Evaristo si affaticava per le strade di Roma. Camminava e camminava, la sua giacca firmata stava
iniziando a bagnarsi del suo sudore, i piedi dentro alle strette scarpe cominciavano a languire. Ciò,
tuttavia, non gli importava affatto: doveva essere il giorno più importante della sua vita, il giorno in
cui sarebbe potuto riuscire finalmente, dopo anni, a garantirsi un posto di lavoro serio nel mondo
degli avvocati. Fino a quel momento si era anche divertito a gestire le cause della gente comune, ma
ciò che gli si profilava all’orizzonte era di un’altra caratura: personaggi importanti da difendere e
guadagni sontuosi in ogni caso. Un sogno, si potrebbe dire. Ah, che belli i sogni, ma meglio
realizzarli prima di convincersi che siano reali!
L’avversario di Evaristo era il suo amico Pancrazio, sconfiggerlo sarebbe stata l’unica nota dolente
della giornata: anche Pancrazio infatti concorreva per lo stesso posto di lavoro e, come spesso
accade, la disponibilità era solo una. Dentro o fuori, quindi. I due si conoscevano dai tempi
dell’università, mai c’era stata rivalità tra di loro, avevano anche condiviso l’appartamento per un
certo periodo: nulla avrebbe mai portato i due a scontrarsi se non la bruta necessità. Ma ecco, essa
arriva ineluttabile, e adesso i più cari, onesti e benevoli amici dovranno diventare fiere selvagge,
bramose e cupide. Pancrazio era già arrivato al tribunale, molto in anticipo per fare bella figura,
mentre Evaristo stava tardando a causa di un guasto all’autobus che aveva preso; da lì in poi infatti
aveva dovuto continuare a piedi. Seguendo il navigatore girava a destra, a sinistra, poi a destra,
ancora a destra e infine a sinistra. No, aveva sbagliato strada. Ritornò indietro, riprendendo la via
corretta. Da quell’incrocio doveva solamente andare dritto, non poteva errare, non c’era né traffico,
né folla, né eruzione vulcanica che potesse fermarlo. L’obiettivo era lì a duecento metri da lui, era
saldo nella sua testa, un chiodo fissato con il più grande martello del mondo. Finalmente l’ingresso
del tribunale gli si presentava davanti: era entrato precisamente altre sessantasei volte lì dentro, ma
questo era l’inizio di qualcosa di nuovo. O almeno Evaristo, vedente dagli occhi ma accecato dal
desiderio, sperava...
Proprio sulla scalinata del tribunale Evaristo, sovrappensiero, si scontrò fortuitamente con una
donna. Entrambi si scusarono l’un l’altro, imprecando poi subito dopo una volta girato il capo verso
l’altra direzione. Anche la donna stava andando di fretta. Aveva appena finito il suo turno di lavoro
notturno e ora doveva cominciare a prodigarsi nella sua ricerca. La nostra cara Filomena, infatti,
aveva smarrito il cellulare il giorno precedente in una zona centrale della città, ma un’urgenza al
lavoro l’aveva obbligata a dimenticarsene. Ora poteva finalmente concentrarsi sulla vera priorità,
trovare il suo “compagno di vita”, dove erano riposti tutti i suoi più intimi e reconditi segreti; quale
fattura potessero avere questi segreti, nessuno lo saprà mai… Filomena si fece lasciare da un taxi
nel punto in cui ricordava avere usato l’apparecchio per l’ultima volta, e cominciò a rifare tutto il
percorso da lì al tribunale per provare a cercarlo. Si sentiva persa, proseguiva inerme a destra e a
manca, osservava il marciapiede, osservava i cassonetti dell’immondizia, osservava anche le altre
persone: magari proprio uno dei passanti le aveva rubato crudelmente il suo cellulare. Un’ora dopo,
tutta l’adrenalina iniziale era già sparita: ormai era subentrata l’oscura e avvolgente sensazione di
impotenza. Il mondo era troppo grande, il telefono troppo piccolo; in un solo giorno poteva essere
arrivato anche dall’altra parte del mondo, non sarebbe stata sicuramente Filomena a dominare il
caso. Erano passate due ore, il percorso verso il tribunale era terminato. Solitamente quel tratto di
strada a piedi dura all’incirca quindici minuti, ma un’acuta ricerca ha bisogno di attenzione e
parsimonia, nonché di grande pazienza. Proprio quest’ultima però era ormai fuoriuscita dal corpo
della povera Filomena, che si stava sedendo sulle scale del tribunale, pensando sul da farsi. Nel
mentre voci di protesta arrivavano dall’interno dell’edificio: Evaristo e Pancrazio stavano
evidentemente urlando arrabbiati contro qualcuno; la donna riusciva a riconoscere la voce di colui
che si era scusato con lei due ore prima, ma non comprendeva quello che diceva. Filomena era
incuriosita da tutto questo, tuttavia il tarlo nella sua mente continuava ad avere il sopravvento, e
anche giustamente, si potrebbe dire: come si può vivere oggi senza cellulare? Il suo amato era ormai
andato, non avrebbe mai più visto il suo colore rosa scintillante. Forse però c’era un’alternativa, che
Filomena non aveva mai preso in considerazione: semplicemente comprarne uno nuovo. La donna
era stata così concentrata sulla sua inchiesta che aveva perso di vista il mondo reale, fatto di negozi
in cui, pagando, si può facilmente tornare ad avere tra le mani un nuovo scintillante telefono rosa.
Riluttante, Filomena fece proprio così. Cambiò numero, cambiò scheda, cambiò cellulare: le sembrò
quasi di cambiare vita…
La sera tornò al tribunale per il suo turno notturno; si sedette alla scrivania e cominciò a lavorare al
computer. Qualche ora dopo, forse tre o forse quattro, aprì il cassetto che si trovava alla sua destra:
non ci trovò i fogli da stampante, anzi in realtà li trovò eccome, ma nulla poteva essere più
importante di ciò che si trovava sopra questi fogli: un oggetto di colore rosa scintillante. Filomena si
mise a ridere istericamente.
Pose i due cellulari sulla sua scrivania, li guardava con occhi morti. Si chiedeva se ne fosse valsa la
pena di sprecare quasi una giornata intera per due corpi inanimati. Non sapendo rispondere né sì né
no, chiamò sua figlia Deidamia, sperando di non interrompere il suo sonno, per uscire qualche
minuto da una realtà troppo cruda. Anche Deidamia era sveglia quella notte, ma, come si vedrà, per
altri motivi. Mamma e figlia si vedevano molto di rado. Filomena aveva divorziato con suo marito
Tesauro, ma la custodia di Deidamia era andata a quest’ultimo, per motivi troppo lunghi da
esplicare. Le due erano comunque in buonissimi rapporti, e infatti Deidamia rispose subito allo
squillo. Filomena le raccontò dell’Inferno che aveva vissuto durante tutta la giornata, e le raccontò
anche dello scandalo di Evaristo e Pancrazio, riferitole da un suo stretto collega. La figlia si stava
divertendo molto ad ascoltare la madre, tuttavia poco dopo fu spinta a chiudere la chiamata per
cause di forza maggiore. Queste cause erano le miriadi di compiti assegnati per il giorno successivo
che Deidamia non era riuscita a completare nel pomeriggio e che si trovava quindi costretta a finire
durante la notte. A tutti i suoi compagni non era importato minimamente di portare a conclusione la
mole di lavoro, ma Deidamia era una ragazza modello, e i professori dovevano ammirarla per la sua
diligenza. Si stava districando tra le pagine dei libri di storia e chimica. A dirla tutta, nessuna di
queste due materie le era mai piaciuta veramente, ma era coatta, doveva studiarle, doveva andare
bene, doveva essere lodata. Quella notte andò a dormire così tardi che ormai era quasi presto, e
riposò all’incirca per due ore; ah… tempo sprecato, poteva studiare invece! La mattina si sedette al
suo solito banco in seconda fila, che in realtà era la prima dato che nessuno si sedeva in questa;
ascoltò diligentemente tutte le lezioni, prese diligentemente appunti, fece interventi molto diligenti.
Arrivata l’ultima ora, quella di chimica, si trovava davanti al momento della verità: ciò per cui
aveva lavorato quella notte doveva essere esposto in quel momento, non c’era via di scampo.
Deidamia parlò ininterrottamente per una decina di minuti, poi la parola passò alla sua compagna
Taide, che invece parlò solo per cinque minuti. Taide prese 10, Deidamia solo 9. Era distrutta,
pensava di essersi impegnata di più, pensava di aver studiato di più (questo era quantitativamente
vero), pensava di meritare di più. Eppure, la realtà era un’altra. Afflitta nell’orgoglio, si sedette al
banco in seconda fila. Suonò la campanella, e Deidamia ritornò verso casa pensando a ciò che era
successo. Le passò in mente la storia di Evaristo e Pancrazio raccontata dalla madre e si confortò
nel fatto che molti nel mondo, non solo lei, non arrivano a ciò che si meritano...
Ritorniamo quindi al principio. Cosa sarà accaduto di tanto eclatante ai due poveri avvocati?
Evaristo si era appena scontrato con Filomena quando riuscì ad entrare nel tribunale. I suoi pensieri
erano fissi sul discorso da compiere, così tanto che si perdette nei meandri dell’edificio. Era la
sessantasettesima volta che ci entrava, ma sembrava la prima, l’inizio di un nuovo ciclo. Salì alcune
scale, discese altre scale, prese l’ascensore, sbagliò piano, andò in bagno, uscì dal bagno, entrò in
aula. Finalmente la sua frenesia si poté calmare un attimo, l’udienza sarebbe cominciata a breve, ma
almeno non era arrivato in ritardo. Chissà cosa avrebbero pensato i suoi superiori se avesse ritardato
nel suo caso più importante… Pancrazio lo salutò dall’altro lato dell’aula. Un ultimo momento di
amicizia, poi, iniziò lo scontro. Come due cavalieri nell’Orlando Furioso si sarebbero scontrati a
suon di fendenti di spade, così i due avvocati si scontrarono a suon di orazioni e argomentazioni,
che forse colpivano più di meri fisici fendenti. Si ponevano obiezioni l’un l’altro, si confutavano
l’un l’altro, i giudici quasi più non sapevano chi era l’accusa e chi la difesa (per la cronaca, Evaristo
era la difesa, Pancrazio l’accusa); l’udienza durò all’incirca un’ora e mezza, alla fine i due amici
erano entrambi sfiniti, ma contenti poiché sapevano di aver mostrato il meglio di loro. Il giudice
rimandò la sua decisione riguardo la sentenza, poiché era veramente difficile scegliere per l’una o
l’altra parte. Evaristo e Pancrazio, però, si recarono comunque dai loro superiori per sapere chi dei
due sarebbe stato assunto per l’agognato posto di lavoro, dato che quel giorno, il 3 ottobre 2024, era
la data di scadenza ultima per la sistemazione. I superiori incominciarono ad esitare, a mugugnare,
quasi volessero trattenere un segreto troppo affilato. Continuamente incalzati a parlare dai due
avvocati, parlarono. Il posto non era stato assegnato né a Evaristo, né a Pancrazio, ma a Camicione,
figlio del giudice precedentemente ritiratosi per decidere la sentenza. I due amici non ci videro più
dalla rabbia, diventarono furiosi, pazzi, il loro senno uscì dal loro corpo per finire sulla Luna, anzi
no, forse addirittura su Marte. Urlarono, si arrabbiarono, si esacerbarono, schiamazzarono; diedero
fondo a tutti gli insulti imparati in vari anni di corsi di oratoria. Purtroppo, però, non c’era niente da
fare. Il sogno era svanito, e fu anche loro colpa immaginarselo già realizzato. Uscirono insieme dal
tribunale in silenzio. Evaristo montò sulla macchina di Pancrazio, che già prima gli aveva offerto un
passaggio verso casa. Quando Evaristo scese dal mezzo, chiuse lo sportello e disse a Pancrazio:
“Tutto questo affanno non ci ha portato altro che danno; dal tardare in quel luogo che guadagno
abbiamo avuto?” Ai posteri l’ardua sentenza…