Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
L’identità
l
Claude Lévi-Strauss
L'identità
Interventi di
J.-M. Benoist, C. Crocker, A. Danchin, A. Green,
F. Héritier, M. lzard, J. Kristeva, J. Petitot-Cocorda,
M. Serres, P. H. Stahl, F. Zonabend
Sellerio editore
1977 © Éditions Grasset et Fasquelle
L'identità / Claude Lévi-Strauss ; interventi di J.M. Benoist ... [et al.]. - Pa
lermo : Sellerio, 1996.
(Nuovo Prisma ; l)
Tit. orig. : L'identité
ISBN 88-389-1120-7
l. Antropologia culturale. 2. Identità (Psicologia). I. Lévi-Strauss, Claude
< 1908 >. II.Benoist, Jean-Marie.
301. CDD -20 SBN Pal0116889
L'identità
7
so: descrizione sommaria- Premesse biologiche: deprivazione
sensoriale e tempo critico - Descrizione formale schematica -
L'innato e l'acquisito - Conseguenze pratiche: sogno e pedago
gia - Ritorno al figlio: la complessità - Osservazioni linguistiche
Discussione 196
8
L'identità
Premessa
11
zo di descrizione e d'analisi. Una moda che non vale di più dell'altro
rimprovero mosso agli antropologi secondo il quale essi fonderebbero,
nello stampo delle loro categorie e delle loro classificazioni, culture che
sono radicalmente diverse, sacrificherebbero l'originalità distintiva e
il carattere ineffabile di queste, assoggettandole a forme mentali pro
prie di un'epoca e di una civiltà.
Se con questo si vuol dire che una traduzione non è mai perfetta
e che un residuo di senso le sfugge inevitabilmente, si ha senza dub
bio ragione. Il guaio è, però, che ci si limita a enunciare un luogo co
mune e tra i più piatti. Per di più, coloro che pretendono che l'espe
rienza dell'altro - individuo o collettività è, per essenza, incomuni
-
12
punto di vista filosofico, questa concezione, che vede l'identità come
qualcosa, per dir così, di statistico, è poi così lontana dal somigliare
a quella ispirata dalla biologia moderna per cui, in fin dei conti, l'iden
tità risulta dal comportamento di miliardi di neuroni, senza che si pos
sa mai prevedere se l'uno o l'altro di questi reagirà o no a un dato
stimolo?
Se si suppone che anche l'identità abbia le sue relazioni di incer
tez.z.a, la fede che noi ancora abbiamo in essa potrebbe non essere al
tro che il riflesso di uno stato di civiltà, la cui durata sarà stata limi
tata a qualche secolo. Allora, però, la famosa crisi dell'identità, di cui si
parla ripetutamcnte, acquisterebbe un significato del tutto diverso.
Essa apparirebbe come un indizio commuovente e puerile del fatto che
le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve
rinunciare a considerarsi come essenziale, per vedersi ridotta a funzio
ne instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento, egualmente
effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in
una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della sto
ria, supremamente indifferenti al nostro autismo.
Claude Lévi-Strauss
13
Sfaccettature dell'identità
Jean-Marie Benoist *
* Jean-Marie Benoist, filosofo, è stato dal 1970 al 1974 addetto culturale presso
l'ambasciata di Francia a Londra. Ha lavorato al Collège de France collaborando con
C. Lévi-Strauss. È autore di numerosi articoli e di opere monografiche di più ampio
respiro tra le quali vanno enumerate Marx est mort, Gallimard, Paris, 1970; La révo
lution structurale, Grasset, Paris, 1975; Tyrannie du logos, Editions de Minuit, Paris,
1975; Pavane pour une Europe défunte, Hallier, Paris, 1976 e Les nouveaux primaires,
Grasset, Paris, 1977 (n.d.t.).
15
una identità universale dell'Uomo in sé sotto forma, ove ve ne fosse
bisogno, di una soggettività trascendentale.
La dialettica di questo doppio movimento dipende dalla proble
matica dell'etnocentrismo cosl come è stata posta da Claude Lévi
Strauss in Razza e storia. Parlando dell'etnocentrismo immediato,
quello della dispersione, egli descrive come etnocentrico quel pregiu
dizio per cui un gruppo pensa che « l'umanità cessa alle frontiere del
la tribù, del gruppo linguistico, talvolta persino del villaggio; a tal
punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano
con un nome che significa gli " uomini " (o talvolta - con maggior di
screzione, diremmo - i " buoni " , gli " eccellenti ", i " completi "), sot
tintendendo cosl che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non par
tecipino delle virtù - o magari della natura - umane, ma siano, tutt'al
più, composti di " cattivi ", di " malvagi ",di " scimmie terrestri " o di
" pidocchi " » . 1
Il rimedio comune contro questo atteggiamento consisterà nel ge
neralizzare l'idea della natura umana, nel proclamare una unità dello
uomo e dei suoi valori, vale a dire una dichiarazione dei suoi diritti.
Ma se è vero che l'ambizione, in se stessa eccellente di questa univer
salizzazione salvatrice si enuncia a partire da un luogo occidentale in
cui si crede all'unificazione progressiva della storia, se è vero che tale
ambizione consiste nel definire il modello di una razionalità europea
come assoluto, non è forse altrettanto vero che essa rischia a sua volta
di cadere nella trappola dell'etnocentrismo?
« L'unica fatalità, l'unica tara che possa affliggere un gruppo uma
no e impedirgli di realizzare in pieno la propria natura, è quella di
essere solo », scrive Lévi-Strauss/ invitando dunque ciascuna identità
culturale a uscire dai limiti del suo etnocentrismo. Nello stesso tempo,
però, la collaborazione tra gli uomini rischia di causare questa omo
geneizzazione delle culture nell'orizzonte dell'identità: « Nel corso di
tale collaborazione, essi vedono gradualmente identificarsi gli apporti,
di cui la diversità iniziale era per l'appunto quel che rendeva la loro
collaborazione feconda e necessaria ». 3
L'atteggiamento omogeneizzante, che cancella le differenze e la
diversità culturale e le riassorbe in seno a una identità trascendentale
di tipo kantiano, sia essa materialista o spiritualista, ha per corollario
16
un ostacolo metodologico che incrudelisce nell'esercizio stesso della ri
cerca. Tale ostacolo consiste nel non lasciar sussistere le differenze,
ciascuna per sé, e nel determinarle, invece, a partire da ciò che è più
familiare all'antropologo : per esempio dalla nozione di potere e di
subordinazione così come è concepita in Occidente. Un libro di Pierre
Clastres (La Société contre l'État, Éditions de Minuit, Paris, 1 974) ha
di recente attirato l'attenzione su questo pericolo epistemologico in
cui ingenuamente incorrono gli etnologi meglio intenzionati quando,
a partire dalla propria posizione ideologica, a loro stessa insaputa im
portano di soppiatto e involontariamente, estrapolandole e prenden
dole per il risultato di constatazioni ricavate dal lavoro sul campo,
categorie legate al loro proprio codice ideologico.
Già si vede come i due limiti estremi di una problematica dell'iden
tità si enuncino qui come oscillanti tra il polo di una singolarità scon
nessa e quello di una unità globalizzante poco rispettosa delle dif
ferenze.
Se è vero che conviene preservare la diversità delle culture in un
mondo minacciato dalla monotonia e dall'uniformità e che a dovere
essere salvato è il fatto della diversità e non il contenuto storico che
ciascuna epoca gli ha dato e che nessuna potrebbe perpetuare oltre se
stessa, allora si può già porre la seguente questione epistemologica: a
quali condizioni una antropologia, legittimamente preoccupata di co
gliere la diversità delle culture e di ricercarne le eventuali invarianti
strutturali che permettono di leggerla, potrà sfuggire al rischio etno
centrico di riaffermare l'immutabilità tautologica di una natura uma
na identica a se stessa e composta di universali sostanzialisti?
È ad un tempo la lettura dell'Uomo nudo e quella di Jean-Jacques
Rousseau, un filosofo letto anche da Lévi-Strauss, che ci ha dato oc
casione di porci questa domanda e ci ha messo sulla strada per un ab
bozzo di risposta.
Scrive Claude Lévi-Strauss: « È ormai tempo che l'etnologia si
liberi dall'illusione creata di sana pianta dai funzionalisti, i quali scam
biano quei limiti pratici ertro cui vengono confinati dal genere di studi
che preconizzano per proprietà assolute degli oggetti a cui li applicano.
Il fatto che un etnologo si trinceri per uno o due anni entro una pic
cola unità sociale, un gruppo o un villaggio, e si sforzi di coglierlo co
me totalità, non è una ragione per credere che, a livelli diversi da quel
lo in cui lo pongono la necessità o l'opportunità, questa unità non si
dissolva, in gradi diversi, in insiemi che restano di solito insospet
tati ».4
Questa molteplicità di interazioni forti e di interazioni deboli, le
17
quali << mantengono il campo in agitazione permanente » e provocano
questo « fremito della superficie sociale », permette di mettere in que
stione la certezza immediata di una omogeneità solitaria al livello stes
so dell'inquadramento del campo e impone già le più grandi precau
zioni quanto alla determinazione di una identità etnica. Essa permette
di affermare che esistono fattori di identità che sono, nello stesso tem
po, mezzi per sfuggire ai limiti dell'insieme inizialmente considerato.
Si tratterà di « decostruire » la nozione di identità nelle sue mol
teplici determinazioni all'interno di un gruppo, rifiutando il mito di
una insularità. La comunicazione di Michel Izard permetterà che si
affini un tipo di indagine che può trovare le sue premesse nel proble
ma seguente: in che modo l'etnologo può accettare di considerare la
maniera in cui si riflette la rappresentazione che da sé un individuo si
dà della sua appartenenza al gruppo? L'operatore specifico, proposto
da Lévi-Strauss in una sua analisi del totemismo, permette già di por
re in termini metodologici questa questione del passaggio dall'indivi
dualizzazione all'universalizzazione e viceversa, una questione in cui
immancabilmente si imbatte qualsiasi indagine sull'identità: « Come,
sul piano logico, l'operatore specifico opera la transizione, da una par
te verso il concreto e l'individuale, dall'altra verso l'astratto e i siste
mi di categorie, cosl, sul piano sociologico, le classificazioni totemiche
permettono contemporaneamente di definire lo statuto delle persone
nell'ambito del gruppo e di dilatare il gruppo oltre il suo schema tra
dizionale ».5
Detto operatore e la rigorosa distribuzione strutturale degli ele
menti, cui esso dà luogo, consentono una doppia relativizzazione del
l'isolamento, che, ad un certo livello, costituiva uno stadio logoro del
l'identità: per un certo verso, il giuoco di somiglianze e di differenze,
che la metodologia strutturalista mette in scena, impone un lavoro di
comparazione articolante gli elementi identificati in una griglia; nello
stesso tempo, però, l'etnocentrismo, posizione ingenua del gruppo,
nella quale non era vietato vedere una sorta di tentativo, una sorta
di tendenza a perseverare nel suo essere, si trova in qualche modo
relativizzato: « Le società primitive fissano le frontiere dell'umanità
ai limiti del gruppo tribale, fuori del quale esse non vedono che stra
nieri, cioè uomini di sottordine, sporchi e volgari, se non addirittura
non-uomini: bestie pericolose o fantasmi. Il che corrisponde spesso a
verità, ma non considera che una delle funzioni essenziali delle classi
ficazioni totemiche è quella di spezzare tale chiusura del gruppo su se
stesso e di promuovere la nozione ravvicinata di una umanità senza
frontiere ».6
s C. Uvi-Strauss, Il pensiero selvaggio, I l Saggiatore, Milano, 1964, p. 184.
6 C. Uvi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., pp. 184-185.
18
Qui si vede che con un unico e medesimo gesto, grazie all'opera
zione strutturale della « detotalizzazione », l'inconveniente ideologico
dell'etnocentrismo ingenuo ed immediato si trova eliminato nel mo
mento stesso in cui si trova proclamata la necessità epistemologica
della comparazione formale e dell'analysis situs. Con questo gesto,
un'identità grossolana, immediata, un'identità « di superficie » deve
lasciare il posto a una ricerca delle strutture profonde che conformano
l'identità nel suo aspetto relazionale: la questione dell'Altro appare
come costitutiva dell'identità.
Evidentemente, è a proposito della questione del nome proprio
che essa si pone in maniera privilegiata: il nome proprio, luogo del
l'iscrizione sociale del gruppo sul soggetto, va messo in rapporto con
il tipo di spaccatura che il significante opera sull'illusoria identità in
sé della persona. Nome di gruppo o nome individuale che sia, la que
stione della scissione si mette qui ad insistere con un'urgenza tanto
più forte quanto più essa mette in giuoco parametri tanto vari quanto
il rapporto della madre con il figlio? È la questione di un sistema delle
denominazioni e di un sistema degli atteggiamenti nella loro relazione
con la funzione di datore di donne e quella della proibizione dell'in
cesto.8 È il rapporto della topologia con la cattura speculare e con il
funzionamento di un certo tipo di dissimmetria che prova, tutto a un
tratto, la pertinenza sul terreno antropologico di certe fondamentali
intuizioni di Freud - Freud il quale precisamente non pretende di
utilizzare l'antropologia, ma soltanto di lasciare libero corso all 'ana
lisi di un terreno del tutto diverso: il testo dei sognU È la questione
del simbolico nella misura in cui esso mette il soggetto in crisi e chia
ma alla costituzione di una topologia della differenza.10 Tutte queste
sfaccettature della questione del nome proprio, nella misura in cui
questa mobilita l'improprio e la questione dell'altro, offrono un sito
privilegiato all'indagine sulla natura dell'identità e evitano la trappo
la dell'etnocentrismo al livello del gruppo e quella del narcisismo pri
mario al livello del soggetto individuale. Grazie alla funzione del no
me proprio in quanto operatore di questa detotalizzazione, strategia
indispensabile per porre la questione dell'identità, si vede relativizzar
si l'etnocentrismo primario.
Questa relativa !abilità del gruppo, sempre disfatto e sempre rico
struito, unitamente alla possibilità della ricorrenza fuori del gruppo di
fattori interni della sua identificazione, apre la doppia via di una let
tura che tenga in conto la rifrazione, agli occhi del soggetto e a quel-
19
li dell'informatore, dei fattori della sua appartenenza al gruppo e, d'al
tra parte, la relazione dei tratti distintivi con altri insiemi in cui ap
paiono gli stessi elementi.
In tal modo, nella dialettica della differenza tra l'etnologo e il grup
po osservato, si dà un aspetto relazionale dell'identità per cui non po
tremo mai sapere se l'altro, con cui non possiamo comunque confon
derci, operi, a partire dagli elementi della sua esistenza sociale, una
sintesi esattamente sovrapponibile a quella che elaboriamo noi.
Il rapporto dell'etnologo con il terreno viene oggi risolto da alcu
ni a mezzo di una metodologia dell'immersione, quasi che una simpa
tia che abolisse le frontiere arrivasse a risolvere, annullandola magi
camente, la questione dell'angolo cieco della differenza. Di questa que
stione la metodologia strutturale, lungi dal vedervi un ostacolo epi
stemologico, fa il centro, o piuttosto, il punto a partire dal quale essa
permette di ottenere ad un tempo un sapere, che riconcilia il sensibile
e l'intelligibile, e un rispetto dell'altro. Soltanto misconoscendo que
st'angolo cieco si rischia di cadere nella forma non confessata di un
etnocentrismo dell'annessione: quello per cui capita che « il diverso
coincide con l'identico » .
Questa frattura o questa differenza, incontrata anche da altri sa
peri e in particolare dalla psicanalisi, decentra già alla partenza l'og
getto di studio e costringe la ricerca, quando questa voglia rendere
giustizia alla cultura studiata, a fondare la sua inchiesta sulla verità
empirica presente meno che sulla relazione di identità che questa met
te in scena con altri gruppi. Nella sua lezione inaugurale Lévi-Strauss
ha caratterizzato l'originalità dell'oggetto dell'antropologia sociale nei
termini di un oggetto che sia « nello stesso tempo oggettivamente
molto lontano e soggettivamente molto concreto » e la cui « spiega
zione causale possa fondarsi su quella comprensione che, per noi, non
è altro che una forma supplementare di prova ». li
Si deve qui vedere una sorta di eco delle affermazioni di Jean-Jac
ques Rousseau nel Discorso sull'origine e i fondamenti della disugua
glianza fra gli uomini, « primo trattato di antropologia generale che
la letteratura francese conti », e nel Saggio sull'origine delle lingue.
Leggiamo Rousseau: « Quando si vogliono studiare gli uomini, si
deve guardare vicino a sé; ma per studiare l'uomo, si deve imparare
a indirizzare la propria vista in lontananza; per scoprire le proprietà,
si devono prima osservare le differenze ». 12
20
Si tratta di un'affermazione complementare del famoso « Comin
ciamo dunque dall'escludere tutti i dati di fatto » con cui Rousseau
inaugura il suo secondo discorso. 13 Secondo il filosofo, che parla del
diritto e della ragione e non disputa dei fatti, quel che vi è di più
crudele ancora è che tutti i progressi della specie umana la allontanano
senza sosta dal suo stato primitivo; più noi accumuliamo nuove cono
scenze, più ci togliamo i mezzi per acquisire la più importante di tutte
e, in un certo senso, proprio a forza di studiare l'uomo ci siamo pre
clusi la possibilità di conoscerlo.
Fedele alla strategia del razionalismo newtoniano, Rousseau, per
meglio riconciliare però, il diritto e il fatto, l'interesse e la ragione,
propone con il suo « Cominciamo dunque dall'escludere tutti i dati di
fatto » la metodologia di una svolta teorica. Questa svolta procede di
pari passo con la messa in questione di una concezione immediata e
primaria dell'identità.
« La volontà sistematica di identificazione all'altro - scrive Claude
langues, Édition, introduction et notes par Charles Porset, Ducros, Bordeaux, 1970,
p. 89 (n.d.t ).
13 Cfr. ] .-]. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra
glz uomini, in ].-]. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972, p. 43.
14 C. Lévi-Strauss, ]ean-]acques Rousseau fondatore delle scienze dell'uomo, in
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale due, cit., p. 71.
21
Ciò facendo, essa ci dà a ragion veduta un avvertimento contro una
metafisica dell'unità dell'uomo che tenterebbe di inglobare e di fornire
un sostrato alle invarianti di invarianti.
Va letta la favola che questo secondo discorso ci propone come
una teoria degli ecosistemi nel rapporto con la foresta e nell'avveni
mento discriminante costituito dall'inclinazione dell'asse della Terra
sull'ecclittica. 15 È però soprattutto nell'esposizione riguardante la pie
tà e l'amore di sé che si trova anticipatamente illustrata la nozione di
programma e quella di virtualità le cui attualizzazioni sono previste da
questo programma, nella stessa loro fluttuazione. Questa pietà, di cui
Rousseau produce il concetto, è anche il paradigma della tenerezza ri
spettosa della differenza con la quale l'etnologo si piega sulle società
diverse che ha scelto di studiare.
Bisogna guardarsi dal ridurre amore di Sé e pietà a dei semplici
fattori psicologici, giacché, nel loro passaggio all'Altro, l'uno e l'altra
funzionano già come esempi metodologici: in seno ad uno stato di
pura natura esente dalle facoltà umane dette superiori, sono i garanti
di una sfalsatura inaugurale, di un decentramento fondatore, grazie al
quale la differenza non soltanto si inscrive in seno all'identità, ma si
mostra anche come doppiamente costitutiva di sé - in primo luogo in
virtù dell'abisso inscritto nel cuore della relazione semantica tra amore
di sé, amore della specie in sé, e il suo cattivo infinito, l'amor proprio;
in secondo luogo per via dell'inevitabile passaggio all'altro, passaggio
che la pietà, pur virtuale nello stato di pura natura, implicherà, decen
trando il soggetto e mostrando, contrariamente a tutti i cogito, che è
dell'altro che si tratta quando si parla del divenire dell'Io. In questo
senso non è troppo ardito affermare che la teoria della pietà e dell'amo
re di sé prefigura quella Ichspaltung, quella scissione dell'Io che ritro
viamo al centro della concezione lacaniana dello stadio dello specchio
come formatore della funzione dell'Io.
Tra il carattere virtuale del passaggio all'Altro inscritto in qualche
modo o codificato nella pietà e nell'amore di Sé ( = amore della spe
cie), e la possibilità di slittamento, cioè dell'altro scarto differenziale,
perpetuamente pronto a risorgere tra il buon infinito della pietà e il
cattivo infinito dell'amore di sé, si compone una struttura che annuncia
quel che dirà Freud quando affermerà che l'identificazione è una iden
tificazione parziale altamente limitata che non fa che prestare all'og
getto uno solo dei suoi tratti.
In effetti è nella teoria lacaniana dello stadio dello specchio e nel
la funzione determinante di una scissione o spaccatura del soggetto,
15 La struttura del secondo discorso potrà essere confrontata con la teoria proposta
nel corso del nostro seminario da Antoine Danchin.
22
prima di qualsiasi incontro con il contesto sociale, cioè quasi in un
programma virtuale dell'Edipo, che si giuoca l'avvenire del simbolico
come scarto differenziale che trapassa qualsiasi determinazione del
proprio anteriormente all'interiore. Qui si trova di colpo messa in que
stione la possibilità di porre il soggetto come pienezza e presenza di
sé, così come farà il Cogito cartesiano e la coscienza sartriana. La linea
di scissione passa in seno alla soggettività la quale nel rapporto Io/
Imago si trova in qualche modo sfalsata rispetto a se stessa, in un
rapporto che bisogna cogliere come sintattico ma anche come relazio
ne semantica d'ambiguità fondamentale nella misura in cui la giubi
lazione, che si sdoppia in angoscia della non-coincidenza con sé e in
dipendenza in rapporto a una cattura nel desiderio dell'altro, apre la
via di un'ambiguità radicale tra Eros e Thanatos. Qualsiasi determi
nazione del reale o del principio della realtà della soddisfazione della
pulsione sarà posta in relazione a questa ambiguità e in relazione alla
scissione che travaglia l'io nella sua distanza interiore in rapporto a
imago.
Quello che Rousseau aveva presentito dell'identità con quel pro
gramma virtuale della pietà suscettibile, in virtù della sua !abilità nel
la storia, di degenerare ad ogni istante in amor proprio è il travaglio
di Thanatos come principio di interruzione che travaglia l'affermazione
dell'Identico e lo scarto originario o la spaccatura irriducibile a motivo
della quale si proclama una discontinuità irriducibile: l'Altro come
condizione di affermazione di una identità. Qui si affermano i diritti
di un decentramento, in quanto costitutivo del problema dell'identità,
prima di qualsiasi nuova cattura da parte di una logica parmenidea
della tautologia o dell'identità a sé: c'è resto, c'è scarto differenziale
alla fonte del simbolico e questo scarto differenziale è il punto stesso
in cui la possibilità di presa del soggetto nell'ordine simbolico si af
ferma. Non sarà senza importanza il fatto che si ritroverà tale scarto
sul terreno, quando l'etnologia, costruendo la relazione speculare che
struttura la spazialità simbolica della topologia e della metafisica dei
Bororo come dissimmetria costituente, coglierà l'importanza della me
tonimia come qualcosa che viene a corrompere con una dissimmetria
canonica la centrata specularità della metafora. Con l'affermazione del
l'esistenza della pietà allo stato di pura natura, la quale funziona come
una virtualità e un programma prima che il principio della realtà sia
presente perché essa si eserciti effettivamente, Jean-Jacques Rousseau
ha presentito ciò che dell'ordine del simbolico lacaniano si esplicita
meno con l'Edipo che con lo stadio dello specchio: la prematurazione
o il ritardo apparente del piccolo dell'uomo introducono questo scar
to temporale, questa reinscrizione anteriore, questa ripetizione, in tut
ti i sensi del termine, dello scarto necessario tra il simbolico e il reale,
23
scarto in virtù del quale ogni figurazione comincia.
Tutto sta in una spazializzazione speculare che, senza dubbio, de
costruisce il soggetto ma non per questo lo svuota. Le ricerche e le
teorie, che, per giustificate ragioni di polemica e per rinsaldare la pa
dronanza del loro continente epistemologico, si erano fatte un pro
blema di rimuovere il soggetto, si trovano di fatto di fronte al pro
blema inverso di una riconsiderazione della soggettività: soggetto
scisso, sé allo specchio, cioè soggetto polverizzato, la soggettività non
è più esclusa, anche se è urgente e legittimo criticare certe forme psi
cologiche o ingenuamente fenomenologiche dell'identità quali quelle
che fanno funzionare gli empiristi, i funzionalisti e i culturalisti.
24
Discorso e percorso
Michel Serres *
25
dell'importanza decisiva - per i nostri predecessori e per noi - delle
tecnologie, dei protocolli e dei teoremi fondati sul calore. Per dirla
in breve, mi sono reso conto dell'importanza della termodinamica e
di tutto quel che vi si riferisce. È stata la termodinamica a mettere
sossopra il vecchio mondo e a formare quello in cui ormai lavoriamo.
Per altro verso, io sono anche convinto che la storia delle scienze
non merita un'ora di fatica se, come le scienze vere e proprie, non
diviene efficace. In altri termini, sono convinto che la storia delle
scienze offre minore interesse in quanto oggetto o dominio che in
quanto insieme di operatori, in quanto metodo o strategia al lavoro
su formazioni diverse da essa.
Tra questi altri contenuti culturali si incontrano, per esempio, i
racconti letterari, storici o filosofici. Così, nell'ambito di certi altri
tentativi, ho cercato di rileggere il ciclo dei Rougon-Macquart di Emile
Zola. Si trattava di un test inevitabile in quanto l'opera si presenta
come dotta e una macchina a vapore vi circola dentro tra le tare e gli
omicidi.
La griglia genetica, imposta da una decisione dello stesso autore,
chiarifica la lettura molto più di quanto la traduzione non dica. Con
venientemente generalizzata, essa conduce ad una griglia termodina
mica, più potente e più efficace soprattutto quando le si aggiungono
alcune teorie fondate su processi di trasformazioni chimiche. Una vol
ta detto questo, però, il filtraggio del testo ad opera degli operatori
precedenti lascia un certo numero di residui irriducibili.
Ora, in maniera invariante - il che vuoi dire per ogni racconto
del ciclo - questi residui fanno apparire delle serie, in cui sempre si
combinano in un ordine qualsiasi gli elementi di uno stesso insieme:
il ponte, il pozzo, l'albergo, il labirinto, la prigione e la morte.
Il termine " combinazione " non riceve qui il senso ristretto che
ha in matematica, perché i criteri di non-omissione e di non-ripeti
zione non sono osservati. Al contrario, certe figurazioni possono ri
tornare e altre scomparire.
Dato che, per un altro verso, il giuoco e il caso hanno in ogni rac
conto una funzione canonica al pari del disegno di percorsi rigirati a
spirale in modo da ritornare su se stessi, bisognava concludere che
mi trovavo in presenza del giuoco dell'oca - giuoco irriducibile ai me
todi e alla strategia della storia delle scienze, a meno di non pensare
che esso rappresenti le tappe dell'iniziazione alchimistica alla grande
opera e che sia dunque una figura arcaica del fuoco divenuta di do
minio comune; giuoco dell'oca che è parziale (vi si giuoca, infatti , una
o più parti per racconto) e globale (per l'intero ciclo: Pot-Bouille è
bene la casella dell'albergo, Germina! la casella del pozzo, Réve una
casella interamente vuota e così di seguito). Su questo punto non si
26
è avanzati di molto. Si sarà fatto, forse, qualche progresso quando si
sarà parlato di uno sfruttamento del caso del protocollo genetico,
quando si sarà riconosciuto un piano a spirale per l'insieme del ciclo
che indefinitamente risorge da se stesso (donde il nome di Pascal, il
suo teorico) e quando, ripassando per la tradizione alchimista, si sarà
scoperto che si tratta di un giuoco di circolazione e che tutta l'opera
è un insieme di circolazioni (in particolare quella della famiglia - del
l'albero - nel corpo sociale, circolazione che la Prefazione chiama ir
radiazione o grande viaggio) .
L'interesse riprende di colpo non appena s i pensa che i cosiddetti
contenuti residui, mobilitati sul grafo del giuoco dell'oca, sono in ef
fetti riproduzioni, perfettamente riconoscibili, di costellazioni mitiche
correnti. Sono riprese del discorso greco-latino e giudeo-cristiano, sono
anzi esiti di un'area più vasta quale quella del ciclo del banchetto,
isolato in altri tempi da Georges Dumézil. Ecco un esempio. Gervasia
dell Assommoir è zoppa. Ecco la figura della tara ereditaria. Qui la
'
parola " tara " significa scarto rispetto all'equilibrio. D'altronde, pe
rò, suo marito, che è un conciatetti, cadrà da un tetto e diverrà zoppo
come lei. Gervasia è caduta: è finita in mezzo al sottoproletariato
nella bidonville Goccia d'Oro. È l'amante del fabbro Bocca d'Oro.
È la madre di Nanà Mosca d'Oro, che debutta nella sua carriera ar
tistica recitando la parte della bionda Venere in un teatro parigino.
Ecco che, seguendo e rintracciando la leggenda dorata, si ricosti
tuisce tutta la faccenda di Vulcano, il cui antro è ricostituito precisa
mente sul palcoscenico di un teatrino. Gervasia zoppica a motivo della
tara, sculetta a motivo della caduta. La dottrina fa d'un colpo silenzio
e parla la mitologia. È quest'ultima a far comprendere perché la zoppa
divenga lavandaia. La ragione è una colpa originaria - tara o caduta,
lordura o strappo - che bisognerebbe ben lavare o ricucire ma che
ella non riesce a pulire o ad accomodare, una colpa commessa al Pa
radou, al giardino d'inverno di Saccard o al largo Saint-Mittre.
Da allora in poi è reperibile nel ciclo tutta una serie di zoppi irri
ducibili al discorso scientifico tranne che per la metafora della tara.
Gervasia, quindi, non la sua figura mitica, prepara il banchetto per
fettamente ripetitivo del ciclo delle bevande di immortalità - con la
differenza che vi si mangia un'oca. E il giorno delle sue nozze il cor
teo degli invitati va al Louvre a rivedere, come a teatro, gli emblemi
di questo banchetto: Le nozze di Cana ( = transustanziazione dell'ac
qua in vino) , La zattera della Medusa ( = naufragio in mare), i colossi
di marmo nero ( = le statue di pietra). E in questa occasione il corteo
si perde dentro il Museo senza poterne uscire ( = labirinto), si ripara
dalla pioggia sotto il Pont-Royal, osserva i muri e i tetti di Parigi dal
fondo di un buco ( = il pozzo), sale nella colonna Vend6me per la
27
stretta spirale della scala, si ferma nell'albergo del Moulin d'argent
e, per finire, incontra il becchino, un beccamorto vestito di nero, che
in stato di ubriachezza balbetta che, quando si è morti, è per sempre.
Una mescolanza - saggia o selvaggia - di tre vecchissimi modelli
culturali è associata a una circolazione i cui stadi sono i casi classici
del giuoco. Questo esempio, che per comodità ho scelto all'interno del
racconto più celebre, non è che un esempio, ma è canonico. Si ripete
ancora nello stesso racconto, poi si generalizza ad ogni romanzo del
ciclo ed infine si cristallizza nel suo programma generale. Dal che de
riva questo bilancio globale: una volta filtrati i contenuti cosiddetti
scientifici, resta un residuo, in cui un giuoco di circolazione organizza
certe riprese mitiche.
Ci si deve ormai porre il problema di una siffatta associazione, il
problema, in altre parole, di come e perché, attraverso numerose va
riazioni di aree di discorso (il mito di Efesto, il primo giardino e
l'incesto, il ciclo del banchetto, il ladro, la pietra e la morte), resta
up'invariante che costituisce il grafo di un percorso. Finché è evidente
l'invarianza pur tra le variazioni, permane il fatto che la figura pre
sente (quella del giuoco dell'oca) appare debole e assai sfalsata in re
lazione alla speranza di un'ipotesi. Malgrado Molière con altri la dica
tratta dai Greci, si tratta di una notizia inventata di sana pianta. È
quindi quest'ipotesi che è necessario raffinare.
Riprendiamo, per favore, le sue caselle e i suoi emblemi: il ponte,
il pozzo, il labirinto, l'albergo, la prigione e la morte. Lasciamo per
il momento la morte, che nella serie si distingue quanto meno per
non essere un artefatto (si tratta di una differenza sicuramente signi
ficativa: la morte è e non è tutto questo). Per dirla in breve, la serie
degli ostacoli nella circolazione del giuoco mostra dei passaggi, e del
le stazioni.
Il ponte è una via che unisce due sponde o rende continua una di
scontinuità o valica una frattura o ricuce uno strappo. Lo spazio del
percorso è crepato dal fiume, che non è uno spazio di trasporto. Da
allora in poi non c'è più un solo spazio; ce ne sono due varietà senza
limiti comuni. Le due varietà sono così diverse che c'è bisogno, per
unire i loro limiti di un operatore difficile o pericoloso - difficile per
ché è necessario quanto meno un pontefice; pericoloso perché spes
sissimo il limite è sorvegliato da un diavolo oppure i nemici di Orazio
Coclite vi sferrano un assalto. La comunicazione era tagliata. Il ponte
la ristabilisce vertiginosamente.
Il pozzo è un buco nello spazio, una lacerazione locale in una
varietà. Può deconnettere un percorso, che lo attraversa, e in questo
caso il viaggiatore cade ( = la caduta del vettore). Può però connettere
delle varietà che si trovino ammucchiate (foglie, pagine, formazioni
28
geologiche). Il ponte è paradossale: connette il deconnesso. Il pozzo
lo è più ancora: deconnette, ma anche connette, il deconnesso. L'astro
nomo vi cade dentro. La verità viene fuori. Il drago assassino vi ha la
sua dimora, ma vi si attinge l'acqua dell'immortalità. Zia Dide, la paz
za, vi getta la chiave - la chiave del testo, s'intende - ma esso rac
chiude tutti i germi. Il pozzo della miniera germina e si chiama Ger
minai. Ed ecco che, tutto ad un tratto, parlo a più voci e non so più
marcare il limite tra racconto, mito e scienza.
Questo ponte è forse quello di Koenigsberg dove Eulero inventò
la topologia? O quello sulla Viorne o sulla Senna, quello del ciclo dei
Rougon-Macquart o l'insieme dei ponti esposti ai discorsi mitici? No.
Non ho più scelta ed è lo stesso ponte.
Questo pozzo è forse un buco nelle varietà riemaniane? È forse
un pozzo di potenziale dove a bassa quota compare il germe, com'è in
Thom? O è quello di Plassans? O è quello di Jacob? No. Non ho
più scelta ed è lo stesso pozzo.
In tutti i casi - e tanto peggio per le classi - si tratta di connes
sione e di non-connessione, si tratta di spazio e si tratta di percorso.
E dunque l'essenziale non è più quella figura, quel simbolo o quell'ar
tefatto. L'invariante formale è qualcosa come un trasporto, un errare
o un viaggio attraverso varietà spaziali separate: la circumnavigazio
ne di Ulisse o di Gilgamesh e la topologia.
Posso ricominciare, riprendendo ad uno ad uno gli altri elementi
della serie. Posso dimostrare la cosa per la prigione (cinta chiusa), per
l'albergo (soglia, relé o rilancio) ed infine per il labirinto, che costi
tuisce la somma degli emblemi, un dedalo di connessione e non-con
nessione tanto chiuso quanto aperto, in cui il trasporto è tanto un
viaggio quanto un'immobilità. Sono tutti operatori paradossali dello
spazio, i quali segnalano che troppo presto la si è fatta finita con lo
spazio e che con gli spazi non la si fa mai finita. Sono operatori al la
voro nello stesso tempo con i miti favolosi di Creta e con i racconti
di quella che chiamiamo letteratura. Sono operatori al lavoro nella
teoria o topologia dei grafi, dei giuochi e delle reti di trasporto.
Più o meno due secoli fa Kant cominciava a filosofare osservando
una proprietà paradossale dello spazio. Su di una simmetria non detta
o non dicibile egli proiettava un'estetica. Ora, il suo errore era dop
pio. Egli non reperiva che un solo spazio, mentre se ne possono de
finire di vari, di numerosi e sempre in numero crescente. Per altro ver
so, egli tentava lo sciocco progetto di una fondazione nel soggetto
trascendentale, mentre possiamo ricevere tutto nel linguaggio e nelle
pratiche.
Di qui deriva questo bilancio temporaneo. Dispongo di operatori
tratti da simboli ingenui che lavorano su un non-detto (non detto
29
dalla filosofia almeno) , cioè sugli accidenti o sulle catastrofi dello spa
zio e sulla molteplicità delle varietà spaziali. Che cos'è il chiuso? Che
cos'è l'aperto? Che cos'è una via di connessione? Che cos'è una lace
razione? Che cos'è il continuo? E che cos'è il discontinuo? Che cos'è
una soglia? Che cos'è un limite? Ecco il programma elementare di
una topologia. Non è più dunque mia madre l'Oca che, stabile, rac
conta tutti i miti possibili ovvero resta invariante per le loro varianti.
Ormai è lo spazio, ormai sono gli spazi a costituire la condizione delle
sue vecchie storielle - gli spazi per i quali ho la possibilità di dispor
re di un sapere nuovo e sui quali sono scritti i miti.
1 Cfr. M. Serres, Hermès II. L'inter/érence, Éditions de Minuit, Paris, 1972 (n.d.t.).
30
nello scambio di queste connessioni multiple verrà detto disadattato
oppure delinquente oppure disorientato. E lo stesso accadrà a chi si
ferma in uno solo degli spazi ovvero, all'inverso, a chi prova ripu
gnanza per tutti. E a chi, per esempio, resta gelato e perduto nell'al
bero della famiglia o a chi teme di uscire dal chiuso paradiso tra le
due braccia del fiume. E a chi vuole lacerare la rete sofferta come
prigione o come vincolo di schiavitù.
Questo ci conduce all'origine. In generale, una cultura costruisce
nella sua storia e per essa un'intersezione originale di tali varietà, un
nodo di connessioni ben preciso e particolare. Questa costruzione, io
ci credo, è la sua stessa storia. Ciò che differenzia le culture è la for
ma dell'insieme dei collegamenti, il suo andamento, il suo posto e
cosl pure i suoi cambiamenti di stato, le sue fluttuazioni. Ma ciò che
le culture hanno in comune e che le costituisce come tali è l'operazio
ne stessa di collegare, di connettere. Ecco che emerge l'immagine del
tessitore, di colui che lega, annoda e pratica ponti, vie, pozzi o relé
tra spazi radicalmente diversi. Di colui che dice cosa accade tra queste
cose. Di colui che inter-viene a vietare (la categoria tra è fondamen
tale in topologia e qui). Di colui che inter-viene, nelle rotture e nelle
crepe, tra le varietà tutte chiuse in se stesse (terminate, isolate, chiu
se, separate - terminate, non insozzate, pure e caste, per esempio).
Ora, quel che non è casto (incestus) può essere l'incesto. Il divieto
dell'incesto è allora, alla lettera, una singolarità locale, esemplare di
questa operazione in generale, che è un lavoro globale per connettere
il deconnesso e viceversa, per aprire i luoghi chiusi e viceversa, per
ridurre una lacerazione e viceversa e cosl di seguito. Ed ecco che con
questa estetica formale generale siamo di nuovo allo stesso punto.
Dobbiamo allora parlare di queste difficili operazioni. L'identità di
una cultura va letta su una carta : la sua carta d'identità, che è la
carta dei suoi omeomorfismi.
31
ta, della nota qualunque e discreta). Di qui Leibniz traeva l'idea che la
musica era davvero il linguaggio più vicino alla lingua universale ov
vero alla Mathesis universalis. Un suggerimento, questo, poco ascolta
to dai :filosofi, ma sentito dai musicisti, se alla morte di Joan-Sebastian
Bach si trovò al suo capezzale il De arte combinatoria di Leibniz - una
circostanza, questa, che permette peraltro di leggere alcune fughe. Il
tutto sopravvenuto in piena età classica nel momento in cui il discorso
razionale si sostituiva definitivamente al testo mitico. Allora l'arte è
divenuta scienza, è divenuta metodo produttivo e fecondo, è divenu
ta realizzazione operatoria di un progetto rimasto in quei tempi nelle
spire della ragione.
Lo stesso Leibniz, inventore arcaico dell'algebra contemporanea e
della teoria delle strutture, scopriva, non in concorrenza ma congiun
tamente, una disciplina che chiamava analysis situs e che noi battez
ziamo topologia : si tratta di una scienza sorella della prima. Da allora
si può immaginare e seguire, attraverso lo spazio e i suoi elementi, un
cammino parallelo a quello che fu aperto nel discreto degli elementi
e delle loro combinazioni. Ritorniamo ancora allo stesso punto e que
sta volta attraverso la storia.
32
cocchio di Laio. È insultato da Polifonte. Il fatto che l'assassinio del
padre abbia luogo in questa croce, in questo bordo tagliato e anno
dato, ovvero su questo limite o su questo crepaccio, costituisce una
catastrofe. A questo punto la circostanza è l'assassinio e la legge è
tracciata al suolo: consiste nel varcare la soglia spezzata della parola.
L'essenziale è davvero la biforcazione. Ed ecco che, a trattare del
padre, la legge ricomincia. Si tratta di una biforcazione tracciata sul
l'albero genealogico: padre, madre e figlio. Ed ecco ancora sul grafo
l'usualità del racconto. A sinistra l'uno, a destra l'altro - e l'incesto,
lo si è già visto, è ancora una connessione sul deconnesso. Il testo si
rigira come un guanto e fa vedere la sua funzione, che è quella di
mostrare separazioni tra spazi e il loro difficile legamento. Si può dire
che Edipo uccide Laio in questo luogo e si può non vedere il luogo
e rimuovere il luogo del rimosso oppure si può dire che questo luogo
è tale che Edipo vi uccide suo padre, che è un punto cosl catastrofico
e cosi chiuso che bisogna uccidere padre e madre per superarlo. Es
sere il figlio e porsi al bivio: ecco due biforcazioni e due catastrofi che
il mito annoda con la sua stessa parola. E il fatto che il figlio si chia
mi Edipo ripete la stessa legge. Come ci si può spostare nello spazio
quando si soffre ai piedi? Ora, per impedirgli di viaggiare, i suoi ge
nitori lo appendono per i piedi. Edipo si rimette in piedi e si mette
in viaggio per Delfi: il mito si rimette in piedi. È un discorso che
intesse un complesso (nel senso originario del termine) , è un discorso
che connette una rete, è un discorso che traccia un grafo sullo spazio.
Ed ecco la Sfinge. Ed ecco che ricomincia la stessa legge. Questo
cane da guardia di Tebe muore di una soluzione e vive di soluzioni
di continuità. Essa sorveglia la strada tagliata su cui i Tebani non
passano più, perché divorati e fatti a pezzi. È chimera: mezza leone e
mezza donna, mezza a quattro zampe e mezza a due gambe. È un po'
uccello forse. È un corpo ricucito, mal cucito e composto di due parti
in dicotomia, annodate a formare un X e sormontate da ali. Due
parti annodate a formare un X, un bivio, e le ali che lo superano per
chi non ha più bisogno di piedi. La Sfinge è biforcazione e viceversa.
Il bivio è chimera. Tutto si ripete allora: l'enigma e il sapere (cosl
sulla strada di Tebe come su quella di Delfi), la catastrofe e il passag
gio, la lacerazione e la connessità. Edipo è davvero l'ultimo discen
dente degli Spartoi, degli spazi disseminati, della separazione cata
strofica e del continuo da ricuperare.
Tutto si ripete ancora, quando Giocasta riconosce suo figlio dalla
cicatrice ai piedi, cicatrice in cui le labbra di un crepaccio vengono
a connettersi. Sofocle, però, segue un'altra versione del riconoscimen
to e la sua traduzione è fedele. Edipo si riconosce assassino nel mo
mento in cui la madre Giocasta, nel suo racconto, fa menzione del
33
bivio, del X· Non sono io, ma sono Sofocle, il figlio e la madre in
sieme a prelevare la legge del discorso nel discorso stesso.
Nel Timeo di Platone, dopo che si è fatta menzione della chOra,
matrice e madre in cui noi riconosciamo lo spazio topologico, si dice
che all'inizio del mondo lo Stesso e l'Altro, che erano separati, sono
ricuciti dal Demiurgo a formare un X, che rappresenta l'inclinazione
dell'eclittica sull'equatore oppure il mondo-chimera oppure ancora lo
spazio del mondo descritto come uno spazio da connettere artificio
samente.
Ordunque, ad un certo inizio di una certa storia l'incesto dise
gna, sull'albero familiare dalle strade ordinate e strutturate da qualche
relazione d'ordine, una svolta che ritorna su se stessa verso un bivio
anteriore e riconnette fortemente il complesso spaziale. Sono partito
da una singolarità locale dello spazio e sono finito in una legge globa
le che si scrive invariabilmente la connessione del separato.
Di qui l'idea, generale e semplice, che gli spazi mitici sono chi
merici - un teorema a tautologia letterale ma che scopre uno stato
complicato. Ci sono da annodare due parti separate tanto quanto lo
stesso e l'altro. Il percorso di Edipo valica accidenti spaziali, biforca
zioni, catastrofi e svolte. Il discorso di Edipo è propriamente questo
percorso: posa del X su delle fratture, su dei bivi, tra varietà che non
hanno un bordo comune - il che suppone che prima di tale discorso
esisterebbe una molteplicità di spazi senza rapporto, cioè il caos.
Bisognerebbe poter dimostrare la generalità dell'ipotesi. Lo spa
zio non è un tema del ciclo di Ulisse, non è quell'unità discreta ritro
vata indefinitamente o con ripetizioni lungo la sua sequenza discorsiva.
La pluralità degli spazi disgiunti, e tutti differenti, è il caos originario,
condizione della serie che li riunisce. Il viaggio di Ulisse, come quello
di Edipo, è percorso ed è un discorso di cui comprendo ormai il pre
fisso. Non è il discorso di un percorso, bensì radicalmente il percorso
di un discorso : il corso, il cursus, la direzione, la strada che passa at
traverso la disgiunzione originaria e il ponte gettato sui crepacci. La
separazione è di un rigore inespugnabile. Tutti gli spazi incontrati so
no perfettamente definiti, senza confusioni o mescolanze nei contorni,
ed è impossibile connetterli tra loro. Non possono comporsi per forma
re una varietà omogenea unica e combinano categorie come quelle di
aperto e chiuso, di esterno e interno, di bordo e di limite, di vicinanza
e aderenza e cosl via di seguito - concetti che sono tutti caratteristici
dei numerosi spazi della topologia.
Di qui viene nel testo tutto quel che si vuole: le isole inaccessibili
e i paesi da cui non si può venir fuori ; la spiaggia dove ci getta la
catastrofe; l'infrangersi della risacca; le rive donde si viene respinti
34
indietro, quando già sono così vicine che quasi si toccano; l 'ingresso
di un cavallo di legno all'interno della città chiusa, dove i guerrieri
sono nel medesimo tempo dentro la città e fuori di essa, per il fatto
di essere dentro una scatola chiusa che è dentro la città chiusa; l'usci
ta di un ariete (un ponte) fuori da una caverna chiusa dove brucia un
pericoloso braciere (l'ariete è un nuovo cavallo ma con la differenza
che non è in giuoco qui lo spazio ottico e visuale, bensì lo spazio con
lacune del tatto - di qui l'accecamento del ciclope per mostrare che un
sistema chiuso non è lo stesso per chi ci vede chiaramente e per chi non
ha più che la sua pelle) ; il passaggio, pieno di attrazioni, davanti alla ri
va delle Sirene, in cui vengono disposte una vicinanza e un'aderenza,
aperte per il sordo e chiuse per ogni ascoltatore. La carta del viaggio
prolifera di spazi originali, perfettamente disseminati o letteralmente
sporadici, ciascuno rispettivamente determinato in fin dei conti e il
cui errare globale e la cui avventura mitica non sono, tutto sommato,
che il raccordo generale. Come se il discorso avesse come unico og
getto o come unico bersaglio quello di connettere o come se il rac
cordo o il rapporto costituissero la via per la quale passa il primo
discorso, costituissero un mythos, il primo logos, costituissero un tra
sporto, il primo rapporto, costituissero un raccordo, condizione del
trasporto. Di qui Penelope al posto teorico. Di qui la regina che fa e
disfa la tela, il primo corrispondente femminile di quello che, dive
nuto maschio, sarà il Regale Tessitore di Platone. Come dice De
scartes nella Regola X/ l'arazzo mescola fili dalle sfumature infinita
mente varie, e qui " infinitamente " indica il razionale e l'irrazionale.
Descartes lo dice di una matematica selvaggia. Ci siamo ancora una
volta : selvaggio o femminile, il logos è presente, ma ancora tra le
mani. Le mani raccordano. Penelope è l'autrice e la firmataria del di
scorso, ne traccia il grafo, ne disegna il percorso. Fatto e poi disfatto,
questo tessuto mima il progresso e il regresso del navigatore, di lllis
se a bordo della sua nave (una spola che allaccia e intreccia fibre se
parate da vuoto e varietà circondate da crepacci, una spola merlettaia
e ricamatrice, attraverso pozzi e ponti, di questo flusso continuo, ta
gliato da catastrofi, che si chiama da se stesso discorso) . Tra le braccia
della regina al palazzo di Itaca Ulisse trova, infine, la teoria finita del
suo proprio mythos.
2 Cfr. R. Descartes, Opere filosofiche, UTET, Torino, 1969, pp. 78-81 (n.d.t.).
35
Si consideri, però, l'anello - l'anello che, gettato in mare, apre
all'eroe le dimore di Posidone (una discesa agli inferi sotto le acque).
Ci sono almeno tre cambiamenti di spazio grazie all'anello - grazie a
questo anello mitico ritrovato nella storia con Policarpo e nell'allego
ria morale con Gige cosi come ce ne parla Platone. Il passaggio è dal
la felicità all'infelicità ovvero dal visibile all'invisibile. Chi non sa or
mai che un toro 3 non ha le stesse caratteristiche spaziali e topologiche
di un comune oggetto dello spazio ordinario e non ha le stesse inva
rianti di questo? Esso introduce pertanto in uno spazio diverso, senza
misura comune e senza connessione con quello che noi crediamo essere
il nostro. Da qui in poi si disegna tutto un programma. Bisognerebbe
disegnare i grafi di percorso, definire nel modo migliore gli spazi in
giuoco e esaminare i nodi, i caducei, le ruote, le arborescenze e tutta
un'attrezzatura spaziale (la tecnologia di questo discorso) e le sue spe
ciali morfologie. Non si tratta più di elementi ma, per cosi dire, delle
tavole di una legge. Si tratta di operatori espressivi dell'operazione
del discorso mitico stesso, che, sin dalle sue origini, ha la funzione di
ricollegare tra loro degli spazi, come per esempio le nicchie ecologiche
separate e difese colle unghie e con i denti. Nessuno ne esce e nessuno
vi entra a meno che non parli il linguaggio della geometria. Discorso
che ha per fine la comunicazione, il mito cerca di trasformare in spa
zio di comunicazione un caos di varietà tagliate e di riannodare o an
nodare i tagli ecologici (dall'animale muto al primo parlante) . Al posto
teorico, in universo, è colei che condiziona e prepara il lavoro della
stessa tessitrice, colei che produce e dà il filo: Arianna.
36
mare di Ippaso di Metaponto (chi non può più valicare il mare, non
può più parlare), ecco l'irrazionale o l'indicibile, cioè, con molta più
esattezza, l'incomunicabile. Di fatto è il ritorno allo stato anteriore
delle cose prima dell'installazione del discorso razionale, prima di quel
tempo in cui gli spazi erano raccordati male e in cui il trasporto e il
percorso non erano altro che mito.
La setta si dissolve davanti a ciò che si può tagliare all'infinito
fino all'atomismo democriteo. Ippaso fa naufragio come Ulisse. Il pi
tagorismo aveva voltato le spalle alla topologia selvaggia. Esso affon
da di nuovo nel mito a partire dalla scoperta della topologia dei reali.
Aveva messo in giuoco uno spazio delle medietà e della comunicazio
ne. Muore per il fatto di averlo perso. Tutto il razionale (discorsivo e
dicibile, matematico e logico), che in ultima analisi corrisponde a una
vicinanza alle fonti, alla possibilità di parlare tra sé, ridiceva, in un
mondo unificato e in uno spazio del trasporto e della comunicazione
scoperto, perduto e ritrovato, mille pratiche latenti che avevano for
mulato a poco a poco e per altro verso il loro linguaggio. È la disper
sione delle città greche - isolati reciprocamente chiusi, isole separate
come le Sporadi, in cui l'uomo degno di questo nome, cioè l'uomo
misura e misura di tutte le cose si trova all'interno, mentre all'esterno
di questo spazio politico circolano degli animali, dei barbari dalle lin
gue borborigmiche. È la molteplicità caotica degli spazi sociopolitici.
È il mondo prima della sua formazione, il mondo pratico prima che
emerga il sapere scientifico. Questo logos, che è anzitutto mito, può
riuscire quanto meno una koinè: tutti i principi delle città greche si
riuniscono dall'altra parte di questo braccio di mare, davanti a Troia,
per fondare una lingua di comunicazione, resa anzitutto possibile da
gli dei - gli stessi dei che si incontrano qui, là e dappertutto perché,
nel loro spazio altro, godono di un solo spazio. È essenziale non sape
re più dove è nato Dioniso o dove sono morti Teseo e Edipo. È pre
feribile che sia ovunque. Allora, in questo discorso, il caos ricomin
cia. Compaiono le membra sparse, il diasparagm6s, le ossa di mia ma
dre la Terra, la famiglia originaria degli Spartoi, la disseminazione nel
lo spazio e perfino la disseminazione delle morfologie stesse.
Di qui il problema primario: trovare lo spazio unico ovvero l'in
sieme degli operatori, grazie ai quali queste varietà a vicinanza im
praticabile e inconcepibile si raccorderanno; aprire la strada, la via,
il sentiero o la pista tra questo caos scucito e tra questo nugolo cen
cioso, il cui groviglio dicotomico è la ripresa nello spazio comune del
trasporto, quando questo è ricostruito; trovare il rapporto, il logos
dell'analogia, la catena delle medietà, la misura comune e il Ponte
degli Asini; trovare la bilancia o il clinamen; trovare risposte seconde
e seconde parole, in cui la misura e la giusta misura suppongono uno
37
spazio omogeneo, dove si pone la referenza e che è la prima risposta
al problema posto, suppongono lo spazio unitario dei possibili traspor
ti o dei trasferimenti sempre possibili; infine, dunque, trovare anzi
tutto, e trovare condizionalmente, una parola o un logos che già ab
biano lavorato a connettere le crepe, che corrono attraverso il caos
spaziale delle varietà deconnesse. Tutto ciò equivale a trovare il Tes
sitore, il Tessitore primo operaio dello spazio, prosopopea della to
pologia e dei nodi, il Tessitore che lavora a ricucite localmente due
mondi separati (separati, dice il mito degli autoctoni, da un arresto
improvviso, dalla cesura metastrofica che accumula i morti e i nau
fragi, cioè dalla catastrofe); l'operaio che, come dice Platone in quel
discorso in cui si mescolano la dicotomia razionale con il mito dei due
spazi-tempo e la misura comune con il Tessitore, districa, intreccia,
torce, passa sopra e sotto e riannoda il razionale e l'irrazionale, cioè
il dicibile e l'indicibile, la comunicazione e l'incomunicabile; l'ope
raio dello spazio unico, spazio della misura e del trasporto, di questo
spazio euclideo proprio di ogni spostamento possibile senza cambia
mento di stato, che un giorno fu sostituito splendidamente alla pro
liferante molteplicità di morfologie non legate.
Quando si praticano la dicotomia e le sue strade connesse, biso
gna sapere che i suoi tagli seguono e recuperano il vecchio racconto
mitico in cui i mondi sono lacerati da una catastrofe, che solo il Tes
sitore sa ricucite o può riunire. Allora e solo allora nasce la Geome
tria e il mito tace. Allora il logos (o rapporto) si dispiega con catene e
reti sullo spazio liscio del trasporto, che sostituisce di per sé il discorso
dei percorsi. Allora l'omogeneo legato cancella le catastrofi e l'identità
congruente dimentica gli omeomorfismi difficili. La ragione, come si
dice, ha trionfato sul mito? No. È lo spazio euclideo che ha ricaccia
to indietro una topologia selvaggia. Sono il trasporto e lo spostamen
to senza ostacoli che hanno preso tutto ad un tratto il posto del per
corso, del vecchio percorso di isole in catastrofi, dal passaggio al cre
paccio, dal ponte al pozzo e dal relé al labirinto. La funzione origina
ria del mito è cancellata e lo spazio nuovo, come la ragione o la ratio
che esso porta, è universale solo perché non vi si fanno più incontri.
Vi si può camminare, dice Platone, a due o a quattro piedi, si può
prendere la diagonale, vi si può scegliere a tutt'agio la via più lunga
o la strada più corta, il sentiero, l'ode o il periodo e così via finché
si vuole. La terra è misurata (geometria) dalla giusta misura (il Re).
La molteplicità, la folla pericolosa di morfologie caotiche sono assog
gettate.
Di qui i due grandi ritorni del XIX secolo. Sotto l'apparente uni
cità dello spazio euclideo la matematica ritrova, nel suo riflusso alle
origini, la brulicante molteplicità di spazi diversi e originali. E la to-
38
pologia emerge come scienza. Non la si è più fatta finita e non la si
farà più finita con gli spazi. Ordunque, nello stesso momento, nella
vecchia Europa addormentata sotto la ragione e la misura, la mito
logia in quanto discorso autentico riappare. Ecco che si chiarisce il
carattere di elementi gemelli per i seguenti ritrovati: il ponte di Eule
ro e il ponte di navi sull'Ellesponto sotto la tempesta, il complesso di
Listing o Maxwell e il dedalo di Creta. È vero, comunque, che già
Leibniz, primo inventore della nuova scienza, diceva, a tempo e fuor
di tempo, che occorreva ascoltare le storielle delle buone comari.
Discussione
39
chel Serres) ciascun mito, in fin dei conti, consiste nell'innestare e
disinnestare dei relé.
È detto meno bene ma vuol dire la stessa cosa. Credo, dunque,
che, per un singolare incontro, ci troviamo pienamente d'accordo.
Forse l'analizzatore di miti desidererebbe che fosse su " miti veri
e propri ", e non su un'opera letteraria, che la dimostrazione avesse
luogo. D'altra parte, Lei ha mostrato assai bene perché, nonostante
tutto, sia possibile fondare una dimostrazione su quest'opera lettera
ria. Essa conserva tutta l'eredità della vecchia mitologia greco-latina,
che vi si ritrova, per dir così, per interposta persona.
D'altronde, il mito di Edipo, che io stesso ho certamente avuto
torto ad utilizzare (i grecisti me l'hanno fatto ben notare), non è evi
dentemente un mito propriamente detto, è una serie di elaborazioni
letterarie.
Mi chiederò piuttosto, allora, se, dietro nozioni come quelle di
incrocio, ponte, pozzo, albergo, labirinto e morte, non ci situiamo in
una problematica (io so, però, che il termine non sarebbe del tutto
peggiorativo per Lei) un po' troppo " bachelardiana ".
40
]ean-Marie Benoist: Vorrei fare a Michel Serres solo due doman
de. Di fatto è stato sottolineato che i miti e le fonti letterarie, qui
convocate, funzionano in società dell'Identico. Capiterebbe la stessa
cosa per insiemi non tributari, per esempio, della mitologia europea
o indoeuropea?
41
cui si trova che il numero dei termini è più ristretto. Si otterrebbe in
tal modo una sorta di rappresentazione geometrica di più nomencla
ture di parentela, la quale permetterebbe eventualmente di reperire,
tra queste, dei rapporti la cui forma generale non era immediatamente
percepibile.
Raul Mendez: Secondo me, in quello che Lei ha detto, c'è una cer
ta bellezza che nello stesso tempo è preoccupante. Dietro l'afferma
zione del giuoco della legge, dietro la combinatoria algebrica, non c'è
forse il giuoco dell'uno e del multiplo, cioè dell'Uno che si esprime
attraverso il due, il tre, il quattro . . . che a sua volta domanda il tre,
il due, l'Uno? Mi domando fino a che punto non vi si trovi l'esi
genza di un modello assoluto che si manifesta attraverso il multiplo.
Gli spazi, che la topologia ci ha fatto trovare, rinviano forse a una
esistenza. Non c'è vero spazio, c'è un buco. Non appena abbiamo
qualcosa, siamo presi in qualche griglia che l'esprime ed è espressa
dal multiplo. Tale griglia è però spinta dall'Uno, che spinge attraverso
il multiplo.
Miche! Serres: Penso che Lei abbia ragione a porre questa doman
da. Penso, però, di avere in parte risposto a questa obiezione con
quanto ho precedentemente detto. Ho tentato di far vedere come al
l'origine dell'aritmetica, cioè nei Pitagorici, ci fosse questa idea della
rappresentazione delle cose a mezzo dei numeri interi. Tutto il loro
problema, però, è stato propriamente quello di passare da un intero
a un altro intero attraverso serie di termini medi. Quando si è sco
perto che la strada era interminabile, tutto è allora crollato e ci si è
semplicemente accorti che era di fatto necessario avere un organon
tale da permettere di stabilire una data strada tra due rive, che di
per se stesse erano discrete.
42
Massimo Piattelli-Palmarini: Vorrei porre a Miche! Serres una do
manda riguardo a un testo, quello di Thalès, che presenta un legame
evidente con quanto è stato detto oggi. C'è, Lei dice, la trasmissione
di uno sforzo scientifico attraverso un mito e questo mito è la condi
zione della trasmissione di questo sapere. Vorrei domandarLe cosa Lei
intende, a questo livello, per mito e al tempo stesso cosa ne risulta
per la definizione della ragione. Come il mito istituisce un tipo di ra
gionamento con cui si identifica il lavoro della ragione?
Miche! Serres: Credo che non potrò rispondere alla seconda do
manda. In generale, non credo di poter rispondere alla domanda « che
cosa è la ragione? » . Quel che credo di poter fare è tentare di com
prendere o di lavorare all'interno della relazione tra scienza e mito.
Su questo punto ci sono parecchie opzioni. La prima, per esempio,
consiste - ed io ho tentato di mostrarlo con la figura del ponte -
nell'accorgersi di come, a una certo livello di formalità, si era for
zati a parlare tutto ad un tratto a più voci. Pertanto, quando, per
esempio, dicevo che si instaura una via di connessione tra due varietà
senza sponda comune, dicevo ad un tempo quel che voleva dire Eu
lero e quel che dice il ràtconto di Orazio Coclite. Di conseguenza,
credo che si possa instaurare qualcosa come una parola, che sarebbe
nello stesso tempo una parola di scienza e una parola di racconto, cioè
una parola di mito. Ora, posto questo, c'è un'altra opzione ... e preci
samente il distanziamento, che fa sì che si utilizzi un operatore cosid
detto scientifico al fine di comprendere cosa succede all 'interno di un
discorso. Credo che si debbano mantenere queste due cose: un di
scorso che parli, nello stesso tempo, dei due, dei tre, etc. e la distanza
che permetta di darselo come oggetto. Non ho risposto molto bene...
43
pozzo, ne ho parlato come una lacerazione, a più strade, in un per
corso e credo che sia qualcosa di interamente paradossale. E, dato che
il pozzo è generalmente una figura di caduta . . . ma anche una figura di
risurrezione, perché non tentare di interpretare questo piccolo rac
conto dell'antichità come una frattura che, ad un certo punto, è l'oc
casione di una risurrezione?
sorella. Non ho detto che l'algebra era parallela alla topologia. Il che,
ben inteso, non avrebbe alcun senso. Ho detto semplicemente che si
potrebbe sfruttare l'organon di una scienza sorella.
44
nifesto, attraverso i buchi e le singolarità dello spazio, che cosa acca
deva in un altro spazio, quello del discorso dove si hanno singolarità.
Delle due, allora, l'una: o Lei reinveste nel Suo discorso il fatto che
l'Identità di queste differenze si tiene in un luogo che, in altri ter
mini, scappa o Lei reinveste, cioè nel Suo discorso il fatto che la topo
logia, algebrica o no, è sostenuta da un crepaccio, di cui non può dir
nulla e che è il crepaccio su cui si svolgono nello stesso tempo la ma
tematica con la sua incompletudine e le voragini che ci sono attorno -
oppure Lei nutre la speranza di acconciare tutte queste diverse regioni
con qualcosa che sarebbe la loro parte comune, il loro inglobamento o
la loro intersezione . . . e in questo caso ci si può domandare se non si
tratta della messa in atto di un tentativo di chiusura e se non era pre
cisamente la sua impossibilità, se non era questa impossibilità, che
rendeva possibile tutta questa esplosione di spazi. Ci si può allora do
mandare: forse questa esplosione degli spazi e la necessità di mettere
dei ponti perché si possa circolare un po' . . . più o meno follemente,
d'altronde . . . forse l'esplosione degli spazi non si collega al fatto che ci
sono dei soggetti i quali, per cosi dire, passeggiano in questi spazi e
su questi spazi tracciano non soltanto il crepaccio, ma anche la diffe
renza insostenibile, il disrapporto che è il disrapporto sessuale, cioè
quello della loro avventura con la differenza sessuale?
45
" edipico ". È abbastanza chiaro che, interpretati in termini di comu
nicazione, i miti edipici trattano di una comunicazione abusiva o ec
cessiva. Dunque logicamente, i miti di tipo percevaliano dovrebbero
essere miti sulla comunicazione interrotta. Però, non è esattamente
cosl, giacché i due tipi non sono rigorosamente simmetrici. Dall'esame
comparativo dei miti percevaliani, presi nelle regioni le più diverse del
mondo e nelle culture le più lontane, vien fuori che questi non sono
miti sulla comunicazione interrotta, bensl miti sulla comunicazione ro
vesciata. Il che vuoi dire che invece della buona comunicazione, che
si fa ad esempio da est a ovest, se ne ha una cattiva in senso inverso.
In quale modo si può arrivare a integrare nei Suoi schemi considera
zioni di questo genere?
Michel Serres: Credo che la Sua domanda vada divisa in due parti.
La prima riguarda la categoria dello statico. La seconda introduce due
altre categorie: quella della qualità e quella del senso e dell'orienta
zione nello spazio. Prima di rispondere alla prima, vorrei rispondere
innanzitutto alla seconda parte.
La seconda parte della domanda, cioè quella riguardante la im
portazione delle categorie di qualità e di orientazione, può essere in
realtà integrata in uno schema di tipo topologico (è questo il termine
che ho usato) per la semplice ragione che la topologia è emersa come
scienza all'inizio del XIX secolo, su due imperativi fondamentali. Si
trattava di trovare uno spazio o degli spazi che sfuggissero alla mi
sura ... a quell'epoca si parlava di " geometria qualitativa " . . . Di con
seguenza, la qualità, nel mio discorso, ci sta bene. E ancora, da quando
si sono trovate varietà di tale o talaltro ordine, varietà " patologiche "
come si diceva a quell'epoca, tutti i problemi, che si ponevano al loro
riguardo, erano precisamente problemi di orientazione. Per quanto
pertiene alla seconda parte della Sua domanda, quindi, le due categorie
di qualità e di orientazione non soltanto si integrano bene con il mio
discorso, ma vi sono anche fondamentali.
La prima parte della domanda è un po' diversa: quando si utilizza
uno schema di tipo topologico si resta, Lei dice, nella categoria dello
statico. Sono del tutto d'accordo con Lei: non c'è effettivamente ener
getica in questo discorso, che traccia semplicemente delle griglie, con
nesse o non connesse. Credo, però, di poter dire che il discorso che
ho fatto oggi non è che una metà del discorso che avrei desiderato
tenere in una prova più generale: allo stesso modo in cui Descartes
nel XVII secolo era convinto che non si potevano spiegare le cose se
non a mezzo di figura e movimento, io penso che attualmente, se si
vuole avere un buon organon di spiegazioni, sia sempre necessario
contare su due cose: per un verso, una topologia, cioè il disegno in
46
generale di quel che è in questione in uno spazio determinato, e, per
altro verso, l'energetica che circola nel grafo in questione. In questo
caso non si ha più semplicemente una figurazione statica della spiega
zione, ma anzi si vede cosa circola e cosa accade dinamicamente in
questo stato di cose. Ecco perché, per esempio, all'inizio del discorso
ho parlato della termodinamica e ho detto che ne abbandonavo per il
momento lo sfruttamento perché non potevo dir tutto. È, però, pro
prio questo che volevo annunciare, cioè che attualmente, in un buon
organon esplicativo mi sembra che accorrerebbero la topologia e l'ener
getica a un tempo. Credo che in questo modo sfuggirò alla categoria
dello statico.
Miche! Serres: Per esempio, nel racconto di Edipo, che non è cer
to un mito, si vede benissimo che all'incrocio, che è una forma data,
accadono degli avvenimenti energetici : l'insulto dell'eroe a Laio, la
spinta indietro ad opera dei quattro cavalli del carro, etc. C'è in giuo
co tutta un'energetica ... più l'omicidio, naturalmente. In questa bifor
cazione circolano considerevoli energie, che io non ho considerato,
perché volevo parlare di forma, ma che, ben inteso, ci sono.
Claude Lévi-Strauss: Questo, però, non ci dice se, per i Greci che
47
lo raccontavano o l'ascoltavano quando era un mito, l'incrocio aveva
lo stesso senso che ha per Lei.
Miche! Serres: È vero che nella Critica della ragion pura c'è una
parte della risposta alla questione affrontata.
48
dando quale è l'origine stessa di questo spazio, se ne trovano di più,
la parola in questione ricomincia. Nel XIX secolo, dal momento in cui
ci si comincia ad accorgere che lo spazio euclideo non è per forza
l'unico, non è per forza il solo spazio possibile, quello stesso in cui
siamo calati, la parola mitica ha di nuovo delle possibilità di riappa
rire. Detto questo, Lei ha assolutamente ragione di criticare il modo
in cui ho introdotto degli operatori assai ampi. È, comunque, eviden
te che sono allo stadio di ipotesi, che suppongo certe cose e che non
posso partire se non da operatori relativamente ampi. Come dice
Claude Lévi-Strauss, non nell'incrocio generale, bensl in tale o talal
tro tipo di connessione e di biforcazione l'operatore sarebbe ogni vol
ta diverso e probabilmente si sarebbe obbligati a formulare l'idea di
operatori speciali. Sono d'accordo con Lei e credo bene che la scienza
è abbastanza colma di referenza perché io possa scegliere tale o talal
tro operatore.
Claude Lévi-Strauss: Credo che sia tempo di por fine a questa di
scussione. Prima di ringraziare il professor Michel Serres, vorrei però
notare che egli ha concluso su una sorta di parabola del tessitore che,
tutto sommato, non è poi cosi lontana da quel che avrebbe potuto
dire, negli stessi termini, un dogon o un bambara. Di conseguenza
ci troviamo ricondotti sul terreno etnologico . . .
49
L'identità Samo
Françoise Héritier *
50
(' tàtare '), soffio (' sisi '), vita (' nyìni '), pensiero (' yiri '), duplicato
(' mEtE ') e, infine, destino individuale (' lEpErE V
A queste nove componenti si accompagnano i seguenti attributi:
il nome (' to ') inteso come marca sociale che situa l'individuo al suo
posto; l'omonimo surreale (' torna ') che ha la sua origine nel fatto
che ogni bambino proviene da una potenza extra-umana identificata
dagli indovini, cosicché ogni nascita è segno della tolleranza nei con
fronti della vita umana da parte di forze che per natura le sono osti
li 4; la marca dell'eredità (' bore ') che viene dal fatto che una com
ponente di quelle di un antenato si incarna in un nuovo nato, il ' bo
rcbo ', e comunica ai suoi atti a venire un'inflessione e uno stile par
ticolari e facilmente riconoscibili 5 e infine la presenza di geni, di mac
chia o domestici, ostili o benevoli, che vengono a coppie e scelgono
come supporto specifico un individuo, determinando in lui, a secondo
dei casi, la chiaroveggenza o la follia (i ' patara ').
' Mc ', il corpo o, più precisamente, la carne, è dato al bambino
dalla madre. ' Miya ', il sangue, gli è fornito dal padre. ' Sisi ' , il
soffio, penetra nel bambino, seguendo il ritmo della respirazione ma
terna, al terzo stadio di grandezza riconosciuto, cioè quando l'embrio
ne prende definitivamente una forma umana e abbandona le forme di
lucertola o di rospo e gli cominciano a spuntare i capelli. Nell'essere
umano il soffio è veicolato dal sangue del cuore. Quest'ultimo non si
mescola al sangue del corpo che, da parte sua, veicola ' nyini ', la
vita. ' Nyìni ' penetra nell'individuo alla nascita, al momento del primo
starnuto. ' Nyìni ' bagna il mondo: ogni essere vivente, di qualsiasi
ordine sia, ne possiede una porzione di qualità equivalente. ' Nylni '
è assolutamente individuale e all'individuo non viene per trasmissio
ne dai genitori. Niente di particolare manifesta la presenza di ' Nyi
ni ', ma senza questa presenza non si può vivere. ' Nyini ' non ab
bandona mai il corpo se non due o tre giorni prima della morte, quan
do va a piangere di notte la sua prossima fine. ' Nyìni ' muore con
il corpo, annerisce nel sangue, imputridisce insieme alla carne nella
tomba e persiste in maniera attenuata nelle ossa. Se si bruciano le ossa,
allora ' nyini ' scompare totalmente. ' Tàtare ', il calore e il sudore
del corpo, è il segno evidente della presenza di ' nyìni ' nel corpo ed
è acquisito in modo naturale alla nascita. ' Yiri ', il pensiero, non è
51
necessario al compimento della vita ed ha due aspetti: ' yeyera ', l'in
telletto, che è la facoltà di ragionare e di comprendere, e ' tase ', la
coscienza di sé e della durata e la facoltà immaginativa che si traduce
essenzialmente negli atti di ricordare e di prevedere.
' Nysih: ', l'ombra portata dal corpo, esiste necessariamente, ben
ché non abbia un ruolo particolare. L'esistenza di un'ombra doppia e
talvolta, in certe condizioni, tripla (nel caso di due ombre pallide e
leggermente sfalsate che inquadrano un'ombra centrale scura) è, però,
la prova evidente di una caratteristica del ' mErE ', del duplicato, di
cui parleremo subito.
' MErE ' è quel che è inunortale nell'uomo. All'uomo è dato da Dio
(' la bunkunu '), quando egli è ancora nel ventre della madre, contem
poraneamente a ' sisi ', cioè al momento dello sviluppo dei capelli. Co
me ' nyìni ', non è una componente propria dell'uomo e sua sola. Le
piante (particolarmente i grandi alberi e i cereali), gli animali e certi
elementi inerti (per esempio, l'argilla e il ferro) hanno pure un ' mErE '.
La Terra ce l'ha pure. Ogni notte il ' mErE ' abbandona il corpo del
l'uomo addormentato e compie peregrinazioni costellate di avventure
la cui sostanza esso comunica all'uomo tramite il sogno. Dopo queste
peregrinazioni, il ' mErE ' rientra naturalmente nel corpo a condizione
che non sia cambiata la posizione al dormiente e che questi non sia
stato svegliato di soprassalto. In queste uscite il ' mErE ' contrae le ma
lattie che in seguito trasmette al corpo ed è pure fatto oggetto degli
attacchi dei fattucchieri, pure questi usciti in forma di ' mErE '. L'at
tacco di fattucchieria si concretizza nel dominio di un ' mErE ' forte
su un ' mErE ' debole. Il ' mErE ' abbandona definitivamente l'essere
umano pochi anni prima della morte vera e propria (tre o quattro, a
secondo del sesso) ma solo quando si tratti di casi che non abbiano
nulla a che vedere con una morte violenta (incidenti, guerra, fulmina
mento, etc.). I cosiddetti " chiaroveggenti " (' ye diEndie uleno ') pos
sono allora vederlo di giorno, mentre cammina per raggiungere la stra
da del villaggio dei morti. Ha lo stesso aspetto del vivo che ha abban
donato ed è in apparenza coperto di vestiti. Se lo si tocca, la sua carne
è consistente. Se lo si colpisce, il suo sangue sgorga (i lividi che even
tualmente subisse sono trasferiti ipso facto al corpo del vivo che ha
lasciato). Non ha però la parola e i suoi pugni sono chiusi. Proprio da
questi segni specifici i chiaroveggenti capiscono che si tratta non del
l'essere umano vivo, ma del suo ' mErE '. Se gli si avvicinano e gli
aprono le mani, vi troveranno escrementi, che rivelano che il viaggio,
giunto quasi alla sua conclusione, è senza possibile ritorno, oppure
oggetti, che indicano la natura del sacrificio che l'essere umano vivo,
avvertito dal chiaroveggente, deve compiere perché il suo ' mErE ' lo
reintegri. L'uomo che abbia ottenuto dalla sorte una proroga porta
52
uno speciale braccialetto chiamato ' dwazane ', che letteralmente vale
« braccialetto che attacca » ed è anche detto « braccialetto di ritorno
53
l:Jr.> ' della generazione precedente. A questo punto il bisnonno, a cui
non vengono più fatti sacrifici (e di cui più nessuno si ricorda . . . ), rag
giunge tutti gli antenati del lignaggio al grande altare dei morti (' di
rimba l;:,dolo ') che è uno dei tre principali altari della casa dei morti
del lignaggio. Si ammette in tal modo che egli ha esaurito - forse in
una temporalità diversa - le sue due " vite di morto " e che ha iniziato
la sua vita eterna di albero.
Se lo desidera, un antenato può ritornare, in qualità di ' b;:,rt ',
in un nuovo supporto. Il ritorno gli è possibile solo nel periodo in cui
risiede al primo villaggio dei morti e in genere avviene in un lasso di
tempo di al massimo sei anni dopo la morte. Ciò che ritorna e si in
carna nel bambino è lo ' yiri ' del defunto, il suo pensiero la cui mar
ca si riconosce nelle azioni del bambino. Lo ' yiri ' non detta al bam
bino i suoi atti, ma dà a questi una forma e uno stile particolari e
facilmente individuabili per coloro che hanno conosciuto in vita il de
funto. Lo ' yiri ' non ha altre conoscenze che quelle che l'uomo ha
avuto in vita. Un uomo ritorna nei figli o nei nipoti 6 dei suoi figli e
dei suoi fratelli. Una donna ritorna nelle figlie dei suoi figli o delle
sue figlie.
Nel momento in cui viene al mondo, nell'istante in cui la vita lo
pervade, l'uomo dichiara cosa sarà la sua morte. ' LEpErE ' significa
testualmente « la bocca parla » . Nascendo, il neonato determina l'im
pronta irrimediabile della sua vita e della sua morte. Dio fa pronun
ciare al bambino il suo destino. I Samo credono che, nel ventre della
madre, il feto sia in comunicazione diretta con Dio e che questo sia
l'unico stadio in cui ciò sia possibile. Una volta che, quando la sua
bocca ha parlato, egli l'ha assunto, l'uomo diviene responsabile del
suo destino che, dato che tutti gli uomini devono morire e sono essi
stessi che l'hanno voluto, è un destino di morte. Quando vivevano
tutti in cielo, gli uomini non morivano. Siccome si moltiplicavano ec
cessivamente, essi discesero sulla terra per iniziativa divina di un cer
to numero di loro e con l'aiuto del fabbro. Miti dettagliati raccontano
questa discesa sulla terra e l'organizzazione sociale che ne è risultata.
Neppure sulla terra gli uomini morivano. Rendendosi però conto che
l'immortalità, al pari della vecchiaia e della totale impotenza che l'ac
compagna, era insopportabile, essi hanno desiderato e cercato la mor
te. In certi ' zumbri ' 7 di becchini si racconta come i becchini abbia
no avuto la missione di andare a comprare la morte in cambio di un
gatto e abbiano poi inventato le tecniche che l'accompagnano. Se Dio
ha voluto la morte, allora, è su richiesta degli uomini. Ciascun essere
6 Qui " nipoti " va inteso nel senso di « figli dei figli » (n.d.t.).
7 ' Zumbri ' è il nome elogiativo del lignaggio.
54
umano la assume ogni volta, inscritta nel proprio destino individuale.
Per ciascuna delle attualizzazioni di componenti suscitate dal ' mEtE '
sulle diverse soglie che varca (morte di vivo, prima morte di morto)
è decretato un nuovo ' lEpErE ' che non deve nulla al precedente. Un
bambino morto in tenera età nella sua vita di vivo può avere pertanto
lunghe e fruttuose vite nelle sue successive vite di morto.
Nel ' tut::>mbo ', che è l'interrogatorio del cadavere per conoscere
la causa della morte, la prima domanda che si fa al corpo concerne il
SUO ' lEpErE ':
« Guarda tutta questa gente riunita per te. Ti hanno collocato su
implica che nel corso di questa cerimonia non viene stabilita alcuna
sanzione nei riguardi del fattucchiere smascherato. Costui non è cac
ciato dal villaggio né sarà fatto oggetto di una vendetta. Egli appare
quindi come il necessario strumento del destino.
Al pari del ' mEtE ', il ' lEpErE ' appartiene esclusivamente all'in
dividuo. Una grave costrizione pesa tuttavia sulla sentenza oracolare
riguardante il neonato. Il ' IEpErE ' del bambino è funzione del c lEpE
rE ' della madre, cioè non può mai risultare in contraddizione con
quest'ultimo. Se il ' lEpErE ' della madre ha deciso che il bambino,
che la donna porta in seno, deve morire in tenera età, quello del bam
bino non ha allora libertà di scelta e decreterà la propria morte. La
donna ' kuna ' (cioè « sterile ») è sterile a causa del suo ' lEpErE '. Il
' lEpErE ' di una donna decreta tanto il numero dei bambini che que-
8 Cioè la morte.
9 Cioè l'altare personale che rappresenta il ' lEpErE '.
IO Cioè, per esempio, la trasgressione di un divieto, la presa di un altare di giu
stizia senza aver prima domandato il parere dei parenti, etc.
55
sta metterà al mondo quanto il loro destino di morte. Il ' lEpErE '
maschile, invece, non decreta niente di simile: certi informatori di
cono che il ' lEpErE ' dell'uomo può essere portatore del numero dei
bambini che questi concepirà nei suoi successivi matrimoni, ma niente
di più. Pertanto, una volta, prima di prendere moglie, si consultavano
accuratamente gli indovini per cercare di sapere se il ' lEpErE ' della
donna era buono, se questa doveva mettere al mondo numerosi bam
bini destinati a vivere e se aveva lei stessa dal suo ' lEpErE ' la grazia
di vivere a lungo. Fino alla pubertà, prima dell'età adulta e prima del
la possibilità di procreare a propria volta, il ' lEpErE ' del bambino è
totalmente soggetto a quello della madre. Il bambino è in permanente
stato di pericolo di morte e ciò è esplicitamente detto dall'aggiunta,
finché egli è nell'infanzia e nella pre-pubertà, dell'epiteto ' furu ' che
vale « caldo, pericoloso o in pericolo ». Se egli arriva normalmente al
la pubertà, allora si sa che il ' lEpErE ' della madre ha voluto che vives
se. In quel momento il ' lEpErE ' del figlio cessa di essere soggetto a
quello della madre.
Dopo il sacrificio di pubertà compiuto dal padre e chiamato ' lEpErE
ka ' ( ' k8. ' vale << sacrificio »), ragazzi e ragazze puberi assumono il
proprio destino. Per questo sacrificio si parla anche di ' lEpErE b;, ', di
« uscita del lEpErE » oppure, specialmente nel caso che esso interessi le
ragazze, di ' me;,ra ', cioè letteralmente di « carezza del corpo ». Il
sacrificio di pubertà è dunque compiuto dal padre. La ragazza deve
però avere due sacrifici di pubertà: il primo è regolarmente compiuto
da suo padre, il secondo è consumato due o tre anni dopo dal marito,
prima che costui prenda possesso di sua moglie e del bambino (il ' tu
kòs;, d;, ', la « parte della Terra ») che ella avrà nel frattempo avuto
da un altro uomo (il ' sandana ', l'« amante istituzionale »). Tale sacri
ficio di pubertà ha un rituale assai complesso e presenta numerose va
rianti nel territorio samo. A seconda dei villaggi, il termine ' me;,ra '
designa espressamente la carezza fatta dal sacrificatore sul corpo del
giovane o della giovane con tre o quattro spighe di miglio rosso oppure
la carezza manuale fatta dal sacrificatore sul corpo di un animale selva
tico scelto dall'indovino. 11 Tale animale non viene sacrificato, bensl vie
ne lasciato libero dopo la cerimonia. Gli animali che vengono propria
mente sacrificati, in genere polli e cani rossi, sono consumati sul posto
da quanti assistono, mentre la madre sta molto attenta a che nessun ri
masuglio venga stornato a fini di fattucchieria. Una volta compiuto il
sacrificio, il giovane o la giovane si recano a casa dei genitori dove
passeranno alcuni giorni. Prima del ' lEpErE k8. ', i rapporti sessuali
sono totalmente vietati.
11 Cerva, piccione, coniglio, ma più generalmente pitone reale, che porta il nome
di ' l::Jda mimini ', la « giovane donna mielata, dolce ».
56
Noteremo che la responsabilità della donna in quanto persona
umana non è coinvolta nel caso in cui si compia per lei un ' lEpErE '
contrario alla procreazione. Nessuno gliene farà una colpa. La donna
subisce questo destino oracolare come totalmente distinto dalla sua
volontà, che è quella di avere figli, e compirà tutte le pratiche (con
sultazione di indovini, portatura di bende rituali, azione di votarsi
ai grandi altari del villaggio, etc.) atte ad influire sul suo destino,
sempre che tale destino non sia quello definitivo della sterilità.
Una volta fatta questa correzione, le donne appaiono padrone as
solute della vita. Il ' lEpErE ' femminile non soltanto può impedire
qualsiasi nascita (è il caso delle donne sterili), ma decide anche so
vranamente del corso della vita dei figli messi al mondo. Conseguenza
di ciò è il fatto che gli antenati agnatizi sono del tutto impotenti tanto
a far nascere (non è la loro volontà a far susseguire le generazioni)
quanto a spezzare il marchio che il ' lEpErE ' materno imprime sulla
loro discendenza. Analogamente, secondo i Samo, dei casi di disgrazia
familiare (serie di bambini morti in tenera età) o collettiva (epidemie
sterminatrici di bambini) è colpevole ' de ', la macchia, il mondo sel
vaggio che manifesta in tal modo la sua ostilità al villaggio, al mondo
degli uomini. In quanto esprime il suo destino che nessuno può tra
sformare, la donna è in accordo con la volontà della macchia e appar
tiene al mondo delle forze brute e non addomesticate sulle quali l'uo
mo non ha che poca presa.
La macchia, tuttavia, non ha mai voluto la totale sparizione di un
villaggio... e tutti i ' lEpErE ' femminili non sono radicalmente ostili
alla trasmissione della vita. Esistono delle possibilità d'azione.
Innanzitutto, sebbene non possa far nulla per cambiare il suo det
tato di morte (cioè la natura della sua morte), l'uomo ha la possibilità
di ritardarne la data, ma solo a partire dal momento in cui, dopo il
sacrificio di pubertà, ha assunto il suo destino. Abbiamo visto che il
duplicato si lasciava scorgere dai chiaroveggenti e che sacrifici appro
priati potevano condurlo a reintegrare il suo corpo. Ora aggiungiamo
che ciascun individuo maschio pubere costruisce un altare, il ' b
i.) ', che rappresenta il suo ' lEpErE ' e al quale egli sacrifica tutte le
volte che viene a sapere dall'indovino che esso reclama un sacrificio.
I sacrifici hanno lo scopo di ritardare la scadenza della morte. Un
uomo può essere ucciso dal suo ' lEpErE ' per il fatto di non aver for
nito l'animale sacrificale richiesto. Si è qui in presenza di una concate
nazione circolare: dopo che la morte ebbe compiuto la sua opera, fu
scritto che il ' lEpErE ' avrebbe fatto questa domanda e che l'uomo
avrebbe tentato invano di soddisfarla. Avrebbe però potuto essere
scritto che l'uomo sarebbe arrivato a soddisfarla.
Quanto alle donne, esse non hanno un ' br:> ' personale. Al mo-
57
mento del matrimonio il marito costruisce ai due lati della porta al
l'interno della capanna coniugale due ' br;, ', uno per sua moglie e
uno per lui stesso, i quali rappresentano il compimento della loro
felicità coniugale. In aggiunta al suo ' br;, ' personale, dunque, un
uomo ha tanti ' br;, ' coniugali quante spose. I sacrifici che l'uomo
compie congiuntamente su questi altari hanno la funzione di rendersi
propizio lo sconosciuto destino femminile della sposa, secondo lo stes
so tipo di concatenazione circolare sopra descritto. Noteremo pure, a
questo punto, che esiste una certa concezione di un tempo immanente
e non soggetto alle regole di frammentazione cronologica.
Due istituzioni permettono più particolarmente di influire sulla
creazione della vita. Sono rispettivamente il ' tòma ' e il ' nyiséd;,r;, ' .
Ciò che crea l'essere umano non è il solo rapporto sessuale. Certo
deve necessariamente esserci l'incontro di due " acque di sesso ", ma
non tutti i rapporti sessuali sono fecondi. Deve soprattutto mancare
qualsiasi barriera che possa essere frapposta tanto dal ' ltptrt ' fem
minile quanto dalle malevole forze della macchia. Proprio in conside
razione di ciò, ogni nascita è funzione dell'intervento di una potenza
esterna, il ' tòma ', che può sia essere stata sollecitata dalla donna sia
essere intervenuta spontanamente. L'identità del ' tòma è allora co
'
58
dire che non ci si può affidare al proprio ' torna ' ed esserne respinti.
Da questo punto di vista ogni nascita è il risultato di una tolleranza
particolare della macchia oppure una vittoria sulla macchia.
Il ' nyiséd:>r:> ' (letteralmente « piatto da medicina ») è una sco
della, conficcata al suolo, dove sono riposti pacchetti di radici di de
terminati alberi che vengono indicati dall'indovino. Si tratta di radici
prelevate secondo un certo rituale e messe a macerare nell'acqua. L'ac
qua nella scodella è costantemente cambiata. In genere si prelevano
radici di mitragyna inermis,13 lannea microcarpa, detarium senegalensis
e diospyros mespiliformis. Propriamente i ' nyiséd:>r:> ' sono relè fem
minili di fecondità veicolati da piante. Quando una ragazza si spo
sa e raggiunge la sua nuova famiglia d'acquisto, il marito va a sacri
ficare al ' nyiséd:>N ' della madre della sua sposa e quest'ultima beve
per quattro giorni di quell'acqua e se ne lava il corpo. A " testimo
nianza " della sua propria nascita il marito sacrifica anche al ' nyiséd:>
r::> ' di sua madre, ma la moglie non beve di quell'acqua e non se ne
lava il corpo. Se il sacrificio al ' nyiséd:>r:> ' della madre della mo
glie è stato efficace, allora la giovane donna che ha concepito rapida
mente rinnoverà ormai tutti gli anni, in qualità di sacrificatrice, il
sacrificio al ' nyiséd:>r:> ' di sua madre e si laverà con quell'acqua,
senza berne mai più. Contemporaneamente il marito continuerà a fare
un sacrificio annuale al ' nyiséd:>N ' di sua madre, ma sempre a te
stimonianza della sua propria nascita e non per sua moglie che, di
conseguenza, non berrà di quell'acqua e non se ne laverà il corpo. Se
invece il sacrificio al ' nyiséd:>r:> ' della madre della moglie è stato
inefficace, allora il marito rinnova un sacrificio al ' nyiséd:>N ' di sua
madre, ma questa volta per sua moglie che, di conseguenza, beve di
quell'acqua e se ne lava il corpo. Se tale sacrificio si rivela efficace e
la giovane donna concepisce rapidamente, allora suo marito tutti gli
anni rinnoverà, in qualità di sacrificatore, il sacrificio al ' nyiséd:>
r:> ' della madre ancora per sua moglie che si laverà con quell'acqua
senza berne mai più. Se il sacrificio si è invece rivelato inefficace,
allora, previa consultazione dell'indovino, il marito costituisce alla
moglie un proprio ' nyiséd:>r:> ' sul quale egli sacrifica, mentre la mo
glie beve l'acqua e se ne lava il corpo. Nel caso che si sia mostrato
efficace, tale sacrificio sarà rinnovato tutti gli anni e la donna si laverà
con l'acqua della scodella, ma non ne berrà più. A questo punto ma
rito e moglie abbandonano definitivamente il ' nyiséd:>r:> ' della madre
della donna, rivelatosi inefficace, e il marito continua a sacrificare al
' nyiséd:>r:> ' di sua madre, ma a testimonianza della sua nascita e non
per sua moglie.
13 Una specie di giunco che cresce in riva ai bracci secondari dei fiumi.
59
Per ogni nuova sposa, nella misura in cui il suo ' lEpErE ' non le
impedisca di concepire, vengono sollecitate forze genesiche per le qua
li non ci sono altri nomi se non gli indeterminati b ' (letteralmente
'
o ' zini ' (una forza che si trova esclusivamente nell'acqua ... noi par
liamo di " forza " della corrente) . Si tratta di forze provenienti da, o
appoggiate su, piante della macchia e trasmesse dalle donne secondo
linee più o meno continue. Viene prima sollecitata la forza genesica
che risiede nella linea materna ascendente e poi, quando non basti,
quella che risiede nella linea materna ascendente del marito. Il relè
di fecondità, dunque, non passa attraverso gli uomini. Come si vede,
infatti, la fecondità può essere trasmessa direttamente, per consumo di
una stessa acqua, da una madre alla figlia e da una suocera alla nuora.
Di nascita in nascita, e supponendo il caso estremo per cui ogni vol
ta sia il ' nyiséd::�r::� ' della madre dello sposo (o della madre della
sposa) a risultare efficace, si costituiscono linee di fecondità che sono
tagliate radicalmente fuori dalla filiazione agnatizia e passano obliqua
mente di lignaggio in lignaggio. Ciascun bambino deve la propria
nascita alla madre di suo padre o alla madre di sua madre le quali
ricevevano la loro dalla madre del loro padre o dalla madre della
loro madre.
Vediamo qui delinearsi un universo propriamente femminile con
le sue proprie leggi di trasmissione distinte da quelle implicate dalla
patrilinearità e dalla solidarietà di lignaggio. Possono essere enume
rati molti altri segni di questa autonomia, tutti da mettere in relazione
con l'esistenza, ritualmente riconosciuta, delle linee di fecondità. Uno
può essere il fatto che il ' b::�rt ' di una donna non si incarna mai nel
suo lignaggio d'origine (per esempio, nella figlia di un fratello), bensl
unicamente nelle figlie dei suoi figli o nelle figlie delle sue figlie, cioè
in lignaggi estranei al suo sangue in quanto definito patrilinearmente,
mentre un uomo non ritorna mai, per definizione di lignaggio, nei
figli delle sue figlie, ma può ritornare nei nipoti dei suoi fratelli, seb
bene non ci sia tra lui e questi rapporto diretto di generazione. Il
rapporto agnatizio di lignaggio basta. La trasmissione dei ' b::�rt '
femminili segue con la massima esattezza le possibili linee di trasmis
sione del relè di fecondità. D'altra parte un uomo non fa sacrifici ai
mani di sua madre o delle sue nonne. Non esistono, del resto, altari
di antenate di sesso femminile, in quanto non potrebbero trovare lo
gicamente posto né nel lignaggio di origine né nel lignaggio di ingres
so. Se una defunta " reclama " un sacrificio a base di spinaci di mac
chia cucinati/4 lo chiede a una delle sue figlie o delle sue nipoti, figlie
14 Le donne defunte reclamano sempre cibi di macchia cucinati e mai crudi. Gli
uomini invece reclamano carni o cibi a base di piante coltivate.
60
di un figlio o di una figlia suoi. Un secondo segno può essere il fatto,
facilmente osservabile nei dati offerti dalle inchieste genealogiche, del
la memorizzazione delle linee uterine, di madre in madre, senza che
sia necessaria una memorizzazione avventizia degli individui maschi
dei loro lignaggi di appartenenza. Soprattutto, poi, un terzo segno è
l'esistenza di una duplicazione dei destini matrimoniali femminili, una
duplicazione che gli uomini si riconoscono impotenti a fermare e per
cepiscono in maniera estremamente netta. Quando viene sposata la
prima volta, una giovane viene data in matrimonio da suo padre sulla
base di una scelta da questi operata nel quadro delle regole proibitive
di allacciamento di parentele. Dato che la tendenza è quella all'endo
gamia di villaggio, le sorelle vere o classificatorie sono così sposate,
per la maggior parte del tempo, nello stesso villaggio dove sono nate.
Quando una di esse, in genere la maggiore, abbandona suo marito per
contrarre, all'esterno del villaggio e spesso lontano da questo, una
seconda relazione, allora si può notare che negli anni successivi le sue
sorelle tenderanno ad andare a contrarre una seconda relazione nello
stesso villaggio in cui la maggiore si è risposata. La stessa cosa succede
se la madre è ritornata nel suo villaggio di origine o è andata a con
trarre un'altra unione altrove: le sue figlie sposate tenderanno a rag
giungerla. Dato che le sorellastre o anche semplicemente le cugine
parallele per parte di padre hanno anch'esse la tendenza a duplicare
i loro destini matrimoniali, il fenomeno supera la semplice filiazione
uterina e manifesta l'esistenza di una solidarietà femminile dagli ef
fetti più forti che non il sentimento di appartenenza al lignaggio. Si
può pure notare che il sistema di parentela samo, che è di tipo omaha,
permette attraverso la denominazione il riconoscimento di questa so
lidarietà. Allo stesso modo in cui i figli di fratelli sono sempre " fra
telli " in qualsiasi generazione, il principio di identità dei germani di
egual sesso fa sl che le figlie di sorelle e le figlie di figlie di sorelle,
sebbene appartenenti a lignaggi estranei gli uni agli altri, siano sem
pre tra loro " sorelle " e ciò in virtù della congiunzione della regola
di filiazione patrilineare con quella della scelta del congiunto fuori dai
quattro fondamentali lignaggi di Ego (Ego, M, FM e MM).
Credenze e storie mitiche o mitico-storiche rivelano il timore ma
schile del mondo femminile. Abbiamo più su parlato dell'assimilazio
ne delle donne alla macchia a motivo dei loro proponimenti inconsci
(il proponimento del ' lEpErE ') contrari alla trasmissione della vita.
Ora aggiungiamo che, per certe considerazioni che si muovono nello
stesso ordine di idee, le donne sono considerate come particolarmente
ricettive ai geni della macchia. Alcune addirittura sono ricettive an
che per disposizione sociale: in certi villaggi tutte le ragazze che ap
partengono a lignaggi di becchini possiedono geni, si potrebbe quasi
61
dire, per statuto. Possiamo infine ricordare che tra i Samo v'è l'opi
nione assai diffusa che i fattucchieri siano nella famiglia della donna.
Ma c'è di più. Dei due tipi di fattucchieri, i ' kwekwe ' e i ' mw:>lt ',
il più nefasto, il ' mw:>lt ', non può essere che una donna. Il ' kwe
kwe ' attacca di notte i ' mErE ' per renderli prigionieri e dominarli.
il ' mw:>h: ', che di notte vola radente al suolo in forma di fuoco,
sventra i ' mErE ' catturati e strappa loro le viscere, il fegato e il cuo
re. Il ' mw:>lt ' ricava il suo potere da una sostanza volontariamente
ingerita ed è capace di dare il suo primo nato in sacrificio alla confra
ternita dei fattucchiEri. Non ci sono uomini ' mw:>lt '. Il ' mw:>lt
è la madre fattucchiera. In grado di scoprire i fattucchieri e chiaro
veggenti sono invece gli uomini. Tuttavia, tra quei chiaroveggenti che
non traggono il loro potere da una eredità di lignaggio ci possono es
sere bambini di tutti e due i sessi. Nei lignaggi di chiaroveggenti, in
vece, gli uomini trasmettono il loro potere ai figli e tengono accura
tamente da parte le spose (che provengono da altri lignaggi) e le figlie
(che, sposandosi, andranno a finire in altri lignaggi) .
Una brevissima storia a carattere mitico racconta come un tempo
gli uomini e le donne vivessero separati. Di notte, quando voleva rag
giungere la donna, l'uomo doveva giuocar d'astuzia e andare verso di
lei in silenzio, strisciando al suolo e bagnando la terra davanti a sé
per aprirsi la strada.
Da numerosi racconti tradizionali e specifici dei lignaggi si può
notare che la conduzione del gruppo familiare migrante era spesso la
sciata all'iniziativa delle ' diEndiErE ', cioè delle ragazze della famiglia,
in considerazione della loro perfetta padronanza dei segreti magici,
della loro affinità con l'acqua (per la traversata dei fiumi e la scoperta
dei pozzi) e delle loro capacità di pazienza e di riflessione.
Le donne trasmettono una forza genesica con cui gli uomini non
hanno niente a che vedere, ma da cui comunque dipendono relativa
mente alla deliberazione che li fa nascere e a quell'altra che è dettata
dal ' lEpErE ' della madre e permette loro di vivere. Questa forza ge
nesica non legata al lignaggio comporta una solidarietà di un'altra
specie, una solidarietà di ordine quasi mistico e diversa da quella de
terminata dai rapporti di parentela che traducono l'organizzazione di
un mondo socializzato maschile. Anche se, data l'ideologia patrilinea
re della filiazione, le donne sono terminologicamente incluse nella pa
rentela agnatizia, le linee di forza, di cui esse in quanto donne parte
cipano e che si fondano sulla natura, perturbano l'ordine sociale pre
stabilito e lo rimettono continuamente in causa. L'allacciamento di
parentele di tipo esogamo così come è culturalmente definito, pertan
to, finisce di cementare la coesione femminile fuori dal campo della
solidarietà di lignaggio.
62
Essere tra sé equivale, nei canoni dell'ideologia patrilineare, ad
essere tra uomini. La solidarietà di lignaggio, la messa in atto del ma
trimonio legittimo, il culto degli antenati e i sacrifici che mantengono
la coesione del villaggio sono tutti fatti marcati dall'impronta maschi
le. La trasmissione della fecondità per linea uterina, la rottura del
legame legittimo che esprime l'accordo dei lignaggi (con il risultato di
ricreare comunità affettive certamente non fondate né sulla filiazione
né sull'accordo delle famiglie) e la comunicazione diretta con le poten
ze della macchia sono tutti fatti marcati dall'impronta femminile. Il
timore nei riguardi delle donne deriva dalla assoluta impossibilità di
integrarle al mondo organizzato. In effetti, data la regolazione matri
moniale esogama, le donne non possono essere e non possono agire
che al contrario degli uomini. Così ritroviamo in forma velata, nella
società samo l'eterno rimpianto dogon : il mondo sarebbe stato più
facile da pensare e da realizzare, se la donna non fosse stata distinta,
se l'uomo avesse mantenuto la sua primitiva condizione di individuo
androgino o se, quanto meno, la sorella fosse stata l'unica sposa pos
sibile si da conservare al lignaggio le forze naturali di cui è provvista.
Da questo punto di vista, la proibizione dell'incesto fonda tanto la
struttura della persona quanto quella della società.
63
aderire lo ' yiri ' e in cui si inscrivono tutte le immagini, le pressio
ni, le sollecitazioni e le aggressioni del mondo esterno. Debole o forte
in virtù dell'arbitrio divino, il ' mErE ' sarà aggredito o aggressore.
È aggressore quello del fattucchiere. Forte può essere pure il ' mErE '
di un individuo dotato di un cattivo ' lEpErE ', di un ' lEpErE ' di
morte precoce. Esso tenterà continuamente di carpire il ' mErE ' di
un altro, di nutrirsene e di ben riuscire in innesti immateriali di or
gani (fegato, cuore e viscere: tutti supporti privilegiati dal ' mErE ').
Il ' mErE ' più debole, di cui quello più forte si impadronisce, con
cede all'aggressore una proroga, rivitalizzandolo e permettendogli al
tre aggressioni, finché questo stesso aggressore non commette a sua
volta l'errore di attaccare un ' mErE ' più forte e soccombe in tale
conflitto di ombre. Tutto ciò viene concepito secondo lo stesso giuoco
circolare di cui si è fatta menzione più su, quando si è parlato della
evocazione delle tecniche atte a ritardare la scadenza del destino. Pro
prio per questo motivo i Samo ritengono che il fattucchiere non sia
responsabile dei suoi atti.
Seppure il ' mErE ' pare essere l'essenza stessa dell'individuo, non
si può pretendere che esso sia l'individuo stesso. Non si può preten
dere che il ' mErE ' conferisca all'individuo la sua identità, la sua pro
pria definizione. In realtà, l'uomo può vivere senza ' mErE '. Vivono
per alcuni anni di fatto sprovvisti di ' mErE ' sia quelli il cui debole
' mErE ' è stato catturato da uno più forte sia quelli l'ora della cui
morte dettata dal ' lEpErE ', è prossima. La forma dell'uomo è Il, rico
noscibile e identificabile dagli altri uomini, ma è una forma disabitata,
anche se i familiari non possono accorgersene.
Ma c'è di più. Il ' mErE ', elemento immortale, non si attualizza
soltanto nella vita di vivo. Il fatto che sia immortale non vuoi però
dire che sia immutabile. Dopo la prima morte, il ' mErE ' amministra
due altre vite di morto. Certamente nessuno può affermare con cer
tezza che la vita di vivo sia la vita essenziale o la vita in cui l'indivi
duo sia più fortemente se stesso. Un indizio permette tuttavia ai Samo
di dire che la vita di vivo è verosimilmente la vera vita. Nella succes
sione che, passando attraverso le vite di morto, va dalla vita di vivo
alla vita di albero il traguardo finale è in effetti la vita di albero. Ora,
sono gli uomini a mangiare i frutti degli alberi e non viceversa. Da
ciò si può inferire la superiorità della vita di vivo sulla vita di albero.
« Se Dio avesse ritenuto che l'essere albero sia superiore all'essere
65
ponenti, potenzialmente pure nella vita di vivo, siano l'esatta replica
di quelle attualizzate nella predetta vita di vivo. Si sa ancora che le
vite di morto non sono il semplice reinizio, smorzato e attenuato, del
la vita di vivo. Definito da altre componenti, attore di altri atti e por
tatore di un altro destino, quest'uomo che passa da una vita all'altra
è lo stesso uomo? Dove si situa la sua identità?
In fin dei conti, la sola cosa di cui si sia pressappoco sicuri è che
la vita che stiamo vivendo è certamente la vita di vivo e non una vita
di morto ed ancora che è la prima vita se non l'essenziale, dato che
quaggiù siamo tutti certi di essere nati tutti da una donna. Nessuna
indicazione è di fatto fornita a proposito della trasformazione dello
stato fisico del ' mErE ' che arriva al villaggio dei morti. Non si parla
di una nuova nascita, ma di attualizzazioni di componenti virtuali. Nei
villaggi dei morti, però, nascono individui che non avranno avuto il
privilegio di vivere una o due vite anteriori e per cui quella che per
noi risulta una vita di morto è in realtà una vita di vivo. Tali indivi
dui sono meno persone degli altri? Dal disagio che nasce dal dubbio
a proposito della possibilità, per il ' mErE ', di rimanere identico a
se stesso nelle successive vite che condurrà sorge l'incertezza riguardo
all'identità della persona. Le immagini si confondono e l'individuo
si perde.
Il principio di identità va forse cercato nel senso di sé? Ma chi
parla nell'uomo? Egli stesso? E che cosa in lui? I ' patara ' che lo
possiedono? Lo stile di pensiero dell'avo di cui è il supporto? Il suo
' lEpErE ' che lo conduce verso la morte secondo vie precedentemente
inscritte?
Se è vero che la responsabilità individuale e l'attribuzione di
colpa costituiscono un principio di individuazione è altrettanto vero
che sia l'una che l'altra mancano nella morale samo. Seppure esiste
quello della disgrazia o dell'errore, non esiste il senso della colpa.
Posso essermi sbagliato, avere infranto regole e commesso crimini so
cialmente definiti: sono tutte cose che implicano delle sanzioni sia
sociali che rituali. Gli errori commessi possono essere stati commessi
a mia insaputa, ma tutti possono essere riparati a condizione che io
conosca in tempo la natura del mio errore e la natura della sanzione
che a questo si ricollega. Su di me non pesano, però, né il grave peso
del peccato né quello del rimorso. I Samo non sanno cosa sia il rimor
so né ci sono parole per indicarlo.
La responsabilità individuale non esiste: la donna non è respon
sabile del suo destino contrario alla trasmissione della vita; il fattuc
chiere non è responsabile dei suoi istinti di aggressione. Nei gravi at
tentati alla pace sociale il lignaggio è solidale con l'individuo (si è qui
di fronte a quella che si è chiamata responsabilità collettiva), mentre
66
il crimine commesso dall'individuo non è definito come tale in ragio
ne di regole morali, bensl in ragione di regole sociali: il crimine è il
turbamento dell'ordine sociale stabilito e, nei rituali di riparazione,
aggressore e vittima sono tutti e due in modo eguale parte lesa.
Arriviamo così al punto essenziale. L'unica vera impalcatura, quel
la che fa e costruisce l'identità, è data dalla definizione sociale. La re
gola sociale collettiva si incarna nell'individuo e gli dà la sua identità,
assegnandogli un posto, un nome e un ruolo. Tale ruolo deve essere
il suo in ragione della sua situazione genealogica e cronologica in un
dato lignaggio: a secondo se è nato in un lignaggio di " signori " della
terra o di signori " della pioggia, di becchini o di fabbri; a secondo
"
67
dentemente dalle madri) sulla base del sesso e dell'ordine di nascita.
Se un tale si chiama Bia, allora so che è il primogenito di suo padre
in una discendenza Drabo di Dalo. Il nome personale può non essere
quello dominante e usuale, ma esiste sempre.
I Samo dicono: « lE sEpErE ma nE da n:J, lE sEpErE na b:J nE bra
n:J » e cioè: « è l'espressione (dunque la regola espressa) che produce
la filiazione, è l'espressione che produce l'esclusione ». La sola cosa che
esiste veramente e che fa l'identità dell'individuo, quindi, è la regola
sociale: il sociale è totalmente incarnato nell'individuo. In questo to
talitario sistema di rappresentazioni è primario non il gruppo, bensl
l'individuo. La parentela classificatoria che rende padri, fratelli e figli
simili e intercarnbiabili nei ruoli che si devono ricoprire, il !evira
to e le regole di generazione che fanno sl che, con espressa volontà,
il fratello minore generi figli per il primogenito morto, l'identità dei
germani di egual sesso ... tutto prova che l'individuo non ha altra
identità che quella dettata dalla volontà collettiva del gruppo che gli
assegna il suo posto.
Il gruppo in quanto istanza sociale è però espressione della masco
linità. Nell'ideologia samo l'individuo è soprattutto l'uomo (nel senso
del latino vir). Il problema è quello di sapere se le donne siano per
sone allo stesso titolo degli uomini. Certo i Sarno ammettono che le
componenti sono le stesse per tutti, ma non ne parlano volentieri che
al maschile. La differenza essenziale tra uomo e donna si coglie attra
verso il ' lEpErE ', che nella donna è fondamentalmente concepito co
me ostile alla trasmissione della vita. Per esistere, l'uomo deve vincere
l'indifferenza di Dio, l'impotenza degli antenati e l'ostilità della mac
chia e della donna. È per questo che le strutture sociali sono neces
sarie all'uomo-vir. Senza di queste non avrebbe esistenza. Le strutture
sociali costituiscono un rigoroso quadro determinato per " fare " l'in
dividuo in quanto esistente e posto contro l'ostilità o l'indifferenza
della natura, ostilità e indifferenza sulle quali si fondano le donne,
contro l'ostilità o l'indifferenza di quelle forze di vita che sono natu
ralmente la macchia e la donna, concepite ambedue in maniera anti
nomica come forze di morte (la sventura e l'epidemia vengono dalla
macchia che nutre; la morte viene, insieme alla vita, dalla madre) .
Proprio i n questo senso la socializzazione (fatto maschile) h a tra i
Samo la funzione di dare all'uomo in gruppo, all'uomo negato in
quanto individuo, una verità e una identità la cui funzione è quella
di contenere, per quel che si può, forze incontrollabili.
68
Discussione
69
Claude Lévi-Strauss: AscoltandoLa, sono stato particolarmente col
pito da un'opposizione tra il sistema di pensiero samo e quello dei
cacciatori di teste tradizionali, di cui mi sono occupato proprio nel
mio ultimo corso. A proposito di questi ultimi, noi constatiamo che
il movente fondamentale è la cattura di anime o di nomi, che pro
vengono in tal modo dal di fuori, mentre invece, tra i Samo, i nomi
vengono essenzialmente dal di dentro. Di più. Essi vengono da quella
parte del di dentro - gli uomini - che è la più di dentro e la meno di
fuori. Lei ha infatti mostrato assai bene che le donne, da parte loro,
sono creature assai largamente del di fuori.
70
ctonia, che si crede che frequenti gli altari della Terra. I ' dendera '
sono i pastori, i guardiani delle greggi dell'umanità ctonia. Con gli
uomini essi hanno solo rapporti di scansamento o di aggressione... Ci
sono, dunque, un'enorme quantità di cose da dire sulla macchia. lo,
però, mi sono limitata ad una questione assai precisa, quella, cioè,
riguardante le rappresentazioni, che gli uomini hanno, dell'intervento
della macchia nella sventura collettiva (è la macchia a far venire le
epidemie nei villaggi, è la malevola macchia a causare morti collettive
in seguito a epidemie) e in una certa forma di sventura individuale (in
quanto è la macchia che in una certa maniera, associandosi al ' ltpErE '
femminile, impedisce ai concepimenti di avvenire o piuttosto, per dir
meglio le cose, in quanto è una particolare tolleranza della macchia
che permette ai concepimenti di verificarsi).
71
defunti ritornano come ' b:)rt ' nei bambini: quel che ritorna è il lo
ro ' yiri ', il loro spirito, qualcosa di indefinibile, che dà la sua im
pronta agli atti del bambino. Il pensiero dell'antenato si combina con
il pensiero del bambino e con il suo duplicato, quell'arbitrario che
viene da Dio. Anche nel pensiero samo, però, la loro articolazione è
fluida. L'inscrizione del soffio e della vita nel sangue è chiara. L'arti
colazione, che esiste tra i due ' yiri ' (quello del nonno e quello del
bambino), il ' mEtE ' e il ' lEpErE ', però, non è per me chiara, perché
non è chiara neppure per loro.
72
un giorno il padre della bambina sarebbe venuto a cercarla, poiché i
bambini appartengono sempre alla stirpe del loro padre carnale, anche
se i padri mostrano maggior premura nel recuperare i figli che le
figlie. In questo caso, il padre aveva tardato. La bambina aveva do
dici anni ed era ancora lì. Il padre adottivo l'adorava letteralmente e
se la portava sempre dietro. La bambina era sempre attaccata alle sue
ginocchia. Egli, però, parlava, con calma e in atteggiamento distaccato,
del giorno prossimo, in cui il suo vero padre sarebbe venuto a ripren
dersela per sempre. Egli accettava senz'altro la regola. Non poteva
essere altrimenti. Non si può, però, negare l'esistenza dei sentimenti
individuali.
73
Claude Lévi-Strauss: D'altra parte, non so se le condizioni geo
grafiche sono favorevoli a tali fenomeni.
74
zione, che il ' lEpErE ' ordina di adempiere, nel caso che si voglia una
proroga, è una condizione di morte, perché non si può realizzarla. A
questo livello, il sacrificio ha un ruolo associato alla divinazione, per
ché proprio la divinazione permette di sapere cosa si deve fare.
75
crifica. Non è però soltanto il primogenito che, tra i fratelli, è rappre
sentativo della sua generazione rispetto al padre. Dopo la sua morte i
fratelli minori gli succedono come sacrifìcatori ed è solo quando l'ul
timo di una generazione di figli, che vivevano insieme, è morto che gli
altari si trovano spostati di una tacca e l'altare del padre diviene l'al
tare del nonno. Dal punto di vista dei Samo, questo momento corri
sponde a quello in cui avviene la migrazione supplementare del ' mE
rE ' da un villaggio dei morti all'altro. Quanto al nonno, questo è il
momento in cui il suo ' mEtE ' emigra, da un villaggio dei morti, negli
alberi. Questa corrispondenza, però, non è né presentata come una
concomitanza né percepita come una relazione di causa a effetto, che
farebbe sl che fosse la morte dell'ultimo figlio a obbligare il padre a
morire della sua morte di morte. I Samo posseggono pure questa cu
riosa concezione di un tempo immanente o, meglio, di temporalità re
lative. Ciò fa sì che questa corrispondenza non sia l'espressione di
una relazione di causalità. I Samo tuttavia sembrano trattarla come
tale, quando sacrificano agli altari dei padri e dei nonni.
76
scusso nei seminari precedenti), che le donne partecipino a un'ideolo
gia diversa dall'ideologia del loro gruppo. Su questo piano ideologico
non v'è dunque, sovversione. Ammesso che si possa chiamarla cosl,
però, una certa forma di sovversione esiste nelle duplicazioni di de
stini matrimoniali femminili, di cui ho parlato poco fa. Le donne ne
hanno verosimilmente coscienza, in quanto si tratta di una situazione
che esse ricercano. Quel che è certo, però, è che gli uomini hanno
maledettamente coscienza del rovesciamento del loro ordine: è qual
cosa che li disturba spaventosamente, in quanto in quel momento le
donne sfuggono loro. La donna rifiuta di piegarsi alla regola o, quanto
meno, se vi si piega, è temporaneamente. Se non hanno un'ideologia
sovversiva, dunque, le donne hanno comunque un'azione sovversiva.
Domanda di un ascoltatore: I Samo usano l' " io ", il " me "? Usa
no i pronomi personali?
Françoise Héritier: No. Quel che si vede nei sogni sono general
mente prefì.gurazioni di quanto succederà. Il ' mEtE ', però, si ritiene
che ritorni in realtà e non in sogno. Una volta che la morte si è com
piuta, il ' mErE ' non parte subito per il villaggio dei morti. Resta per
un tempo variabile, che è il lasso di tempo che separa la morte dell'in-
77
dividuo da una festa, la festa dei morti, che ha luogo una volta l'anno,
in gennaio. Il ' mErE ' resta presente al villaggio, si muove in mezzo
alla gente. Tutti i giorni, nella sua famiglia, si lascia per questo morto
recente la sua parte di cibo e di bevande. Inoltre, i ' mErE ', che si
trovano al villaggio dei morti, ritornano obbligatoriamente una volta
all'anno, in occasione di questa festa: si fa loro un fuoco per tutta la
notte alla casa dei morti, si dà loro da mangiare e da bere. La notte
li si sente far rumore nella casa dei morti delle varie stirpi, dove li si
accoglie in tal modo una volta all'anno. Ciò non vuol dire che il
' mErE ' dei vivi, che di notte esce per passeggiare nella macchia, pos
sa vederli in sogno. Esso vede altre cose, in quanto il ' mErE ' dei morti
torna solo una volta all'anno.
Domanda di un ascoltatore: Ma il ' mErE ' del vivo non sogna mai
degli antenati?
78
Atomo di parentela e relazioni edipiche
André Green *
79
quello per cui è stabilita la somiglianza assoluta, che regna tra questi
e permette di riconoscerli come identici. Questi tre caratteri - costan
za, unità e riconoscimento dell'identico - vanno insieme. Insieme, es
si definiscono i postulati della coscienza filosofica e formano le con
dizioni preliminari del suo potere di conoscenza - conoscenza di sé
come del mondo. Essere, essere uno e riconoscere l'uno costituiscono
in maniera solidale il terreno dell'attività della conoscenza. È altresì
necessario far notare che queste proprietà non assicurano soltanto la
coerenza della conoscenza cosciente, ma anche quella delle sue azioni
e opere.
Il concetto di inconscio, scoperto da Freud, ha radicalmente posto
in questione il carattere unitario della coscienza. La relazione della
coscienza con l'Io, che ne era la personificazione, è stata colta proprio
perché Freud ne ha mostrato il funzionamento scisso.
L'altra scena, l'inconscio, l'lo inconscio: tutto questo fa crollare
l'idea dell'unità dell'Io e, conseguentemente, la nozione stessa di indi
viduo. Nella teoria freudiana, infatti, come Loro sanno, l'Io non può
definirsi che nel suo rapporto con altre due istanze. L'Io non è l'Io
cosciente. Non è senza ragione che l'ultimo articolo di Freud porti il
titolo La scissione dell'Io nel processo di difesa.1 Si tratta di un arti
colo che mostra la coesistenza, nel funzionamento dell'Io, del diniego
e del riconoscimento della castrazione.
Quel che desidererei far rilevare sin d'ora è quanto segue. Punto
primo: l'individuo in Freud non è un concetto ; punto secondo: l'Io
non è il soggetto; ed infine, punto terzo: nella prospettiva psicanalitica,
il soggetto non può definirsi se non per la sua relazione con i genitori.
Non mi riferisco qui all'agente biologico della procreazione, ben
sì al legame di filiazione immaginario che lega il soggetto ai costituen
ti della coppia, di cui esso è il prodotto, nel fantasma di desiderio che
ha sovrainteso alla sua venuta al mondo. Questa dipendenza originaria
da un desiderio che gli sfugge, incontra il suo proprio desiderio nei
loro confronti, incontra il desiderio del soggetto nei confronti dei
genitori, nel taglio che lo separa da essi nell'infigurabile della loro
congiunzione sessuale, in un rapporto da cui è escluso e al quale non
dà senso se non a partire dalla sua impossibilità a padroneggiare i dati
del suo proprio vissuto corporale. V'è, dunque, una doppia dipenden
za nei confronti sia del desiderio di cui egli è supposto essere l'og
getto, sia del desiderio che prende a oggetto ciò che si aliena dal suo
corpo e il cui godimento non ha bisogno di lui.
La problematica esplicita dell'identità, in clinica psicanalitica, si
l Si tratta di un articolo del 1938 che deve ancora apparire nella traduzione ita
liana delle Opere di S. Freud pubblicata a Torino da Boringhieri (n.d.t.).
80
incontra soprattutto nell'arco dell'adolescenza. Non entreremo qui nel
dettaglio di questa problematica. Ricorderemo soltanto che l'adole
scenza è intesa, in una maniera sempre più generalizzata, come un
lutto. In più, però, diremo ancora che questo lutto non è soltanto il
distacco nei confronti delle imago dei genitori, bensl è anche sotteso
dall'idea di un'uccisione di queste imago. E ciò anche quando le fasi
anteriori dello sviluppo non sono state troppo perturbate. L'acquisi
zione dell'identità non è, dunque, l'assunzione di una individualità
che si accontenti di integrazioni successive. Nel confessare la sua ne
cessità di portare a compimento una distruzione, invece, l'acquisizione
dell'identità riconosce nel senso della realtà della sua persona (senso
che possiede nei confronti dei suoi oggetti) la sua dipendenza retro
attiva.
Non è frequente che il ricorso all'analisi ponga in maniera espli
cita la questione dell'identità. Questa si scopre via via che si svolge
la relazione transferenziale, la quale per vie indirette dispiega l'alterità,
coperta dalla rimozione. È degno di nota che, nei casi in cui si esprime
apertamente, questa alterità riguardi soprattutto due registri: la filia
zione e la sessualità. Il delirio di filiazione riposa sulla certezza di es
sere nati da genitori, nella maggior parte dei casi, illustri o di stirpe
regale - certezza che compensa la ferita narcisista provocata dalle de
lusioni inflitte dai veri genitori e esclude questi ultimi dai desideri del
soggetto ovvero, ancora, permette di negare nei loro confronti le
proibizioni del Superio. Il delirio transessualista si fonda sulla certezza
di appartenere a un sesso diverso da quello che gli attributi sessuali
manifesti attestano. Esso non tende soltanto alla disappropriazione
del sesso dell'identità del genere, bensl anche all'appropriazione quasi
vampirica del sesso dell'altro.
Questi due estremi riposano su una doppia denegazione, rappre
sentata isolatamente in ciascuno di essi: da una parte, la denegazione
dei determinismi, che premono sui desideri del soggetto a motivo del
suo essere generato dalla coppia dei genitori, e, dall'altra, la denega
zione, espressa dal rifiuto della bisessualità, la quale non può mani
festare la sua aspirazione all'altro sesso se non con l'esclusione radi
cale del sesso di appartenenza. Queste espressioni patologiche, seppu
re hanno un carattere estremo, non sono senza relazione con dei con
tenuti generalissimi dell'attività psichica: cosl, il romanzo familiare e
i racconti di fate testimoniano della generalità dei fantasmi concernenti
la filiazione. Allo stesso modo, i giuochi e i disegni del bambino, pri
ma di essere oggetto delle censure relative al complesso di castrazione,
mostrano, nel modo più diffuso, la coesistenza dei desideri bisessuali.
L'unione di queste due problematiche ci riporta al complesso di Edi
po, che costituisce la doppia differenza: differenza delle generazioni
81
(tra genitori e bambino) e differenza dei sessi (tra i genitori) . Questa
doppia differenza è interiorizzata. Essa non fa coesistere separatamen
te questi due registri, bensì li ripiega l'uno sull'altro. Cosl, la neces
sità di conservare dei legami con i due oggetti del rapporto di gene
razione conduce alla doppia identificazione. La bisessualità psichica è
allora in conflitto con l'identità sessuale ed è combattuta dalla rimo
zione, che, d'altronde, non si limita alle sole componenti del sesso cui
non si appartiene, ma anche a quelle del sesso di cui si fa parte.
Da questo insieme di riflessioni viene fuori che i limiti che costi
tuiscono l'identità sono sempre, nell'attività psichica inconscia, incerti
sia per l'esistenza di detta attività, sia per i contenuti che l'abitano.
Nella pratica psicanalitica, non ci siamo se non raramente confron
tati con espressioni dirette di questa minaccia. Si tratta, però, di
espressioni dagli aspetti, trasferiti e più o meno limitati, che possono
andare fino al frazionamento dell'lo.
Questo insieme di rapporti non si chiarisce se non a patto di con
cepire il modello edipico in una maniera strutturale, le cui relazioni,
interne e specificate, implicano una distribuzione di rapporti affettivi
solidali.
82
i fonemi. Quando si considera il sistema di parentela, si è obbligati a
tener in considerazione un doppio parametro: il sistema delle deno
minazioni e il sistema degli atteggiamenti. Il tentativo di Claude Lévi
Strauss riconosce l'impossibilità di far coincidere i due livelli e di pro
porre nel contempo, a livello del sistema degli atteggiamenti, una
griglia di relazioni intelligibili. Appoggiandosi sul sistema delle deno
minazioni, detto tentativo crea una nuova distribuzione delle funzioni
di parentela.
Gli atteggiamenti di parentela, quando li si considera a un livello
di generalità, non sono fissi e questo, a suo tempo, ha alimentato con
troversie con gli psicanalisti, in quanto vi faceva difetto qualsiasi no
zione di " ruolo naturale ". Ad ogni buon conto, questa variabilità
offerta dal sistema degli atteggiamenti è, per cosl dire, compensata,
se alla famiglia " biologica " minima - cioè ai due genitori e al bam
bino - si aggiunge un termine supplementare, che permette una for
malizzazione del sistema, una formalizzazione che approda, bisogna no
tarlo, a un equilibrio tra relazioni tenere e relazioni ostili. È notevole
che Claude Lévi-Strauss, nella sua riduzione delle funzioni di paren
tela a livello del sistema degli atteggiamenti, abbia cura di non fer
marsi su tale o talaltro aspetto di questi, per mantenere, a livello più
generale, soltanto la coppia di relazioni amore-odio, visto che le sue
espressioni possono esistere solo a uno stato assai temperato. Non di
mentichiamo, comunque, che non sono questi affetti a interessare
Claude Lévi-Strauss, bensl il primato al quale questi sono subordi
nati nella prospettiva antropologica, cioè lo scambio. Succede sempre
che uno psicanalista non possa essere insensibile al fatto che questo
scopo può essere raggiunto solo con la mediazione di una distribuzione
affettiva. Per noi, non si tratta tanto di introdurre qui una dimensio
ne psicologica quanto di rilevare che, al livello più elementare, si in
contrano gli effetti strutturanti. Il che non esclude che essi stessi ri
chiedano una strutturazione con il termine supplementare, quello del
la coppia amore-odio. Il tentativo di sistematizzazione di Claude Lévi
Strauss, del resto, non sembra prendere in considerazione se non la
relazione funzionale tra i due livelli e riguarda un aspetto limitato
delle relazioni individuali, riguarda, cioè, quelle che si fondano su at
teggiamenti « stilizzati, obbligatori, sanzionati da tabù o da privilegi e
che si esprimono attraverso un cerimoniale fisso ».3 Questa corrispon
denza funzionale va oltre un rapporto di coesistenza. Se tra questi
due livelli è ammesso lo scarto, allora non si può dire semplicemente
che essi rimandano l'uno all'altro. Tra i due sistemi c'è, di fatto,
contraddizione e questo conduce Claude Lévi-Strauss a caratterizzare
83
il sistema degli atteggiamenti come una integrazione dinamica del
sistema delle denominazioni.4 Quel che sarà necessario ricordarsi è la
maniera in cui questa integrazione dinamica è compiuta, psicologica
mente e socialmente.
Si sa che è nell'introduzione dello zio materno nell'unità elemen
tare di parentela che Claude Lévi-Strauss vede il momento essenziale
di questa integrazione. Qui vanno distinte due idee: da una parte,
l'idea dell'introduzione, nell'insieme più elementare che si possa de
finire, del rappresentante del gruppo la cui presenza ricorda lo scam
bio, grazie al quale una nascita è stata possibile; dall'altra, l'idea che
la partecipazione di questo quarto elemento nella famiglia biologica
non solo non vi ha un ruolo determinato in anticipo (neanche i mem
bri della famiglia biologica ne hanno uno), ma varia, a seconda dei
casi, in maniera da equilibrare un sistema di relazioni. Ciò permette
a Claude Lévi-Strauss di dedurre una regola, che cito nella versione
da lui datane in Antropologia strutturale due: « Risulta cosl che, sul
piano affettivo, la relazione tra fratello e sorella sta alla relazione tra
marito e moglie come - forse su un altro piano affettivo (e non è nep
pure certo che differiscano) - la relazione tra padre e figlio sta alla
relazione tra zio materno e nipote ».5 Ciò ha come conseguenza l'in
troduzione, nel sistema degli atteggiamenti, di uno scarto ancora più
grande rispetto a quello che si potrebbe chiamare un ruolo naturale,
nella misura in cui possa esisterne uno. Tale ruolo naturale si esprime
nella funzione di madre di sesso maschile che lo zio materno può svol
gere. Lo schema dell'atomo di parentela che raccoglie queste relazioni
è il seguente: 6
A
+
84
spettiva del gruppo, in una prospettiva, cioè, necessariamente sociale,
forse che non ci si può interrogare su questa inclusione, in seno al
sociale, di elementi che siano più o meno omogenei ad esso? Cosl, se
è vero che la relazione tra cognati è essenzialmente fondata sulla col
leganza matrimoniale, forse che non si può pensare che, di contro, la
relazione fratello-sorella, relazione cosiddetta di consanguineità, de
rivi dalla loro comune appartenenza alla stessa madre, un'appartenen
za che sarebbe significativa di un rapporto più ' biologico ', dove
' biologico ' è inteso non tanto nella sua accezione assoluta quanto
come contrappunto al carattere integralmente sociale della relazione di
scambio? Poniamo tale questione per far maggiormente rilevare la
natura polivalente della sua funzione. La filiazione rappresenterebbe,
allora, l'integrazione di questi due ordini.
Inoltre, se il quarto elemento è davvero un rappresentante del
gruppo, allora la sua funzione è comunque quella di apportare un
supplemento di relazione che non può essere definito se non in seno
ai rapporti familiari. Tale quarto elemento, infatti, non giuoca il ruo
lo di un iniziatore sociale, bensì quello di un agente di equilibrio che
permette la derivazione, verso di sé, di atteggiamenti affettivi che sa
rebbero altrimenti bloccati da un'eccessiva saturazione tra figlio e ge
nitori. In effetti, « questi atteggiamenti costituenti altrettante coppie
ed esprimibili mediante due relazioni positive e due relazioni nega
tive » 7 sembrano prevenire, grazie a una tale stabilizzazione, qual
siasi eccessivo investimento in un senso o nell'altro. Il caso più no
tevole è quello in cui le relazioni positive sono tutte dal lato della
famiglia naturale (tra marito e moglie, e tra padre e figlio, quasi che
l'atteggiamento dello zio venisse a rappresentare, tanto dal lato della
sorella quanto da quello del bambino, l'indispensabile elemento se
paratore).
Siamo oggi divisi tra una concezione del simbolico come sistema
e una del simbolo come metà mancante di una unità potenziale. Non
si possono forse concepire delle situazioni-limite in cui possano es
sere rappresentate le due significazioni? E non potrebbe essere que
sto il caso in cui sarebbe possibile farlo? Lo zio materno sarebbe al
lora il rappresentante del gruppo sociale, in quanto funzionalmente,
ma non individualmente, è portatore di un significato di scambio. Ad
un altro livello, invece, egli giuocherebbe il ruolo di complemento,
necessario alla rappresentazione degli affetti di amore e odio, per as
sicurare la distanza ottimale del bambino rispetto ai genitori. Per
quanto precise e normative siano le regole di prescrizione dello scam-
85
bio, la loro realizzazione non può riposare che sul consensus indivi
duale, che si tratta di rendere accettabile.
L'ultima osservazione che è anche la più importante, è stata fatta
per attirare l'attenzione sulla circostanza per cui lo schema dell'atomo
di parentela, seppure simbolizza un insieme, il più completo possibile,
delle relazioni tra i termini che uniscono gli elementi, ne omette una,
quella tra madre e figlio, e ciò potrebbe forse costituire la sua ragion
d'essere. Quasi che la griglia non fosse a questo modo equilibrata
proprio perché il suo più estremo punto di tensione è nella contrad
dizione del suo doppio statuto di madre e di sposa, nella contraddi
zione, cioè, per cui una donna, madre e sposa, è la sola a essere parte
di un doppio rapporto di intimità massima. Il che non vuol dire che
questa intimità sia sempre positiva. L'atomo di parentela includerebbe
questa relazione, senza mai considerarla direttamente, ma per i suoi
effetti di vicinanza. Il paragone con il sistema linguistico sarebbe al
lora fondato dalla necessità di una stretta distribuzione delle funzioni
a partire da una situazione che rischierebbe di sovraccaricare alcune
di queste, bloccando ogni effetto di spostamento.
Se si considerano i cinque schemi dell'atomo di parentela cosl co
me Claude Lévi-Strauss li formalizza,8 un fatto colpisce. Le relazioni
tra marito e moglie da una parte, e padre e figlio, dall'altra, possono
essere dello stesso segno o di segno opposto (positivo e negativo) .
Lo stesso vale per l e relazioni tra fratello e sorella e tra zio materno
e nipote. In nessun caso, però, può esistere un tipo di relazione in cui
la relazione tra marito e moglie e quella tra fratello e sorella possa
essere dello stesso segno (positivo o negativo) . Ne deriva che lo stesso
vale per le relazioni tra padre e figlio, e zio materno e nipote. Se,
però, si considerano le cose non più dal lato dello scambio, bensl dal
lato della rappresentazione offerta al bambino, allora è proprio un
non-raddoppiamento della relazione (marito-moglie, fratello-sorella) ad
essere ricercata dal sistema. Mi si dirà che è proprio questa la condi
zione perché ci sia sistema. Si potrebbe però immaginare, in astratto,
una doppia relazione (positiva o negativa) a livello degli adulti e una
relazione parallela, ma di segno inverso, tra il bambino da una parte,
il padre e lo zio dall'altra. Le due coppie, positive e negative, sareb
bero rappresentate. Se, però, una tale configurazione non sembra pos
sa essere considerata, allora si deve prendere atto del fatto che il si
stema di rapporti è soggetto a un minimo di norme.
Di qui arrivo allora a domandarmi, in un'ottica che pone anzitutto
lo scambio in situazione referente o, quanto meno, non lo pone in
una maniera immediata, se il necessario antagonismo delle relazioni
86
tra marito e moglie, e fratello e sorella non abbia, visto che si tratta
dello zio materno, lo scopo fondamentale di evitare un rapporto di
raddoppiamento attorno alla madre. Si vede bene che non si tratta sol
tanto degli aspetti di proibizione dell'incesto visto come un attacca
mento, eccessivo e unicamente positivo, alla madre, bensl si tratta di
ovviare a una rappresentazione di replicazione (intendo questo ter
mine in un'accezione assai estesa), poiché una tale rappresentazione
rp.arca fondamentalmente il rapporto del bambino con il suo oggetto
primordiale.
87
(dal bambino verso la madre), e regressiva (dalla madre verso il bam
bino), fino all'incrocio del simile, che è insieme diverso e " identico "
in quanto è fondato sul riconoscimento dello stesso nel viso dell'altro.
Questa struttura, per l'analista, non è più naturale di quanto, per l'an
tropologo, la famiglia non sia biologica. Essa include il padre in quan
to assente. Dire del padre che è assente non vuoi dire che non sia là,
bensl, che vi è allo stato di presenza potenziale, ma anche di perdita
potenziale. La potenzialità, nella quale qui lo poniamo, non è pura
mente ipotetica. Essa risulta dal fatto che, nella sua esistenza corpora
le e nella sua apparenza fisica, il bambino è il prodotto materiale e
irrecusabile della unione dei genitori, e che il guardare la madre non
può escluderne il richiamo se non includendovi un altro genitore fan
tasmatico. Se ne potrebbe dare una figurazione schematica che ne ren
da conto. Questa:
dup '"'o
lo �"""
M ----- P
assente
88
siero è visto come una modalità essenziale del rapporto con se stessi.
È questa la ragione per cui facciamo passare l'idea del circuito prima
di quella della distinzione tra oggetto e immagine dell'oggetto, distin
zione che la coscienza della loro separazione supporrebbe. Sebbene
riguardi un dominio completamente diverso (quello del pensiero mi
tico), una proposta di Claude Lévi-Strauss formula in maniera assai
felice quello a cui faccio allusione. La proposta è questa: « Qualsiasi
schema per fondamentale che possa apparire, genera normalmente il
suo contrario, sia per effetto immediato di un giuoco di specchi sia
per effetto di un'elaborazione a scadenza precisa » . u Non è la sola pro
duzione del contrario che qui ci interessa, bensl il fatto che il contra
rio non si concepisca se non del rapporto che rovescia su se stesso lo
schema fondamentale, del quale si potrebbe dire che esso ignora se
stesso, prima che il suo contrario sia prodotto.
Quando il triangolo edipico si chiude, la relazione del soggetto non
si limita ai legami con i genitori. La dimensione assente si sposta a li
vello della questione posta sui legami che i genitori stringono tra lo
ro : non soltanto su quel che essi sono l'uno per l'altro e su quel che
l'uno e l'altro fanno, ma anche sul posto che il bambino occupa nel
loro desiderio. « Come, perché mi hanno fatto? » .
Quando la relazione nei confronti della madre crei il circuito di
rovesciamento dell'oggetto del desiderio, quando la madre rifletta, sul
soggetto stesso, il desiderio del soggetto, non in quanto soggetto di
stinto ma per retroazione, e gli dia perciò lo statuto di oggetto del
desiderio dell'oggetto del desiderio, allora la chiusura del triangolo
porterà con sé la contraddizione tra il ristabilimento di un desiderio
tra i genitori, che è condizione dell'esistenza del soggetto, e l'odio, che
risulta dalla esclusione del soggetto dal loro rapporto. Questo loro
rapporto deve comunque essere mantenuto, poiché è quello che assi
cura una presenza al soggetto rispetto a questi due assenti. Il compro
messo, spesso trovato, è quello di costruire il fantasma di un rapporto
potenzialmente distruttore, senza che la distruzione si compia mai in
maniera definitiva. La distruzione è allora proiettata su uno dei due
membri della coppia, mentre, immaginariamente, il soggetto si inter
pone in seno alla coppia, per proteggere il partner minacciato di di
struzione e ricostituire la riunione con l'oggetto. La struttura dell'ato
mo di parentela, vista da Claude Lévi-Strauss ha, per lo psicanalista,
il grande interesse di raffigurare, a livello della generazione da parte
dei genitori, questo doppio rapporto di riunione e di separazione (la
separazione si riflette al livello di Ego).
Il dispiegamento dell'Edipo comporta uno sfoggio della riparti-
89
zione tra affetti di tenerezza e di ostilità. Assai spesso si riduce l'Edi
po a una univoca distribuzione di desiderio, per il genitore il sesso
opposto, e di identificazione, per il genitore di egual sesso. In effetti,
la struttura completa comprende una doppia triangolazione. « Si ha
infatti l'impressione che il complesso edipico semplice non sia affatto
il più frequente ma corrisponda piuttosto a una semplificazione o sche
matizzazione, che del resto sul piano pratico è per lo più abbastanza
giustificata. Un'analisi più approfondita scopre però in genere un com
plesso edipico " più completo ", il quale è di natura duplice, positiva
e negativa, e ciò per effetto della bisessualità originaria del bambino;
il maschietto cioè non manifesta soltanto una impostazione ambiva
lente verso il padre e una scelta oggettuale affettuosa verso la madre,
ma si comporta contemporaneamente anche come una bimba, rivelan
do una impostazione di femminea tenerezza rivolta al padre e la sua
corrispondente impostazione gelosa-ostile verso la madre [ .. ] L'espe.
90
Facciamo spostare un triangolo sull'altro, otteniamo un rombo.
Poiché sono le relazioni ad interessarci e poiché ci poniamo dal punto
di vista di Ego, importa poco che lo zio materno venga a raddoppiare
la relazione del padre o quella della madre. Nel primo caso, a rappre
sentarsi sarebbe, nel triangolo superiore, la relazione positiva con il
padre; nel secondo caso, si rappresenterebbe, nel triangolo inferiore,
la relazione positiva con la madre. Completando lo schema, per man
tenervi le necessarie opposizioni, finiremmo nel modello edipico com
pleto di Freud
Ego
Ego
91
perio. Ritroviamo qui ancora una espressione della funzione di assen
za, di cui abbiamo in precedenza parlato. Questa funzione si compie
nell'anonimizzazione del Superio. Forse che si può allora arrivare ad
opporre e riavvicinare le società senza scrittura, in cui, da una parte,
la funzione dello zio materno giuocherebbe il ruolo di duplicato in
vertito della relazione tra i genitori e di rappresentante di un sistema
ridotto di scambi e, in cui, dall'altra, il ruolo delle società o l'anoni
mizzazione del Superio va di pari passo con lo scambio generalizzato
e il riferimento alla scrittura, il quale sostituirebbe la prescrizione con
il vietato elevato a un piano superumano?
92
partire da altri elementi. Si sarebbe a prima vista tentati di fare una
distinzione territoriale e di " localizzare " i processi primari dell'in
conscio e i processi secondari nel conscio. Questa distinzione, però,
non regge, in quanto l'attività cosciente regola, insieme al fantasma,
un luogo di esercizio per i processi primari. Il problema essenziale è
quello della possibilità di trascrizione da un sistema all'altro. Non si
tratta più, allora, di far intervenire un'identità che riunisca i due si
stemi, bensi di cercare la relazione tra le operazioni dell'apparato psi
chico, il lavoro di trasformazione, che tale apparato porta a termine, e
il suo materiale. Quanto al linguaggio, questo rappresenta, rispetto ai
materiali dell'inconscio, un modello ridotto. Nel suo Progetto di una
psicologia scientifica del 1 895 ,13 Freud ha ben sottolineato che le unità
linguistiche sono discontinue, limitate ed esclusive. Tanto per ritor
nare al sogno, ciò non è evidentemente applicabile all'immagine. Il
sogno è marcato dalla preoccupazione di figurabilità. Se è vero che il
sogno resta la testimonianza dell'attività inconscia, è anche vero che
l'attività inconscia si trova nondimeno regolata dalla natura e dalle
proprietà del supporto del sogno.
Nella seduta con l'analista la norma è quella del linguaggio. Il lin
guaggio, però, è messo in tensione. Il potere di unificazione della
espressione è scalzato dalla molteplicità del tipo di significanti che
cercano di esprimersi: rappresentazioni di parola, rappresentazione di
cose, affetti, stati del proprio corpo, atti. V'è certo una vettorizza
zione con il linguaggio, visto che, in fin dei conti, qualcosa si dice.
Ci sono, però, marche diverse in quel che è detto e in quel che non è
detto. Queste marche non si fondano soltanto sul linguaggio stesso,
ma anche sui diversi tipi di significanti. Se tuttavia è vero che si può
ancora dare a tutto questo il nome di significanti, d'altra parte la mi
naccia di invasione con il corpo, la diffusione affettiva, può compor
tare un'estrema distensione dei legami associativi ai limiti dell'intel
ligibilità. Qualsiasi interpretazione di stile deduttivo vi fallisce. Si
devono allora far intervenire altri procedimenti di comunicazione con
l'induzione affettiva.
La concezione di Lacan, il quale sostiene che l'inconscio è strut
turato come un linguaggio, ha l'inconveniente di far pensare che at
torno al linguaggio si operi un raggruppamento, di cui sarebbe ga
rante l'unità significante. Freud, però, dice: « L'inconscio parla più di
un dialetto ». E, noi aggiungiamo, nulla permette di assegnare all'in
conscio la minima costituzione omogenea al livello degli elementi che
lo compongono. L'operatore, costituito dal simbolico, viene a ricosti
tuire, a livello dei processi psichici, l'unità di un soggetto che è detto
13 Cfr. S. Freud, Opere (1892-1899), Boringhieri, Torino, 1968, pp. 193-284 (n.d.t.).
93
tuttavia diviso. La questione della divisione del soggetto ha le sue
radici nella relazione all 'Altro. La maniera in cui si considera questo
rapporto ha tuttavia implicazioni diverse. Per Lacan, questo rapporto
vede l'Altro come detentore del codice (il simbolico) . Il che è ancora
una maniera di ricostituire una totalità, pur se la si colloca in un luogo
ideale, quello da cui ogni questione si indirizza al soggetto. Per Win
nicott, l'Altro è soprattutto l'occasione di una ricerca del Sé. Il sen
timento del Sé, infatti, si costituisce sulla base di uno stato non inte
grato, il quale tuttavia, per definizione, non è né osservato né ricorda
to dall'individuo ed è invece perduto, a meno che non sia osservato e
rispecchiato da un essere, in cui si può aver fiducia, che giustifica
questa fiducia e che va incontro alla dipendenza. 14 Una tale ricerca non
si limita soltanto alla possibilità di essere trovata, ma anche alla sen
sazione che l'esistenza è in questa stessa ricerca.
Inoltre, con questa ricerca si costituiscono gli oggetti transizionali.
Gli oggetti transizionali sono i primi possessi non-io del soggetto: un
panno, il bordo della coperta, il balocco preferito che il bambino por
ta con sé al momento di addormentarsi. Lo statuto di questi oggetti
è significativo di tutta una sfera mentale, in cui la questione della
soggettività e dell'oggettività non ha da essere posta. Che questo og
getto non sia il seno (o la madre), sebbene sia reale, importa tanto
quanto il fatto che esso sia al posto del seno (o della madre) . 15 Non
è un oggetto interno più di quanto sia un oggetto esterno. Non è tan
to l'oggetto ad importare quanto il campo psichico che lo istituisce,
un campo determinato da una nuova forma di riunificazione nel luogo
e nel tempo in cui si inaugura la separazione. La divisione, dunque,
non regge soltanto tra soggetto e oggetto o tra oggetti interni e og
getti esterni, ma approda anche a delle creazioni, all'interno delle
quali, in quella che Winnicott chiama l'area intermedia, si installa un
rapporto sospensivo sull'essere o il non-essere dell'oggetto.
A metà tra il livello della teoria delle persone e quello della teo
ria dei processi incontriamo il ruolo degli oggetti parziali.
In una nota trovata dopo la sua morte, Freud scrive: « Avere e
essere nel bambino. Il bambino esprime volentieri la relazione con
l'oggetto per mezzo dell'identificazione: io sono l'oggetto. L'avere è
il più tardo dei due: ricaduta nell'essere dopo la perdita dell'oggetto.
Esempio: il seno. Soltanto più tardi: l'ho, cioè non lo sono ». Le ri
cerche di Winnicott prendono posto in questo intervallo in cui questa
forma di avere, lasciando fuori di sé l'essere dell'altro, può, anche per
riflessione, costituire uno spazio del soggetto dove la questione del suo
94
proprio essere sfugge all'alternativa essere-non essere. Il linguaggio,
nella situazione analitica, potrebbe inscriversi nella stessa probl�
matica.
Queste nuove ipotesi sono nate dalla pratica analitica, in partico
lare dall'analisi di persone che soffrono a livello del loro sentimento
di identità e vivono minacce di frazionamento, essendo estremamente
dipendenti dai loro oggetti. Se l'analisi riesce a dar loro una migliore
delimitazione di sé, non è per la riduzione del loro inconscio ma, al
contrario, per una coesistenza con questo. Lungi dal portare a termine
una totalizzazione, l'ammissione all'esistenza del diritto di sognare, di
produrre dei lapsus, degli atti mancati, e di intrattenere una relazione
con quella parte di sé che sfugge al loro controllo costituisce quello
che l'esperienza analitica dà loro.
Discussione
95
il gruppo sociale esige, potrà stabilirsi più o meno bene e, talvolta,
perfino non stabilirsi affatto.
Evidentemente, studiare questo terzo meccanismo è il contributo
specifico dell'analisi psicanalitica. Ed è proprio questa, io penso, la
ragione di quei leggeri malintesi che possono talvolta sopravvenire
tra etnologi e psicanalisti, in quanto è precisamente in giuoco ciò che,
per definizione, sfugge all'etnologo e che lo psicanalista rivendica co
me suo.
Se voglio ritornare rapidissimamente sul confronto tanto sugge
stivo, che Lei ha fatto a proposito delle nostre rispettive concezioni
al riguardo di quello che si potrebbe chiamare " l'atomo di parente
la ", è perché penso che ci sono, tra di noi, alcuni minimi malintesi,
ma anche un problema reale.
I malintesi si ricollegano alle Sue riserve sulla nozione di consan
guineità e sul carattere, culturale o psicologico di questa. Di fatto,
però, se ho usato (e mio malgrado) il termine " consanguineità ", l'ho
usato perché volevo trovare un'etichetta per una relazione che non è
né di colleganza matrimoniale né di filiazione. Per quanto riguarda
quel che avevo in mente, si trattava unicamente della relazione fra
tello-sorella. In tutte le società, che abbiamo studiate, questa relazione
fratello-sorella è specificata dalle norme del gruppo: norme ora di
libertà e di intimità ora, al contrario, di riserva.
Molto più interessante è la questione della non-qualificazione del
le relazioni tra madre e figlio. E non ho bisogno di dire che questo è
un problema che mi ha tormentato non poco. Se, però, non l'ho fatto
intervenire, è perché non avevo bisogno di questa ipotesi. Nella mag
gior parte dei casi, le società, che abbiamo studiate, razionalizzano il
rapporto tra marito e moglie, razionalizzano il rapporto tra fratello e
sorella, razionalizzano il rapporto tra padre e figlio, ma non raziona
lizzano - o, in ogni caso, non lo razionalizzano allo stesso grado - il
rapporto tra la madre e i suoi figli.
Per voi psicanalisti, al contrario, si tratta di un rapporto essen
ziale. Dirò, però, che le due cose sono legate e che bisogna precisa
mente che, per noi, questo rapporto non sia razionalizzato, perché
voi possiate intervenire e troviate il vostro posto. (Risate).
Se, infatti, l'etnologo si preoccupasse di specificare, per ogni so
cietà, il rapporto tra la madre e i figli, egli direbbe allora allo psica
nalista: « Noi spieghiamo tutto. Voi non avete più niente da dire » .
Ora, però, ci sono cose che non possiamo dire. Che facciamo? Ten
tiamo di determinare, per ogni società, una sorta di paradigma col
lettivo degli atteggiamenti. E voi, invece, partite dalla constatazione
che tale paradigma non è rispettato in eguale maniera da tutte le con
figurazioni familiari all'interno del gruppo, che c'è giuoco e che c'è
96
della variazione. Questo buco, che noi vi lasciamo, è il posto di questo
giuoco e di queste variazioni, che voi avete il compito essenziale di
studiare.
Penso, quindi, che le due figure 16 ovvero i due gruppi, le due cate
gorie, di figure non sono in contraddizione e non si escludono a vicen
da, anzi sono in rapporto di complementarietà. Proprio nella misura in
cui c'è del posto libero nel sistema elaborato dall'etnologo, lo psicana
lista può disporre le sue " pedine ". Se cosl non fosse, non gli lasce
remmo spazio per farlo.
Concludendo, volevo porLe una domanda, che è probabilmente
futile e ingenua. In fondo, la teoria psicanalista, seguendo Freud, ci
dice che « l'io è scisso ». D'altra parte, Lei ha dei pazienti che lamen
tano una scissione, ma una scissione che è, se posso dirlo, " perpen
dicolare " alla scissione che Lei considera normale. Sarebbe concepi
bile che un paziente venisse a lamentare di soffrire di quella scissione
che il pensiero psicanalitico ci dice essere la scissione reale? E se sl,
cosa succederebbe?
97
dello stesso sesso cromosomico, l'identità sessuata, negli stati mter
sessuali, si produce in dipendenza molto più del rapporto coi genitori
che del rapporto biologico.
Questo meccanismo strutturale, fondamentale per la costituzione
dell'identità del bambino, è soggetto a oscillazioni, positive o negative,
in cui si alternano rapporti di amore e di distruzione. È interessante
vedere come Freud non abbia mai potuto concepire la relazione del
bambino verso quella che noi chiamiamo " la cattiva madre ", cioè
non una madre oggettivamente cattiva, ma quella dell'imago che il
bambino ne conserva. Freud non ci ha mai creduto. Tutta l'evolu
zione della clinica psicanalitica, però, fa vedere come ciò avvenga.
Quel che in questi casi è drammatico è che il soggetto non può sen
tirsi riconosciuto da un terzo se non a patto di avere la sensazione di
distruggere l'oggetto il cui solo riconoscimento gli importa. Egli al
lora non si costituisce che tale cattiva parte di questo oggetto, neces
sario al mantenimento della loro comunione.
Il posto vuoto, di cui Lei parla, ha il vantaggio di permetterei di
collocarci a livello degli effetti di riflessione nella relazione interumana,
in quella che è la loro forma embrionale e che voi osservate, a un
altro livello, in organizzazioni nucleari del sistema sociale.
Vengo, ora, alla Sua seconda domanda, Lei chiede cosa succede
quando un soggetto viene a lamentare una scissione che sia la scissione
normale. Sono situazioni che si osservano in certi pazienti. Delle due
l'una: o l'insufficienza della scissione li fa segno ad attacchi fantasma
tici incontrollabili, che li minacciano di confusione, ovvero, come al
tro estremo, abbiamo a che fare con l'esempio della razionalizzazione
intensa, cioè con il caso dell'ossessivo, che è di contro invaso dal dub·
bio. Spingendo ancora più lontano le cose, il soggetto può avere la
sensazione di vivere la sua vita soltanto come spettatore, di esser come
tagliato fuori da essa. Evidentemente, in questo caso, superiamo lar
gamente la questione della scissione normale.
Permettetemi di raccontare un piccolo aneddoto. In una quarta
classe superiore, durante quelle lezioni di fine anno in cui, prima della
pausa delle vacanze, il lavoro rallenta, una professoressa racconta la
leggenda di Edipo. Terminato il racconto, ella aggiunge: « Gli psica
nalisti dicono che . . . ». Vi risparmio il seguito. La professoressa at
tende le reazioni degli alunni. Una discussione si accende. Uno solo,
su venti alunni presenti, ha detto: « Io non ci posso credere. Non so
immaginare di aver potuto desiderare la morte di mio padre e di aver
voluto dormire con mia madre ». Gli altri gli si sono vivamente op
posti, l'hanno preso a parte e gli hanno detto: « Ma è evidente! Ri
fletti! Sei limitato! ». Evidentemente tale ammissione è possibile solo
a prezzo di una scissione. L'importante in questa versione non è do-
98
mandarsi cosa è normale nei due atteggiamenti adottati, bensl è im
portante il fatto che qualsiasi ammissione, possibile solo a prezzo di
una scissione, incontra una contestazione.
99
un'organizzazione a un'altra. Quando faccio riferimento alla nosogra
fia, ad importare non è il carattere patologico, bens1 il fatto che questi
" stili esistenziali " possano esservi scomponibili e riorganizzabili. Per
questo, però, bisogna evidentemente far intervenire tutto l'apparato
teorico della psicanalisi: il dualismo pulsionale, la bisessualità, l'oppo
sizione tra narcisismo e relazione con l'oggetto, i principi del funzio
namento mentale, il giuoco delle istanze, etc. Io, però, mi sono aste
nuto dal farlo per limitare la discussione.
Non so se ho risposto alla Sua domanda.
100
fico alla letteratura del XIX secolo e al vaudeville, è evidentemente la
suocera a personificare il gruppo dei datori di donne. In realtà, però,
nelle nostre società contemporanee, il gruppo dei datori si fonde con
il soggetto del dono. Se fosse vero, questo cambierebbe la natura del
dibattito tra etnologi e psicanalisti, in quanto i problemi cosl inte
ressanti, che Lei ha formulato in termini psicologici e che questi sche
mi riflettono, potremmo formularli in termini sociologici, dicendo che
il rapporto tra la madre e suo figlio non si stabilisce soltanto tra due
individui. Esso si definisce in funzione del fatto che la madre rappre
senta il gruppo dei datori. Questo modo di vedere orienterebbe gli
scambi tra di noi in una nuova direzione la quale, penso, potrebbe
essere assai feconda.
101
sé, conforme all'immagine del desiderio della madre, cioè di quello
che la madre vuole che il figlio sia.
Penso che si debba innanzitutto considerare la relazione tra l'es
sere e l'avere piuttosto che quella tra essere, divenire e dover essere.
Sappiamo, in ogni caso, che il dover essere dipende dall'Ideale dell'lo
in funzione dell'ineluttabile differenza tra la soddisfazione attesa e la
soddisfazione ottenuta. Il divenire dipende da una doppia azione, da
una doppia identificazione: identificazione progressiva, del bambino
con l'adulto, e regressiva, dell'adulto con il bambino. L'adulto, cioè,
deve anche lui riconoscere i bisogni del bambino, regredendo. L'in
contro avviene a metà strada.
Odile facob: Lei ha parlato del passaggio dalla logica primaria al
la logica secondaria. Potrebbe ripetere lo schema preciso? Come si può
passare da un sistema all'altro?
102
sazioni di delirio e di depressioni incipienti, di attacchi al pensiero e
di vuoto interiore. Condensazione e spostamento sono meccanismi che
implicano anche cariche affettive. Ora, nei casi cui ho fatto or ora
allusione, ci si trova di fronte, nella doppia angoscia di intrusione e di
separazione, proprio a fenomeni di carica. Proprio per la tolleranza
verso la nozione di assenza, verso la nozione di potenzialità, è possi
bile un'apertura e ciò suppone una riduzione affettiva e una possibi
lità di costituire uno spazio interno di solitudine, per uscire dall'al
l'alternativa pieno/vuoto. Si deve insistere sulla differenza tra rappre
sentazioni, che cercano l'articolazione, e affetto marcato dalla tenden
za alla diffusione. Quel che questo implica è che l'oggetto (l'analista)
possa lui stesso riconoscersi come luogo di invasione, o come posta
in giuoco di un sequestro o di una esclusione, per costituire con il pa
ziente la mutualità donde emerge uno sguardo su questa complemen
tarietà.
103
due, dei quali uno gli è simile, l'altro diverso. Il posto dell'ideologia
sociale è stato perfettamente individuato. Lo stesso Claude Lévi
Strauss l'ha ricordato. Sono pienamente d'accordo a che si faccia una
critica ideologica della difesa dell'Edipo, e all'interno stesso della psi
canalisi. Per me, questo non cambia niente per le determinazioni pri
marie. Non più di quanto cambierebbe, penso, qualcosa per l'atomo
di parentela secondo Claude Lévi-Strauss. Per quanto riguarda l'ante,
bisogna fare molta attenzione, a non rappresentare nelle matrici più
primitive quanto apparirà nel loro dispiegamento. Ecco perché alla
dimensione del duplicato aggiungo quella dell'assente. Come dice
Winnicott, l'oggetto deve essere trovato, ma non può essere trovato
che a condizione che sia già là. E quando la scoperta si compie, ciò
permette al bambino di assentarsi anch'egli in quell'area di giuoco
da dove potrà prendere forma l'esperienza culturale.
104
Identità e catastrofi
Tapologia della differenza
Jean Petitot-Cocorda *
L'effetto Carroll
105
pensieri inclinano anche solo un po' verso " fumante ", tu dirai " fu
mante-furioso ". Se, invece, i tuoi pensieri convergono anche solo per
un pelo verso " furioso ", tu dirai " furioso-fumante ". Se, però, tu
hai il più raro dei doni, una mente perfettamente equilibrata, dirai
" frumioso " » .3 La portata (e l'ironia) di una siffatta apostrofe è con
trollata dalla semantica cosiddetta razionale che, privilegiando a priori
(in balla di un pregiudizio categoriale) le strutture logico-combinato
rie, la riduce alla occorrenza di una forma opposizionale con termine
neutro: frumioso = fumante + furioso. Ora, questa descrizione è
sreale. Di fatto essa annulla a priori un luogo di instabilità produttrice
e strutturante ( « Se i tuoi pensieri inclinano anche solo un po' ver
so . .. » ) . Eccesso avvenimentale e supplemento spaziale, questo luogo
di instabilità, emittente della parola-baule, è anche - e identicamente -
luogo enunciativo ( « Ora apri la bocca e parla » ) . È un tratto enun
ciativo la cui intensità può andare fino a un « Parla o muori! » : « Mi
domandano: sotto quale re? Dl, pidocchioso! Parla o muori! Io non
so se quel re era William o Richard. Allora rispondo Rilchiam » .4
È certamente lecito riferire il tempo, puntuale e biforcante, del
lapsus costitutivo delle parole-bauli a uno strato fenomenale, etero
geneo rispetto a quello delle strutture cosiddette profonde. Ciò equi
vale a considerare l'enunciazione come un procedimento complesso
{psico-linguistico) . Io, però, desidererei difendere un'altra tesi e pre
cisamente la seguente: in quanto schema sintattico, lo schema Car
roll o, per riprendere l'espressione di Deleuze, l'effetto Carroll è una
invariante formale della produzione significante, una morfologia-arche
tipo che autorizza la deduzione (al livello della traccia) dell'istanza di
enunciazione come effetto logico-reale.5
3 Questo passo di L. Carroll è, come il successivo, tratto dalla " Préface " a La
chasse au Snark [ trad. fr. dell'originale inglese The Hunting of the Snark, an Agony
in eight Fits, Macmillan, London, 1876 (n.d.t.) ] , contenuta in G. Parizot (publié par),
Lewis Carroll, Seghers, Paris, s.d.
4 Per l'ubicazione del passo di Carroll ved. nota precedente. La disgiuntiva " o "
dell'ingiunzione « Parla o muori » ha lo statuto di un vel alienante (in senso lacaniano).
Essa si trova ricondotta alla disgiunzione logica « William o Richard » risolta, pure
questa, dall'enunciazione della parola-baule. Il destinatore dell'enunciazione è, però,
lo stesso vel alienante.
s Effetto evidentemente estraneo alla logica formale.
106
parole-bauli diventano necessarie » .6 Le parole-bauli divengono neces
sarie a partire dal momento in cui esse articolano una serie signi
ficante, marcata da un eccesso, e una serie significata, marcata da una
mancanza. Si tratta di una mancanza e di un eccesso stranamente sin
golari, giacché « ciò che è in eccesso nella serie significante è letteral
mente una casella vuota, un posto senza occupante che si sposta sem
pre, e ciò che è in difetto nella serie significata è un dato sovrannu
merario e non collocato, non conosciuto, occupante senza posto e sem
pre spostato ».7 Le serie eterogenee significante/significato convergo
no verso un elemento paradossale (oggetto a), elemento « che manca
il suo posto », che manca alla sua propria identità e che viene a in
nestarli l'uno sull'altra, scambiando il loro eccesso e la loro mancanza
senza mai equilibrarli. Sono tali innesti ad essere indicati dalle parole
bauli. E ciò in funzione della loro struttura, che è « una stretta sin
8
tesi disgiuntiva » .
Mi propongo qui di presentare un modello dell'operazione, appa·
rentemente paradossale, costituita dalla sintesi disgiuntiva.
107
duzione nell'Identico della struttura, un Identico che, del resto, si ri
concilia il ritrovato paradigma della natura umana: « Sarebbero nate
meno confusioni attorno alla nozione di natura umana, nozione che
noi persistiamo nell'usare se si fosse considerato attentamente che con
questa espressione non intendiamo designare un accatastarsi di strut
ture già pronte e immutabili, bensì delle matrici da cui si generano
certe strutture che appartengono tutte a un medesimo insieme » .9 Un
Identico, categorico e combinatorio, che completa il mito: « Rivelata
a se stessa, la struttura del mito pone un termine ai suoi completa
menti » . 10 Ora, dato questo termine, correlato del primato ontologico
del fatto di struttura è evidentemente la necessità metodologica della
cancellazione - cancellazione e non sovversione - del soggetto. Il suo
mantenimento implicherebbe, infatti, l'introduzione di una sorta di
profondità mentale (del tipo di un innatismo chomskiano) radicante
l'a priori delle strutture profonde in un " io penso " signore del sen
so.11 Insieme a questa cancellazione, comunque, se ne consuma un'al
tra, peraltro più conseguente: quella del corpo . . .
Correlativamente, il trasformazionismo inciampa sullo statuto rea
le delle strutture elementari. Se, nel caso della parentela, queste sono
suscettibili di una descrizione formale, è perché la vaga nozione di re
lazione può esservi sostituita da quella - algebrica - di operazione.
Lo stesso non vale per i miti in cui, a motivo di diversi spostamenti e
diverse sedimentazioni, le strutture non emergono se non localmente
sotto forma di creodi (strutture narrative elementari), di cui non
esiste alcuna combinatoria banale e che costituiscono altrettante zone
deterministiche, articolate tra loro in modo non deterministico. Per
ritrovare un sistema, dunque, è necessario cambiare di livello e pas
sare a quello globale in cui il trasformazionismo diviene operativo e
libera lo strato simbolico dei diversi codici. Ciò, però, non regola in
nulla lo statuto reale delle creodi narrative. Qui il tradizionale pa
radigma termini-relazioni non è più giustificabile a priori e deve pure
essere sottoposto a una critica radicale, in quanto impedisce di pen
sare tali creodi come dispiegamenti di avvenimenti sintattici.12
Solo in questo punto duale di cancellazione (del corpo e dell'avve
nimento, in breve della questione della lettera lacaniana) lo struttura
lismo si biforca verso una semiotica testuale, chiamandola a una este-
108
riorità, somatica e pulsionale, della struttura: a una chora semiotica,
in Julia Kristeva. Chiamare a una esteriorità effettiva è, però, teorica
mente " irrilevante ", in quanto si finisce per cadere sotto i colpi della
critica di Claude Lévi-Strauss: « Si ha la pretesa di spiegare gli ordi
namenti di un certo tipo riconducendoli a dei contenuti che non sono
della stessa natura e che, per effetto di una strana contraddizione,
agirebbero sulla loro forma dal di fuori » Y
Ad ogni buon conto, io penso che si tratti di un falso problema.
L'argomentazione mostra semplicemente che l'articolazione, allo strato
strutturale, di uno strato pulsionale, cioè di una chora semiotica che
verrebbe a produrre e, nello stesso tempo, a corromperne la regola
simbolica, deve effettuarsi sotto le specie di quella che chiamerò una
sintassi eccessiva/4 una sintassi, cioè, che introdurrebbe nel suo oriz
zonte formale una traccia 15 eterogeneizzante.
L'instabilità concettuale del fatto impredicabile della differenza
libera conduce, dunque, all'ipotesi di una sintassi eccessiva.
109
che gli elementi di una struttura non hanno « né designazione estrin
seca né significazione intrinseca », ma hanno soltanto senso di posi
zione. Il limite formale dello strutturalismo combinatorio è che il ri
baltamento dei complessi posizionali, che esso opera a partire dalla
arché-metafora della griglia, esclude a priori che ne discendano entità
formali del tipo delle singolarità. L'affermazione della tesi avvenimen
tale, però, urta a sua volta contro una difficoltà formidabile : « ciò che
è strutturale è lo spazio, ma uno spazio inesteso, preestensivo ».19
Spazio pre-estensivo: è questo il paradosso che ogni progetto di sin
tassi eccessiva deve spiegare.
Prima di arrivarvi, desidererei prevenire fin d'ora certe critiche
pregiudiziali. Innanzitutto dato che si tratta in sostanza di interrogare
la possibilità di una inscrivibilità formale dell'oggetto a, possibilità
che è la sola ad autorizzare l'escrizione di tale oggetto a dal campo sog
gettivo e il suo riporto al reale,20 il progetto, sulla sola base di questa
pretesa (strategica), potrebbe essere tacciato di idealismo. Quel che
però sorregge e misura l'idealismo è l'involuzione, nell'ordine del
concetto, della nozione di singolarità (sotto forma di negatività, per
esempio) . Ora, noi vedremo che le singolarità sono non significabili.
Esse non sono reali che nel praticarsi o nello scriversi.21 Ed è proprio
perché, parallelamente alla loro pratica schizo-poetica, non possono se
non scriversi che esse richiedono un intervento formale, il cui pro
getto non è di epurare il dire, ma di mostrare la traccia di quanto si
matematizza ai suoi margini.22 Si potrà allora giudicare che, sia che
resti questa maschera sia che resti il campo di questa scrittura, cioè
quello della cosiddetta topologia, si tratta sempre di un campo sim
bolico particolare: « Il semiotico non ha unità discrete significabili,
localizzabili. Una topologia può darne l'immagine, ma non la contrad
dizione eterogenea con il simbolico » .21 « Si può benissimo tentare (e
arrivare a ottenere) una topologizzazione di quel che Julia Kristeva
chiama il semiotico. Tale tentativo non darà altro che la topologia
del tentativo di annettere questo semiotico a un simbolico particolare,
quello della topologia, dato che questa, al pari della teoria degli in
siemi di cui non è che una parte, è un discorso predicativo (che regge
quel che altrove io chiamo logica dell'ordine) . Insomma, fare la topo-
19
Cfr. G. Deleuze, Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, cit., p. 197.
20
Più avanti ritornerò su questo chiasmo che è il punto critico dell'Anti-Edipo.
21 L'espressione e la rappresentazione, che le rilevano nel significabile, riformulano
le singolarità come mancanza, come lacuna.
22 Come la nozione della differenziale, anche la nozione di sintesi disgiuntiva è
concettualmente contraddittoria. Essa nomina un a-logon.
21 Julia Kristeva, Soggetto nel linguaggio e pratica politica, in A. Verdiglione (a
cura di), Follia e società segregativa, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 58.
1 10
logia di un procedimento semiotico è tentare di osservarlo in uno spec
chio topologico, le cui possibilità semiotiche sono per definizione ri
dotte. Può accadere che la nostra ignoranza sia abbastanza grande
perché ciò sia comunque utile ».24
Se è vero che una tale critica è difficile da respingere, è comunque
vero che essa opera solo in un primo tempo. Per un verso, infatti,
non si tratta di " topologizzare " il semiotico: come ho già detto, una
sintassi eccessiva introduce nel suo orizzonte formale la traccia di un
eterogeneo. Per l'altro verso i modelli catastrofici di cui farò uso in
cludono una " semantica canonica " 25 e questo li separa dal simbolico
formale in generale. Infine, la critica sarebbe definitiva se e solo se
lo specchio topologico delle invarianti semiotiche fosse costruito ad
hoc. Ora, qui le cose vanno in modo del tutto diverso. La nozione di
catastrofe proviene da una regione teorica (altamente sofisticata) che
sviluppa genealogicamente l'analisi qualitativa delle equazioni differen
ziali.26 La geniale trovata fenomenologica di René Thom è quella di
averne estratto degli elementi, a partire dai quali egli propone una
maniera altra di incontrare il reale. In questo incontro - per la prima
volta nell'ambito stesso della matematica - si trova detto qualcosa su
quel che è rimosso nel progetto della scienza positiva ed escluso nella
sua scrittura.27 Ora, il fatto che degli elementi matematici, matemati
camente pertinenti e genealogici, siano speculati di processi semiotici
pone una questione di un'ampiezza tutta diversa, lasciando sospettare
che a lavorare nell'elaborazione progressiva di una logica del senso
(benché ancora sullo fondo di un mancato riconoscimento) siano delle
proprietà oggettive di un essere-spaziale ancora inesplorato. Le inci
denze di questo sono multiple e in particolare politiche ...
lo penso, in effetti, che, per quel che la teoria vi si trova impli
cata, la sostituzione del sentire moderno passi (tra l'altro) per la pos
sibilità di una regressione delle nozioni di contraddizione reale e di
differenza fino a giungere ad un punto di taglio dello stesso logico,
punto di taglio che io ho contrassegnato col nome di logico-reale. Ora,
una tale possibilità svanisce ad essere convocata come semplice sup
posto. Essa non è reale che a patto di raggiungere la sua scrittura. E
111
una tale scrittura, quand'anche potesse anticiparsi, non si improvvisa.
La diflìcoltà principale, però, resta. Quale imperativo v'è da ri
prendere come effetto, insieme immanente e sfalsato, di un ipotetico
essere-spaziale, di quel che si è sempre pensato sotto forma di una ge
rarchia che procede da un al di qua opaco della struttura fino all'in
verso del suo al di là ideale? Quale intimazione vi si maschera di una
fissazione qualsiasi? E quale necessità? A che pro eguagliare un al di
qua all 'inverso di un al di là? A che pro affermare che, più che spe
culati, essi sono realmente indiscernibili e che si fondano dalla scrit
tura di un resto lacunoso? Effettivamente non v'è alcuna necessità.
Un'azione teorica di questo ordine è indecidibile. La sua pertinenza si
riduce alla sua possibilità. Penso che, per essere in connivenza con la
crudeltà del suo oggetto, lo strutturalismo debba complementarsi e
complicarsi con una ripetizione della tesi monadologica 28 nel modo
seguente: c'è equivalenza tra la spazializzazione delle classificazioni
(questione del topos) e il fatto che ne discendano delle " singolarità "
locali (punti o stigmi metafisici) , di cui il soggetto (dell'inconscio) è
il luogo e il desiderio è l'istanza produttrice.
Il tratto e la metalingua
28 Di tale questione, dice Heidegger, ancora oggi (a causa del kantismo) abbiamo
soltanto un vago intuito.
1 12
Il concetto di catastrofe
113
v
tipo l
�
tipo 2
4 2
Per u e v fissati, la curva rappresentativa di /u. v è in generale del
tipo l (a un solo minimo) o del tipo 2 (a due minimi separati da un
massimo) - tipi che si dimostra che sono strutturalmente stabili.30
Questi minimi, e quest'estremo sono i punti della curva y = /u. v
(x) in cui la tangente è orizzontale. Essi corrispondono ai valori di x
per i quali la derivata /'u. v (x), derivata di /u. v (x) in rapporto a x, si
annulla e cioè alle radici dell'equazione derivata /'u. v = x? + ux +
+ v = O.
Questa equazione di terzo grado ha sia tre radici reali il che, -
1 14
rità detta cuspide (punto di rovesciamento di prima specie) . Di qui il
nome di cuspide dato a questa catastrofe elementare.
o
u
4
x
Attorno al valore O del controllo (/o = - corrisponde a una sorta
4
di parabola tale da ammettere all'origine un punto " appiattito ") si
ottiene, dunque, la seguente distribuzione dei potenziali f,., v (vedi
figura) che raggruppa i due principali tipi elementari di catastrofe:
a) le catastrofi di biforcazione propriamente dette (dirama
zioni della cuspide);
b) le catastrofi di conflitto (punti sul semiasse delle u < O
dove i due minimi sono alla stessa altezza).
115
r
!
Si può mostrare che ogni piccola deformazione stabile del poten
ziale instabile /o (in quanto funzione differenziale) è sia del tipo l che
del tipo 2 . La famiglia /u. v, chiamata anche spiegamento universale 31
della singolarità /o, può essere definita come una famiglia che classi
fica le forme stabili derivabili da /o. Questa classificazione, però, è ab
bastanza singolare. Non costituisce una semplice enumerazione dei ca
si possibili, cioè stabili. Come ogni classificazione, essa posiziona,
identifica questi casi possibili, gli uni in rapporto agli altri. E questo
in virtù dell'introduzione di uno spazio classificante, informato da una
catastrofe discriminante, generata a sua volta da un elemento impos
sibile (il potenziale instabile /o) chiamato centro organizzatore.
Si tratta di un fatto decisivo di una portata generale: il primato
antologico del continuo permette a buon diritto di considerare la gri
glia discreta di una classificazione come la discretizzazione di uno spa
zio classificante intrinsecamente eterogeneo, scisso e informato da un
avvenimento ideale discriminante.
Due esempi
31 t, questa, una nozione centrale (ma abbastanza tecnica), vero ombelico della
fenomenologia thomiana. Cfr. R. Thom, Modèles , cit., cap. III.
...
1 16
lo, esso è composto da due parametri effettivi, la paura e la collera,
misurabili pure queste (a voler credere a Lorenz) a partire dall'incli
nazione delle orecchie e dall'apertura della bocca.
J
Il modello è costituito dal seguente investimento della cuspide.
Esso raggruppa varie evoluzioni che corrispondono a altrettanti per
corsi tracciati sulla superficie spiegata:
- A partire da uno stato di neutralità, due evoluzioni vicine al
controllo che fa crescere nel medesimo tempo la paura e la collera,
due evoluzioni, cioè, vicine alla linea ideale in cui paura e collera si
equilibrerebbero esattamente, possono condurre a comportamenti op
posti (percorsi l e 2) fatto di divergenza, questo, caratteristico del
-
le situazioni conflittuali.
- A partire da uno stato iniziale Fuga, la crescita del controllo
Collera (percorso 3 ) conduce, un certo momento, a una biforcazione
comportamentale di aggressione: Fuga ..... Attacco.
A motivo della sua eccessiva semplicità un tale modello suscita la
critica. In effetti, se sembra abbastanza legittimo interpretare una bi
forcazione comportamentale come indotta dalla biforcazione effettiva
di una concreta dinamica interna (che qui sarebbe, per esempio, quel
la dell'ipotalamo), non è meno certo che, per un verso, questa dina
mica è inosservabile e che, per l'altro, la topologia dei suoi attrattori
è ben più complessa di quella dei semplici minimi. Esiste, però, un
teorema 32 che grosso modo dice che le morfologie locali degli insiemi
117
catastrofici (tracce negli spazi esterni delle biforcazioni di stati stabili)
sono altamente ridondanti in rapporto alla forma esplicita delle dina
miche interne. Questo risultato fondamentale fa sì che non si sappia
in qual misura un modello alla Zeeman modellizzi un processo effet
tivo o, al contrario, l’opposizione semantica (fuga/attacco) che lo de
scrive. Esso riconduce alla teoria stessa un raddoppiamento della lin
gua, che potrebbe passare per un’inaccettabile ambiguità ma che piut
tosto recupera un privilegio. A costo di estrapolare in modo massiccio,
infatti, si può dire che qui si mette in giuoco una divisione che instau
ra - sullo sfondo della sfaldatura dinamiche interne/spazio esterno -
una prima mediazione tra scienze esatte e lingua “ naturale ”. In ef
fetti, le scienze esatte guardano in generale a una espressione espli
cita delle dinamiche interne e tentano di derivarle da leggi e principi
generali (riduzionismo). Il sapere non esatto, dispersivo e retorico,
veicolato dalla lingua - tesoro di modelli e questo non al livello della
categoria del nome, ma al livello di quella del verbo - consiste per
contro nell’esprimere (sulla base di un lessico finito di creodi) le cata
strofi inscritte negli spazi esterni.
Citerò un altro esempio, che si riferisce a un’esperienza visiva del
tutto banale. Suppongo che tutti conoscano quei disegni di Escher in
cui per deformazione progressiva, il contorno di una figura di uccello
si trasforma in contorno di una figura di pesci in seguito a una com
mutazione del fondo e della forma. A seconda che si percorra l’imma
gine dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, la cattura della
percezione a mezzo di una di queste due forme globali stabili non si
opera dallo stesso lato della zona intermedia e questo genera un ciclo
di isteresi percettiva con andate e ritorni successivi.
118
L'interesse di questo esempio è che la biforcazione vi presuppone
un riconoscimento globale delle forme: il focalizzarsi della percezione
su un dettaglio permette una deformazione che non comporta cata
strofi (percorso 2 che gira attorno al centro organizzatore) e il secondo
controllo sussume di fatto un complesso processo di passaggio dal
locale al globale.33
La doppia inscrizione
a) L'interpretazione sostanziale.
Consideriamo un sostrato, sede di un processo descritto da un
campo di dinamiche interne, il cui spazio di controllo è l'estensione
stessa del sostrato.34 La morfologia osservabile è la traccia degli strati
di biforcazione degli stati interni o, ancora, dei conflitti di reggenze.
La cuspide corrisponde al più semplice archetipo locale di una tale
morfologia concreta. Questa, però, dipende da una convenzione, la
quale fissa la scelta del minimo che regna effettivamente in un punto.
Esistono essenzialmente due convenzioni:
i) La convenzione di Maxwell: il minimo effettivo è il minimo asso
luto del potenziale; la catastrofe concreta è dunque lo strato di con
flitto della cuspide.
ii) La convenzione del ritardo perfetto: un minimo sussiste, finché
non è distrutto dalla biforcazione; la catastrofe concreta è, allora, una
delle diramazioni della cuspide.
Dato che ogni processo reale è soggetto a una certa inerzia, ci sarà
sempre un certo ritardo e la morfologia concreta sarà intermedia.
1 19
thomiana. Il principio esplicativo di tale incontro, si esprime in ma
niera figurata, dicendo che la biforcazione genera la catastrofe: in
quanto è qualcosa che appare, un fenomeno si riduce a un aggregato
di catastrofi locali, a un sistema, più o meno integrato, di disconti
nuità, che realizza l'inscrizione degli insiemi di biforcazione degli stati
interni. Questo principio ha una portata doppia: metodologica e onta
logica. Ha una portata metodologica nella misura in cui, permettendo
di " risalire " dalle morfologie osservate a modelli dinamici genera
tori, restituisce al reale l'apparire. Ha una portata antologica nella
misura in cui non pone, come condizione pregiudiziale della modelliz
zazione, l'accantonamento della lingua. Al contrario. Tracce manife
ste dell'opacità dei sostrati/5 le morfologie sono anzitutto riconosciute
dalla lingua e questo fa sì che si modellizzino ad un tempo gli avveni
menti oggettivi e la semantica dei termini che li esprime. Questa ambi
valenza è particolarmente evidente nell'interpretazione sostanziale del
la cuspide. In effetti, soltanto quando la si consideri come fenomeno
- il che è reso possibile dalla sua consistenza - si può riconoscere nel
la cuspide la discontinuità costituita dal taglio semplice. Proprio gra
zie al giuoco di un chiasmo, che le attribuisce quella che chiamerò una
semantica canonica, dunque, la cuspide si propone come l'archetipo
generatore di ciò di cui non è che un rappresentante formale.
b ) L'interpretazione attanziale
In questa interpretazione la cuspide agisce come l'avvenimento sin
tattico ideale che informa una struttura narrativa elementare e distri
buisce posti (minimi) che supporrò investiti da attanti identitari (x e
Y). Al fine di esplicitare questa struttura, consideriamo un percorso
nello spazio esterno intorno al centro organizzatore.
120
Inizialmente l'unico posto attanziale è investito da un attante
identitaria x. Nella traversata della prima diramazione della cuspide
appare un altro attante Y la cui influenza cresce fino al momento in cui
entra in conflitto con x. Dopo la traversata di questo strato di con
flitto, l'influenza di x decresce fino alla sua cattura da parte di Y, che
rimane come attante sopravvivente. Questa sceneggiatura enuncia la
dialettica minima di un soggetto e di un anti-soggetto. La cuspide vi
esiste, nella misura in cui essa è quella che ho chiamato un'invariante
logico-reale, come avvenimento sintattico ideale, supporto di una se
mantica canonica che raddoppia quella del taglio e che è quello del
conflitto.
Si possono fare al riguardo tre osservazioni:
i) L'evidenza dell'interpretazione si sostiene sulla decisione di trattare
i minimi come posti attanziali - e dunque su un nuovo chiasmo.36 In
virtù di questo chiasmo, complessi processi di conflitto e di cattura
divengono oggetto di una regressione, che li riconduce (allo stato di
traccia) allo strato logico-reale. E se la semantica canonica conflitto
cattura può apparire eccessivamente antropomorfa, questo non vuoi
dire che gli attanti lo siano. Tale impressione si ha perché l'identità
formale della cuspide è, per definizione, dimanica.
ii) Il modello della cuspide permette di distinguere formalmente il
conflitto dall'opposizione semplice (faccia a faccia). Quest'ultima corri
sponde, in effetti, alla semantica canonica della catastrofe elementare
di codimensione l (cioè di spazio esterno di dimensione l) che segue:
121
strato giuoca come spazio di controllo, nell'interpretazione attanziale
lo spazio esterno è puramente ideale e l'avvenimento sintattico è in
corporale. Ciononostante, è a partire da questo avvenimento sintattico
incorporale che un'e-sistenza spaziale discende dallo strutturale - in
quanto suo inverso. Questa ex-sistenza spaziale indecidibile equivale
all'ipotesi di una sintassi eccessiva.
\..Aumante
V furioso
Ecco perché ho affermato senz'altro che lo schema Carroll manife
stava un'operazione primitiva: quella della sintesi disgiuntiva che rag
giunge qui la sua verità formale. Quel che gli è proprio è la " punzo-
122
natura " l8 (lungo l'asse di inclinazione del centro organizzatore ò) di
un punto di stabilità (punto w) e di un posto d'equivocità. Non credo
che esista un modello non catastrofico di tale punzonatura.
L'inerenza di un tempo di lapsus al destino enunciativo di una dif
ferenza può ora dedursi nel modo seguente: a partire dalla posizione
iniziale, che è il punto di conflitto ( « Disponiti a dire ambedue queste
parole »), sono possibili due enunciazioni: l'enunciazione banale, che
risolve l'instabilità spiegando w trasversalmente allo strato di conflitto
secondo lo schema dell'opposizione semplice:
l8 In effetti, penso che questa operazione rinvii al " punzone " che, secondo Lacan,
struttura la formula del fantasma $ O a.
123
dislocazione di due significanti e della loro riaggregazione ibrida.
Se le parole-bauli appartengono alle serie significanti, che ne è
allora delle serie significate?
Siano x e Y due determinazioni in relazione di differenza, cioè
determinantisi reciprocamente. Il loro asse semantico è rappresenta
bile per mezzo di una catastrofe di opposizione semplice, in cui gli
investimenti del minimo secondario giuocano come presupposti.
X / (Y) (X ) / Y
Si può allora fare l'ipotesi che la cuspide convochi, come effetti lo
gico-reali, i rappresentanti di questa inclusione speculare della diffe
renza, costituito dall'infinito intensivo come non-essere (zero). Così,
1 24
ciò che circola tra serie significante e serie significata - mancanza ed
eccesso che, sfalsandole, le articolano è un elemento formale ogget
-
125
elementari descrivono gli avvenimenti di interazione tra logoi di com
plessità minima (minimi quadratici), realizzabili nello spazio-tempo.
Generalmente la norma di stabilità implica l'esistenza, nella descrizio
ne dinamica, di un fenomeno di singolarità generiche, cioè di singo
larità strutturanti costitutive del senso (e non della significazione) . Di
qui la possibilità di riprendere la questione strutturale come questione
di una ragione semiotica e cioè " trasversalmente " alla sua territoria
lizzazione soggettiva. « Ci si può domandare se il programma della
semiologia non sia esso stesso troppo stretto e se non bisogni anzi
tutto cercare di creare una scienza che sia una morfologia generale,
cioè uno studio di tutte le forme che appaiono nella natura, siano o
non siano queste forme segni [ . ] . È questo approccio che ho tentato
..
126
« non riposerà più, come nella teoria dei sistemi formali, sull'iterazione
automatica di certe operazioni, ma, al contrario, su un'intrinseca com
binatoria data dall'interpretazione dinamica ».43
a) Logica formale.
Governata dal principio di identità, la logica formale (logica del
l'intelletto, in Hegel) ammette soltanto determinazioni identitarie iso
late, " esteriori " le une alle altre. Essa riposa sulla fissità (e non sul
la stabilità) dell'identità, cioè sulla permanenza a priori di una identità
non regolata e ammette, come sola catastrofe, quella associata ai logoi
quadratici. Dato che questi ultimi sono stabili, il loro dispiegamento
universale è ridotto a un punto e ciò fa sì che la logica formale am
metta, come unica catastrofe, la sola catastrofe senza spazio esterno,
la catastrofe lessicalizzata nelle nostre lingue dal verbo essere. C'è sen
za dubbio equivalenza tra l'instaurazione del presente come garante
della presenza, il ribaltamento della categoria del verbo sulla copula e
la " rimozione " originaria di una ex-sistenza avvenimentale. Grazie a
questo triplice processo, si trova impegnata una categoricità che rende
la questione semiotica inarticolabile. Pensare le catastrofi elementari
come schemi logico-reali è, dunque, un atto teorico di decostruzione
che, introducendo spazi esterni reali informati da modologie archetipi,
introduce anche un eccesso disinterruttore del campo iterativo della
identità formale.
Io penso che il paradosso del verbo essere il cui orizzonte è la
-
127
questione heideggeriana della differenza antologica - possa dunque
scriversi cosl : poiché al modo infinito esso esprime l'annullamento per
eccellenza della categoria " verbo " (puntualità dello spazio esterno ),
mentre al presente esprime l'affermazione per eccellenza della catego
ria " nome " (logos quadratico come stabilità minima), il verbo essere
è il verbo il cui modo infinito opera come negatività del suo presente.
L'ostruzione al suo dispiegamento reale effettua la trasposizione in
consistenza dell'ex-sistenza avvenimentale e consuma la sutura dello
eterogeneo nella lingua.
c) Breve deriva.
A rischio di essere disinvolto, dirò allora che la logica hegeliana
" coinvolge " nell'unità globale (" vivente ") del concetto, e raccoglie
in negatività, l'innumerevole disseminazione del tratto logico-reale .
Essa convoca, cita ed effettua, sotto il nome di temporalità, l'Aufhe
bung della negatività insignifìcabile, costituita dallo spazio " pre-esten
sivo ", l'Aufhebung che in ogni caso è fatto eminente e sito di quel
128
disconoscimento indefinito che è la coscienza di sé.46 Citata in questo
modo, infatti, la temporalità è essa stessa, in quanto soggettività
astratta, lo stesso principio formale dell'identità Io = Io della pura
coscienza di sé.47 Questione immensa che si enuncia cosl : la tempo
ralità sarebbe il sintomo eminente che completa l'ontologizzazione del
l'avvenimento come forma.
d) Logica dell'identificazione.
Il valore specifico dell'interpretazione logico-reale della cuspide è
quello di mostrare come l'occorrenza di un tratto (in quanto spiega
mento di una singolarità puntuale) evochi necessariamente un posto di
equivocità. Seguendo il registro significante/ significato, in cui il tratto
opera, tale equivocità produce parole-bauli (significanti senza significa
to) o rappresentanti della coincidentia oppositorum (significati senza si
gnificante). Nel registro rappresentativo essa produce degli impossi
bili, degli ibridi, delle chimere. Nel caso del conflitto di un soggetto
e di un anti-soggetto, il tratto può anche integrarsi coll'anti-soggetto
inclusione speculare spesso espressa da connotazioni di tipo satanico.48
Il posto di equivocità, però, può anche insistere in quanto assenza
strutturante, in quanto luogo bianco.
In un modo o nell'altro, le strutture opposizionali (conflittuali),
proprio perché sono governate da catastrofi, sono strutture incomple
te, bucate " da luoghi il cui investimento è contraddittorio e ha la
"
129
Si tratta di risolvere il paradosso di confusione degli attanti, pro
dotto da ogni co-localizzazione ideale di determinazioni reciproche. È
questo il caso, per esempio, della fondamentale coppia antagonista
predatore-preda, caso trattato da Thom. Questa dialettica è organiz
zata - sempre al livello logico-reale - da una cuspide, una delle dirama
zioni della quale corrisponde alla catastrofe di cattura (punto K). Dato
che, però, si tratta di un processo ripetitivo, la cattura è di fatto de
scritta da un ciclo che circonda il centro organizzatore.
Ciò fa sl che dopo un " giro " (per esempio: dopo il tempo del
sonno consecutivo all'ingerimento della preda) il predatore si ritrovi
nella posizione attanziale della preda.49 In breve, la ripetizione della
catastrofe di cattura implica la identificazione del predatore con la sua
preda.50
C'è dunque necessità di una catastrofe, compensatrice di quella di
cattura (speculare), che reintegri il soggetto in un'identità (punto J).
Thom interpreta questa catastrofe compensatrice come catastrofe di
percezione: l'io del predatore sussisterebbe solo in misura del suo ri
conoscimento-identificazione di/con la preda, riconoscimento al di fuo
ri del quale si aliena.
49 Fare intervenire, come costituente " psichico " di un predatore, un effetto " sin
tattico " può sembrare abbastanza folle. Si sa, però, che la selettività della predatura,
indispensabile all'equilibrio ecologico, impone l'ipotesi di una rappresentazione inter
na (senza dubbio innata) della preda del predatore. La descrizione thomiana non è
altro che la formalizzazione di questa ipotesi secondo l'opposizione interno/esterno.
so Nelle rappresentazioni arcaiche, il rapporto predatore/preda è in genere rap
presentato sia da una fuga sia da uno scontro (figurazione, a mezzo di una simmetria,
di un conflitto statico). Sembra tuttavia che esistano rappresentazioni dialettiche le
quali integrano un equivalente plastico di un effetto di identificazione. Penso in par
ticolare a quegli ornamenti dell'arte delle steppe (morsi di cavallo etc.) " che anno
dano " il predatore alla sua preda con una torsione dei corpi. Forse non è un caso che
una tale " topologia " prevalga tra gruppi nomadi.
130
Il fatto che una catastrofe di cattura speculare debba essere " com
pensata " da una catastrofe reintegratrice dell'identità, costituisce un
fenomeno (psico-sintattico) primitivo, che supera di gran lunga la pre
datura animale ed è anche, senza dubbio, un universale che ex-siste a
ogni logica del senso. Le occorrenze narrative, mitiche e rituali ne ab
bondano, come si riscontra, per esempio, nel rito di iniziazione Bororo,
descritto da Crocker nel corso di questo seminario, dove la coppia dia
lettica è quella Padre/Figlio, mentre la catena delle generazioni giuo
ca come istanza di ripetizione.
Io penso che, in una certa misura, può dirsi lo stesso dell'Edipo
in quanto struttura.51
st L 'Edipo, però, è ternario e non duale. Dato che mette in giuoco l'appropria
131
co, che presiede allo sdoppiamento, potrebbe - a mezzo di un chiasmo
spaziale che scambi l'estensione di un sostrato e lo spazio ideale di
una creode sintattica (vedi più sotto il paragrafo intitolato Nota sulla
pulsione) - escriversi e reinscriversi su di un corpo (rigirarsi, per esem
pio, sul corpo proprio dell'attante se questo è antropomorfo) oppure
la divisione dell'identità sarebbe correlativa ad un taglio sostanziale
per un effetto di contagiosità di catastrofe.52 In tal modo si potrebbe
far derivare - in qualità di effetto strutturale - il fatto ben noto per
cui il tema dello sdoppiamento e il fantasma del taglio somatico (per
esempio cicatrice) sono creodi condizionali dell'immaginario.53
/) Il reale e il mito.
Gi esempi precedenti danno un'idea degli effetti che derivano
dalla topologizzazione della differenza. Ora, per una sorta di effusione
degli assi semantici sullo spazio esterno, questi effetti possono essere
concepiti come reali (è questo il caso dell'azione del mErE nella conce
zione samo dell'identità, descrittaci da Françoise Héritier nel corso di
questo seminario). Questi effetti risultano per noi immaginari (territo
rializzazione nell'inconscio ) solo a partire da un principio di identità
spaziale, cioè dalla norma costituita dall'oggettività dello spazio ester
no in quanto principio di realtà: « Questo fenomeno di confusione
degli attanti è senza dubbio inevitabile nel processo di genesi (o di
distruzione) di una significazione verbale. Ciononostante esso è se
manticamente del tutto indesiderabile. Si può pensare che sia all'ori
gine del pensiero magico e della " partecipazione " caratteristica del
pensiero primitivo. È stato progressivamente eliminato probabilmente
solo grazie a un controllo più serrato della singolarità associata al
punto di incontro K con l'insieme di biforcazione, cioè solo a partire
dal momento in cui i progressi del pensiero geometrico e della rap
presentazione globale dello spazio hanno imposto allo spirito l'assio
ma per cui uno stesso oggetto non può essere simultaneamente in due
54
diverse posizioni dello spazio » .
Se il pensiero mitico è « pre-logico », in sostanza lo è perché giuo
ca come reale il tratto semiotico, tratto semiotico il cui sradicamento
razionale " genera " 55 insieme la rappresentazione globale dello spazio
e la logica predicativa. E, in ragione di questa stretta sfaldatura, il
soggetto si trova esso stesso sfaldato a partire da questo momento.
132
Io penso che non basti enucleare nelle logiche concrete, lo strato
dei codici simbolici. È necessario poter innestare questi ultimi sul re
gistro avvenimentale che essi reinscrivono. Proprio un tale innesto
viene preso in considerazione dall'intervento, nella questione struttu
rale, delle catastrofi elementari. Questo intervento riconduce all'essere
spaziale, la traccia dell'essere-pulsionale e ne fa dunque un'ammissi
bile esteriorità della struttura.
56 Del resto, è senza dubbio a questa condizione che l'analisi si separa da una man
tica e/o da una ideologia (questione del mathema).
57 Sempre a livello della traccia.
58 Cfr. D. Sibony, Le nom et le corps, Coli. " Tel quel ", E.ditions du Seuil, Paris,
1974, p. 25.
59 Cfr. D. Sibony, .
Le nom . . , cit., p. 1 16.
IIJ Cfr. D. Sibony, .
Le nom .. , cit., p. 191.
133
comunità topologica. Ho potuto articolarvi l'inconscio come situantesi
in quelle voragini che la distribuzione degli investimenti significanti
instaura nel soggetto e che nell'algoritmo si configurano in una losan
ga [ <> ] , la losanga che io pongo nel cuore di ogni rapporto dell'in
conscio tra la realtà e il soggetto. Bene! Proprio nella misura in cui
qualcosa, nell'apparato del corpo,61 è strutturato allo stesso modo,
proprio in ragione dell'unità topologica delle voragini in giuoco, la
pulsione trova il suo ruolo nel funzionamento dell'inconscio ».62
Penso che la capacità delle catastrofi elementari, da me brevemen
te delineata, in qualche modo chiarisca questo tema metapsicologico
centrale. Essa replica in ogni caso - sfalsandola - (al)l'elaborazione
lacaniana.
Lacan è il primo ad essersi arrischiato nell'indefinito di una « este
tica trascendentale » della psicanalisi. A partire dal 1962, egli ha az
zardato un itinerario « topologico » che conduce al climax topico degli
anelli borromeani che, « annodando » il topico del reale, del simbolico
e dell'immaginario, « definiscono » un supplemento, il quale permette
di economizzare l'ipotesi freudiana di una realtà psichica. È, questa,
una questione immensa che non affronterò qui. Mi limiterò al semi
nario sull'identifìcazione.63 Lacan vi formula in particolare lo statuto
dell'oggetto a a partire dall'oggetto topologico conosciuto sotto il no
me di cross-cap: singolare immersione del piano proiettivo P2 nello
spazio-ambiente R3• Questa superficie ha la forma seguente (in cui ho
disegnato una serie di sezioni orizzontali) :
134
Tale superficie ammette due punti singoli e una linea di sel/-inter
sezione, che non appartengono al piano proiettivo astratto, ma sono
indotti dal suo prolungamento in R3 • Ciò deriva dal fatto che ogni su
perficie regolare compatta di R3 è orientabile. Dato che è compatto e
non orientabile, P2 non ammette dunque una regolare immersione in
R3 • Inoltre la superficie ha la particolarità di essere " informata " da
un singolo punto fenomenologicamente distinguibile (chiamato punto
di innesto o di ramificazione di due fogli), il quale la struttura local
mente nel modo seguente :
du suiet et son identification, Scilicet , n. 2/3. [Detto articolo può ora leggersi
" "
nella traduzione italiana Scilicet 1/4, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 192-219 (n.d.t.)] .
64 Chiaramente, bisognerebbe interrogare i n modo critico questa assimilazione di
una determinazione a un foglio.
135
Ora, nel suo seminario sui quattro concetti fondamentali della
psicanalisi, Lacan utilizzerà la stessa figura di otto interno - come fi
gura che genera, questa volta, una struttura attanziale - per figurare
la « logica » del transfert. In questa inscrizione la self-intersezione si
interpreta come linea dell'identificazione e la singolarità « organizza
trice » come punto stesso del transfert.65
<< La funzione del transfert può topologizzarsi nella forma che ho già
136
confusione, in un punto, del significante ideale, dove il soggetto si in
dividua [individuazione significante dell'Ideale dell'io, I idealizzante
dell'identificazione] con l'oggetto a, costituisce la definizione struttura
le più ardita che sia stata tentata. Ora, chi non sa che l'analisi si è i$ti
tuita proprio distinguendosi dall'ipnosi? La forza fondamentale della
operazione analitica, infatti, è il mantenimento della distanza tra la I
e l'oggetto a ».68 Una tale operazione, però, è possibile solo in virtù
della stessità del tratto formale che conforma, ad un tempo, l'oggetto
a e la relazione attanziale di identificazione. È proprio questa stessi
tà formale ad assicurare la decostruzione del campo del fantasma e
la riconduzione della sua esperienza al suo eterogeneo costituito dalla
pulsione: « Dirò - se il transfert è ciò che, della pulsione, scarta la
domanda, il desiderio dell'analista e ciò che ve lo riconduce. E, per
questa via, egli isola l'oggetto a, lo pone alla distanza più grande pos
sibile dalla I, che lui, l'analista, è chiamato dal soggetto ad incarnare.
Proprio da questa idealizzazione l'analista deve decadere, per essere il
supporto dell'oggetto separatore a, nella misura in cui il suo desiderio
gli permette, in un'ipnosi all'inverso, di incarnare, lui stesso, l'ipno
tizzato. Questo superamento del piano dell'identificazione è possibile
[ . . . ] Dopo l'individuazione del soggetto in relazione all'oggetto a, la
.
68 .
]. Lacan, Les quatre concepts .. , cit., p. 245.
69 ]. Lacan, Les quatre concepts , cit., p. 245. Il corsivo è mio.
...
70 Cfr. ]. Lacan, Les quatre concepts .., cit., soprattutto il capitolo intitolato
. " La
pulsion partielle et son circuii ".
137
dispiegamento in struttura di un tratto semiotico.71 E questo perché
la sua soddisfazione non è quella « del puro e semplice auto-erotismo
della zona erogena ».72 « Né dentro né fuori, né interiorità ideale di un
soggetto dell'intelletto né esteriorità della forza hegeliana, la pulsione
è la scissione reiterata della materia come meccanismo di generazione
della significanza, luogo di produzione di un soggetto sempre assente
da tale luogo ».73
E io penso che, in questo quadro, il Drang della pulsione possa in
terpretarsi in maniera dinamica - senza per questo ridursi a una meta
fora - a partire dalla nozione centrale di dispiegamento. In breve, io
penso che si possa sostenere l'ipotesi che, in quanto istanza logico
reale, la pulsione si dispieghi come una singolarità. 74
Farò anche notare come l'ipotesi sulla pulsione lascia forse so
spettare cosa si giuochi in questa finzione teorica, macchina decostrut
trice della rappresentazione fino al punto in cui emerge il suo inverso
indecidibile. Quel che si giuoca è la questione degli spazi interni. Nella
interpretazione sostanziale, infatti, gli attrattori delle dinamiche in
terne sono gli stati locali del metabolismo e lo spazio esterno è l'esten
sione del sostrato co-localizzatore. Nell'interpretazione attanziale, di
contro, lo spazio esterno è puramente ideale e gli attrattori delle di
namiche interne sono logoi di attanti (o di concetti) - in situazione di
determinazione reciproca. Questo fa sì che, nella deduzione che pro
pongo, la pulsione appaia come una sorta di operatore strano ma pre
ciso e che nello stesso tempo assicura una sorta di chiasmo spaziale tra
l'estensione di un sostrato vivente e lo spazio ideale di una creode sin
tattica. Questi due " spazi " si oppongono evidentemente in blocco
allo spazio oggettivo globale.
Forse l'inconscio è il nome che si dà agli effetti (nel rappresenta
tivo) di questo chiasmo spaziale. Emergendo dalla predatura dello spa
zio da parte della materia vivente, la significanza è una crudeltà e per
noi, forse, l'origine, infinitamente cancellata, di un essere-spaziale ori
ginalmente rimosso.
Conclusione
-
71 Questione delle Vorstellungen rappresentanti della pulsione.
72 J. Lacan, Les quatre concepts..., cit., p. 164.
73 ]. Kristeva, La révolution du langage poétique, Coll. " Tel quel ", F.ditions du
Seuil, Paris, 1974, p. 152.
74 Nel senso in cui Lacan dice che l'inconscio è strutturato come un linguaggio.
Il come è evidentemente essenziale.
1 38
ideologico. Si può sostenere che Thom si limiti a modellizzarlo in ma
niera originale e a riversarlo così in conto all'episteme scientifica tra
dizionale. Ciò, però, equivarrebbe a misconoscere il punto che egli
affronta in primo luogo e che riguarda l'essere-struttura. Proprio per
tentare di delineare in maniera semplice cosa io credo di vedere che
si giuochi in questo luogo, mi sono permesso il momento della sua
riduzione massima, forse non-pertinente, a quel livello fantomatico che
ho chiamato logico-reale.
139
vità su un'esteriorità sociale, di cui fa giuocare l'opacità come istanza
distanziatrice. Ecco perché, forse, il materialismo rimane incapace di
operare un sovvertimento del soggetto e una critica non estrinseca
della scienza.
Ora, poiché d'altra parte non si potrebbe reificare la negatività in
zero logico o reintegrarla nel concetto, io penso che la sola tesi ma
terialista attualmente possibile (il desiderio come infrastruttura) ri
posa (senza evidentemente ridurvisi) sulla scrittura di questa negativi
tà, la sola capace di affermare l'indecidibile del suo tratto al di là della
tesi. In breve, se l'essere-reale dello spazio è esaurito dalla sua strut
tura di spazio-tempo globale, allora il soggetto è coscienza e la rivolu
zione non può essere, in ultima analisi, se non una convulsione del
potere.
140
sano, è infatti evanescente: non kantiana ma mallarmeana piuttosto
<< sgorgante che negata e chiusa appena apparsa ». Il che fa sl che ba
sti un niente e « niente avrà avuto luogo se non il luogo » . Qui, come
altrove, al futuro anteriore.
Proprio in misura di questa illuminazione, la teoria della morfo
logia è una scienza in senso moderno, giacché non v'ha scienza se non
quando il formale estorce al reale la scrittura di un a-logon, che viene
così dispensato come ragione.
141
enunciazione di una questione - quella del parla-essere - la quale non
potrebbe, a meno di perderei la sua enunciazione, limitarsi, nel suo
rapporto con la scienza, a un rapporto estrinseco, di una questione che
ora pongo in questi termini : quale è il modo di com-possibilità di una
topologica (come illuminazione dell'intuizione pura) e di una econo
mia?
Discussione
83 Essa è anche esattamente quella del mathema della psicanalisi. Quali sono le
condizioni di possibilità di un mathema della psicanalisi, dato che questa - in con·
siderazione dell'irriducibile dell'atto analitico - manca « non per caso ma per essen
za » alla sua costituzione?
142
potrebbe esistere, se tali scarti non fossero presenti. Vi è ancora un
secondo tipo di fenomeno, il fatto, cioè, che la lingua cambia e si
evolve nel corso del tempo, che il sistema fonologico si trasforma e
che, per esempio, si può partire da uno stato A, in cui un certo fonema
è sonoro, per passare a uno stato B, in cui lo stesso fonema perderà
questo carattere - il che implica, d'altra parte, che nel sistema capiti
nello stesso momento qualcos'altro che ristabilirà l'equilibrio e che gli
conserverà il suo carattere di sistema.
Avrei dunque, a questo riguardo, due domande. Che rapporto esi
ste, nella Sua sistematica, tra queste due maniere di concepire lo
scarto o la differenza? E come questa sistematica ci aiuta a compren
dere il fatto che queste trasformazioni si producono? Se, in effetti, mi
fermo al secondo senso, al senso, cioè, dell'evoluzione diacronica di
un sistema, vedo bene nei Suoi schemi come il peso di uno dei ter
mini può accrescersi e il peso dell'altro termine diminuire. Come, pe
rò, in qual modo ciò si traduce nei fatti? I linguisti hanno delle spie
gazioni: ci diranno che non c'è nella lingua un solo sistema, dato in
un momento determinato, ma che c'è invece una pluralità di sistemi,
che non c'è un unico codice, ma che ci sono invece varie specie di sot
tocodici, i quali esistono allo stato latente, e che ad un certo deter
minato momento un sottocodice diventerà il codice principale e così
si produrrà la trasformazione. Sono maniere di rappresentare le cose
che, anche dopo la Sua esposizione, provo una certa difficoltà a colle
gare con quello che Lei ci ha detto e vorrei sapere se Lei può dare dei
chiarimenti.
143
essenziali di scarto, da Lei evocati, e cioè, da una parte, l'opposizione
privativa, in cui un termine è in correlazione con la sua assenza, e,
dall'altra, l'opposizione qualitativa, in cui un termine è in correlazio
ne col suo opposto, coincidono esattamente con i due tipi essenziali
di catastrofi, rappresentati rispettivamente dalle catastrofi di biforca
zione e dalle catastrofi di conflitto. Si tratta di un fatto certamente no
tevole. Detto questo, si vede che, a causa dell'estrema sovradetermina
zione delle dinamiche interne, questi scarti differenziali possono essere
quelli che articolano processi molto diversi, e, per esempio, un'atti
vità concreta di fonazione. Ciò significa che ci si piazza in uno spazio
funzionale di forme fonatorie e che lo si considera intrinsecamente o
estrinsecamente munito di un insieme globale di biforcazione, che vi
definisce una tassonomia che localmente è di tipo scarto differenziale.
È in questo che vi è sistema. Vi è un certo tipo di casi stabili possi
bili e la fonetica strutturale considera la discretizzazione di questi casi
stabili. Ogni volta che st è in presenza di una situazione di conflitto o
di biforcazione, si può discretizzare e ottenere una nozione di scarto.
Questa nozione di scarto sottende, dunque, semplicemente la discre
tizzazione della traversata di uno strato catastrofico in uno spazio di
forme. Quanto alla diacronia, se ora si cambia completamente inter
pretazione e se si considera che le dinamiche interne descrivono l'evo
luzione di una lingua, si può a questo punto interpretare il controllo
in maniera diversa e considerare che il sistema della lingua in que
stione costituisce uno stato stabile di un sistema ipercomplesso, uno
stato stabilizzato di una dinamica che rappresenta regolazioni assai di
verse, mentre il controllo è in quel momento un controllo non più sta
tico, bensl un controllo storico, un controllo d'evoluzione. E si potrà
effettivamente osservare l'apparizione di biforcazioni locali, puntuali,
che cambiano poco a poco il sistema e che possono essere formalmente
isomorfe a quelle costitutive del sistema stesso.
Ho pronunciato la parola " localmente ". In effetti, è importan
tissimo dire che la teoria delle catastrofi è essenzialmente locale e che,
per descrivere ciascun sistema appena un po' complicato, è necessario
affrontare la questione dell'aggregazione delle catastrofi elementari,
delle catastrofi locali. E questo costituisce un problema considerevole.
In breve, nel modello di Thom, non c'è vera opposizione tra dif
ferenza sincronica, differenza in senso strutturale, e catastrofe storica
di sistemi macroscopici ipercomplessi. Tutta la questione consiste nel
sapere cosa si mette in giuoco e cosa si considera come controllo.
144
Jean Petitot: In certi casi concreti si conoscono esplicitamente le
dinamiche nella maggior parte dei casi, per esempio quando si consi
dera lo stato di una lingua come attrattore di una dinamica sociale e
storica, è però ben evidente che la dinamica è rigorosamente inosserva
bile e giuoca soltanto come qualcosa di supposto: non si sa assoluta
mente dove stia, non esiste praticamente alcun mezzo di descriverla. È
vero. Ed è una critica che si può fare a questo modello. lo credo, però,
che in ultima istanza tale critica non è pertinente. È vero che il model
lo in genere introduce, come presupposto, certe dinamiche interne inos
servabili, ma lo fa soltanto per indurne catastrofi, discontinuità, le
quali, in genere, sono invece osservabili. Ora, tali discontinuità os
servabili appartengono con pieno diritto alla descrizione del fenomeno.
Fino a Thom, però, non si sapeva cosa farne. In genere, le si scarta, le
si relega, si discretizza in opposizioni: in breve, le si scotomizza.
145
allo stato 2 . Sicché mi pare un po' eccessivo usare i termini " taglio "
o " discontinuità " per l'insieme di questi schemi, in quanto è sempre
questione di continuità.
146
rametri fisico-chimici, il sistema ne ha soltanto uno (pur se si tratta di
un parametro virtuale) che ha subito una biforcazione. E si può dire
che la nozione di catastrofe elementare è il primo ponte (Lei parlava
di ponte nella Sua esposizione) tra scienze esatte e scienze anesatte,
tanto per riprendere una vecchia espressione di Husserl.
147
interne. Ciò è importantissimo. Questa dialettica cruciale fa sl che non
ci sia discontinuità ultima e irrimediabile.
148
me inerente alla struttura, come un avvenimento che la produce per
discretizzazione. Questa ambiguità va di fatto più lontano: una relazio
ne logica non ha semantica, è una semplice relazione. (Qui tocco in una
certa misura la questione che poco fa poneva Michel Serres) . Chiama
re ciò un conflitto equivale a far entrare in giuoco una sorta di meta
fora, che è interna al modello, equivale a dire che l'avvenimento gode
di una sorta di semantica canonica, che è quella del conflitto, seman
tica che non si deve riaggiungere come etichetta su una relazione. L'av
venimento è esso stesso la sua propria semantica. Ci sono qui una
sfalsatura e, insieme, una ambiguità, che sollevano evidentemente que
stioni epistemologiche e metodologiche considerevoli, ma che, nello
stesso tempo, permettono per la prima volta di individuare un effetto
di corruzione del sintattico da parte del semantico e viceversa. Quando
Thom interpreta, per esempio, la struttura astratta, grammaticale,
della frase transitiva a partire da quella catastrofe, che è una catastro
fe di transfert e che ammette una semantica canonica, quella del dono,
nessun linguista chomskiano, io suppongo, accetterebbe questo paras
sitaggio semantico. Ciononostante, questa relazione tra la semantica
canonica del transfert e la struttura puramente astratta della frase
transitiva non fa altro che riprendere, radicalizzare e legittimare quel
la che noi chiamiamo l'ipotesi localista nelle grammatiche casuali.
149
l'embriogenesi sono apparsi bisognosi di un'interpretazione in termini
di topologia e, da Arcy Thompson in poi, questa idea ha ripreso ter
reno ed è stata la prima a dare modelli matematici esatti. Sin dallo
inizio dell'embriologia, dunque, si era avuta l'idea di fornire dei mo
delli matematici.
150
Le immagini riflesse del sé
The mirrored self
Christopher Cracker 1'
151
cercherò di offrirvi alcune considerazioni teoriche fondamentali per la
conoscenza del problema dell'identità Bororo. L'oggetto principale del
la mia riflessione sarà quello d'esaminare come le transazioni asimme
triche tra le metà costituiscono un processo d'inversione destinato a
produrre un'immagine speculare dell'identità personale.
152
torismo dei Bororo costituisce, a mio avviso, un dato essenziale di cui
bisogna rendere conto alla fonte dell'identità Bororo.
Lo stanziamento originale Bororo - come Claude Lévi-Strauss mo
strò trenta anni fa - ha il suo primitivo modello nell'organizzazione del
villaggio, modello che ciascuna comunità Bororo tenta di riprodurre nei
limiti delle proprie possibilità demografiche e politiche. La prima pro
prietà di questo modello è l'orientazione permanente dei gruppi sociali
all'interno di uno spazio definito dalle discontinuità naturali; da est a
ovest, secondo il percorso del sole e il corso del fiume. Le metà sono
pertanto concettualizzate come unità spaziali e lo stesso avviene per le
otto categorie sociali che simmetricamente le dividono. Questo model
lo implica, quindi, che i clan Bororo siano definiti logicamente non co
me entità genealogiche, bensì grazie alle unità dello spazio naturale
che essi occupano. Le divisioni spaziali in questione dividono i clan in
otto unità eterogenee, stabilendo, allo stesso tempo, il terreno delle
"
loro relazioni ". In breve, la mappa sociale, che in molte società è co
stituita dalla genealogia, presso i Bororo è invece costituita dall'ordi
ne spaziale, residenziale; il principio di associazione collegato con la
differenziazione sociale ha superato i legami di sangue come modo fon
damentale della determinazione sociale. Ma se ciò è vero, ci troviamo
di fronte ad un problema teorico fondamentale, poiché i Bororo con
cepiscono i gruppi domestici come unità naturali, anche se non si
tratta d'una sostanza comune connessa con la consanguineità, ma,
piuttosto, collegata colla partecipazione al medesimo nutrimento, allo
spazio ed al tempo domestico. Questa contraddizione tra costituzione
del gruppo domestico e costituzione del clan è, nel sistema Bororo,
un fatto fondamentale e richiede che si affronti il problema delle isti
tuzioni che la mediano: totem, sistemi di nomi, nessi padre-figlio e
matrilinearità.
Nel prosieguo di questa analisi, discuterò prima del carattere fi
sico e sociale del Sé, continuerò poi con quelle transazioni che svi
luppano ed infine trascendono le identità.
I Bororo affermano che la vita nasce dalla congiunzione di un
sangue maschile con un sangue femminile e che questi fluidi sono,
essenzialmente, della stessa natura; in altre parole, essi non fanno nes
suna differenza nella riproduzione biologica, tra il ruolo del maschio e
quello della femmina. Per altro, come altri gruppi vicini, i Bororo as
seriscono che è necessario, durante la gravidanza della donna, copu
lare ripetutamente, affinché il padre possa fornire tutta la quantità di
sperma necessaria alla formazione di un bambino completo. I liquidi
sessuali sono esplicitamente associati al sangue (al sangue mestruale,
per la donna; lo sperma lo si chiama « sangue bianco »). Lo stesso
sangue è considerato come l'agente del rakare, cioè della forza, dello
153
slancio vitale, una sostanza che, nell’adulto, ha dei limiti precisi, dì
modo che può essere vuotata o conservata, giammai aumentata. La
perdita graduale di rakare nel tempo è responsabile dell’invecchia
mento, con tutte le implicazioni che riguardano la perdita delle forze,
i cambiamenti fisici (come, per esempio, l’incanutimento) e ravvici
narsi della morte. A sua volta, responsabile della maggior parte delle
perdite di rakare è il coito; tuttavia anche l’infrangere le interdizioni
alimentari, e le altre interdizioni, durante la gravidanza, la nascita,
l’iniziazione, i funerali e gli altri periodi di “ pericolo rituale ”, può
causare diminuzione nello stock limitato di rakare che ciascun indivi
duo possiede. D’altra parte il rakare può essere conservato - e si può
quindi restare giovani - sia osservando le interdizioni, sia, partico
larmente, nutrendosi di certi tipi di selvaggina, di pesci e di vegetali.
154
Le unità domestiche e in particolare le coppie di coniugi sono in larga
parte definite proprio grazie al processo di preparazione, di scambio e
di consumo di queste specie naturali, tanto importanti per il rakare.
Il gruppo domestico, localizzato e definito nell'ordine permanente
dello spazio, viene anche caratterizzato dal corso irreversibile del tem
po, che è segnato da quegli avvenimenti unici che sono la nascita e la
morte, ma anche dalla trasformazione progressiva e variabile della
identità personale che, tra noi, si chiama invecchiare.
Ciascun Bororo deve la sua esistenza fisica alla perdita irreparabile
del rakare che i suoi genitori possedevano prima della sua procreazio
ne. Il suo debito nei loro riguardi è letteralmente iscritto nella sua
fisionomia; i Bororo riconoscono le caratteristiche fisiche dei parenti
nella loro discendenza ... gli occhi del padre, la bocca della madre, le
mani dello zio. Data la necessità di rapporti sessuali frequenti duran
te la gravidanza, può accadere che qualcuno abbia parecchi genitori, il
cui unico contributo alla sua formazione può essere ' letto ' nei suoi
tratti somatici; possibilità teorica che fornisce ai Bororo il pretesto per
continue chiacchiere e per pettegolezzi sulla vita sessuale dei vicini.
Il Bororo nota anche la " somiglianza familiare " nel senso di Witten
genstein, non soltanto tra i fratelli (siblings), ma anche tra i cugini,
le zie e gli zii consanguinei e perfino gli antenati più lontani nel tem
po. L'idea di una comune sostanza fisica, dunque, d'una parentela di
sangue, è ben presente al pensiero Bororo e si manifesta in varie usan
ze, come è il caso dell'appellativo di parentela o delle prescrizioni ri
tuali del lutto. Pertanto l'identità personale si fonda su una caratte
rizzazione idiosincratica, un'unione complessiva di tratti somatici che
mette in relazione l'individuo con altri esseri umani per mezzo di que
gli elementi tanto variabili quanto indistruttibili che sono le somi
glianze fisiche. Allo stesso tempo, però, queste unità materiali sono
spezzettate e disperse in unità residenziali distinte, la cui omogeneità
è, perlomeno, tanto forte quanto quella dei gruppi di sangue. I Bororo
ritengono che le persone, non legate né da rapporti di sangue né
dal fatto di appartenere ad uno stesso gruppo sociale, che però abita
no nello stesso spazio fisico, mangiano gli stessi cibi (dal momento
che il cibo è distribuito tra tutti i membri di un nucleo domestico),
dormono e si lavano insieme, fanno nello stesso posto i loro bisogni,
vengano, col passare degli anni, a partecipare di uno stesso spazio
naturale. D'altra parte, le unità basate sulla consanguineità vengono
spezzettate in unità sociali eterogenee, i clan, che, lo vedremo, conno
tano una somiglianza di sostanza logica. La mediazione tra queste op
poste varianti del Sé, quella fisica e quella sociale, viene garantita dal
sistema di classificazione dei nomi propri.
Quando un bambino Bororo sembra avere superato i pericoli dei
155
primi mesi di vita, cioè dei primi sei o sette mesi, si dà luogo allora
alla cerimonia dell'imposizione del nome. Prima di questo termine, la
morte del neonato non ha nessun tipo di implicazione sociale: il ca
davere viene interrato dai genitori privatamente, come fosse quello di
uno degli animali domestici. Ma, una volta impostogli il nome, il bam
bino ha una sua personalità sociale o, nella lingua dei Bororo, un'ani
ma o aroe, che, poiché ne costituisce l'identità, nel caso in cui il bimbo
morisse, richiederebbe l'esecuzione dei funerali completi. Una sera, i
membri del clan della madre si riuniscono davanti alla sua capanna e
scelgono un nome tra quelli che sono associati al gruppo del nome ma
terno. Secondo i principi indigeni, il nome si prende da una delle en
tità naturali che sono associate al clan : ciò che i Bororo chiamano aroe
e che io, imprecisamente ma per comodità, dirò totem. Al mattino del
giorno seguente la scelta del nome, di buon'ora, il bambino viene or
nato con l'urucu, col piumaggio di un'anatra bianca, cioè, e con un co
pricapo coperto di penne confezionato dalle sorelle del clan paterno.
L'acquisizione di un nome - che, al tempo stesso, è anche acquisi
zione di un'anima - richiede la collaborazione delle metà, in modo
invertito e contrario però all'unione biologica che ha prodotto la crea
tura fisica. I principali attori della cerimonia del nome sono un fratel
lo della madre e una sorella del padre, che non devono essere sposati
né avere amanti; i genitori non hanno nessun ruolo, se non quello di
spettatori passivi. Nel caso di un bambino maschio, la sorella del pa
dre, i-maruga, dapprima lo addobba a festa, poi lo tiene amorevol
mente tra le braccia, mentre l'i-edaga, il fratello della madre, gli buca,
con ogni cura, il labbro inferiore con un baragara, un femore appun
tito d'un cervo o d'una scimmia, confezionato e adornato dal padre del
bimbo in modo tipico al suo clan. Il buco nel labbro, necessario per
portare l'anello, è considerato dai Bororo un segno universale d'iden
tità tribale maschile. D'altra parte, l'i-edaga, il cognato, può forare il
setto nasale del padre del bambino, che, in questo modo, può portare
gli ornamenti del naso, privilegio che si accorda soltanto al padre di
un bimbo maschio. Le bambine, al contrario, non portano nessun se
gno fisico che si colleghi con l'imposizione del nome; questa mancan
za, lo vedremo, è significativa nella concezione della distinzione della
identità sessuale. I nomi dunque sono imposti da una madre maschio
e da un padre femmina, la cui relazione sia nei confronti dei genitori
veri che tra loro è definita negativamente dall'interdizione dei rap
porti sessuali, ma che, con il bambino, hanno una relazione sociale in
teramente positiva, la cui manifestazione è proprio la loro feconda
collaborazione nel processo di produzione rituale della sua anima. La
relazione fisica tra i genitori e il bimbo, a partire dalla nascita di que
sti, è stata, allo stesso tempo, caratterizzata da una serie di pericoli
156
reciproci, che vengono evitati ritualmente grazie ad alcune prescrizioni
alimentari e soprattutto all'interdizione di qualsiasi contatto sessuale.
È solo dopo che il loro figlio ha acquisito un nome-anima che i geni
tori possono riprendere una vita normale. Questa struttura di inver
sioni diadiche, segnate dalle " antipatie " fisiche, ma anche dalle com
plementarietà simboliche, è il paradigma generatore di tutte le cerimo
nie Bororo e, quindi, anche della creazione dell'identità personale.
I nomi propri Bororo sono tratti dai totem del clan secondo una
logica che Claude Lévi-Strauss ha delineato ne Il pensiero selvaggio.
Prima però di analizzare la forma Bororo di questo principio generale
di denominazione totemica, è necessario che io descriva quali sono gli
attributi dei totem Bororo, perché sono proprio quest'ultimi a for
nire il lessico grazie al quale si definiscono le identità dei gruppi e
delle persone. Ciascun modo d'essere, cioè ciascuna specie naturale,
secondo il modo di vedere indigeno, è riassunto in una coppia divina
o trascendentale che ne incarna l'essenza perfetta; questa coppia ha il
nome di aroe, l'anima o il nome, della specie. Gli aroe sono descritti
come bellissimi, grandissimi, splendidi, multicolori e pieni d'ornamen
ti : per finire, non come i modelli esatti delle specie fisiche, bensì come
l'idea dell'insieme di attributi idiosincratici che è il principio della
specie.
L'aroe è sempre una coppia e il rapporto tra i due termini della
coppia, fondamentalmente, non è di somiglianza, ma di metonimia: più
grande, più piccolo; primogenito, cadetto; alto, basso; primo, secon
do, ecc. Per finire, in questa concezione si trovano i rapporti di una
tassonomia anatomica. Ciascun membro della specie è visto come una
versione peggiorata, corrotta e parziale dell'idea o, se si vuole, del
nome della specie. Sono del parere che, in questo contesto, si abbia
una concreta manifestazione dello spirito nominalista : la concezione se
condo la quale il nome d'una categoria d'essere esprime la realtà esi
stenziale o l'anima della sua identità. Un principio vagamente platoni
co, ma molto comune in Sud-America, sta dunque a fondamento del
totemismo Bororo.
I membri del clan chiamano gli aroe associati al gruppo aroe i-eda
ga i-maruga, che può essere tradotto come « colui che mi dà il nome,
colui che mi definisce », ed essi, qualsiasi siano le deformazioni dovute
alla genetica o alle contingenze della storia, partecipano in modo ri
conoscibile alla caratterizzazione della specie. Che il legame tra coloro
che danno il nome (lo zio materno e la zia paterna), il nominato (ego)
e l'essenza nominativa (gli aroe) sia completamente sociale e non bio
logico risulta evidente nelle inversioni simboliche della cerimonia del
l'imposizione del nome e appare con maggiore chiarezza nell'assenza
di regole che proibiscono il contatto fisico (il mescolarsi di sostanze),
157
la consunzione o la distribuzione, dei totem. I rapporti tra i gruppi
separati che compongono il clan, cioè i gruppi di nome, sono definiti
inoltre dalla loro appartenenza, tramite il nome, all'insieme delle es
senze uniche, gli aroe del clan, e non in termini di sostanza comune.
Cosi, nel contesto Bororo, i termini « clan » e « discendenza », che
presuppongono un'unità differenziata in relazione alla parentela, sono
completamente falsi: il « clan », in questo tipo di società, è una con
figurazione spaziale delle essenze logiche, gli aroe, collegati dai loro
rapporti analogici coi totem di altri gruppi eterogenei, mentre, nel re
gistro sociale, il « clan » è un'unità solo grazie alle transazioni con le
altre categorie sociali.
Credo che, a questo punto, sia necessario fare chiarezza con qual
che dato etnografico, forse noioso, ma certamente utile. I gruppi do
mestici Bororo sono in genere costituiti attorno ad un nucleo madre
figlia e possono comprendere dei parenti classificatori, spesso conside
rati come membri dello stesso gruppo di nomi. In relazione con le con
dizioni demografiche, un villaggio Bororo può avere da zero a tre o
quattro case di un solo clan e, quando esse sono più d'una, i loro rap
porti reciproci sono caratterizzati dall'assenza di qualsiasi relazione di
consanguineità. Ricorderete che gli aroe totemici si manifestano sem
pre a coppie, coi due termini collegati da un rapporto metonimico: pri
mogenito, cadetto; grande, piccolo; alto e basso; insomma, da continua
naturali che possono essere considerati l'espressione di insiemi spaziali
e contingenti. Ogni coppia d'aroe è associata categorialmente con una
delle due suddivisioni di ciascun clan Bororo, mentre, se esiste un
terzo « sotto-clan », in linea di massima, le sue funzioni sociali e sim
boliche sono completamente ipotetiche, almeno nel contesto delle ca
tastrofi demografiche che si sono abbattute su questa società. Se, in
un dato villaggio Bororo, si trovano due o più gruppi domestici di un
clan, essi sono necessariamente associati con i due sotto-clan. Le diffe
renze tra questi due sotto-clan, il fatto cioè che l'uno sia ritenuto più
ricco dell'altro, più grande o, in un modo o nell'altro, superiore, non
pertengono affatto a considerazioni relative alla nobiltà del sangue o
alla distanza genealogica da un ipotetico antenato, derivano bensl dal
l'asimmetria metonimica della coppia totemica. Questi contrasti sono
interni al clan e non sono pertinenti al di fuori di esso; al di fuori,
essi sono privi di significato semplicemente perché le essenze totemi
che non sono tra loro comparabili; l'aroe del tatù maschio adulto rosso
e l'aroe della piccola scimmia nera femmina sono modi d'essere com
pletamente differenti. Ciascun sotto-clan, in linea di massima, ha da
tre a sei partizioni, cioè gruppi di nomi o gruppi domestici, opposti
l'uno all'altro grazie alle più sottili specificazioni degli aroe totemici.
Per esempio, nel clan Bokodori Exerae, cioè i tatù della metà Exerae,
158
ci sono due sotto-clan, tatù rosso e tatù nero; altri gruppi di nomi
sono associati coi tatù che corrono, che dormono, che hanno grandi
zampe, ecc. In linea di principio, i nomi personali sono rapportati con
una identificazione ancora più specifica di un aroe preciso, che possie
de un modo d'essere caratteristico e idiosincratico. Questo paralleli
smo logico tra tassonomie naturali e tassonomie sociali è stato chia
rito, ne Il pensiero selvaggio, da Claude Lévi-Strauss, con l'aggiunta
che, nel sistema Bororo, ciascuna specie d'aroe è, essa stessa, una fa
miglia o un genere.
In realtà è molto difficile scoprire le associazioni logiche tra gli
aroe, i nomi dei sotto-clan, i gruppi di nomi e i nomi individuali, il
principio, però, resta chiaro. Devo dire, inoltre, che tutti i membri di
un gruppo di nomi, di un sotto-clan e di un clan si ordinano recipro
camente, secondo le loro rispettive età: questo schema organizza i rap
porti normativi e politici nel clan e le sue suddivisioni. L'età, la posi
zione nello spazio, gli aroe: ecco i principi Bororo dell'organizzazione
del clan; la consanguineità non è tra essi. Infine, i gruppi di nomi, in
quest'ambito, si differenziano tramite le posizioni che devono occupa
re nella circonferenza del villaggio e grazie ai ranghi gerarchizzati. Il
rango di ciascun gruppo dipende dai beni da cerimonia che possiede;
questi beni sono anche loro forniti dagli aroe totemici.
Gli aroe, infatti, non procurano soltanto, in termini stretti, quel
che serve acché il Bororo si distingua dagli altri esseri che gli somi
gliano, essi generano anche i modi plastici che rendono sensibile que
st'identità, insieme singolare e specifica. Ciascun clan Bororo possiede
centinaia di ornamenti particolari, ciascuno dei quali con uno stile uni
co e con una sua propria fattura: i copricapo di penne, i braccialetti,
gli anelli da labbro, le cinture, gli archi e le frecce forniti di ornamen
ti, le collane di penne, di denti o di unghie, i randelli, i dentaioli, i
tamburi e gli altri strumenti, gli orecchini, i disegni fatti sul corpo e
tante altre cose, il cui complesso, che forma un sistema estremamente
bello e ricco, figurava in primo piano in uno dei primi articoli di Clau
de Lévi-Strauss. Questi addobbi costituiscono la fortuna del clan, la
sua proprietà sacra, e i diritti su questi beni vengono conservati gelo
samente. Sembra che, per tradizione, ogni giorno gli uomini e le don
ne Bororo si ornassero riccamente e, ancora oggi, l'associazione tra un
ornamento e la categoria sociale che lo possiede è cosl stretta ed evi
dente che la maggioranza dei maschi adulti riesce ad identificare il clan,
il sotto-clan e anche il gruppo di nomi di un forestiero, grazie agli or
namenti - e ne bastano solo due o tre - che egli ha indosso.
Ciascun tipo di oggetto è pertanto associato, almeno nella teoria
indigena, con uno degli aroe totemici del clan; cosl, per esempio, i
membri del Bokodori Exerae (i tatù) indossano un ciondolo fatto del-
159
le enormi unghie del tatù gigante, il bokodori. Proprio come i nomi
individuali, ciascun ornamento rappresenta la proprietà d'un gruppo
di nomi particolare, secondo la medesima tassonomia che regola la
differenziazione sociale dei nomi. Il sotto-clan Bokodori Xoreu (i tatù
neri) possiede il " ciondolo di unghie nere "; all'interno di questo
sotto-clan, un gruppo di nomi decora il suo ciondolo con frange rosse
e gialle, mentre un altro gruppo si serve di frange rosse e nere.
Di conseguenza, gli ornamenti sono gli emblemi nominali, dotati
della medesima capacità di differenziazione, di classificazione e di ge
rarchizzazione dei nomi propri. Essi, così. costituiscono una sorta di
<(seconda pelle», mediante la quale l'individuo manifesta agli altri e, co
sa più importante, a se stesso la sua identità originale e però specifica.
Gli ornamenti danno a ciascun Bororo un mezzo paralinguistico
per mostrare o per esibire la sua partecipazione ad una specie sociale,
ad un clan, un sotto-clan ed un gruppo di nomi. Ma, cosa impossibile
sia con le parole che con i nomi, essi forniscono anche gli operatori
iconografici coi quali l'identità può essere espressa fisicamente e muta
ta e trasformata nelle transazioni sociali. A dire il vero, però, il modo
in cui ciò accade è molto complesso.
Sebbene nella teoria Bororo ogni modo d'essere al mondo sia col
legato con una coppia d'aroe e sia così associato con uno o con un
altro clan, gli informatori, abitualmente, si accontentano di enume
rare da trenta a cinquanta aroe totemici, che forniscono a ciascun clan
la denominazione e gli addobbi. In questo gruppo, solo da sei a dieci
aroe sono considerati quelli maggiori, o " grandi ", del clan. Dal pun
to di vista dell'analisi della logica metaforica del sistema totemico,
dunque, si tratta di cinquanta, settanta specie che, tutte, si caratteriz
zano come unità eterogenee. Benché io sia convinto che questo siste
ma possa essere analizzato come una serie di analogie, secondo i prin
cipi esposti ne le Totémisme aujourd'hui da Claude Lévi-Strauss, de
vo confessare di non essere riuscito a trovare l'insieme dei codici zoo
logici della struttura, considerata nella sua totalità. Per questo motivo,
e anche a causa della mancanza di tempo, non esamineremo gli aroe
come metafore dell'identità in un sistema in cui le entità totemiche
che rappresentano ogni gruppo hanno opposizioni reciproche analoghe
alle opposizioni sociali. Comunque, va detto che, grazie a questa strut
tura metaforica, i clan sono categorie completamente eterogenee, ben
differenziate tanto, nell'ordine naturale, quanto lo sono, nell'ordine
culturale, le unità dette caste.
Torniamo però agli aroe. Per ragioni per nulla casuali, gli aroe
sono " rappresentati " o " incarnati " ritualmente. La quasi totalità
dei riti pubblici Bororo è costituita da queste cerimonie, in cui l'idea
di una specie viene resa tangibile e visibile dagli uomini.
160
Per rappresentare un aroe totemico, uno o più attori si dipingono
il corpo con disegni talmente complessi che la realizzazione di alcuni
di essi può richiedere anche una mezza giornata. Agli attori si affidano
poi i copricapo, i bracciali , le vesti da danza, gli oggetti da cerimonia
e, in genere, tutti i paramenti necessari per rendere completa la per
sonificazione degli aroe. Gli attori, quindi, con tutti gli ornamenti,
vanno, danzando, dalle case del clan alla casa degli uomini e, infine,
fanno venti o trenta volte il giro dell'area centrale del villaggio. Si
presume che i loro movimenti stereotipati - che possono variare tre
o quattro volte durante l'intero tragitto della danza - imitino fedel
mente i gesti e gli atteggiamenti della specie che viene rappresentata;
in realtà, però, si tratta di stilizzazioni essenziali: per i Bororo non
vale tanto imitare l'una o l'altra specie animale, quanto diventare, in
carnare l'essenza logica o, se si vuole, l'idea della specie. Devo sottoli
neare ancora che, per i Bororo, l'insieme dei paramenti degli attori è
il punto-culmine dell'intero sistema di ricchezza e di beni simbolici, è
la realizzazione che abbraccia completamente l'intero sistema totemico
ovvero la differenziazione metonimica.
Il punto centrale, però, è che a rappresentare il proprio aroe
- « coloro che hanno dato loro il nome » - non sono mai i membri
161
che dà luogo alla sua identificazione nominativa. Le entità simboliche,
gli aroe, che fungono da intermediari nella transizione dell'identità
naturale e sociale, sono i fattori coi quali si rende possibile la produ
zione di " nuove cose naturali ", i bambini.
Torniamo un attimo indietro. Ogni Bororo trova che il suo gruppo
di nomi, i cui membri di sesso femminile abitano nella stessa casa,
dispone di una complessa serie di ornamenti, di canzoni, di disegni
da fare sul corpo e di azioni associati con una metà delle coppie degli
aroe totemici del clan, mentre l'altro gruppo domestico del suo clan
dispone di beni da cerimonia associati con l'altra metà delle forme
degli aroe. Anche se l'individuo può ornarsi coi parametri propri del
suo gruppo, egli non può essere altro che una individualizzazione par
ziale di una categoria trascendentale, qualcosa di " meno di se stesso ".
Però, coi membri dell'altro sotto-clan, coi quali non spartisce nessuna
sostanza, né genealogica né materiale, egli può creare, grazie ai corpi
delle persone dell'altra metà, la rappresentazione perfetta di una to
talità diadica che definisce, nel complesso, il suo essere sociale. Si può
affermare dunque che il clan è inesistente sociologicamente o simbo
licamente al di fuori di questi momenti rituali. Questo emergere del
sé del clan, solo in virtù del doppio processo di una collaborazione con
un opposto metonimico del proprio clan e con un contrario metaforico
dall 'altra metà, è il modo transattivo col quale i Bororo costruiscono
per l'identità un'immagine speculare. Spero sia chiaro che solo que
st'immagine speculare può riflettere fedelmente i principi dell'identità
sociale. Ritroviamo però il vecchio problema: l'immagine speculare
può costruire anche l'identità fisica? La risposta è affermativa, ma per
ragioni diverse da quelle che abbiamo fin qui trattato.
162
crescita, la conclusione. I bope sono l'idea stessa del tempo come pro
gressione storica e irrevocabile e, come avrete già compreso, sono
l'essenza del rakare. Dal momento in cui un giovane Bororo si allon
tana dai suoi aroe matrilineari della casa materna, entra in contatto
coi bope, col mondo del sesso, dei cognati e infine dei bambini: in
breve, invecchia per la necessaria perdita del suo rakare. Ciò è vero
anche per la donna Bororo; tuttavia per lei la nascita dei bambini non
assume il medesimo significato di doppia trasformazione dei bope e
degli aroe che implica per il marito.
Per gli uomini la perdita del rakare, con il conseguente degenerare
fisico, che dà materia per la creazione di un bambino, è rimandata con
una serie di prescrizioni rituali nelle quali il figlio diventa il padre e
il padre il figlio, sempre grazie alla mediazione degli aroe. Nella ceri
monia dell'imposizione del nome, padre e figlio subiscono un'operazio
ne analoga, caratterizzata dalla perdita di sangue - la foratura del lab
bro inferiore, il figlio e quella del setto nasale, il padre. I ragazzi du
rante la loro infanzia, possono sostituire, nei riti, i padri. Ma, soprat
tutto al momento dell'iniziazione di un giovane, è il clan paterno a
proteggerlo durante una cosl pericolosa trasformazione d'identità. Un
membro del clan suddetto, uno zio paterno o, meglio, un cugino in
crociato patrilaterale, è l'i-orubadari, l'amico speciale del ragazzo. Egli
gli dà l'astuccio penico, che rappresenta i diritti sessuali categorici del
ragazzo sulle donne dell'altra metà e anche le regole, le " limitazioni " ,
che lo salvaguardano nei suoi contatti coi pericoli della sessualità, il
regno del bope. Il ragazzo, durante l'iniziazione, incontra, per la prima
volta, anche i poteri degli aroe nella loro forma più estrema: cioè i
mostri conosciuti come aije. Gli aije non sono una specie della " real
tà "; essi sono mostri del fiume, i cui brontolii sono imitati dai rombo,
che i Bororo mettono in parallelo coi falli. Gli aije minacciano le don
ne, che si nascondono nelle loro case, gettando loro dentro i muri bi
glie di fango bianco. Alle donne ed ai bambini è assolutamente inter
detta la vista degli aije, soprattutto dei rombo.
Anche nella rappresentazione degli aije troviamo una messa in sce
na, in forma di dramma, di quel dualismo concentrico di cui Claude
Lévi-Strauss ha messo in luce il ruolo fondamentale nella struttura Bo
roro. In questo ambito rituale, le opposizioni periferia-centro, fem
mina-maschio, sono correlate con quelle bope-aroe, processo-forma,
tempo-spazio e molte altre. La cerimonia di iniziazione raggiunge cosl
un duplice scopo, quello di allontanare un ragazzo dalla casa materna,
profana e particolare, verso il mondo delle forme eterne degli aroe,
passaggio intrinsecamente pericoloso, e quello di assicurarne l'assun
zione nel mondo ancora più minaccioso del matrimonio e dello stato
coniugale. Questa trasformazione d'identità è compiuta ad opera del
163
clan del padre, che, alla fine dell’iniziazione, adorna il giovane come
uno dei suoi aroe totemici.
Egli, allora, col fratello di clan o di metà che personifica la forma
d’aroe complementare, diventa l’essenza iconografica e nominativa del
padre, in modo più completo di quanto quest’ultimo non sia giammai
capace di divenire. Di più, egli è l’immagine fuori dal tempo di suo
padre, compenso simbolico dell’invecchiamento fisico e della perdita
di rakare subita dal padre all’atto della procreazione. E questo muta
mento è compiuto grazie proprio alla medesima prestazione simbolica,
la rappresentazione dell’eroe, che, in origine, aveva permesso al padre
di accostarsi sessualmente alla madre. Col dono di questa immagine
speculare di se stesso, è stato generato un altro se stesso, che nuova
mente riflette l’immagine paterna, ma stavolta in un senso doppio, per
ché Loro non hanno di certo dimenticato che, nell’ideologia Bororo, i
bambini sono ad immagine del padre.
164
gole nei confronti sia di altri uomini che della natura. Ma, allo stesso
modo, le forze naturali sono capaci di nuocere all'uomo, slealmente e
ingiustamente. I Bororo non fanno mai del male ai serpenti, e, conse
guentemente, questi ultimi non dovrebbero morderli mai. Cosl, le api,
le vespe, i ragni e tutti gli altri grandi insetti velenosi, i tatù, i cocco
drilli e le razze d'acqua dolce, in pratica tutti gli esseri capaci di ferire,
si suppone che lascino tranquilli gli uomini. Ecco perché, quando un
Bororo è attaccato da uno di questi animali, sia lui che la società su
biscono un torto tanto morale quanto fisito; la regola che determina
l'interazione naturale e culturale è stata trasgredita e si deve fare una
appropriata riparazione per sanare il danno e per ristabilire normali
relazioni.
I Bororo chiamano questa riparazione, sotto ogni forma, mori-xe,
compenso o rivalsa. Tutti i mori-xe di torti d'origine naturale devono
essere ottenuti dai membri della metà opposta che, a loro volta, de
vono ricevere un compenso per questa loro prestazione obbligatoria.
Quando, per esempio, un serpente morde un uomo, un individuo del
l'altra metà deve uccidere quel serpente o, almeno, un animale della
stessa specie. Il vendicatore è dipinto sul corpo e gli si affida un orna
mento che appartenga al clan della vittima; egli conserva, per tutta la
sua vita, il diritto di portare sia i disegni che l'ornamento come pegno
di quel sé leso che egli ha ristabilito nella sua integrità. È chiaro che
tutto questo sistema si basa sulla stessa logica della rappresentazione
degli aroe, tranne che esso è volto all'esterno, verso la natura, piutto
sto che verso l'interno, verso il villaggio.
I Bororo considerano la morte di un individuo come il più grave
oltraggio che può essergli fatto e, per estensione, che possa essere fat
to ai suoi parenti, alle sue unità sociali e all'insieme del sistema Bo
rora. La responsabilità di questo oltraggio ricade sui bope perché essi
sono all'origine di ogni trasformazione nell'ordine delle cose. Di nuo
vo l'equilibrio tra gli uomini e la natura (gli aroe e i bope) deve essere
ristabilito tramite un mori-xe, ma in questo caso le condizioni sono
più precise, il vendicatore deve appartenere non solo all'altra metà, ma
più specificamente al clan del padre del morto. Gli si dà il nome di aroe
maiwu, cioè la nuova anima o, credo più precisamente, il nuovo nome.
Infatti, in questa usanza, i doveri dell'aroe maiwu superano di
molto la semplice ricerca del contraccambio della morte dell'individuo
nei riguardi della natura: in senso stretto, egli diviene l'essenza del
defunto, la sua anima sociale, il suo nome. In una certa misura, rea
lizza ciò grazie al medesimo tipo di rappresentazione simbolica molto
elaborata che abbiamo descritto a proposito delle cerimonie dell'aroe.
Il compenso attivo della morte del defunto è portato a compimento
con l'uccisione di un animale di una categoria ben precisa; preferibil-
165
mente un giaguaro o un'aquila, in mancanza in un altro felino, un fal
co, un cane selvatico, una volpe o un gufo. Qual'è la logica simbolica
soggiacente? Chiaramente, a differenza delle altre forme di mori-xe
con la natura, la vendetta per la morte di un uomo non risponde sem
plicemente alla legge " occhio per occhio, dente per dente "; l'uccisio
ne di un animale qualsiasi non può, in nessun caso, costituire un com
penso adeguato della perdita di questa entità unica e insostituibile,
l'essere umano.
Sembra piuttosto che la natura o il bope siano costretti a pagare
con qualcosa che sia metaforicamente equivalente ad una vita umana
e, da questo punto di vista, solo i carnivori sono comparabili con
l'uomo. Due argomenti ci permettono di ritenere che questa dedu
zione sia giusta: da una parte, il vendicatore deve fabbricare una col
lana coi denti, con le unghie o gli artigli dell'animale e deve donarla
ai parenti più stretti del morto, che la considerano come una reliquia
preziosissima e la conservano per molte generazioni. D'altra parte,
quando un Bororo era ucciso nel corso di una guerra, il suo aroe maiwu
doveva a sua volta uccidere un nemico, al posto del carnivoro, e of
frirne la mandibola come ciondolo in dono ai parenti del defunto. La
possibile sostituzione di un uomo con un carnivoro e di un carnivoro
con un uomo indica che, tra i Bororo, la concezione dell'essere umano
è quella di chi deve uccidere per vivere; ciò è in perfetto accordo con
le loro idee sulla riproduzione umana che ho segnalato all'inizio di
questa relazione. In altre parole, se l'uomo possiede un'anima, cioè un
nome, una categoria tassonomica, ùn aroe, un clan, lo può soltanto a
condizione di distruggere l'esistenza, d'alterare il modo eterno della
formà nominativa: l'uomo è anche un bope.
A differenza della sofferenza fisica, che è possibile comunicare lin
guisticamente agli altri, ma la cui esperienza diretta è incomunicabile,
la morte di un'identità è un danno che colpisce duramente e imme
diatamente il benessere di coloro che partecipano di questa identità.
Se dunque l'uccisione di un giaguaro soddisfa l'obiettivo limitato di
una vendetta diretta, cioè una sorta di estremo mori-xe, in contrac
cambio dell'illegittimità delle sofferenze della morte, bisogna che an
cora ci si prenda cura, simbolicamente, delle pene dei parenti. A que
sto scopo, l'aroe-maiwu si presenta alla fine del ciclo funebre con un
costume che sinteticamente riassume tutte le connotazioni iconografi
che del nome del defunto.
Così il sostituto, in qualche modo il duplicato, porta sul corpo i
disegni del più importante aroe del clan del morto, vari ornamenti col
legati col suo gruppo di nomi, ma anche le decorazioni che il defunto
si era conquistato per avere compiuto i suoi doveri nei confronti del
l'altra metà. Il sostituto, in fin dei conti, indossa beni parafernali del-
166
la propria metà; l'immagine capovolta dell'essere viene ad essere rad
drizzata per mezzo di questo rito finale. Si deve aggiungere che a que
sto punto donne e bambini devono rimanere nelle case, a causa della
credenza, talvolta evocata, per la quale l'aroe del defunto è ritornato
e si è reincarnato in un uomo della metà opposta.
Dal momento che i Bororo praticano il doppio interramento - ana
lizzato egregiamente da Hertz -, durante il ciclo funebre, l'aroe maiwu
ha parecchi doveri. Digiuna, si astiene da qualsiasi rapporto sessuale,
non va a caccia. Quando il cadavere si è sufficientemente decomposto,
egli pulisce le carni putrificate sulle ossa e le decora proprio con l'in
sieme composto d'urucu, di piumaggio bianco e di un copricapo di
penne, che il clan del padre (di cui l'aroe maiwu è membro) aveva uti
lizzato per ornare il defunto in occasione dell'imposizione del nome.
Come, durante la sua vita, un Bororo riceve un addobbo del clan di
suo padre che prima lo trasforma in se stesso, con la cerimonia della
imposizione del nome, quindi lo trasforma nell'aroe di suo padre,
cioè in più di se stesso, cosl, morendo, riceve un addobbo che gli as
sicura l'identità finale e la vita definitiva. Quanto all'aroe maiwu, in
occasione di questo dono finale, dà forma alle ossa che una volta da
vano forma alla carne che egli stesso aveva modellato e dipinto coi
suoi colori.
Per il resto della vita, l'aroe maiwu si trova in una relazione par
ticolare coi parenti più prossimi del morto. In genere, i genitori del
morto si rivolgono e si comportano col sostituto rituale del loro figlio
lo come se fosse l'incarnazione vivente della parte essenziale del suo
essere. A sua volta, l'aroe maiwu deve considerare i genitori del mor
to di cui ha rivestito la " seconda pelle ", come, cito i Bororo, <( più
padre e più madre » dei suoi veri genitori. In realtà pochi genitori so
pravvivono ai loro figli e i genitori simbolici di un morto sono rap
presentati dalla parente di ascendenza uterina più prossima e da suo
marito, che cosl divengono " padre e madre " dell'aroe maiwu.
All'interno di questa triade socialmente inversa, le transazioni ob
bligatorie più frequenti comportano cacce rituali che accompagnano
quasi sempre le rappresentazioni degli aroe, ma che possono essere an
che indipendenti, al ritmo, in media, di una per settimana. Durante
queste cacce, i Bororo considerano che l'aroe maiwu " rappresenta ",
o meglio, incarna l'aroe del morto. Cosl trasformato, il sostituto ritua
le caccia, in compagnia di altre " anime incarnate ", la selvaggina più
grande: cervi, pecari, tapiri, capivara, che sono proprio le specie pre
ferite dai giaguari, e il cui consumo, come ho detto, mantiene il rakare.
La selvaggina uccisa viene portata al villaggio da uno dei fratelli, dove
il padre la consegna alla madre. Ella la cuoce, sempre bollendola, e ne
manda qualche pezzo, sempre tramite il padre, al figlio aroe che è ri-
167
masto nella casa degli uomini. Tradizionalmente, il figlio divide la sua
sdvaggina con le sue unità coniugali e materne. Tuttavia, la gran par
te della carne viene consumata dai gruppi domestici dei genitori ri
tuali. Per esprimere la sua gratitudine, la madre rituale, nell'ambito
di cerimonie, ma anche in giorni qualsiasi, deve mandare frequente
mente al figlio aroe piatti di legumi cucinati, piccoli pesci e bevande
zuccherate. Queste sostanze deboli sono considerate il nutrimento ap
propriato per gli aroe e vengono consumate nella casa degli uomini,
mentre la carne bollita, " forte ", viene consumata nelle case del grup
po domestico.
Le complesse inversioni dell'identità nell'istituzione dell'aroe mai
wu costituiscono una mediazione tra le forme categoriali e i processi
diacronici tra aroe e bope, tra case che appartengono a metà opposte,
tra la periferia del villaggio e il suo centro, tra la vita e la morte, tut
to ciò per mezzo di due forme di cucina.
Tutti gli uomini che rappresentano gli aroe maiwu partecipano a
queste cacce rituali e a questi scambi di cibo e, poiché praticamente
ciascun adulto iniziato incarna almeno un membro della metà opposta,
la totalità di queste sostituzioni individuali inter-metà costituisce una
situazione in cui ciascuna metà diventa il suo opposto. Ciò spiega un
certo numero di curiose anomalie del sistema Bororo, tra le quali non
piccola l'inversione della collocazione delle metà nella casa degli uo
mini (piano del villaggio), inversione più apparente che reale: durante
le cerimonie aroe, i tugarege sono gli exerae e gli exerae i tugarege.
Inoltre, in quelle rare occasioni in cui le donne possono entrare nella
casa degli uomini, esse ne occupano la metà che è dal lato dd loro
posto nella circonferenza del villaggio. L'insieme di queste circostan
ze mostra bene l'importanza che ha l'esame delle applicazioni struttu
rali della totalità delle inversioni dell'identità personale e collettiva
tra le metà, invece di rimanere, come si è fatto fino ad oggi, al livello
delle metafore e degli scambi individuali.
Loro hanno notato che, benché il figlio possa rappresentare gli aroe
totemici donde procede ogni identità sociale nel clan del padre, alla
sua morte soltanto la sua particolare, unica, identità sociale, cioè la sua
" anima/nome " viene assunta da un membro del clan paterno. Un
figlio dunque non diviene mai un padre particolare ma solo " l'idea
generale " o " l'anima " del clan del padre. L'aroe ha il diritto di por
tare soltanto gli ornamenti e le pitture sul corpo caratteristici del sotto
clan del defunto; il figlio indossa tutte le cose che costituiscono la for
ma di un aroe. Questa asimmetria ci sembra fondamentale: si tratta
della differenza tra una metonimia (differenziazione individuale) e una
metafora (essenza dell'aroe) . Ma tutto ciò cambia non appena esami
niamo questa questione al livello della globalità della struttura.
1 68
Clan del padre Clan del figlio
169
Al livello delle metà, queste relazioni categoriche asimmetriche si
trasformano grazie a questa serie di inversioni in una situazione in cui,
su tutti i registri, “ io è un altro ”, e un altro è me. In queste condi
zioni i Bororo riescono ad essere simmetricamente, o forse serialmente,
matrilineari e patrilineari, nel senso molto limitato che questi termini
possono avere per la loro società.
Discussione
170
ascoltavo, ero tentato di far riferimento alle due rdazioni che abbia
mo sentito precedentemente e che, apparentemente, stanno l'una agli
antipodi dell'altra: la relazione etnografica di Françoise Héritier sui
Samo, e quella di Jean Petitot della settimana scorsa. Dal momento
che oggi si è notata un'evidente simmetria inversa con ciò che ci è stato
riferito dei Samo, nella misura in cui, mentre tra i Samo il problema
prende l'avvio dal frazionamento dell'individuo in anime o in dupli
cati, tra i Bororo esso consiste nella composizione o nella ricomposi
zione dell'individuo per mezzo di emblemi e di posizioni.
D'altra parte, ho avuto la sensazione, ascoltando Christopher Cra
cker, che tutto quello che egli ci diceva avrebbe potuto essere imme
diatamente formalizzato da Jean Petitot e che questo gioco della ripro
duzione di un clan d'una metà per opera di un clan dell'altra metà è
costituito proprio da queste curve invertite dei due lati della sua linea
di frattura; nell'opposizione tra il sistema bope e il sistema aroe, si po
trebbe avere una possibile risposta a quel problema del dinamismo che
egli riteneva indispensabile per riuscire a rendere conto delle costru
zioni discontinue.
Ciò che colpisce, nel pensiero Bororo, è, tralasciando le differenze,
questa sconfinata volontà di identificazione, che si esprime, nitidamen
te, grazie a qualcosa di cui, dal titolo che Lei ha dato alla sua relazio
ne, avevo ritenuto che avrebbe parlato, e di cui invece non ha voluto
parlare: mi riferisco ai miti tanto singolari in cui un individuo incon
tra un altro individuo che è completamente identico a lui, che è un
altro lui stesso.
Vorrei dire che, di recente, ho reperito nella mitologia irochese
illustrazioni molto simili; ciò pone un interessante problema teorico,
giacché siamo in presenza di società organizzate dualisticamente, che
devono risolvere il problema stesso dell'identità e della differenza.
A questo particolare proposito vorrei dare avvio alla discussione
facendo una domanda a Christopher Cracker: in questa alternanza, in
questo scambio di ruolo, le funzioni aroe o bope passano talvolta a
rappresentanti d'una metà, talvolta a rappresentanti dell'altra metà.
Ma non si dà il caso, allo stesso tempo, d'una eterogeneità fondamen
tale della metà che, se non sbaglio, permetterebbe di dire, insieme, che
gli exerae hanno una affinità aroe e i tugarege hanno un'affinità bope?
In questo caso qualcosa impedirebbe loro di imitarsi con esattezza gli
uni con gli altri. Penso che in proposito Lei possa fare delle precisa
zioni molto interessanti.
171
specularità completa e totale perché exerae e tugarege sono unità com
pletamente eterogenee. Infatti i tugarege sono, dal punto di vista de
gli aroe totemici, molto più identificati con gli aroe. Per i Bororo, al
cune specie naturali sono considerate come maggiormente aroe. Esse
non sono precipuamente aroe, ma sono più assimilabili agli aroe di al
tre specie. Le specie in questione sono gli uccelli acquatici, del fiume,
che sono associati coi tugarege che hanno il totem dei clan.
Gli esseri che, al contrario, sono associati ai bope sono, per esem
pio, il sole e la luna, che si situano dal lato degli exerae. Gli stessi
Bororo dicono che gli exerae sono più bope e i tugarege più aroe. Ma
la cosa ancora più interessante è che esistono due tipi di shaman, l'uno
che funge da intermediario con gli aroe, l'altro coi bope. Nella tradi
zione Bororo lo shaman degli aroe quasi sempre è un exerae e lo sha
man dei bope è quasi sempre un tugarege, perché essi hanno rapporti
che sono analoghi ai rapporti padre/figlio, cioè il tugarege è il " figlio "
dell'exerae e viceversa.
Si può dunque dire che la asimmetria è completa, ma è una asim
metria capovolta.
Claude Lévi-Strauss: Cioè che c'è una volontà di parità e che ogni
volta che si tenta di realizzarla si cozza contro un ostacolo. Per riu
scire a dominare questa situazione, si crea una nuova parità in un altro
senso. Così come negli schemi di Jean Petitot, ci sarebbe un'oscilla
zione costante dei due lati della linea di frattura, ma il percorso non è
mai in direzione della confusione, dell'identificazione dei due termini.
Vorrei dare agli altri ascoltatori la possibilità di fare le loro domande.
172
nella mentalità Bororo. Rileggendo Tristi tropici di Claude Lévi
Strauss, mi rendevo conto che per i Bororo, la realtà non è quel che
si fa. È una realtà altra, quella che si riproduce. Una struttura median
te la quale si tenta di far passare nel " reale " la vera realtà. Ciò che
Lei chiama nominalismo è dunque agli antipodi di quel che è detto il
reale nell'Europa contemporanea, che non è altro se non una struttura
vuota. All'opposto, i Bororo si dedicano grazie al simbolismo al com
pito di riprodurre una struttura piena.
Mi sorgono allora due domande: è possibile per un europeo d'oggi
comprendere questa mentalità?
. E se si tenta di comparare quest'uomo col suo " nominalismo ",
coll'uomo di oggi con la sua struttura vuota, qual'è l'uomo superiore?
Raul Mendez: Si, perché in Platone c'era nel logos un certo vita
lismo, ma il pensiero d'oggi è privo di un logos, di uno slancio vitale.
173
Odi/e ]acob: Le donne dunque non circolano nello scambio?
174
una immagine della distruzione del rakare in ciò che accade nel mondo
esterno.
175
Stabilizzazione funzionale ed epigenesi
Un approccio biologico della genesi dell' identità individuale
Antoine Danchin *
176
rono le conchiglie, contenute nei loro scarsi bagagli, e le misero in
comune in segno di unione.' Continuarono la loro strada e presto ar
rivarono in un luogo, in cui si tenevano mercati. Ciascuno di loro pre
se un po' di conchiglie per poter commerciare. La sera, si ritrovarono
e poterono constatare che avevano agito con abilità, in quanto il loro
piccolo capitale del mattino era raddoppiato. Fu l'inizio di una pro
sperità tale che decisero di restare in quel villaggio.
Dopo uno o due anni, pensarono di stabilirsi definitivamente in
quel villaggio e di prendervi, quindi, moglie. Andarono a parlare con
gli anziani e dissero loro : « Vorremmo fondare qui una stirpe e, quin
di, desidereremmo prender moglie ». I loro doni e i loro servizi furo
no graditi. Nessuna precisazione, però, venne loro data riguardo alle
donne, che sarebbero state loro accordate, o riguardo al momento del
matrimonio. Ciò era conforme all'usanza. L'attesa, comunque, si pro
lungava. Passarono un anno, due, tre ed ancora non veniva loro pro
posta alcuna sposa. Finalmente uno degli amici si decise a consultare
un indovino per conoscere le possibilità di realizzazione della promes
sa che era stata loro fatta. « Tu riceverai una sposa solo in un tempo
abbastanza lontano - gli disse l'indovino, dopo aver gettato le conchi
glie e aver letto l'avvenire dal modo in cui si erano disposte - ma il
tuo amico riceverà l'assenso degli anziani nei prossimi giorni. Vedo,
tuttavia, che, nel momento in cui la novella sposa sarà condotta al do
micilio coniugale, si produrrà una grande disgrazia : all'ingresso della
capanna la persona, che aprirà la marcia, sarà morsa da un serpente
e diverrà cieca ». L'indovino affermò che sfortunatamente non c'era
alcun mezzo per evitare questo accidente.
La predizione si avverò. Poco tempo dopo questa profezia, il con
siglio degli anziani convocò l'amico, gli assicurò che quella attesa aveva
avuto lo scopo di metterlo alla prova, gli propose una sposa e fissò
la data del matrimonio. Il giorno stabilito, ci si avviò in corteo verso
la capanna. L'amico, che aveva sentito la predizione dell'indovino, con
un falso pretesto prese la testa del corteo, per evitare che qualcosa
accadesse al suo amico. Sulla soglia della capanna fu morso da un
serpente e diventò cieco.
La coppia di sposi prese il cieco sotto la sua protezione, ma si af
flisse di tale disgrazia. Fortunatamente nacque un bambino, che ralle
grò il cuore dei tre amici e che, crescendo, prese a nutrire un'amicizia
tutta particolare per il cieco.
Il vecchio compagno del cieco non risparmiava le sue fatiche per
rimediare allo stato del suo amico, ma non riusciva a nulla . Decise,
allora, di consultare l'oracolo, per sapere cosa bisognasse fare. L'ora-
177
colo non voleva rispondere. Insistendo molto, però, l'amico arrivò a
sapere ciò che voleva. « Per guarire il cieco - disse l'oracolo - non
v'è che un mezzo. È necessario che tu sgozzi con le tue mani tuo figlio,
prenda il suo sangue e lo metta sugli occhi del cieco. Egli guarirà ».
Allora, dopo lunghe discussioni, la coppia decise di uccidere il bambi
no. Sul far del giorno, marito e moglie uccisero il figlio, presero il
sangue e andarono a metterlo sugli occhi del cieco, che si svegliò e
ritrovò la vista. Subito, naturalmente, la prima cosa, che questi fece,
fu di precipitarsi a cercare il bambino e a vederlo finalmente, perché
lo amava molto. Non trovandolo, domandò ai genitori cosa ne avessero
fatto con queste parole: « Ma che ne avete fatto del bambino? Perché
è scomparso? » Essi gli spiegarono, allora, che lo avevano ucciso e lo
avevano fatto per ridare a lui la vista. L'ex-cieco, profondamente di
sperato, rimproverò vivamente al suo amico di aver agito in tal modo
e si precipitò poi sulla tomba del bambino. Vi incollò sopra il viso e
lo chiamò. Con sorpresa di tutti il bambino rispose. Subito tolsero via
la terra che lo ricopriva, ed ecco che riapparve vivo.
Il narratore 2 termina il suo racconto, chiedendo all'assemblea qua
le di queste tre persone - i due amici e la madre - fu più generosa e
ricorda l'ultima frase del cieco, detta a commento di questa avventura:
Pupélem ya tim
Pupélem ka rib yé, la bé basem yam
1 78
messa visto che i viaggiatori sono stranieri al villaggio). Conseguen
temente, la riapparizione del complesso di Edipo, sempre invocato,
con il corollario della colpevolezza dovuta alla morte del padre, come
traccia della fondazione del primo gruppo sociale, non ha qui luogo.
Ci troviamo ora in presenza di una morte simmetrica: la morte del
figlio. Questa simmetria, però, è solo apparente. La distinzione tra la
morte del padre e la morte della prole infatti è la distinzione tra il
padre, che detiene il potere (incarna la struttura sociale rigida) e fa
il discorso (detiene il linguaggio codificato), e il figlio, modellato da
queste norme, ma sempre portatore di una incertezza riguardo alla
sua maniera di riprodurre la società quale gli è insegnata. Il padre
rappresenta il programma sociale (si può ammettere questa analogia
in un'ipotesi di (ri)produzione delle strutture sociali) e il figlio è una
realizzazione particolare di questo programma.
La differenza essenziale è che il perpetuarsi del programma è ri
gido, si trasmette in maniera del tutto identica a se stessa, mentre la
realizzazione può sempre possedere una certa proprietà anomala ri
spetto al programma che la specifica. Si può dunque distinguere un
ruolo, totalmente dissimmetrico, della realizzazione in relazione al pro
gramma. A ciascun individuo corrisponde una realizzazione particolare
e le classi di realizzazioni deviano, con un certo grado di probabilità,
dalla realizzazione media, specificata dal programma. Tenterò ora di
sviluppare, al livello biologico, il ruolo e il modo in cui questa fluttua
zione è indispensabile alla creazione dell'identità biologica (la specie)
giù giù fino all'identità del sistema nervoso (fino alla creazione post
natale del sistema nervoso individuale).
179
che il programma si riproduca e l'identità, della discendenza rispetto
all'ascendenza, suppone che questa riproduzione si faccia con il mi
nimo di errori.
Al primo programma ha fatto riscontro la prima cellula ovvero,
nel corso dell'evoluzione prebiotica che ha preceduto questa prima
nascita, i sistemi, che si sono differenziati per divenire viventi, sono
passati da uno stato, nel quale si producono ogni sorta di reazioni più
o meno equivalenti tra loro, a un altro, nel quale la precisione diven
ta tale che si può considerare che c'è riproduzione conforme di uno
stesso edificio complesso: la cellula. Ciononostante, la precisione non
ha potuto divenire assoluta a causa della natura stessa delle interazioni
molecolari messe in giuoco. Sicché una certa frangia di fluttuazione,
nella quale appaiono " errori ", esiste necessariamente. E si trova,
come vedremo, che queste piccole fluttuazioni sono divenute neces
sarie per il funzionamento, al punto tale che si può pensare che il
programma sia stato selezionato in maniera da fissare la loro natura
e la loro ampiezza.
La necessità di queste fluttuazioni, che lasciano al caso un ruolo
primordiale, deriva dal fatto che ogni sistema vivente è un sistema in
crescita e che, per conseguenza, il suo contesto (definito come ciò con
cui il sistema interagisce) è senza posa modificato. Un sistema, che
fosse troppo rigido e si riproducesse con una fedeltà assoluta, non po
trebbe adattarsi ad un contesto che cambia, ma un sistema, che fosse
troppo fluido, non potrebbe riprodursi in maniera stabile. Le fluttua
zioni statistiche del programma genetico sono le mutazioni e sono al
l'origine dell'evoluzione delle specie: nel corso della moltiplicazione
degli individui di una data specie, esiste sempre un certo numero di
varianti, il cui programma è alterato, e ogni volta che il nuovo pro
gramma permette il suo sviluppo, il mutante costituisce una varia
zione stabile del tipo iniziale. Poiché questo fenomeno si riproduce
sistematicamente, arriva un momento in cui, dopo una serie di muta
zioni, un individuo possiede un programma che gli permette delle in
terazioni con l'ambiente esterno chiaramente diverse da quelle del ti
po iniziale ...
Insistiamo quindi sulla constatazione che la fluttuazione, che pro
duce qui una varietà di programmi, è di un interesse particolare: è
necessaria dal punto di vista della sopravvivenza del sistema vivente,
dato che, da sola, permette l'apparizione di nuovi esseri, che potranno
interagire diversamente con un contesto, senza posa mutevole (non so
lo perché un essere vivente sottrae all'ambiente esterno un certo nu
mero di molecole e ne respinge altre, ma anche perché, assai sempli
cemente vi fa comparire un gran numero di individui identici a lui),
ma riveste anche il carattere di una necessità interna, dovuta alle ine-
180
vitabili fluttuazioni intrinseche alle interazioni molecolari (dato che
non siamo allo zero assoluto) .
Con l a nascita degli organismi pluricellulari arriviamo a u n se
condo livello dell'organizzazione biologica. Nel programma, che si
esprime nel corso della crescita per divisione, compare sempre una
variazione brusca nel momento in cui la cellula figlia si separa dalla
cellula madre. Il contesto della cellula iniziale contiene, in quel pre
ciso momento, un'interazione di un tipo particolare, la quale rappre
senta il contatto intimo tra due cellule. È quando questa interazione
di contatto sarà assunta nel programma che appariranno i primi orga
nismi pluricellulari. I programmi, allora, si diversificheranno e spe
cificheranno un certo numero di interazioni, a breve distanza tra le
cellule, all'interno di un organismo in cui esistono classi di cellule
differenziate. Conviene, quindi, che il programma di questi nuovi es·
seri viventi più complessi contenga istruzioni corrispondenti allo svi
luppo diacronico dell'individuo secondo quella che si chiama onto
genesi. 3
Nel corso dello sviluppo individuale, il ruolo delle fluttuazioni sto
castiche non si trova contenuto nella modificazione del programma,
come avveniva per la filogenesi, bensì nel suo svolgimento temporale:
il luogo rigorosamente esatto o il tempo rigorosamente previsto di
una differenziazione non possono essere assolutamente presenti nel
programma. Le istruzioni corrispondono a una posizione media e a un
tempo medio ed è il contesto esterno alla cellula che, in ultima istan
za, determinerà la funzione e il tempo esatti della differenziazione.
Cosi, due programmi identici, ma soggetti ad ambienti esterni diversi,
daranno origine a organismi, certamente assai vicini, ma leggermente
modificati nel loro sviluppo, al fine di tener conto delle condizioni cir
costanti. Questo tipo di utilizzazione di fluttuazioni, che corrisponde
a una rappresentazione particolare di un contesto, integrata nel pro
gramma genetico, sarà ancor meglio visibile nella parte dell'esposizio
ne che seguirà. Ci occuperemo, infatti, più avanti, della maniera in cui
si forma un individuo, dalla nascita alla morte, anche dopo la fine del
la sua differenziazione in cellule di classi particolari, in modo da con
servare al meglio la sua omeostasi in un contesto che cambia.
Abbiamo visto, a livello ontogenetico, una prima limitazione del
programma: la sua finitudine non gli permette proprio di specificare
tutto e diventa rapidamente impossibile che tutto sia direttamente
programmato. Ora, nel corso della filogenesi, si osservano ramifica-
181
zioni, corrispondenti a organismi pluricellulari, le quali sembrano sem
pre più complesse, quanto alla molteplicità delle interazioni che pos
sono assumere. Deve dunque comparire, a partire da un certo livello
di complessità, un procedimento che permetta a ciascun individuo di
integrare il più gran numero possibile di interazioni con l'esterno e
ciò in maniera stabile. Proprio a questo fenomeno di modificazione
sempre collegata a un comportamento omeostatico, riserviamo qui il
nome di epigenesi.
Tra i sistemi cellulari differenziati, capaci di mantenere al meglio
l'omeostasi di un individuo, il sistema nervoso è privilegiato nel senso
che si tratta di un sistema puramente regolatore, la cui funzione è
quella di integrare i dati raccolti da certe serie di sistemi ricettori
specializzati (gli organi sensoriali e vari sistemi di misura del meta
bolismo) e di trasformarli in azioni appropriate (organi motori, co
mandi ormonali del metabolismo). Questo sistema, apparso assai pre
sto nel corso dell'evoluzione, è il luogo delle trasformazioni più im
portanti, parallele all'apprendimento. Per questa ragione studieremo,
nella discussione che segue, un certo numero di meccanismi, che per
mettono di mettere a nudo lo sviluppo epigenetico, concomitante con
l'apprendimento, nel sistema nervoso.
terminazione
assonale
assone
l
di emergenza
T t
emissione dell'effetto
potenziale d'azione farmacologico
182
Il sistema nervoso: descrizione sommaria
183
sarà o no creato al punto da cui inizia l'assone. Sono queste le pro
prietà di integrazione del neurone. Tanto per dare un ordine di gran
dezza, ecco qui alcuni valori. Un neurone medio del cervello umano
riceve circa 1 0 .000 afferenze. Di conseguenza, il potere di integrazio
ne di ciascun neurone rappresenta la regola di composizione che per
mette, in funzione delle entrate di ciascuna delle 1 0 .000 sinapsi (en
trate che si possono grossolanamente rappresentare con l o O a se
conda che ricevano o no un impulso), di creare o no un influsso ner
voso ( l o O), che si trasmetterà alla terminazione assonale e, dunque,
ai neuroni successivi. La connettività della rete nervosa è dunque gi
gantesca. Nel cervello umano si contano probabilmente più di 1 014
sinapsi: è chiarissimo che una tale connettività, in una rete la cui ana
tomia, come si sa per altro verso, non è semplice, non può essere to
talmente specificata nel programma genetico. Nella microscopica or
ganizzazione delle reti nervose deve dunque esistere una certa varia
bilità, una frangia di fluttuazione da un individuo all'altro.
Quel che tuttavia colpisce l'osservazione attenta è la grande somi
glianza, da un individuo all'altro, nell'organizzazione anatomica e per
sino nei modi della sua messa a punto. D'altra parte, l'esistenza di nu
merosi mutanti (varianti ereditarie) del sistema nervoso conferma la
importanza fondamentale della norma genetica. Le descrizioni che ri
levavano essenzialmente le analogie, le invarianze, da un individuo
all'altro hanno a lungo prevalso. Esse danno un'immagine rigida della
struttura e del funzionamento del sistema nervoso, un'immagine che
tuttavia non appariva al momento dei primi studi sull'anatomia mi
croscopica di tale sistema.
Si può ricordare, a questo proposito, che nel 1 895 Freud, nel suo
Progetto di una psicologia scientifica,4 si era interrogato a lungo sul
ruolo dinamico dei neuroni in relazione alla memoria e all'apprendi
mento. La sua idea, che non era chiara dal punto di vista dell'anatomia
microscopica, è stata ripresa in tutti i concetti di Bahnung e di geogra
fia topica dell'inconscio. Freud supponeva che, oltre al ruolo della
connettività generale e dell'integrazione, esistesse una possibilità di
modificazione delle sinapsi, la quale implicasse che certi percorsi, all'in
terno di una rete organizzata di neuroni, potessero essere utilizzati
preferenzialmente rispetto ad altri, dopo che l'individuo fosse stato
soggetto a tale o talaltra esperienza (eventualmente ripetuta). Questa
idea, molto concretamente biologica all'origine, è certamente una delle
chiavi fondamentali che hanno permesso a Freud di elaborare la sua
teoria dell'inconscio.
4 ar. S. Freud, Opere (1892-1899), Boringhieri, Torino, 1968, pp. 193-284 (n.d.t.).
184
Premesse biologiche: deprivazione sensoriale e tempo critico
185
nero completo (per esempio in seguito alla sutura di una palpebra).
Dopo alcune settimane viene tolta la sutura ed è chiaro allora che il
gatto si comporta come un animale cieco da un occhio. Per altro verso,
l'anatomia e il funzionamento della sua corteccia visiva, dal lato op
posto a quello della sutura, sono profondamente alterati. Questa in
fermità appare del tutto irreversibile. Al contrario, la stessa esperien
za, fatta su un animale adulto anche per un tempo assai più lungo,
porta con sé certamente, al momento del ritorno alla visione normale,
alcune difficoltà di riadattamento, ma ben presto l'animale recupera
una visione non distinguibile dalla sua visione precedente. Si osserva
quindi che esiste un tempo critico, dopo il quale non è più possibile
lo stabilirsi di un sistema visivo corretto.
Tutti gli esperimenti di deprivazione sensoriale, analoghi a quelli
che abbiamo or ora descritto, conducono alla medesima osservazione
di una degenerazione durante un periodo critico, nel quale non è for
nito al giovane animale un contesto appropriato. Altri esperimenti
meno grossolani permettono di scoprire quali sono le caratteristiche
del contesto, pertinenti per il corretto stabilirsi della visione. È pure
possibile fare un'analisi dettagliata della maniera in cui avviene l'inte
grazione dei diversi influssi nervosi al livello delle cellule della cortec
cia visiva. Nel cervello del gattino con la palpebra suturata, l'anato
mia della corteccia visiva è fortemente cambiata: le dendriti dei neu
roni sono ampiamente degenerate e manca un numero considerevole
di sinapsi. La connettività è divenuta debolissima, quasi inesistente e
molto disimmetrica: la zona corticale corrispondente all'occhio sutu
rato è degenerata e questa degenerazione riguarda pure, ma in misura
minore, la zona corticale corrispondente all'altro occhio.
Si sa che, in un dominio del tutto diverso, esiste per l'uomo un
tempo critico, del tutto simile e corrispondente a una degenerazione.
Stando ai casi eccezionali di bambini selvatici, sembra che si sia inca
paci di apprendere un linguaggio qualsiasi, se non si sia già appresa
una lingua prima dei sette anni. Ritroviamo ancora una volta la no
zione fondamentale di tempo critico. Quanto alla degenerazione, essa
si osserva nella perdita delle capacità uditive in fanciulli i quali, alle
vati in un certo contesto linguistico, perdono a poco a poco l'attitudine
a riconoscere certi suoni che potevano discernere da piccoli.
Pare, così, che, se si vuole descrivere formalmente la genesi della
identità al livello del cervello dell'uomo, si debba tener conto di due
caratteristiche: della connettività della rete nervosa, da una parte, e,
dall'altra, della sua evoluzione nel corso del tempo.
186
Descrizione formale schematica 5
187
dove N, L, S e D rappresentano quattro stati estremi possibili. N è lo
stato « nulla », che rappresenta la sinapsi, prima della sua formazio
ne: questo stato permette di assumere la crescita del sistema nervoso
e la sintesi di nuove connessioni. L è lo stato intermedio, labile, della
sinapsi a partire da quando comincia a funzionare : seguendo il suo
funzionamento, questa si evolve allora verso S, stato stabile, o dege
nera in D, secondo le regole prescritte dal programma. Il funziona
mento deriva evidentemente dagli stimoli che arrivano, ai sistemi pe
riferici, del sistema nervoso centrale. Ciononostante, siccome è ben
chiaro che le proprietà globali non possono essere riconosciute dapper
tutto nello stesso tempo, la regola di evoluzione è strettamente locale.
I neuroni funzionano quindi come degli automi locali, che si con
nettono e si deconnettono in funzione del modo in cui ricevono infor
mazioni dai loro immediati vicini. La degenerazione introduce un pro
cedimento irreversibile (lo stesso fa, del resto, la crescita), che per
mette, dunque, di fissare un'impronta della maniera in cui è avvenuta
l'evoluzione del funzionamento di tale o talaltra connessione fino al
momento della degenerazione. In certi casi la stabilizzazione è anche
essa irreversibile, in altri non lo è e necessita di un funzionamento
minimo per sussistere.
Vediamo cosl che si ha una specificazione della rete ad opera di
un meccanismo selettivo che, per ciascun contesto, modellerà all'im
magine di questo una realizzazione particolare.
Durante il periodo di maturazione individuale, l'ambiente ester
no scolpisce un po' alla volta la massa cerebrale, fino a che non sia
ottenuta una risposta stabile o adattata. Da adulto, il sistema reagirà
allo stesso modo, ogni volta che sarà presente una certa classe di
stimoli.
È possibile studiare l'evoluzione della resa di un sistema che abbia
proprietà del tipo descritto. All'inizio detto sistema contiene un in
sieme di connessioni, funzionali ma instabili. Immaginiamo che lo si
sottoponga a multimessaggi di un tipo determinato T: l'influsso ner
voso si ripartirà, nella rete, secondo una legge dipendente dalla strut
tura anatomica, dalle regole di integrazione e, naturalmente, dal tipo
di messaggio in entrata. Localmente, allora, ciascuna sinapsi sarà in
188
relazione - una relazione molto indiretta - con l'entrata e potrà quin
di ritenere una caratteristica di questo messaggio. All'uscita della rete,
i messaggi saranno di un tipo T' (t) secondo la funzione tempo. Si può,
però, agevolmente immaginare che, se il programma neuronico vi si
presta, T' (t) divenga, a partire da un certo momento, indipendente
dal tempo. Questo significa che la rete è, allora, specificata in modo
tale che si comporta come un automa, il quale associa un messaggio in
uscita T' a un messaggio in entrata T. Il sistema è allora stazionario
e non può più modificarsi, se non nel senso di una più grande degene
razione. Ritroviamo, dunque, tanto il tempo critico quanto una certa
forma di apprendimento. Questa competenza T-T', infatti, si può con
siderare come l'acquisizione di una proprietà associativa stabile.
Notiamo anche che il tempo critico, quando ci si dia un program
ma neuronico con la sua rete iniziale e le sue regole di integrazione e
di evoluzione locali, è molto semplicemente il tempo a partire dal
quale il sistema è specificato e dà luogo soltanto a messaggi di tipo
stazionario. Il tempo critico non è dunque un dato genetico primario
(non è dato a priori nel programma), è un dato generico secondario
che appare necessariamente (peraltro con una certa variabilità indi
viduale) nel corso dell'evoluzione globale, cioè nel corso della realiz
zazione del programma neuronico.
L'innato e l'acquisito
Per ciascuna rete, cwe per ciascun programma neuronico, si ha,
così, una realizzazione particolare in ciascun individuo. Il programma
è la parte innata del sistema (definita dal programma genetico e dal
suo svolgimento ontogenetico), mentre la realizzazione individuale è
un compromesso particolare tra l'innato e l 'acquisito, un compromes
so ottenuto grazie all'interazione con il contesto e, dunque, non tra
smissibile ereditariamente.
Questa descrizione sommaria (e semplificata ad oltranza) riconcilia
di fatto due posizioni estreme, sulle quali si insiste particolarmente
non soltanto a proposito del sistema nervoso, ma anche a proposito di
qualsiasi teoria biologica. Si immagina grossolanamente che il program
ma sia rigido e specifichi senza fluttuazioni il suo proprio svolgimento
temporale. Il che dà luogo a teorie strettamente innatiste. Esistono, al
contrario, teorie che negano qualsiasi possibilità di un programma e
riducono l'innato al semplice stato iniziale, supponendo che il risultato
individuale non sia nient'altro che un'impronta del contesto, senza che
ci sia una misura comune (teorica) da un individuo all'altro, e suppo
nendo altresl che l'analogia provenga esclusivamente dal fatto che gli
ambienti esterni sono quasi sempre simili.
189
Noi abbiamo supposto qui l'esistenza di un programma neuronico
innato (che specifica in particolare la dinamica dell'evoluzione del si
stema nervoso) . Tale ipotesi implica peraltro una variabilità (eredita
ria), una variabilità importante e perfettamente confermata, in parti
colare negli animali, dall'esistenza di numerosi mutanti del sistema
nervoso. L'acquisito è l'immagine del contesto, che ha condotto alla
realizzazione di un programma individuale.
È possibile far qui menzione dal fatto che si ritrova facilmente
l'origine delle appassionate discussioni tra psicanalisti e psichiatri:
nessun dubbio sul fatto che la norma genetica innata possa condurre,
forse senza appello, a realizzazioni alienate, ma pure nessun dubbio
sul fatto che certe forme di contesto possano condurre - come, per
esempio, nel caso della deprivazione sensoriale - a realizzazioni altret
tanto alienate.
Di fronte ad un caso patologico, dunque, può risultare difficile sa
pere se la patologia viene soltanto dal programma, come affermano
alcuni, o soltanto dall'acquisito, come vogliono altri. Comunque stia
no le cose, si può sempre immaginare che due programmi diversi ab
biano due realizzazioni identiche.
190
matizzata, cosa si produce dopo il completo arresto dell'introduzio
ne di messaggi di tipo T? lntuitivamente si pensa che, se esiste la
possibilità di ritorno verso lo stato labile, un gran numero di sinapsi,
che funzionano in presenza del messaggio di tipo T, degenereranno
e che la competenza regredirà e poi scomparirà. Possiamo allora im
maginare che la funzione del sogno è precisamente quella di produrre
un percorrimento sistematico dei luoghi del cervello, modificati nel
corso dello sviluppo epigenetico. Allora, anche se i messaggi di tipo
T non sono mai più presenti nel contesto, il sogno permetterà di con
servare, grazie a un meccanismo appropriato, le sinapsi che corrispon
dono a questo messaggio.
Più precisamente, un sistema di questo genere (che possiede la
proprietà del ritorno S ---+ L) suppone evidentemente un funzionamen
to periodico : è chiaro che, degli avvenimenti riposti nella memoria,
quelli che corrispondono a una traccia vecchissima possono avere tar
dissimo, nella vita individuale, un interesse, senza che, comunque,
nel frattempo siano stati incontrati di nuovo. La loro scomparsa, allora,
sarebbe pregiudizievole al mantenimento dell'omeostasi individuale.
Si può dunque immaginare che, nel corso dell'evoluzione, sia ap
parso un sistema di stimolazione autonoma di certe zone del cervello.
Tale sistema sarebbe, da una parte, periodico - è, del resto, ciò che si
osserva per il sogno, che ha norma genetica rigida in quanto l'organiz
zazione della periodicità è ereditaria e, dall'altra, sarebbe associato
-
191
una frazione minima dopo i quindici anni. I primi quindici e, soprat
tutto, i primi sei anni, dunque, sono, nella nostra ipotesi, assoluta
mente determinanti per la formazione del sistema nervoso dell'adulto
con tutte le sue caratteristiche individuali. D'altra parte, quel che è ri
tenuto del contesto non può essere qualsiasi cosa. Ne risultano due
constatazioni di ordine pedagogico.
Innanzitutto, se c'è una variabilità nei programmi, allora non c'è
alcuna ragione che un contesto di un certo tipo, stabilito - ad esem
pio - come un modello universale, nazionale, gratuito, laico e obbli
gatorio, abbia lo stesso valore per tutti. È assolutamente certo che que
sto tipo di insegnamento favorirà una classe di programmi neuronici
rispetto alle altre e ciò in maniera sistematica. Certamente, dunque, ci
sarebbero a priori molte più ragioni per proporre un certo numero di
sistemi scolari diversi, all'interno dei quali esistesse una grande liber
tà, una libertà tale che permettesse agli individui di scegliere tale o
talaltro tipo di insegnamento, e si hanno buone ragioni per credere
che gli individui sceglierebbero preferibilmente il modo meglio adatto
al proprio programma neuronico (semplicemente perché è quello che
fornirebbe il maggior numero di possibilità di interazioni stabili con
l'ambiente esterno) . Con un altissimo grado di certezza, ciò sarebbe
infinitamente più vantaggioso dell'imposizione sistematica di un unico
modello, che conviene forse ad alcuni ma non a tutti. Siamo lontani
- conveniamone - da ciò che esiste in Francia. Jules Ferry è colpevole
di due errori notevoli : la colonizzazione e l'insegnamento centra
lizzato.
Inoltre, abbiamo notato che il tempo è cruciale, in quanto le pos
sibilità di realizzazione ottimale del programma neuronico sono limi
tate nel tempo. Oltre un certo tempo critico, quando la struttura ce
rebrale è specificata, non si può più apprendere se non per degenera
zione di questo sistema. Al contrario, la maggior parte dell'appren
dimento avviene all'interno di una rete di crescita, in cui nuove con
nessioni vengono continuamente a sostituire quelle che hanno dege
nerato: durante questo tempo, la selezione non può essere se non a
beneficio di una maggiore specificazione della rete. Dopo i quindici
anni, il numero delle nuove connessioni si assottiglia moltissimo e
lascia una possibilità, ma limitata, di nuovi apprendimenti. Si capisce
bene, allora, come si dovrebbero imparare, per esempio, le lingue
prima dei dodici anni e non dopo, come è sfortunatamente d'uso.
Questo mi sembra mostrare come un certo numero di dati biolo
gici incontestabili dovrebbero essere presi in considerazione al fine di
stabilire una pedagogia appropriata.
1 92
Ritorno al figlio: la complessità
193
Immaginiamo, infatti, due identiche strutture St (certo si potreb
bero considerare strutture diverse, ma con strutture identiche l'imma
gine colpisce particolarmente) e confrontiamo le seguenti situazioni.
Anzitutto, le strutture sono connesse tra loro: l'insieme si comporta
come la somma di queste strutture senza differenza qualitativa. Se si
introducono allora delle connessioni appropriate, si produce una nuo
va struttura S2 , che può avere delle proprietà totalmente irriducibili a
quelle della struttura di partenza. Nel primo caso, la ridondanza ap
porta una certa stabilità rispetto all'esistenza di una sola struttura. Nel
secondo si ha la creazione di un ordine di complessità diverso. Si può
vedere qualcosa di analogo, per esempio, nella comune elettronica:
una o due connessioni abilmente stabilite tra due transistor o due
circuiti integrati, per esempio, permettono di ottenere un amplifica
tore, le cui proprietà qualitative sono irriducibili a quelle della som
ma dei componenti, non connessi in maniera appropriata.
Le proprietà dell'apprendimento dell'adulto sono dovute a questo
fenomeno: il cervello dell'adulto è già altamente organizzato in strut
ture ricchissime e il fatto di stabilire delle connessioni tra queste potrà
bastare a ciascuna nuova formazione per accrescere qualitativamente
la complessità del sistema e per divenire conseguentemente adatta a
compiti infinitamente più complicati. Ciò comunque si fonda, ben in
teso, in maniera essenziale sulla preorganizzazione acquisita durante
l'infanzia: le limitazioni da questo lato sono cruciali.
Notiamo che il procedimento di elaborazione di strutture com
plesse per formazione di legamenti appropriati tra strutture più sem
plici spiega l'apparizione di un'orientazione nell'evoluzione dei siste
mi successivi: i figli possono avere delle attitudini qualitative che dif
feriscono da quelle dei loro padri. Nella misura in cui, comunque,
nulla permette di preveder/a, questa orientazione non è che il risul
tato di una selezione, all'interno di un gran numero in genere senza
effetto, dei legamenti che hanno effettivamente accresciuto le proprietà
di complessità del nuovo sistema.
Osservazioni linguistiche
194
tico, che permette la formazione di una identità individuale in virtù
di uno sviluppo epigenetico. Si osservano un certo numero di proprie
tà di questo programma e, tra le altre, quella dell'esistenza tanto di
norme anatomiche quanto di norme di sviluppo (del tipo dell'esisten
za del tempo critico) . Si sa che esiste questo tempo, dopo il quale
l'apprendimento delle strutture linguistiche diventa impossibile. Si
è anche in grado di localizzare un buon numero di strutture anatomi
che legate al linguaggio (acquisizione ed espressione).
Tutto concorre a mettere l'accento sull'importanza fondamentale
dell'innato nello sviluppo delle strutture sintattiche. È, comunque, so
lo in un dominio ristretto - quello della fonologia e, più precisamente,
delle relazioni tra i suoni fonetici e l'udito - che le norme genetiche
sono meglio conosciute e registrate.
Le scuole linguistiche, derivate dalle descrizioni formali di Chom
sky, insistono attualmente sull'innatezza delle competenze sintattiche
e propongono, a livello formale, una famiglia di regole di trasforma
zioni, che rappresentano in maniera adeguata, almeno fino a prova
contraria, la genesi delle frasi in tutte le lingue. Il ruolo della seman
tica era fino a pochissimo tempo fa più o meno trascurato. È possi
bile anche in questo campo trovare regole trasformazionali e conget
turare cosl un'importanza primordiale dell'innato. Ciononostante, la
semantica è il riflesso privilegiato della storia culturale e della storia
individuale. Essa racconta, quindi, la memoria di un apprendimento,
quello dell'ambiente esterno, che concorre alla formazione epigene
tica dell'identità individuale. Tutto qui è contesto.
A secondo del livello di analisi, si può trovare una lingua, la più
povera e comune a tutti: per esempio, in uno stato. A un livello un
po' più ricco semanticamente si può riconoscere un dialetto. Se si con
tinua ad accrescere il senso (e, dunque, a restringere il suo luogo di
applicazione), si trovano particolarità di espressioni e di intonazioni,
che riguardano una piccola comunità, poi compare un linguaggio fa
miliare con le sue astuzie e le sue allusioni e, infine, appare il senso
vero e proprio per colui che parla, il senso individuale e incomunica
bile, che potrà condurre, impiegato come tale, allo sforzo poetico, nel
quale l'incomunicabile diviene il termine di scambio.
In tal modo, il poeta potrà giuocare sul livello puramente seman
tico della lingua come uno dei materiali del suo tentativo di raggiun
gere l'altro. Il mettere in relazione queste strutture incastrate, da noi
brevemente ricordate, permette - grazie al giuoco automatico che crea,
come abbiamo visto, la complessità - di produrre un tutto qualitativa
mente superiore (per complessità) ai suoi elementi, un tutto che talvol
ta per caso, dialoga. Questo faceva dire a Rimbaud: « Io sono un
Altro ».
195
Discussione
196
scuso del fatto che le mie letture non siano né molto numerose né
molto precise. Mi turba, però, questa idea, da me incontrata in certi
articoli di biologia, secondo la quale nel corpo umano ci sono degli
organismi, forse del tutto estranei, gli organelli credo, captati nel
corso dell'evoluzione, cosicché l'unità dell'individuo non si ridurreb
be soltanto a una società di cellule (il che è pur venuto fuori dalla
sua esposizione), in quanto, tra le cellule, si avrebbero prigionieri di
altre " razze " o di altre " civiltà ".
197
no localmente deterministi). Inversamente, e ciò è molto più classico,
si possono trovare sistemi aventi comportamenti identici e strutture
diverse.
Ciò che più colpisce è che, se si guarda semplicemente l'anatomia
del sistema in un certo momento, non si può in effetti predire, a par
tire da un certo grado di complessità (e cosl che vorrei definire la com
plessità), quale sarà il comportamento ulteriore, a meno che non si
abbiano, tutte e tre insieme, queste funzioni. Colpisce, cioè, che siano
necessari il comportamento in quell'istante, il funzionamento interno
e la struttura. Solo in questo caso si può predire. Se, però, si ha sol
tanto la struttura - per esempio, lo studio sincronico (per il sistema
nervoso questo è evidentemente molto più ridotto di uno studio sin
cronico del tipo di quello che fanno Loro) - allora uno studio sincroni
co non basterebbe, a partire da un certo grado di complessità, a pre
dire il comportamento. Ciò vuol dire che si potrebbe invece definire
la complessità come la seguente proprietà: dati un programma e una
realizzazione, si possono paragonare le ulteriori evoluzioni in contesti
diversi; a partire da un certo momento un sistema sarà tanto più com
plesso quanto più le classi di funzioni, che corrispondono alle strut
ture e ai comportamenti ottenuti, saranno diverse. Si può immaginare
che l'identità si sviluppi a livello della complessità e che sia effettiva
mente la ragion d'essere del libero arbitrio, inteso come percorrimen
to interno degli stati del sistema, ammesso che si voglia ancora par
lare di libero arbitrio. Qui, però, il libero arbitrio sembra essere ve
ramente scomparso, salvo a persistere nel fatto che è impossibile ad
ogni istante determinare ciascuno stato interno del sistema nervoso:
di conseguenza, il sentimento di libero arbitrio esiste certamente. Si
può dunque definire il libero arbitrio come il sentimento interno della
complessità, come il fatto, cioè, di avere una certa latitudine, apparen
temente arbitraria, nei comportamenti. Ciò, però, è interamente colle
gato alla maniera in cui il contesto ha agito, nel corso della forma
zione dell'individuo, ed è, dunque, un riflesso della lingua, è un ri
flesso della società.
198
essere profondamente selettiva, cioè che quel che è fornito è un pro
gramma. Quando questo programma è eseguito, compare una fluttua
zione con le leggi del caso e quel che fa il contesto è selezionare, tra la
frangia fluttuante, quanto gli permette di interagire in maniera stabile.
Non v'è dunque, di conseguenza, nulla in questa teoria che predica
che ci sia nel sistema la minima direzione, la minima orientazione.
Quel che si potrebbe eventualmente dire, per definire le orientazioni,
sarebbe legato all'idea di complessità. Lo stesso vale per il fatto che,
sistematicamente, un sistema con una data struttura, tenderà sponta
neamente a tentare di interagire semplicemente per shok. Questa in
terazione potrà produrre, ogni volta che apporta un vantaggio qual
siasi oppure, semplicemente, non è nociva, qualcosa di stabile, che sarà
qualitativamente diverso e di un ordine di complessità superiore. Si
ha l'impressione che la forza, che guida l'evoluzione, sia una specie di
tentativo spontaneo di organizzazione.
Questo è già vero per il sistema unicellulare: in partenza, al mo
mento della decisione, esiste un contatto destinato a sparire e c'è, co
me ho detto all'inizio, un momento in cui questo contatto sarà assun
to nel programma, perché è uno dei dati dell'esterno. Esser assunto
significa creare qualcosa di nuovo: un sistema bicellulare, che abbia
assunto il contatto, dà qualcosa di qualitativamente superiore. E si
crea maggiore complessità semplicemente per il fatto che i sistemi in
teragiscono spontaneamente: l'evoluzione dei sistemi viventi tende a
separare la loro struttura dal loro comportamento.
199
]ean-Marie Benoist: Sono colpito dall'elegante maniera in cui tu
ridialettizzi l'alternativa tra innato e acquisito e mi domandavo, innan
zitutto, se tu vedevi un possibile accostamento alla maniera in cui Pia
get ha formulato il problema nella sua teoria dell'apprendimento. Del
resto, c'è un altro accostamento, che mi viene in mente: penso alla
teoria di Rousseau nel Discorso sull'origine e i fondamenti della disu
guaglianza tra gli uomini. Può parere un accostamento un po' ricer
cato o lontano, ma io credo che, nel Discorso sull'origine e i fonda
menti della disuguaglianza tra gli uomini c'è una teoria degli accidenti
e dell'epigenesi, che si può del resto riavvicinare alla teoria dello svi
luppo dell'individuo nell'Emilio. E quanto tu dicevi a proposito del
l'apprendimento ... che avviene epigeneticamente. . . potrebbe essere let
to tra le righe del mito genetico, enunciato da Rousseau nel secondo
discorso e corrispondente a una teoria degli accidenti senza teleologia,
da una parte, e, dall'altra, a un programma iniziale, alla pietà, in par
tenza non attualizzata ma suscettibile di « buona » realizzazione (lo
amor di sé) o di « cattiva » realizzazione (l'amor proprio) .
200
distinzione tra sintassi e semantica: Lei sembrava dare alla semantica
un ruolo simile a quello del contesto e alla sintassi un ruolo simile a
quello dello sviluppo. Se ciò è vero, questa semantica avrebbe una
struttura?
201
parola molto buona. Per me, però, essa vuoi dire « sistema organizza
to di istruzioni, cioè sistema organizzato di possibilità di espressioni ».
202
mento, se si prende un gatto della stessa età, posto in un contesto
qualsiasi, purché non interamente aleatorio (caso per il quale non si
trova giustamente risposta), e si osserva la risposta delle sue cellule
semplici, si potrà metterlo in campagna o in qualsiasi altro luogo, ma
si vedrà comunque che le cellule visive rispondono a orientazioni, a
tutta la famiglia di orientazioni possibili. In ogni caso, però, le cel
lule visive risponderanno a sbarre orientate. Quel che è stato sottratto
al contesto, dunque, è la correlazione che esprime un'orientazione.
Basta soltanto che il contesto possieda questo tipo di correlazione e
di fatto la possiede sempre, perché esistono gli alberi, perché si può
sempre prendere un raggio di curvatura, che si estrapola da una linea
retta. In un contesto normale esiste sempre questo tipo di correlazione.
Se poi si fanno vedere ad un giovane gatto soltanto punti picco
lissimi, in maniera che non vi sia accessibilità al raggio di curvatura,
allora le cellule degenerano tutte e non rispondono ad alcuna orienta
zione. Ciò indica che qualcosa può essere sottratto alla struttura del
contesto. In genere, però, si tratta di una correlazione molto più ge
nerale di una orientazione forzata. Una verticale contiene molta infor
mazione: non solo l'informazione di « correlazione lineare », ma an
che l'informazione di « orientazione precisa » (sostanzialmente rispet
to alla terra) . Si sottrae qualcosa e questo basta a creare forme. Se tu
combini delle sbarre, puoi produrre facilmente qualsiasi forma. Ed è
cosl che è costituita la corteccia visiva. Si può cioè provare a costruire
l'automa elementare, capace di apprendere a vedere sbarre orientate
arbitrarie.
Prendi una cellula, sensibile in maniera praticamente isotropa, la
quale ha semplicemente delle dendriti. La ripartizione delle connes
sioni è fatta più o meno a caso. Il programma non può precisare stret
tamente la posizione di ciascuna. Questa ripartizione è tale che ini
zialmente si avrà la sensibilità a certe forme grossolane, rispetto alle
quali la selezione si sceglierà un'orientazione preferenziale, perché, per
esempio, la forma iniziale sarà più o meno allungata. Il funzionamento
(cioè il fatto di vedere) farà degenerare fino a quando sussista, da
sola, un'unica orientazione. È a questo che J. P. Changeux, P. Cour
rège e io lavoriamo.
203
Antoine Danchin: Per Chomsky, queste strutture sono completa
mente innate. Il parallelo tuttavia è difficile da stabilire, perché, nel
caso dei nostri sistemi, la nostra conoscenza attuale è fin troppo vaga.
Malgrado tutto, però, gente come Chomsky fa le osservazioni più pre
cise possibili, cercando di estrarre, da quel po' che c'è, la quintessen
za nella eventuale speranza di ritrovare le proprietà osservate diretta
mente a livello del sistema nervoso. Anche se si tratta di un'utopia, è
certamente un'utopia interessantissima. Si tratta di due maniere di
agire diverse. Se, però, il modello è troppo vago, si arriva a dire quasi
qualsiasi cosa.
204
za, l'apporto dell'esterno è selezionato dall'individuo stesso. Quando
si presentano gli stimoli visivi al gattino troppo presto (prima di tre
settimane di vita) e gli si sutura poi, tra la terza e la settima settimana
di vita, la pupilla, il gattino resterà comunque cieco, perché è troppo
presto. Le norme interne sono, dunque, importantissime. Bisognerebbe
conoscere l'insieme delle norme interne, per sapere non solo il tipo di
direzione che ci si può permettere, ma anche il momento in cui tale
tipo è presentato. È per questo che penso che, nelle società, certe fa
miglie di sistemi siano selezionate sistematicamente. Bisognerebbe pu
re vedere se si può parlare di riproduzione delle società - il che non
è sicuro. Un certo tipo di riproduzione certamente appare. Non si vede
bene, però dove sarebbe il programma: sarebbe più difficile da imma
ginare che per un essere vivente. A questo livello, ci si domanda se il
sistema delle società non sia qualcosa che funzioni, in maniera conti
nua, con una certa fluttuazione, la quale permetta ogni volta di nuovo
di integrare una nuova interazione che si sia presentata ... benché... in
effetti . . . quando voi etnologi trovate una società, la trovate sempre
allo stato perfetto (probabilmente ora non è più cosl, vero?).
205
diacroniche (tu hai distinto due tipi di diacronia: diacronia costituente
e diacronia degenerante) e semantica? I seguenti tre punti, infatti, mi
sembrano legati: una semantizzazione che agisce contro un privilegio
della sintassi, una diacronia che lotta contro il partito preso sincronico
e una diacronia come luogo di attualizzazione di fluttuazioni " pro
grammate e costituite come engrammi ".
206
mente interessantissimo e certamente anche necessario per descrivere
il sistema del linguaggio. È un po' un approccio identico a quello di
Piaget, il quale studia il programma e la sua espressione a livello della
quintessenza. Non per questo, però, bisogna volere rigidamente che il
programma sia confuso con la sua realizzazione. Esiste necessariamen
te una certa fluttuazione, che fa parte del sistema e che gli permette
di costruirsi. Si può di fatto concepire che una lingua si evolva. A mio
avviso, una lingua che cercasse di evolversi diverrebbe una lingua
morta. Perché una lingua si evolva sistematicamente, può esserci sol
tanto integrazione sistematica sia di nuove parole sia anche, eventual
mente, di nuove regole. Pure la lingua si arricchisce per complessità.
Una lingua, eventualmente, ne integra un'altra. I Mossi sono ancora
una volta, chiaramente, un esempio, in quanto si tratta di una società
moagha (tale termine indica l'uomo mossi e mossi vuol dire « metic
cio » in moore). Si tratta di un'etnìa dal ricchissimo passato culturale,
la quale ha integrato tutta una serie di altre etnle.6 Questo fa sl che,
dal punto di vista dell'organizzazione sociale, dal punto di vista delle
regole del rapporto con la terra e, probabilmente, dal punto di vista
delle regole del linguaggio (pensiamo alle storie a morali multiple che
si trovano in non poche zone dell'Africa), la società attuale è assai
strutturata e complessa ed è certamente un po' simile agli organismi
che abbiano integrato, con successive assimilazioni di sistemi già esi
stenti, organelli. In questo caso, non si può davvero parlare di ripro
duzione sociale.
207
mento tra il programma e il contesto. Esistono certe regole date dalla
sintassi e da certi approcci semantici. Esistono poi, per ciascun indi
viduo, certe classi di comportamento. Si osserva una realizzazione par
ticolare che fornisce una semantica particolare. Ciò dipende dal modo
in cui si considera l'identità individuale. Si tratta dell'individuo calato
nella sua famiglia ? Dell'individuo calato in un certo gruppo? Dell'in
dividuo calato in un certo stato? Ogni volta, si tratta di livelli diversi.
208
dall'insieme di due, oggetti qualitativamente diversi. Quel che infatti
succede è che, nel corso dell'evoluzione, S1 incontra spessissimo S1,
non foss'altro perché i due programmi identici sono in crescita e,
dunque, si moltiplicano. L'incontro, in genere, non produce nulla. La
maggior parte delle frecce non danno nulla (in definitiva, la cosa dà
lo stesso che due volte S1). Di tanto in tanto, però, le frecce sono col
locate in tal modo che si produce qualcosa, che ha proprietà diverse,
e, se non sono nocive al sistema, queste proprietà saranno conservate
e stabilizzate. Formalmente si ha uno schema di questo genere:
209
Poco per volta, questi sistemi, che si riproducono un grandissimo nu
mero di volte, presentano un gran numero di mutazioni e, tra le pos
sibilità cosl a caso esplorate, esiste una nuova possibilità di interazio
ne, che potrà dare qualcosa di più ricco, per esempio una fusione: un
sistema ingloberà l'altro e si potrà trovare la nascita di un organello.
Riassumendo, non si fa altro che supporre che esista una frangia di
fluttuazione nella discendenza, nella quale si trovano momenti e luo
ghi, sedi di interazioni di tipo nuovo, le quali possono quindi conser
varsi o scomparire. A livello della filogenesi, si può rappresentare
questo fatto cosl (con un albero).8 Se si volesse darne, però, una rap
presentazione formale, allora la parte più importante del sistema (l'al
bero dell'evoluzione) sarebbe quella che è scomparsa. Non bisogne
rebbe, cioè, dimenticare che, quando si osserva l'evoluzione, le spe
cie che restano sono fatte del riflesso di quelle che sono scomparse
e che tutte quelle che sono scomparse presentano tutte le possibilità
di variabilità, cioè essenzialmente quella nascita (apparizione di forme
nuove) che è assolutamente fondamentale e che costituisce una rete
infinitamente più grande di quella che si vede realmente.
210
Il soggetto in processo: il linguaggio poetico
Julia Kristeva *
21 1
alle crisi delle strutture e delle istituzioni sociali: al momento del loro
mutamento, della loro evoluzione, della loro rivoluzione o del loro
smarrimento. Se, infatti, attraverso questa pratica significante e il suo
soggetto in processo che fanno il linguaggio poetico, il mutamento del
linguaggio e delle istituzioni trova il suo codice, d'altra parte la pratica
e il soggetto, di cui si tratta, stanno in equilibrio su un filo: il linguag
gio poetico, il solo linguaggio che consumi la trascendenza e la teologia
per sostenersi, il linguaggio poetico che, per sua stessa economia, è
nemico della religione con cognizione di causa, è toccato dalla psicosi
(per quel che riguarda il suo soggetto) e dal totalitarismo o dal fasci
smo (per quel che riguarda le istituzioni che esso implica o evoca).
Avrei potuto parlare di Maiakowski o di Artaud: parlerò di Louis
Ferdinand Céline.
Tenterò, infine, di tirare alcune conclusioni sulla possibilità di una
teoria dei sistemi significanti, intesa come un discorso analitico che
sia attento a queste crisi del senso, del soggetto e della struttura. E
ciò per due ragioni: per un verso, queste crisi, !ungi dall'essere degli
accidenti, costituiscono una verità della funzione significante e, con
seguentemente, del fatto sociale; per l'altro, posti in primo piano nel
l'attualità politica del XX secolo, i fenomeni, di cui io tratto attraver
so il linguaggio poetico, ma che possono prendere altre forme tanto
nella civiltà occidentale quanto in altre, non potrebbero restar fuori
dalle cosiddette scienze umane senza destar sospetti sulla loro etica.
Per finire, dunque, prenderò posizione in favore di una teoria anali
tica, dei sistemi e delle pratiche significanti, tale da cercare, nel feno
meno significante, la crisi o il processo del senso e del soggetto piut
tosto che la coerenza o l'identità di una struttura o di una moltepli
cità di strutture.
Senza risalire indietro fino al sapiente degli Stoici, garante, a un
tempo, della triade del segno e della proposizione condizionale indut
tiva, riprendiamo la complicità tra la concezione del linguaggio e quel
la del soggetto là dove Ernest Renan l'ha lasciata.
Tutti sanno dello scandalo che egli ha suscitato, negli spiriti del
XIX secolo, quando ha fatto di un discorso teologico quale quello dei
vangeli non un mito ma la storia di un uomo e di un popolo. Questo
capovolgimento del discorso teologico in discorso storico era reso pos
sibile grazie a uno strumento del quale Renan non ha cessato di lo
dare l'onnipotenza per lui scientifica: la filologia. Cosl come la pratica
no Renan oppure, per l'avestico, Burnouf, tanto per fare un esempio,
la @ologia incarna il comparativismo di Bopp o di Schleicher. Quale
che sia la differenza tra i comparativisti, alla ricerca delle leggi proprie
alle famiglie di lingue, e i @ologi, decifratori del senso di una lingua,
una stessa concezione li unisce: la concezione del linguaggio come
212
identità organica. Poco importa che questa identità organica si arti
coli in virtù di una legge che attraversa le lingue nazionali e storiche
per farne una famiglia cosl come la pensano i comparativisti (dr. le
leggi fonetiche di Grimm ) ovvero in virtù di un senso, uno e uno solo,
inscritto in un testo ancora indecifrato o il cui deciframento è conte
stabile così come la pensano i filologi. Nell'un caso e nell'altro questa
identità organica della legge o del senso implica che la lingua è tenuta
da un homo loquens nella storia. Come scrive Renan, un testo, per il
filologo, non ha che un solo e medesimo senso, se è vero che « lo svi
luppo filosofico e religioso dell'umanità » proviene da « una sorta di
necessità del controsenso �>.2
Più vicina, tra i comparativisti, all'oggettività della hegeliana
" coscienza di sé " ; incarnata, tra i filologi, in una singolarità, che;
per essere concreta, individuale o nazionale, non è priva di debiti nei
confronti di Hegel, la lingua è sempre un sistema, una identica " strut
tura ", è sempre un senso e, proprio per questo, implica necessaria
mente un soggetto (collettivo o individuale) per mostrare la sua storia.
Se è difficile seguire Renan quando afferma che il « razionalismo
è fondato dalla filologia », giacché è evidente che l'uno e l'altra si
implicano reciprocamente, non è, d'altra parte, meno evidente che la
ragione filologica si fondi sull'identità di un soggetto storico: un sog
getto in divenire. Perché? Perché, lungi dal sezionare la logica interna
del segno, della predicazione (cioè della grammatica della frase) o del
sillogismo (cioè della logica), come faceva la grammatica generale di
Port-Royal, la ragione comparativista e filologica, che Renan esempli
fica, considera l'unità significante (segno, frase, sillogismo) come un
dato inanalizzabile in sé.
Questa unità significante resta implicita alla descrizione che com
parativisti e filologi intraprenderanno delle leggi o dei testi. Si tratta
di descrizioni lineari, cioè unidimensionali (senza un'analisi dello spes
sore del segno, della problematica logica del senso, etc.), che però,
una volta effettuate nella loro tecnicità, restituiscono una identità, di
struttura (quella dei comparativisti) o di senso (quella dei filologi),
la quale rivela il presupposto iniziale della pratica propriamente lin
guistica sotto il tratto dell'ideologia di un popolo o di un individuo
eccezionale che assume la struttura o il senso. E questo soggetto-sup
porto delle leggi dei comparativisti o dell'analisi filologica, dato che
è inanalizzabile in sé (come il segno, la frase o il sillogismo, esso non
ha spessore, non ha economia), si presta al cambiamento, al passaggio,
cioè, da una legge a un'altra, da una struttura a un'altra o da un senso
213
a un altro, solo grazie al postulato del divenire: alla storia.
Nell'analisi di una funzione significante (cioè del linguaggio e di
ogni fenomeno " umano " e sociale) quel che è censurato al livello
della complessità semantica, ricompare sotto forma di divenire: lo
schiacciamento dello spessore che costituisce il segno, la frase e il sil
logismo (e, conseguentemente, il soggetto parlante) viene ripreso dal
la ragione storica. La riduzione della complessa economia significante
del soggetto parlante (pure intravista dai grammatici di Port-Royal)
introduce immancabilmente un " io " opaco che fa storia.
Cosi, la ragione filologica, fondatrice della storia, diviene per le
scienze del linguaggio un vicolo cieco, pur se ancora in Renan - e
attraverso molte contraddizioni - si trovano un apprezzamento della
grammatica generale, un appello alla costituzione di una linguistica
per una lingua isolata (alla maniera di Piil).ini) e perfino certe proposte,
straordinariamente moderne, preconizzanti lo studio di una crisi piut
tosto che di uno stato normale, oltre poi, per quel che concerne gli
studi semitici, a « quel delirio redatto in uno stile barbaro e indecifra
bile » che sono i testi gnostici dei cristiani di Saint-]ean.3
La ragione linguistica, che con Saussure dà il cambio alla ragione
filologica, fa la sua rivoluzione intervenendo precisamente sull'unità
costitutiva della lingua: la lingua non è un sistema e basta, essa è
un sistema di segni. Ciò apre in verticale il famoso giuoco tra signi
ficante e significato che, per un verso, permetterà alla linguistica di
aspirare alla formalizzazione (logica, matematica), ma, per l'altro, im
pedirà per sempre che si riduca una lingua o un testo a una legge o a
un senso.
La linguistica strutturale e il susseguente strutturalismo sembrano
esplorare questo spazio epistemologico, facendo a meno del soggetto
parlante. Però, osservando più da vicino, ci si accorge che il soggetto,
di cui ambedue fanno legittimamente a meno, altro non è che il sog
getto (individuale o collettivo) della ragione filologico-storica, di cui
ho più su parlato e in cui si è arenata la coscienza di sé hegeliana al
lorquando si è concretizzata, incarnata, in filologia e storia: tale sog
getto, di cui fanno a meno la linguistica e le scienze umane collegate,
è « quel misero tesoro che è l'identità personale ».4 Ne consegue che,
nella sfalsatura instaurata tra il significante e il significato, la quale
permette tanto la struttura quanto il giuoco di questa, si delinea un
soggetto dell'enunciazione il cui spazio la linguistica strutturale lascerà
in bianco. D'altra parte, proprio per averne mantenuto vuoto il posto,
la linguistica strutturale non ha potuto divenire una linguistica della
214
parole e del discorso: le è mancata una grammatica. Per passare dal
segno alla frase, infatti, bisognava riconoscere di non tenere più vuoto
il posto del soggetto.
La grammatica generativa, si sa, opererà questa ricostituzione,
traendo fuori dall'obllo la grammatica generale e il soggetto cartesiano
al fine di giustificare con esso le funzioni ricorsive, generative degli
alberi sintattici. Ma, di fatto, la grammatica generativa è un contri
buto, un'ammissione dell'oblio cui la linguistica strutturale ha con
dannato il soggetto dell'enunciazione, piuttosto che una nuova dottri
na: strutturale o generativa, la linguistica, da Saussure in poi, obbe
disce agli stessi presupposti, i quali, impliciti nella corrente struttura
lista e espliciti in quella generativista, si trovano tutti compresi nella
filosofia di Husserl. Io rinvio la linguistica moderna, e i modi di pen
siero che essa suole patrocinare nelle cosiddette scienze umane, a que
sto padre fondatore venuto da un altro dominio non certo per ragioni
congiunturali, sebbene queste non manchino. Cosl, Husserl è stato
invitato e discusso dai membri del Circolo di Praga. Cosl, Jakobson
riconosce esplicitamente in lui uno dei maestri di pensiero dei linguisti
post-saussuriani. Cosl, in America, parecchi epistemologi della gram
matica generativa riconoscono nella fenomenologia husserliana, più che
nella filosofia di Descartes, il fondamento della pratica generativista.
Si può però vedere in Husserl il fondamento della ragione linguistica
(strutturale o generativa) quando si consideri che, dopo la riduzione
della coscienza di sé hegeliana nell'identità filologica o storica, Husserl
ha magistralmente compreso e stabilito che ogni atto significante, in
quanto resta atto da chiarire a mezzo di una conoscenza, si fonda non
più sul " mio povero tesoro ", bensì sull'io trascendentale.
Se è vero che la scissione del segno saussuriano (significante/si
gnificato), non vista da Husserl, introduce anche la possibilità, fino ad
allora sconosciuta, di considerare la lingua come un giuoco aperto,
senza mai sutura, d'altra part� questa possibilità non è stata sfruttata
dal linguista Saussure se non nei problematicissimi Anagrammes. Que
sti ultimi, d'altronde, non avranno séguito in linguistica, ma hanno
dei contemporanei e dei successori in filosofia (la parola di Heidegger)
e in psicanalisi (il significante di Lacan), che precisamente ci permet
tono oggi, ad un tempo, di apprezzare e circoscrivere l'apporto della
linguistica fenomenologica a orizzonte husserliano. La linguistica strut
turale post-saussuriana, infatti, circoscrive sempre il significante, sia
pure immotivato, nelle figure di una significazione originalmente desti
nata a una comunicazione senza crepe, in figure parallele al significato
esplicito ovvero sfalsate rispetto a esso, ma sempre assoggettate alla
presenza inalterabile del senso e, per questo, tributarie della ragione
fenomenologica.
215
Non si potrebbe, dunque, riprendere la complicità tra concezione
del linguaggio e concezione del soggetto là dove Ernest Renan l 'ha
lasciata, senza ricordare come Husserl l'abbia spostata innalzandola al
di sopra dell'empirismo e dello psicologismo incarnista.
Fermiamoci un istante sull'atto significante e sull'io trascendentale
husserliano, senza dimenticare, però, che la ragione linguistica (strut
turale o generativista) è in rapporto a Husserl quel che la ragione fi
lologica era in rapporto a Hegel: una riduzione, forse, ma anche una
realizzazione concreta, cioè un insuccesso messo in evidenza.
A partire dalle Ricerche Logiche ( 1 90 1 ) Husserl situa il segno (a
proposito del quale si poteva ingenuamente credere che facesse a meno
del soggetto) nell'atto dell'espressione di senso come giudizio su qual
che cosa: « La complessione fonetica articolata (il segno scritto etc.)
[ dunque: il significante ] si trasforma in parola parlata, in discorso
comunicativo in generale per il solo fatto che colui che parla la produce
con l'intento di " pronunciarsi su qualche cosa (sich aussern) » .5
"
216
costituente - il che vuoi dire, dunque, che essa si costruisce nell'ope
razione predicativa che verrà detta tetica per il fatto che pone, nel
medesimo tempo, la tesi (la positura) dell'essere e dell'io. Cosl, la cosa
significata trascendentale e l'io trascendentale vengono dati, l'una e
l'altro, dall'operazione tetica, cioè dalla predicazione o dal giudizio. La
dottrina dell'io trascendentale, l'« egologia trascendentale » 8 riformu
la cosl la questione del soggetto dell'atto significante: l . È la coscien
za, operante con la predicazione, a costituire nello stesso tempo l'es
sere, l'oggetto reale significato (trascendentale) e l'io in quanto tra
scendentale, mentre la problematica del segno ne fa parte; 2. L'inten
zionalità e, con essa, la coscienza giudicante si trovano già presupposte
nei dati materiali e nelle percezioni, poiché sono loro conformi. Il che
ci permette di dire che l'io trascendentale è sempre già in un certo
modo dato. Malgrado ciò, però, di fatto l'io trascendentale si costitui
sce solo attraverso la coscienza operante con la predicazione: il sog
getto altro non è se non il soggetto della predicazione, del giudizio;
3 . Credenza " e " giudizio " sono strettamente solidali sebbene non
"
217
locutori) realizzano questa concezione fenomenologica del soggetto
parlante.
2. Se, per conseguenza, è vero che la questione della signi.ficazio
ne e, quindi, della linguistica moderna è dominata da Husserl, è anche
vero che i tentativi di critica o di " decostruzione " della fenomeno
logia se la prendono con Husserl, col senso, col soggetto (sempre tra
scendentale) dell'enunciazione e con le pratiche linguistiche. Queste
critiche delimitano la metafisica inerente alle scienze della signi.fica
zione e, quindi, alle scienze umane - il che costituisce un lavoro epi
stemologico di rilievo. Esse, però, rivelano la loro debolezza non tanto
per il fatto che impediranno, come certuni credono, un lavoro di co
noscenza, teorica o scientifica, quanto per il fatto che, discreditando
il significato e, con esso, l'io trascendentale, le " decostruzioni " in
questione si sottraggono a quella che costituisce una delle funzioni
del linguaggio, anche se non la sola: quella di esprimere senso in una
frase comunicabile tra interlocutori. Proprio in questa funzione risie
de il fatto, in effetti trascendentale, della coerenza o, se si vuole, del
l'identità sociale. Innanzitutto, dunque, riconosciamo, con Husserl,
questo carattere tetico dell'atto significante, instauratore della cosa
trascendente', dell'io trascendentale della comunicazione e, quindi, del
la sociabilità. E ciò prima di andar oltre la problematica husserliana
per cercare quel che produce questa coscienza operante, quel che la
travaglia e l'eccede (il che costituirà il nostro proposito di fronte al
linguaggio poetico). Senza questo riconoscimento, che è anche ricono
scimento dell'episteme che sottende lo strutturalismo, una riflessione
sulla signi.ficanza, col sottrarsi al carattere tetico di questa, si sottrar
rà sempre a quel che essa ha di vincolante, di legiferante e di socializ
zante e, credendo di dissolvere la metafisica del significato o dell'io
trascendentale, si collocherà in una teologia negativa che denega la
loro necessità.
Notiamo, infine, che, anche quando, partendo da un orizzonte que
sta volta, se non scientifico, descrittivo, il ricercatore sul campo crede
di scoprire dati che sfuggano all'unità dell'io trascendentale, in quanto
ciascuna identità è come sfogliata in una molteplicità di qualità o di
appartenenze (come ci ha mostrato la comunicazione di Françoise Hé
ritier ), il discorso del sapere, che ci consegna questa identità molti
plicata, resta prigioniero della ragione fenomenologica, per la quale le
molteplicità, nella misura in cui sono significanti, sono dati della co
scienza, predicati all'interno di una stessa unità eidetica: quella del
l'oggetto significato per e da un io trascendentale. In una pratica in
terpretativa per la quale non esiste dominio eterogeneo al senso, tutte
le diversità materiali si riconducono a una cosa reale (trascendentale)
in quanto attributi multipli. Anche certe interpretazioni apparente-
218
mente psicanalitiche (rapporti con genitori, etc.), dal momento in cui
sono date dal sapere strutturante come particolarità della cosa reale
trascendentale, sono false molteplicità: private di un eterogeneo al
senso, queste molteplicità non possono far altro che produrre un'iden
tità plurale, ma pur sempre un'identità, trascendentale perché eidetica.
Husserl, cosl, è vicino non soltanto alla linguistica moderna, preoccu
pata del soggetto dell'enunciazione, ma anche a ogni scienza dell'uma
no inteso come fenomeno significato, di cui si tratta di restaurare l'og
gettività sia pure moltiplicata.
Il linguaggio poetico, nella misura in cui opera col senso e lo co
munica, condivide anche le particolarità delle operazioni significanti
chiarite da Husserl (correlazione tra oggetto significato e io trascen
dentale, coscienza operante che con la predicazione - con la sintassi -
si costituisce come tetica: tesi dell'essere, tesi dell'oggetto, tesi dell'io).
Ciononostante, il senso e la significazione non esauriscono la funzione
poetica. Diremo ancora che l'operazione predicativa tetica e i suoi
correlati (l'oggetto significato e l'io trascedentale), pur essendo validi
per l'economia significante del linguaggio poetico, sono, per tale lin
guaggio, soltanto un limite: costitutivo, certamente, ma non inglo
bante. Sicché si può, in effetti, studiare il linguaggio poetico nel suo
senso e nella sua significazione (palesando, secondo il metodo, le strut
ture o le operazioni), ma questo studio equivarrebbe a ridurlo, in fin
dei conti, all'orizzonte fenomenologico e, dunque, a non vedere quel
che nella funzione poetica deroga al significato e all'io trascendentale
e quel che fa di ciò che si chiama " letteratura " una cosa diversa dalla
conoscenza: il luogo stesso in cui si distrugge e si rinnova il codice
sociale che cosl dà, come scrive Artaud, « sbocco alle angosce della
sua epoca » col « calamitare, attirare, far cadere sulle sue spalle le col
lere erranti dell'epoca per scaricarla del suo malessere psicologico » .10
Si dovrebbe, per conseguenza, cominciare con lo stabilire che c'è,
nel linguaggio poetico e quindi, benché in maniera meno marcata, in
ogni linguaggio, un eterogeneo al senso e alla signi.fìcazione. Questo
eterogeneo, che si palesa geneticamente, nelle prime ecolalle dei bam
bini, come ritmi e intonazioni anteriori ai primi fonemi, ai primi mor
femi e lessemi e alle prime frasi, questo eterogeneo, che si ritrova riat
tivato, come ritmi, intonazioni, glossolalle, nel discorso psicotico, in
quanto serve da supporto per il soggetto parlante minacciato dal crol
lo della funzione significante, questo eterogeneo alla significazione ope
ra attraverso questa, malgrado questa e oltre a questa, per produrre
nel linguaggio poetico gli effetti cosiddetti musicali ma anche del non-
219
senso - effetti musicali e non-senso che producono la distruzione non
soltanto delle credenze e delle significazioni ricevute, ma anche, nelle
esperienze limite, della stessa sintassi garante della coscienza tetica
dell'oggetto significato e dell'io (esempi: il discorso carnevalesco per
Artaud, certi testi di Mallarmé, certe ricerche dadaiste o surrealiste ).
Il termine " eterogeneo " s'impone perché, pur essendo articolata,
precisa e organizzata, in quanto obbedisce a norme e a regole (come
quella, soprattutto, della ripetizione, che articola le unità di un ritmo
o di una intonazione), la modalità della significanza, di cui si tratta,
non è quella del senso o della significazione: non v'è nessun segno,
nessuna predicazione, nessun oggetto significato e, dunque, nessuna
coscienza operante in un io trascendentale. Si potrà chiamare semio
tica questa modalità della significanza, intendendo, sulla base dell'eti
mologia del greco semeion, la marca distintiva, la traccia, l'indizio, il
segno precursore, la prova, il segno incisivo, l'impronta - una distinti
vità, insomma, suscettibile d'articolazione incerta e indeterminata,
perché non rinvia ancora (nei bambini) o non rinvia più (nel discorso
psicotico) a un oggetto significato da una coscienza tetica (al di qua o
attraverso l'oggetto e la coscienza). Il Timeo di Platone parla di una
chOra: ricettacolo (hypodocheion ) innominabile, inverisimile, bastardo,
anteriore alla nominazione, all'Uno, al padre e, per conseguenza, con
notato maternamente a tal punto che << nemmeno il rango di sillaba ��
gli conviene. È possibile descrivere, più precisamente di quanto non
abbia fatto l'intuizione filosofica, le particolarità di questa modalità
della significanza che ho chiamato semiotica - termine che designa ab
bastanza chiaramente che si tratta di una modalità certamente eteroge
nea al senso, ma sempre in vista di questo o in rapporto di negazione
ovvero di sovrappiù riguardo a questo. Un lavoro che si intraprenda
sull'apprendimento del linguaggio da parte dei bambini negli stadi pre
fonologici, pre-predicativi se si vuole, ovvero anteriori allo " stadio
dello specchio ", cosl come un altro lavoro concomitante sulle partico
larità del discorso psicotico tendono segnatamente a descrivere, con il
massimo di precisione che offre, tra le altre scienze, la fonoacustica
moderna, le operazioni semiotiche in questione (ritmi, intonazioni) e
la loro dipendenza in relazione al corpo pulsionale, osservabile nelle
contrazioni muscolari e negli investimenti libidinali o sublimati che
accompagnano le vocalizzazioni. Ovviamente, per quel che concerne
una pratica significante, cioè un discorso socialmente comunicabile co
me il linguaggio poetico, questa eterogeneità semiotica, che la teoria
può porre, è inseparabile da quella che io chiamerei, per distinguerla
da questa, la funzione simbolica della significanza - intendendo con
l'aggettivo " simbolico ", opposto a " semiotico ", quel che v'è di ine
luttabile, per la coscienza dell'io trascendentale di cui ho più su par-
220
lato muovendo da Husserl, nel senso, nel segno e nell'oggetto signifi
cato. Il linguaggio, come pratica sociale, suppone sempre queste due
modalità, le quali tuttavia si combinano in maniera diversa per costi
tuire tipi di discorso, tipi di pratiche significanti. Il discorso scienti
fico, per esempio, aspirando allo statuto di metalinguaggio, tende a ri
durre al massimo la componente che ho chiamato semiotica. Di contro,
l'economia significante del linguaggio poetico ha di particolare che in
essa il semiotico (logicamente anteriore al segno e alla predicazione)
non è soltanto una norma allo stesso titolo del simbolico, ma tende
invece a prendere il sopravvento, come norma maggiore, a detri
mento delle norme tetiche, predicative, della coscienza giudicante del
l'io. Così, in qualsivoglia linguaggio poetico, non soltanto, per esem
pio, le norme ritmiche giuocano un ruolo organizzatore che può giun
gere fino a infrangere certe regole grammaticali della lingua nazionale
e spesso trascura l'importanza del messaggio ideatore, ma anche, in
testi recenti, queste norme semiotiche (ritmi, timbri vocalico-fonici
nei simbolisti, ma anche una disposizione grafica sulla pagina) si ac
compagnano alle cosiddette ellissi sintattiche non recuperabili: non si
può ricostituire la categoria sintattica elisa (oggetto o verbo) e questo
rende indecidibile il significato dell'enunciato (per esempio : le ellissi
non recuperabili di Un coup de dés di Mallarmé). Ciò non toglie che,
per elisa, attaccata, corrotta che sia nel linguaggio poetico in seguito
all'importanza che prendono in questo i processi semiotici, la funzione
simbolica perdura ed è proprio per questo che il linguaggio poetico è
un linguaggio :
l . Essa perdura come limite interno di questa economia bipolare,
poiché un significato, moltiplicato e talvolta anche inafferrabile, è co
munque comunicato.
2 . Essa perdura ancora perché i processi semiotici stessi, lungi
dall'essere lasciati alla deriva (come capiterebbe nel discorso folle) ,
dispongono una nuova formalità : quel che si chiama u n nuovo " uni
verso dello scrittore ", formale o ideologico, la produzione mai finita,
indefinita, di un nuovo spazio di significanza. La " funzione tetica "
dell'atto significante, di cui parlava Husserl, si trova, cosl, ripresa, ma
diversamente: il linguaggio poetico che pure ha scosso la posizione del
significato e dell'io trascendentale, pone tuttavia non la tesi di un es
sere e di un senso, ma quella di un dispositivo significante: esso pone
il suo proprio processo come un processo indecidibile tra il senso e il
non-senso, tra la lingua e il ritmo (nel senso di " concatenazione " -
quel senso che la parola " ritmo " aveva per il Prometeo di Eschilo
secondo la lettura di Heidegger), tra il simbolico e il semiotico.
In una teoria attenta a tale funzionamento, lo stesso oggetto lin
guaggio appare in un modo del tutto diverso da quello in cui potrebbe
221
apparire a partire da un orizzonte fenomenologico. Cosl, un fonema,
in qualità di elemento distintivo di senso, appartiene al linguaggio in
quanto simbolico. Questo stesso fonema, però, quando è preso nelle
ripetizioni ritmiche e intonazionali e tende, quindi, a rendersi autono
mo dal St:nso per mantenersi, in una modalità semiotica, in prossimità
del corpo pulsionale, è una distintività sonora che, dunque, non è più
un fonema e non appartiene più al sistema simbolico. Si potrà dire che
la sua appartenenza all'insieme della lingua è indefinita, tra O e l .
Nondimeno, pur con questa indefinitezza, pur con questa vaghezza,
questo insieme, al quale esso appartiene, esiste.
Il fatto che sia il linguaggio poetico a risvegliare la nostra atten
zione su questo carattere indecidibile di qualsiasi linguaggio cosiddetto
naturale - carattere indecidibile che il discorso univoco, razionale e
scientifìco tende a nascondere - comporta conseguenze considerevoli
per il suo soggetto. Il supporto da questa economia significante non
potrebbe essere l'io trascendentale da solo. Se è vero che un soggetto
parlante immancabilmente ci sarebbe, in quanto l'insieme significante
esiste, non è d'altra parte meno evidente che questo soggetto, per
corrispondere alla sua eterogeneità, deve essere, diciamo, un soggetto
in processo. Come Loro ben sanno, è la teoria freudiana dell'inconscio
a permettere di pensare un tale oggetto. In effetti, con l'intervento chi
rurgico compiuto nella coscienza operante dell'io trascendentale, la psi
canalisi freudiana e quella di Lacan ci hanno permesso non (come pure
si sostiene riducendole) certe tipologie o strutture nelle quali si ritro
verebbe con compiacimento la stessa ragione fenomenologica, ma piut
tosto l'eterogeneità che, sotto il nome di inconscio, travaglia la fun
zione significante. In questa luce, dunque, facciamo qualche osserva
zione sul soggetto in processo del linguaggio poetico.
222
cente alla funzione principale di nominazione-predicazione. Il linguag
gio come funzione simbolica si costituisce solo a prezzo di una rimo
zione della pulsione e della relazione continua con la madre. Al con
trario, il soggetto in processo del linguaggio poetico, per il quale la
parola non è mai unicamente segno, si sosterrà solo a prezzo della
riattivazione di questo pulsionale rimosso. Se è vero che è l'interdi
zione dell'incesto a costituire, ad un tempo, il linguaggio come codice
comunicativo e le donne come oggetti di scambio, perché una società
possa fondarsi, allora il linguaggio poetico sarebbe, per il suo sogget
to in processo, l'equivalente di un incesto. È nell'economia della signi
ficazione stessa che il soggetto in processo si appropria di questo ter
ritorio, pulsionale e materno, in cui impedisce alla parola di divenire
semplicemente segno e, contemporaneamente, alla madre di divenire
un oggetto come le altre, vietata. Questo passaggio attraverso il divie
to, che costituisce il segno ed è correlativo al divieto dell'incesto, è
spesso, come tale, esplicito (prendiamo il Sade di Idée sur les romans:
« non leggeremo mai - che non lo scriva mai! - se egli divenga l'aman
te di sua madre appena questa l'abbia messo al mondo »; prendiamo
Artaud che si identifica con le proprie « figlie » ; prendiamo Joyce e
sua figlia alla fine di Finnegan's Wake; prendiamo Céline che assume
per pseudonimo il nome di battesimo di sua madre; prendiamo innu
merevoli identificazioni con la donna o la danzatrice, identificazioni
che oscillano tra feticizzazione e omosessualità). Insisto su questo pun
to per tre ragioni:
l . Per far notare che la predominanza, per quanto concerne il lin
guaggio poetico, della norma semiotica non può essere unicamente in
terpretata, nel modo in cui l'interpreta la poetica formalista, come
una attenzione indirizzata sul segno o sul significante a detrimento del
" messaggio ", ma, piuttosto, che essa è, più profondamente, indica
trice dei processi pulsionali relativi alle prime strutturazioni (costitu
zione del corpo proprio) e alle prime identificazioni (con la madre) ;
2 . Per mettere in evidenza il rapporto intrinseco tra lettura e rot
tura dell'accordo sociale: è perché parla l'incesto che il linguaggio poe
tico è alleato con il " male ". La " letteratura e il male " (per ripren
dere il titolo di Georges Bataille) costituiscono un binomio che do
vrebbe intendersi, al di là di risonanze di etica cristiana, come un'auto
difesa del corpo sociale contro il discorso dell'incesto, distruttore e
generatore della lingua e della socialità. Tanto più che la " grande
letteratura ", quella che mobilita l'inconscio per secoli, non ha niente
a che vedere con l'ipostasi dell'incesto (piccolo giuoco di feticisti di
fine secolo, sacerdozio di un preteso enigma che la madre vietata costi
tuirebbe) . Al contrario, pur scoppiando nel linguaggio, pur infiamman
dolo da cima a fondo in un modo tanto singolare da sfidare le genera-
223
lizzazioni, questa relazione incestuosa ha di comune, in tutti i casi più
notevoli, il fatto di presentarsi demistificata, delusa perfino, privata
della sua funzione sacrale di supporto della legge, per divenire la cau
sa di un processo permanente del soggetto parlante, di quell'agilità,
di quella " abilità " analitica che la leggenda presta a Ulisse ;
3 . Perché è per forza di cose possibile, come Lévi-Strauss ha fatto
notare al dottor Green,11 non tener conto della relazione madre-figlio
in una certa visione antropologica della società. Ora, date non soltan
to la tematizzazione di questa relazione ma soprattutto le mutazioni
nell'economia stessa del discorso che sembra possibile attribuirle, non
si potrebbe trattare il linguaggio poetico senza tenere conto di quel
che questa relazione pre-simbolica e trans-simbolica con la madre in
troduce, come erranza, nell'identità del parlante e nell'economia del
suo stesso discorso. Più ancora. Questa relazione del parlante con la
madre è probabilmente, al pari del processo del soggetto e della storia,
uno dei fatti più importanti che introducono il giuoco nella struttura
del senso.
I l Vedi supra.
224
tempo, la sua fidanzata, ma anche l'umanesimo sacro e lo stesso " istin
to del cielo Il più analitico di tutti, il marchese de Sade, abbandona
".
22.5
che può dar luogo al fantasma dell'onnipotenza o all'identificazione
con un capo totalitario. Quanto al feticismo, d'altra parte, va detto
che il costante sottrarsi alla funzione simbolica, paterna e sacrifìcale,
produce una aggettivazione del significante puro, sempre più privato
di senso, e un formalismo insipido. Ciononostante, lungi dal costituire,
con questo, un accidente, spiacevole o trascurabile, nel sicuro svolgi
mento del processo simbolico, che, cosl come pensa il razionalista, fini
rebbe per trovare, alla maniera della scienza, un significato a tutti i
significanti, queste esperienze limite, alle quali il linguaggio poetico
dell'epoca contemporanea giunge forse più drammaticamente di prima
o più drammaticamente che in altri casi, mostrano non soltanto che
la scissione saussuriana (significante/ significato) è assolutamente incol
mabile, ma anche che tale scissione poggia su un'altra, più radicale an
cora, tra un corpo pulsionale, semiotizzante e eterogeneo alla signifi
cazione, e quella significazione stessa, fondata sul divieto (dell'incesto)
e sul segno, che è la significazione tetica, instauratrice di un oggetto
significato e di un io trascendentale.
Con la permanente contraddizione tra queste due modalità (semio
tica/sirnbolica), di cui la sfalsatura interna al segno (significante/signi
ficato) non è che la testimonianza, il linguaggio poetico mostra, in ciò
che esso ha di più esplosivo (di illeggibile per il senso, di rischiato
per il soggetto), quel che ha di vincolante una civiltà fondata sul do
minio della razionalità trascendentale. Per conseguenza, il linguaggio
poetico costituisce un mezzo per superare questo vincolo. E se talvolta,
per questo, esso si imbatte in passaggi all'atto provocati dalla raziona
lità stessa, come nel caso della determinazione pulsionale del fascismo
dimostrata tale da Wilhelm Reich, il linguaggio poetico è ancora là
per prevenire questi stessi passaggi all'atto. Il che equivale a dire che,
se è vero, come è vero, che l'economia poetica ha, da sempre, testimo
niato certe crisi e certe impossibilità della simbolica trascendentale,
d'altra parte, nella nostra epoca, tale economia poetica si ricongiunge
alle crisi delle istituzioni sociali (Stato, famiglia, religione) e, più pro
fondamente, a una svolta nel rapporto dell'uomo col senso. L'esperien
za letteraria del nostro secolo - in questo ricongiungendosi ad altri
fenomeni di discordia simbolica e di discordia sociale (i giovani, la
droga, le donne) - indica, alla ragione teorica, che la posizione di pa
dronanza trascendentale del discorso è possibile ma provoca una rimo
zione, che essa è necessaria, ma solo come limite tale da inquietare
senza sosta, e che questo conforto nei riguardi di una rimozione in
stauratrice del senso non potrà più prodursi sotto l'aspetto incarnato
di un io provvidenziale e storico né, tanto meno, sotto l'aspetto di un
io umanista e razionalista alla Renan, ma solo con una discordanza
226
nella funzione simbolica stessa e, conseguentemente, nell'identità del
l'io trascendentale stesso.
Al fine di non addentrarmi in certe analisi tecniche dell'economia
propria del linguaggio poetico (troppo fini e troppo speciose per que
sto esposto programmatico), prenderò a prestito da Céline prima alcu
ni procedimenti e poi alcuni temi, i quali illustrano la posizione del
soggetto in processo, tipico del linguaggio poetico. Non senza sotto
lineare fermamente che questi temi non soltanto sono indissociabili
dallo " stile ", ma sono anche prodotti da questo (altrimenti detto:
non si avrebbe bisogno di " saperli "), si sarebbe potuto intenderli
solo ascoltando il discorso a scatti, ritmato e infarcito di gergo e di
oscenità.
Bisognerebbe, dunque, seguire, senza arrestarsi ai temi semantici
e alla loro distribuzione, il funzionamento del linguaggio poetico e del
suo soggetto in processo a partire dalle operazioni linguistiche costi
tutive: la sintassi e la semantica.
Tra gli altri, negli scritti di Céline, due fenomeni colpiranno la
nostra attenzione: i ritmi frastici e le parole oscene. Ce ne interesse
remo non soltanto perché sembrano costituire una particolarità del suo
discorso, ma anche perché sia gli uni che le altre, sebbene in modo
diverso, concernono certe operazioni costitutive della coscienza giudi
cante (e dunque dell'identità), perturbando tanto la sua nettezza quan
to la designazione di un oggetto (l'oggettità). D'altra parte, se è vero
che tali fenomeni costituiscono una griglia di norme supplementari al
la significazione denotativa, è anche vero che questa griglia non ha
niente a che vedere con la poeticità classica (ritmo, metro, figure re
toriche convenzionali), poiché essa è attinta al registro pulsionale di
un corpo in desiderio (identificazione e repulsione in relazione a una
comunità, familiare o popolare) . Anche se, dunque, i codici cosiddetti
poetici non vi si riconoscono, una norma, che ho chiamato semiotica,
agisce in aggiunta alla coscienza giudicante, ne provoca le mancanze
o vi supplisce e, nel far questo, non rinvia né a una convenzione let
teraria (quale è quella rappresentata dai nostri canoni poetici, contem
poranei alle grandi epopee nazionali e alla costituzione delle nazioni
stesse) né, tanto meno, a un corpo proprio, bensl a una modalità della
significanza, pre-simbolica o trans-simbolica, la quale travaglia ogni
coscienza giudicante in maniera tale che ogni io vi riconosce la sua
crisi. Riconoscimento giubilatorio che, con la letteratura cosiddetta
moderna, sostituisce il sottile piacere estetico.
Consideriamo i ritmi frastici. A partire da Mort à crédit, la frase
si condensa: non soltanto sono evitati incastri e coordinazioni, ma
anche i diversi sintagmi-oggetto (per esempio), quando sono giustap
posti in gran numero al verbo, sono separati dai famosi " puntini di
227
sospensione ". Taie modo di procedere seziona la frase nei suoi sin
tagmi costituenti cosicché questi tendono a rendersi autonomi dal ver
bo principale, a distaccarsi dalla significazione propria della frase e a
ottenere, per conseguenza, un senso, prima di tutto, incompleto e su
scettibile, quindi, di caricarsi di connotazioni multiple che non dipen
dono più dal quadro della frase, ma da un contesto libero (l'insieme
del libro ma anche tutte le aggiunte di cui il lettore è capace). La tesi
predicativa, costitutiva della coscienza giudicante, è mantenuta. La
spaziatura prodotta dai punti di sospensione (dal ritmo ) dei sintagmi
che costituiscono la frase, però, fa affluire, attraverso la predicazione
in tal modo striata, la connotazione: l'oggetto denotato dall'enunciato,
l'oggetto trascendentale, perde i suoi contorni netti. L'oggetto eliso
nella frase, per quanto pertiene al soggetto parlante, rinvia a una esi
tazione, se non addirittura a una cancellazione dell'oggetto reale. Nel
l'umore austero di una esperienza e nelle sue implicazioni per il sog
getto, i ritmi e le ellissi sintattiche di Céline vengono a dimostrare
che la letteratura testimonia un disinganno nei confronti dell'oggetto
(d'amore o trascendentale) e che l'oggetto, più che sfuggente, vi è im
possibile. Lo stesso dicasi dei ritmi e delle ellissi sintattiche di Beckett,
il cui ultimo racconto, Pas moi, nelle parole messe in bocca a una don
na morente, enuncia, in frasi elise e in ampi sintagmi liberi, l'impos
sibilità di Dio per un parlante che non ha oggetto di significazione
e/o d'amore. Inoltre, al di là della connotazione e insieme ad essa e
all'oggetto (sfumato o cancellato) , affluisce, attraverso il senso, quel
l'<< emozione » di cui parla Céline, cioè la pulsione non semantizzata
che precede e eccede il senso. I punti esclamativi, che si alternano con
i puntini di sospensione, indicano ancora più categoricamente questo
afHusso della pulsione : un affanno, un trafelamento e un'accelerazione
del porgere verbale, ansioso non di raggiungere alla fine una somma
globale del senso del mondo, ma, al contrario, di far trasparire, di tra
gli interstizi della predicazione, il ritmo di una pulsione che resta sem
pre insoddisfatta, nel vuoto tra la coscienza giudicante e il segno, poi
ché non ha potuto trovare un altro (destinatario) per poter ottenere,
in questo scambio, un senso. Bisogna capire anche Céline oppure Ar
taud oppure Joyce, bisogna leggere i loro testi per cogliere il fatto
che fine di questa pratica, che ci raggiunge come un linguaggio, è, at
traverso la significazione del messaggio comunque trasmesso, quello di
imporre una musica, un ritmo, che siano polifonia ma anche cancella
zione del senso nel non-senso e nel riso. Si tratta di un'operazione
difficile che richiede al lettore non di combinare delle significazioni,
ma di far esplodere la propria coscienza giudicante per farvi passare
questa pulsione ritmata che è costituita dalla rimozione e che, filtrata
dal linguaggio e dal suo senso, si rivela come godimento. Le resisten-
228
ze alla letteratura testimonierebbero allora una ossessione del senso,
una incapacità a questo godimento?
Passiamo ora a considerare la semantica. Le parole oscene, che
nel lessico di Céline sono parole-cardine, hanno una funzione analoga
al sezionamento operato, dal ritmo, nella sintassi: una funzione di
desemantizzazione. Lungi dal rinviare, come qualsiasi altro segno, a
un oggetto esterno al discorso e identificabile come tale da parte della
coscienza, la parola oscena è una marca minima di una situazione di
desiderio in cui l'identità del soggetto significante, se non è distrutta,
è superata da un conflitto pulsionale che lega il soggetto in questione
a un altro soggetto. Niente è meglio di una parola oscena per far com
prendere i limiti di una linguistica fenomenologica di fronte all'archi
tettonico e eterogeneo complesso della significanza. Priva di referente,
la parola oscena sarebbe anche il contrario di un autonimo, che, come
Loro sanno, rinvia alla funzione di segno propria di una parola o di un
enunciato. Proprio la parola oscena mobilita le risorse significanti del
soggetto, gli fa attraversare la membrana del senso in cui la sua co
scienza lo mantiene, lo collega al gestuale, al cinetico, al corpo pulsio
nale, al movimento di respinta e di appropriazione dell'altro. Allora,
non è un oggetto, non è un significato trascendentale né un significan
te, a darsi a una coscienza neutralizzata: attorno all'oggetto denotato
dalla parola oscena, magro limite, si dispiega, più che un contesto, il
dramma di un processo eterogeneo al senso che lo precede e lo eccede.
Le filastrocche infantili oppure quel che viene chiamato il folklore
osceno dei bambini utilizzano le stesse risorse, ritmiche e semantiche,
e mantengono il soggetto in prossimità di quei drammi giubilatoti,
trasversali alla rimozione che un significante univoco, sempre più pu
ro, tenterà invano di imporgli.
In Céline, alcuni temi esplicitano i rapporti di forza, prima di tut
to, nel triangolo familiare e, poi, nella società contemporanea - rap
porti di forza che producono, favoriscono e accompagnano queste par
ticolarità del linguaggio poetico alle quali ho fatto allusione.
Mort à crédit, il più « familiare » degli scritti di Céline, presenta
una figura paterna, Auguste, uomo « di istruzione », « uno spirito »
permaloso, interdittore, pronto a scandalizzarsi e tutto dedito alle sue
ossessive abitudini di pulizia (dell'ammattonato davanti alla bottega,
per esempio). La sua furia si manifesta spettacolarmente la volta in
cui, esattamente prima di cadere malato, egli si chiude in cantina ed
esplode colpi di pistola per delle intere ore, non senza precisare, di
fronte alla disapprovazione generale: « io ho la mia coscienza per
me » . « Mia madre ha avvolto l'arma in spessi giornali, e poi in uno
scialle delle Indie . . . , Vieni piccolo mio ... Vieni! mi ha detto una
volta completamente soli . . . Abbiamo gettato il pacchetto in acqua ».
229
Un padre, presente e minaccioso, che manifesta bene la necessità
invidiabile del suo posto ma la sciupa con la sua furia derisoria : una
potenza minata cui si potrebbe solo rubare l'arma per ingoiarla alla
fine di un viaggio tra madre e figlio.
In un colloquio, Céline si paragona a una « donna di mondo » che
sfida il divieto familiare, tuttavia mantenuto, e che ha diritto al suo
desiderio, « una scelta in un salotto » : « io il cliente non mi interes
sa », prima di definirsi alla fine : « io sono il figlio di una riparatrice
di antichi merletti . . . uno di quei rari uomini che sappiano distin
guere la batista dai pizzi di Valenciennes . . . non ho bisogno di essere
educato. Lo so ».
Sarà questa fragile finezza, retaggio materno, che farà da supporto
al linguaggio oppure, se si vuole, all'identità di colui che ha detroniz
zato, per fuggirla, quel che egli chiama « la goffaggine » degli uomini,
dei padri. Questo equivale a dire che i figli della pulsione, andando
oltre il dominio proprio del verbo paterno, non ne sono meno intes
suti secondo una precisione minuziosa. Sarà dunque necessario pensa
re, attraverso l'identità significata e significante e in relazione alla gri
glia semiotica, a un'altra modalità della legge : una modalità più vicina
al gnomon greco ( « chi discerne », « squadra ») che non alla lex lati
na che implica necessariamente l'atto del giudizio logico e giuridico.
Una disposizione, un discernimento regolato, dunque, intessono la gri
glia pulsionale e semiotica e, se derogano cosi all'identità significante,
non per questo non ne costituiscono un'altra, più vicina agli arcaismi,
rimossa, gnomica e suscettibile di esplosione psicotizzante, nella quale
si connette il rapporto del parlante con una madre desiderante e de
siderata.
In un altro colloquio, questo riferimento materno ai merletti an
tichi è esplicitamente pensato come una archeologia del verbo : « No!
All'inizio era l'emozione. Il Verbo è venuto in seguito per rimpiaz
zare l'emozione come il trotto sostituisce il galoppo . ... Si è tratto
l'uomo fuori dalla poesia emotiva per farlo entrare nella dialettica,
cioè nell'effiuvio di parole, non è vero? » . D'altronde, cos'è Rigodon?
Una danza popolare che obbliga il linguaggio a farsi al ritmo della sua
emozione.
Un verbo striato dalla pulsione, « musicato » da essa, come direb
be Diderot, non potrebbe pertanto né descrivere né raccontare né,
tanto meno, teatralizzare degli " oggetti ": per fattura e significazione
esso va al di là delle divisioni canoniche in lirica, epica, drammatica
e tragica. Gli ultimi scritti di Céline, innestati a vivo in un'epoca di
guerra, di morte e di genocidio, sono, come egli stesso dice in Nord,
« la vivisezione dei feriti », il « circo », « i trecento anni prima di
Gesù » .
230
Mentre alcuni ostinati cantano in alessandrini, è questo linguaggio
che registra la scossa (non soltanto istituzionale ma anche profonda
mente simbolica) relativa al senso e all'identità della ragione trascen
dentale - una scossa che il fascismo ha inflitto al nostro universo e le
cui conseguenze le scienze umane sono ancora lontane dall'aver tirato.
Io dico che questo discorso letterario, per quel suo decentramento for
male, che si sente nelle glossolalie di Artaud ma anche in Céline con
i ritmi e i temi di violenza, parla, meglio di qualunque altro, lo scuo
timento della coscienza trascendentale - il che non vuoi dire che esso
lo conosca né che lo interpreti. La prova, lo scritto che si vuole in
accordo con il « circo » e la « vivisezione », si troverà nondimeno,
certi idoli, sia pure provvisori, dissolti nel riso e nel non-senso domi
nante, ma comunque posti come tali nell'ideologia hitleriana. E basta
leggere questo trattato antisemitista di Céline per vedervi vagare i
crudi fantasmi di un'analizzante alle prese con un padre, desiderato e
frustrante, castratore e sodomizzante, e comprendere come non sia suf
ficiente, allo scopo di non soccombere alle sue astuzie, far uscire in
una lingua musicata quanto della struttura simbolica viene rimosso e
come sia, invece, ancora necessario dissolvere le sue determinazioni
sessuali. Senza con questo legare il lavoro poetico a una interpreta
zione analitica, il discorso, che scalza la coscienza giudicante e libera
in ritmo la pulsione che quella rimuove, si rivela sempre in difetto
nei confronti di una etica, la quale si pone accanto all'io trascenden
tale, quali che ne siano le gioie o le negazioni in Spinoza e Hegel.
Almeno da Holderlin in poi, il linguaggio poetico ha disertato il
bello e il senso per diventare il laboratorio in cui si prova - di fronte
alla filosofia, al sapere e all'io trascendentale di ogni significazione -
l'impossibilità di una identità significata o significante. Se si prende su1
serio questa avventura, se si comprende il riso amaro con cui essa
saluta qualsiasi tentativo di dominio dell'umano, cioè del linguaggio
per il linguaggio, si sarebbe innanzitutto condotti a riconsiderare la
" storia letteraria ", per ritrovare, nella retorica e nella poetica, lo
stesso, eppure sempre diverso, dibattito con la funzione simbolica. Né
si potrebbe far a meno di porsi, parallelamente, degli interrogativi
sulla possibilità o sulla legittimità di un discorso teorico su questa
pratica del linguaggio il cui risultato è precisamente quello di rendere
impossibile la chiusura trascendentale che sostiene il discorso del
sapere.
Di fronte a questo linguaggio poetico che sfida la conoscenza, al
lora, si è fortemente tentati di abbandonare il rifugio della conoscen
za e di abbordare la letteratura, mimandone semplicemente i meandri
piuttosto che ponendola come oggetto di conoscenza. Molti si lasciano
prendere in questo mimetismo: scrittura di finzione para-filosofica,
231
para-scientifica. Probabilmente è necessario essere una donna, cioè una
garanzia ultima della socialità oltre il crollo della funzione paterna
simbolica, e generatrice inesauribile del suo proprio rinnovamento,
della sua espansione, per non rinunciare alla ragione teorica e, anzi,
costringerla a crescere di potenza, dandole un oggetto al di là dei
suoi limiti. Tale, infatti, è la posizione che mi sembra possibile per
una teoria della significazione, la quale non potrebbe in alcun modo
render conto del linguaggio poetico, ma se ne servirebbe come indizio
di quel che è eterogeneo al senso (segno e predicazione) : delle econo
mie pulsionali che aprono sempre contemporaneamente verso norme
biofisiologiche, da una parte, storico-sociali, dall'altra.
Da una tale economia eterogenea e dal suo soggetto in processo è,
dunque, interpellata una linguistica diversa da quella discesa dal cie
lo fenomenologico : una linguistica che, nel suo oggetto linguaggio,
comprenderà, attraverso la frontiera costitutiva e insuperabile del
senso, una pulsione non meno articolata e, però, senza la matrice del
segno - una pulsione che rinvia a un corpo pulsionale che è stato con
siderato dalla psicanalisi come sua propria materia e che cifra il lin
guaggio mediante dispositivi ritmici, intonazionali e cosl via, irridu
cibili alla posizione dell'io trascendentale che, pure, è sempre in vista,
in relazione con, oppure contro, la sua tesi.
La pratica di questa teoria della significazione è, in se stessa, re
golata dai precetti husserliani, poiché essa, immancabilmente, farà, an
che di quel che deroga al senso, un oggetto. Ma, pur essendo complice
della legge, che è contemporaneamente legge di una struttura signi
ficante e di ogni socialità, questa teoria della significazione allargata
può darsi i suoi nuovi oggetti solo a patto di porsi come universale
- solo a patto, cioè, di pre-supporre che esista, in una economia di
discorso che non è quella della coscienza tetica, un soggetto in pro
cesso. Ora, questo esige che il soggetto della teoria sia esso stesso
un soggetto in analisi infinita - cosa che Husserl non poteva imma
ginare, cosa che Céline non poteva sapere e cosa che una donna, in
sieme ad altre, può, dopo tutto, ammettere, avvertita, com'è, della
inanità dell'essere.
L'esperienza letteraria, quando non soccombe ai rischi che la mi
nacciano, resta comunque una cosa diversa da questa teoria analitica
che essa non cessa di interpellare. Contro il pensiero conoscente, il
linguaggio poetico persegue un effetto di verità singolare e cosl rea
lizza, forse, per la comunità moderna, quella pratica solitaria che i
materialisti dell'antichità hanno condotto, in perdita, di contro alla
assunzione della ragione teorica.
232
Discussione
233
Infine, un'ultima domanda riguardo a quello che Lei ha chiamato
l'io trascendentale. Stando ad ascoltarLa, si aveva l'impressione che
tale io trascendentale si situasse in una zona poco precisa, i cui limiti
triangolari potrebbero essere determinati a un polo dalla coscienza di
Pietro, Paolo, Giacomo, Lucia o Enrica, a un altro dall'intelletto di
vino e ad un terzo dalla società nel senso durkheimiano del termine.
Mi sono spesso domandato se nella Sua argomentazione non si produ
cesse una sorta di oscillazione, se non dalla parte di Pietro, Paolo o
Giacomo, forse tra la società o la coscienza collettiva e l'intelletto di
vino. Desidererei, pertanto, che Lei precisasse cosa abbia inteso esat
tamente con " io trascendentale ".
234
permettere che esse si esercitino come crisi, anzi per suturarle co
me tali.
Per quanto riguarda la questione dell'io trascendentale, posso rin
viare alla problematica da me delineata e che è quella di Husserl. Que
sto ci condurrebbe a un dibattito di storia della filosofia. Forse, però,
posso ricordarlo brevemente, nonostante che il mio discorso si pones
se senz'altro dopo l'avvento di questo io trascendentale nella discus
sione filosofica. In ogni caso, proprio perché l'ho indicato all'orizzon
te di ogni ricerca che si risolva ad oggettivare il fenomeno umano in
una struttura o in un soggetto, Lei ha ragione di domandarmi di pre
cisare cosa intendo con " io trascendentale ". Ritengo che non si tratti
di assegnare l'io trascendentale né a un oggetto del tipo della società
durkheimiana né a un individuo come Pietro, Paolo o Giacomo né al
l'intelletto divino. Nello spirito in cui ne parlava Husserl e nel senso
con cui io l'uso, si tratta di comprendere la posizione di una coscien
za operante che pone delle oggettità. Il che equivale a dire che,
quando c'è posizione di un oggetto, significato o significabile, dato al
la coscienza sotto forma di una struttura oppure sotto forma di un
soggetto, ovvero, in altre parole, quando c'è una oggettità ideale, il
problema si pone per i filosofi, ma anche per i linguisti. È in questa
posizione che io mi metto : nella posizione di chi vuoi sapere come
questa oggettità si costituisce. Attraverso quali operazioni si arriva a
porre qualcosa che sia significato, cioè la cosa esprimibile, una strut
tura o un dominio dati alla riflessione?
Per l'antropologo questi problemi non si pongono, giacché egli
stabilisce, come oggetto di studio, la struttura oppure il passaggio da
una struttura a un'altra oppure ancora le diverse variazioni di strut
tura. Invece, in un'ottica analitica, linguistica o filosofica, si è portati
a porre il problema di come si costituisce questa oggettità ideale. In
altre parole, non si può accettare l'a priori della struttura e si deve
invece interrogare la sua produzione. A questo punto si è condotti
a pensare che non ci sia altra produzione possibile se non quella che
è interna al discorso. Si è ricondotti alle operazioni discorsive. Queste
sono essenzialmente operazioni di predicazione che pongono nello stes
so tempo un essere esterno, come oggetto significabile, e quell'io che
è la coscienza sintetizzante. L'io trascendentale non è, dunque, né una
oggettità del tipo di una società durkheimiana né un intelletto divino
né Paolo, Lucia o Pietro. È il fatto della coscienza operante che, po
nendolo come suo correlato-oggetto, significa l'essere.
235
effetti, a partire dal momento in cui c'è discorso, Lei è ben obbligata
ad avere una coscienza operante. Mi chiedo, però, se non possiamo
porci la questione della significazione in altre occasioni diverse dai
termini del discorso. Riprendiamo la definizione di Peirce, che va
peraltro nel Suo senso e che suona: « un segno è quel che sostituisce
qualcosa per qualcuno » . Gli si può benissimo domandare che cosa,
nel sistema tecnico di una società determinata, sostituisce qualcosa che
adempie a una certa funzione in un sistema tecnico differente e che
dunque, sotto questo aspetto, ha una certa significazione. E se, di fron
te a una collezione di oggetti, nel notare un oggetto di tipo anormale
che proviene da una società melanesiana o sud-americana, mi dico :
« cosa significa questo? » e mi accorgo che esso tiene di fatto il posto
236
Raul Mendez: In quanto membro di un'etnla diversa da quella eu
ropea desidero manifestare la mia soddisfazione, perché trovo qui una
rappresentazione dell'uomo, non centrata sulla ragione ma su qualco
sa di molto più intuitivo, e desidero pure testimoniare la mia soddi
sfazione in quanto credente. Le mie domande sono allora queste. Non
crede Lei che ci sia nelle scienze umane (nella linguistica, nell'antropo
logia ) una certa paura della parola originaria e fondamentale, una cer
ta paura di andare fino all'assoluto e fino all'infinito? Non crede Lei
che ci si è troppo allontanati dal problema della divinità? Se è vero
che ci sono delle contraddizioni nei linguaggi ordinari, nei linguaggi
d'oggi in Europa, allora, quando si accetti che si costruisce la scienza
come un discorso, è forse nei linguaggi poetici come quello di Beckett
in Aspettando Godot che scoppia questa domanda di un originario
rifiutato?
237
e al cui posto bisognava mettersi, non sia senz'altro etichettabile come
interruzione dell'eterogeneo, come inscrizione altro.12
238
certa posizione di oggettità è mantenuta. C'è l'essere, anche se questo
essere è logos. Io ho parlato di un'altra pratica.
239
scusso nel Circolo di Praga. Jakobson ne parla nel suo testo sulla for
mazione della linguistica strutturale dell'inizio del secolo. C'è dunque
un collegamento tra la fondazione di un atteggiamento epistemologico
e fenomenologico da una parte e la costituzione della linguistica mo
derna dall'altra. Questo collegamento, però, è stato scoperto ed espli
citato soprattutto ultimamente, a partire dal momento in cui è stata
abbordata la questione della semantica e si sono poste, nella struttura
profonda, relazioni logiche o intersoggettive. La relazione semiotico/
simbolico non può in nessun caso far pensare a quella di esecuzione/
competenza. La funzione frastica predicativa è simbolica.
240
ecolalie o, come dici tu, lalalie sono prodotte sotto la spinta del rifiu
to: non c'è vocalizzazione arcaica osservata che non sia un rifiuto.
Quando compare il segno. . . quando compaiono la nominazione e la
predicazione, si ha però una negazione esplicitata con mezzi fonici,
gestuali, semantici e sintattici. Solo a motivo di una recrudescenza del
la negazione l'oggetto, separato dal corpo, si libera e si nomina. Co
stitutiva della nominazione mi pare un'archeologia della negazione. Il
nostro lavoro prosegue in quest'ambito.
241
guaggio e come verità indicibile di una identità soggettiva assunta al
suo interno.
]ulia Kristeva: Mi spiace che Lei riduca il mio discorso alla que
stione delle virtualità del discorso scientifico. Io pensavo di averlo in
serito, al contrario, in un angolo di visuale più ampio: che cosa ha
potuto dire la Ragione (e quali che ne siano le latenze) all'arte mo
derna, a Céline e al fascismo? Il problema dell'identità è oggi il pro
blema della sublimazione di una crisi di senso o del suo scacco. Per-
242
ché, per chi la storia delle scienze deve nascondere quella di Céline
o del fascismo?
Tornando alla Sua domanda, io non ignoro che nell'esercizio, pri
ma di tutto, di ogni discorso e, in particolare, del discorso del sapere
ci siano degli slittamenti riguardo a questa coscienza, da me chiamata
con Husserl tetica, e che solo grazie a questi slittamenti (che appaiono
come tali riguardo alla coscienza tetica) si produce il nuovo. Si cono
sce il caso di Cantor, Lei parlava di Keplero... Solo grazie a queste
scissioni della coscienza tetica si ha la posizione di un nuovo oggetto
o forse anche quel che si vuole chiamare la creazione o la posizione
di nuove idealità. Quel che volevo dire è che, finché ci si pone all'in
terno di una problematica del sapere e finché si legge nei testi del
sapere non il dramma dell'io, che raccoglie e oblitera certe poeticità
inerenti, ma, al contrario, quanto l'io costituisce come oggetto di co
noscenza, non si può non riconoscere in questo io l'orizzonte trascen
dentale. Tornando poi alla problematica di Françoise Héritier, penso
che il suo sia un lavoro estremamente importante e, come qualsiasi
lavoro di " scienze umane ", non possa, nella sua fenomenologia sog
giacente, far altro che costituire molteplicità, di oggetti e di metodi,
che saranno molteplicità che inviano a esperienze concernenti, nondi
meno, sempre la stessa identità eidetica ... che si sia di fronte a una
società " selvaggia " o alla nostra cultura. Finché, però, è un discorso
di significazione e di posizione di oggetti a precisare questa moltiplica
zione di oggetti e di metodi, l'orizzonte di questo discorso di sapere
è la coscienza tetica. Proprio in relazione a questa condizione del di
scorso conoscitivo, a partire dalla fenomenologia, io volevo porre un
altro funzionamento, che è quello del linguaggio poetico, al fine di
creare una frontiera, diciamo cosl, di natura etica (alla quale tengo
particolarmente), una frontiera tra l'esperienza poetica e la conoscen
za . . . senza di che si arriva a quella figura moderna, che nella mia co
municazione chiamavo " retore-filosofo ", un retore-filosofo che crede
di fare della poesia piuttosto che della conoscenza e tesaurizza quel
l'incesto simbolico che è la crisi poetica del codice sociale.
243
Perché dar nomi?
I nomi di persona in un villaggio francese: Minot-en-Chatillonnais
Françoise Zonabend *
A Minot non più che altrove non si usa il termine " patronimico " ;
più volentieri si parla di " nome di famiglia " , talvolta di " cognome " .
S e è nato d a un'unione legittima, il bambino prende i l cognome
del padre: prende al contrario il nome del padre di sua madre, se è
illegittimo. Il patronimico opera come un « classificatore di linea di
discendenza », come dice Claude Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio
dal momento che ad un bambino nato da genitori ignoti non viene
imposto nessun patronimico.
Il rapporto che un uomo ha col suo patronimico rimane immu
tato per l 'intero corso della sua vita. Al contrario, le donne, da spo
sate, cambiano il loro patronimico con quello del marito. Se il coniuge
muore, la donna diventa « la vedova del Paul Magnie » e, anche se
si risposa, si continuerà a designarla con questa denominazione.
A Minot, il nome di famiglia è adoperato quasi soltanto per de
signare la casa, unità residenziale costituita dal padre, dalla madre e
dai loro figli non sposati. In questo caso si fa precedere il patroni
mica del coniuge maschio dalla preposizione chez, che, accostata al
cognome, costituisce una locuzione generica. Tuttavia, in certi conte-
244
sti, emerge la linea di discendenza del padre della moglie. Al cimitero,
nelle croci delle tombe che si ergono lungo i viali - luoghi strettamen
te connessi con la casa -, incisi sulle lapidi, si scolpiscono i patroni
miei dei due coniugi. Ciascuna linea di discendenza, infatti, difende il
posto che ha sul terreno del villaggio.
Allo stesso modo, per differenziare case che, apparentate o no,
hanno lo stesso patronimico, a quest'ultimo si accosta, sia quando si
parla sia quando si scrive, il " nome da ragazza " della moglie. Cosi
ci è stato detto « nella via Basse, abitano i Toussaint-Dienot, i Tous
saìnt-Toussaint, i Toussaint-Lanier » .
Altre forme di iscrizione spaziale della comunità, però, possono
essere lette attraverso i patronimici.
Situato ai margini dell'altipiano di Langres, ai confini dello Cha
tillonnais, isolato dagli altri villaggi a causa della foresta che lo cir
conda quasi completamente, il villaggio ha tuttavia conosciuto grandi
movimenti di popolazione. Questi movimenti, che è possibile intrave
dere leggendo i registri di stato civile, si mostrano con tutta la loro
chiarezza nella serie dei censimenti che, dal 1 836 al 1 968, segnano la
storia demografica del villaggio.
Nel 1 836, data del primo censimento che si possiede del villaggio,
Minot conta 7 1 8 abitanti, divisi in 1 80 unità domestiche e con 92
patronimici diversi. Nel 1 968, gli abitanti sono 359, divisi in 1 07
unità e con 77 patronimici, di cui solo 8 sono comuni con quelli del
1 836. Queste cifre danno un'idea del movimento migratorio nel co
mune. In un secolo e mezzo lo stock dei patronimici si è rinnovato
quasi completamente. Questa situazione è ampiamente giustificabile:
si sono avute partenze o estinzioni di certe famiglie, arrivi di altre i
cui uomini hanno sposato le figlie dei vecchi residenti.
Se prendiamo le otto famiglie i cui patronimici sono rappresentati
nel villaggio sia nel 1836 che nel 1 968, solo per quattro di esse si trac
cia una filiazione diretta; per le altre si può parlare, nel 1 968, soltan
to di parentela con le famiglie che, rappresentate nel 1 836, porta
vano lo stesso cognome.
Per i nostri informatori, però, non c'è nessuna differenza tra le
prime e le seconde e, ancora, un certo numero di altre che hanno pa
tronimici che non appaiono sulla lista dei nomi del 1 836. Tutte sono
designate come « vecchie famiglie » . E, dunque, cosa si intende con
questa espressione? « Le vecchie famiglie - ci è stato detto - sono
quelle che figurano nei registri, quelle che si sono sempre viste, quel
le che hanno nomi che si sono sempre sentiti >) . Ci si fonda pertanto,
allo stesso tempo, sul documento scritto e sulla tradizione orale. Se
si traccia l'ascendenza di tutte queste « vecchie famiglie ��>, ci si accor
ge che le loro storie differiscono. Per alcune, lo si è detto, c'è discen-
denza diretta, femminile o maschile, da una coppia la cui presenza
nel villaggio è attestata nel 1836; per altre, alla stessa data era presen
te un antenato, i cui discendenti hanno lasciato il villaggio per due,
tre generazioni, finquando un membro della famiglia non vi è rien
trato. Anche se il patronimico del nuovo arrivato può essere cam
biato, egli viene sempre " riconosciuto ". Per esempio, i Simonot, fat
tori alla Moloise (una fattoria isolata) per venticinque anni, lasciano
il villaggio verso il 1 840. Una delle loro figlie, Anne, sposa Théophile
Collin, contadino a Essarois. Essi avranno cinque figlie che, dopo il
loro matrimonio, si disperderanno tutte nei villaggi vicini. Una di
essa, Arnandine, sposa James Vincent, coltivatore a Colmier-le-Haut, e
la loro unica figlia, Louise, si sposa nel 1938 con un coltivatore-pro
prietario di Minot. Parlando di questa Louise Vincent si dice: « ha
rifatto razza al villaggio ». In questa regione, le famiglie non rimango
no raggruppate: l'obbligo di trovare una fattoria disperde le paren
tele, i fratelli si separano in cerca di un lavoro o di un coniuge. E,
trasferitisi nei villaggi del circondario, fanno razza e diventano allora
« i Bénigaud di Saint-Broing » o « i Toussaint d'Echalot » . Infine re
stano quelle famiglie la cui sola caratteristica è d'avere un patronimico
sentito come familiare, « un nome che si è sempre sentito » , sia nel vil
laggio sia nella zona vicina. È andata cosl col nome Thoret: portato da
una famiglia di contadini nel 1836, sparisce dal villaggio fino al 1 926,
data in cui viene ad abitarvi un Thoret; i suoi antenati sono originari
di Salives ed è sposato con una donna « nata a Moitron ». Egli viene
accolto familiarmente e, dieci anni dopo il suo arrivo, diverrà sindaco.
Per quelle che si chiamano « vecchie famiglie » non contano né il
tempo di residenza né lo statuto sociale o professionale; l'unica cosa
che importa è il possesso di un patronimico che da molto tempo sia
stato sentito sia nel villaggio sia nei villaggi vicini. In questo villaggio
con migrazioni cosl grandi, dunque, sembra che il patronimico serva
da supporto per la memoria della comunità. Come in certe linee di
discendenza si conservano due o tre nomi di battesimo che ci si tra
smette di generazione in generazione, cosl esiste, al livello di questa
zona di dispersione delle parentele, uno stock di patronimici che, pro
priamente, hanno un sentore di familiarità. Accoppiati col nome del
villaggio di residenza, essi permettono talvolta di tracciare a ritroso
l'itinerario geografico d'una famiglia: « È il Grivot di Barjon che è
di Minot » (originario di Minot, quest 'individuo era andato a Barjon).
All'interno di questa regione, tra questi nomi patronimici, tra queste
<( vecchie famiglie », i matrimoni si fanno senza alcun problema, <( per
246
porti matrimoniali, Minot è considerata come il centro, è il « paese »,
in opposizione agli altri villaggi designati sia col loro nome sia col
loro soprannome. « I Sorcis » (stregoni) 1 di Fraignot, « i Tetes de
Bo » (teste di legno) di Étalente, « i Courlis )> di Courlon circondano
« i Loups )> (lupi) di Minot. Quest'area in cui i villaggi hanno un so
prannome è l'area della lingua comune, in cui ci si parla perché si
portano gli stessi patronimici.
Alle " famiglie-ceppo " di questa piccola regione, riconosciute per
ché portano un patronimico a cui si accosta il nome di un villaggio
vicino, si aggiungono immigranti venuti da altre regioni della Fran
cia o da più lontano ancora, da paesi stranieri.
Si ha notizia di questi arrivi successivi dalla lettura dei censimenti.
Nei primi decenni del XIX secolo, arriva gente proveniente dall'Al
vernia, in massima parte segatori d'assi. Verso il 1 880 è la volta di
un gruppo del Morvan che, secondo l'occasione, si dedica all'agricol
tura o all'attività di taglialegna. Dopo la Prima Guerra Mondiale,
Mosellani, Lussemburghesi, profughi dalle loro province per le deva
stazioni della guerra, prendono le fattorie del contado abbandonate
per mancanza di fattori. Verso il 1930 alcuni Svizzeri fondano una
azienda casearia, in cui uomini del Giura vengono assunti come ope
rai. Nel decennio che precede la Seconda Guerra Mondiale, Polacchi,
Iugoslavi, Italiani, Portoghesi in cerca di lavoro o di asilo politico, si
aggiungono agli ultimi taglialegna-carbonai o si impiegano come brac
cianti. Ogni immigrazione è datata: <( Era l'epoca in cui... )> . Ciascuna
ha il suo modo di venire indicata : <( Quelli del Morvan, gli Yougo, i
Pollak. . . ». Ciascuna ha la sua storia: <( Adesso le racconto . . . Il nonno
di Pierre Lacherot aveva soldi e venne nello Chatillonnais a compra
re fattorie che, all'epoca, costavano poco, meno che nel Morvan. Co
me mezzadri fece venire certe famiglie del suo paese. Ecco come sono
venuti i Jeunet, i Malard, i Berthaud. Ecco come sono venuti quelli
del Morvan )> . Ogni arrivo di uomini porta con sé il suo stock di pa
tronimici, la cui consonanza testimonia l'origine geografica e guida,
in qualche modo, la memoria della comunità. Questa memoria è corta:
i Maréchal, venuti da non più di un secolo e mezzo dai monti della
Alvernia, sono oggi considerati come una tra le famiglie-ceppo del
villaggio. Generazione per generazione, infatti, famiglie nuove comin
ciano a diventare <( vecchie famiglie )) .
l Per quanto riguarda la traduzione italiana - che si dà tra parentesi tonde - dei
soprannomi, spesso originalmente in patois che, insieme col francese, ha qui il ruolo
-
247
rie di ondate in cui, finita la prima, ne nasce un'altra. Altri arnv1,
altri passaggi, legati all'avvenimento, segnano i tempi brevi, il ciclo
annuale e, ancora una volta, il patronimico serve come punto di rife
rimento.
Ai vecchi residenti e ai nuovi arrivati s'aggiunge una popolazione
marginale, fluttuante, instabile, composta da individui di cui non si
conosce il luogo di origine e che, spesso, non hanno patronimico : a
caratterizzarli è un soprannome, talvolta solo un nome. Solo occasio
nalmente compaiono nei documenti scritti : in occasione di un censi
mento si viene a sapere che Pierre Deschamps, contadino nel 184 1 ,
h a alle dipendenze tre domestici: Marie-Anne, Alexandre, il terzo non
è nemmeno nominato. O quando la morte li coglie al villaggio : « Il
23 ottobre 1 702, Jeanne, mendicante, di circa 70 anni, morl... » . E
quando si parla di loro si dice semplicemente: <( Non ha nome, quella
gente . . . » . Questa popolazione era ed è ancora costituita in parte da
braccianti stagionali. Li si chiamava, un tempo, i <( coloni d'Auberive »
o gli <( Onillons �> , perché in maggioranza venivano dalla colonia pe
nale di Auberive, dove un certo (( signor Onillon » si incaricava di tro
vare loro un lavoro nelle fattorie. Oggi qualche giovane bracciante
viene dal centro di rieducazione di Digione. Tra questa gente di pas
saggio si contavano anche i venditori ambulanti, i merciaioli che ve
nivano regolarmente al villaggio e talvolta vi si istallavano. All'inizio
della primavera ecco apparire, marzolino, <( Carnaval », il venditore
ambulante di granelli ; <( la Mère aux chiens » che vendeva fiammi
feri di contrabbando, <( la Charlotte » che spiattellava sulla piazza <( un
vero e proprio bazar » . Infine poveri e mendicanti venivano regolar
mente a far visita agli abitanti : <( C'era il Gugusse, un mendicante che
non si sa da dove venisse » . Un altro, detto <( v'là le peu t'homme »
(peu in patois: brutto, lercio) , <( portava una bisaccia a spalla, chie
deva pane e se ne andava » . Per gli abitanti del villaggio questi indi
vidui non hanno tutti lo stesso valore sociale e se si chiedesse loro di
metterli in ordine gerarchico, metterebbero ad un capo i mendicanti,
che oggi sono sostituiti da famiglie di zingari. Poi verrebbero i brac
cianti, gli antichi <( coloni d'Auberive » , che talvolta trovano moglie
al villaggio e vi si fermano. Infine metterebbero quei venditori am
bulanti, quei commercianti che hanno aperto bottega a Minot e che
ormai partono dal villaggio per fare i loro giri. Fu questo il caso, al
l'inizio del secolo, del lattoniere dell' Alvernia e del merciaio sa
voiardo. Facendo capo al villaggio, vi acquisiscono diritti, ritrovano
il loro cognome, un luogo d'origine e una storia. Ne consegue, ancora
una volta, l'accesso che una categoria di popolazione ha in un'altra :
gente di passaggio entra a far parte dei nuovi venuti.
Cosl, grazie al loro patronimico, le famiglie del villaggio sono di-
248
sposte in classi, in zone concentriche. Andando dal centro verso l'ester
no si trovano le « vecchie famiglie » prima, poi i « nuovi venuti » ,
infine « la gente di passaggio >> . In ognuna di queste categorie il pa
tronimico è come uno strumento mnemotecnico la cui funzione è, tra
l'altro, quella di individuare la data d'arrivo e, al di là, di definire le
famiglie con le quali si possono contrarre rapporti matrimoniali senza
problemi. Esso costituisce anche un mezzo per definire gli spazi dif
ferenti ai quali fa riferimento la comunità. Il « paese » , cioè il villag
gio, i villaggi attorno dove abitano coloro che portano lo stesso nome,
al di là il resto della Francia e i paesi stranieri donde vengono gli im
migrati che portano nomi diversi. E poi, più lontano ancora, lo spazio
illimitato di coloro che non hanno nome.
Il patronimico è dunque, allo stesso tempo, segno d 'identificazio
ne nello spazio di riferimento del gruppo, marca di appartenenza ad
una linea di discendenza e iscrizione di questa linea nello spazio di rifec
rimento. Esso caratterizza la casa, lo chez, il gruppo residenziale, evo
ca un'iscrizione nello spazio e legami di consanguineità: termine rela
zionale, stabilisce la connessione tra lo spazio vissuto del gruppo e gli
altri « noi », membri dispersi del parentado. Il patronimico sottende
allo stesso tempo un ambito di parentela ed un ambito di territorio.
Ma, all'interno del gruppo, non serve come identificatore.
249
Quindi, senza che noi possiamo conoscere le ragioni di questo
cambiamento, il nome unico scomparve verso la metà del XIX secolo.
A partire da questo periodo, ogni neonato ha diritto alla attribuzione
di molti nomi di battesimo scelti secondo norme che si evolvono col
tempo. Dopo il 1 860 e per qualche decennio, il bambino, a cui sempre
viene imposto il nome dai suoi genitori spirituali, riceve i loro due
nomi di battesimo - che dunque restano legati all'ambiente familia
re -, secondo il caso, messi al maschile o al femminile.
Poi, intorno alla Prima Guerra Mondiale, il primo nome comincia
a staccarsi dagli altri e subisce una sorte differente: ormai a sceglier
lo sono i genitori del neonato, secondo il loro gusto e la moda. Oggi
a Minot ci si chiama Florent, Bricette o Astrid, e si dà priorità alla
individualizzazione scegliendo un nome originale e singolare.
Gli altri nomi di battesimo, il secondo, il terzo, perfino il quarto,
restano legati all'ambiente parentale; essi sono sempre attinti allo
stock dei nomi della famiglia. Per essi, a poco a poco, si è creato un
certo numero di regole. Oggi, il maggiore dei maschi prende i nomi
dei due nonni, mentre la maggiore quelli delle nonne. I fratelli che
seguono si vedono attribuire il nome del padrino o della madrina, se
condo i casi, al femminile o al maschile, ai quali ultimi possono es
sere aggiunti i nomi d'uno zio o d'una zia, ovvero di un bisnonno,
dell'una o dell'altra linea di discendenza.
Attualmente, pertanto, i genitori spirituali non sono più quelli che
danno il nome al neonato, se non in seconda o terza istanza e quando
si tratta del terzo o del quarto bambino. Questo scordarsi dell'omo
nimia si è accompagnato con un cambiamento nella norma che pre
siede alla scelta dei padrini e delle madrine/ cambiamento che qui
tratteremo brevemente.
Fino a prima dell'ultima guerra, il modello della relazione padrino
figlioccio era il seguente: « Per il primo bimbo si prendeva il nonno
paterno e la nonna materna, per il secondo il fratello maggiore del
padre e la sorella maggiore della madre, poi, per gli altri, ci si allon
tanava dall'ambito familiare ». Quando era il padrino a dare il suo
nome al bambino, la preferenza per il nonno paterno e la nonna ma
terna, poi per lo zio paterno e la zia materna, con l'esclusione degli
altri parenti, sembrava corrispondere ad un'esigenza relativa al modo
di trasmissione del nome di battesimo: un uomo poteva dare il nome
al figlio di suo figlio, ma non al figlio di sua figlia; allo stesso modo,
una donna poteva dare il nome al bambino di sua figlia, ma non a
quello di suo figlio. Il nome si trasmetteva, dunque, secondo i casi,
250
in linea diretta paterna o materna; almeno per quel che riguarda il
primogenito, la regola di trasmissione dei nomi di battesimo dava luo
go ad una ripartizione dei bambini tra le linee di discendenza agna
tizia e uterina. I ragazzi avevano nomi uguali a quelli degli uomini
della linea di discendenza paterna e le ragazze nomi uguali a quelli
delle donne della linea di discendenza materna. La scelta del nome
obbediva dunque ad una doppia affiliazione. « Ora - ci è stato detto -
non si prendono più i nonni. Ci si è accorti che erano persone an
ziane, che essi erano già vecchi e che quindi si finiva per avere i propri
padrini solo per poco tempo ». Oggi il modello delle relazioni padrino
figlioccio è stabilito così: « Per il primogenito, si prende il fratello
del padre e la sorella della madre, per gli altri ci si allontana dall'àm
bito della parentela ». Questa scelta dei collaterali a scapito degli
ascendenti pone molte questioni che non possiamo trattare qui. Ci
fermiamo soltanto su ciò che ha rapporto col nome di battesimo. I
nonni, soppiantati nella funzione di padrini, vedono nondimeno i loro
nomi perpetuati nella linea di discendenza. E, col favore di questo
mutamento dei genitori spirituali, è stata ristabilita l'eguaglianza, lo
equilibrio tra donne della linea paterna e uomini della linea materna,
giacché adesso sono attribuiti ai bambini i nomi di battesimo dei quat
tro nonni; si noti che soli i nomi usuali dei nonni, i loro primi nomi,
scelti fuori da ogni contesto familiare, rientrano nello stock dei nòmi
di famiglia; ora, i nomi che si danno oggi non costituiscono più il
supporto mnemotecnico delle linee di discendenza di parenti morti che
li portavano uguali. Al più, adesso, la relazione investe tre genera
zioni : la regola di trasmissione dei nomi concorda con la memoria
genealogica.
Se, però, il primo nome diventa spesso quello che si adopera co
munemente, non è sempre cosl e ciascuno, a Minot, può vedersi attri
buire, in momenti diversi della sua vita, un nuovo nome, preso o no
tra quelli impostigli alla nascita. « Mio nonno, lo si chiamava Augu
ste, ma il suo vero nome era Denis, però non gli si dava il suo nome
e io non so perché ».
Adesso come una volta, l'attribuzione del primo nome resta legata
al battesimo, anche se ogni bimbo riceve legalmente un nome entro
tre giorni dalla sua nascita. E non sono sempre gli stessi nomi, in
effetti, che compaiono al municipio e sui registri parrocchiali. « Ai miei
bambini metto un nome in municipio, gliene metto molti in chie
sa », e i nomi della chiesa prevarranno sui nomi dell'iscrizione allo
stato civile. « Il mio nome è Jeanne-Marie, ma mi si chiama Henriette,
perché il mio padrino ha voluto che io mi chiamassi cosl »; primo
mutamento, prima confusione tra due fonti scritte, quella civile e quel
la religiosa.
251
Diventato adolescente, il maggiore dei figli maschi si vedrà desi
gnare e chiamare, qualsiasi sia il suo nome di battesimo, col nome di
suo padre: « Il Philibert è il Maurice del Philibert ». « Lo si chiama
Abel, il suo nome però non è questo, ma siccome suo padre si chiama
cosi, tutti gli danno il nome di Abel ». Con questo nome sarà desi
gnato ormai dai membri del gruppo. Altro mutamento, altra fonte di
errori tra nomi di parenti di generazioni differenti. In occasione del
matrimonio, poi, se il coniuge ne esprime il desiderio, il ragazzo o la
ragazza possono cambiare nome ancora una volta: « Il Félix, sua mo
glie lo chiama Marcel, ma per noi, lo si è sempre conosciuto come il
Félix ». Talvolta si tratta di uno scambio tra secondo nome e primo
nome, ma può anche trattarsi di un nome completamente nuovo. « La
Renée Desprey, non è questo il suo vero nome. Non so da dove l'abbia
tirato fuori questo nome, allo stato civile è Marie-Madeleine ». Una
volta, la moglie e i figli erano, certo, chiamati coi loro nomi di bat
tesimo, ma ad essi si aggiungeva il nome del marito e padre. « Mia
madre la conoscevamo con nome di Marie Daniel. E io, da giovane,
ero Marguerite Daniel ». Divenute anziane, le donne perdono, quando
ci si vuole rivolgere loro come quando le si indica, il loro nome e non
vengono designate che come « la mamma Daniel o la mamma Sale »
(contrazione di Isaie). E le ultime generazioni le salutano con un
« buongiorno mamma Bastien » (per Sébastien). Ultimo cambiamento
e nuova confusione tra patronimico e nome di battesimo e tra nomi
maschili e femminili. Tutte queste modificazioni rendono arduo lo spo
glio delle liste dei nomi perché, all'omonimia di molti individui, si
aggiunge, per una stessa persona, la fluttuazione dei nomi che si è
descritta. Cosi, censito nel 1841 sotto il nome di Jean-Baptiste Voisot,
la stessa persona compare nel 1851 sotto il nome di Gabriel. Gli
incaricati del censimento non hanno commesso errori: senza saperlo
hanno registrato il costume.
Tutto induce a credere, dunque, che ogni importante passaggio
della vita individuale si accompagna con un cambiamento di nome: ad
ogni nuovo stato corrisponde un nuovo nome, ad ogni nuovo statuto
fa eco un nuovo modo d'essere chiamati. Un individuo, in momenti
successivi della sua vita, sarà conosciuto con nomi differenti e, secon
do il gruppo al quale ci si riferisce, egli sarà designato in modo di
verso. Questa prassi, lo si comprende, complica singolarmente i tenta
tivi di stabilire genealogie. « Mio padre, prima si chiamava Daniel,
ma poi mia madre lo chiamava Jules »; « la madre di mio padre si
chiamava Marie-Émile, ma le si diceva Angèle, la madre di Angèle le
si diceva Zoé, ma non era il suo nome »; « nella famiglia, c'erano il
Louis, detto Georges, e la Marguerite, che a dire il vero si chiamava
Jeanne ». Solo morendo l'individuo ritrova tutte le sue identità: « Il
252
20 novembre 1 959 è deceduto Émile, Lucien, Albert, Fréderic, detto
Jean Camuset » .
La letteratura etnologica sulle società cosiddette esotiche aveva
mostrato da molto tempo come ci fosse una discontinuità nel modo
in cui un individuo veniva chiamato: come a ciascun cambiamento di
stato corrispondesse una diversa denominazione e, per l'intera sua vita,
l'individuo fosse segnato da identità per cui il nuovo nome cacciava
via l'antico. Sembra pertanto che in questa società contadina avvenga
un fenomeno analogo. In relazione con la biografia, si assiste ai mede
simi mutamenti di nome, ma con in più una accumulazione di identità.
Di fronte a questa prassi, è necessario porsi il problema del ruolo
del nome in quanto identificatore. Una denominazione così fluttuante,
che cambia così spesso può assolvere a questa funzione? E qual'è il
motivo di questi suoi cambiamenti? Si crede che il nome ha un'in
fluenza sul destino individuale? Certamente, abbiamo trovato tracce
di queste credenze: il segreto sul nome del bimbo, tenuto fino al mo
mento in cui nasce; quella donna che, raccontando la nascita di suo
figlio, ricorda che lo voleva chiamare Bernard: « Il padrino preferiva
Gérard, e gli si è messo questo nome. Orbene, durante l'anno, due
neonati di nome Bernard sono morti . . . E dunque, io non sono super-
stiziosa, ma qualche volta mi chiedo . . » . Lontano ricordo di una pos-
.
253
volta per volta, padre, figlio, fratello, cognato, senza che la sua iden
tità ne subisca modificazioni. In questa società, si attribuisce al nome
lo stesso ruolo: un individuo è Marcel per i parenti acquisiti, Jean per
i consanguinei, Maurice per i suoi coetanei. La variabilità dei nomi
riflette le posizioni variabili che un persona ha nell'ambito del suo
gruppo e la sua identità è costituita, tra le altre cose, dalla somma di
tutti questi punti di riferimento. Il nome assolve, come le altre deno
minazioni, una funzione che è insieme assimilatrice e distintiva. Resta
da capire perché i nomi vengono manipolati cosl. E se malgrado tutto
ci si intende, è perché il giuoco ha luogo nell'universo chiuso della
comunità del villaggio, in cui i legami di conoscenza reciproca inseri
scono fortemente l'individuo nel gruppo: ciascuno è sempre alla vista
degli altri, perché chiamarlo in maniera unica dal momento che, in
ogni modo, si sa di chi si parla?
La stessa cosa accade col soprannome. Si trova qualcuno che è
provvisto di diversi soprannomi. D'altra parte, accumulando i nomi
non si scivola insensibilmente verso la costituzione di soprannomi?
Soprattutto nel caso in cui alcuni di essi assumono una connotazione
peggiorativa: « ]ean-Jean » è un cornuto, « Colas », un idiota e
<( Gros Jacquot », un babbeo.
Il soprannome era ed è ancora individuato a Minot, dove si parla
di <( falsi nomi » o di <( nomi aggiunti ». Nel quadro di questa rela
zione, accenneremo soltanto rapidamente alla formazione dei sopran
nomi.
254
andamento più vivo, spesso umoristico. Il soprannome sembra avere,
per prima cosa, la caratteristica di strumento mnemotecnico e di fram
mento di una vera e propria lingua di gruppo.
Il soprannome è un segno che serve ad organizzare cognitivamen
te gli individui; esso informa sui comportamenti e sulle abitudini di
ciascuno, e, allo stesso tempo, fornisce dati sulle forme di sensibilità
e sui valori del gruppo. Ogni soprannome è, in linea di massima, ac
compagnato da una spiegazione, anche se, talvolta, ci si ricorda di esso
senza ricordarne l'origine: « Il Cambronne, non ha mai saputo perché
gli si diceva cosi » . È raro però che si confessi la propria ignoranza,
salvo che per gli antichi soprannomi, presi da qualche documento
scritto e che, per sempre, rimarranno misteriori. Perché « Grivot-36
ci3tes? », perché « Jean Mathieu, detto l'Amour » e « Nicolas Béni
gaud, detto il Prince »? Abbiamo trovato un altro « Prince » che era,
ci è stato detto, « piccolo, non bello e con niente di straordinario » .
È frequente che il soprannome sia dato per derisione e che esso espri
ma il contrario di quello che si ritiene significhi. Procedimento fre
quente di trasformazione del significato vero del termine per mezzo
dell'inversione, anche se la ragione più evidente raramente è signifi
cativa : « Il Frisé » era senza dubbio completamente calvo. Spesso i
soprannomi hanno non una, ma molte spiegazioni, date da informatori
differenti. Allora è inutile, anzi impossibile, cercare l'origine vera di
un soprannome, e dal momento che non si è mai certi di raccogliere
la spiegazione originale, l'importante è prenderle tutte come tante me
morie costruttive sulla personalità di un individuo.
E poi i soprannomi si concatenano, si trasformano vicendevolmen
te. Una volta attribuiti, si allontanano dalla loro etimologia, ne acqui
stano un'altra, perdono il loro primo significato. La donna del brac
ciante Royer era designata da tutti col soprannome di « la Royère » ,
« perché beveva » si aggiungeva come commento. Il suffisso aggiunto
al cognome prendeva in questo caso, noi pensiamo, un valore nega
tivo. Ora, in patois, royère indica la trincea di drenaggio di un prato.
Giuocando, insieme, sull'omofonia tra la parola dialettale e il cognome,
e sul giuoco di parole tra questi ruscelli pieni d'acqua e quella donna
sempre ubriaca, ne è scaturito il soprannome. Questi collegamenti oggi
si sono perduti nella memoria. L'assonanza tra patois e francese, l'ar
ticolazione tra l'una e l'altra lingua sembra una costante nella forma
zione dei soprannomi. Nelle regioni in cui, per esprimersi, si avevano
a disposizione il patois ed il francese, il soprannome poteva avere un
significato in ambedue i codici, arricchendosi ed amplificandosi in
questo continuo scambio. Certi soprannomi giuocano insieme sull'asso
nanza e sulla polisemia, quasi parole-incrocio tra le due lingue. Que
sta ricchezza oggi s'è perduta, permane solo il riferimento al francese.
255
« Il fabbro carraio era il Pan, come il rumore del suo martello sull'in
cudine » ci hanno raccontato. Ora, pan, in patois, è un avverbio che
esprime « il superlativo della pienezza, della continuità, della regola
rità » . Il soprannome del fabbro ricordava certo il rumore caratteri
stico del suo mestiere ma senza dubbio anche la regolarità nel lavoro
del fuoco e l'abilità del fabbro nella fucina.
Sempre faceti, questi soprannomi offrono un'immagine dello spi
rito del gruppo. Non sapere ritrovare questa lingua è perdere per
sempre il ruolo e la forza del riso. Spesso peggiorativi, essi distribui
scono e rivelano per ciascuno caratteristiche morali e fisiche. Talvolta
perverso, il soprannome segna spesso una devianza rispetto alla norma
o l'emarginazione : « La Viergette, aveva avuto due bambini senza
essere sposata » ; « l'Alouette era nata in modo strano, in un solco,
dove l'allodola fa il nido »; « il Muniche » è nato altrove; « il papà
la Chopine » beve troppo; « la Virette » gira troppo la testa; « la
Patare » fa troppo chiasso. Tutto ciò che la censura sociale non per
mette di dire direttamente, viene espresso dal soprannome a suo modo,
senza tenere conto né dell'ordine familiare né di quello sociale.
Al contrario del patronimico e, in parte, del nome, che restano di
competenza del parentado, il soprannome spetta alla comunità: esso
è lasciato alla libera creatività del gruppo sociale. Ed in questa distri
buzione si confondono poveri e ricchi, il notabile e il resto della co
munità. Se tutti si confondono, però, ciascuno è reso singolare. Il
soprannome segnala le caratteristiche particolari, prende in considera
zione la personalità di ciascuno, ne sottolinea la condotta e i compor
tamenti. Ma, mentre afferma le differenze, il gruppo enuncia l'assen
za di gerarchia, sostituisce un ordine con un altro, stabilisce un ordine
egualitario per tutti gli abitanti del villaggio. Attribuendosi il diritto
di prendere in considerazione i comportamenti e le abitudini di ognu
no, di valutare i membri delle classi d'età, recupera gli emarginati, in
clude i notabili, tratta in modo egualitario tutti i membri del grup
po. In realtà a Minot, il soprannome abolisce le differenze sociali e,
al contrario del nome e del cognome, non definisce una posizione so
ciale, ma segna un posto nell'ambito della comunità.
Sia gli uomini che le donne possono vedersi attribuire un sopran
nome, i vecchi come i nuovi venuti ; solo i bambini sono esclusi da
questo sistema di denominazione. È anche vero che, nel corso della
vita, si riceve un solo soprannome; tuttavia, qualche persona, di spicco
o dalla forte personalità, può possederne molti, adoperati nello stesso
tempo, ma attribuiti da gruppi diversi. I giovani e i vecchi del vil
laggio usano talvolta, per lo stesso personaggio, diversi soprannomi :
ciascuna classe ha la sua lingua. Il locandiere, ritenuto poco amabile
con la clientela, gli uni lo chiamano « il Tisonnier », gli altri « il Gra-
256
cieux ». Gli uomini e le donne, spesso, non si servono dello stesso
soprannome. Flavie Ballet, moglie del cantoniere, donna alta, sempre
vestita di ampi vestiti che le cadevano dritti, era soprannominata da
gli uomini « l'Armère » (l'armadio) e dalle donne, più gentilmente,
« la Grande Flavie ». Tra le due parti del villaggio, quella alta e quel
la bassa, c'erano differenze. Nella parte bassa, al Vaux, tra i suoi vi
cini, Abel Pernet era detto « lo Charbonain » (il carbonaio), al Mont
era diventato « il Pétroleur » : carbonaio, aveva smesso di esserlo,
aveva acquistato una trebbiatrice a petrolio e, con la sua macchina,
faceva il giro delle fattorie. E dunque, all'interno della comunità, se
condo che l'interlocutore è giovane o vecchio, uomo o donna, abita
al Vaux o al Mont, si servirà di questo o di quel soprannome. Con la
lingua specifica costituita dai soprannomi si colgono alcune stratifica
zioni attorno alle quali si organizza la comunità locale: classi di coeta
nei, sessi e spazio, e si ritrovano quei campi differenziali, nei quali
l'individuo si colloca e riceve una denominazione.
Questi ultimi tratti spiegano che « il soprannome è personale, non
è per una famiglia » e che esso, quasi sempre, resta proprio all'indi
viduo e non passa né alla moglie né ai figli.
È da dire infine che i soprannomi d'oggi perdono terreno. Ad uti
lizzarli sono rimasti solo piccoli gruppi; i vicini, i compagni di lavoro,
i coetanei. Essi hanno perduto il carattere di lingua della comunità.
Senza dubbio perché il gruppo si è allargato, i riferimenti, le attività
sono altrove, al di fuori. E poi i soprannomi d'oggi sono meno forti,
meno caricaturali. È il risultato di una certa omogenizzazione, sia fisi
ca che sociale, della vita del villaggio? Col miglioramento delle con
dizioni di vita e d'igiene si vedono meno « storpi, gobbi, malfatti,
malaticci. Non si vedono tutti i brutti d'una volta », c'è stato detto.
Oggi si è anche perduta la possibilità, il diritto stesso di ridere alle
spalle degli altri, e lo spirito che sottintendeva la lingua dei sopran
nomi è compreso male, malaccetto: c'è da dire poi che l'uso del patois
va scomparendo. La recente scomparsa dei gruppi sociali estremi, da
una parte i notabili, dall'altra i taglialegna, i braccianti, la gente del
bosco, ha raccolto l'intera comunità in una specie di grigiore sociale.
« Non ci sono più poveri, ora sono tutti ricchi » si constata. Il so
prannome, lingua di tendenza egualitaria, ha minori ragioni d'essere
con individui che si vogliono tutti identici, allo stesso tempo, gli uni
con gli altri e coi membri della società tutt'intorno.
Se però riprendiamo queste denominazioni per quanto riguarda le
loro funzioni referenziale e di appello, senza dubbio coglieremo me
glio il ruolo e il posto che ognuna di esse occupa, e, insieme, apparirà
in tutta la sua complessità il protocollo che regola i rapporti di comu
nicazione all'interno del gruppo.
257
Quando lo si designa, tra i membri del gruppo, un uomo è sem
pre indicato col soprannome o col nome. Sia all'uno che all'altro, se
necessario, si aggiunge il luogo di residenza. « È il Jean del Moulin »
o « il Bernard di Velbret » (nomi di fattorie isolate), si parla anche di
« Nicolas delle Creux » (nome di un quartiere del villaggio). Si desi
gna l'uomo, dunque, in riferimento allo spazio in cui esso geografica
mente è situato. La donna ed il bambino hanno la loro denomina
zione in un tempo genealogico. La moglie è « la Jeanine del Bernard »,
il figlio è « Louis, quello del Jean >> . Tuttavia va notato che il bam
bino piccolissimo appartiene ancora a sua madre: « ho visto il Pierrot
della Rose ». Solo verso i sei o sette anni, ragazzi e ragazze vengono
denominati riferendosi al padre. Il riferimento mette ciascuno al suo
posto.
Nella designazione il patronimico viene adoperato raramente, sal
vo che per designare la casa: a prenderne il posto è il nome del marito
e padre. Tuttavia alcuni uomini, primogeniti o dotati di una forte per
sonalità, vengono denominati col loro patronimico. Se dunque in que
sto caso si sottintende una valutazione qualitativa positiva, la cosa va
diversamente per una donna designata col solo patronimico del ma
rito: « la Delarche » o, peggio ancora, quando il patronimico è accom
pagnato dalla parola /emme, « la /emme Grapin ». « Quando si dice
la femme, non c'è molta considerazione, o anche se uno dice ' la Bre
not ', è che essa non ha un'ottima reputazione » . In questo caso si
nota, nettamente, una sfumatura dispregiativa. La denominazione con
nota un comportamento e, per mezzo di essa, il gruppo trova il mezzo
di caratterizzare, nel bene o nel male, i suoi membri. Siamo di fronte
ad una manipolazione simbolica della denominazione.
Rivolgendosi a qualcuno, si adopera come norma il nome. Il so
prannome viene nascosto a chi lo porta, salvo che in alcune circostan
ze. « Il Bredouillard, giocava alle carte e beveva. Gli si diceva ' sacré
Bredouillard ', e glielo si diceva in faccia ». Alcuni soprannomi, appa
rentemente lusinghieri, si prestano ad un'utilizzazione diretta: « il
Major, il Colone!, si diceva loro così ». Talvolta colui che lo portava
rivendicava il suo soprannome, proprio come segno della sua appar
tenenza al gruppo: « il Télémaque, si presentava a tutti dicendo ' io
sono il Télémaque ' ». Ancora una volta constatiamo che, secondo la
situazione, beneficiario ed interlocutore possono avere interesse a far
uso di questo o di quel nome. Ciascuno manipola la sua e l'altrui iden
tità sociale. Ma il più delle volte, si fa finta di ignorare il proprio so
prannome. Quanto al patronimico « lo si usava solo in occasione del
matrimonio » ci è stato detto. Noi abbiamo concluso, poc'anzi, che,
nei flussi migratori, il patronimico permette una individuazione spa
ziale delle famiglie e che questa individuazione si attualizza essenzial-
258
mente in una strategia matrimoniale. Come un'eco, la stessa idea ci si
ripresenta qui.
Si giunge dunque a questa situazione paradossale: gli adulti prov
visti di tre nomi, almeno, - ciascuno dei quali può essere raddoppiato,
addirittura raddoppiato due volte, e che, tutti e tre si combinano con
altri termini, con altri nomi, secondo il parlante, il luogo, la circo
stanza -, nella designazione vedono allargarsi la loro identità. Al con
trario, quando ci si rivolge loro, lo si fa con una sola denominazione:
col nome; si tace il soprannome, mentre il patronimico è occultate;>.
Ma in questo fare a rimpiattino tra il riferirsi ed il rivolgersi, un
posto a parte va assegnato ai bambini. L'etica, nettamente formulata,
vuole che essi non chiedano il nome delle persone: « sarebbe curiosità,
non si fà! �� . Una vecchia informatrice racconta: « Quando vedevo
qualcuno, chiedevo a mia madre, chi è quello? Allora un giorno, per
punirmi, passeggiando, si rivolge ad una donna nei campi, dice: " Si
gnora, c'è qui una bambina che vorrebbe conoscere il suo nome ".
" Ma è curiosa questa bambina, eh! - risponde la donna - orbene,
io non ne so nulla! ". Oh, come m'indispettii ». I bambini non pos
sono rivolgersi agli adulti usando il loro nome, ancora meno il sopran
nome e, spessissimo, non conoscono il cognome. « Sono arrivato a
trenta anni per sapere che il Télémaque in realtà si chiamava " Lafour
cade " e che Didier Rose era una " Lachaud " ». Donde parecchi equi
voci: « Un giorno dico, " buongiorno mamma Dama " (in patois " pal
lottolina "). Oh, se m'ha rimbrottato... ». Senza volerlo, senza saperlo,
i bambini rivelano i nomi. Troppo giovani per essere qualificati nel
sistema sociale - lo si è notato -, svolgono la funzione di agitatori e,
innocentemente, ridistribuiscono ad ognuno i suoi nomi. Grazie alla
loro mediazione, il codice di comunicazione funziona alla perfezione.
Qualsiasi sia il nome adoperato, però, esso è sempre preceduto
dall'articolo definito. « Il Maxime lo dice spesso, come la Germaine
e la Denise ». Si tratta di una forma di designazione popolare che
esiste in molte zone rurali. La pronipote del notaio, che in parte fre
quentò la scuola a Minot, racconta che tutti gli sforzi della maestra,
verso gli anni trenta, erano rivolti a far perdere ai suoi alunni « que
sta abitudine rozza ». Lei stessa, poi, quando cominciò a dare lezioni
di arte domestica alle ragazze del villaggio, le rimproverava sempre:
« non siete bestie, per parlare cosl ».
L'uso dell'articolo, però, richiama altre considerazioni. Fuori dal
gruppo l'articolo sparisce subito, tranne quando si parla di un parente
prossimo o di qualche individuo, l'attività del quale lo porta spesso al
villaggio e col quale si hanno regolari relazioni. Cosl, si aspetta il pas
saggio « della Huberte », commerciante di bestiame che << presta tori ».
Prima del nome di un estraneo, l'articolo indefinito accompagnato dal
259
termine certo/ prende il posto dell'articolo definito. « L'Alice Belin ha
sposato un certo Simonet ». L'articolo indefinito, accompagnato da
certo, indica, certamente, che si enunzia l'identità di un individuo, ma,
innanzitutto, che egli vive fuori dai confini del paese, della zona degli
scambi familiari. Al di là, i nomi di persona non sono forniti d'articolo.
Nell'ambito della comunità, nel gruppo, l'articolo viene soppresso
solo davanti al nome dei morti. Tra membri viventi del gruppo, ogni
designazione ne è provvista. Anche quando un informatore parla di
se stesso, si autodesigna, lo adopera: « Per tutti qui, io sono la Fifi
ne », o ancora « per gli operai, noi si passa per la Nelly e l'Auguste ».
Lo si adopera anche quando davanti al nome si pone un termine che
indica l'età. Un tempo, infatti, ogni classe d'età aveva la sua denomi
nazione. I neonati erano « il papon e la paponne », e si parlava « del
papon della Jeanne o della paponne della Rose ». Più grandetti, i bam
bini diventavano « il galchnin, la gaichnette » (" monello "; " monel
la "), denominazioni che venivano sostituite nell'adolescenza dai ter
mini che attribuiscono a ciascuno il suo posto tra i fratelli. « Il se
condo figlio si chiama Cadet, l'ultimo Frérot, quello di mezzo spesso
Fanfan. La maggiore delle femmine si chiama Fillette, l'ultima Soeu
rette » . Cosl, Marie Desprey, moglie del notaio, annota nel suo libro
dei conti che, il 26 luglio 1 850, ha pagato « otto soldi a Fillette Elie
per una giornata di lavoro di rammendo ». La denominazione era al
lora seguita dal nome di battesimo del ragazzo. Gli adulti ricevevano
un soprannome. I vecchi infine erano chiamati « il papà, la mamma ».
Oggi tutte queste denominazioni sono scomparse, tranne quella delle
persone anziane.
L'articolo, dunque, accompagna ogni denominazione, facendo così
parte integrante del nome dell'individuo e servendo, tra i membri del
gruppo, da identificatore: « Stéphanie Collet, la moglie del Noel, la
si chiama la Fannie, come la Stéphanie Lannard, ma per lei si diceva
più volentieri la Malote ». Non c'erano mai al villaggio due persone
con lo stesso nome: « La Suzanne, è la Suzanne, l'altra è la Suzanne
Javelle ». Con l'articolo non può esserci confusione nel pensiero di
coloro che designano un individuo per mezzo del nome, del cognome
o del soprannome. Ciascuno, nel gruppo, è reso singolare e non può
essere confuso con un altro. L'uso dell'articolo ricostituisce, nello spi
rito dell'interlocutore, la certa singolarità dell'individuo di cui parla.
Ogni persona, a Minot, può avere, come si è visto, nomi tanto diver
si, può sentirsi chiamare in modi tanto differenti, che l'articolo, usato
(n.d.t.).
260
con uno qualsiasi di questi nomi, ricostituisce, nel momento in cui si
parla, l'unicità dell'individuo. L'articolo definito è parte di un proces
so inconscio: un solo segno onomastico per identificare una persona.
L'articolo definito è un indicatore insieme spaziale - nell'ambito
dei membri del gruppo - e temporale - nell'ambito dei membri viven
ti del gruppo: associarlo al nome di qualcuno vuoi dire, in qualche
modo, farlo uscire dall'anonimato e integrarlo nell'ambito del gruppo,
all'interno - lo vedremo - nello spazio del villaggio. Gli articoli de
finiti costituiscono le vere e proprie marche della singolarità: grazie
alla loro utilizzazione, ogni denominazione diventa marcata. Si com
prende meglio, ora, la boutade di quella informatrice che metteva in
sieme ragazze e bestie: l'associazione è letterale, gli animali domestici,
come gli uomini, vengono concepiti come facenti letteralmente parte
della comunità. Essi hanno un nome e la loro designazione è sempre
accompagnata da un articolo definito.
Se al singolare definisce l'individuo, al plurale, quando accompa
gna il cognome, l'articolo definito designa la linea di discendenza.
Per indicare il gruppo residenziale, per dare dunque l'indicazione
spaziale e contemporanea della casa, però, esso è sostituito dalla pre
posizione chez. E in un gruppo familiare, per designare un membro,
si accumulano i qualificativi e non si esita a parlare « del giardino di
chez le René », identificando insieme l'individuo e la casa. Si pone
allora il problema di sostituire la preposizione chez negli usi normali,
dal momento che, per il fatto di venire adoperata in questo senso spe
cializzato, è, in qualche modo, eliminata dal lessico comune: ecco dun
que che viene adoperata la preposizione vers. « Tutti gli uomini, per
farsi rasare, venivano vers chez Lacagne » e ci si ricorda che « la
mamma Moulaine cuciva ancora vers chez l'Isabelle Camuse! ». Or
bene, tutte queste operazioni onomastiche, queste manipolazioni di
preposizioni, queste aggiunte di articoli al cognome, al nome, al so
prannome si ritrovano sul territorio, nella toponomastica.
Il territorio ha un nome e i toponimi sono di frequente accompa
gnati dall'articolo o da una preposizione. Per designare un luogo par
ticolare, per circoscriverlo, per renderlo singolare, il suo nome è for
nito d'articolo e ciò, tanto nella foresta che nella radura centrale.
D'altra parte, i toponimi hanno spesso una preposizione che sottoli
nea una localizzazione geografica: « Sous !es Monts », « Sur le Moulin
du Mont », « Près le petit Velbret », « Derrière !es clos », o - ed è
questo che ci importa di più - la preposizione ricorda una divisione
dello spazio tra ciò che è comune e ciò che è privato. Queste con
trade, queste vaste porzioni della pianura coltivata centrale, che rag
gruppano moltissimi piccoli appezzamenti privati, ma che, tradizio
nalmente, ritornano durante l'anno a maggese o, dalla fine della mieti-
261
tura, ad una fruizione collettiva, hanno toponimi accompagnati dalla
preposizione en - o ès, forma arcaica per en les. Allo stesso modo, le
fontane, le cave di sabbia o d'argilla, che, in questo àmbito, sono sfrut
tate comunitariamente, hanno un nome con la preposizione en: « En
Tailletote, l'acqua non era buona e ci si vietava di berla ». In cam
pagna, tutto ciò che appartiene alla collettività è identificato da en,
tutto ciò che è privato è segnalato dall'articolo definito. En sul terre
no coltivato, corrisponde, nel villaggio, alla collettività degli chez
- collettività che esercita diritti « en Curti!, en Charmoille » - come
l'articolo definito delle terre individualizzate corrisponde a quello del
le persone singole.
I toponimi di questi luoghi aperti ad un'utilizzazione collettiva,
provvisti della preposizione en, ricordano sempre un particolare del
l'ambiente naturale : non rinviano mai ad un fatto, ad un nome di per
sona, e rimangono immutati ciclo dopo ciclo. Al contrario, i prati,
cosi poco numerosi, così preziosi, sottratti per quanto possibile agli
usi collettivi, hanno nomi che spesso si rifanno ad un cognome ( « Il
prato Aubert, il prato Bollet ») e che sono sempre provvisti di arti
colo definito. Infine, altre località hanno nomi che segnalano procedi
menti singolarmente simili a quelli che abbiamo messo in evidenza,
dicendo della formazione del soprannome o della modificazione dei
nomi.
Nella foresta, certi sentieri e certi alberi, nella piana, sugli appez
zamenti delle fattorie, v'è libertà di dare nomi. In questi luoghi ogni
generazione di cacciatori mette i suoi segnali di riferimento, ciascun
fattore dà un nome al suo terreno. Questi nomi ricordano, molto
spesso, fatti accaduti sul luogo: « Il prato della tela bruciata, è il
nostro prato, dove una volta una bica s'incendiò »; « il bosco della
nonna, perché al riparo di questo bosco la nonna del vicino veniva a
fare pascolare le sue pecore sul nostro campo ». E nella foresta si tro
va anche la « quercia del curato ». Questi toponimi provvisti d'arti
colo non compaiono mai al catasto, essi non saranno cristallizzati in
documenti scritti. Intelleggibili solo a una o due famiglie, talvolta ad
un gruppo di vicini, ad una classe d'età, essi non durano che una o
due generazioni; poi vengono dimenticati a favore di altre denomi
nazioni. Cosi, nello spazio, e nei limiti che abbiamo appena assegnati,
ogni generazione inventa i suoi toponimi, dà nomi al suo territorio.
A rimanere immutabili sono solo le contrade della piana centrale,
vasti insiemi di appezzamenti; località iscritte al catasto che servono
da punti di riferimento principali e rispondono, come abbiamo notato,
a tutt'altra esigenza di classificazione. Certe località di campagna, dun
que, possono avere un nome temporaneo, fortuito, proprio come cia
scuno nel gruppo può vedersi assegnare un soprannome, un nome.
262
Questa stratificazione, ricordata dalle numerose denominazioni rice
vute da una persona, si ritrova, identica, nel territorio. E la toponi
mia iscritta al catasto non riflette che una piccola parte dei nomi di
luogo, come i nomi iscritti allo stato civile non rivelano che una parte
dell'identità di ciascun individuo.
Se, partendo dai nomi di persona e dopo un lungo cammino tra
passato e presente, tra i parentadi e la collettività, sbocchiamo nello
spazio, non è un caso. Un villaggio è prima di tutto un territorio, de
nominato, ordinato, di cui alcune categorie offrono una forte resi
stenza al mutamento. Certo, alcuni nomi di luogo si modificano cosl
come passano le persone, in questo villaggio dalle migrazioni cosl nu
merose: ma, come al gruppo delle « vecchie famiglie » dai cognomi
ritenuti familiari si aggiungono costantemente i nuovi venuti per per
petuare la comunità, attorno alla rete delle località quasi immutabili
della piana centrale, altri nomi, più effimeri, si accumulano e poi cam
biano senza che per questo vari l'ordinamento del territorio. Cosl noi
avevamo notato che i nomi potevano cambiare, che le denominazioni
potevano accumularsi, senza che ne conseguisse modificazione della
identità individuale. Pare chiaro, dunque, che denominazione topo
nimiche e denominazioni individuali sortiscono da un medesimo siste
ma e che c'è somiglianza tra categorie spaziali e categorie nominali.
Lo stesso pensiero organizzatore sembra avere ordinato tutti e due gli
àmbiti. Toponimia e patronimia sono due lingue allo specchio. E c'è
continuità tra nomi dello spazio e denominazioni della società.
D'altra parte, una evoluzione identica segna ambedue gli àmbiti:
lo spazio collettivo si impoverisce, subisce un livellamento: le case e
le tombe vengono allineate. Nel villaggio si livellano i muri, nel con
tado si distruggono le siepi, si spianano le montagnole di sassi che
fungevano da punti di riferimento. Allo stesso modo i nomi, oggi,
sono meno numerosi: si conosce e si usa il cognome, il soprannome
scolorisce e, al giostrare dei nomi diversi, succede il permanere del
nome di battesimo.
Discussione
263
ti volte nel corso della loro vita (tanto che è terribilmente difficile se
guirne l'intrico), constatiamo che accanto a noi, da noi, esistono feno
meni dello stesso tipo, e che bisogna soltanto saperli discernere su di
una scala microscopica, mentre altrove ci si mostrano su scala mag
giore. Sono rimasto particolarmente colpito dall'ultima parte della Sua
relazione, in cui Lei ha mostrato il sistema di corrispondenza tra topo
nimia e onomastica, nomi di luogo e nomi di persona. Se se ne può
trarre una conclusione provvisoria, prima d'aprire la discussione, si
può dire che una società come la nostra è ancora lontana dall'avere
risolto inequivocamente il problema dell'identità, e che ci troviamo
di fronte a fenomeni tanto complessi e di così difficile interpretazione
quanto lo erano quelli che qui si sono esposti per l'Africa o il Sud
America. Vorrei, però, aprire la discussione.
264
un villaggio), in lingue come l'italiano o il portoghese. A che cosa
corrisponde? Come prima approssimazione, si potrebbe dire che cor
risponde ad una aggettivazione del nome, perché, se io dico « il Mau
rizio », designo qualcuno come avente la qualità ' Maurizio ' tra altri
che potrebbero a loro volta possederla.
265
però, si ferma in capo ad una generazione e, dal momento in cui i figli
si sposano, essi acquistano il loro proprio soprannome. Però, credo
di non potere rispondere se mi si chiede il perché. Io stessa sono stata
colpita, in questo villaggio dove ci sono tanti cognomi, dove i nomi
sono cosi numerosi, dove, per cosi dire, non c'è omonimia, dal gran
numero dei soprannomi. Nelle comunità in cui quasi tutti gli abitanti
hanno lo stesso patronimico, spesso lo stesso nome, si pensa che il so
prannome abbia il ruolo di identificatore di una tra più famiglie. A
Minot non è cosi : ho tentato di mostrare che c'è un villaggio in cui
la gente passa, dove ci sono costantemente immigrazioni, donde la
gente va via; ed esso non conosce soltanto questa istabilità demogra
fica, prova anche il bisogno di avere una totale istabilità nell'ono
mastica. Perché? Forse facendo una comparazione col suo spazio, col
suo terreno, in cui si elabora una lingua identica, come allo specchio,
si può tentare di rispondere. Non sono sicura, però, d'esserci riuscita.
266
sta situazione, un effetto differenziale delle condizioni giuridiche del
la trasmissione della proprietà fondiaria?
267
America, in cui si tiene conto di una relazione con un'antica comunità
indiana: si designano alcune persone in rapporto con la loro relazione
con un antico territorio precedente all'arrivo degli Spagnoli. C'è una
relazione analoga a Minot?
Odile Jacob: Scambiando il suo nome " proprio " con un sopran
nome, l'individuo non perde la sua identità, non diviene, allo stesso
tempo, oggetto della manipolazione del gruppo?
268
diminutivo, lo perdono da adulti e, nel caso in cui lo conservano,
lo conservano come soprannome. I bambini, però, hanno un ruolo
particolare, perché sono loro a dare i soprannomi, nonostante l'in
terdizione. Sono loro i veri manipolatori della identità.
269
facessero da padrini. Ma quando, ora, si dà al bambino il nome del
nonno, è il primo nome di quest'ultimo quello che si sceglie. D'altra
parte, il primo nome, oggi, lo si sceglie completamente al di fuori del
l'identità della famiglia. Mi sembra, pertanto, che la memoria genea
logica, attualmente, valga solo per tre generazioni: il nonno, il padre,
il figlio.
270
Se stessi e gli altri
Alcuni esempi balcanici
L'identità spirituale
so per colpa d'Adamo e che tale era rimasto fino alla discesa di Gesù
Cristo . . . » 1 ci dice un antico testo rumeno, che più avanti precisa il
luogo in cui andranno i bambini non battezzati : « I bambini dei cri
stiani morti senza essere battezzati avranno lo stesso destino di quelli
dei pagani : non andranno nel regno dei Cieli né all'Inferno; essi re
steranno invece in un luogo pieno di luce » .2
I neonati non battezzati infatti non hanno avuto il tempo di pec
care e quindi non possono essere dannati, ma non avranno ugualmente
* Pau! Henri Stahl, membro dell'Accademia di Romania, suo paese d'origine, do
ve ha anche diretto la sezione di etnologia, folklore e storia dell'arte dell'istituto di
studi sul sud-est europeo, dal 1970 è direttore di studi associato aii'École des hautes
études en sciences sociales di Parigi e membro del Laboratoire d'anthropologie sociale
del Collège de France. Ha pubblicato studi sociologici ed etnologici sulle popolazioni
balcaniche (n.d.t.).
l Pravila bisericeascìi. Pravila lui Mateiu Basarab, eu canoanele santilor apostoli
intitulatìi Indreptarea [egei, tipìiritìi la Tirgovi�te, in anul 1 652, edita da loan M. Bujo
reanu, Bucarest, 1884, p. 1 1 1 .
2 Ibidem.
271
il diritto di accedere al Paradiso: abiteranno una zona intermedia tra
Inferno e Paradiso, spazi chiusi e attorniati da vere e proprie mura
glie. Anche la topografia dei cimiteri sottolinea talvolta questa situa
zione: in essi una zona speciale, abitualmente uno degli angoli o,
evc:ntualmente, uno spazio esterno, è riservata ai bambini morti sen
za essere stati battezzati. 3
I contadini sono realmente ossessionati dall'idea di non riuscire a
battezzare i neonati e vogliono farlo quindi a qualsiasi costo.4 Ho
saputo di bambini nati morti che però sono stati aspersi d'acqua per
essere battezzati (la Chiesa vieta una tale pratica) ; in casi come questi
si impone normalmente il nome di Giovanni, di colui cioè che bat
tezzò Gesù Cristo. Hacquet narra d'aver trovato in un villaggio istria
no una donna che, tra le doglie del parto da otto giorni, incurante
delle sue sofferenze e della morte in agguato, gli disse: « Se siete un
medico, per favore salvate almeno dalla dannazione eterna il mio bim
bo: guardate se esce una qualche parte del suo corpo, per cui possiate
battezzarlo » . 5
Generale è la credenza nella vita dopo la morte ed essa influenza
il comportamento di tutti durante l'intero arco della vita. Dal momen
to che la vita terrena è caduca mentre quella celeste è eterna, bisogna
attivamente prepararsi per quest'ultima. Tra le preoccupazioni prin
cipali c'è quella di ritrovare nell'Aldilà coloro che ci erano stati ac
canto durante la vita terrena. Le procedure per ottenere questo risul
tato erano numerose: qui, però, riferisco soltanto del battesimo. La
Chiesa era infatti tassativa: i neonati non battezzati non avrebbero
raggiunto i loro genitori battezzati. Conseguentemente, anche se non
è l'Inferno ad attenderli, essi sono condannati alla solitudine per
l'eternità.
Il bambino battezzato che, da un lato, vede aprirsi davanti a sé i
Cieli, dall'altro, riceve un nome. Questo nome è eterno e la sua im
portanza è grande per tutta la durata della sua vita. Esso, iscritto nel
« libro della vita » celeste, dove sono iscritti tutti gli uomini, costi
3 Simion Florea Marian, Nasterea la Romani, Bucarest, 1896, p. 76. Si può con
sultare anche l'opera di Anca Stahl, Les rituels de construction des paysans roumains,
Paris, 1973 (microfilm), al capitolo V : Le choix de l'emplacement. L'orientation.
4 Il fatto che il bambino non battezzato, dopo la morte, può divenire vampiro raf
forza il desiderio di battezzare a qualunque costo i neonati.
5 L'Illyrie et la Dalmatie ou Moeurs, usages et coutumes de leurs habitants e de
ceux des contrées voisines, Paris, 1815, p. 63.
272
Nascondere il proprio nome significa difendersi contro l'influenza oc
culta che gli altri potrebbero esercitare su di voi.
C'è inoltre una evidente identità tra il nome e l'anima di ciascuno:
numerosi documenti antichi ce la testimoniano, tra questi la donazio
ne che un prete fa nel 1 702 « per Dio, per l'anima mia e per quella
dei miei genitori ( ... ) dal momento che, d'accordo con i miei fratelli
e coi miei parenti, ho donato questo terreno per (istallarvi) dei ma
gazzini ( ). E ho indicato il mio nome e quello dei miei genitori acché
. . .
essi siano sempre citati durante la santa liturgia finché essa sarà ce
lebrata . . . » .6
Tra due persone che portano lo stesso nome si crea una forma di
parentela dai contorni non ben definiti ma indiscutibile (si giunge a
casi di interdizioni di matrimonio), che, pur se menzionata di rado, è
conosciuta da tutte le popolazioni cristiane dei Balcani. È probabile
che la sua origine sia molto antica; essa (come d'altronde altre forme
di parentela; quella dei nati nello stesso giorno o quella dei fratelli
di latte) tuttavia è stata poco analizzata.
Accade talvolta che in una famiglia muoiano uno o più neonati.
Si ricorre allora a due tecniche d'ordine magico; se si suppone che sia
il padrino a non avere fortuna, lo si cambia o lo si raddoppia con uno
o più nuovi padrini.7 Altre volte, se si vuole evitare la morte di un
bambino debole (soprattutto se la malattia di cui soffre comporta
degli spasmi), gli si cambia il nome con un rituale significativo, di cui
do un esempio, descritto da Simon Florea Marian: 8
« La donna che - per fare un esempio - non ha fortuna con le
bambine, si accorda con una donna che ha molte figlie e tutte divenute
adulte. Quest'ultima si avvicina alla finestra (della casa della donna
sfortunata) e le chiede:
- Non avreste per caso una bimba (da vendere) ?
- Sl, l'abbiamo! - risponde quella che è in casa - ma non abbia-
mo la fortuna di vederla vivere!
- Vendetemela: io, grazie a Dio, di fortuna ne ho abbastanza!
- Va bene, te la vendo ... quanto puoi offrirmi?
- E tu quanto chiedi?
- Beh ... che posso dire! . . . molto: è veramente una bimba bella
come un fiore!
- Posso darti solo questi, nient'altro!
273
- D'accordo, dammeli!
L'estranea porge alla madre, attraverso la finestra, un galletto o
qualche soldo, che la madre prende, dando in cambio, sempre attra
verso la finestra, la bambina. L'estranea, con in braccio la bambina,
fa il giro della casa e quindi vi entra attraverso la porta; entrando
dice:
- Potete ospitarmi? Sono straniera e vengo da lontano; non so
dove andare e ... poi ho con me questa bimba e non ce la faccio più
a portarla ...
- Ma sì, entra pure! - risponde la madre . . . - vieni qui.
La donna poggia la bambina sul letto o a terra, se quest'ultima
è grandicella, e poi si siede su di un banco o su di una sedia, fingen
dosi molto stanca.
- E come si chiama la piccola? - chiede la madre.
L'estranea dice allora il nome (nuovo) che le ha dato » .
Altre volte, la donna può fare più di un giro attorno alla casa o
prendere il bambino più di una volta attraverso la finestra. « L'uso
d'avere due nomi, uno di battesimo e l'altro aggiunto per qualche
causa connessa con le superstizioni, esiste ancora presso i Rumeni.
Al bambino malato da tempo, e malato soprattutto di una malattia
che provoca spasmi, le madri cambiano il nome, convinte che, così
facendo, proteggono il bambino dall'influenza dello spirito maligno
che, come credono, è responsabile della malattia. È così che il bam
bino avrà per tutta la vita due nomi, uno di battesimo e l'altro ma
9
gico » . « I nomi che frequentemente vengono imposti (soprattutto
dai Rumeni della Bucovina) ai bambini, per difenderli dalle malattie
vengono scelti preferibilmente tra quelli che non sono compresi nei
registri ecclesiastici : così i nomi di animali selvatici con cui per esem
pio sono chiamati i ragazzi (Lupo, Orso, ecc.) . . » . 10 .
274
molti Giovanni o molte Maria: il solo modo per distinguerli rapida
mente era il soprannome. 11
Si adoperavano i soprannomi in tutte le categorie sociali; cosl i
principi (vo'ievodes) dei principati rumeni spesso erano chiamati col
nome di battesimo e con un soprannome: Mircea cel Batran (il vec
chio), Alexandru cel Bun (il buono), Vlad Dracul (il diavolo), Mihai
Viteazul (il valoroso), Petru �chiopul (lo zoppo), Vlad Tepe� (l'im
palatore), Mihnea Turcitul (quello che è diventato turco), ecc.
Il soprannome, citato qui perché ha il medesimo carattere indivi
duale del nome, non ha però con esso nessuna somiglianza d'ordine
religioso o magico.
si folclor , XVII , Bucarest, 1972) studia il ruolo del nome e del soprannome tra i
"
275
data di nascita, che è un importante elemento di identificazione. An
cora una volta, questa notazione non avviene comunemente se non
negli atti a partire dal XIX secolo; essa non è utilizzata nelle migliaia
e migliaia di atti precedenti.
276
momento che si trattava solo di macellai, tutti di una sola città e ve
nuti a testimoniare insieme.
La funzione svolta nell'ambito dell'organizzazione statale o la
professione è indicata particolarmente nelle città e per i signori, ra
ramente per i contadini. Di contro, per questi ultimi, viene segnalata
la condizione di servo o di contadino non asservito e, ancora più di
sovente, la loro provenienza geografica; « il tale del tale villaggio » .
Per gli stranieri, la nazionalità è di rado annotata; « il tale, Armeno » ;
ciò non accade mai per i Rumeni.
Frequenti sono poi le citazioni collettive: « il tal� col suo paren
tado » (eu tot neamul lui), formula che ritorna nelle preghiere; « il
tale con sua moglie e i suoi figli » quando si tratta per esempio di un
affare che riguarda la proprietà della casa; « la discendenza del tale » ,
spesso discendenti d'una persona deceduta, i cui eredi devono risol
vere una questione comune, relativa per esempio alla proprietà o alla
loro condizione servile; si cita anche il villaggio, spesso sotto la for
ma della sua assemblea (ob�tea). Spiegherò nella terza parte il perché
di queste citazioni collettive.
277
erano ancora penetrati nell'amministrazione dello Stato i modi am
ministrativi occidentali e i registri di stato civile non esistevano anco
ra, si può affermare che si tratta di un processo locale. A questo pro
cesso, d'origine antica e derivante dall'evoluzione della locale vita so
ciale, viene ad aggiungersi un'influenza occidentale, che assume una
particolare importanza a partire dalla metà del XIX secolo.
Mi sembra interessante, a questo proposito, segnalare una chiara
differenza tra villaggi e città, differenza che sussiste ancora ai nostri
giorni e che deriva dalla differenza di evoluzione che si aveva nel mo
mento in cui l'utilizzazione del registro di stato civile diviene obbli
gatoria. Dal momento che la registrazione in questi registri implica la
notazione del cognome e del nome, gli abitanti delle città, che in gran
parte avevano un cognome, poterono più facilmente assolvere a que
st'obbligo. Di contro, nei villaggi, dove l'uso del cognome non si era
imposto se non in modo parziale, si trova registrato, come cognome,
il nome di battesimo del padre. Cosl è difficile capire quale tra le due
denominazioni è il cognome (per esempio lon Nicolae - Giovanni Ni
cola). Talvolta è il soprannome a �ssere considerato cognome.
Col passar del tempo, i contadini, imitando i cittadini, trasforma
rono il patronimico in cognome vero e proprio; cosl, Nicolae Andrei
divenne Nicolae Andreiescu, ma il numero di contadini il cui cognome
ha la forma di un nome è ancora alto.
Un atto del 1 8 1 3 , redatto a Bucarest, annota così i signori: « Con
fermando questo atto con la mia parola di principe, lo loan Gheor
ghie Caragea, e con quella dei miei cari figli, Gheorghie Caragea voe
vod, Constantin Caragea voevod, avendo per testimoni gli onestissimi
e fedelissimi signori, membri del mio divan (governo), pan Costandin
Filipescul vel han, pan Radul Golescul vel dvornec... pan Grigorie
Brancoveanu vel vistiiar, pan Grigorie Ghica vel logofat ... pan Radul
Slatinean vel dvornec ... pan Dumitra�co Racovita vel dvornec . . . pan
lstrate Cretulescul vel dvornec. .. pan Gheorghie Slatinean vel logo
fat . » e la lista continua con citazioni simili. 18 Con una sola ecce
..
278
L'identità per i contadini e per gli uomini del passato; preminenza del
gruppo sull'individuo
279
Un'inchiesta fatta in Romania tra le due guerre, nel villaggio di
Dragu�, in Transilvania, prende di mira i nomi che assumono coloro
che si sposano. La norma vuole che la donna vada a vivere nella casa
del marito prendendo così il " cognome " del marito, in realtà quello
della casa del marito. Ma, poiché una casa non deve in nessun caso
disperdersi e poiché non tutte le coppie hanno figli maschi, può ac
cadere che una figlia debba rimanere nella casa dei genitori: il marito,
in questo caso, vi viene a vivere, infrangendo la norma e provocando
una modificazione nella trasmissione del nome. L'inchiesta fatta a
Dragu� rileva 69 casi di mariti che hanno cambiato la loro casa. Su
questi, 45 hanno assunto il cognome della moglie come proprio; 8
hanno conservato il loro cognome, aggiungendo ad esso quello della
casa della moglie; in 7 casi sia la moglie che il marito, eccezional
mente, hanno conservato il proprio cognome; gli altri casi rappre
sentano delle situazioni particolari. In 6 di essi la moglie viveva
nella casa del primo marito, morto, portandone ancora il cognome;
il secondo marito, venuto ad abitare nella casa della moglie, assume
il cognome del primo marito.22
Altri elementi di identità relativi al gruppo familiare della casa
coinvolgono un processo simile. È il caso dei marchi di proprietà:
essi sono relativi alla casa e non all'individuo e si trasmettono nel
l'ambito della casa. È dato di vederli sulle masserizie, sulle stoffe,
sugli alberi del bosco, sugli animali.
Constatiamo pertanto che nella vita giornaliera del villaggio, in
cui tutti si conoscono, ciascuno è individuato per mezzo della casa a
cui appartiene. Sotto questo rispetto, gli uomini cambiano solo di rado
la loro identità, mentre le donne la cambiano spesso, dal momento
che il matrimonio, generalmente, è patrilocale.
22 H. H. Stahl, op. cit., vol. Il, Bucarest, 1959, p. 132. La stessa situazione si
ritrova tra gli Slavi del Sud (Fedor Demelié, Le Droit coutumier des Slaves méridio
naux d'après les recherches de M. V. Bogisié, Paris, 1876, pp. 30 sgg.).
280
tante ruolo quando la proprietà comune del villaggio ha cominciato
a essere ripartita tra le case, almeno per quanto concerne le terre ara
bili. Divise, prima o poi, tra gli uomini in parti uguali, le proprietà
venivano ereditate dai discendenti maschi, che conservavano allo stesso
tempo il nome di quel primo proprietario da cui essi avevano avuto
il diritto di ereditare. Cosl i successori di un antenato di nome An
drei erano gli Andreie�tii, quelli di un lon, lone�tii. Il nome che
comunemente si dà agli antenati è quello di mo#, che significa allo
stesso tempo persona anziana e antenato.
Tutte le terre arabili d'un villaggio sono pertanto ripartite tra i
mo�i e gli eredi e discendenti di ciascun mo� portano lo stesso nome.
Quando la partizione delle terre arabili diventa stabile, il territorio
medesimo prende il nome dal gruppo che lo possiede.23 Ciascuno, nel
l'ambito del villaggio, è, dunque, legato ad un gruppo, ne porta il
nome e possiede una parte dell'insieme delle proprietà attribuitegli.
È evidente che, in questo caso, solo i membri di un villaggio erano
in grado di conoscere la situazione personale di ciascuno e di classifi
carlo pertanto come appartenente alla tale casa e alla tale linea di di
scendenza.
Ad un livello più alto, quello dell'intero villaggio, accade che tutti
i gruppi si considerino discendenti da un antenato comune o da al
cuni fratelli (che è la medesima cosa); portano pertanto un solo nome,
che è quello del villaggio, collegato al nome del fondatore. La con
sanguineità, cosl importante per giustificare il diritto d'ognuno alla
proprietà diventa talvolta un elemento di identità non solo all'interno
del villaggio, ma anche all'esterno, dal momento che essa è sentita
come tale dagli abitanti dei villaggi vicini.
23 Gh. Filip descrive chiaramente un tale esempio nel suo Analiza etnografico
istorica a unui trup de mo�ie, in " Revista de etnografie �i folclor , XI, n. l , Bucarest,
"
281
rale. Ma, come cresce la complessità dei gruppi, così aumenta il grado
di ipoteticità del fondatore e l'improbabilità di una vera parentela
tra i membri. Lo studio diacronico ci permette di constatare che
è molto raro imbattersi in un gruppo che sia numeroso e allo stesso
tempo completamente omogeneo, discendente dunque da un solo an
tenato. Cvijiv lo dice con chiarezza: « Si è supposto (Ducié, Meda
kovié, Rovinski) che ciascuna tribù rasciana e montenegrina discenda
da un avo comune e che si sia formata per filia7.ione. Quest'opinione
non è che il riflesso della tradizione popolare, secondo la quale tutti
i membri della tribù dei Vasojevic discenderebbero da un antenato che
si chiamava Vas e che si smarrì, dopo la battaglia di Kossovo, nel
Montenegro, nella regione di Lijeva Reka; e così i Piperi discende
rebbero dall'antenato Pipo, i Bjelopavlici da Bijeli Pavle, ecc. Secondo
le ricerche che si sono indicate sopra e che sono state parzialmente
pubblicate nel Naselja, questo è vero ma solo fino a un certo punto.
Certo, in ciascuna tribù c'è qualche famiglia antica, apparentata con
altre, che ne costituisce il nucleo, ma attorno a questo nucleo si sono
raggruppati nuovi arrivati, d'origine totalmente differente, formando
i bratstva e ciò che resta delle antiche tribù. Queste si sono formate
più per agglomerazione che per filiazione » .25
Esempi molto belli di queste leggende sono stati raccolti in tutte
le regioni balcaniche. Sono particolarmente interessanti quelli pubbli
cati da Hahn nella prima metà del XIX secolo a proposito degli Al
banesi. Le leggende infatti prendono le mosse da un fondatore unico
della tribù per giungere, gradualmente, alle fratrie, ai villaggi, ai ca
sali. Ad ogni gradino, ciascuna unità sociale ha un fondatore da cui
essa ha preso il nome.26
L'indicazione d'identità per mezzo delle case e delle linee di di
scendenza era pertanto percepita a livello di villaggio, cioè solo da
coloro che conoscevano uno per uno i componenti del casale o del
villaggio. A livello di tribù o di confederazione di villaggi, essa non
veniva più percepita proprio perché mancava questa conoscenza indi
viduale. Gli altri villaggi sapevano soltanto che una certa persona era
di un certo villaggio; la tribù o la confederazione di villaggi sapevano
che un tale apparteneva alla tale tribù o alla tale confederazione. A
questo livello, dunque, l'impossibilità che si avesse conoscenza indi
viduale di tutti ha imposto l'utilizzazione di altri elementi di identi
ficazione.
282
Prima di tutto, l'aspetto esteriore: il costume, la capigliatura, gli
oggetti che si portano con sé sono tanti elementi di identificazione: n
ciò era possibile grazie ad una situazione che, nel passato, era molto
frequente, quella per cui ciascun villaggio, ciascuna tribù aveva un
costume comune a tutti i suoi appartenenti. Non si deve dimenticare
d'altra parte che, sotto certe condizioni, soprattutto nelle città, il mo
do di vestire era imposto ai cittadini dalle autorità. C'erano, infatti,
colori loro riservati e colori interdetti (per esempio, indossare abiti
verdi era vietato ai cristiani e agli ebrei di Costantinopoli e consentito
invece ai musulmani). « . . La moda che, periodicamente, quasi stagio
.
283
condo la loro mercanzia, poiché il vasellame ha delle caratteristiche
che mutano da villaggio a villaggio.
I tatuaggi, poi, rari tra i Rumeni, sono invece frequenti tra gli
Albanesi e gli Slavi del Sud; 31 anche alcuni gruppi di Arumeni li uti
lizzano.
Ancora ai nostri giorni, popolazioni di origini diverse che convi
vono mescolate o vivono l'una accanto all'altra, si distinguono per
tutti gli aspetti della loro vita: organizzazione dell'habitat, organizza
zione del cortile, aspetto della casa, talvolta soltanto segni messi sulle
case proprio per distinguerle, masserizie. Ma l'analisi di questi aspetti,
anche se significativa per il nostro argomento, ci condurrebbe troppo
lontano.
Era vitale per i contadini e, in genere, per gli uomini del passato
sapere, nello stesso momento in cui incontravano una persona, con
chi avevano a che fare. Ignorandolo, si rischiava di volere fare spo
sare una figlia ad un uomo, a cui era interdetto farlo, o di incon
trare qualcuno che aveva un conto da regolare col proprio gruppo,
o di contattare una persona di diversa confessione religiosa, con ri
schi di contaminazione. Tutto questo spiega perché i contadini non
solo rispettavano, essi stessi, le regole che aiutavano gli altri a iden
tificarli celermente e a classificarli nel gruppo del quale essi face
vano parte, ma osservavano allo stesso tempo con la massima cura
i dettagli che potevano loro rivelare l'identità del gruppo al quale
apparteneva chi avevano la ventura di incontrare.
In conclusione, si constata che l'identità prende forme molteplici,
secondo le situazioni, e che ciascun individuo possiede molte identità.
Per gli uni egli è membro d'una casa, per gli altri di una linea di di
scendenza, d'un villaggio, d'una tribù, d'un gruppo etnico: moltepli
cità e variabilità dell'identità che discendono direttamente dal rappor
to che corre tra colui che identifica e chi è identificato.
Questa relatività è d'altra parte coerente con altri fenomeni. Un
tipico esempio è quello della vendetta: se qualcuno ha ucciso un mem
bro della sua stessa casa, la questione riguarda soltanto la casa; se l'as
sassino invece è un membro di un'altra casa, la vendetta riguarda le
due case; e così via per le fratrie e le tribù. Così, come in un bellis
simo esempio riportato da Cyrille/2 se un Albanese uccide un Mon
tenegrino, la vendetta riguarda gli Albanesi e i Montenegrini. Alla do-
31 Mary Edith Durham dedica loro uno speciale capitolo nella sua opera, Some
tribal origins, laws and customs of the Balkans, London, 1928.
32 Cyrille, La France au Monténégro, Paris, 1876, pp. 101 sgg.
284
manda « chi è il criminale? » si risponderà
un tale di quella casa, o
<<
285
A proposito dell'identità etnica
Miche! lzard *
studi di antropologia politica già apparsi sono tutti incentrati sul regno dello Yatenga
nell'Alto Volta (n.d.t.).
286
statori, un desiderio di presa, al di là della storia, sulla natura pre
umana e sull'uomo pre-sociale.
Prendiamo il territorio Yatènga. Come succede generalmente per
una formazione politica, centralizzata e vecchia di parecchi secoli, si
tratta di un territorio strettamente delimitato. Tralasceremo subito
due gruppi: i pastori peul o silmìise e gli agricoltori-pastori silmi
moose, dominati dai Silmìise. Questi due gruppi vivono nel territorio
del regno, ma non sono sottomessi all'autorità del re, lo Yatènga naa
ba. Il paese si chiama Yatènga dal nome del fondatore della dinastia
regnante, Naaba Yadega. Gli abitanti dello Yatènga chiamano se stessi
Moose e chiamano Gurungo il resto del Moogo e Gurlinse i suoi abi
tanti, i quali, a loro volta, chiamano Yadse gli abitanti dello Yatènga.
Per parte loro, i Moose del centro e del sud (lo Yatenga è un regno
del nord), chiamati Gurunse dagli Yadse, riservano questo termine
un po' dispregiativo ai loro vicini occidentali non moose.
L'escludere dalla nostra esposizione due società che hanno nome
silmìiga e silmimooga ci autorizza a parlare della società mooga, defi
nita in relazione al sistema politico dominato dai conquistatori moose.
Consideriamo i fatti di territorialità a partire da quella unità eso
gamica che è la discendenza patrilineare o buudu. Un buudu è un par
ticolare gruppo di discendenza. La sua particolarità è legata al sistema
di filiazione. Ciascun buudu può essere definito da un unico antenato,
da un luogo-origine segnato da un santuario (kiims roogo, cioè « casa
degli antenati » ) e da un nome-motto (sondre) ovvero, più esattamen
te, da un certo insieme di nomi-motto. La trasmissione di tali nomi
motto all'interno del buudu procede per percorsi trans-generazionali
in linea diretta. Non c'è, dunque, nessuna ambiguità nella definizione
di questa formazione sociale di base. Sia che la si consideri dall'inter
no o dall'esterno, la sua identificazione non pone problemi.
Il gruppo di discendenza non è, in genere, una unità residenziale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, un buudu è costituito da un
certo numero di segmenti localizzati che formano altrettanti quartieri
(sakse) ripartiti in più villaggi (tése). Proprio nel più antico dei sakse
del buudu si trova il kiims roogo. Qui risiede colui che ha il compito
dei sacrifici che nel kiims roogo si rendono agli antenati: è il buud
kasma ( « anziano del buudu » ) . Dato che è il più anziano della più
vecchia generazione del lignaggio, costui non è necessariamente origi
nario del luogo-origine del lignaggio stesso. La territorialità del li
gnaggio e quella del villaggio, dunque, non coincidono e sono di na
tura diversa.
Territorialmente, il buudu è un albero, in quanto si compone di
punti nello spazio e di relazioni gerarchiche tra questi punti. Ogni
nuovo quartiere di un villaggio è prodotto, all'interno del lignaggio,
287
con una operazione di segrnentazione e una di spostamento. Ben inteso,
l'origine di un lignaggio autonomo rinvia a un altro lignaggio autono
mo, da cui il nuovo è nato grazie ad una operazione di fissione e ad
una di spostamento. La fissione, in questo caso, è la sovversione della
segmentazione. Ciò appare chiaro, se si considera che essa prende
effetto a partire dall'evizione di un primogenito da parte di un fra
tello minore e che, invece, l'assiomatica della segrnentarietà procede
da due principi: quello della superiorità del primogenito sul fratello
minore e quello della superiorità di una generazione qualunque su
quella che la segue immediatamente.
Se rappresentiamo graficamente, su un unico supporto, l'insieme
degli alberi di lignaggio e se colleghiamo tra loro questi alberi e indi
chiamo cosl le filiazioni tra lignaggi autonomi, otteniamo una confi
gurazione che comprenderà un nucleo centrale a trama assai densa,
donde partiranno legami con altri universi densi, di aspetto generale
identico a quello del primo. Le modalità di passaggio da una nebu
losa di lignaggi a un'altra, ben inteso, non sono dappertutto identiche.
Se consideriamo il caso dello Yatenga, ci sarà un taglio netto con il
regno e il paese niniga (sarno) da un lato e i regni gurunse dall'altro.
Di contro, tra lo Yatenga e il paese fulga (kururna) non c'è soluzione
di continuità, bensl semplice allargamento delle maglie di lignaggi. E
lo stesso può dirsi per quel che riguarda il passaggio dallo Yatenga
ai piccoli regni satelliti del sud-ovest (Ratenga, Tatenga e Zitenga) .
Infine, c'è chiusura, taglio assoluto, tra l o Yatenga e i l paese kibga
(dogon).
La territorialità di un lignaggio non è data dalla ripartizione degli
uomini nello spazio, cioè dal loro raggruppamento in villaggi. Sul ter
reno partiamo da quelle unità di popolarnento composite che sono i
villaggi, costituiti da un certo numero di quartieri. Si tratta di proce
dere a una decostruzione di queste unità di popolamento (passaggio
dal villaggio al quartiere) e di costruire, poi, le territorialità di lignag
gio (passaggio dal quartiere al lignaggio). L'insieme di queste terri
torialità appare come la proiezione, nello spazio, di una costruzione
storica la cui dimensione temporale sarebbe cosl abolita. Se descrivia
mo lo spazio, noi risaliamo o discendiamo nel tempo, a nostro piaci
mento. V'è congruenza, per la storia dei lignaggi, tra territorialità e
segrnentarietà: l'albero spaziale rende conto della profondità di li
gnaggio.
Questi fasci di relazioni, intrecciati tra loro secondo modalità del
tipo di quelle che abbiamo messo in evidenza, definiscono universi
contigui gli uni in relazione agli altri. Si può a priori pensare che que
sti universi abbiano ciascuno una realtà singolare, fondata su differen
ze a livello ecologico, sociologico, politico, linguistico e culturale. Pro-
288
prio queste differenze oppongono, l'uno all'altro, gli universi, mentre
i modi in cui esse si trovano organizzate sono particolari a ciascuna
situazione di opposizione e pongono l'identità di ciascuno di tali uni
versi in termini di soglie.
Invece di una saturazione omogenea dello spazio, abbiamo tutta
una gerarchia di nodi e, dunque, diversi angoli di percezione dei feno
meni di identità e di differenza. Quel che ci interessa è l'organizzazio
ne interna di uno di questi nodi la cui scelta è fondata sulla storia.
Il fatto che non ci sia saturazione omogenea dello spazio può spiegarsi
così: se è vero che c'è congruenza tra territorialità e segmentarietà sul
piano del lignaggio autonomo, è pur vero che questa relazione non
esiste più non appena si considera lo sviluppo della territorialità e del
la segmentarietà al livello di un fascio di lignaggi articolati tra loro.
V'è una infedeltà della segmentarietà al suo concetto - nel senso che
la realizzazione del progetto segmentario ha bisogno dello spazio, di
uno spazio in costante stato di pre-chiusura, quando l'universo segmen
tario è in permanente stato di espansione. Il territorio è un campo
chiuso che contiene le piegature della segmentarietà su se stessa.
Se risaliamo dai punti estremi dei segmenti verso i punti-origine,
dagli ultimi lignaggi verso i primi, arriviamo a punti-zero che fermano
la storia sia nel caso che rinviino a un altrove lontano, che da parte
sua rinvierà a un altro altrove più lontano ancora, sia nel caso che
operino il passaggio al mito con le sue narrazioni a proposito di un
emergere dalla terra o di un discendere dal cielo.
Partendo da questi punti-zero, possiamo definire dei territori cor
rispondenti a strati di popolamento. Ciascun territorio è un accata
stamento di territori che non coincidono esattamente. Tali territori si
sovrappongono e si intersecano in guisa che ogni superficie sostiene
una certa sistemazione di strati. Il numero di questi strati è varia
bile. Tutto, però, sembra indicare che, seppure questo numero può
essere grande, la memoria storica può cogliere solo una piccola quan
tità di strati, riconducendo il diverso della storia alla pluralità dei
gruppi che sono funzionalmente in causa nella società globale. Ad
operare, in questo caso, non è tanto la memoria storica quanto la
amnesia ideologica.
Nello Yatenga noi abbiamo un orizzonte primario, una sorta di
nuda presenza, quella dei Dogon o Kibse. Costoro hanno un tempo
occupato il territorio del regno. Poi, all'arrivo dei conquistatori moose,
sono partiti verso il nord, lasciando sul posto solo qualche altare,
della terra coltivata, dei pozzi e alcuni piccoli gruppi da cui oggi di
scendono certi "signori " della terra.
Al di sopra di questo primo strato compaiono certi terrazzieri sor
ti dalla terra, i Berba, e certi capi venuti da un altro luogo, dove i loro
289
antenati erano discesi dal cielo, i Kuriìmba. Questi due gruppi for
mano, insieme con i fabbri-ferrai, quella che si può chiamare la società
fulga (Fulse è il termine moore per Kurumba). Berba e Kurumba co
stituiscono due strati di popolazione, di cui il più antico (Berba) può
benissimo essere, anzi è certamente, il risultato di accatastamenti ar
caici. La posizione dei fabbri-ferrai in questo insieme è notevole: essi
formano un gruppo, astorico e internazionale, la cui eterogeneità è al
l'esterno mascherata dalla stessa definizione, a sfondo tecnologico, che
ne viene data. I Kurumba o Fulse si definiscono come " capi " e, in
quanto detentori del potere e, dunque, della parola del potere, iden
tificano il loro gruppo con l'intera società.
Arrivano i conquistatori moose. I capi sono ormai i Moose. Gli
antichi capi fulse diventano " signori " della terra dei Moose esatta
mente come i Berba erano, e continuano a essere, i " signori " della
terra dei Fulse. La presa del potere politico da parte di un gruppo
nuovo ha l'effetto di schiacciare le antiche differenziazioni socio-poli
tiche in base al punto di vista del nuovo potere e approda a una nuova
definizione dell'autoctonia. Il gruppo dei fabbri-ferrai conserva il po
sto che occupava in precedenza, anche se la sua composizione cambia
in seguito a nuovi apporti esterni. Avevamo, dal punto di vista del
potere fulga, una società tripartita. Abbiamo, dal punto di vista del
potere mooga, la stessa configurazione : capi, sacerdoti e fabbri-ferrai.
Nonostante l'apporto di un terzo strato di popolazione, dal punto di
vista dell'ideologia del potere ne sussistono sempre soltanto due.
Un distretto mooga autonomo è un sistema incentrato su un potere
(naam) detenuto da un capo (naaba), su un potere centrale da cui pro
cedono i poteri, periferici o dei villaggi, dati, ai figli dei capi (nabiise)
o a discendenti di capi, da figli di capi che non sono divenuti capi a
loro volta (nakombse ). Questi nakombse, in effetti, perdono il naam
di villaggio e divengono talse, gente comune. Proprio tra questi talsc
il capo del villaggio recluta i dignitari che l'assistono nel suo compito.
In modo del tutto simile, il capo superiore si circonda di dignitari
scelti tra i talse. Questi dignitari sono nayiridemba ( « gente della casa
del capo »), quale che sia il tipo gerarchico di distretto considerato.
Un distretto autonomo può passare sotto l 'autorità di un altro distret
to. In questo caso, i capi locali che appartengono al lignaggio dell'anti
co capo superiore diventeranno " signori " della guerra (tdsobandmba).
Abbiamo così, oltre al capo superiore, tre grandi categorie di capi:
nakombse, tdsobandmba e nayiridemba. I nabiise fanno gruppo con i
nakombse. Il resto della popolazione forma l'immensa maggioranza dei
talse privi di qualsiasi relazione con il potere.
Il termine " talga " è dispregiativo. Un talga non tiene a presen
tarsi come tale. I capi, invece, si presentano come nakombse, tdsoba-
290
namba o nayiridemba. I talse non sono niente. Non li riguardano né i
riti regali, ai quali sono associati il re e le tre categorie di capi, né i ri
ti di fertilità, che interessano il re e la " gente della terra . È vero che
"
anche i talse possono far risalire l'origine dei loro lignaggi fino ad
antichi capi, ma questo riferimento è desueto per il potere, poiché non
comporta la legittimità di un potere. Il talga, e lui solo, pone la pro
pria identità rivendicandosi come Mooga. Essere Mooga equivale a
non essere niente. Supporto dell'identità etnica è l'uomo qualunque.1
Dall'attesa e dalla nostalgia del potere, il Mooga, nella assoluta
emarginazione di cui è vittima in un universo profondamente marcato
dal desiderio, recupera la moralità. I contadini sono i detentori dei
valori propri della cultura mooga, assunti con misura in seno all'uni
verso familiare dei parenti e dei vicini.2 I Moose sono, perciò, la gente
del buon diritto che, come dice un proverbio, non ha altra possibilità,
se la " forza " segua il sentiero, che quella di prendere attraverso la
macchia. In effetti, l'espressione proverbiale giuoca, in questa situa
zione, un ruolo capitale. A cospetto del capo, il talga non approva né
disapprova, dice semplicemente « naaba ». Il talga parla soltanto per
proferire un non-discorso, con cui si può identificare il discorso del
proverbio. Questo non-discorso fa largo posto al dio supremo (wende),
di cui si sa l'esistenza, che si teme, ma a cui non è riservato alcun
intervento rituale. Nel discorso proverbiale della gente comune, la
legittimità del potere non è discussa. L'universo dei capi, però, vi è
presentato come contrassegnato da violenza, pigrizia, rumore e furore
nei confronti delle virtù contadine del rispetto, della probità e dello
ardore nello svolgere il proprio compito. In questo discorso, il sovver
timento passa assai debolmente attraverso il richiamo alla genealogia
del potere, che viene da wende: « ci sono più capi, ma un solo dio »,
« se dio non uccide, il capo non uccide ». L'etnìa, dunque, è luogo
dell'anti-potere, dell'anti-sacro (wende non ha né sacerdoti né altari,
contrariamente a tenga, la terra) e dell'anti-discorso, è luogo dell'anti
storia.
291
Discussione
292
cesi perché non ci si può dire duchi, baroni, medici, professori, av
vocati...
293
forse di ingannarlo e, comunque, di sgombrare il campo dall'eccesso
delle relazioni tra il capo e i suoi soggetti. Nei proverbi si parla molto
di dio e della morte . . . e, dunque, dell'unificazione. Prendiamo un altro
esempio. Un proverbio dice: « la iena conosce il sentiero della bassa
corte ». Si vuoi dire che più che il capo, identificato con il leone, va
temuto il servo del capo, la iena, che si nutre dei resti del leone e,
molto meno ben dotata di quest'ultimo, è soltanto più crudele. Il capo
non deve curarsi di sapere cosa prendere e a chi prendere. Se ne oc
cuperà il servo. Il capo riceverà quanto si aspetta e il servo ne appro
fitterà. Si vede bene che un'analisi comparata dei proverbi e dei motti
meriterebbe di essere intrapresa.
294
zione per il potere regale. Appartenendo ai più antichi lignaggi del re
gno, essi hanno la possibilità, a partire dai luoghi del potere centrale,
di riterritorializzarsi, in quanto sono nominati a svolgere funzioni di
autorità in certi villaggi. I primi tra loro, i nes6mba, formano un colle
gio di quattro alti dignitari (tre moose, un prigioniero) che circondano
il re e costituiscono un vero e proprio governo del regno. Inoltre, il
collegio dei nes6mba sceglie il nuovo re tra i candidati al trono (non
c'è, infatti, una regola di trasmissione automatica del potere).
295
Antoine Danchin: Sicché, nella creazione di nuovi proverbi, l'im
portanza delle considerazioni di ritmo è considerevole. Non c'è, per
dirla più esattamente, un corpus fisso di proverbi. Gli anziani che
creano i proverbi partono da quelli esistenti e ne inventano altri sul
la base della ritmica degli antichi.
296
Conclusioni
Jean-Marie Benoist
297
quelli si incrociano, si vedrà come ciascuna linea attraversa ogni di
scorso, lo percorre in maniera locale e non globale.
Il mio montaggio procederà, dunque, per tappe; tanto sono diversi i
luoghi epistemologici, a partire dai quali ciascuno ha parlato.
Come base di partenza, allora, ricorderò quali erano le proble
matiche, agitate e definite dall'esposizione introduttiva, e vedrò come
queste si sono trovate modificate.
Si era visto che una prima individuazione della problematica della
identità oscillava tra due poli. Da un lato, v'era un'identità propria
di ciascuna delle culture o di ciascuno dei soggetti e, dall'altro, l'oriz
zonte di una reinstallazione della natura umana sotto forma di una
identità universale dell'uomo in sé. Proprio tra questi due poli, lo
idion e il koin6n, si erano inscritti alcuni relè, alcuni livelli e, insieme
la problematica dell'invarianza da un lato, e quella della differenza in
rapporto all'identità dall'altro.
La questione dell'identità viene, dunque, a percorrere più zone,
più aree. La prima, sarà quella dell'etnocentrismo, i cui limiti hanno
una volta di più tormentato il discorso di questo seminario, interro
gando alcune sue pratiche e aiutandoci, tanto con la comunicazione di
Miche! lzard quanto con quella di Françoise Héritier, a comprendere
che è in un altro spazio, cioè in una topologia diversa dalla topologia
sorretta dal logos occidentale, che andavano inscritti gli elementi, che
fondano l 'appartenenza dei Mossi all'identità etnica oppure i costituen
ti della personalità samo.
Una seconda questione sarà quella del nome proprio nel suo rap
porto col soggetto. Il fatto che questo soggetto sia singolare o collet
tivo si dà come questione della scissione e come prima istanza del
tratto che divide l'identità in sé di un soggetto. È un fatto che potrà
trovare specificazione nelle sfoglie dell'identità bororo, mossi, samo ed
anche rumena o borgognona (come ha testimoniato l'esposizione di
Françoise Zonabend). Compaiono l'eterogeneità e l'eterotropia. Ven
gono rimessi in discussione la soggettività, la persona e il gruppo. Si
pongono, ad un terzo livello, un problema topologico, di traversata e
di limiti, e un problema strutturale, di parametri organizzatori. La via,
qui aperta, è quella dell'esistenza di fattori di identità che siano nello
stesso tempo mezzi per sfuggire ai limiti di un insieme etnico, che ini
zialmente considerato, permette l'integrazione ad un comune schema
classificatorio di domini assai diversi. Come scrive Claude Lévi-Strauss,
questa via offre alle classificazioni un mezzo per superare i loro limiti
sia estendendosi, per universalizzazione, a domini esterni all'insieme
iniziale sia prolungando, per particolarizzazione, la pratica classifica
trice oltre i suoi confini naturali, cioè fino all'individuazione.
La possibilità della ricorrenza, fuori del gruppo, di fattori interni
298
alla sua identificazione, dunque, apre la doppia via di una lettura che
assuma l'esistenza, da una parte, di invarianti culturali (invarianti che,
lontane dall'essere sostanzialiste e stazionarie, possono proporsi, a quel
modo che Miche! Serres ha mostrato, come mobilità, trasporto e circo
lazione) e, dall'altra, della rifrazione, agli occhi tanto di un soggetto
quanto di un osservatore, dei fattori della sua appartenenza al gruppo
(problema dal punto cieco e dalla rappresentazione ideologica). Questo
problema dell'identificazione, cioè di una relazione di identità più o
meno pregnante tra due termini, si trova infine posto, come tragitto
costitutivo dell'identità, in parecchi modi e tra questi la questione
della cattura speculare è uno dei più importanti. Ecco un problema che
va avanti fino ai suoi limiti teorici: la possibilità o no di rompere con
una logica dell'identità come logos e matrice dell'isomorfismo.
Si trattava, dunque, non tanto di arricchire la nozione di identità
quanto di decostruire questo concetto nelle sue occorrenze multiple,
di rompere certe relazioni di superficie, ben stabilite, per fare appa
rire i soggiacenti meccanismi generativi e costitutivi che rendono le
suddette relazioni possibili e pongono altre questioni, di articolazione
e di convergenza, diverse da quelle che apparivano di primo acchito.
Proprio questo abbiamo visto operarsi nel corso del nostro semi
nario che ci ha offerto non tanto un consolidamento del concetto di
identità (attraverso una serie di inglobamenti successivi, in effetti,
avremmo creduto di poter sboccare nella ricerca di universali metafi
sici) quanto la sua decostruzione da diverse angolazioni, a proposito
delle quali il nostro impegno (quasi una scommessa) è quello di mo
strare che c'è qualche convergenza aperta e problematica, tra esse e
che si tratta di convergenze atte a poter offrire nuove vie di ricerca e
tali da non pretendere di richiudere il campo di studio sulla certezza
di una verità conquistata.
La questione dell'invariante
299
Di qui il seguente bilancio temporaneo: dispongo di operatori,
tratti da simboli ingenui, che lavorano su qualcosa di non detto (non
detto quanto meno dalla filosofia) e cioè su accidenti, su catastrofi del
lo spazio e su una molteplicità di varietà spaziali. Questa erranza ov
vero questo cammino dell'invariante ha trovato un punto di conver
genza assai profondo con quello che lo stesso Lévi-Strauss, nella sua
pubblicazione riguardante i risultati del corso dell'anno accademico
1 97 3-'74, ha riconosciuto come la funzione del mito: « Tra la corte
di Artù sempre in movimento, tra questa mobile corte terrena, che
pone in permanenza una domanda e che appare simmetrica a quella
del re del Graal, e la corte dell'altro mondo, immobile e tale da offrire
in permanenza una risposta, si produce un vuoto di comunicazione,
che è necessario colmare. Potrebbe pure essere, infatti, che qualunque
mitologia si risolva, in fin dei conti, nel porre e nel risolvere un pro
blema di comunicazione e che i meccanismi del pensiero mitico, messi
di fronte a circuiti logici troppo complessi perché possano essere fatti
funzionare tutti insieme, consistano nell'innestare o nel disinnestare
dei re/è » .
Innestare o disinnestare dei re/è: la discussione, seguita alla comu
nicazione di Michel Serres, si è dilungata sulla congruenza di questa
espressione con la definizione di cultura, data da Michel Serres, se
condo il quale questa « ha il compito di deconnettere e riconnettere
spazi » .
Questa invariante pone il problema delle unità costitutive com
plesse, che possono dipendere da elementi semplici. In questo, il pen
siero di Michel Serres evita il bachelardismo. Le unità costitutive com
plesse sono ricondotte a elementi operatori (il ponte, il pozzo . . . ) che
si traducono in un linguaggio del tipo innestare/disinnestare. L'aper
tura del campo di determinazione dell'invariante a mezzo della mobi
lità viene allora ad articolarsi alla topologia della differenza, proposta
da Jean Petitot, in quanto i modelli da lui esposti permettono di supe
rare, come livello di superficie, l'opposizione classica tra il continuo e
il discontinuo e portano a una nuova teorizzazione di elementi, come
la pulsione, considerati fin qui come dinamica.
Una tale svolta teorica trova allora sul campo una pertinenza che,
per il suo stesso carattere di necessità, viene a darle altra forza : la
opposizione dei principi bope e aroe, spinta fino al limite estremo
del suo campo da Christopher Cracker, proprio in quanto convoca
l'irriducibilità di una differenza semantica come radice e principio di
corrosione di qualsiasi sintassi spaziale (anche la più simmetrica e la
più speculare), mostra egualmente bene la possibilità, posta da Serres
e Petitot, di convertire in termini di generatività spaziale quel che ci
si era fin qui contentati di pensare come residuo dinamico di un pen-
300
siero strutturale, impotente ad esaurire il suo oggetto. La teoria delle
catastrofi elementari di René Thom, la tipologia della differenza di Pe
titot e la determinazione semplice (in termini di innestare/disinne
stare) dell'invariante mobile, operata da Serres, consolidano dall'ester
no, venendo incontro ad esso, lo strutturalismo di Claude Uvi-Strauss,
senza che questo abbia a lasciare il suo campo di esplorazione.
Tale conferma non è senza implicazioni teoriche nuove: l ) v'è la
necessità evidenziata anche qui dai discorsi degli etnologi a proposito
dei Mossi, dei Samo ed anche dei Bororo, la necessità cioè di indiriz
zare l'attenzione al luogo di una semantica strutturale, che costituisce
il nerbo di ogni trattamento possibile con una topologia della differen
za; 2 ) v'è la questione del simbolico e del semiotico, questione che
apre verso una questione della pulsione, del nome (im)proprio e della
separazione del soggetto nelle sue posizioni multiple; 3 ) infine, nella
prospettiva dell'etnocentrismo e del suo superamento in virtù di un
nuovo modo di interrogarsi epistemologico, v'è la questione di come
si possa passare dall'attrezzatura spaziale, cosl prodotta, all 'analisi dei
miti prodotti da società radicalmente altre, che non sono prese nella
storia del mythos e del logos così come li ha conosciuti l'Occidente.
La questione della possibile universalizzazione dell'attrezzatura
spaziale e topologica che Serres ha prodotto, dunque, si pone precisa
mente sotto forma di enigma e di apertura problematica. Tale attrez
zatura funziona ancora? Ovvero le individuazioni, precise e locali, non
sono forse una sfida alla possibilità d'applicazione di questo organon,
qui fornito da Serres e Petitot?
La costruzione di questo organon corrisponde nondimeno a una
certa novità epistemologica : grazie a tale organon si trova superata e
assiomatizzata una logica del discreto, che nel logos strutturale funzio
nava in relazione a una visione statica dello scarto.
È allora lecito reperire questo superamento della logica del discre
to nel rinnovamento del funzionamento dell'alternativa tra continuo e
discontinuo. Con Serres, ci troviamo già in presenza dell'invenzione di
un " dialogismo " dell'identità: ci troviamo in presenza di una polise
mia che si condenserebbe in una sola parola, di una polisemia che si
condenserebbe nel racconto, nella scienza e nel mito. Né c'è, in questo
dialogismo, distanza o taglio contrariamente a quel che succede nelle
analisi della demarcazione, le quali mantengono la scissione tra lo
orizzonte del soggetto trascendentale e la crisi o il processo in cui la
vicinanza poetica fa incorrere questo orizzonte del soggetto trascen
dentale.
301
Critica della logica del discreto come cattura della differenza a mezzo
di un logos
302
tempo però, lo strutturalismo si trova messo in questione nella misu
ra in cui esso ha introdotto una prospettiva trasformazionistica che
sembra ricondurre alla sfera dello stesso la genesi e la produzione del
le strutture.
La questione della scissione del soggetto diviene allora il punto
chiave di questa problematica dell'identità. Di fatto la linguistica for
male può dare l'idea di avere lasciato una lacuna al posto del soggetto,
una lacuna che si trova troppo semplicemente colmata, in certe pro
spettive generativiste, da un soggetto cartesiano supplementare e reim
portato al posto dello spazio in bianco. Ora, tanto nella comunicazione
di Julia Kristeva quanto in quella di Petitot si è ritrovata la questione
di un soggetto in processo le cui sfaldature testimoniano del travaglio
dell'inconscio freudiano.
La necessità di conoscere, invece di una cancellazione, una sovver
sione del soggetto pone, nonostante tutto, un problema. Scissione del
soggetto, inscrizione della differenza, invariante topologica, messa in
questione di una logica dell'identità: ecco una serie di fattori dei
quali ci si chiede se si possono trattare in questo nuovo " metalin
guaggio " spaziale che, contrariamente all'atteggiamento strutturale
che cancella il corpo e il soggetto, rende di nuovo giustizia a queste
istanze e tiene però conto della loro sovversione ad opera della scis
sione psicanalitica.
Proprio a partire da un tale al di fuori si trova realizzata una lo
gica del discreto. Il problema della generatività delle strutture, posto
da Antoine Danchin, troverebbe allora nella teoria delle catastrofi la
sua ultima distanza: se il Dio leibniziano calcola di nuovo per fare il
mondo, allora il suo calcolo è fatto di queste varietà singolari di forme
spaziali e la sua algebra morfogenetica se la intende con la struttura
del desiderio. L'esempio della cuspide, dato da Petitot, ha permesso di
classificare casi stabili, che si oppongono alle classificazioni discrete
mentre la prospettiva discretizzante appare come fondata su una mi
sconoscenza dell'avvenimento discriminante. La novità di questa ipo
tesi consiste non nel riassorbire la ricerca dello strutturalismo in una
prospettiva neocontinuista o, ancora meno, in una dinamica sostan
zialista del desiderio preso come un'entità di ordine quasi metafisica,
bensl nel porre allo strutturalismo, nel totale rispetto della fecondità
del suo campo, la questione della generazione della struttura, evitando
la trappola del ritorno chomskiano a strutture profonde " proprie " e,
in definitiva, innestate sul sostrato di un soggetto-sostanza di tipo car
tesiano precritico.
Se è vero che l'apporto dello strutturalismo è consistito nell'inscri
vere il giuoco della differenza, allora è ancora possibile chiedere pro
prio allo strutturalismo da dove siano prodotte le strutture, a partire
303
da quale luogo problematico esse siano generate. L'ipotesi nuova, pre
sentata dalla teoria delle catastrofi e dalla teoria dell'esistenza di un
centro organizzatore, fornisce, tra le altre, una via aperta di ricerca, la
quale per la prima volta si sottrae alla doppia trappola di una meta
fisica del soggetto trascendentale e al suo doppione, o al suo inverso,
cioè all'ipostasi di un dinamismo spinoziano del Desiderio.
Il principio di identità si trova allora criticato nelle sue tre diverse
maniere di presentarsi: come logica dialettica, come logica speculare e
come logica strutturale, le acquisizioni delle quali non sono certo qui
ricusate, ma riguardo alle quali si trova ora posta la questione di quel
lo che esse misconoscono.
Si tratta di un approfondimento interrogatorio: una logica avveni
mentale, che, grazie alla nozione di catastrofe somatica che prende il
posto di un germe strutturale, afferma gli avvenimenti come inserivi
bili nei corpi, è una delle nuove vie di esplorazione aperte dall'ana
lisi di Jean Petitot.
Questo modello, che pensa la differenza come tale e non come
sempre già recuperata in una logica della differenza, prova a generare
nel registro del continuo ciò che appare fenomenologicamente come
discontinuo e rinnova, in termini operatori nuovi, le sue relazioni con
una delle grandi convinzioni e preoccupazioni leibniziane. Si offre, al
lora, una relativizzazione dell'opposizione tra discontinuo e continuo,
una relativizzazione che pone, nonostante tutto, il problema del ricor
so a un centro organizzatore. Se quest'ultimo sembra regolare la que
stione della generazione delle strutture in termini più soddisfacenti
che non le ipotesi chomskiane, allora questo ricorso sembra invocare
una dinamica, cui è legittimo porre in compenso una domanda: quella
del luogo dove essa si trovi ancorata.
Parte della risposta risiede nel fatto che queste dinamiche interne
sono inosservabili e sovradeterminate in relazione ai modelli che esse
permettono di classificare. Nondimeno, è permesso domandarsi donde
si trovi parlato un pensiero che faccia ricorso a questa dinamica.
L'ipotesi, che si può presentare, sarebbe quella che vede questa di
namica provenire dalla semiotica pulsionale, qui proposta da Julia Kri
steva come poetica del corpo rimossa dai logoi. In questo senso, tra
la teoria delle catastrofi e il necessario processo del senso e del sog
getto, sembra annodarsi una complicità. A partire da questo momento,
a titolo di luogo problematico, critico, inevitabile e, dopotutto, incon
tornabile, si trova la questione dell'inconscio freudiano. In ogni caso,
non è senza importanza la questione dell'inconscio freudiano. In ogni
caso, non è senza importanza l'aver visto che, come necessità episte
mologica incontornabile, questa problematica del resto, dell'inade
guatezza e dello scarto semanticamente corruttore, sorgeva sul terreno
304
in cui si situava l'analisi antropologica di Crocker, cioè l'analisi spa
ziale della società bororo, e si manifestava sotto forma di un appello
alle categorie dell'inconscio freudiano come operatore di eterogeneità.
A minacciare l'impero e l'orizzonte del soggetto trascendentale nel
luogo di una semiotica pulsionale, capace di mettere in pericolo l'uni
tà di una struttura, di un senso e di un soggetto, è una crisi più che il
campo della logica strutturale, di cui si tratterà. Il sorgere di un ete
rogeneo e del multiplo, reperiti sul terreno come primari, è qui visto
e denunziato da Julia Kristeva come il risultato di un recupero nello
orizzonte di una logica dell'identità o di una unità trascendentale. Una
nuova via di ricerca, allora, potrebbe consistere nel ricordare, grazie
alle scoperte dell'etnologia e in una continuità in relazione al campo,
che la posizione di una coscienza tetica, requisito di qualsiasi atteggia
mento conoscitivo, si trova in certo qual modo messa perpetuamente
in questione dall'appello dell'eterogeneità e dell'eterotopia a essere
lette in categorie diverse da quelle affini alla storia trascendentale del
nostro modo di conoscere.
All'incrocio del dialogo tra i diversi contributi, intrinsecamente an
tropologici e esteriormente teorici, si trova posta la questione del
doppio superamento dell'orizzonte trascendentale. È una questione po
sta dall'alterità profonda dei materiali del campo, che impone un trat
tamento e una lettura diversi da quelli dei saperi assuefatti (ricorso
a una teoria freudiana della figura, ricorso a una topologia della diffe
renza). Dal lato del soggetto si trova il riconoscimento dell'eterogeneo
come qualcosa che lavora all'interno della corruzione semantica, una
corruzione semantica che mette in crisi l'alleanza del soggetto, che è
supposto sapere, con una sintassi appropriata e logocentrica.
In particolare, proprio grazie all'inscrizione locale, sui vari campi
problematici dell'antropologia, di alcune categorie teoriche originate
dall'attrezzatura spaziale (qui proposta da Michel Serres) e dalla teo
ria delle catastrofi si potrebbe veder iniziare un dialogo interdiscipli·
nare e suscettibile di dare il cambio all'apporto fecondatore che la lin
guistica strutturale ha offerto all'antropologia nascente. Si troverebbe
presupposta, aperta e mutuamente arricchitrice, una relazione identica
a quella che ricorda Claude Lévi-Strauss:
« All'articolazione del suono e del senso corrispondeva pure, su
un altro piano, quella della natura e della cultura. E, come il fonema,
in quanto forma, è dato in tutte le lingue a titolo di mezzo universale
in virtù del quale si istaura la comunicazione linguistica, così la proi
bizione dell'incesto, universalmente presente, costituisce, se si pensa
alla sua espressione negativa, una forma vuota, ma indispensabile a
che divenga insieme possibile e necessaria l'articolazione dei gruppi
biologici in una griglia di scambi, da cui risulta la loro messa in comu-
305
nicazione [ ] È solo a condizione di riconoscere che il linguaggio,
... .