
lavorando su me stessa, per provarci ancora. Lo yoga è un guardare verso
l’interno anziché verso l’esterno, ascoltando il mio corpo; molta della mia
sopravvivenza, nora, si è costruita intorno all’evitare questa cosa.
Andando a lezione, oggi, il mio cuore scoppiava e una parte di me
avrebbe davvero voluto tornare indietro, ma ho messo un piede davanti
all’altro, no alla porta, e sono entrata. Dopo la lezione, sono andata a
casa e ho dormito per quattro ore. Questa settimana ho provato a fare
yoga a casa e le parole che mi sono venute sono: ‘il tuo corpo ha qualcosa
da dire’ e mi sono risposta: ‘proverò ad ascoltarlo’”.
Pochi giorni dopo, Annie scrisse: “Alcune ri essioni durante e dopo la
lezione yoga di oggi: mi ha fatto capire quanto devo essere scollegata dal
mio corpo, mentre mi taglio; mentre eseguivo le posizioni, ho notato di
avere la mascella serrata e di sentirmi chiusa e tesa in tutta l’area che va
dall’inguine all’ombelico, che è anche il luogo in cui trattengo il dolore e i
ricordi. Talvolta, mi hai chiesto dove sentissi le cose e io non ero
nemmeno in grado di localizzarle, ma oggi ho percepito quelle zone molto
chiaramente e mi è venuta voglia di piangere, in modo molto calmo”.
Durante il mese successivo di vacanza, Annie, su mia richiesta, mi scrisse
ancora: “Ho fatto yoga, da sola, in una stanza che si affaccia sul lago. Sto
continuando a leggere il libro che mi hai prestato (di Stephen Cope, il
meraviglioso Yoga and the Quest of True Self). È davvero interessante
pensare a quanto io abbia ri utato di ascoltare il mio corpo, che è una
parte importante di ciò che sono. Ieri, quando ho fatto yoga, ho pensato
di lasciare che il mio corpo mi raccontasse la storia che voleva raccontare
e, nella posizione dell’apertura dell’anca, c’erano molto dolore e tristezza.
Non credo che la mia mente lascerà che emergano immagini davvero
vivide nché sono lontana da casa, e questo è un bene. Ora penso a
quanto non fossi equilibrata e a quanto fortemente io abbia provato a
negare il passato, che è parte del mio vero sé. Ci sono tante cose che posso
imparare e, se mi apro a esse, non dovrò lottare contro me stessa ogni
minuto di ogni giorno”.
Una delle posizioni yoga più dif cili da tollerare per Annie era quella
spesso chiamata happy baby (corrisponde a ananda balasana), nella quale
ci si sdraia sulla schiena con le ginocchia completamente piegate, con le
piante dei piedi rivolte al sof tto, e si afferrano gli alluci con le mani.
Questo porta il bacino ad aprirsi ampiamente. È facile capire perché
questa posizione possa far sentire estremamente vulnerabile una vittima di
stupro. Ancora, ntanto che happy baby (o qualsiasi asana che le
assomigli) innesca un panico intenso, è dif cile vivere l’intimità. Imparare
a praticare in tranquillità happy baby è una s da per molti pazienti nelle
nostre lezioni di yoga.

Conoscere se stessi: coltivare l’interocezione


Uno degli insegnamenti più chiari delle neuroscienze contemporanee è
che il senso di noi stessi è ancorato, in una connessione vitale, ai nostri
corpi.14 Non conosciamo veramente noi stessi se non siamo in grado di
sentire e dare un senso alle nostre sensazioni siche; abbiamo bisogno di
rilevare e di agire in base a queste sensazioni, per navigare in modo sicuro
attraverso la vita.15 Se l’ottundimento (o la compensativa ricerca di
emozioni) può rendere la vita tollerabile, il risvolto della medaglia è la
perdita della consapevolezza di ciò che succede dentro il nostro corpo e,
con questo, del senso di esserci pienamente, carnalmente vivi.
Nel capitolo 6 ho parlato di alessitimia, il termine tecnico che indica il
non essere in grado di identi care ciò che sta accadendo al nostro
interno.16 Le persone che soffrono di alessitimia tendono a sentirsi
sicamente a disagio, ma non riescono a descrivere esattamente quale sia il
problema. Di conseguenza, lamentano spesso una serie di disturbi sici,
vaghi e dolorosi, che i medici non sono in grado di diagnosticare. Inoltre,
non riescono a capire da soli quello che stanno realmente sentendo in una
determinata situazione o cosa li faccia sentire meglio o peggio. È l’esito
dell’obnubilamento: impedisce di anticipare e di rispondere alle normali
richieste del corpo in un modo calmo e consapevole; al tempo stesso,
attenua i piaceri sensoriali di esperienze quotidiane che danno valore alla
vita, come ascoltare musica, il tatto, la luce. Lo yoga è un modo fantastico
per (ri)conquistare una relazione con il mondo interiore e, con esso, una
relazione di cura amorevole e sensuale del sé.
Se non si è consapevoli dei bisogni del corpo, non si può prendersene
cura. Se non si sente la fame, non ci si può nutrire; se si scambia l’ansia
per fame, si può mangiare troppo; e se non ci si sente sazi, si continua a
mangiare. Questo è il motivo per cui coltivare la consapevolezza sensoriale
è un aspetto così importante nella cura del trauma. La maggior parte delle
terapie tradizionali minimizza o ignora i cambiamenti che avvengono,
momento per momento, nel nostro mondo sensoriale interiore, ma questi
cambiamenti portano con sé l’essenza delle risposte dell’organismo: gli
stati emotivi sono impressi nel pro lo chimico del corpo, nelle viscere,
nella contrazione dei muscoli striati del viso, del collo, del tronco e degli
arti.17 Le persone traumatizzate hanno bisogno di imparare che possono
tollerare le loro sensazioni, di “farsi amiche” le esperienze interne e di
esercitare nuovi modelli di azione.
Nello yoga, si concentra l’attenzione sulla respirazione e sulle sensazioni,
momento per momento. Si inizia a notare la connessione tra le emozioni e
il corpo: per esempio, come l’ansia di fare una posizione yoga, in realtà,
faccia perdere l’equilibrio. Si comincia a sperimentare il cambiamento del
modo di sentire. Fare un respiro profondo allevia la tensione alle spalle?
Concentrarsi sul respiro produce un senso di calma?18
Il semplice notare cosa si sente esercita la regolazione emotiva e
impedisce di ignorare ciò che accade dentro di sé. Come dico spesso ai
miei studenti, le due frasi più importanti della terapia e, al contempo,
dello yoga, sono “Nota…” e “Che cosa succede dopo?”. Ogni volta che ci
si avvicina al proprio corpo con curiosità, piuttosto che con paura, si
compie un cambiamento.
La consapevolezza del corpo cambia anche il senso del tempo. Il trauma
fa sentire come se si fosse bloccati, per sempre, in uno stato di orrore e
impotenza. Nello yoga, si impara che le sensazioni aumentano, no a
raggiungere un picco, e poi decrescono. Per esempio, se un istruttore ci
propone una posizione particolarmente dif cile, si può sentire, in un
primo momento, un senso di scon tta o di resistenza, anticipatorio del
senso di incapacità a tollerare le sensazioni generate da quella particolare
posizione. Un buon insegnante di yoga incoraggerà, semplicemente, a
notare una qualsiasi tensione, sincronizzando ciò che si sente con il usso
del respiro: “Terremo questa posizione per dieci respiri”. Ciò facilita la
previsione della ne della situazione di disagio e rafforza la capacità di
affrontare lo stress sico ed emotivo. Essere consapevoli della transitorietà
delle esperienze muta il punto di vista su se stessi.
Questo non signi ca che il recupero della capacità di reagire agli stimoli
interni non possa provocare effetti potenzialmente sconvolgenti. Cosa
succede quando il contatto da poco stabilito con la sensazione al petto
suscita un vissuto di rabbia, paura o ansia? Nella prima ricerca sullo yoga,
abbiamo registrato un tasso di abbandono del 50%, il tasso più alto di
qualsiasi altro studio che avessimo mai fatto. I pazienti, che avevano
abbandonato il corso, rispondendo alle interviste, ci avevano riferito di
aver trovato il programma troppo intenso: ogni postura che coinvolge il
bacino può provocare una forte sensazione di panico o anche ashback di
aggressioni sessuali. Sensazioni siche intense scatenano i fantasmi del
passato, così accuratamente tenuti sotto controllo dall’ottundimento e
dalla distrazione. Da tutto ciò, abbiamo appreso a procedere lentamente,
spesso a passo di lumaca, ottenendo dei risultati decisamente migliori: nel
nostro studio più recente, solo un partecipante su trentaquattro non è
arrivato alla ne.

Lo yoga e la neuroscienza della consapevolezza di sé


Nel corso degli ultimi anni, i ricercatori che studiano il cervello, come i
miei colleghi Sara Lazar e Britta Hölzel di Harvard, hanno dimostrato che
la meditazione intensiva ha un effetto positivo proprio in quelle aree
cerebrali che sono essenziali per l’autoregolazione siologica.19
Nel nostro ultimo studio sullo yoga, in sei donne con storie di grave
trauma precoce abbiamo anche trovato le prime prove del fatto che venti
settimane di pratica yoga incrementano l’attivazione del sistema di base,
dell’insula e della corteccia prefrontale mediale (vedi capitolo 6). Questa
ricerca necessita di essere approfondita, ma apre nuove prospettive su
come le azioni che coinvolgono l’attenzione mirata e la familiarità con le
sensazioni del nostro corpo possano produrre profondi cambiamenti sia
nella mente sia nel cervello, aprendo la strada alla guarigione dal trauma.
Alla ne di ciascuna delle nostre ricerche sullo yoga, chiediamo ai
partecipanti quale effetto abbiano avuto le lezioni su di loro. Non
abbiamo mai parlato dell’insula o della sensibilità alle sensazioni
provenienti dall’interno del corpo; riduciamo al minimo discorsi e
spiegazioni, in modo che possano portare la loro attenzione all’interno:
Ecco uno stralcio delle loro risposte:
– “Sento le mie emozioni più potenti. Forse è solo perché, adesso, posso
riconoscerle”.
– “Posso esprimere maggiormente i miei sentimenti perché li riconosco di
più. Li sento nel mio corpo, li riconosco e li indirizzo”.
– “Ora vedo più scelte, più percorsi. Posso decidere e posso scegliere la
mia vita, non devo viverla sempre allo stesso modo o come se fossi
ancora una bambina”.
– “Sono riuscita a muovere il mio corpo e a stare nel mio corpo, come se
fosse un luogo sicuro, senza fare del male a me o a qualcun altro”.

Imparare a comunicare
Sentirsi al sicuro nel proprio corpo permette di iniziare a mettere in
parole i ricordi dolorosi. Dopo aver praticato yoga tre volte alla settimana
per un anno, Annie cominciava a notare di riuscire a parlarmi molto più
liberamente di ciò che le era accaduto: sentiva tutto questo come se fosse
un miracolo. Un giorno, dopo aver fatto cadere un bicchiere d’acqua, mi
alzai dalla mia sedia e, avvicinandomi a lei con una scatola di Kleenex,
dissi: “Lascia che pulisca”. Per un attimo, provò una sensazione di panico
intenso, ma riuscì a contenersi e a pensare al perché quelle parole le
avessero provocato una reazione così forte: erano le stesse che le aveva
detto suo padre dopo averla violentata.
Annie, dopo quella seduta, mi scrisse: “Hai notato che sono stata in
grado di dire le parole ad alta voce? Non ho dovuto scriverle per
comunicarti quello che stava accadendo. Ho mantenuto la ducia in te
nonostante quelle parole mi avessero attivato. Ho capito che quelle parole
avevano sollecitato qualcosa in me e che non si trattava di parole orribili,
che nessuno al mondo dovrebbe mai pronunciare”.
Annie continua a praticare yoga e a scrivermi in merito alle sue
esperienze: “Oggi sono andata a una lezione, al mattino, nella mia nuova
scuola di yoga. L’insegnante ha detto di respirare n dove ci era possibile,
notando i nostri limiti. Ha detto che, nel momento in cui portiamo
l’attenzione al respiro, siamo nel presente, perché non possiamo respirare
nel futuro o nel passato. È stato stupefacente per me praticare la
respirazione in questo modo, dopo averne appena parlato, come un
regalo. Alcune posizioni possono fungere da trigger. Due di queste erano
incluse nella lezione oggi: una, che implica il tenere le gambe sollevate,
come quelle di una rana, e un’altra che prevede una respirazione
profonda, no alle pelvi. Ho provato un principio di panico, soprattutto
durante la respirazione, come a dire: ‘oh no, questa non è una parte del
mio corpo che voglio sentire’. Ma poi sono riuscita a fermarmi e a dirmi:
osserva questa parte del tuo corpo, che sta trattenendo le esperienze e,
quindi, lasciale andare. Non devi stare lì, ma non devi nemmeno
andartene, usale semplicemente come informazioni. Non so se sono mai
stata in grado di farlo in un modo così consapevole. Mi ha fatto pensare
che, se io osservo senza esserne così spaventata, sarà più facile, per me,
credere in me stessa”.
In un altro messaggio, Annie ri etteva sui cambiamenti nella sua vita:
“Ho lentamente e semplicemente imparato a provare i miei sentimenti,
senza esserne travolta. La vita è più gestibile: sono più sintonizzata sulle
mie giornate e più presente nel momento. Tollero di più il contatto sico.
Mio marito e io stiamo cominciando a provare piacere nel guardare i lm
accoccolati insieme nel letto… un grande passo. Tutto ciò mi ha permesso
di stare bene, in intimità con lui”.

1. L’agopuntura e l’agopressione sono tecniche ampiamente utilizzate dai clinici che si occupano di
trauma, e stanno iniziando a essere sistematicamente studiate come trattamento clinico per il
PTSD. M. Hollifield, N. Sinclair-Lian, T. Warner, R. Hammerschlag (2007), “Acupuncture for
Post-traumatic Stress Disorder: A randomized controlled pilot trial”, in Journal of Nervous and
Mental Disease, 195(6), pp. 504-513. Gli studi che hanno utilizzato la fMRI al ne di misurare gli
effetti dell’agopuntura sulle aree cerebrali associate alla paura evidenziano che questa tecnica
produce rapide regolazioni in queste regioni cerebrali. K.K. Hui, J. Liu, O. Marina, V. Napadow,
C. Haselgrove, K.K. Kwong (2005), “The integrated response of the human cerebro-cerebellar and
limbic systems to acupuncture stimulation at ST 36 as Evidenced by fMRI”, in NeuroImage, 27,
pp. 479-496; J. Fang, Z. Jin, Y. Wang, K. Li, J. Kong, E.E. Nixon, Y. Zeng, Y. Ren, H. Tong, Y.
Wang, P. Wang, K.K. Hui (2009), “The salient characteristics of the central effects of acupuncture
needling: Limbic-paralimbic-neocortical network modulation”, in Human Brain Mapping, 30, pp.
1196-1206; D. Feinstein (2010), “Rapid treatment of PTSD: Why psychological exposure with
acupoint tapping may be effective”, in Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 47(3),
pp. 385-402; D. Church, C. Hawk, A. Brooks, O. Toukolehto, M. Wren, I. Dinter, P. Stein (2013),
“Psychological trauma symptom improvement in veterans using EFT (Emotional Freedom
Technique): A randomized controlled trial”, in Journal of Nervous and Mental Disease, 201, pp.
153-160; D. Church, G. Yount, A.J. Brooks (2012), “The effect of Emotional Freedom Techniques
(EFT) on stress biochemistry: A randomized controlled trial”, in Journal of Nervous and Mental
Disease, 200, pp. 891-896; R.P. Dhond, N. Kettner, V. Napadow (2007), “Neuroimaging
acupuncture effects in the human brain”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine,
13, pp. 603-616; K.K. Hui, J. Liu, N. Makris, R.L. Gollub, A.J. Chen, C.I. Moore, D.N. Kennedy,
B.R. Rosen, K.K. Kwong (2000), “Acupuncture modulates the limbic system and subcortical gray
structures of the human brain: Evidence from fMRI Studies in normal subjects”, in Human Brain
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2. M. Sack, J.W. Hopper, F. Lamprecht (2004), “Low respiratory sinus arrhythmia and prolonged
psychophysiological arousal in Post-traumatic Stress Disorder: Heart rate dynamics and individual
differences in arousal regulation”, in Biological Psychiatry, 55(3), pp. 284-290. Vedi anche H.
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M.A. Matar, U. Loewenthal, J. Zohar, G. Richter-Levin (2007), “Long-lasting behavioral effects of
juvenile trauma in an animal model of PTSD associated with a failure of the autonomic nervous
system to recover”, in European Neuropsychopharmacology, 17(6), pp. 464-477; H. Wahbeh, B.S.
Oken (2013), “Peak high-frequency HRV and peak alpha frequency higher in PTSD”, in Applied
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3. J.W. Hopper, J. Spinazzola, W.B. Simpson, B.A. van der Kolk (2006), “Preliminary evidence of
parasympathetic in uence on basal heart rate in Post-traumatic Stress Disorder”, in Journal of
Psychosomatic Research, 60(1), pp. 83-90.
4. Anche gli esperimenti condotti da Arieh Shalev presso la Hadassah Medical School a
Gerusalemme e da Roger Pitman a Harvard vanno in questa direzione: A.Y. Shalev, T. Peri, D.
Brandes, S. Freedman, S.P. Orr, R.K. Pitman (2000), “Auditory startle response in trauma
survivors with Post-traumatic Stress Disorder: A prospective study”, in American Journal of
Psychiatry, 157(2), pp. 255-61; R.K. Pitman, S.P. Orr, D.F. Forgue (1998), “Psychophysiologic
assessment of Post-traumatic Stress Disorder imagery in Vietnam combat veterans”, in Archives of
General Psychiatry, 44(11), pp. 970-975; A.Y. Shalev, T. Sahar, S. Freedman, T. Peri, N. Glick, D.
Brandes, S.P. Orr, R.K. Pitman (1998), “A prospective study of heart rate response following
trauma and the subsequent development of Post-traumatic Stress Disorder”, in Archives of General
Psychiatry, 55(6), pp. 553-559.
5. P. Lehrer, Y. Sasaki, Y. Saito (1999), “Zazen and cardiac variability”, in Psychosomatic Medicine,
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A. Michalsen, P. Grossman, A. Acil, J. Langhorst, R. Ludtke, T. Esch, G. Stefano, G. Dobos
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Kirkwood, H. Rampes, V. Tuffrey, J. Richardson, K. Pilkington (2005), “Yoga for anxiety: A
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6. B. Cuthbert, J. Kristeller, R. Simons, R. Hodes, P.J. Lang (1981), “Strategies of arousal control:
Biofeedback, meditation, and motivation”, in Journal of Experimental Psychology, 110, pp. 518-
546. Vedi anche S.B.S. Khalsa (2004), “Yoga as a therapeutic intervention: A bibliometric analysis
of published research studies”, in Indian Journal of Physiology and Pharmacology, 48, pp. 269-285;
M.M. Del Monte (1986), “Meditation as a clinical intervention strategy: A brief review”, in
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Psychiatric Press, Washington, DC; L. Bernardi, C. Porta, L. Spicuzza, A. Gabutti (2001), “Slow
breathing reduces chemore ex response to hypoxia and hypercapnia, and increases barore ex
sensitivity”, in Journal of Hypertension, 19(12), pp. 2221-2229; R.P. Brown, P.L. Gerbarg (2005),
“Sudarshan Kriya yogic breathing in the treatment of stress, anxiety, and depression - Part I:
Neurophysiologic model”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 11, pp. 189-201;
R.P. Brown, P.L. Gerbarg (2005), “Sudarshan Kriya yogic breathing in the treatment of stress,
anxiety, and depression - Part II: Clinical applications and guidelines”, in Journal of Alternative and
Complementary Medicine, 11, pp. 711-717; C.C. Streeter, J.E. Jensen, R.M. Perlmutter, H.J. Cabral,
H. Tian, D.B. Terhune, P.F. Renshaw (2007), “Yoga asana sessions increase brain GABA levels: A
pilot study”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 13, pp. 419-426; C.C. Streeter,
T.H. Whitfield, L. Owen, T. Rein, S.K. Karri, A. Yakhind, R. Perlmutter, A. Prescot, S. Renshaw
(2010), “Effects of yoga versus walking on mood, anxiety, and brain GABA levels: A randomized
controlled MRS study”, in Journal of Alternative and Complementary Medicine, 16, pp. 1145-1152.
7. Vi sono dozzine di articoli scienti ci che mostrano gli effetti positivi dello yoga relativamente a
diverse condizioni mediche. Il seguente elenco ne è un breve esempio: S.B. Khalsa (2004), “Yoga as
a therapeutic intervention”; P. Grossman, L. Neimann, S. Schmidt, H. Walach (2004),
“Mindfulness-based stress reduction and health bene ts: A meta-analysis”, in Journal of
Psychosomatic Research, 57, pp. 35-43; K. Sherman, J. Cherkin, J. Erro, D.L. Miglioretti, R.A. Deyo
(2005), “Comparing yoga, exercise, and a self-care book for chronic low back pain: A randomized,
controlled trial”, in Annals of Internal Medicine, 143, pp. 849-856; K.A. Williams, J. Petronis, D.
Smith, D. Goodrich, J. Wu, N. Ravi, E.J. Doyle, G. Juckett, M.M. Kolar, R. Gross, L. Steinberg
(2005), “Effect of iyengar yoga therapy for chronic low back pain”, in Pain, 115, pp. 107-117; R.B.
Saper, K. Sherman, D. Cullum-Dugan, R.B. Davis, R.S. Phillips, L. Culpepper (2009), “Yoga for
chronic low back pain in a predominantly minority population: A pilot randomized controlled
trial”, in Alternative Therapies in Health and Medicine, 15, pp. 18-27; J.W. Carson, K.M. Carson,
L.S. Porter, F.J. Keefe, H. Shaw, J.M. Miller (2007), “Yoga for women with metastatic breast
cancer: Results from a pilot study”, in Journal of Pain and Symptom Management, 33, pp. 331-341.
8. B.A. van der Kolk, L. Stone, L., J. West, A. Rhodes, D. Emerson, M. Suvak, J. Spinazzola
(2014), “Yoga as an adjunctive therapy for PTSD”, in Journal of Clinical Psychiatry, 75(6), pp. 559-
565.
9. Una società californiana, la HeartMath, ha sviluppato eccezionali dispositivi e giochi per
computer che riescono, in modo divertente ed ef cace, ad aiutare le persone a raggiungere una
migliore HRV. A oggi, nessuno ha veri cato se semplici dispositivi, come quelli messi a punto dalla
HeartMath, riescano a ridurre i sintomi del PTSD, ma potrebbe essere molto probabile (si
veda www.heartmath.org).
10. In questo momento, vi sono ventiquattro app disponibili su iTunes in grado di favorire
l’incremento dell’HRV, come emWave, HeartMath, e GPS4Soul.
11. B.A. van der Kolk (2006), “Clinical implications of neuroscience research in PTSD”, in Annals
of the New York Academy of Sciences, 1071(1), pp. 277-293.
12. S. Telles, C. Joseph, S. Venkatesh, T. Desiraju (1993), “Alterations of auditory middle latency
evoked potentials during yogic consciously regulated breathing and attentive state of mind”, in
International Journal of Psychophysiology, 14, 3, pp. 189-198. Vedi anche P.L. Gerbarg (2007),
“Yoga and neuro-psychoanalysis”, in Bodies in Treatment: The Unspoken Dimension, Analytic
Press, New York, pp. 127-150.
13. D. Emerson, E. Hopper (2011), Overcoming Trauma Through Yoga: Reclaiming Your Body.
North Atlantic Books, Berkeley, CA.
14. A. Damasio (1999), Emozioni e coscienza, tr. it. Adelphi, Milano, 2000.
15. “Interocezione” è il termine scienti co che indica la capacità di percepirsi. Studi condotti
attraverso tecniche di brain imaging su soggetti traumatizzati hanno dimostrato più volte problemi
nelle aree cerebrali correlate alla consapevolezza sica di sé, in particolar modo nell’area
denominata insula. J.W. Hopper, P.A. Frewen, B.A. van der Kolk, R.A. Lanius (2007), “Neural
correlates of reexperiencing, avoidance, and dissociation in PTSD: Symptom dimensions and
emotion disregulation in responses to script-driven trauma imagery”, in Journal of Traumatic Stress,
20(5), pp. 713-725. Vedi anche I.A. Strigo, A.N. Simmons, S.C. Matthews, E.M. Grimes, C.B.
Allard, L.E. Reinhardt (2010), “Neural correlates of altered pain response in women with Post-
traumatic Stress Disorder from intimate partner violence”, in Biological Psychiatry, 68(5), pp. 442-
450; G.A. Fonzo, A.N. Simmons, S.R. Thorp, S.B. Norman, M.P. Paulus, M.B. Stein (2010),
“Exaggerated and disconnected insular-amygdalar blood oxygenation level-dependent response to
threat-related emotional faces in women with intimate-partner violence Post-traumatic Stress
Disorder”, in Biological Psychiatry, 68(5), pp. 433-441; P.A. Frewen, D.J.A. Dozois, R.W.J.
Neufeld, T.K. Stevens, R.A. Lanius (2010), “Social emotions and emotional valence during imagery
in women with PTSD: Affective and neural correlates”, in Psychological Trauma: Theory, Research,
Practice, and Policy, 2(2), pp. 145-157; K. Felmingham, A.H. Kemp, L. Williams, E. Falconer, G.
Olivieri, A. Peduto, R. Bryant (2008), “Dissociative responses to conscious and non-conscious fear
impact underlying brain function in Post-traumatic Stress Disorder”, in Psychological Medicine,
38(12), pp. 1771-1780; A.N. Simmons, M.P. Paulus, R.S. Thorp, S.C. Matthews, B. Sonya (2008),
“Functional activation and neural networks in women with Post-traumatic Stress Disorder related
to intimate partner violence”, in Biological Psychiatry, 64(8), pp. 681-690; R.J.L. Lindauer, J. Booij,
J.B.A. Habraken, E.P.M. van Meijel, H.B. Uylings, M. Olff (2008), “Effects of psychotherapy on
regional cerebral blood ow during trauma imagery in patients with Post-traumatic Stress
Disorder: A randomized clinical trial”, in Psychological Medicine, 38(4), pp. 543-554; A. Etkin,
T.D. Wager (2007), “Functional neuroimaging of anxiety: A meta-analysis of emotional processing
in PTSD, Social Anxiety Disorder, and Speci c Phobia”, in American Journal of Psychiatry,
164(10), pp. 1476-1488.
16. J.C. Nemiah, P.E. Sifneos (1970), “Psychosomatic illness: A problem in communication”, in
Psychotherapy and Psychosomatics, 18(1-6), pp. 154-160. Vedi anche G.Y. Taylor, R.M. Bagby,
J.D.A. Parker (1997), Disorders of Affect Regulation: Alexithymia in Medical and Psychiatric Illness,
Cambridge University Press, Cambridge.
17. A. Damasio (1999), Emozione e coscienza. Sentire ciò che accade, tr. it. Adelphi, Milano 2000.
18. B.A. van der Kolk (2006), “Clinical implications of neuroscience research in PTSD”, in Annals
of the New York Academy of Sciences, 1071(1), pp. 277-293. Vedi anche B.K. Holzel, S.W. Lazar, T.
Gard, Z. Schuman-Olivier, D.R. Vago, U. Ott (2011), “How does mindfulness meditation work?
Proposing mechanisms of action from a conceptual and neural perspective”, in Perspectives on
Psychological Science, 6(6), pp. 537-559.
19. B.K. Holzel, J. Carmody, M. Vangel, C. Congleton, S.M. Yerramsetti, T. Gard, Z. Schuman-
Olivier, D.R. Vago, U. Ott (2011), “Mindfulness practice leads to increases in regional brain gray
matter density”, in Psychiatry Research: Neuroimaging, 191(1), pp. 36-43. Vedi anche B.K. Holzel,
J. Carmody, K.C. Evans, E.A. Hoge, J.A. Dusek, L. Morgan, R.K. Pitman, S.W. Lazar (2010),
“Stress reduction correlates with structural changes in the amygdala”, in Social Cognitive and
Affective Neuroscience, 5(1), pp. 11-17; S.W. Lazar, C.E. Kerr, R.H. Wasserman, J.R. Gray, D.N.
Greve, M.T. Treadway, M. McGarvey, B.T. Quinn, J.A. Dusek, H. Benson, S.L. Rauch, C.I. Moore,
B. Fischl (2005), “Meditation experience is associated with increased cortical thickness”, in
NeuroReport, 16, pp. 1893-1897.
17

Mettere insieme i pezzi


Self-leadership1

Un uomo ha molti sé sociali come se fossero individui che lo riconoscono.


WILLIAM JAMES, Principi di Psicologia

Ero agli inizi della mia carriera e, da circa tre mesi, stavo seguendo Mary –
una giovane donna timida, sola e sicamente collassata – in psicoterapia a
cadenza settimanale, per curare gli effetti della sua terribile storia di abuso
infantile. Un giorno, aprendo la porta della sala d’attesa, la trovai sulla
soglia, in atteggiamento provocatorio, in minigonna, con i capelli tinti di
un rosso ammante, con una tazza di caffè in una mano e un sorriso
sarcastico sul volto: “Lei deve essere il Dr. Van der Kolk”, disse, “Io sono
Jane, e sono venuta ad avvisarla di non credere a nessuna delle bugie che
Mary le sta raccontando. Posso entrare a parlarle di lei?”. Ero sbalordito,
ma, fortunatamente, mi sono guardato bene dall’argomentare con lei e, al
contrario, decisi di ascoltare cosa avesse da dirmi. Nel corso della seduta,
oltre a Jane, incontrai anche una piccola bimba ferita e un adolescente
maschio arrabbiato. Fu l’inizio di un trattamento lungo e produttivo.
Mary fu il mio primo contatto con il Disturbo dissociativo dell’identità
(DID), all’epoca conosciuto come Disturbo di personalità multipla.
Sintomi così eclatanti, come la scissione interna e l’emergere di identità
distinte nel DID, rappresentano soltanto il polo estremo della vita
mentale. La sensazione di essere “abitati” da impulsi o parti con ittuali è
comune a tutti noi, ma, in modo particolare, alle persone traumatizzate,
che devono ricorrere a misure estreme per sopravvivere. Esplorare – e
anche farsi amiche – quelle parti è una componente essenziale del
processo di cura.

A mali estremi, estremi rimedi


Sappiamo bene cosa succede quando ci sentiamo umiliati: facciamo
ricorso a tutte le energie a nostra disposizione, nel tentativo di proteggerci
e di sviluppare delle strategie di sopravvivenza. In questo processo,
possiamo reprimere i nostri sentimenti, infuriarci e giurare vendetta, o,
persino, decidere di diventare così forti e vincenti da non permettere mai,
a nessuno al mondo, di farci più del male. Molti comportamenti,
classi cati come disturbi psichiatrici, come, per esempio, ossessioni,
compulsioni e attacchi di panico, così come la maggior parte delle
condotte autolesive, iniziano come strategie di autoprotezione. Tali
adattamenti al trauma possono interferire così tanto con la capacità di
funzionare, che gli operatori della salute mentale e gli stessi pazienti
credono, spesso, che la completa guarigione sia irraggiungibile. Se questi
sintomi sono intesi come disabilità permanenti, il trattamento si riduce al
tentativo di trovare il regime farmaceutico più appropriato, che comporta
una dipendenza a vita, come se i sopravvissuti al trauma fossero malati di
fegato in dialisi.2
È di gran lunga più utile considerare l’aggressività o la depressione,
l’arroganza o la passività come comportamenti appresi. A un certo punto
del suo percorso di vita, il paziente arriva a credere di poter vivere
soltanto se si rende insensibile, invisibile o assente, o come se fosse più
sicuro mollare. Così come i ricordi traumatici continuano a intrudere
nché non li si è elaborati, gli adattamenti traumatici vengono rimessi in
atto nché l’organismo umano non si sente al sicuro e integra tutte quelle
parti di sé, bloccate nella modalità di attacco o di evitamento traumatico.
Tutti i sopravvissuti al trauma che ho conosciuto sono resilienti a modo
loro, e le storie di ciascuno ci trasmettono una sorta di sbigottimento, di
timore reverenziale, rispetto al modo in cui le persone riescono a trovare
la via per andare avanti. Sapere quanta energia richieda il puro e semplice
atto di sopravvivenza mi impedisce di sorprendermi del prezzo elevato
che, spesso, questi pazienti pagano: la mancanza di una relazione
amorevole con il proprio corpo, con la propria mente e con la propria
anima.
Lottare implica un conto piuttosto elevato. Per molti bambini, è molto
più sicuro odiare se stessi che mettere a rischio la relazione con i loro
caregiver, buttando fuori la rabbia o fuggendo. Pertanto, i bambini
abusati crescono, con molta probabilità, credendo di essere
sostanzialmente non amabili: questo è stato il solo modo in cui le loro
giovani menti sono riuscite a trovare la ragione del maltrattamento subito.
Sopravvivono negando, ignorando e dissociando enormi fette di realtà:
dimenticano l’abuso, reprimono la rabbia e la disperazione, “annebbiano”
le sensazioni siche. Se si è stati abusati da bambini, ci sono buone
probabilità di avere dentro di sé una parte bambina congelata nel tempo,
ancora ferma a questa forma di autodisgusto e diniego. Molti adulti,
sopravvissuti a esperienze terribili, sono caduti nella stessa trappola: tale
strategia aiuta a preservare la propria dignità e l’indipendenza; a rimanere
concentrati su compiti importanti, come salvare la vita a un compagno,
prendersi cura dei propri gli o ristrutturare la casa.
I problemi arrivano in seguito. Dopo aver visto un amico saltare per aria,
un soldato può ritornare alla vita civile e cercare di dimenticare
quell’esperienza. Una parte protettiva di sé sa come essere ef ciente sul
lavoro o come relazionarsi ai colleghi. Ma, di solito, succede che diventi
incline a scatti d’ira con la propria ragazza o all’obnubilamento e al
congelamento, nel momento in cui il piacere di lasciarsi andare al contatto
con lei fa emergere la paura di perdere il controllo. Probabilmente, non
sarà consapevole che la propria mente associa in modo automatico la resa
passiva con la paralisi che ha sentito quando il suo amico è stato
assassinato. Così, un’altra parte protettiva entra in gioco, creando una
sorta di deviazione: il soldato si arrabbia e, non avendo idea di cosa gli stia
accadendo, collega la rabbia a qualcosa che ha fatto la sua ragazza. E così
continua a esplodere con la sua ragazza (e con le successive), isolandosi
sempre di più. Non si rende conto, però, che una parte traumatizzata è
sollecitata dalla passività e che un’altra parte, un “manager”3 arrabbiato,
entra in campo per proteggere quella parte vulnerabile. La terapia può
salvare la vita a queste persone, aiutando le loro parti interne a mollare
queste credenze estreme.
Come abbiamo visto nel capitolo 13, un compito fondamentale per la
cura del trauma è quello di imparare a vivere con i ricordi del passato,
senza esserne travolti nel presente. Ma molti sopravvissuti, soprattutto
quelli che funzionano bene, persino in modo brillante in alcuni ambiti
della loro vita, devono affrontare una s da ancora più grande:
ricon gurare il sistema cervello/mente, che si era costruito intorno alla
necessità di affrontare il peggio. Così come è necessario ripercorrere i
ricordi traumatici per integrarli, c’è bisogno di rivisitare quelle parti del sé
che hanno sviluppato abitudini difensive, funzionali alla sopravvivenza.

La mente è un mosaico
Tutti noi abbiamo delle parti. In questo preciso momento, una parte di me
sente di dover schiacciare un pisolino, mentre un’altra parte vuole
continuare a scrivere. Sentendosi ancora urtata da un messaggio e-mail
offensivo, una parte di me vuole digitare “rispondi”, inviando una
frecciatina pungente, mentre un’altra parte vuole ignorare la cosa. Molte
persone che mi conoscono hanno incontrato le mie parti emotive, sincere
e irritabili; alcune hanno avuto a che fare con il cucciolo ringhiante che c’è
in me. I miei gli ricordano di essere andati in vacanza con le mie parti
giocose e avventurose.
Quando si va in uf cio la mattina e si vedono nuvole tempestose sulla
testa del capo, si sa precisamente a cosa si sta andando incontro. Quella
parte arrabbiata ha un caratteristico tono di voce, un vocabolario e una
postura del tutto differenti da quelli del giorno prima, quando ci si è
trovati insieme a condividere le foto dei propri gli. Le parti non sono
solo sentimenti, ma modi distinti di essere, con le loro credenze, i loro
scopi e ruoli, all’interno dell’intera ecologia della vita.
Sentirci in armonia con noi stessi dipende in larga misura dalla capacità
di fruire di una guida interna e, cioè, da quanto bene ascoltiamo le diverse
parti di noi, assicurandoci che si sentano accudite ed evitando che si
sabotino l’una con l’altra. Le parti, spesso, danno l’impressione di essere
assolute, anche se, di fatto, rappresentano soltanto un aspetto della
complessa costellazione di pensieri, emozioni e sensazioni. Se Margaret,
nel bel mezzo di una discussione, grida: “Ti odio!”, Joe, probabilmente,
pensa che lo disprezzi e, in effetti, in quel preciso momento Margaret
sarebbe d’accordo. Ma, in realtà, soltanto una parte di lei è arrabbiata, e
quella parte oscura temporaneamente i suoi sentimenti generosi e
affettuosi, che potrebbero ritornare, nel momento in cui si accorge
dell’af izione nel viso di Joe.
Qualsiasi grande scuola di psicologia riconosce che le persone hanno
delle subpersonalità, a cui vengono conferiti nomi diversi.4 Nel 1890,
William James scriveva: “Si deve ammettere che… la consapevolezza deve
essere divisa in parti che coesistono e che si ignorano reciprocamente e
condividono gli oggetti della conoscenza tra di loro”.5 Carl Jung scriveva:
“La vita psichica, quale sistema autoregolantesi, è equilibrata come la vita
del corpo, cosicché per ogni iperfunzione si determinano tosto e
necessariamente delle compensazioni…”.6 “Lo stato naturale della psiche
umana consiste in una certa contrapposizione delle sue componenti e in
una certa contraddittorietà dei suoi comportamenti e, cioè, in una certa
dissociazione”7, e “La riconciliazione di questi opposti è un problema di
altissima importanza, che ha affaticato alcuni spiriti n dall’antichità…
poiché l’uomo legato somaticamente, ‘l’avversario’ , non è infatti altro che
‘l’altro me stesso’”.8
Le moderne neuroscienze hanno confermato questa visione della mente
come una sorta di società. Michael Gazzaniga, che condusse il primo
studio sull’emisezione cerebrale, aveva dimostrato che la mente è
composta da moduli di funzionamento semiautonomi, ciascuno dei quali
riveste un ruolo speciale.9 Nel suo libro Il cervello sociale (1985) l’autore
scrive: “Cosa dire dell’idea che il sé non è un’entità unica, ma che esistono
dentro di noi diversi regimi di coscienza?… Dai nostri studi
[sull’emisezione cerebrale] emerge una nuova idea: esistono letteralmente
diversi sé, che non ‘convergono’ necessariamente l’uno verso l’altro al loro
interno”.10 Lo scienziato del MIT Marvin Minsky, un pioniere
dell’intelligenza arti ciale, dichiarò: “La leggenda di un sé singolo può
soltanto farci deviare dall’obiettivo della ricerca del sé11… Da tutto ciò
segue che forse ha senso postulare l’esistenza, nel nostro cervello, di una
società di menti diverse. Come i membri di una famiglia, queste diverse
menti possono collaborare e aiutarsi a vicenda, pur avendo ciascuna le
proprie esperienze mentali, di cui le altre non sanno mai nulla”.12
I terapeuti formati a vedere le persone come esseri umani complessi, con
caratteristiche e personalità multiple, possono aiutare i pazienti a
esplorare i sistemi di parti interne e a prendersi cura degli aspetti feriti di
sé. Ci sono diversi approcci terapeutici, come il modello della
dissociazione strutturale, sviluppato dai miei colleghi olandesi Onno van
der Hart e Ellert Nijenhuis e da Kathy Steel a Atlanta, largamente
praticato in Europa, e il lavoro di Richard Kluft negli Stati Uniti.13
A vent’anni di dis