Il canone letterario
La letteratura italiana nella tradizione europea
COMPACT
a cura di
Hermann Grosser
1 Maria Cristina Grandi
Giancarlo Pontiggia
Matteo Ubezio
Quattrocento e Cinquecento
libro
line LiM
misto
compact
Il canone letterario
la letteratura italiana nella tradizione europea
1
Duecento e Trecento
Quattrocento e Cinquecento
a cura di
Maria Cristina Grandi > Hermann Grosser > Giancarlo Pontiggia > Matteo Ubezio
Principato
Gli autori ringraziano il dott. Franco Menin per la perizia e la dedizione con cui ha diretto e per-
sonalmente curato la realizzazione di questo volume, e la dott.ssa Silvana Mambretti per il prezio-
so lavoro redazionale.
ISBN 978-88-416-1668-0
Prima edizione: gennaio 2010
Ristampe
2015 2014 2013 2012 2011 2010
VI V IV III II I *
Printed in Italy
© 2010 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua-
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so da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO,
Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org.
I lettori di quest’opera troveranno una storia ordinata e continua della tradizione letteraria italiana
con sobrie ma sistematiche aperture al contesto occidentale e in particolare a quello europeo, con cui la
cultura e la letteratura italiana sono venute più strettamente a contatto. Il limite che si è posto in questa
direzione dipende dalla volontà di tenere una via di mezzo tra due eccessi: l’enciclopedismo o la disper-
sività. Tanto per gli autori italiani quanto per quelli stranieri, si sono privilegiati – com’è ovvio – i cosid-
detti classici, gli autori e le opere cioè che hanno saputo meglio interpretare la propria epoca e al con-
tempo parlare a più generazioni, e mantenere un’attualità anche oltre i limiti del proprio tempo. Dante,
Petrarca, Boccaccio, per non fare che i primi nomi di un elenco che sarà chiaro anche solo sfogliando
queste pagine, sono i pilastri del canone e ad essi viene concesso ampio spazio e un’attenzione più ana-
litica. Ma via via si sono presi in esame interi generi, scuole e correnti sia per delineare il necessario con-
testo storico-culturale e letterario entro cui i classici si collocano, sia perché essi stessi costituiscono un
elemento fondamentale del canone. Ad alcuni autori, che oggi godono di minore fortuna critica, si è da-
to un certo spazio anche solo perché senza di essi sarebbe impossibile comprendere la fisionomia com-
plessiva di un’epoca storica. Non si vuole intendere insomma il canone come un insieme di individualità
singole, ma come una tradizione articolata e complessa.
Questo libro può essere fruito sequenzialmente, dalla prima all’ultima pagina, ma ai lettori e ai do-
centi spetterà il compito di selezionare gli argomenti cui prestare più attenzione e quelli a cui prestarne
meno o su cui sorvolare, a seconda del tempo a disposizione o delle predilezioni e delle esigenze proprie
e degli allievi. Gli autori di una storia e antologia letteraria hanno l’onere delle scelte primarie ma anche
l’obbligo di una coerenza sistematica e di una relativa completezza: forniscono insomma un canone am-
pio all’interno del quale ciascun fruitore potrà ritagliarsi una propria, individuale versione dello stesso.
Non è illegittimo pensare che i docenti potranno proporre una loro versione del canone e gli studenti
più curiosi estenderla e variarla di propria iniziativa.
Questa edizione ridotta è destinata a quanti – nei Licei e negli Istituti Tecnici – vogliano un libro di
testo più agile e sintetico, specie nella trattazione storico-letteraria, semplificato nel lin-guaggio, ma non
banale o eccessivamente schematico. A questo scopo abbiamo drasticamente rivisto e ridotto tutto il pro-
filo storico-culturale e storico-letterario e molte delle guide all’analisi; abbiamo proporzionalmente ri-
dotto i documenti (sia quelli forniti nel profilo, sia quelli in appendice ai testi).Viceversa – pur nella ne-
cessità di ridurre anche questa parte – abbiamo cercato di mantenere il più possibile intatto lo sviluppo
dei testi, che, ribadiamo, costituiscono il cuore del canone.
On line si troveranno la Bibliografia, i Percorsi, le schede di Interpretazione degli autori e dei mo-
vimenti più importanti, che corredavano l’edizione maggiore. Nella prospettiva di agevolare lo studio e
preparare alle prove di verifica e, in ultima analisi, alla prova d’esame, abbiamo aggiunto delle Sintesi in-
troduttive ai singoli capitoli, alcuni schemi e schede lessicali per sottolineare e semplificare ancor più al-
cuni passi concettualmente complessi o fornire quadri riassuntivi di immediata fruibilità e delle prove di
verifica intitolate Verso l’esame, che nelle intenzioni dovrebbero costituire un’esercitazione da svolgere
a casa o in classe per preparare le analoghe prove di verifica somministrate dal docente.
A proposito degli schemi, siamo stati intenzionalmente parchi, perché convinti che progressivamente,
con l’abitudine allo studio e una certa familiarità con la materia, nessuno schema fornito dal libro di te-
sto possa sostituire – in una corretta prospettiva pedagogica e di apprendimento – gli schemi che even-
tualmente l’insegnante tracci alla lavagna per fissare i concetti espressi a viva voce nel fluire della lezione
e, a maggior ragione, gli schemi che lo studente ritenga utile fare in proprio per fissare i concetti appre-
si studiando la storia letteraria e analizzando testi.
Mi sia infine concessa una chiosa personale.Vengo dall’esperienza de Il sistema letterario, avviata anni fa
con Salvatore Guglielmino, un grande docente e un grande amico, con cui avrei voluto condividere al-
meno in parte anche questa nuova impresa. Il canone letterario nasce anche da quella esperienza, che non
rinnega e di cui è in qualche parte debitore, ma che vorrebbe rinnovare e adattare ai tempi e alle attuali
esigenze della scuola, mantenendone il rigore e la serietà di impostazione e in qualche misura anche lo
spirito, l’impegno culturale e civile, che lo hanno caratterizzato e ne hanno determinato il successo. Il
nome di Salvatore Guglielmino, cui questo libro è dedicato, ricorrerà in qualche breve passo che si è vo-
luto inserire, qua e là nel corso della trattazione, come piccolo ma affettuoso e nostalgico omaggio al suo
insegnamento e per non sentirlo almeno idealmente del tutto estraneo a questo lavoro.
Hermann Grosser
Monza, 10 gennaio 2010
Il Medioevo:
1 società, cultura, mentalità
emergenti del periodo altomedievale, Cristianesimo e
Germanesimo, dal cui incontro nascono nuove realtà
politico-giuridiche e una nuova mentalità. Fondamen-
tale è il ruolo svolto dalla Chiesa, che ricostituisce l’u-
nità dell’antico impero romano, sbriciolatosi sotto
l’urto delle invasioni barbariche. Dio è posto al centro
del mondo, interpretato – con una fortunata metafora
– come un libro che l’uomo deve decifrare mediante
gli strumenti delle verità rivelate. Il mondo terreno,
naturale e storico, non ha dunque in sé valore autono-
mo, ma in quanto immenso repertorio di simboli che
rinviano a una realtà superiore, autentica ed eterna
(simbolismo universale).
Muta, nel corso dei secoli, anche la concezione
della storia, che appare come un processo lineare al
cui centro si pone l’evento rivoluzionario della reden-
zione operata da Cristo mediante il suo sacrificio. Al-
l’interno di tale concezione, la storia è vista come sto-
ria sacra e provvidenziale, progressiva realizzazione
di un piano divino finalizzato alla salvezza del genere
umano, che informa di sé ogni aspetto della vita so-
ciale. Come Dio è uno e trino, così la società umana è
divisa in tre ordini rigorosamente gerarchici (sacerdo-
ti, guerrieri, contadini). Anche la scuola e la cultura,
appannaggio dei centri monastici ed episcopali, ven-
gono riorganizzate sulla base di tale modello: il patri-
monio culturale pagano viene selezionato secondo
criteri religiosi e interpretato in chiave allegorica; il
sistema degli studi è articolato secondo lo schema
delle arti liberali, suddivise nei due cicli del trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (arit-
metica, geometria, musica, astronomia); il fondamen-
to degli studi sono i testi sacri, interpretati mediante
n Cavalieri medioevali. Il termine Medioevo, ovvero «età di mezzo», nac- l’autorità dei padri della Chiesa. Solo con la rinascita
n L’abate di Montecassino que in età umanistica con significato negativo per in- economica ed urbana che si verifica dopo il Mille
Desiderio (1027-1087) dona
un codice a san Benedetto, dicare un lungo periodo di tempo che si estendeva fra (Basso Medioevo) nascono scuole fondate su esigen-
fondatore nel 529 dell’abbazia. l’età classica – considerata un modello insuperato di ze non più esclusivamente religiose. Con l’apparizio-
n La raccolta dell’uva. civiltà – e l’età nuova, in cui il mondo tornava a rina- ne, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, delle pri-
scere dopo un millennio di barbarie e di tenebre (i co- me grandi università europee (Bologna, Parigi, Oxford
siddetti “secoli bui”): convenzionalmente, tra la fine in particolare), si entra ormai in un’epoca nuova, che
dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) e la fine già preannuncia per diversi aspetti la rinascita uma-
dell’Impero Romano d’Oriente (caduta di Costantino- nistica del XIV secolo. Nel frattempo, in ogni parte
poli: 1453). Oggi si preferisce frazionare tale periodo d’Europa, nascono le letterature volgari, che, affran-
in due diverse fasi, l’Alto Medioevo (fino al Mille) e il candosi dalla lingua latina – sentita ormai da tempo
Basso Medioevo, caratterizzato il primo da gravi fat- come lingua sacra della Chiesa –, si avviano progres-
tori di crisi e di instabilità, il secondo da una progres- sivamente ad imporre una nuova visione del mondo,
siva ripresa economica e culturale. Due sono le forze laica e naturalistica.
interno: si è soliti perciò distinguere fra Alto Medioevo (all’incirca fino al Mille) e
Basso Medioevo (dopo il Mille). Proprio tale suddivisione risulta preziosa per il di-
scorso storico-culturale che ci accingiamo a fare.
Alto Medioevo Non c’è infatti dubbio che l’epoca compresa fra il V e il X secolo presenti fattori di
crisi e di instabilità, quali: lo sgretolarsi delle grandi istituzioni politico-sociali di età
imperiale; la diminuzione demografica e il conseguente spopolamento delle città; l’in-
terruzione progressiva di gran parte delle vie di comunicazione, da cui la paralisi del-
le attività commerciali; lo stato di insicurezza in cui versano gli abitanti, anche dopo il
periodo delle grandi invasioni, a causa delle continue incursioni di popoli provenien-
ti da nord (Normanni e Danesi), da est (Ungari) e da sud (Saraceni); l’impoverimento
del sistema economico, spesso ridotto a operazioni di baratto; l’impaludamento o in-
selvatichimento di gran parte delle aree agricole, sempre meno coltivate, e il soprav-
vento di un’economia più grezza fondata sulla caccia e sulla pastorizia; una condizio-
ne di povertà diffusa, spesso inasprita da carestie ed epidemie; la dissoluzione del siste-
ma scolastico romano, con la conseguente frattura dell’unità linguistica; la perdita di
gran parte delle biblioteche (e perciò delle opere) che erano andate costituendosi in
età ellenistica e imperiale; la progressiva clericalizzazione della cultura. Questo scena-
rio resterebbe tuttavia incompleto se non si facesse cenno alla rinascita carolingia del
IX secolo, di cui fu protagonista Carlo Magno, e che costituisce un momento decisivo
della storia medievale.
Il Sacro Romano Impero e la rinascita carolingia Approfittando della vacanza dell’Impero roma-
no d’Oriente, dove Irene, detronizzato il figlio Costantino VI e fattolo accecare, aveva
assunto i poteri imperiali (797), nella notte di Natale dell’800 Carlo venne incoronato
imperatore da papa Leone III, non sappiamo se per iniziativa personale del pontefice o
TEOLOGIA
FILOSOFIA
Arti meccaniche
ARCHITETTURA PITTURA SCULTURA MEDICINA
per accordi intercorsi precedentemente fra i due. Nasceva il Sacro Romano Impero,
che nell’idea di Carlo doveva continuare l’Impero cristiano di Costantino e di Teodo-
sio. Poco importava, agli occhi dei contemporanei, che di fatto gli equilibri complessi-
vi fossero completamente mutati, con lo spostamento dell’asse dell’Impero dal Medi-
terraneo all’Europa continentale e germanica, e con l’indebolirsi dell’idea di romanità a
favore di quella di cristianità: ciò che Carlo volle far risaltare fu l’idea di una continuità
storica, di una translatio Imperii (“traslazione”, “trasferimento” dell’Impero) che lasciava
intatta la sostanza storica dell’Impero, «Romano», appunto, e «Cristiano».
Il progetto imperiale fu sostenuto da una grande azione incivilitrice, fondata sul re-
cupero dell’antica cultura classica e di una lingua latina scritta che fosse di nuovo all’al-
tezza dei modelli pagani e cristiani (R 1.2 e 2.). Tale compito fu affidato alle scuole,
molte delle quali nacquero grazie all’intervento diretto dell’imperatore: fra di esse la
Schola Palatina, una sorta di accademia culturale che non aveva fissa dimora, ma si muo-
veva al seguito della corte imperiale. Alla Schola Palatina furono chiamati i migliori inge-
gni dell’epoca, dal monaco Alcuino di York allo storico Eginardo, al longobardo Paolo
Diacono. Compito delle scuole fu il recupero dei classici latini da troppo tempo abban-
donati: i testi furono ricopiati dai monaci amanuensi, e in tal modo salvati dal naufragio
cui ben presto sarebbero andati incontro a causa del progressivo deperimento dei codici.
La rinascenza carolingia, anche se isolata nel panorama alto-medievale, troppo de-
n Statua di Carlo Magno (XII presso per poter rispondere all’appello culturale di pochi dotti, non fu tuttavia inutile:
secolo, Chiesa di Mustair, assicurò la trasmissione di testi fondamentali del patrimonio classico, e costituì un
Svizzera).
esempio per la cultura successiva. Alla rinascenza di età carolingia seguì, ai confini fra
Alto e Basso Medioevo, la rinascenza ottoniana, promossa dalla dinastia di Sassonia,
che non solo ripropose con autorità l’idea imperiale con Ottone I il Grande (962-
973), ma promosse una nuova rinascita degli studi classici con Ottone III (983-1002),
fautore di una Renovatio Imperii, un “rinnovamento” che restaurasse l’antico Impero
dei Cesari e di Costantino. Ottone III volle riportare la capitale dell’Impero a Roma,
favorendo l’ascesa al soglio pontificio del suo dottissimo maestro, Gerberto d’Aurillac,
col nome di Silvestro II (999-1003). Se pure effimero, il progetto di Ottone III teneva
vivo il mito di Roma e la coscienza della sua grandezza letteraria e culturale.
Basso Medioevo Ben altro è il quadro che va delineandosi dopo il Mille, e dal quale emergono, co-
me avremo modo di vedere (R 3.): nuove realtà politico-istituzionali (i Comuni e i
regni nazionali); un’agricoltura non più di sussistenza (favorita anche dall’impiego di
strumenti agricoli tecnicamente più adeguati e dalla rotazione delle colture); un’eco-
nomia dinamica, fondata su una ripresa dei traffici e sul predominio dei ceti mercanti-
li; una conseguente ripopolazione dei centri urbani, mai totalmente scomparsi ma ri-
dotti per secoli a piccoli agglomerati di fatto ininfluenti sulla vita politica e culturale.
Non a caso nascono in questo periodo, tra XI e XIII secolo, le letterature volgari; e
nasce un nuovo pubblico letterario, espressione di una visione del mondo più artico-
lata e più laica. Proprio nell’XI secolo il territorio dell’Europa cristiana, sottoposto nei
secoli precedenti ad attacchi e razzie, torna ad espandersi in concomitanza con le dif-
ficoltà del mondo islamico, destinato storicamente a perdere le precedenti conquiste
europee (penisola iberica e Sicilia) e il primato dei commerci marittimi (fondamenta-
le, nell’XI secolo, fu il ruolo svolto dalle repubbliche marinare).
Il feudalesimo Tra VIII e IX secolo si va delineando nell’Europa cristiana quel sistema di organiz-
zazione della società medievale che va sotto il nome di feudalesimo, e che sopravvi-
verà, sia pure in varie forme e in modo parziale, fino al termine del XVIII secolo.
L’importanza storica del feudalesimo non si limita al piano storico-sociale, ma con-
cerne direttamente l’immaginario artistico e letterario: si vedrà, in particolare, quale
determinante influenza saprà esercitare la mentalità feudale sulla poesia d’amore e sul-
la poesia epico-cavalleresca (R 5.).
11 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
Il sistema feudale, che in qualche modo era già prefigurato nel sistema economico
delle villae tardo-imperiali (grandi latifondi che assorbivano le piccole proprietà in
cambio di protezione), si fondava sul concetto germanico di fedeltà assoluta a un capo.
Questa fedeltà, premiata con benefici e donazioni, poteva giungere all’estremo sacrifi-
cio della vita. Gli elementi costitutivi del feudalesimo sono infatti il beneficio, il vas-
sallaggio e l’immunità: giurando fedeltà assoluta al proprio signore (l’omaggio: etimolo-
gicamente, divenire «uomo» di un signore), il vasso (o vassallo) riceve in cambio un be-
neficio, ovvero un feudo, che gli viene dato non in proprietà ma in concessione sino al
termine della vita. Nel caso di tradimento (fellonia) o di mancato adempimento agli
obblighi previsti, il beneficio può essere immediatamente revocato. L’atto simbolico
mediante il quale viene concesso il feudo, l’investitura, prevede una sua complessa li-
turgia. Dato il carattere personale di questi accordi, il vassallo può a sua volta appalta-
re porzioni del suo feudo ad altri uomini a lui fedeli (vassi vassorum [vassalli dei vassal-
li], ovvero valvassori). Si va così costituendo nel corso del tempo una struttura gerar-
n Scene di investitura con chica e piramidale con al vertice il sovrano, e al di sotto un numero sempre più alto di
omaggio feudale. vassalli legati da una rete di obblighi personali. I feudi tendono ad arricchirsi, col
tempo, di sempre maggiori privilegi (immunità), che vanno dalle esenzioni fiscali al di-
ritto di arruolare soldati o di esercitare la giustizia. Quando i feudatari ottengono che
i loro benefici diventino ereditari (il primo atto è il Capitolare di Kiersy nell’877; l’ulti-
mo la Constitutio de feudis, nel 1037), il sistema, inizialmente congegnato per creare un
potere stabile e gerarchicamente compatto, comincia ad incrinarsi e deve sempre più
fare i conti con forze disgregatrici, dapprima interne al sistema (i valvassori), poi ester-
ne (le città, che nel frattempo, dopo il Mille, si vanno espandendo ad opera dei ceti
borghesi e mercantili, e cercano di rendersi progressivamente autonome sia dai feuda-
tari locali sia dall’imperatore).
Il ruolo della Chiesa Se il feudalesimo costituì, progressivamente, la struttura portante del mondo me-
dievale, fu tuttavia la Chiesa a svolgere fin dalle origini il ruolo decisivo, e a ricostitui-
re un’unità culturale e religiosa che le forze particolaristiche germaniche avevano di
fatto sbriciolato. Sostituendosi alle antiche autorità romane (i magistrati; l’imperatore),
sono i vescovi cattolici, responsabili delle loro diocesi e che agiscono con una sorta di
investitura popolare, ad arginare l’iniziale brutalità barbarica (ad esempio attraverso il
diritto di asilo, che obbligava a non fare uso di armi nei luoghi di culto), a salvaguar-
dare alcuni princìpi fondamentali della dignità umana, mettendo in atto un processo
di romanizzazione e di cristianizzazione dell’elemento barbarico. L’autorità morale
della Chiesa, conquistata in virtù del coraggio e della determinazione dei vescovi,
viene dunque progressivamente ad assumere un contenuto non più solo spirituale ma
n La benedizione di un ve- civile e sociale: la curia vescovile sostituisce di fatto l’antica curia municipale; ai tribu-
scovo (capolettera dell’XI se-
colo). nali ecclesiastici viene presto riconosciuta la competenza di giudicare intorno a que-
stioni non solo religiose ma anche civili e penali. Ancora più significativo, per il di-
scorso storico-culturale che ci interessa, fu il ruolo svolto dai monasteri, che si diffu-
sero dopo il VI secolo in ogni parte d’Europa, e costituirono per almeno un millennio
delle vere e proprie cittadelle di vita spirituale e culturale (R 1.4).
Ugo di San Vittore, Tutto questo mondo sensibile è infatti come un libro scritto dalle mani di Dio, cioè
I tre giorni dell’invisibile creato dalla potenza divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dal-
luce. L’unione del corpo e
dello spirito, a c. di V. l’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà di Dio per manifestare e indicare la sua
Liccaro, Sansoni, Firen- invisibile sapienza. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, scorge i segni,
ze 1974, p. 57
ma non capisce il senso, così lo stolto e «l’uomo animale», che «non capisce le cose di-
vine» [san Paolo, I Corinzi 2, 14] in queste creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma
non ne capisce interiormente il significato. Colui che è spirituale, invece, ed è capace di
valutare tutte le cose, mentre considera all’esterno la bellezza dell’opera, interiormente
comprende quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Perciò non vi è nessuno a cui
le opere di Dio non appaiano mirabili, ma mentre l’insipiente ammira in esse soltanto
l’aspetto esteriore, il sapiente invece da ciò che vede all’esterno scorge il profondo
pensiero della sapienza divina. Così di una identica scrittura può avvenire che una per-
sona ne lodi il colore e la forma delle figure, un’altra invece ne apprezzi il senso e il si-
gnificato.
Lapidari, florari, bestiari Se la natura è un grande serbatoio di simboli che vanno decifrati perché ac-
quistino senso, non deve stupire che i tre regni della natura (minerale, vegetale, anima-
le) vengano letti in chiave simbolica e diano origine a veri e propri trattati enciclope-
dici di valore non fisico o naturalistico ma religioso e morale. «Lapidari», «florari» e «be-
stiari» reintroducono l’uomo nell’armonia cosmica che il peccato originale ha offusca-
to se non cancellato agli occhi umani: le proprietà di una pietra preziosa, di un fiore, di
un animale, ci parlano «in modo enigmatico» delle grandi verità teologiche e morali.
Non si deve tuttavia pensare che in un bestiario medievale gli animali vengano de-
scritti nella loro reale natura: molti di questi animali sono anzi attinti a un repertorio
fantastico (come l’unicorno o la fenice) o sono colti in comportamenti bizzarri e stra-
vaganti che non hanno alcun rapporto con la realtà. Il mondo medievale aveva del resto
sviluppato una particolare predilezione per tutto ciò che è esotico, meraviglioso, fanta-
stico: quanto più la realtà materiale si restringeva in uno spazio angusto e limitato, a
causa delle difficoltà dei viaggi e delle relazioni, tanto più l’immaginazione si apriva al
fascino di mondi irreali e stupefacenti, cercati (e trovati) nei soli spazi allora disponibi-
li: gli antichi volumi di monstra (in latino “prodigi, cose incredibili”) e di mirabilia
(“spettacoli che destano meraviglia, stupore”) trasmessi dal mondo greco-romano. La
più fortunata di queste opere era stata la Storia naturale di Plinio il Vecchio (autore lati-
no del I sec. d.C.), più volte compendiata nei secoli medievali.
Né si deve pensare che esista necessariamente una corrispondenza rigida tra ogget-
to e simbolo: al contrario, una caratteristica di questi trattati enciclopedici è proprio
l’ambiguità e la molteplicità dei significati che possono affiorare da una pietra, un fiore
o un animale. Il leone, ad esempio, è spesso rappresentato come simbolo di violenza e
di aggressività, come nei celebri versi di Dante: «Questi parea che contra me venisse /
con la test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne tremesse» (If I 46-48).
Il Fisiologo,
a cura di F. Zambon, Il Fisiologo ha detto del leone che ha tre nature. La sua prima natura è questa:
Adelphi, Milano 1975 quando vaga e passeggia per la montagna e gli giunge l’odore dei cacciatori, con la co-
(seconda edizione
riveduta 1982) da cancella le proprie impronte, affinché i cacciatori, seguendole, non trovino la sua ta-
na e lo catturino. Così anche il Cristo nostro, il leone spirituale vittorioso, della tribù di
Giuda, della radice di Davide, inviato dal Padre invisibile, ha nascosto le sue impronte
spirituali, cioè la sua divinità. Fra gli angeli è divenuto angelo, fra gli arcangeli arcange-
lo, fra i troni trono, fra le potenze potenza, finché è disceso nel grembo della santa Ver-
gine Maria, per salvare il genere umano smarrito, «e il Verbo si è fatto carne, e ha pre-
so dimora fra di noi» [Giovanni I, 14]. Per questo, non riconoscendolo coloro che son
scesi dall’alto, hanno detto: «Chi è questo re della gloria?». E dice lo Spirito Santo: «È il
Signore delle potenze, è Lui il re della gloria!» (Salmi XXIII, 8-10).
Seconda natura del leone. Quando il leone dorme nella tana, i suoi occhi vegliano:
infatti rimangono aperti. Lo testimonia anche Salomone nel Cantico dei Cantici, dicen-
do: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» [Cant. V, 2]. Così anche il corpo del Signore
mio dorme sulla croce, ma la sua natura divina veglia alla destra del Padre: perché «non
sonnecchierà né dormirà colui che custodisce Israele» [Salmi CXX, 4].
Terza natura del leone. Quando la leonessa genera il suo piccolo, lo genera morto, e cu-
stodisce il figlio, finché il terzo giorno giungerà il padre, gli soffierà sul volto e lo desterà.
Così anche il Dio nostro onnipotente, il Padre di tutte le cose, il terzo giorno ha risuscita-
to dai morti il suo Figlio, primogenito di tutte le creature, il Signore nostro Gesù Cristo,
affinché salvasse il genere umano smarrito. Bene ha quindi detto Giacobbe: «Si è sdraiato e
ha dormito come un leone e come un leoncino: chi lo desterà?» [Genesi XLIX, 9].
Ma nel Fisiologo, che è il prototipo dei bestiari medievali, il leone diviene figura simbo-
lica e allegorica di Cristo.
Come si può osservare, il leone del Fisiologo ha ben poco a che fare con il leone rea-
le che conosciamo: le proprietà che gli vengono attribuite derivano da un repertorio
leggendario e narrativo utilizzato a fini morali. Spicca, in particolare, il continuo ri-
mando alle Sacre Scritture.
Enciclopedismo Se le verità essenziali sono qualcosa di già dato, che abbiamo perduto a causa del
peccato originale ma che possiamo in parte recuperare grazie alla venuta di Cristo sul-
la terra, non sorprende che la massima aspirazione della cultura medievale sia quella di
organizzare e classificare il sapere già disponibile in piccole o grandi enciclopedie, alcu-
ne di carattere tematico (ad esempio un bestiario), altre di carattere complessivo (che
ambiscono cioè a realizzare una summa, una totalità ordinata dell’intero scibile umano).
Fra le prime e più importanti opere enciclopediche del Medioevo vanno ricordate le
Etimologie, composte nel VII sec. da Isidoro di Siviglia (570 ca-636), che organizzano in
20 volumi l’immenso repertorio del sapere partendo per ogni voce dal significato eti-
mologico della parola, in cui si ritiene sia racchiusa la verità, cioè l’essenza autentica e
originaria, della cosa. L’enciclopedismo medievale risponde pienamente all’esigenza di
una cultura integralmente cristiana, teologica e unitaria. I dotti medievali cercano in-
nanzitutto di collocare ogni frammento e ogni aspetto del reale in un insieme ordinato
e comprensibile. Tutto, del resto, è stato predisposto da Dio, e tutto ritornerà a Dio:
questo significa che l’ordine è anteriore alla realtà stessa del mondo visibile, che Dio ha
n Pagina miniata dalle Eti- gerarchicamente plasmato secondo un preciso piano. Lo studioso medievale che ap-
mologie di Isidoro di Siviglia. pronta un’enciclopedia reintegra un ordine che precede la storia e l’uomo, dal mo-
n Miniatura che rappresenta mento che mondo della natura e mondo della storia sono opera non dell’uomo, ma di
il leone in un bestiario me-
dioevale. Dio. Di qui una nuova filosofia della storia, che si distingue da quella greco-latina.
▍ Il Fisiologo
Composto, forse ad Alessandria, tra il II e il III secolo d.C. in lingua greca da un autore sco-
nosciuto, Il Fisiologo può essere definito il capostipite dei bestiari medievali (ma comprende
anche esempi di lapidari e florari). Della sua fortuna (fu il libro più letto in tutto il Medioe-
vo dopo la Bibbia) testimoniano le innumerevoli traduzioni (quella in latino, già nel IV se-
colo) e le continue trasformazioni cui il testo fu soggetto. Il titolo compare nell’incipit di
molti capitoli («Il Fisiologo dice»); ma questa denominazione non va interpretata in senso
scientifico: nei Padri della Chiesa, in effetti, fisiologo è colui «che interpreta la natura alla lu-
ce della morale e della metafisica, iniziando così il lettore ai misteri divini» (Jacquart). Le no-
zioni naturalistiche vengono perciò adattate ai significati simbolici, costantemente forzate in
senso allegorico. Le fonti sono varie: non solo i testi biblici ma anche Plinio il Vecchio e Ari-
stotele. La struttura dei 48 brevi capitoli è assai semplice: a) citazione scritturale; b) descri-
zione dei costumi dell’animale; c) interpretazione allegorica e insegnamento morale.
Orosio, E in quel tempo, cioè nell’anno in cui Cesare per volere di Dio diede al mondo la pa-
Le storie contro i pagani,
VI, 22, 5-8, ce più vera e più stabile, nacque Cristo, al cui avvento questa pace fece da ancella e al-
a cura di A. Lippold, la cui nascita gli angeli esultanti cantarono e gli uomini udirono: «Gloria a Dio nel-
trad. di G. Chiarini, vol.
II, l’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà». Colui nelle cui mani era
Fondazione pervenuta la somma dei poteri [Augusto], non tollerò, o piuttosto non osò, esser chia-
Lorenzo Valla-Arnoldo mato «signore» degli uomini proprio nel tempo in cui nacque tra gli uomini il vero
Mondadori Editore,
Milano 1976 Signore di tutto il genere umano. E ancora, quel Cesare che Dio aveva predestinato a
così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle sin-
gole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche
Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo, e, appena
nato, fu subito iscritto nel censo romano. È questo il primo chiarissimo riconosci-
mento che mostrò Cesare come principe di tutti gli uomini e i romani come signori
del mondo con la registrazione ufficiale di tutti gli uomini uno per uno, nella quale
volle figurare come uomo tra gli uomini anche colui che tutti gli uomini creò: ciò
che non fu concesso mai, in questo modo, dalla nascita del mondo e dall’inizio del ge-
nere umano, neppure al regno babilonico e macedonico, per non dire a qualsivoglia
altro piccolo regno. E senza alcun dubbio appare chiaro all’esperienza, alla fede e alla
ragione di ciascuno che è stato nostro Signore Gesù Cristo a far progredire questa
città – accresciuta e protetta dal suo favore – a tale apice di grandezza: a questa città
volle appartenere quando venne, farsi chiamare cioè cittadino romano per attestazione
del censo romano.
Nella visione cristiana, il processo storico non è dunque un insieme di fatti casuali
di cui protagonisti sono gli uomini stessi, ma è un processo posto fin dalle origini sot-
to la tutela di Dio: storia sacra, provvidenziale, che si sviluppa secondo un preciso di-
segno e che è destinata a concludersi con la fine del mondo, la fine del tempo e l’in-
gresso nell’eternità.
La città di Dio e la città dell’uomo Entro questa nuova visione della storia va inquadrato un tema
fondamentale della filosofia cristiana: il rapporto fra terra e cielo, o, per usare il lin-
guaggio del più grande filosofo cristiano di ogni tempo, Agostino, fra la città dell’uo-
mo e la città di Dio. Era stato proprio Agostino, del resto, a commissionare ad Orosio
la composizione delle Storie contro i pagani, che avrebbe dovuto, nel suo intento, affian-
care e integrare l’ultima sua grande opera, La città di Dio.
Agostino interpreta l’intera vicenda della storia umana (passata, presente e futura)
come una lotta tra le forze del Male e quelle del Bene, le prime asservite alla città ter-
rena, le seconde obbedienti alla città celeste. La città terrena è figlia dell’amore di sé,
dell’egoismo fino al disprezzo di Dio; la città celeste è invece figlia dell’amore di Dio
fino al disprezzo di sé. Gli abitanti della città terrena lavorano per la gloria degli uo-
mini e per il conseguimento dei beni materiali; gli abitanti della città celeste (che vi-
vono sulla terra come in esilio, stretti intorno alla madre Chiesa) operano per la gloria
di Dio e l’avvento della sua giustizia. La città terrena è sottomessa alla sola legge del-
l’uomo; quella celeste al dominio della grazia. L’Impero romano è stato l’esempio più
grande di un’organizzazione politica fondata sul diritto, ma quell’esempio è stato su-
perato dal modello della civitas Dei, fondata sull’amore di Dio, sul sacrificio della pro-
pria persona, sul disprezzo dei beni mondani. Le due città si opporranno sino alla fine
dei tempi, quando la civitas diaboli sarà vinta e sottomessa, e la civitas Dei trionferà per
l’eterno. Il giudizio negativo sullo Stato romano è tuttavia attenuato dalla necessità: la
▍ La città di Dio
L’ultima fase dell’attività di Agostino va considerata sullo sfondo delle prime grandi invasio-
ni barbariche: nel 410 i Goti di Alarico espugnano Roma e la mettono a sacco; nel 430 i
Vandali assediano Ippona, la città di cui è vescovo da più di trent’anni. La disgregazione del-
l’Impero romano sollecita Agostino su due versanti: da una parte bisogna rispondere alle ac-
cuse del superstite paganesimo, secondo il quale l’Impero andava incontro alla rovina perché
aveva dimenticato i suoi antichi dèi sostituendoli con il culto cristiano; dall’altra si tratta di
evitare che la dissoluzione dell’Impero provochi la rovina dello stesso cristianesimo. La città di
Dio, ultima grande opera del santo, è il tentativo di comporre in una sintesi organica eventi
storici e riflessioni teologiche: l’aspetto apologetico dell’opera (difendere il cristianesimo da-
gli attacchi del paganesimo) si intreccia con la necessità di spiegare il disegno provvidenzia-
le di Cristo e il nuovo significato della storia umana alla luce della rivelazione cristiana.
L’opera è divisa in due vaste sezioni: la prima (libri I-X) svolge un compito apologetico,
difende cioè la religione cristiana dalle accuse dei pagani contemporanei, e confuta la falsità
e l’immoralità del paganesimo stesso; la seconda (libri XI-XXII), divisa a sua volta in tre
quaterne, tratta della nascita delle due città (umana e celeste), del loro sviluppo e del loro
epilogo. Civitas, in latino, significa innanzitutto «cittadinanza»: gli uomini, secondo Agostino,
appartengono interiormente, nel loro animo, o alla civitas diaboli (“del demonio”, che fonda il
suo potere sui beni terreni e materiali, sull’amore egoistico, sul disprezzo di Dio), o alla civi-
tas Dei (fondata sui beni spirituali, sull’amore disinteressato, sulla totale dedizione a Dio).
Non dunque due vere città, semmai due comunità, due gruppi distinti secondo un criterio di
ordine morale (gli empi; i giusti) che agiscono per il trionfo del bene o del male. Solo alla fine
dei tempi la città celeste avrà ragione dei suoi nemici, destinati all’eterna dannazione. Ogni uo-
mo, finché vive sulla terra, è dunque in cammino verso la città celeste, che Dio ha promesso e
Cristo reso possibile con la redenzione.
Nato a Tagaste, in Numidia (le province africane, all’epoca, erano tra le regioni più colte dell’Im-
pero romano), nel 354 d.C., Aurelio Agostino in gioventù fu insegnante di grammatica e di reto-
rica, e aderì al movimento manicheista, una dottrina che spiegava la realtà come una lotta conti-
nua tra i princìpi del Bene e del Male. In seguito si trasferì in Italia, prima a Roma (383), poi a
Milano (384), allora sede imperiale, dove conobbe il vescovo Ambrogio e fu battezzato (387). Ri-
tornato in Africa, fu ordinato sacerdote (391) e acclamato vescovo a Ippona (395), dove rimase,
impegnato nell’attività pastorale e dottrinale, fino alla morte (430), avvenuta qualche mese prima
che la città, assediata dai Vandali di Genserico, fosse espugnata e saccheggiata. Personalità straor-
dinaria, per l’intensità della ricerca esistenziale e spirituale che lo condusse alla conversione (nar-
rata nelle bellissime Confessioni), per l’energia prodigata durante i trentacinque anni di attività
episcopale, e soprattutto per l’eccezionale qualità e quantità delle sue opere, Agostino fu autore
(per ricordare solo i titoli maggiori) delle Confessiones (in tredici libri, composti nel biennio 397-
398), del De doctrina christiana (La dottrina cristiana, in quattro libri, composti fra il 396 e il 426),
del De Trinitate (La Trinità, in quindici libri, scritti fra il 391 e il 419), del De civitate Dei (in venti-
due libri, scritti fra il 412 e il 427), senza contare il ricchissimo epistolario, le circa 500 prediche
(Sermones) e il vasto corpus delle opere polemiche.
biblioteca medievale d’Europa). In tutti i grandi monasteri fiorì dunque uno scripto-
rium (nel latino medievale, “scrittoio”, ambiente dove si scrive e si conservano i testi
scritti, pertanto anche “biblioteca”) dove i monaci si alternavano nel lavoro di copiare
i codici e di produrre i manoscritti.
Chierici e laici Il sistema degli studi era dunque interamente volto a finalità sacre e religiose, e ge-
stito da chierici (dal latino clericus, che appartiene al clero). Non a caso «chierico», in
età medievale, divenne sinonimo di persona dotta, dedita all’attività intellettuale. La di-
stinzione tra laici e chierici costituisce uno dei fondamenti dell’ideologia medievale:
in senso generico stabilisce la differenza tra spirituale e temporale, sacro e profano
(dove il primo termine risulta sempre superiore al secondo); in senso culturale espri-
me la distinzione fra persone istruite e persone incolte. Essere chierici, in età medie-
vale, significava conoscere il latino, __________
saper scrivere (la cosa non deve sorprendere: mol-
ti, all’epoca, sapevano soltanto leggere, a cominciare dall’illustre esempio di Carlo Ma-
gno), applicarsi agli studi. Ai chierici, cioè agli uomini di Chiesa, sono dunque affidati
per secoli la trasmissione del sapere e il monopolio della cultura. La coincidenza di
chierico e intellettuale sopravvisse anche quando tale monopolio cominciò a incri-
narsi, in seguito all’affermarsi delle nuove realtà comunali, delle lingue volgari (R 2.) e
di nuove forme di organizzazione scolastica. A quest’epoca, anche i modi della produ-
zione libraria cominciarono a cambiare, e si creò un personale specializzato nella co-
piatura dei codici non più interno ma esterno alle scuole cattedrali e monastiche.
Cristianesimo e paganesimo: il «sacro furto» Nei primi secoli il cristianesimo si era sviluppato in
netto antagonismo con il mondo pagano e romano: solo dopo il riconoscimento del-
la religione cristiana (con l’editto di tolleranza, promulgato a Milano da Costantino
nel 313) e l’ingresso dei cristiani nell’apparato amministrativo imperiale, si comincia a
porre la questione dei rapporti con la cultura pagana, che alcuni Padri della Chiesa
vorrebbero rifiutare in blocco per salvaguardare la purezza della dottrina cristiana. La
soluzione storica al problema è quella offerta da Agostino, che nel De doctrina christiana
[La dottrina cristiana] teorizza il concetto di «sacro furto». Pur pronunciandosi infatti
per un netto rifiuto del patrimonio culturale pagano in sé considerato, Agostino rico-
nosce che la cultura classica, accanto a falsità e menzogne, comprende sparse verità che
debbono essere recuperate e restituite al loro pieno significato: dunque è lecito al cri-
stiano “rubare” ai pagani tutto ciò che può utilizzare in modo nuovo e più degno, an-
zi per un fine “sacro”: al servizio cioè della vera fede.
Il metodo allegorico Lo strumento mediante il quale i Padri della Chiesa si accostarono ai testi classi-
ci fu il metodo allegorico, che permise di assorbire e di riconvertire buona parte del
patrimonio classico evitando che andasse perduto.
L’allegoria (dal greco állon “altro” e agoréuo “parlo”) nel mondo classico era innanzi-
tutto una figura retorica dell’analogia (come la similitudine e la metafora): consisteva
nel dire una cosa per sottintenderne un’altra. L’allegoria operava insomma su due pia-
ni: uno letterale, chiaramente percepibile, e un altro più nascosto, meno visibile, che
necessitava di chiavi interpretative per essere compreso.
Già nel mondo pagano tardo antico l’allegoria era diventata un vero e proprio me-
todo di lettura; ma nel mondo giudaico-cristiano il metodo allegorico si prestò im-
mediatamente a divenire lo strumento per eccellenza degli studi, dapprima applicato
alla lettura dei testi sacri, in seguito anche ai testi pagani.
L’episodio più noto del processo di allegorizzazione del patrimonio classico fu
l’interpretazione cristiana della IV ecloga di Virgilio, letta come un preannuncio della
nascita di Cristo (il fanciullo del carme, in realtà figlio del console cui l’ecloga era de-
dicata, destinato secondo il poeta a rinnovare il mondo nel segno della pace e della
giustizia, e a riportare sulla terra la mitica età dell’oro). L’interpretazione, resa possibi-
le da casuali consonanze testuali, rafforzò l’immagine medievale di un Virgilio mago e
20 © Casa Editrice Principato
1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA
profeta, la cui tomba, a Napoli, divenne ben presto luogo di culto, quasi fosse la tom-
ba di un santo.
L’interpretazione allegorica dei testi sacri fu invece resa necessaria, in ambito cri-
stiano, dall’esigenza di raccordare i libri del Vecchio Testamento con quelli del Nuovo,
per dimostrare non solo la continuità ma anche la perfetta specularità delle due tradi-
zioni: la storia sacra del Nuovo Testamento non è altro che il compimento di quella
del Vecchio, che a sua volta svela il suo pieno significato solo alla luce della seconda.
Il sistema delle arti liberali Già nel mondo classico le arti (o discipline) liberali avevano costituito il
fondamento degli studi. Erano così chiamate perché soltanto esse erano convenienti a
un uomo libero, in quanto attività disinteressate (prive cioè di fini economici) e pura-
mente intellettuali (cioè non manuali). Nel mondo romano esse erano nove, ma in età
medievale si ridussero a sette e furono organizzate in due blocchi, le Arti del Trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e le Arti del Quadrivio (aritmetica, musica, geome-
tria, astronomia). Le discipline escluse furono medicina e architettura, evidentemente
troppo compromesse con il mondo corporeo e materiale (il corpo umano, gli edifici).
Il primo ad elaborare il sistema delle arti liberali fu Marziano Capella, che nella prima
metà del V secolo compose una vasta enciclopedia dell’erudizione classica destinata a
influenzare tutto il Medioevo. Il sistema ricevette poi il suo definitivo ordinamento in
età carolingia.
Le discipline del Trivio erano fondate sulla parola, quelle del Quadrivio sulla quan-
tità e sul numero. La grammatica era volta all’apprendimento del latino, ed era dunque
la base degli studi: si studiavano i classici per impadronirsi quanto più correttamente
possibile di una lingua che, col passare dei secoli, non era più una lingua madre (R 2.)
n Il sistema delle arti libera-
li. e richiedeva dunque un’applicazione lunga e appropriata. Lo studio era essenzialmen-
te mnemonico ed era finalizzato alla lettura dei testi sacri e della vasta letteratura ese-
getica (cioè i commenti dei testi biblici). Anche le Arti del Quadrivio avevano valore
propedeutico e sacro: al pari delle parole, i numeri erano studiati per le loro proprietà
simboliche. L’astronomia era al servizio della teologia: nove schiere di angeli regolava-
no i moti e le influenze dei nove cieli secondo un piano provvidenziale (Guinizzelli
R T 7.1 , per non dire di Dante). La musica stessa era concepita come una disciplina
contemplativa, un puro studio di rapporti armonici che avvicinava l’uomo alla musica
celeste.
Le «autorità» del sapere medievale La cultura del Medioevo cristiano appare non solo finalizzata a
un sapere unitario, di carattere religioso e morale, ma anche fondata su alcuni testi
considerati specialmente autorevoli (le auctoritates o «autorità» del sapere medievale) ai
quali si fa appello di continuo attraverso citazioni e richiami, in quanto dotati di una
loro sacrale e profetica verità.
Nell’edificio del sapere, le fondamenta (e dunque le supreme «autorità») sono ovvia-
mente costituite dai libri sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ritenuti superiori
ad ogni altro perché direttamente ispirati da Dio. Seguono gli scritti dei Padri della
Chiesa (Gerolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno) o di quegli autori (come
Boezio) che godevano comunque, pur non potendo essere assimilati ai Padri, di un
grande credito. Non sempre i testi di questi autori erano conosciuti nella loro interez-
za: proprio il loro carisma autorizzava anzi la circolazione di antologie, estratti, spesso
semplici raccolte di frasi significative che potevano essere utilizzate in qualsiasi contesto
per confermare la verità di un’asserzione.
Se dunque le grandi verità sono già state dette, e stanno alle nostre spalle, compito
di chi scrive non è metterle in discussione o cercarne di nuove, ma attivarle e vitaliz-
zarle sul piano teologico e morale. La civiltà medievale non è solo la civiltà del libro,
ma anche la civiltà del commento e della glossa (“nota esplicativa”), ed è proprio qui
che esprime con maggior vigore la sua creatività.
21 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
La rivoluzione del sistema scolastico nel XII secolo Una prima rivoluzione del sistema scolastico
avviene nel XII secolo, quando tramonta la scuola monastica, fondata sul primato
della grammatica e sull’esegesi biblica, e si impone la scuola urbana, fondata sul pri-
mato della dialettica e della discussione razionale dei dogmi. Queste scuole urbane so-
no raramente laiche (come le scuole di diritto a Bologna e quelle di medicina a
Montpellier): per lo più si tratta delle vecchie scuole cattedrali dipendenti dai vescovi
(le più famose furono quelle francesi di Chartres, di Reims, di Orléans, di Laon, di
Notre-Dame di Parigi; ma assai nota fu anche la scuola cattedrale di Liegi). Nessuno,
all’interno di queste scuole, mette in discussione il primato della teologia: è il modo
nuovo di affrontare le questioni che rivela lo scarto rispetto ai secoli precedenti. Il
campione di questo nuovo modo di insegnare – che desta notevoli preoccupazioni e
persino scandalo negli ambienti ecclesiastici più conservatori – è Abelardo, l’autore,
fra l’altro, del Sic et non («Sì e no»), un opuscolo nel quale raccoglieva, intorno a 150
questioni teologiche, le posizioni contrastanti di diversi Padri della Chiesa (di qui il ti-
tolo). Quel che viene contestato ad Abelardo non sono tanto dei precisi contenuti,
quanto la presunzione di contrapporre la ragione al principio di autorità, la volontà di
risolvere problemi di natura teologica affidandosi non alla mediazione dei Padri della
Chiesa, ma alla libera interpretazione dei versetti biblici.
La nascita delle Università Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo le scuole cattedrali evolvono
rapidamente in associazioni corporative (dette in latino universitates), comunità auto-
nome di maestri e di studenti provviste di un loro statuto interno. Le più importanti
furono quelle di Parigi, Oxford e Cambridge, specializzate negli studi teologici, e di
Bologna, specializzata negli studi giuridici. L’università di Parigi, come vedremo, di-
venne nel corso del XIII secolo il più importante centro di studi del mondo cristiano.
Dell’argomento avremo modo di occuparci altrove (R 3.); per ora basti dire che
con la nascita delle università si affermano nuove figure di insegnanti, ormai professio-
nisti e stipendiati, che non si sentono più solo esegeti e ripetitori ma che vogliono
pensare in autonomia e in libertà, sperimentare nuove forme di ricerca, attingere a
fonti non più soltanto scritturali o patristiche. Con l’università, sia pure in modo con-
traddittorio, si sviluppa insomma uno spirito critico finora sconosciuto, alimentato an-
che dall’apparizione di nuovi testi filosofici, in particolare di Aristotele (R 3.4), da se-
coli perduti nell’Europa latina. Diversamente dal monaco, che legge per fini spirituali
e insegna a giovani destinati anch’essi a diventare monaci, il professore universitario
n Lezione universitaria.
(non sempre un ecclesiastico) legge spinto da interessi soprattutto intellettuali, e inse-
gna a studenti non necessariamente destinati alla carriera ecclesiastica. Spesso i chieri-
ci si spostano di università in università (clerici vagantes), attratti sia da più favorevoli op-
portunità di ricerca, sia dalla prospettiva di maggiori guadagni. Da questo mondo vi-
vace e inquieto nasceranno le grandi opere filosofiche del XIII e del XIV secolo, che
eserciteranno una vasta influenza anche sui poeti (basti pensare a Guido Cavalcanti e a
Dante, che fu, secondo tradizione, uditore all’università teologica parigina).
Accanto alle Università, si svilupperà anche un sistema di scuole gestito diretta-
mente dalle istituzioni cittadine e destinato ai laici: per lo più scuole di basso profilo,
funzionali alle esigenze dei ceti mercantili, che chiedono una cultura pratica di base,
fondata essenzialmente sul saper scrivere e far di conto; ma anche scuole che promuo-
vono attività fondamentali della vita civile, come il notariato.
VERIFICA
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il babile che sia il cosiddetto Indovinello veronese di età
progressivo costituirsi di regni romano-barbarici, il ter- carolingia, dobbiamo allora aspettare i Placiti Cassinesi
mine «romano» perdette il suo tradizionale contenuto redatti in ambito notarile fra il 960 e il 963. Dopo tale
politico per indicare esclusivamente chi parlava la lin- epoca, i documenti in volgare si fanno sempre più fre-
gua latina. Il latino parlato o “volgare” (cioè usato dal quenti: particolarmente significativi risultano l’Iscrizio-
popolo nella vita di tutti i giorni) era però ben diverso ne di San Clemente, parte in latino e parte in volgare, e
da quello scritto dei poeti o dei giuristi, degli storici o la Postilla Amiatina, entrambi collocabili verso la fine
degli oratori, giunto fino a noi grazie alle opere dei dell’XI secolo, epoca in cui in Francia già vengono
maggiori scrittori. Con il venir meno di un potere cen- composti i primi testi letterari in lingua d’oc e d’oïl.
trale e della compatta organizzazione scolastica impe- Soltanto agli inizi del XIII secolo compaiono signifi-
riale, la differenza tra latino parlato e latino scritto, che cativi testi letterari in lingua italiana, quasi contempo-
riguardava tutti i fenomeni linguistici (lessico, sintassi, raneamente in Sicilia (con la scuola siciliana: R 6) e in
pronuncia), andò man mano aumentando, e proprio dal Umbria (con il Cantico di san Francesco: R 4). Le ra-
latino volgare si andarono costituendo nuove entità lin- gioni di questo ritardo sono varie: fra di esse, la parti-
guistiche, le cosiddette lingue romanze o neolatine, tra colare frantumazione politica del nostro paese e la pre-
le quali emersero storicamente il francese, il provenza- senza – a Roma – di un’autorità ecclesiastica che più
n Lezionario con capolet- le, il catalano, il castigliano, il portoghese, il rumeno e di ogni altra mirava a conservare la lingua latina, con-
tera miniato da un codice
della scuola di San Gallo. l’italiano. La varietà degli esiti linguistici dipese da due siderata lingua sacra della comunità cristiana. Questo
fattori: da una parte l’influsso delle lingue in uso prima spiega la diffusione, nel XII secolo, di una vasta produ-
n Scrivani (da un codice dell’arrivo del latino (fenomeno di substrato); dall’altra zione poetica in lingua provenzale nell’Italia del nord:
del XII secolo).
l’influsso delle lingue germaniche dei barbari invasori una produzione che resiste ancora lungo il corso del
(fenomeno di superstrato). Proprio all’età carolingia ri- Duecento, parallelamente all’affermarsi della nostra
salgono le prime testimonianze e i primi documenti at- lingua letteraria in Toscana (R 6-7).
testanti l’avvenuto passaggio dal latino volgare alle lin-
gue romanze: il concilio di Tours dell’813 raccomandò
infatti ai vescovi di predicare nelle lingue comprensibili
al popolo, che ormai non poteva più intendere la lingua
latina di un tempo; nell’842 i figli di Carlo Magno fece-
ro giurare i propri eserciti negli idiomi da essi realmen-
te parlati (Giuramenti di Strasburgo).
Ancora oggi si dibatte quale sia la prima testimo-
nianza scritta della nostra lingua volgare: se è impro-
del substrato celtico (anteriore alla conquista romana) e del superstrato francone (la
lingua parlata dagli invasori Franchi). Questo spiega perché non in tutte le regioni
dell’Impero occidentale si imponessero lingue derivate dal latino: nelle isole britanni-
che, ad esempio, dove la conquista romana era stata parziale e l’elemento latino non si
era mai pienamente radicato, emersero con più forza le lingue indigene, e meglio at-
tecchirono quelle di derivazione germanica.
Le lingue volgari derivate dal latino sono dette neolatine o romanze: neolatine per-
ché si sono tutte evolute da una stessa lingua (estremizzando, potremmo dire che l’ita-
liano è un latino moderno); romanze perché parlate dagli abitanti della Romània, il ter-
ritorio dell’Impero romano che era andato disgregandosi sotto l’effetto delle invasioni
barbariche. Quando in età medievale troviamo espressioni come romana lingua o rustica
romana lingua, non dobbiamo pensare al latino, ma alle lingue romanze da esso derivate,
contrapposte al latino stesso o alle lingue germaniche (thiotisca o teudisca lingua).
Semplificando, dalla lingua comune latina derivarono nel corso dei secoli diverse
lingue, fra cui le più importanti furono: il rumeno, il ladino (o retoromanzo), il dalma-
tico (oggi estinto), l’italiano, il sardo, il francese (o lingua d’oïl), il provenzale (o lingua
d’oc), il catalano, il castigliano (il moderno spagnolo), il portoghese.
Trasformazioni nel passaggio dal latino al volgare italiano Limitandoci al volgare italiano, pro-
viamo a descrivere i più significativi mutamenti rispetto al latino:
– nel sistema linguistico latino, le vocali erano distinte sulla base della quantità, cioè
la durata dell’articolazione (breve o lunga). Tale distinzione poteva determinare anche
una differenza di significato: ad esempio pōpulus (“pioppo”) e pŏpulus (“popolo”);
mălum (“male”) e mālum (“melo”), vĕnit (“viene”, presente indicativo) e vēnit (“ven-
ne”, perfetto). Nella lingua italiana tale criterio scompare: alla quantità si sostituisce il
timbro, cioè la pronuncia (aperta o chiusa). Si determina così un sistema di sette voca-
li: a, i, u, e chiusa, e aperta, o chiusa, o aperta, da cui possono dipendere, ancora una vol-
ta, differenze di significato: ad esempio ròsa (il fiore) si distingue per la o aperta da rósa
(participio passato femminile del verbo ródere), da leggersi con o chiusa;
– i dittonghi latini si chiudono nel seguente modo: ae, oe si trasformano in e (aperta
o chiusa); au in o aperta. Es.: caelum > cielo; poena > pena; aurum > oro;
LINGUA D’OÏL
RETOROMANZO
PITTAVINO
FRANCO-
PROVENZALE
GALIZIANO RUMENO
LINGUA
D’OC
DALMATICO
ESE
ITALIANO
H
CASTIGLIANO
TOG
O
AN
POR
L
TA
CA
SARDO
ANDALUSO
– le vocali e le sillabe atone tendono a cadere (sincope): solidum > soldo; positum >
posto; calidum > caldo;
– scompare il genere neutro (la maggior parte dei vocaboli passa al maschile);
– scompare il sistema dei casi che determinava le funzioni logiche della lingua latina,
ora indicate mediante l’uso degli articoli (totalmente assenti in latino) e delle preposi-
zioni; e cadono dunque anche le terminazioni dei casi;
– scompaiono, nel sistema verbale, i deponenti (verbi di forma passiva, ma di signifi-
cato attivo), mentre resistono le quattro coniugazioni. Anche in questo caso si assiste a
un processo di semplificazione (scompaiono ad esempio le forme del supino o del-
l’imperativo futuro). Il tempo futuro è costruito non più con le tradizionali desinenze
ma con forme perifrastiche (infinito del verbo + habeo): dormire habeo > dormirò. La co-
niugazione passiva dei verbi viene costruita con l’ausiliare essere.
terne Deus. («Spingeva innanzi i buoi, bianchi prati arava; / il bianco aratro teneva, e
nero seme seminava. / Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente ed eterno.») Il grazioso
indovinello si fonda sull’analogia fra aratura e scrittura: l’aratore (soggetto sottinteso)
che spinge innanzi i buoi è lo scrittore; i buoi sono le dita; l’aratro è la penna d’oca; i
bianchi prati sono le pergamene; il nero seme è l’inchiostro. Gli studiosi peraltro si
chiedono se l’ignoto amanuense abbia scritto in un latino inconsapevolmente intessu-
to di volgarismi, o se abbia scherzosamente miscelato registri linguistici diversi; nel
primo caso il testo potrebbe essere considerato un prezioso documento della fase di
transizione dal latino al volgare.
Dobbiamo perciò aspettare circa un secolo e mezzo, con i quattro Placiti Cassinesi
(960-963), per trovare le prime testimonianze scritte della nostra lingua volgare . Che
si tratti di sentenze e di documenti notarili, non deve stupire: sono proprio gli am-
bienti come quelli giudiziari e notarili, costretti a mediare fra diverse lingue, diverse
culture, diversi destinatari sociali, a preoccuparsi per primi di elaborare un volgare
scritto. Giudici e notai, come vedremo, saranno molti dei primi scrittori in lingua ita-
Latino classico e latino cristiano Già il cristia- così evidenti. Nel latino colto, ad esempio, la bellezza
nesimo aveva provocato nella lingua latina, anche nelle sue varie accezioni era indicata con il termine
scritta, numerosi mutamenti che riguardavano sia la pulcher, quella fisica, specificamente corporea, con il
grammatica che il lessico. Quest’ultimo si era arricchi- termine formosus; il termine latino parlato era invece
to di forme derivate dall’ebraico (Satanas, seraphin, ho- bellus, quello che finì per imporsi nella maggior parte
sanna, amen) e dal greco, ad esempio per indicare la delle lingue romanze: bello in italiano; beau in francese;
nuova vita comunitaria (ecclesia, apostolus, eucharistia, bel in provenzale. Nelle lingue iberiche, tuttavia, pre-
martyr, clerus, diaconus, episcopus). Numerosi furono i valsero le derivazioni da formosus: hermoso (spagnolo);
neologismi introdotti (communio, incarnatio, resurrectio, formoso (portoghese). Pulcher scomparve del tutto.
trinitas), necessari per definire un nuovo mondo reli- L’influsso delle lingue germaniche e della lingua
gioso e concettuale. Molte parole mutarono identità, araba Nella formazione del nostro volgare, signifi-
slittando da un significato a un altro: dominus non fu cativo fu anche l’influsso di superstrato delle lingue
più il “padrone” ma il “Signore”; fides non significò germaniche: il gotico (epoca di Teodorico), il longo-
più la fedeltà alla parola data ma la “fede” religiosa. Gli bardo (circa trecento parole documentate, l’eredità più
slittamenti semantici furono determinati anche da epi- consistente), il franco o francone. I campi semantici su
sodi testamentari: poiché Giuda, consegnando Cristo ai cui tale influsso si esercitò furono prevalentemente
soldati, aveva tradito il suo maestro, tradere, che in latino quelli della guerra e della terminologia feudale, com’è
significava appunto “consegnare”, acquistò il significa- logico se si considerano i costumi di vita e la cultura
to di “tradire”. Captivus, in latino, significava “prigio- dei popoli invasori: di origine germanica sono parole
niero”: ma dopo che si formò l’espressione captivus come guerra (werra, che sostituisce il lat. bellum), elmo,
diaboli (“prigioniero del demonio”), il termine captivus strale, dardo, guardia, tregua; o come feudo, vassallo, barone,
designò una persona malvagia, “cattiva”, appunto. schiatta. Non mancano tuttavia termini che riguardano
Latino scritto e latino volgare Il latino che ha la vita quotidiana (vanga, stamberga, panca, scaffale, sguat-
dato origine alle lingue romanze – abbiamo detto – è tero) o il corpo umano (guancia, schiena, anca, milza).
il latino volgare (sermo vulgaris) parlato dalla gente, e Al mondo arabo si devono invece termini legati al-
non quello scritto. In presenza di parole concorrenzia- l’agricoltura (albicocco, arancio, limone, carciofo, cotone), al-
li per esprimere una medesima realtà, sono i termini le scienze, in particolare alla matematica e all’astrono-
volgari a prevalere, generalmente, su quelli più illustri mia (alchimia, alcool, algebra, cifra, zero, nadir, zenith, astro-
della tradizione letteraria: equus (“cavallo”) scompare a labio) o al commercio (dogana, tariffa, magazzino, fonda-
favore della voce popolare caballus (“cavallo da tiro”); co, arsenale); e anche da queste semplici annotazioni si
testa (“vaso di coccio”, utilizzato per indicare scherzo- può comprendere il diverso ruolo che le popolazioni
samente la testa in ambito familiare) prevalse sul classi- germaniche e quelle arabe svolsero a contatto con le
co caput. Non sempre i fenomeni linguistici furono genti della Romània.
Sao ko1 kelle terre,2 per kelle fini3 So che quelle terre, entro quei confini
que ki contene, trenta anni4 le possette che qui son disegnati, le possedette trent’anni
parte Sancti Benedicti.5 il monastero di San Benedetto.
1 ko: che (dal latino 4 trenta anni: periodo al mente proprietario (diritto lare di beni e diritti [...]
quod). termine del quale, secondo di usucapione). l’uso divenne addirittura ti-
2 kelle terre: prolessi il diritto romano, colui che 5 parte Sancti Bene- pico nei riferimenti a chie-
del compl. oggetto, ripreso aveva usufruito di un bene, dicti: costrutto latineggian- se, vescovadi, monasteri»
poco dopo dal pronome le. in assenza di rivendicazione, te: «pars seguito da un geni- (Sabatini).
3 fini: dal lat. fines, qui ne diventava automatica- tivo era usato a designare
con significato di “confini”. un soggetto in quanto tito-
Guida all’analisi
Un caso giudiziario Un privato di nome Rodelgrimo intenta una causa contro il monastero di Montecassino
per alcune terre che sosteneva di aver ereditato. La causa viene portata dinanzi al giudice
Arechisi. Aligerno, abate del monastero, oppone che quelle terre appartenevano invece al-
l’abbazia, che le aveva possedute per trent’anni, e afferma di poter produrre testi a sostegno
del suo diritto. Il giorno convenuto, nel mese di marzo del 960, nella città di Capua, tre te-
stimoni pronunciano dinanzi al giudice Arechisi la formula in volgare qui riportata. Rodel-
grimo riconosce i diritti del monastero. Il giudice emette la sentenza in latino, contenente
la testimonianza in volgare. Il notaio Adenolfo la trascrive.
Latinismi e volgarismi Il documento presenta tratti linguistici caratteristici del volgare campano. In particolare:
– sparizione dell’appendice labiovelare (suono velare + semivocale labiale u) in ko, kelle, ki;
– mancata dittongazione di contene (in toscano contiene), che i contemporanei avranno
pronunciato condene;
– lo stesso vocabolo fini, che è qui usato al genere femminile, non è un latinismo ma una
«forma locale conservata proprio nella zona che ci riguarda in quel particolare significato
rustico: forma vivente già tecnicizzata nel latino delle carte» (Folena).
Spicca tuttavia, nel complesso della formula, il ricorso a un latinismo (parte: vedi nota) e a
una forma come sao, costruita per analogia con altre forme (dao = do; stao = sto; ecc.) e pre-
ferita al più diffuso saccio (ancora oggi in corso nelle parlate meridionali). La preferenza per
sao, una forma ugualmente presente in area campana ma poco usata, dimostra la volontà di
impiegare termini più «nobili» (Viscardi) e meno municipali, per innalzare in qualche modo
il livello del dettato e dar vita a un vocabolario giuridico sovraregionale.
30 © Casa Editrice Principato
2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano VERIFICA
VERIFICA
1 Esponi le varie fasi che conducono da un’unica lingua latina a molteplici lingue volgari.
2 Che cosa intendiamo con espressioni come romana lingua o rustica romana lingua?
3 Spiega il significato dei termini «substrato» e «superstrato»: applica i due concetti a una
precisa situazione linguistica dell’Europa romanza.
Società e cultura
3 nel XIII e XIV secolo
n Attività cittadine.
Intorno al Mille si registra nell’Occidente europeo alla vittoria di questi ultimi nel novembre del 1301.
una decisa ripresa economica e demografica che de- Una nuova cultura, laica, borghese e civile, si affer-
termina una radicale trasformazione sul piano politi- ma nell’ambito delle istituzioni comunali, non più sot-
co-sociale e culturale. Tra le principali cause della rile- tomessa alle ingerenze ecclesiastiche e rivolta innan-
vante crescita demografica si segnalano la cessazione zitutto a formare i nuovi ceti dirigenti e a provvedere
delle pestilenze, la fine delle invasioni, la graduale in- la città di funzionari di alta professionalità, quali giuri-
troduzione di nuove tecniche nell’ambito dell’agricol- sti, notai, insegnanti, cancellieri e oratori. Spicca tra i
tura – che conosce un notevole incremento produttivo nuovi intellettuali del Comune la figura di Brunetto La-
– e della navigazione; tutto questo rende possibile la tini fiorentino. La mentalità realistica e concreta della
creazione di un mercato di scambio e l’avviamento di nuova aristocrazia cittadina si sposa con l’esigenza di
attività imprenditoriali e commerciali, che risorgono a assimilare e rielaborare i prestigiosi modelli della cul-
nuova vita dopo la lunga crisi dell’Alto Medioevo. Da tura feudale e cortese.
un’economia di sussistenza si passa a un’economia La traduzione in latino di opere del filosofo greco
fondata sul guadagno, sull’investimento e sulla circo- Aristotele avvia non solo un grande dibattito, che vede
lazione monetaria. Protagonista di questa rivoluzione su posizioni opposte i domenicani (sostenitori di una
è il nuovo ceto borghese e mercantile, attivo e dinami- concezione razionale degli studi) e i francescani (so-
co, che provoca la crisi delle istituzioni feudali e l’af- stenitori del primato della fede sulla ragione), ma an-
francamento dal potere signorile, e promuove l’avven- che un nuovo interesse per il mondo della natura. La
to dei liberi Comuni cittadini, affermando, contro il nascita e l’espansione delle grandi università europee
principio di autorità, i valori di libertà personale e di favoriscono la diffusione delle nuove idee, destinate a
autogoverno politico, non senza entrare in conflitto influenzare prepotentemente anche la nuova poesia in
con la stessa potestà imperiale. volgare dei comuni italiani.
n Libri, maestri e allievi. In Italia i liberi Comuni si sviluppano, fin dagli inizi Non meno importante fu il dibattito che attraversò
del XII secolo, soprattutto nelle regioni del Centro e del il mondo della Chiesa, impegnata a contrastare, fra XII
Nord, con rilevanti conseguenze anche sulla storia e XIII secolo, la formazione e la diffusione di pericolo-
della nostra letteratura. Protagonista assoluta è la To- se sette ereticali, in particolare quella valdese e quella
scana, e in particolare Firenze, che nel corso del Due- catara. Il secolare conflitto con l’Impero, che vide an-
cento vive una straordinaria ascesa politica ed econo- che il sorgere (sotto il papato di Innocenzo III prima, di
mica, accompagnata da una non meno rigogliosa fiori- Bonifacio VIII poi) di una nuova concezione teocratica,
tura artistica e culturale, ma è agitata al tempo stesso si risolse in realtà nella crisi definitiva dei due grandi
da lotte interne, dapprima tra Guelfi e Ghibellini, poi, poteri universali, cui si contrapposero le forze dei nuo-
dopo il 1266, tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri, fino vi stati nazionali e dei potenti liberi comuni.
tre regioni europee (Francia del nord, Renania, Fiandre), significò l’affermarsi del con-
cetto di libertà personale e del principio della partecipazione politica. L’avvento dei li-
beri Comuni, conseguenza dell’espansione cittadina seguìta alla rivoluzione commer-
ciale del Basso Medioevo, determinò una contestazione esplicita del principio di auto-
rità e un ridimensionamento del potere signorile: si può a buon diritto parlare di isti-
tuzione comunale solo nel momento in cui la popolazione cittadina si affranca dalla
servitù feudale e si dà forme di autogoverno politico.Tale affrancamento fu anche il ri-
sultato di una lotta, condotta sul piano sia giuridico sia militare, fra i Comuni italiani e
il potere imperiale, deciso a non concedere alcun privilegio: Federico I Barbarossa,
sconfitto dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano (1176), fu infine costretto a
riconoscere con la pace di Costanza (1183) la libertà e l’autonomia dei Comuni.
Agli inizi del XII secolo si trovano Comuni in ogni parte dell’Italia centrale e setten-
trionale, non di quella meridionale, che restò estranea al movimento comunale: la mo-
narchia svevo-normanna prima, poi quella angioina, ostacolarono il fiorire di un ceto
mercantile e borghese. Questa divaricazione fra nord e sud ebbe enormi conseguenze
sulla storia d’Italia, e sulla storia letteraria: dopo l’episodio della scuola siciliana (R 6.1),
decisivo ma effimero, la nostra letteratura si svilupperà quasi esclusivamente al centro e al
nord d’Italia, con la Toscana – per le ragioni che vedremo – assoluta protagonista.
L’ascesa di Firenze Alla fine del Duecento, grazie alle industrie tessili (lana e seta in particolare) e alle
prospere attività bancarie, Firenze può ben dirsi una delle città più ricche e floride
d’Europa. Industria, commercio e finanza da tempo avevano avuto il sopravvento sul-
la tradizionale economia agraria. La coniazione del fiorino (1252) consente ai mer-
canti di operare sul mercato europeo con uno strumento monetario di grande presti-
gio. La definitiva sconfitta (1266) del partito ghibellino (che rappresenta gli interessi
agrari) a favore di quello guelfo (che privilegia le attività mercantili e finanziarie) non
placa la lotta politica: gli scontri fra Arti maggiori e Arti minori, in cui si era man ma-
no organizzato il ceto mercantile e imprenditoriale della città, porta dapprima (1282)
alla formazione di una nuova magistratura, i sei Priori, poi (1293), con gli Ordina-
menti di Giano della Bella, all’esclusione di alcune famiglie magnatizie dall’ammini-
strazione della città, norma che verrà peraltro attenuata due anni dopo.
Gli equilibri politici si rompono con i fatti del 1300, e con il duro scontro tra le
due fazioni opposte dei Bianchi e dei Neri, i primi (capeggiati dalla famiglia dei Cer-
chi) propensi a preservare l’autonomia della città da ogni ingerenza esterna e a colla-
borare con i ceti magnatizi, i secondi (capeggiati dalla famiglia dei Donati) inclini ad
intrecciare legami economico-politici con il papato e a favorire l’alleanza con i ceti
popolari. La vittoria dei Neri (novembre 1301) e la conseguente cacciata dei più illu-
stri esponenti dei Bianchi, fra cui Dante, è episodio notissimo: vi allude più volte
Dante stesso (R 9.1); lo narra con forte partecipazione nella sua Cronica il Compagni
(R 11.2). L’asprezza degli scontri politici dimostra anche quanto grandi fossero gli in-
teressi economici in gioco: della prosperità di Firenze almeno fin quasi alla metà del
Trecento è testimonianza assai probante, soprattutto per la gran quantità di dati stati-
stici messi a disposizione, la Nuova cronica del Villani (R 11.2).
Ma già intorno al 1340 la situazione comincia a mutare, mettendo in crisi le istitu-
zioni della città: la sospensione dei pagamenti ai banchieri fiorentini, decisa nel 1339
n Distribuzione del grano ai dal re d’Inghilterra, provoca nel giro di pochi anni il fallimento delle maggiori banche
bisognosi fuori dalle mura di
Firenze (miniatura del XIV se- della città. La grave epidemia di peste del 1348 (descritta con solenne oggettività dal
colo). Boccaccio: R 13.3 e T 13.1 ) compromise ulteriormente lo sviluppo economico di Fi-
renze, su cui gravava ormai da tempo anche l’onere di mantenere un costoso esercito
mercenario allo scopo di difendere il proprio territorio dai nemici esterni (fra cui i
Visconti di Milano, impegnati in una politica espansionistica). Il tumulto dei Ciompi
(1378), umilissimi lavoratori che arrivano a conquistare il potere con la forza, è un
episodio che, sia pure limitato nel tempo, avrà importanti conseguenze sul futuro di
Firenze. L’instaurazione di un governo oligarchico (1382) è soltanto il primo passo
che condurrà nel giro di cinquant’anni alla formazione di un regime signorile.
Una nuova cultura: laica, borghese, civile L’affermarsi delle istituzioni comunali produsse in Italia
una nuova cultura non più sottomessa alle esigenze ecclesiastiche, rivolta innanzi tut-
to a formare i nuovi ceti dirigenti e a provvedere la città di figure altamente profes-
sionali: notai, giuristi, oratori per le ambascerie, cancellieri per redigere documenti
ufficiali, maestri che insegnassero a leggere, scrivere e far di conto. Si spiega in questo
modo la scelta di trasferire in lingua volgare gli strumenti e i contenuti della tradi-
zione avvertiti come necessari per amministrare la vita politica e civile di una città:
opere enciclopediche, trattati di retorica, volgarizzamenti di carattere scientifico o
morale. Se a Firenze, in questo ambito, si impose la figura di Brunetto Latini (R
11.1), all’Università di Bologna fu attivo nella prima metà del Duecento Guido Faba,
che volle applicare alla lingua volgare gli insegnamenti dell’ars dictandi, la disciplina
che per secoli aveva insegnato e codificato i princìpi della composizione in lingua la-
tina. La partecipazione di settori sempre più ampi della cittadinanza alle attività co-
munali favorì non solo un processo di alfabetizzazione fino ad allora inimmaginabile,
ma anche la diffusione di una nuova mentalità laica, attenta alla realtà dinamica e
concreta della vita quotidiana, curiosa verso il mondo materiale e naturale, ansiosa di
accedere alla dimensione artistica e culturale. Non stupisce dunque che proprio que-
sta società, sempre più prospera e ricca sul piano economico, maturasse il desiderio di
assimilare, nei comportamenti e nelle conoscenze, i modelli ideali del mondo corte-
se e feudale, riadattati, com’è ovvio, alla mentalità del più concreto e realistico mon-
do comunale.
I liberi Comuni furono dunque realtà complesse, la cui forza risiedette proprio
nella capacità di far convivere, in un solo spazio, e con uno slancio nuovo, aspetti cul-
turali diversi e stratificati: l’espressività vitalistica e realistica dei ceti popolari, i fonda-
menti della religiosità medievale, la raffinatezza dei costumi feudali, la praticità e la
concretezza dell’universo borghese. Di questa nuova cultura, l’esponente più illustre
fu Dante Alighieri, il poeta della Vita Nuova e della Divina commedia (R 9.).
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Duecento e Trecento
Nuove dottrine politiche: il Defensor pacis di Marsilio da Padova Se in generale, con poche ecce-
zioni, il Medioevo aveva dimostrato scarso interesse nei confronti della teoria politica,
fin dal XII secolo, soprattutto per la decisiva spinta del mondo comunale, crescono
gradatamente sia la partecipazione alla vita civile, sia la riflessione dottrinale sui temi
dell’amministrazione pubblica. Ma è soltanto alla fine del XIII secolo, grazie alla risco-
perta della Politica di Aristotele, che queste riflessioni maturano sul piano del rigore e
della sistematicità. Se Dante, animato da una straordinaria passione intellettuale, scrive
un trattato per riaffermare il valore sacro e universale di Chiesa e Impero (R 9.6), atte-
standosi dunque su posizioni conservatrici proprio nel momento in cui le due grandi
istituzioni medievali entravano in crisi, ben diversa è la riflessione di un altro grande
pensatore contemporaneo, Marsilio da Padova (1280-1343), che nel 1324 porta a ter-
mine la composizione di un trattato latino, il Defensor pacis [Il Difensore della pace], radi-
cale attacco alle mire teocratiche del papato e prima affermazione storica di positivi-
smo giuridico, per cui il solo diritto è il diritto umano, stabilito in modo effettivo nel-
l’ambito di una comunità dall’autorità che detiene il potere legislativo.
Marsilio distingue apertamente fra legge divina e legge umana: la prima ha effetto
solo nella vita futura, e non ha dunque alcun valore giuridico. Sfera religiosa e sfera
politica, filosofia e fede appartengono ad ambiti distinti: la salvezza spirituale riguarda
le singole coscienze, non l’amministrazione della città. Con l’opera di Marsilio si svi-
luppa dunque, almeno embrionalmente, uno spirito laico: entro questa nuova prospet-
tiva, «la comunità politica è una communitas perfecta (perfecta nell’accezione latina, cioè
“compiuta”), ovvero una comunità naturale autosufficiente, avente in se stessa le sue
finalità, costituite da ciò che è giusto e utile per la società umana. Le leggi realizzano
tali finalità e perciò tutti devono sottomettersi ad esse: i singoli cittadini, i governanti e
gli ecclesiastici, papa compreso» (Bentivoglio). Detentore del potere legislativo non è
più insomma il pontefice o l’imperatore, ma è il popolo.
Appena le teorie espresse nel Defensor pacis si diffondono, Marsilio è costretto ad
abbandonare l’università di Parigi, dove aveva insegnato fino ad allora, per rifugiarsi
presso l’imperatore Ludovico il Bavaro. Nel 1327 diverse tesi dell’opera vennero con-
dannate dal pontefice Giovanni XXII; su Marsilio cadde, inevitabile, la scomunica.
Innocenzo III, Episto- Il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, è qualche cosa di intermedio tra Dio e
lae (I, 401), in A. Saitta,
Storia e tradizione, l’uomo, meno grande di Dio, ma più grande dell’uomo. La Chiesa Romana, che io ho
Sansoni, Firenze 1964, sposato,1 mi ha portato una dote: ho ricevuto da Roma la mitra, segno della mia funzio-
pp. 155-156 ne religiosa, e la tiara2 che mi conferisce il dominio sulla terra. Io sono stabilito da Dio al
disopra dei popoli e dei regni. Nulla di ciò che avviene nell’universo deve sfuggire all’at-
tenzione e alla potestà del sovrano pontefice. Come Dio creatore di tutte le cose ha po-
sto nel firmamento del cielo due luminari, uno maggiore che illumini di giorno, ed uno
minore che illumini di notte; così, nel firmamento della Chiesa universale, che prende il
nome di cielo, ha posto due grandi dignità, la maggiore che, quasi come ai giorni, alle
anime presiedesse e la minore che, quasi come alle notti, presiedesse ai corpi: e tale di-
gnità sono l’autorità pontificale e la regia. E certamente, come la luna riceve dal sole la
luce, essendo minore del medesimo, sia per la grandezza che per la qualità, sia per l’ubi-
cazione che per l’effetto, così la regia autorità deriva lo splendore della propria dignità
dalla pontificia autorità [...].
1 che io ho sposato: la pontefice è vicario in terra. primo, dei vescovi, è alto, il secondo è del papa, orna-
Chiesa è designata come 2 mitra ... tiara: sono diviso alla sommità in due to con tre corone e una
sposa di Cristo, di cui il due copricapi religiosi, il punte con nastri sulla nuca; croce.
ecclesiastiche, ma anche dalla personalità e dalla statura morale di chi sosteneva quelle
dottrine. La strategia che consentì alla Chiesa di sconfiggere le sette eretiche non fu
tanto l’uso della forza e degli strumenti inquisitoriali (di cui pure si dotò proprio al-
l’epoca) quanto la formazione di ordini religiosi che in qualche modo assorbissero al
loro interno le esigenze di povertà, carità, vita apostolica che molti settori della vita ci-
vile reclamavano. Tali ordini furono detti mendicanti perché rinunciavano ufficial-
mente a possedere beni fondiari o rendite fisse, e vivevano di pura elemosina.
I due ordini mendicanti maggiori, costituitisi entrambi agli inizi del Duecento, fu-
rono l’ordine francescano e l’ordine domenicano, così detti dai nomi dei fondatori,
san Francesco d’Assisi e san Domenico. All’ordine domenicano, approvato nel 1216, fu
assegnato il compito di difendere, insegnare e predicare l’ortodossia dottrinale: di qui
la centralità all’interno dell’ordine della preparazione teologica, necessaria per contro-
battere le posizioni ereticali, nonché il rapporto istituzionale con l’Università. Poco
dopo, nel 1223, fu approvato l’ordine francescano, che dopo la morte del fondatore fu
anch’esso coinvolto nell’opera di predicazione e di lotta all’eresia, assumendo un ruo-
lo di primo piano nell’ambito degli studi mistico-teologici. Ai due ordini appartengo-
no le due figure più prestigiose della filosofia duecentesca, quelle del francescano san
Bonaventura da Bagnoregio e del domenicano san Tommaso d’Aquino. L’importanza
di entrambi gli ordini è riconosciuta da Dante (Pd XII 37-45 [R Doc 3.3 ]), che attribui-
sce ad un provvidenziale intervento della grazia divina la nascita dei due uomini de-
stinati a salvare la Chiesa dalla sua dissoluzione.
Profetismo e millenarismo: Gioacchino da Fiore A un frate calabrese, Gioacchino da Fiore (1132
ca-1202), si deve la diffusione di un pensiero profetico-apocalittico destinato ad eserci-
tare una vasta influenza sui movimenti riformisti del XIII e XIV secolo. Verso la metà
Gioacchino da Fiore, Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il se-
Concordia Veteri et Novi
Testamenti (V), condo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della grazia; il terzo è quel-
trad. di E. Buonaiuti, lo che noi attendiamo da un giorno all’altro, nel quale ci investirà una più ampia e gene-
in Le origini, rosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapien-
a cura di A.Viscardi,
B. e T. Nardi, G.Vidos- za; il terzo si effonderà nella plenitudine dell’intendimento.1 Nel primo regnò il servag-
si, F. Arese, Ricciardi, gio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato tra-
Milano-Napoli 1956
scorse nei flagelli; il secondo nell’azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il pri-
mo visse nell’atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella ca-
rità. Il primo segnò l’età dei servi; il secondo l’età dei figli; il terzo non conoscerà che
amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di
fanciulli. Il primo tremò sotto l’incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce
dell’aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu un inverno; il secondo un
palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine2 dell’estate. Il primo non produs-
se che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le
erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in re-
taggio3 l’acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l’olio. Il primo stato fu tempo di set-
tuagesima;4 il secondo fu tempo di quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pa-
squa. In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell’universo; il
secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo
sarà reame dello Spirito Santo, del quale dice l’apostolo: «dove è lo Spirito del Signore, ivi
è libertà (Paolo, II Cor., 3, 17)».
1 plenitudine dell’in- 2 pinguedine: abbon- 4 tempo di settuage- (settanta giorni circa pri-
tendimento: pienezza danza. sima: la terza domenica ma di Pasqua).
della comprensione. 3 retaggio: eredità. precedente la Quaresima
Dante, La Divina
Commedia, 37 L’essercito di Cristo, che sì caro
Pd XII costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
40 quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
43 e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
La cristianità militante, che Cristo poté rifornire di armi (i mezzi per combattere le forze del ma-
le) a un prezzo tanto alto (il suo sacrificio), si muoveva dietro alla croce fiacco, titubante e in nu-
mero ridotto, quando Dio, colui che regna in eterno, venne in soccorso del suo esercito, che ri-
schiava di disgregarsi, non perché ne fosse degno, ma soltanto per un atto di misericordia; e, come
è stato detto [da san Tommaso: Pd XI 31-36], portò aiuto alla sua sposa, la Chiesa, con due com-
battenti, grazie alla cui opera e predicazione il popolo sviato poté ravvedersi.
Il rinnovato interesse per il mondo della natura e il vigoroso slancio impresso dagli
studi aristotelici al metodo di indagine razionale sono due momenti fondamentali del-
la cultura duecentesca, che vediamo compresi e genialmente unificati nella visione
poetica dantesca: nei canti XI e XII del Paradiso, infatti, Dante fa pronunciare l’elogio
di Francesco e dell’ordine francescano a san Tommaso, e l’elogio di Domenico e dei
domenicani a san Bonaventura, conciliando le due proposte e sintetizzandole nell’uni-
co movimento ascensionale che porta l’uomo a congiungersi, sia pure in modi diver-
si, con Dio.
Durham
L’università
nel XIII secolo
Università fondate
Hereford Cambridge nel XIII secolo
Oxford Scuola urbana
Exeter
Deutz Scuola monastica
Canterbury Università nate
Tournai
da scuole anteriori
Liegi
al XIII secolo
Reims Stavelot
Chartres
Parigi
Angers
Tours Orléans Morimond
Cluny Vercelli Vicenza
Padova
Pavia
Tolosa Montpellier
Valladolid Bologna
Salamanca Arezzo
Coimbra Siena
Napoli
Siviglia Salerno
VERIFICA
5 Che cosa si intende, propriamente, con il termine «teocrazia»? Su quali fondamenti si af-
fermò nel Medioevo il progetto teocratico della Chiesa? Quali conseguenze produsse nei
rapporti fra Chiesa e Impero?
6 Quando, e in conseguenza di quali accadimenti storici, si può dire che entrano in crisi
nell’Europa cristiana i poteri universali?
7 Illustra le tesi più significative sostenute da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis.
8 Esponi in sintesi i motivi che indussero la Chiesa, intorno al Mille, a una radicale riforma
ecclesiastica.
9 Che cosa sono i movimenti pauperistici? Quando cominciarono a diffondersi, e in seguito
a quali avvenimenti?
10 Riassumi le tesi fondamentali elaborate nell’ambito del movimento valdese.
11 Chi sono i catari? Quali dottrine sostengono? Perché la Chiesa li combatté fino ad an-
nientarli? In quale epoca il movimento cataro venne liquidato? E in che modo?
12 Che cosa sono gli ordini mendicanti? Quando vennero fondati? Con quali obiettivi?
13 Esponi le tesi millenaristiche sostenute da Gioacchino da Fiore, inquadrandole nel conte-
sto storico e religioso in cui sorsero.
14 Spiega l’importanza culturale che assunsero, dopo il Mille, i contatti fra mondo arabo e
mondo cristiano. Sapresti indicare i centri in cui tali contatti furono apertamente favoriti?
15 Delinea le due correnti che si contrapposero all’interno dell’ordine francescano.
16 Quale fu l’importanza della riscoperta di Aristotele rispetto all’evoluzione del pensiero
nell’Occidente cristiano?
17 Quali furono le scelte filosofiche operate in seno all’ordine francescano? Quali invece nel-
l’ambito dell’ordine domenicano?
18 Quale fu l’atteggiamento di Dante nei confronti dei due grandi ordini mendicanti, france-
scano e domenicano?
I primi documenti letterari in uno dei volgari ita- considerato il Cantico di Frate Sole, che Francesco
liani si collocano tra la fine del XII secolo e il 1224, d’Assisi compose nel 1224, poco prima della sua
anno di composizione del Cantico di san Francesco. morte. È un testo scritto in volgare umbro e musicato
Sono testi d’argomento sia sacro che profano, sono per essere recitato e cantato in pubblico e in privato
probabilmente opera di giullari e appartengono ad dai frati del suo ordine e dalla gente comune. Per
aree geografiche diverse. Da un punto di vista lette- qualità, fascino e densità di significato è di gran lun-
rario sono testi piuttosto modesti, ma sono importan- ga superiore a tutti i precedenti documenti. È un se-
ti come documenti storici, perché mostrano come in reno canto di lode a Dio e di celebrazione del creato,
quell’epoca in più zone la situazione fosse ormai ma- ancor oggi in grado di suscitare intensa emozione
tura per lo sviluppo di un’attività letteraria consape- nei lettori credenti e non credenti.
vole. Dopo la morte di san Francesco numerosi scritti
Il primo testo canonico della letteratura italiana è vennero dedicati a ricostruire e celebrare la sua vita.
nificenza del vescovo Grimaldesco che ha donato un cavallo all’autore, il Ritmo cassine-
se, che presenta un ‘contrasto’ tra un saggio orientale e un saggio occidentale, e il Ritmo
su sant’Alessio, d’area marchigiana, che narra la storia edificante di sant’Alessio. Recen-
temente è stato poi scoperto un testo poetico, Quando eu stava in le tu’ cathene, databile
fra il 1180 e il 1210, che potrebbe attestare la presenza in questo periodo anche di una
poesia lirica profana su tema amoroso.
Si tratta di testi letterariamente piuttosto modesti, ma assai importanti come docu-
menti storici, perché mostrano come verso la fine del XII secolo e gli inizi del succes-
sivo in più zone geografiche la situazione fosse ormai matura per lo sviluppo di un’at-
tività letteraria consapevole. Ma verso la metà del secondo decennio del Duecento
quasi contemporaneamente in Umbria, con san Francesco, e in Sicilia, con i poeti at-
tivi alla corte di Federico II, lo sviluppo in Italia di un’attività letteraria in volgare co-
nosce una forte accelerazione e raggiunge esiti qualitativamente notevoli.
Nato ad Assisi intorno al 1182, Francesco, figlio di ricchi mercanti, trascorse la giovinezza go-
dendo di quegli agi che la situazione familiare gli permetteva. Non mancò, fra l’altro, di un’edu-
cazione letteraria. Il cambiamento di vita avviene verso il 1206: Francesco si dà a una rigorosa
pratica di povertà e intraprende una predicazione itinerante che si ispira ai precetti evangelici
dell’umiltà, della penitenza, dell’amore fra le creature, e propone un rinnovamento delle coscien-
ze e delle istituzioni che era un’esigenza profondamente sentita dalla coscienza religiosa contem-
poranea. Francesco incanala questa esigenza all’interno della Chiesa ufficiale e fonda un Ordine
religioso che nel 1210 viene approvato solo verbalmente da Innocenzo III. Poi, mosso da arden-
te spirito di apostolato, si reca a predicare in Terrasanta e in Egitto. Nel 1223 l’Ordine viene ri-
conosciuto ufficialmente da Onorio III. Muore nel 1226.
anche una netta semplificazione della spiritualità francescana, che, depurata d’ogni
conflitto e perplessità, trasmette un’immagine del santo assolutamente serena, e ne fa
spesso un personaggio candido e ingenuo. La seconda è quella di una rappresentazio-
ne più problematica e teologicamente consapevole, che narra in modo sistematico la
vita di san Francesco, facendone talora (Legenda maior) un personaggio eroico, una fi-
gura di Cristo alle prese con la complessità della realtà culturale e sociale del tempo in
cui egli operò.
I Fioretti di san Francesco Al culmine di questa tradizione, tra il 1370 e il 1390, vennero composti da un
anonimo frate minore i Fioretti di san Francesco, l’opera più popolare e famosa della leg-
genda francescana, che oggi si considera un volgarizzamento dei precedenti Actus bea-
ti Francisci. I Fioretti sono una narrazione limpida e poetica, che con commossa parte-
cipazione e genuina immediatezza rievoca la vita di Francesco e dei suoi compagni
avvolgendola di un alone miticofavoloso: nelle azioni miracolose ma anche in quelle
della semplice vita quotidiana, nelle parole, nei gesti, nelle estasi e nelle sofferenze di
Francesco, nella sua serena povertà, l’autore contempla con occhi ammirati e stupefat-
ti – si direbbe – un esempio perfetto e rasserenante di umiltà, di fede, di speranza e di
carità. I Fioretti sono dunque la testimonianza di una fede ingenua e spontanea, priva
di ogni complicazione intellettualistica, di ogni problematicità sociale e teologica, tut-
ta risolta nell’incondizionata ammirazione e celebrazione delle virtù del fondatore
dell’Ordine, che tuttavia viene ridotto a un’unica dimensione e privato di molti dei
tratti di combattiva risolutezza e anche delle spigolosità che ne fanno una figura stori-
camente e umanamente complessa [R T 4.1 Doc 4.6 ].
Il fascino ancora attuale di quest’operetta dipende anche dalla limpidezza della lin-
gua e dello stile, che ne fecero, ancora nell’Ottocento, un modello di purezza origina-
ria della lingua.
Alleluja «Da ogni contrada venivano in città coi loro gonfaloni, in schiere immense, uomini e donne, ragaz-
zi e ragazze, ad ascoltare le prediche e a lodare Dio; e cantavano con voci divine piuttosto che umane. […] E
portavano in mano rami d’albero e candele accese; e si predicava al vespro, di mattina e a metà del giorno, se-
condo il Profeta […]. E si facevano soste nelle chiese e nelle piazze; e si levavano le mani al cielo per lodare Dio
e benedirlo nei secoli. E non desistevano un attimo dalle loro lodi, tanto erano inebriati dall’amore di Dio; e
beato chi poteva fare più bene e lodare Dio».
Flagellanti «Nell’anno del Signore 1260, [...] comparivano i flagellanti su l’intera faccia della terra e tutti gli
uomini, grandi e piccoli, nobili cavalieri e popolani, si spogliavano e camminando in processione attraverso le
città si frustavano duramente: incedevano, davanti, i vescovi e i religiosi.
E si faceva da ogni parte la pace e restituiva la gente il maltolto e confessavano i so’ peccati, tanto che i sacer-
doti avevano appena appena il tempo di mangiare.
E sulle loro bocche risonavano parole divine e non umane, la loro voce era come grido di moltitudine. E
camminava la gente nella salvazione.
E componevano laude divine in onore di Dio e della beata Vergine e le cantavano, nel mentre che andavan
passo passo flagellandosi nelle processioni. »
[...]
quasi tutti anonimi, dei quali è difficile stabilire l’esatta cronologia: probabilmente molte
delle redazioni a noi giunte sono però trecentesche. Il più antico e più importante cor-
pus di testi conservatoci è il Laudario di Cortona (posteriore al 1270), a cui appartengono
l’esemplare e cupo Chi vol lo mondo desprezzare [ PT LA MORTE E L’ALDILÀ] e nume-
rosi inni alla Vergine, come questo, assai bello e fitto di rime e di nitide immagini.
Il Laudario personale di Jacopone Un caso a sé, davvero eccezionale, è invece il Laudario del frate mi-
nore Jacopone da Todi (1230-1306 ca.), accanito e intransigente seguace della cor-
rente rigoristica degli Spirituali, guidata in quegli anni da Ubertino da Casale. L’ele-
mento di eccezionalità di quest’opera, rispetto a quelle di cui si è parlato or ora, è che
si tratta di un laudario personale, interamente composto cioè da un singolo autore e
non immediatamente destinato all’esecuzione pubblica, popolare. Si pensa invece che
Jacopone si rivolgesse ai confratelli con intenti didascalici, proponendosi cioè di tra-
smettere loro i valori del suo acceso misticismo e del suo rigoroso ascetismo.
La personalità di Jacopone nei testi leggendari La tempra umana di Jacopone ci è trasmessa dalle
consuete fonti leggendarie che, per quanto non sempre attendibili sul piano docu-
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Duecento e Trecento
Jacopone nacque a Todi verso il 1230 dalla nobile famiglia dei Benedetti, e dopo aver studiato a
Bologna esercitò nella sua città l’attività di notaio. Secondo una biografia duecentesca, il cam-
biamento fondamentale della sua vita avvenne nel 1268 in seguito alla morte della moglie, cau-
sata dal crollo del pavimento di una sala dove si svolgeva una festa: la scoperta di un cilicio sul
corpo di lei rappresentò una rivelazione che lo spinse a una vita di mortificazione. Dieci anni
dopo entrò nell’ordine dei frati minori. Nelle lotte che opponevano la fazione dei Conventuali
(che erano propensi ad applicare in modo elastico la regola di san Francesco) e quella degli Spi-
rituali (che si battevano per una sua rigida applicazione e per l’assoluta povertà) si schierò con
questi ultimi. Bonifacio VIII perseguitò gli Spirituali, e lo scontro con Jacopone, che aveva già
polemizzato con lui, fu inevitabile: imprigionato nel 1298, Jacopone fu liberato solo nel 1303,
dopo la morte di Bonifacio. Trascorse gli ultimi anni di vita in un convento dell’Umbria e morì
attorno al 1306.
4 a chi ... empazzire: in filosofia naturale e in Cristo è fonte di gioia per strofe) sulla croce.
se qualcuno vuole impaz- teologia. chi conosce la dottrina no- 28 bene ... iogna: ben
zire. 11 pro: per. va; sentirsi umiliato, come mi pare che presto (cetto)
5 en Parisi : a Parigi, 13 chi: a chi. Cristo che volle morire fra «consegua (il suo fine mi-
sede di una celebre facoltà 14 for de la via: fuori due ladroni, è fonte di gra- stico)» (Contini).
di teologia (vide, presente: della retta via, fuorviato. tificazione). 29-30 ià ... maestria: or-
“vede”). 20 d’esmesuranza: a di- 23 onore: riconosci- mai non vada più a Bolo-
7 va empazzato: im- smisura, smisurato. menti mondani (anche per gna (altra famosa univer-
pazzisce. 21-22 cento ... villania: la propria dottrina teolo- sità) per imparare una di-
9-10 ma ... conventato: cento giorni di indulgenza gica). versa dottrina.
e invece è un maestro ad- a chi gli dice villania (l’in- 26 en mezzo ... staia:
dottorato (conventato, am- sulto di chi non ha prova- stava (da leggersi staìa, in
messo all’insegnamento) to e non capisce la follia in rima con i versi finali delle
umana, ci sono quelle dedicate a temi della liturgia, a momenti e figure della storia sa-
cra (la passione di Cristo, il dolore di Maria). Particolarmente importanti sono poi le
laudi ‘politiche’, del tutto assenti nei laudari collettivi coevi, che rivelano in Jacopone
«un’esuberante tempra di polemista» (Pasquini): ricordiamo la polemica contro gli eretici,
la critica alla corruzione della Chiesa, l’esortazione al papa Celestino V a tener fede ai suoi
propositi di carità e povertà, la violenta polemica con Bonifacio VIII, il suo storico nemi-
co che lo incarcerò e scomunicò, la critica alla degenerazione dell’ordine francescano, la
polemica contro la presunzione e la vanagloria dei dottori di teologia.
Il linguaggio Anche sul piano del linguaggio e dello stile, Jacopone è il poeta del contrasto e dell’e-
smesuranza. All’oltranzismo dei temi e della spiritualità dell’autore corrisponde infatti
l’oltranzismo del linguaggio: non c’è sfumatura, ma solo contrasto violento, che spesso si
manifesta come antitesi tra opposti inconciliabili. La dismisura è anche la caratteristica
più frequente del suo stile, che predilige ripetizioni talora osssessive, accumulazioni ri-
dondanti, forme e ritmi incalzanti e tumultuosi, sia quando si tratta di rappresentare l’at-
tualità dell’esperienza mistica sia quando si tratta di denunciare impietosamente le mi-
serie umane. Il linguaggio di Jacopone è infine crudamente realistico, ma di un realismo
che affonda le proprie radici «in un drammatico rifiuto della realtà, inconsciamente
esorcizzata, e non mai in una forma d’amore all’uno o all’altro dei suoi aspetti» (Petroc-
chi). Anche in questo senso Jacopone appare lontanissimo da san Francesco.
Il breve passo del De Babilonia che segue è una cruda ma anche comica e ‘carnevalesca’
rappresentazione del mondo infernale: in un indicibile fetore, rospi, serpenti, draghi e altri
animali repellenti tormentano i dannati, e così fanno i diavoli, che con grandi bastoni spez-
zano loro le ossa, e più avanti li sottoporranno alternativamente al caldo e al freddo, finché
giungerà Belzebù, rappresentato come cuoco infernale, che addirittura, infilzatili in uno
spiedo, li metterà ad arrostire «com’un bel porco, al fogo» e li offrirà, conditi con una salsa
densa di fiele e di veleni, come manicaretti a Lucifero, re dell’inferno.
La puzza, che ne esce dall’imboccatura [della voragine infernale], è così grande / che, a vo-
lervelo dire, lo sforzo sarebbe vano, / tanto che chi solo le si avvicina senza toccarla, / non
sarà mai più libero dalla nausea. / Mai in nessun tempo fu visto // un luogo o un’altra co-
sa altrettanto puzzolente, / poiché da mille miglia e più di lontananza si sentono / la puzza
e il fetore che escono dall’interno di quel pozzo. / Laggiù ci sono moltissime bisce, ramar-
ri, rospi e serpenti, / vipere e basilischi e dragoni sempre pronti a mordere: // le loro un-
ghie e i loro denti tagliano più di rasoi affilati, / e mangiano di continuo, eppure sono sem-
pre affamati. / Lì ci sono i diavoli con grandi bastoni, / che gli spezzano [ai dannati] le os-
sa, le spalle e i femori, / e che sono cento volte più neri dei carboni, // se non mentono i
detti dei sacri sermoni. / Quella crudele compagnia ha un aspetto tanto orribile, / che si
prova più piacere per monti e valli / ad essere flagellati con fasci di spine, da Roma fino in
Spagna, / piuttosto che incontrarne uno solo in aperta campagna. // Essi continuamente,
dalla sera alla mattina, / gettano fuori dalla bocca un crudele fuoco infernale, / hanno la te-
sta cornuta e le mani pelose, / e urlano come lupi e abbaiano come cani.
[ LE POETICHE MEDIEVALI: 1. La natura e i fini della letteratura e dell’arte; 2. Gli stili e i generi]
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Duecento e Trecento
Bonvesin de la Ripa Una figura più complessa è quella del milanese Bonvesin de la Ripa (un maestro di
grammatica attivo a Legnano e a Milano, morto fra il 1313 e il 1315), autore di numerosi
componimenti in latino e in volgare di carattere prevalentemente didascalico e moraleg-
giante su materie sia sacre sia profane. Fra quelli composti in volgare meritano un cenno
almeno le Cinquanta cortesie da desco, una sorta di galateo incentrato sui comportamenti da
tenere a tavola, e sei contrasti allegorici di carattere moraleggiante, tra cui il più noto è la
Disputa fra la rosa e la viola. Fra quelli in latino ricorderemo il De magnalibus urbis Mediolani
[Le meraviglie di Milano, del 1288] e la Vita scholastica, un poemetto in distici elegiaci.
Vicino ai due poemetti di Giacomino e anch’esso un antecedente della Commedia dan-
tesca è infine il suo Libro delle tre scritture, nigra, rubra e aurea (cioè nera, rossa e dorata, che
si pensa caratterizzassero i tre diversi inchiostri usati per le tre parti del poemetto), in cui in
volgare si descrivono rispettivamente l’Inferno e i dolori della vita umana, la Passione di
Cristo, e le gioie del Paradiso, in modi non molto dissimili da quelli del frate veronese.
Il libro de’Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni Infine andrà qui menzionato il toscano Bono Giambo-
ni (1235 ca.-1295 ca.), giudicato da Segre il maggior prosatore prima di Dante, auto-
re di un notevole Libro de’ Vizî e delle Virtudi, opera che certamente rivela maggior
dottrina dei due autori precedenti. Il Libro de’ Vizi e delle Virtudi è un dotto racconto
allegorico-autobiografico in prosa che si struttura attorno al tema del viaggio (come
in Dante) dal peccato alla redenzione, e che fonde molteplici fonti della tarda latinità e
della cultura medievale latina e volgare. L’opera descrive il viaggio del protagonista, ac-
compagnato dalla Filosofia, alla dimora della Fede cristiana e al monte da cui osserva
la battaglia dei Vizi e delle Virtù, e propone, in forma ora di dialogo, ora di definizione
astratta, ora di descrizione allegorica, un’ampia serie di nozioni e precetti etico-reli-
giosi. L’impianto dell’opera è allegorico: i personaggi, oltre al narratore, sono personi-
ficazioni di concetti astratti quali appunto la Filosofia, la Fede cristiana, altre Fedi, i Vi-
zi, le Virtù, che sono chiamati a parlare e ad agire.
TERMINI E CONCETTI
Documenti letterari Stabilire quale differenza ci sia tra un testo comune e un testo letterario è un problema complesso. Per le ori-
gini vengono comunemente considerati letterari quei testi che, pur obbedendo talora a intenti pratici (il ringraziamento per un
dono o una lode a Dio), rivelano nell’autore un’intenzione e una consapevolezza d’arte che si manifestano ad es. nella forma rit-
mata (o una rudimentale versificazione) e in un linguaggio che intuiamo particolarmente ricercato.
Leggenda Il termine latino Legenda, tradotto poi come Leggenda, che dà titolo a molte opere religiose medievali, ha inizialmente il
significato di “cose che devono essere lette”, indica cioè esclusivamente la rilevanza spirituale e morale dell’opera. Solo col
tempo esso assumerà il significato, oggi corrente, di narrazione non rigorosamente fondata su fatti storici e quindi in larga par-
te fantasiosa, circonfusa d’un alone mitico.
Fioretti Il termine fioretti deriva dal latino flores, fiori, nel senso di episodi trascelti e raccolti, come fiori appunto, per la loro bel-
lezza, il loro valore spirituale, la loro esemplarità.
Lauda Dal latino laus, laudis, lauda significa propriamente “lode” e come forma letteraria indica un inno di lode a Dio, che assume
il metro della ballata.
Misticismo Inclinazione, tipica della religiosità medievale (ma non solo), a concepire l’esperienza religiosa come un rapporto spi-
rituale diretto col divino, che si realizzerebbe mediante il momentaneo superamento dei limiti dell’umano (ciò che Dante chiama
«trasumanar»).
Ascetismo Regola di vita fondata su un rigido tirocinio fisico e spirituale che comporta isolamento, astinenza, digiuni, meditazione
e preghiere, al fine di realizzare un distacco dal mondo e un perfezionamento interiore.
Guida all’analisi
Il messaggio: lode a Dio e fraternità delle creature Rispetto alla religiosità pessimistica e tragica, fondata sul di-
sprezzo e quindi sul rifiuto del mondo, che anima tanta parte della cultura e letteratura me-
dievale (la incontreremo presto in Jacopone da Todi), la visione di san Francesco appare sor-
prendentemente ottimistica e serena. Dio è padre amorevole di tutte le creature, e dell’uo-
mo in particolare, a cui i numerosi elementi naturali menzionati nel Cantico sono dati da
Dio come fratelli e sorelle e per sua utilità. Leo Spitzer per il Cantico di san Francesco ha
potuto parlare di «antropocentrismo», cioè di centralità dell’uomo nel creato, notando come
ogni creatura sia rappresentata oltre che in se stessa (la luna e le stelle, ad esempio, sono cla-
rite, l’acqua è humile e casta) e in rapporto con Dio, anche e soprattutto con l’uomo: del so-
le si dice che allumini noi per lui, la luna e le stelle sono pretiose (utili all’uomo) e belle (ne ap-
pagano il senso estetico), l’acqua è utile e pretiosa, per mezzo del fuoco Dio ennallumin[a] la
nocte (evidente il riflesso di utilità sull’uomo). Quella che emerge complessivamente è dun-
que una visione del creato fondata su un sentimento di fratellanza, di armoniosa integrazio-
ne e di reciproca utilità di tutte le cose create, della quale si deve rendere lode a un Dio che
appare essenzialmente paterno e benevolo. Dio appare tale anche di fronte alle tribolazioni,
alle infermità e alla morte che sono riservate all’uomo, perché sostenendole in pace e obbe-
dendo a Dio, l’uomo otterrà una beatitudine eterna (la formula Beati quelli cade per due
volte proprio negli ultimi versi dedicati a questo tema).
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.1
«Sora nostra morte corporale» Il fatto stesso di attribuire alla morte l’epiteto di sorella (sora nostra morte corpora-
le), proprio come alla terra (sora nostra matre terra), costituisce un modo di familiarizzarla e di
esorcizzarla. In questo senso è stato sostenuto che tutto il tema della fraternità delle creatu-
re, compresa la morte anch’essa assimilata alle altre creature, assolve «anche una funzione di
esorcizzazione – serve cioè a liberare gli uomini dal cieco terrore nei confronti della loro fa-
talità ed incontrollabilità» (Pasero): se questo vale per gli elementi naturali, nei confronti dei
quali gli uomini medievali prevalentemente si sentivano in quasi totale balia, ciò a maggior
ragione vale per la morte, che costituisce la più profonda fonte di paura per l’uomo. Proprio
nell’ottica di un’ampia divulgazione popolare legata alla scelta del volgare, il testo di san
Francesco, dunque, assolve una duplice funzione: quella prevalente della lode di Dio come
atto liturgico fondamentale per il cristiano, e quella di consolazione e di rassicurazione (an-
che la morte non deve fare paura, perché esiste una vita oltre la vita).
Una questione interpretativa La questione critica basilare, di quest’opera molto studiata e dibattuta, consiste nel
decidere se le Laudes Creaturarum debbano intendersi come le lodi delle creature pronun-
ciate da Francesco o dagli uomini al fine di lodare Dio loro creatore; oppure come le lodi
rivolte dalle creature al Signore. La questione ruota attorno all’interpretazione del cum
(«Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le tue creature») e del per («Laudato si’, mi Signore, per
sora luna e le stelle» e in tutti i casi analoghi).
La prima è l’interpretazione antica più diffusa e quella oggi prevalente: il cum viene in-
teso “insieme con” o “così come” (“Da me e/o dagli uomini Tu sia lodato, mio Signore, in-
sieme con le tue creature, così come sono degne di essere lodate le tue creature”); il per vie-
ne inteso come complemento di causa: “Tu sia lodato a causa delle creature o per averle
create, o per esserti manifestato attraverso le creature”.
Per altri aspetti del di- In una diversa interpretazione il cum è inteso come “per mezzo di” (“Tu sia lodato per
battito critico mezzo delle creature”) e il per è invece inteso, proprio come il par francese – lingua assai ca-
RINTERPRETAZIONI ra a Francesco, e lingua della cultura – come complemento d’agente (“Tu sia lodato, mio Si-
DI SAN FRANCESCO
gnore, da sorella luna e dalle stelle”).
Non si tratta di questione puramente grammaticale, perché investe il senso complessivo
del cantico e implica complesse questioni dottrinali, che non è qui il caso di affrontare. Ma
non sposta comunque le acquisizioni fondamentali su cui tutti sostanzialmente concordano:
nel Cantico si leva una lode a Dio, è presente un sentimento di fratellanza fra tutte le creatu-
re in quanto emanazioni di un unico padre comune, le creature sono apprezzate in quanto
in esse si manifesta la potenza e la bontà divina.
La lingua volgare e la destinazione del Cantico Il Cantico delle creature è stato composto da san Francesco, come
abbiamo visto, in un dialetto umbro illustre, nobilitato da numerosi latinismi. La scelta del
volgare, al tempo della sua composizione, non era né ovvia né obbligatoria, e costituisce
un’eccezione nella produzione del santo, che in tutti gli altri casi adotta il latino. San Fran-
cesco nel compierla ha obbedito – secondo la critica recente – ad un preciso intento, quel-
lo di comporre una preghiera e una lode a Dio che potesse avere una grande diffusione ed
essere recitata e cantata dai frati e dal popolo in molteplici circostanze pubbliche e private
(il testo è stato scritto dal santo – altra cosa non del tutto ovvia – ma era destinato all’esecu-
zione e alla diffusione orale; per il Cantico san Francesco aveva anche composto la musica,
oggi perduta). Questa scelta si inscrive del tutto coerentemente nell’attività di predicazione
del movimento francescano.
Elementi colti: la struttura e la simbologia numerica La facilità e popolarità del volgare – in linea con la poeti-
ca cristiana-medievale del sermo vulgaris (R 2.1), secondo cui è lecito parlare delle verità su-
preme della fede in uno stile basso e umile – è in parte compensata dai molti latinismi che
nobilitano il dettato. Una funzione analoga è svolta dall’elaborazione strutturale e stilistica
che, in un testo apparentemente semplice e lineare, è in realtà intensa e assai complessa.
Esaminiamo il principale elemento strutturale. Anche se il Cantico fosse stato composto
in un unico momento, è palese la distinzione della lode in tre fasi: la lode che concerne le
creature, la lode che concerne coloro che perdonano, la lode che concerne la morte. Nel
complesso del cantico il motivo della lode è poi scandito in tre fasi logiche: le lodi appar-
tengono a Dio (tue so’ le laude; Ad te solo… se konfano), si formula il voto che Dio sia lodato
(Laudato sie), la lode a Dio è proposta in forma imperativa (Laudate…).
Un altro elemento che rimanda a una struttura ternaria riguarda i versetti (o strofe) ini-
ziali e finali, che iniziano con tre termini coordinati «Altissimu, onnipotente, bon Signore»; «Lau-
date et benedicete mi’ Signore et rengratiate». Infine, il verbo laudare è ripetuto nove volte ad ini-
zio di ciascun versetto. Come avremo modo di osservare anche a proposito di Dante, il nu-
mero tre nella cultura medievale rimanda simbolicamente, ma del tutto immediatamente per
la sensibilità dei lettori-ascoltatori del tempo, alla Trinità, cioè a Dio stesso. Analoga funzione
assolve il numero nove, che è tre volte tre, e da molti è considerato il numero perfetto.
Una versione ingenua Nell’ambito della ricca e variegata letteratura leggendaria francescana I Fioretti di San France-
e poetica della leggen- sco (composti probabilmente fra il 1370 e il 1390) rappresentano la versione forse più ingenua,
da francescana
ma al tempo stesso più poetica, della biografia del santo. L’episodio della predica agli uccelli
(cap. XVI) è uno dei più famosi e canonici. Il sentimento di fratellanza con tutte le creature
che san Francesco esprime nel Cantico si traduce in questo episodio in un dialogo diretto fra
il santo e alcune varietà di uccelli (una delle creature che pure erano trascurate nel Cantico).
Numerosi sono i punti di contatto fra i due testi. Gli uccelli (aves in latino è femminile) ven-
gono appellate come sirocchie, sorelle. La predica consiste essenzialmente nell’invito a ricono-
scere la bontà del creatore, che ha reso autosufficienti gli uccelli – li ha preservati dalla distru-
zione al tempo del Diluvio universale, li ha dotati di un sufficiente «vestimento», ha dato loro
casa e nutrimento benché essi non sappiano «filare né cucire» –, e a lodarlo per questo.
Conformità del mes- Il senso della predica appare conforme al messaggio del Cantico almeno: «I doni della
saggio del Fioretto con creazione, ricorda Francesco, sono sufficienti a provvedere ai bisogni elementari dell’uomo:
quello del Cantico
[...] l’uomo non ha bisogno di altro al difuori di quello che Dio ha disposto per lui nel mon-
do, andare oltre può essere occasione di peccato» (Pasero). Nel caso di questo episodio dei
Fioretti (cap. XVI) il concetto è felicemente trasposto dal punto di vista umano (l’antropo-
centrismo del Cantico) a quello animale e per estensione creaturale (ogni altra creatura è sta-
ta dotata di autosufficenza da Dio), nello spirito francescano della fratellanza universale.
Del resto, a conclusione della predica, Francesco si diletta con gli uccelli, si diletta del di-
letto degli uccelli e mostra di apprezzarne la «bellezza e varietade» e insieme con gli uccel-
li e a causa degli uccelli egli loda Dio («per la qual cosa egli con loro divotamente lodava il
creatore»).
Simbolismo della croce Non sfugga infine il duplice simbolismo dell’immagine finale: gli uccelli, obbedendo al
e fratellanza universale gesto di Francesco si muovono nelle quattro direzioni indicate dal segno della croce, ma
questo evento – sospeso tra il naturale e il soprannaturale – acquista per il santo o almeno
per il suo biografo il valore di un segno divino che invita a estendere la predicazione fran-
cescana in tutte e quattro le parti del mondo. Anche in questo dato simbolico è verificato
il sentimento francescano di fratellanza e comunicazione universale: il segno di Francesco
è inteso dagli uccelli, ma è inteso dall’uomo anche quello che gli uccelli (tramite di Dio)
rivolgono a Francesco.
E santo Francesco si puose a predicare, comandando prima alle rondini, che cantavano,
ch’elle tenéssono silenzio infino a tanto ch’egli avesse predicato. E le rondini ubbidendolo, ivi
predicò in tanto fervore che tutti gli uomini e le donne di quel castello, per divozione, gli vo-
leano andare dietro e abbandonare il castello. Ma santo Francesco non lasciò, dicendo loro:
I fioretti di San Francesco, “Non abbiate fretta, e non vi partite; e io ordinerò quello che voi dobbiate fare per sa-
a cura di
G. Davico Bonino, lute dell’anime vostre”. E allora pensò di fare il terzo Ordine,1 per universale salute di tut-
Einaudi, Torino 1964 ti. E così lasciandoli molto consolati e bene disposti a penitenzia, si partì indi e venne tra
Cannaio e Bevagno.2
1 terzo Ordine: acco- precetti francescani: è ter- e propri frati e quello delle 2 Cannaio e Bevagno:
glie i laici che seguono i zo dopo l’Ordine dei veri suore. paesi del Perugino.
E passando oltre con quel fervore, levò gli occhi e vide alquanti àrbori allato alla via, in
su’ quali era quasi infinita moltitudine d’uccelli; sì che santo Francesco si maravigliò e dis-
se a’ compagni: “Voi m’aspetterete qui, nella via, e io andrò a predicare alle mie sirocchie
uccelli”. Ed entrò nel campo, e cominciò a predicare agli uccelli ch’erano in terra. E su-
bitamente quelli ch’erano in su gli àrbori vénnono a lui, e insieme tutti quanti stèttono
fermi mentre che santo Francesco compié di predicare. E poi anche non si partivano, in-
3 recitò: riferì. fino a tanto ch’egli diede loro la benedizione sua. E, secondo che recitò3 poi frate Masseo
4 siete molto tenute: a frate Iacopo da Massa, andando santo Francesco tra loro, e toccandole colla cappa, nes-
siete debitrici.
5 vestimento ... tri- suna però si moveva.
plicato: per la varietà La sustanzia della predica di santo Francesco fu questa: “Sirocchie mie uccelli, voi siete
delle piume o della muta molto tenute4 a Dio, vostro creatore, e sempre e in ogni luogo il dovete laudare, però che
stagionale.
6 diputato: assegnato. v’ha dato il vestimento duplicato e triplicato;5 appresso v’ha dato libertà d’andare in ogni
7 con ciò sia cosa luogo, e anche riservò il seme di voi nell’arca di Noè, a ciò che la spezie vostra non ve-
che: dal momento che. nisse meno nel mondo. Ancora, gli siete tenute per lo elemento dell’aria, ch’egli ha dipu-
8 gonfaloniere: che
porta come un vessillo la tato6 a voi. Oltr’a questo, voi non seminate e non mietete, e Iddio vi pasce, e dàvvi i fiu-
croce. mi e le fonti per vostro bere, dàvvi i monti e le valli per vostro rifugio e gli àrbori alti per
9 per: da.
fare il vostro nido. E con ciò sia cosa che7 voi non sappiate filare né cucire, Iddio vi veste,
10 commettevano: af-
fidavano. voi e’ vostri figliuoli. Onde, molto v’ama il creatore, poi ch’egli vi fa tanti benefici; e però
guardatevi, sirocchie mie, del peccato della ingratitudine, e sempre vi studiate di lodare
Dio”. Dicendo loro santo Francesco queste parole, tutti quanti quelli uccelli cominciòro-
no ad aprire i becchi, distendere i colli, aprire l’alie e riverentemente chinare i capi insino
in terra, e con atti e con canti dimostravano che le parole del padre santo davano a loro
grandissimo diletto. E santo Francesco insieme con loro si rallegrava e dilettava, e molto si
maravigliava di tanta moltitudine d’uccelli, e della loro bellezza e varietade, e della loro at-
tenzione e familiaritade; per la qual cosa egli con loro divotamente lodava il creatore.
Finalmente, compiuta la predica, santo Francesco fece loro il segno della croce e diede
loro licenzia di partirsi. Allora tutti quegli uccelli in schiera si levarono in aria, con mara-
vigliosi canti. E poi, secondo la croce ch’avea fatta loro santo Francesco, si divísono in
quattro parti: e l’una parte volò inverso l’oriente, l’altra inverso l’occidente, la terza inver-
so il meriggio, e la quarta inverso l’aquilone; e ciascuna schiera andava cantando, maravi-
gliosamente, in questo significando che, come da santo Francesco, gonfaloniere8 della
croce di Cristo, era stato loro predicato e sopra loro fatto il segno della croce, secondo il
quale eglino si dividevano cantando in quattro parti del mondo, così la predicazione del-
la croce di Cristo, rinnovata per9 santo Francesco, si dovea per lui e per li suoi frati porta-
re per tutto il mondo. Li quali frati, a modo che uccelli non possedendo alcuna cosa pro-
pria in questo mondo, alla sola provvidenza di Dio commettevano10 la lor vita. A laude di
Cristo. Amen.
Laboratorio 1 Fai la parafrasi (orale o per iscritto) del zione “antropocentrica” dell’universo?
COMPRENSIONE testo, sciogliendo e spiegando i punti Individuali e spiega le espressioni salienti
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE controversi. nel testo.
2 Individua le creature menzionate da san 6 Una questione critica fondamentale ri-
Francesco e le loro caratteristiche (attri- guarda l’interpretazione del Cantico come
buti e predicati). lode di Dio ad opera delle creature, o co-
3 In quale modo e con che atteggiamento me lode di Dio ad opera di san Francesco
viene rappresentata la morte nel Cantico? e degli uomini. Illustrala (senza ricorrere
4 Quali aspetti linguistici e retorici appaio- alla guida all’analisi) facendo riferimento
no particolarmente importanti per l’in- al testo.
terpretazione del Cantico e perché? Indi- 7 R T 4.1 Doc 4.6 Sottolinea e analizza i passi
viduali nel testo sottolineando o cer- del Fioretto che possono essere utili per
chiando le parole e le frasi significative. un confronto con il Cantico. Quale im-
5 In che senso e sulla base di quali elemen- magine di san Francesco trasmette questo
ti si può parlare per il Cantico di conce- testo?
63 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
Guida all’analisi
La struttura della lauda La lauda si struttura in modo assai semplice: un prologo morale in cui l’autore ammo-
nisce il lettore o l’ascoltatore (vv. 1-6), un contrasto in cui le battute del vivo e quelle del
morto si alternano esattamente, prendendo una quartina a testa (vv. 7-78) e una chiusa mora-
le, simmetrica al prologo, ma affidata questa volta alla voce stessa del defunto, che muta tono
passando da una lamentazione disperata a un ammonimento solenne («Or me contempla,
oi omo mondano…», vv. 79-82). Incorniciato fra le due sezioni ammonitorie, il contrasto si
sviluppa in modo omogeneo e piuttosto rigido. Lo stilema principale è quello biblico del-
l’ubi sunt? (dove sono?), ripetuto sei volte e sostituito tre volte nel finale da imperativi, cru-
deli perché impossibili (Or chiude le labra…; Or lèvate ’n pede…; Or chiama i parenti…), il tut-
to ritmato dall’anafora dell’Or, che rimanda a un presente di perdizione e di dolore. Queste
formule, equivalenti nel tono e nella funzione, introducono in modo ripetitivo l’enumera-
zione delle vanità terrene che la morte ha spazzato via: quasi tutte ruotano attorno all’or-
goglio e alla vanagloria per qualche proprietà del corpo, per qualche comportamento (ele-
ganza, bellezza, forza, coraggio…), e talora si convertono in peccati accessori (discordia, vio-
lenza, cupidigia). L’elenco degli oggetti chiamati in causa evidenzia un’insistenza sulla realtà
del corpo, in un macabro contrasto fra la bellezza di un tempo e il disfacimento presente.
L’insieme di questi dati indica che, pur nella semplicità e linearità dello sviluppo, Jacopone
costruisce un testo fondato su calcolate simmetrie, tutt’altro che un irrazionale raptus d’ira.
Un realismo negativo, fondato sull’orrore del corpo Il vivo, che costituisce lo specchio della coscienza del
morto, incalza quest’ultimo con un’insistenza implacabile e inquisitoria, senza alcuna pietà
dell’interlocutore. Non c’è nessuna compassione per le debolezze della natura umana in
questa voce di una coscienza rigorosa e rigida, come del resto più in generale in Jacopone.
L’intransigenza è la sua misura. Ma il vivo non si accontenta e adotta sovente toni sarcastici
e grotteschi. Se c’è uno sviluppo nel componimento, non è nella psicologia dei personaggi
(granitica è in particolare la fermezza del vivo), ma nell’allargarsi dell’orrore da una pro-
spettiva quasi esclusivamente fisica a una spirituale, in un «tetro crescendo meditativo che
porta dal disfacimento della carne all’orrore dell’inferno» (Pasquini). Si noti in particolare
l’accorata interrogativa retorica del morto ai vv. 53-54: «Omè dolente, e como faraio, /
quann’io e l’alma starimo en ardura?», in cui un io desolatamente ridotto a pura corporeità
guarda con orrore al ricongiungimento con l’anima, nell’eternità di dolorosa perdizione
che seguirà il Giudizio universale. È questo forse il momento più tragico del componimen-
to, che in due versi dice l’orribile miseria e solitudine di un corpo da cui l’anima è stata
violentemente sradicata.
Il motivo dominante è quello dell’orrore del corpo. La descrizione del disfacimento del
corpo obbedisce a un gusto del macabro e del grottesco ed è crudamente realistica, con
un’attenzione ai dettagli più spiacevoli. Lo scopo è ammonire il lettore e ingenerare disgu-
sto in lui, perché si ravveda, come spesso accadeva nella predicazione medievale. Il crudo
realismo di Jacopone si sostanzia di «un drammatico rifiuto della realtà […] e non mai in
una forma d’amore all’uno o all’altro dei suoi aspetti» (Pasquini). «I tre nemici dell’anima
individuati dalla tradizione ascetica nel demonio, nel mondo, nella carne, per il nostro auto-
re si riducono fondamentalmente a quest’ultima. Nel corpo è il principio del male e del
peccato. Al corpo Jacopone guarda con senso di paura e di inimicizia» (Getto).
Laboratorio 1 La lauda è imperniata sul contrasto fra la 2 Descrivi, facendo riferimento al testo, il
COMPRENSIONE condizione del defunto prima e dopo la diverso atteggiamento e il diverso lin-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE morte: fai un elenco delle caratteristiche guaggio dei due personaggi, l’inquisitore
fisiche (l’aspetto del corpo) e morali (gli e l’inquisito.
atteggiamenti, i comportamenti) del per- 3 Prova a spiegare se e in che modo il con-
sonaggio quand’era vivo e ora che è cetto di esmesuranza (R 4.3) può essere
morto. applicato a questo componimento.
Nota metrica
Per comodità del lettore
[NUNZIO] «Donna de Paradiso,
riportiamo fra parentesi lo tuo figliolo è preso,
quadre l’indicazione del- Iesù Cristo beato.
l’identità degli interlocu-
tori, indicazione che non
compare nei manoscritti Accurre, donna, e vide
originali. Il nunzio, primo 5 che la gente l’allide:
interlocutore, è forse da
individuarsi nella persona credo che lo s’occide,
di san Giovanni. tanto l’ho flagellato».
Ballata di settenari (spo-
radicamente sostituiti da [MARIA] «Com’essere porria,
ottonari, per anacrusi) a che non fece follia,
schema yyx (ripresa) aaax
(stanza). Nella ripresa si 10 Cristo, la spene mia,
ha una rima siciliana (Pa- om l’avesse pigliato?»
radiso : preso). Rime sicilia-
ne, rime imperfette o as-
sonanze in qualche altro [NUNZIO] «Madonna, ell’ è traduto:
caso (crucifige : rege : lege, vv. Iuda sì l’ha venduto;
28-30; croce : aduce : luce, vv.
48-50; vestire : vedere : ferire, trenta denar n’ha avuto,
vv. 60-62; corrotto : deporto : 15 fatto n’ha gran mercato».
morto, vv. 76-78; afflitto :
metto: eletto, vv. 104-106).
[MARIA] «Soccurri, Maddalena!
1 Donna de Paradiso: Ionta m’è adosso piena:
Donna celeste. Non va in- Cristo figlio se mena,
teso invece come «Signora
del cielo», in quanto Maria com’ è annunzïato».
è rappresentata in vita, è
donna ancora terrena. Nel- 20 [NUNZIO] «Soccurre, donna, adiuta,
l’epiteto rivolto alla Vergi-
ne va comunque sentito il ca ’l tuo figlio se sputa
conflitto patetico fra l’u- e la gente lo muta;
mano, il presente con il
lancinante dolore per la hòlo dato a Pilato».
perdita del figlio (donna), e
il divino, la futura gloria [MARIA] «O Pilato, non fare
celeste (de Paradiso).
2 è preso: è (stato) cat- 25 el figlio mio tormentare,
turato. È il momento in cui ch’io te pozzo mustrare
Cristo viene catturato e
portato al Sinedrio (il tri- como a torto è accusato».
bunale religioso ebraico), al
cospetto di Caifa, capo dei 8-11 «Com’essere … pi- (stato) tradito. nunzïato: è condotto via mento di Cristo dal Sine-
sacerdoti. gliato?»: come potrebbe 13 sì: ha semplice valore (se mena, con valore passi- drio a Pilato, il governato-
4-5 Accurre … l’allide: (porria) mai accadere che rafforzativo. vo), com’era stato predetto re romano.
accorri, donna, e guarda l’abbiano catturato (om, 15 fatto … mercato : (dalle Sacre Scritture). 23 hòlo dato: lo hanno
come la gente lo percuote con il consueto valore im- l’ha «venduto a buon mer- 20 adiuta: aiuta(mi); si- consegnato.
(allide, latinismo). personale: lett., che lo si sia cato, a basso prezzo» (Con- nonimo di soccurri, soccurre. 26 pozzo: posso (pron.
6-7 credo … flagellato: catturato), Cristo, la mia tini). 21-22 ca ’l tuo figlio … pòzzo). Con il v. 24 la sce-
credo che lo stiano ucci- speranza (spene), dal mo- 17 Ionta … piena: mi è muta: poiché si sputa ad- na si sposta al cospetto di
dendo (lo s’occide, lo si ucci- mento che non ha com- precipitata addosso una dosso a tuo figlio e la gen- Pilato, che era stato appena
da), tanto lo hanno (l’ho, messo alcuna colpa (follia)? sventura enorme (piena). te lo trasferisce, lo porta evocato nelle parole del
con valore plur.) flagellato. 12 ell’è traduto : egli è 18-19 se mena … an- via. Si allude al trasferi- nunzio.
68 © Casa Editrice Principato
4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.3
112-115 Figlio, l’alma … [MARIA] «Figlio, l’alma t’è ’scita, 118 a chi m’apiglio?:
attossecato!: figlio, l’anima (senza di te) a chi mi ag-
ti è uscita (dal corpo), figlio figlio de la smarrita, grappo?
di madre smarrita, figlio di figlio de la sparita, 119 pur: «in ogni modo,
madre annientata, figlio av- 115 figlio attossecato! assolutamente» (Contini),
velenato! Ma l’espressione «per sempre» (Morini).
sintetica dell’originale ha la 126 hatte la gente : la
forza del lamento dispera- Figlio bianco e vermiglio, gente ti ha.
to: i tre epiteti si stagliano a 130-131 ora sento …
fine verso con l’assolutezza figlio senza simiglio, profitizzato: ora sento il
del grido. È l’inizio stra- figlio, a chi m’apiglio? dolore, la ferita (coltello, per
ziante e incentrato sulla fi- sineddoche: la causa per
gura dolente di Maria, della Figlio, pur m’hai lassato! l’effetto) che mi fu profe-
lunga invocazione-lamen- tizzata (cfr. Luca, 2, 35).
tazione finale retta dall’a- 120 Figlio bianco e biondo, 132-135 Che moga ... im-
nafora di figlio, che però piccato: che possano morire
subito dopo lascia posto figlio volto iocondo, (moga, muoia, con valore
prevalentemente a più dol- figlio, per che t’ha ’l mondo, plurale) figlio e madre, d’una
ci notazioni affettive che sola morte straziante! (per
rievocano probabilmente figlio, così sprezzato? afferrate cfr. v. 87 e nota): che
l’infanzia del figlio (bianco e possano trovarsi abbracciati
vermiglio, bianco e biondo, dol- Figlio dolze e placente, (abbraccecate) la madre e il fi-
ze e placente…). glio appeso! L’infinito trovar-
117 sanza simiglio: senza 125 figlio de la dolente, se ha lo stesso valore escla-
pari. figlio, hatte la gente mativo che al v. 102.
malamente trattato!
Guida all’analisi
Un dramma liturgico, tutto risolto nell’umanità del dolore Donna de Paradiso è una lauda dialogica, anzi «la sola
lauda di Jacopone interamente dialogata» (Contini). Intervengono un nunzio (identificato
da alcuni in san Giovanni), Maria, la folla e il Cristo. A quest’ultimo sono riservate solo
quattro stanze, mentre diciannove sono attribuite a Maria. Ciò costituisce forse il dato es-
senziale del componimento di Jacopone: rispetto alle fonti evangeliche, che relegano la fi-
gura di Maria sullo sfondo, Jacopone mette al centro della scena proprio la Vergine, con il
suo strazio, le sue implorazioni, i suoi lamenti, le sue grida di «donna» terrena cui viene cru-
delmente strappato un figlio.
È certo un dramma liturgico quello che viene messo in scena, in quanto centrato sull’e-
pisodio veramente essenziale della storia sacra per il cristiano. Ma i personaggi della storia
sacra sono colti nel loro umanissimo dolore, che a Maria – la protagonista – fa dimenticare
ogni immediata consapevolezza della missione provvidenziale che assolve (gli unici accenni
sono tutti in chiave di “dolore annunziato”, di “funesta profezia”, al v. 19 e al v. 131). Come
nota il Getto, infatti, «il tema si svolge in un ambito umano, senza troppo diretti sviluppi e
smarrimenti in un mondo ascetico e teologico». Jacopone non fa nessuna riflessione espli-
cita, ad esempio, sul significato della passione di Cristo, in quanto sacrificio compiuto per il
riscatto dell’umanità dal peccato originale. È evidente che questo senso era ed è del tutto
immediato per un fedele (il pubblico di Jacopone); ma l’assenza di ogni intento predicato-
71 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
rio, di ogni giustificazione teologica è altamente significativa: Jacopone risolve tutto nell’e-
sperienza del dolore umano.
Eccezionale assenza dell’orrore del corpo E per una volta, il suo realismo si depura dalle componenti terribili e
anche macabre del disprezzo della carne. Qui eccezionalmente non c’è orrore del corpo,
giacché il corpo è quello di Cristo, e caso mai c’è orrore per lo strazio ad esso inferto. Ma
l’umanità stessa sembra riscattarsi – nel momento in cui Cristo la riscatta con il suo sacrifi-
cio – nella figura della Vergine, madre appassionatamente legata al proprio figlio, per la sua
umanità di madre terrena; e in quella di san Giovanni e del nunzio (se si tratta di due per-
sone distinte) a lei uniti in un’umana solidarietà fondata su un dolore puro e per nulla mor-
boso (questo è invece, almeno per il lettore moderno, il limite di gran parte del Laudario ja-
coponico, dove non c’è nessuna simpatia ‘creaturale’, nessuno spazio per qualsivoglia genti-
lezza umana). In definitiva, poi, non c’è neppure orrore nei confronti della folla scatenata
che inneggia alla crocifissione. Anche questo dato, come l’ambiguità della figura di Caifa o
di Pilato, non sembra interessare Jacopone, tutto compreso nella rappresentazione del suo
tema essenziale.
Un’elaborazione formale semplice, ma calcolata Il dramma si svolge con grande rapidità, linearità e semplicità,
senza sbavature, senza superflue insistenze (e Jacopone sapeva anche essere prolisso e torren-
ziale). Il linguaggio assume, anche per il lettore moderno, una superiore trasparenza rispetto
a tanti altri componimenti: il lessico è quasi tutto centrato su atti, sentimenti e oggetti sem-
plici ed essenziali, di facile intelligibilità (la traslazione, la crocifissione, il dolore, lo strazio, la
croce, i chiodi, le mani, i piedi di Cristo...).
Ma anche in questo caso non si deve pensare a una scrittura spontanea, immediata e non
meditata. Jacopone fa uso consapevole dei suoi soliti stilemi: la ripetizione enfatica (quasi
tutta risolta però nell’appello patetico e straziato della madre al «figlio»), l’elencazione e l’ac-
cumulazione (soprattutto notevoli le sequenze verbali, participiali, sostantivali e aggettivali
in rima, che danno anche un effetto di ritmo al discorso: adiuta : se sputa: lo muta, vv. 20-22;
figlio : giglio : consiglio, vv. 39-41; presa : stesa : fesa, vv. 64-66; prende : stende : accende, vv. 68-70;
dire : morire : partire, vv. 96-98; ecc.); una sintassi elementare, prevalentemente fondata sulla
paratassi (un esempio per tutti: «Ioanni, èsto mia mate: / tollela en caritate / aggine pïetate
/ ca’l cor sì ha furato», vv. 108-111).
Gli strumenti sono dunque semplici ma l’effetto è potente e non certo casuale: le anafo-
re e gli altri artifici retorici sono volti essenzialmente ad enfatizzare il dolore (la disperazio-
ne del grido, la lamentazione funebre…).
Ma ancor più significativa dell’elaborazione ‘letteraria’ del componimento è la sua cal-
colata struttura e la simbologia numerica ad essa sottesa: la lauda si compone di 33 strofe,
come gli anni di Cristo, suddivise in due parti eguali di quindici strofe che si collocano esat-
tamente prima e dopo le tre (come la Trinità?) dedicate alla descrizione della crocifissione
(ai vv. 64-75, il centro strutturale e tematico della lauda), secondo uno schema di 15+3+15.
Dal computo è esclusa la prima strofa, che nella ballata costituisce la ripresa e che poteva es-
sere ripetuta come un ritornello dopo ogni stanza.
Laboratorio 1 Descrivi sinteticamente l’argomento del suddividendovi le parti. Prima della lettu-
COMPRENSIONE testo, la struttura drammatica, il ruolo, ra ciascun lettore chiarisca bene il senso
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE l’atteggiamento e la psicologia dei diversi delle battute che deve recitare e provi a
personaggi. determinare il ritmo e le pause, il tono, le
2 Individua le espressioni che appartengo- inflessioni di voce, ed eventualmente i ge-
no al sermo humilis. Che cosa si intende sti della propria esecuzione.
per sermo humilis? [ R LE POETICHE 4 In un breve scritto individua e metti a
MEDIOEVALI: 2. Gli stili e i generi] Che confronto, con diretti riferimenti ai testi,
uso ne fa e quale significato gli attribuisce le caratteristiche salienti della religiosità
la letteratura cristiana? francescana e di quella jacoponica. Dai un
3 La lauda Donna de Paradiso è un testo titolo alla trattazione e individua un de-
drammatico: provate a recitarla in classe stinatario.
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa VERIFICA
VERIFICA
3 Quale testo viene considerato il primo testo canonico della letteratura italiana?
4 Che tipo di spiritualità manifesta il Cantico di Frate Sole di san Francesco?
5 Che cos’è e quali scopi si prefigge la cosiddetta leggenda francescana? Ricorda alcune
opere.
6 Nel corso del Due-Trecento quali distinte tendenze assume la leggenda francescana?
7 A che epoca datano i Fioretti di san Francesco e quale tendenza rappresentano?
8 Che cosa lega la nascita della lauda e i movimenti religiosi medievali? Tratteggia i rapporti
fra i due fatti.
9 Che cos’è il movimento dell’Alleluja e chi sono i Flagellanti?
10 In che cosa si distingue il laudario di Jacopone dagli altri laudari duecenteschi?
11 Descrivi quale parte hanno l’ascetismo e il misticismo nel laudario di Jacopone.
12 Confronta la spiritualità di Jacopone con quella di san Francesco.
n La battaglia di Roncisvalle,
miniatura da un codice fran-
cese del 1462.
trasfigurazione leggendaria di un fatto d’armi real- fonde ben presto al di fuori della terra di Provenza,
mente accaduto tre secoli prima, al tempo del regno assurgendo a fonte primaria e modello di ogni fiori-
franco, reinterpretato anacronisticamente alla luce tura poetica di impronta aulica e cortese nel Medioe-
del contemporaneo spirito di crociata. Orlando, che vo europeo, sia nella lingua d’origine (assunta quale
muore per difendere il proprio sovrano e la propria lingua d’arte da poeti di altre regioni, come accade
religione, non è più soltanto il tradizionale eroe delle nell’Italia del nord) sia nelle altre lingue volgari, ro-
armi, ma anche un martire della fede e un vassallo manze e germaniche.
feudale ligio al proprio signore fino all’estremo sacri- Dall’incontro fra la lirica provenzale e il ricco pa-
ficio. Vasta e sublime epopea della cristianità, la trimonio di leggende e di narrazioni che si erano dif-
Canzone di Orlando si propone come un modo nuovo fuse da tempo nelle corti della Francia del Nord, nac-
di reinterpretare la cultura antica, fondendo la figura que la grande stagione del romanzo cavalleresco,
dell’eroe classico con quella del santo cristiano. non più destinato alla recitazione orale (come le
Negli stessi anni in cui viene composta la Canzo- chansons de geste o le liriche trobadoriche) ma alla
ne di Orlando, nelle corti signorili di Provenza si lettura, in una dimensione più intima e privata. Vari
diffonde una nuova concezione dell’amore che si è furono i cicli poetici che si andarono sviluppando nel
n Miniatura tratta da un co- soliti definire «amor cortese», conseguenza di un corso del XII secolo: quello destinato a maggior for-
dice del Perceval ou le conte nuovo stile di vita più colto e raffinato. Al centro di tuna fu il ciclo bretone, imperniato sulle avventure e
du Graal di Chrétien de
Troyes. questo nuovo ideale non è solo la figura dell’eroe gli amori dei cavalieri di re Artù, mitico sovrano già
guerriero, ma anche quella della donna, cui il perfet- presente nei racconti orali del folclore celtico. I ro-
to cavaliere offre il suo omaggio d’amore e di incon- manzi più suggestivi di tale ciclo furono quelli com-
dizionata fedeltà. Il punto essenziale di tale relazio- posti in versi ottonari a rima baciata da Chrétien de
ne, che si sviluppa sempre fuori del matrimonio, e Troyes, e in particolare Lancillotto, o il Cavaliere della
dunque si pone in parziale contrasto con la morale Carretta e Perceval, o il Racconto del Graal. Accanto
cristiana, è l’idea che un animo cortese non può non ai romanzi del ciclo di re Artù, vasta eco ebbe anche
amare, che l’amore rappresenta insomma il vertice e la tragica vicenda d’amore e morte di Tristano e
la compiuta realizzazione delle virtù cortesi. In gran Isotta, che ci è pervenuta in diverse versioni.
parte sul tema d’amore (anche se non mancano mo- Non minore fortuna ebbero infine i poemi allego-
tivi civili e guerreschi) si fonda la poesia lirica in lin- rico-didascalici. Il più noto fu il Romanzo della Rosa,
gua d’oc, chiamata «trobadorica» dal nome dei poeti ispirato ai cicli erotici del poeta latino Ovidio. Ad esso
provenzali, i «trovatori». Poesia altamente convenzio- attinse il giovane Dante nel comporre due poemetti
nale ed elaboratissima sul piano tecnico ed espressi- giovanili, il Fiore e il Detto d’amore, alla fine del Due-
vo, la lirica occitanica, i cui maggiori esponenti furo- cento (R 9).
no Guglielmo d’Aquitania, Jaufré Rudel, Bernart de
Ventadorn, Arnaut Daniel e Bertran de Born, si dif -
Le chansons de geste in lingua d’oïl Sono circa settanta i poemi in lingua d’oïl, composti tra l’XI e il
XIII secolo, che ci sono pervenuti. Se si tiene conto che essi rappresentano solo una
parte di una vasta produzione di cui molto si è perduto, si può misurare il successo che
il genere epico conobbe in terra di Francia. Tali poemi sono chiamati chansons de geste,
poemi cantati (“canzoni”), nei quali si narrano le imprese (“gesta”) compiute da un
popolo, da una stirpe o anche da un singolo personaggio. In esse si rispecchia il mon-
do feudale dei cavalieri e dei feudatari, di cui vengono celebrati i valori più caratteri-
stici: lo spirito guerriero, la prodezza, il culto dell’onore, la fedeltà vassallatica al signo-
re, l’amore per la propria terra. Nel più antico, e più celebre, di questi componimenti,
la Chanson de Roland, tali valori sono posti al servizio della fede cristiana: Orlando, il
protagonista del poema, finisce così per unire i caratteri tradizionali dell’eroe (la forza
fisica, l’abilità militare, il coraggio, lo sprezzo del pericolo) all’esemplarità morale dei
comportamenti: è un eroe-martire, che si batte fino al sacrificio della vita per la difesa
della fede cristiana.
Tra i modelli primari delle chansons de geste va posto non a caso il poemetto agio-
grafico in lingua d’oïl, che aveva goduto di larga fortuna nell’XI secolo in Francia. Ta-
le influenza risulta evidente a più livelli, non solo contenutistici: affini sono infatti le
strutture strofiche (lasse assonanzate e rimate di versi decasillabi), lo stile formulare del
racconto e le stesse modalità d’uso dei testi, recitati da giullari itineranti con l’accom-
pagnamento della viola. Identici furono anche i luoghi di circolazione: la corte, il sa-
grato della chiesa, fiere e mercati, feste religiose. Vite di santi e poemi epici di argo-
mento cristiano venivano recitati lungo gli itinerari dei pellegrinaggi medievali, il più
noto dei quali fu quello che portava al santuario di Santiago de Compostela (la cosid-
detta «Via Lattea»).
Il ciclo carolingio Il filone più significativo di questa produzione è quello che appartiene al ciclo ca-
rolingio, di cui fa appunto parte la Chanson de Roland, il capolavoro indiscusso del ge-
nere. Protagonisti di questo ciclo sono i paladini (cioè i comites palatini, “compagni di
palazzo”) di Carlo Magno, in lotta contro i Saraceni per la difesa della fede cristiana.
La durezza del contrasto fra popolazioni cristiane e islamiche, che appaiono nei poemi
di questo ciclo epico ferocemente arroccate su due mondi contrapposti e incomuni-
cabili, si spiega con il nuovo spirito di crociata che animò l’Europa cristiana verso la
fine dell’XI secolo: si ritiene infatti che la Chanson, il più antico e il più bello dei testi
del ciclo carolingio, sia stata composta intorno al 1080, nell’imminenza della prima
crociata (1096-1099).
La Chanson de Roland
Le vicende, condensate in un arco di soli sei giorni (scan- Tutto si svolge secondo il maligno disegno di Gano: a
diti con precisione dal narratore in un susseguirsi di albe e Roncisvalle i cristiani vengono soverchiati dall’immenso
di notti), possono essere divise in tre blocchi compatti: una esercito dei saraceni. Il massacro è favorito dall’orgoglio di
premessa (sul tema dominante del tradimento); una se- Orlando, che rifiuta – nonostante il consiglio del saggio
quenza centrale (impostata sull’episodio di Roncisvalle); Oliviero – di suonare l’olifante per avvertire l’imperatore
un epilogo (sul tema dominante della vendetta). dell’imboscata. Quando si decide a farlo, è ormai tardi. Fe-
Da sette anni Carlo combatte vittoriosamente in Spagna rito a morte, ultimo superstite della retroguardia cristiana,
quando Marsilio, re dei Mori, ormai asserragliato in Sara- cerca vanamente di distruggere la spada miracolosa che gli
gozza, decide di avviare una trattativa di pace, con la segre- angeli avevano forgiato per lui: la sua anima è infine scor-
ta intenzione di venir meno alla parola data una volta che i tata in cielo da tre angeli [R T 5.1 ].
cristiani abbiano fatto ritorno in Francia. Durante un ac- Richiamato dal suono dell’olifante, Carlo ritorna sui suoi
ceso consiglio che si tiene nel campo cristiano, la proposta passi, incalza le truppe pagane in ritirata e ne fa strage.
viene diversamente valutata: Orlando, nipote di Carlo e fi- Marsilio, ferito, si rifugia a Saragozza, dove nel frattempo è
gliastro di Gano, vorrebbe continuare la guerra fino al giunto in suo aiuto l’esercito di Baligant, emiro d’Alessan-
completo annientamento del nemico, ma Gano, sostenuto dria. S’ingaggia infine un’ultima battaglia, che si conclude
dal vecchio e saggio Namo, convince il sovrano ad accet- con il duello decisivo di Carlo e Baligant. Grazie all’aiuto
tare la resa. Allora Orlando, infiammato dall’ira, propone dell’angelo Gabriele, l’imperatore ha la meglio sul nemico:
che sia lo stesso Gano ad andare a trattare con Marsilio, Carlo muove verso Saragozza e la espugna: tutti i saraceni
ben noto per la sua ferocia e la sua slealtà. Carlo autorizza vengono convertiti al cristianesimo; Marsilio «muore di
la missione, nonostante l’opposizione indignata di Gano, pena, e oppresso dalla colpa. / l’anima sua rende ai diavoli
che già matura in cuore la sua vendetta nei confronti del pronti». L’esercito cristiano può ora far ritorno in patria. Il
figliastro. Giunto a Saragozza, Gano si accorda infatti con i poema si conclude con il processo e la condanna del tradi-
nemici: Marsilio dovrà fingere la pace e la conversione al tore Gano, squartato da quattro cavalli impetuosi. L’angelo
cristianesimo; dopo di che Carlo farà ritorno in Francia, Gabriele scende nella camera di Carlo, durante la notte, e
lasciando alle sue spalle una retroguardia di eroi che i sara- lo esorta a nuove spedizioni militari contro i nemici della
ceni potranno facilmente annientare. cristianità [R T 5.1 Doc 5.3 ].
stiana, che nulla aveva a che fare con il mondo arabo, e che il fatto ebbe scarsa rile-
vanza sul piano storico-militare: quando tuttavia l’opera, circa tre secoli dopo, venne
composta, i predoni baschi si trovarono sostituiti, nell’immaginario, dai saraceni di
Spagna, e l’episodio di Roncisvalle venne inserito nella “guerra santa” fra mondo ara-
bo e mondo cristiano.
Un’epopea cristiana Eroe-santo, martire della fede, Orlando è dunque il protagonista di un poema cri-
stiano centrato sul contrasto, feroce e insanabile, fra due civiltà contrapposte: il mondo
islamico, assimilato a quello pagano (e perciò più volte accusato, nel corso della canzo-
ne, di politeismo e idolatria), che rappresenta il regno diabolico del male; il mondo cri-
stiano, che rappresenta il regno divino del bene.Tutti i segni del poema, al di là delle vi-
cende stesse, riconducono al tema religioso: sei sono i giorni in cui si svolge l’azione
del poema, come sei furono i giorni della creazione; dodici sono i Pari di Francia (fra
cui Orlando), come dodici erano gli apostoli (e Gano, il traditore, è assimilato nel cor-
so del racconto a Giuda, il traditore di Cristo). La stessa figura di Carlo Magno è co-
struita secondo il modello del profeta biblico: i segni più caratteristici sono la fluente
barba bianca, la prodigiosa vecchiezza (quasi duecento anni), la pacata saggezza delle
decisioni, accompagnata dalla fierezza del volto («Quand’egli parla, non parla all’im-
provviso: / è suo costume di discorrer tranquillo. / Drizza la testa, e molto fiero ha il
viso»; vv. 140-42). Carlo è spesso soccorso o visitato dagli angeli, ha sogni premonitori
e assiste a grandi prodigi (in CLXXIX, come nell’episodio biblico di Giosuè, il sole si
arresta per consentire ai cristiani di inseguire e annientare le truppe saracene). Non
mancano infine gli oggetti prodigiosi e fatati, come Durendala, la spada di Orlando, for-
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA
E. Auerbach, Nomina Il mondo della Chanson è un mondo arcaico, statico e chiuso, nel quale non c’è mar-
di Orlando a capo della gine per il dubbio: come ha scritto Erich Auerbach, «l’argomento del canto di Orlan-
retroguardia, in Mimesis,
Einaudi, Torino 1964 do è limitato e per i suoi personaggi non esiste nulla di problematico. Tutti gli ordina-
menti della vita e anche l’ordinamento dell’aldilà sono univoci, immutabili, stabiliti
con la fissità di formule. Essi, a dir vero, non sono senz’altro accessibili a un intendi-
mento razionale; ma questa constatazione la facciamo noi, non riguarda la poesia e gli
ascoltatori dell’epoca, che vivono in una fede sicura, entro una rigida, limitatissima
cornice dove i doveri della vita, la loro spartizione secondo i ceti, l’essenza delle forze
soprannaturali e il rapporto degli uomini con esse sono regolati nel modo più sem-
plice. All’interno di questa cornice c’è delicatezza e ricchezza di sentire e anche una
certa varietà dei fenomeni esterni; ma la cornice è così angusta e rigida che non è
quasi possibile che sorga problematicità o tragicità; non vi sono conflitti che meritino
l’attributo di tragico».
giata in cielo dagli angeli e consegnata da Carlo al paladino con il compito di far stra-
ge dei saraceni.
Un’ideologia feudale Il mondo della Chanson de Roland è un mondo ordinato gerarchicamente, che
rispecchia con ogni evidenza la struttura feudale dell’epoca in cui il poema fu com-
posto: i paladini sono innanzitutto vassalli di Carlo, al quale sono legati da un giura-
mento di fedeltà. I loro comportamenti appaiono fondati su norme e valori essenziali
e inderogabili: il vassallaggio, il concetto di onore (meglio morire che macchiarsi di
infamia), l’ideale guerriero. Significativa appare la difesa di Gano durante il processo:
egli afferma di non avere tradito il suo signore (Carlo) ma di essersi vendicato di un
nemico personale (Orlando). I suoi stessi accusatori non lo condannano per la morte
inflitta a Orlando, ma per aver mancato al giuramento di fedeltà nei confronti del so-
vrano: Gano aveva insomma il diritto di uccidere Orlando, che lo aveva offeso, ma non
quello di mettere a repentaglio i progetti bellici del suo signore. A tal punto è incerto
il giudizio dei vassalli invitati a esprimersi, che si deve infine ricorrere a un’ordalia (il
cosiddetto giudizio di Dio, secondo il diritto barbarico): due contendenti, uno favore-
vole l’altro contrario all’assoluzione, si affrontano in duello per determinare l’esito del
processo.
Strutture compositive e tecnica della narrazione L’unità di misura del racconto è la lassa assonan-
zata, che può variare nel numero dei versi e che costituisce una struttura autonoma e
in sé compiuta. Si è parlato per questo di narrazione paratattica: il cantore procede per
quadri isolati e indipendenti, accostati gli uni agli altri, senza legami di carattere causa-
le, temporale o modale con i precedenti. I legami sono dati semmai dall’uso di uno
stile formulare (come nell’epos classico) e dall’accostamento di “lasse similari”, orga-
nizzate su parallelismi e riprese (di un gesto, di una situazione, di una formula). Nel-
l’episodio della morte di Orlando [R T 5.1 ], ad esempio, tre lasse consecutive descrivo-
no, con minime variazioni, il gesto con cui il paladino, ormai morente, protende il
guanto a Dio in segno di omaggio e devozione: l’azione è come staticamente blocca-
ta; il gesto assume un rilievo scultoreo di grande vigore simbolico. Il tempo dominan-
te del racconto, non a caso, è il presente: dinanzi al lettore-ascoltatore, gli avvenimenti
sfilano nella loro immediatezza, senza alcuna complicazione. Il poeta non ha bisogno
di spiegare, né di correlare i fatti che accadono: i fatti, semplicemente, accadono. L’ar-
caicità delle tecniche narrative e delle scelte linguistiche sembra perfettamente intona-
ta alla rappresentazione di un mondo chiuso e rigido, all’interno del quale non si dan-
no sfumature.
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Duecento e Trecento
– l’amore va tenuto segreto e «ben celato», perché non subisca l’oltraggio dei pet-
tegolezzi e delle maldicenze: l’amante, in particolare, non deve mai vantarsi dei favori
ottenuti dalla sua donna, né rivelarne il nome;
– l’amore è sempre felice, anche quando non è corrisposto, o si conclude dolorosa-
mente: la felicità nell’amore deriva dalla capacità di amare, da una pura dedizione del-
l’animo, dal disinteresse e dalla gratuità con cui viene alimentato e vissuto;
– l’amore non può nascere se non in un animo virtuoso: avarizia, menzogna, co-
dardia o maldicenza distruggono la capacità di amare. Di conseguenza, come scrive il
Cappellano, «l’amore dà bellezza all’uomo incolto e rozzo, dà nobiltà anche ai più
umili, rende umili anche i superbi»;
– l’amore è innanzitutto servizio, dedizione, contemplazione della propria donna,
di cui si elogiano la bellezza, la saggezza, le virtù morali.
Il tramonto della lirica provenzale La rovina dei castelli e delle città di Provenza in seguito alla cro-
ciata anticatara (1208-1229), alla quale si è accennato (R 3.3), provocò il rapido decli-
no del movimento trobadorico, che si può dire esaurito alla fine del XIII secolo. Ac-
canto ai testi pervenuti (spesso un’esigua selezione operata dai contemporanei: 11
componimenti, ad esempio, per Guglielmo d’Aquitania; solo 6 per Jaufré Rudel), pos-
sediamo le vidas (vite, biografie) di numerosi autori e le razos (dal lat. ratio, commenti,
in prosa) di numerose liriche. Vidas e razos, tuttavia, sono per lo più di epoca tarda
(XIII secolo), e perciò non sempre attendibili.
La scomparsa del movimento trobadorico fu compensata dalla diffusione dei mo-
delli poetici di Provenza in altre lingue e in altre corti d’Europa, in particolare nella
Francia del nord (dove i trovatori si dissero, in lingua d’oïl, trovieri), in Germania (con
la poesia d’amore dei Minnesänger), in Portogallo e in Italia con la scuola siciliana (R 6.).
Temi e motivi Per comprendere la poesia provenzale bisogna disfarsi della concezione romantica
di poesia in quanto espressione immediata e spontanea dei moti dell’animo. La lirica
trobadorica è una poesia convenzionale, che non aspira alla diretta effusione senti-
mentale, né all’originalità dei contenuti. La maggior parte della produzione è dedica-
ta all’amore; significativa risulta tuttavia la poesia di carattere morale e politico, dalle
tonalità non di rado aspre e realistiche.
L’amore cantato dai lirici provenzali è l’«amor cortese», sublimato e codificato, co-
me si è detto (R 5.3): il poeta-amante si fa vassallo di una donna, che serve con animo
devoto e tremante. L’inaccessibilità della donna, dovuta a motivi sia sociali (l’alto rango
della dama) sia morali (il matrimonio) acuisce la tensione poetica ed esalta le virtù ca-
valleresche dell’innamorato. Intorno al poeta e alla sua amata – uniti da un amore se-
greto che deve essere celato dietro lo schermo del senhal, il nome fittizio con cui vie-
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Duecento e Trecento
ne indicata l’amata – si muovono le figure del marito geloso (il gilos) e dei maldicenti
invidiosi (lauzengiers), che possono insidiare la felicità degli amanti. Nei testi ricorrono,
sviluppate attraverso sottili variazioni, immagini e situazioni canoniche: il binomio
primavera-amore [R T 5.2 ], il canto degli uccelli che riecheggia il canto d’amore del
poeta, l’attesa trepidante di un messaggero che porti notizie dell’amata [R T 5.2 ], la
pietà o la crudeltà della donna, la lode delle sue virtù e delle sue bellezze, la gioia per
l’amore corrisposto, i patimenti e le sofferenze di un amante respinto o inappagato a
causa degli ostacoli che si frappongono, il canto dell’amore lontano [R T 5.4 ].
L’amore non fu tuttavia, come si è detto, il tema esclusivo di questa poesia: circa un
quarto dei 2700 componimenti poetici che ci sono giunti sono in forma di sirvente-
se, il genere lirico che i poeti provenzali utilizzarono per argomenti di carattere mora-
le, didattico, civile o politico. La passione, l’urgenza, l’energia di queste composizioni
dimostrano quanto esse fossero sentite dal pubblico delle corti: si legga, a questo pro-
posito, il lamento-invettiva di Sordello per la morte del suo signore, o il canto guerre-
sco di Bertran de Born [R T 5.3 ].
Forme metriche Al carattere altamente convenzionale di temi, situazioni e argomenti, nella lirica in
lingua d’oc corrisponde una straordinaria ricerca sul piano formale ed espressivo: vastis-
sima è la varietà di assetti rimici e strofici che riscontriamo nei testi pervenuti. Il culto
della forma non è tuttavia mai fine a se stesso, ma vuole essere l’espressione visibile di
un’educazione interiore e di uno stile di vita improntato ai valori cavallereschi (misura,
lealtà, generosità). La forma metrica per eccellenza è la canzone (canso); quella più im-
pegnativa e retoricamente complessa è invece la sestina, di cui l’esempio più insigne re-
sta un famoso componimento di Arnaut Daniel, il poeta che Dante stesso, nella Divina
commedia, indicherà come «miglior fabbro del parlar materno». Diffuse sono anche la
ballata (che implica la presenza di un ritornello) e il discordo, il cui impianto è caratte-
rizzato, al contrario della canzone, dalla dissimiglianza delle strofe, organizzate ciascuna in
modo autonomo e “discordante” (o dissonante) rispetto alle altre del componimento.
Trobar clus e trobar plan All’interno di questa produzione, distinguiamo fra diverse forme di scrittura, in
particolare fra un trobar clus, espressione di una poesia “chiusa”, spesso oscura e diffici-
le, di registro elevato e di complessa tessitura sintattica e stilistica, e un trobar leu o plan,
poesia dallo stile più “leggero” e “piano”, dalle immagini limpide e chiare.
Una variante del trobar clus è il trobar ric, uno stile virtuosistico, “ricco” di artifici re-
torici e di ornamenti espressivi. Il termine tecnico impiegato dai poeti occitanici è, in
questo caso, entrebescar los motz (“intrecciare, intricare, aggrovigliare” le parole), come
troviamo detto, ad esempio, in una bellissima lirica di Raimbaut d’Aurenga: «rare, scu-
re e colorate parole intreccio / pensoso pensando».
Generi poetici Tra i generi poetici, i più significativi furono l’alba, la pastorella e la canzone di cro-
ciata. L’alba ha per tema la dolorosa separazione degli amanti, che hanno trascorso in-
sieme la notte, allo spuntar del giorno. La pastorella narra invece l’incontro di un cava-
liere con una pastorella e presenta, entro uno scenario dai freschi e gioiosi tratti natura-
listici, una forte componente erotica e sensuale. Sia l’alba che la pastorella sono spesso
articolate in forma dialogica. La canzone di crociata può essere sviluppata in varie di-
rezioni, e presentare carattere politico-militare, religioso o amoroso.
Generi poetici molto diffusi sono la tenzone, il planh, il plazer e l’enueg. La tenzone
è un dibattito fra due o più trovatori che può riguardare svariati temi, morali, satirici,
politici o amorosi. Il planh (“compianto”) è una canzone di lamento, come quella che
Sordello compose per la morte del suo signore. Il plazer (“piacere”) è un catalogo di
cose piacevoli [R T 5.3 ]: il suo contrario è l’enueg (letteralmente “noia”).
nia. In quegli stessi anni, alle corti di Francia fioriva quello che giustamente è stato
considerato il massimo poeta in lingua romanza prima di Dante, Chrétien de Troyes.
I romanzi di Chrétien de Troyes Scarse sono le notizie su Chrétien: nacque a Troyes, nella Champa-
gne, verso il 1135; fu probabilmente un chierico, come sembra testimoniare la sua for-
mazione culturale; visse nelle corti aristocratiche di Francia, prima in quella di Maria
di Champagne, in seguito (dopo il 1181), alla corte di Fiandra su cui regnava il conte
Filippo d’Alsazia; compose le sue opere tra il 1160 e il 1190, anno entro il quale va
collocata la sua morte. Delle numerose opere da lui composte, restano cinque roman-
zi di materia bretone in versi ottonari a rima baciata: Erec e Enide; Cligès; Lancillotto o il
Cavaliere della Carretta, scritto su richiesta di Maria di Champagne; Ivano o il Cavaliere
del Leone; Perceval. Quest’ultimo e il Lancillotto sono rimasti incompiuti.
Romanzi d’amore e d’avventura, le opere di Chrétien si distinguono per la finezza
della rappresentazione, l’atmosfera rarefatta e misteriosa, quasi onirica, delle vicende, la
psicologia tormentata dei personaggi, il predominio dell’elemento fantastico e so-
vrannaturale. L’amore è vissuto come servizio, in ottemperanza al codice cortese d’a-
more inaugurato dai poeti provenzali; ma la riflessione di Chrétien è complessa e pro-
blematica, e basti dire che tre dei suoi cinque romanzi, Erec e Enide, Ivano e Cligès, ci
propongono il tema dell’amore realizzato (contro le regole stabilite negli stessi anni da
Andrea Cappellano) all’interno del matrimonio. Come prescriveva il codice dell’amor
cortese, tuttavia, nei romanzi di Chrétien gli amanti non possono pervenire al vero
amore se non attraverso varie e difficili prove. L’amore risulta sempre, in Chrétien, una
ricerca o inchiesta (queste in francese antico, quête in quello moderno), al termine del-
la quale i protagonisti risultano intimamente mutati, temprati dalle vicissitudini subite,
resi più forti e consapevoli lungo il cammino della virtù.
I primi quattro romanzi sono incentrati sui temi dell’amore e dell’avventura, e in
particolare sulle delicate relazioni che si istituiscono fra i doveri del perfetto cavaliere
(prodezza, onore, lealtà, misura) e i rituali (non meno vincolanti) del servizio amoroso.
Singolare, e certamente diverso dai precedenti appare invece il Perceval, che narra una
vicenda dai toni mistici e religiosi di non facile interpretazione. Protagonista di un ve-
ro e proprio romanzo di formazione, Perceval diviene cavaliere macchiandosi di una
colpa che deve poi espiare: solo al termine di un lungo percorso, egli potrà infine ri-
trovare la giusta via e riconoscere il vero significato della cavalleria.
Il romanzo di Tristano Di origine celtica è il nucleo essenziale della leggenda di Tristano e Isotta, certo
il più grande mito narrativo prodotto dall’età medievale: nata forse in Scozia, diffusasi
poi a livello orale in Irlanda, Galles, Cornovaglia e Bretagna, la tragica vicenda dei due
amanti venne organizzata e rielaborata alla corte anglonormanna di Enrico II Plantage-
neto e di Eleonora d’Aquitania. Qui, poco dopo la metà del XII secolo, dovette essere
composta la versione originaria del romanzo di Tristano e Isotta alla quale attinsero in
seguito tutti i rifacimenti successivi. Dei più antichi, che si devono ad autori operanti
nella seconda metà del XII secolo, possediamo tuttavia solo frammenti, che rendono
complessa e discordante la ricostruzione del nucleo originale della vicenda. Un roman-
zo su Tristano e Isotta, per noi perduto, aveva composto anche Chrétien de Troyes.
Le versioni più significative, sia pure lacunose e frammentarie, a noi pervenute so-
no due, entrambe in francese antico: il Tristan di Béroul, un poema in ottosillabi di
4485 versi a rima baciata, composto fra il 1165 e il 1190, caratterizzato da una scrittu-
ra tendenzialmente oggettiva, a tratti crudamente realistica; il Tristan di Thomas, un
poema anch’esso in ottosillabi di 3144 versi, composto fra il 1170 e il 1177, la cosid-
detta «versione cortese» del mito, caratterizzata da una più accurata struttura composi-
tiva, da una raffinata indagine psicologica e dall’esaltazione dell’amor cortese.
I poemi narrativo-allegorici: il Roman de la Rose Vasta fu anche la fortuna dei poemi allegorici, fra
i quali il più noto è il Roman de la Rose [Romanzo della Rosa] in ottosillabi rimati, for-
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA
mato di due parti assai diverse: la prima, della lunghezza di circa 4000 versi, fu com-
posta da Guillaume de Lorris intorno al 1230; la seconda, che si estende per circa
18.000 versi, fu opera di Jean de Meung, che la scrisse intorno al 1270. L’argomento,
desunto dall’Ars amandi [L’arte di amare] di Ovidio, è l’amore. In un mattino di pri-
mavera, il narratore-protagonista scorge in un giardino una rosa ancora in boccio, al-
legoria dell’amata: il poema narra, con abbondanza di digressioni, le varie tappe che
conducono l’innamorato a cogliere la rosa, cioè a godere dell’amore della sua donna.
Alla raffinatezza cortese di Guillaume, che riflette il gusto e le idealità del mondo ari-
stocratico, corrisponde il realismo didattico ed enciclopedistico di Jean de Meung,
nel quale si rispecchiano le nuove esigenze dei ceti borghesi cittadini. Due parafrasi
del Roman de la Rose databili con una certa sicurezza all’ultimo ventennio del XIII
secolo, il Fiore e il Detto d’Amore, da molti studiosi considerate opera giovanile di
Dante, testimoniano della fortuna dell’opera anche in area toscana.
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Lancillotto, o il Cavaliere della Carretta (1177-1181ca) tavia ricambia le sue fatiche con un silenzio gelido e sprez-
Ginevra, moglie di re Artù, di cui Lancillotto è innamorato, zante.Addolorato, il cavaliere si congeda dalla donna. La fal-
viene rapita dal perfido e sleale cavaliere Meleagant, che la sa notizia della morte di Lancillotto ha tuttavia il potere di
conduce nel regno di Gorre, dal quale nessuno, come dal re- smuovere il cuore di Ginevra, che ora si dispera e decide di
gno dei morti, può ritornare. Lancillotto, per inseguire la re- lasciarsi morire. Anche Lancillotto, al quale è giunta notizia
gina in pericolo, essendo al momento privo di cavallo, è co- della morte della dama, cerca, ma inutilmente, di togliersi la
stretto a salire sulla carretta dei malfattori, che funge da go- vita. L’avventuroso ritorno al castello del cavaliere sembra
gna, strumento d’infamia che potrebbe disonorarlo per avviare a un esito felice la vicenda. Durante un intimo col-
sempre. Comincia l’avventurosa ricerca, che si compie in loquio, la regina gli rivela il motivo del suo disprezzo: aveva
luoghi arcani avvolti da un’atmosfera di mistero e di sogno. veduto Lancillotto esitare nel salire sulla carretta dei malfat-
Dopo aver superato il ponte della spada, sospeso su acque tori. Ma ora essa concede un appuntamento segreto al suo
perigliose che sembrano richiamare quelle del mitico amante, che durante la notte riesce a penetrare di nascosto
Acheronte [R T 5.5 ], Lancillotto giunge infine al castello nella sua stanza. Alla notte d’amore seguono altre dure pro-
dove Meleagant ha rinchiuso la regina, che è stata tuttavia ve, durante le quali, fra l’altro, Lancillotto, per provare la sua
presa in custodia dal padre di Meleagant, il re Baudemagu, illimitata devozione alla donna, accetta di essere sconfitto e
sovrano – a differenza del figlio – magnanimo e cortese. umiliato durante un torneo. Si ritrova infine prigioniero in
Prendendo forza dalla visione di Ginevra, che intravede alla una torre fatta appositamente costruire da Meleagant; e qui
finestra di una torre, Lancillotto batte in duello Meleagant e il romanzo si interrompe.
ottiene di essere ammesso nelle stanze della regina, che tut-
Perceval, o il Racconto del Graal (dopo il 1181) sione di una lancia insanguinata e del Graal. Ma Perceval
Il giovane Perceval è stato allevato dalla madre nella Guasta non osa chiedere il senso di quello che ha visto, e si disperde
Foresta solitaria affinché ignorasse il mondo della cavalleria, per cinque lunghi anni in varie avventure, fino a non ricor-
e non subisse il triste destino del padre e dei fratelli, tutti darsi più di Dio. Un venerdì santo, durante un incontro ca-
morti in battaglia. Ma un giorno giungono casualmente, suale con dei penitenti incappucciati, viene indirizzato a un
nella selva, dei cavalieri di re Artù, che Perceval, abbagliato eremita, che gli rivela il suo passato e i suoi doveri di cavalie-
dalla nobiltà del portamento e dallo splendore delle arma- re.Tutti i suoi mali, gli racconta il santo eremita, sono deri-
ture, crede angeli. Deciso a seguirli, egli abbandona la ma- vati dall’aver causato la morte della madre: per questo non
dre, che muore dal dolore. Ordinato cavaliere dopo un chiese nulla della lancia e del Graal, e non poté risanare la
combattimento in cui mostra tutto il suo valore guerresco, ferita del Re Pescatore. Ma ora Perceval viene a sapere che il
Perceval incontra Biancofiore, grazie alla quale viene inizia- Re e l’eremita sono fratelli della madre, e perciò suoi zii. Fi-
to all’amore. Hanno principio le sue avventure, che lo con- nalmente, il giovane prende coscienza dei suoi doveri di
ducono un giorno nel castello del Re Pescatore, tormenta- cristiano e di cavaliere, e la domenica di Pasqua si comunica.
to da una ferita incurabile: qui è ammesso alla misteriosa vi- Qui si interrompe il racconto di Perceval.
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Tristano e Isotta (tra il 1165 e il 1190) talmente ferito durante un’impresa, egli manda il fedele
Storia fatale di amore e morte, la vicenda di Tristano e Caerdino dall’amata Isotta, l’unica che potrebbe guarirlo:
Isotta può essere riassunta come segue, purché si tenga la nave, al ritorno, dovrà issare vele bianche o nere, a se-
presente che si tratta di una ricostruzione ‘artificiale’ con- conda che Isotta abbia accettato o no di imbarcarsi. Trista-
dotta sui testi e sui frammenti sopravvissuti e che non po- no è ormai in fin di vita, quando la nave appare in vista del
chi episodi presentano discordanze a seconda delle versio- porto con bianche vele: ma Isotta dalle bianche mani, ge-
ni utilizzate. losa, riferisce che le vele issate sono nere. Tristano muore
Il principe Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, dal dolore; Isotta la bionda, appena sbarcata, si lascia an-
uccide il terribile Moroldo, un mostro che infestava le ter- ch’essa morire sul corpo dell’amato [R T 5.6 ].
re dello zio, pretendendo tributi umani. Colpito durante lo
scontro da un’arma avvelenata, che gli ha prodotto una fe-
rita incurabile, Tristano può solo imbarcarsi su una nave
che, priva ormai di guida, lo conduce in Irlanda: qui è gua-
rito dalle arti magiche di Isotta, sorella del Moroldo. Ri-
tornato in patria, riceve dallo zio l’incarico di rintracciare
la donna cui appartiene il capello biondo che una rondine
ha depositato davanti al sovrano, e che re Marco intende
chiedere in sposa. Dopo molte ricerche, il capello risulta
appartenere a Isotta la bionda, che Tristano invita in Cor-
novaglia perché divenga sposa dello zio. Prima della par-
tenza la madre di Isotta consegna all’ancella della figlia,
Brengania, un filtro magico che legherà di eterno amore i
due sposi: per un errore fatale, durante il viaggio, saranno
però Isotta e Tristano a bere la magica pozione, innamo-
randosi, ineluttabilmente e per sempre, l’uno dell’altra. Gli
episodi che seguono (nel frattempo si sono celebrate le
nozze di Isotta con re Marco) vedono i due amanti co-
stretti a incontrarsi clandestinamente: scoperti, si rifugiano
nella selva del Morois, dove vivono a lungo braccati dal
sovrano e dai suoi consiglieri. In seguito Isotta è accolta di
nuovo alla corte di Marco, mentre Tristano è bandito dalla
sua terra. Giunto in Bretagna, sposa Isotta dalle bianche
mani, sedotto unicamente dal nome della fanciulla. Mor- n La nave di Tristano e Isotta (da un manoscritto del XV secolo).
Guida all’analisi
La tecnica narrativa L’unità di misura della narrazione è la lassa, che si configura come un piccolo mondo au-
tonomo e compatto, ogni volta perfettamente definito in se stesso. I legami che si istituisco-
no fra lassa e lassa non riguardano pertanto lo sviluppo narrativo della vicenda (la sensazione
è anzi opposta: che il racconto non avanzi, e che il poeta ricominci ogni volta da capo) ma
consistono in una serie di elementi, contenutistici o formali, che si richiamano a distanza.
Nell’episodio della morte di Orlando, ad esempio, il tentativo di frantumare la spada Duren-
dala si ripete con poche varianti nelle prime tre lasse, con un effetto di sospensione narrativa:
«Davanti a lui sorge una pietra scura. / Egli vi dà dieci colpi con cruccio: / stride l’acciaio,
non si scheggia per nulla» (CLXX, 2300-2302); «Colpisce Orlando il pietrone di sarda: / stri-
de l’acciaio, ma non si rompe affatto» (CLXXI, 2312-2313); «Colpisce Orlando sopra una
pietra bigia, / e più ne stacca di quanto io vi so dire. / La spada stride, non si rompe o scalfi-
sce, / ma verso il cielo d’un balzo va diritta» (CLXXII, 2337-2340). Ciascuno di questi tre
passi è seguito a sua volta da un’allocuzione alla spada: «Ah, Durendala, aveste assai sfortuna!»
(CLXX, 2304); «Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!» (CLXXI, 2316); «Ah, Durendala,
come sei sacra e fine» (CLXXII, 2343).Vengono infine enumerate, ad ogni lassa, le imprese
compiute dal paladino con la sua spada, di cui si celebrano i pregi e la bellezza. Il movimen-
to della narrazione è dunque circolare: le minime variazioni delle riprese conferiscono in-
tensità all’episodio e concentrano l’attenzione sui particolari, trasfigurandoli in un’aura mi-
steriosa e soprannaturale.
Orlando: un eroe cristiano e feudale Orlando è qui rappresentato come un eroe cristiano che combatte al servi-
zio di Dio contro gli infedeli. La pagina che descrive la sua fine va perciò considerata come
l’atto conclusivo di un racconto agiografico: al pari di un santo martire, nel momento della
morte è soccorso da tre angeli che portano la sua anima in cielo. L’intervento angelico era
già prefigurato nella lassa CLXXI, dove veniva ricordata l’origine miracolosa di Durendala (v.
2319). Della pietà di Orlando sono testimoni le reliquie incastonate nell’impugnatura della
spada (vv. 2344-47), le invocazioni ai santi e a Dio (ad esempio al v. 2303), l’atto di contri-
zione (v. 2367), la preghiera pronunciata in punto di morte (vv. 2383-87), il gesto rituale del-
le mani giunte (v. 2391). Ma Orlando è anche un «uomo» di Carlo, un vassallo fedele che ha
servito il suo sovrano in mille conquiste, celebrate nella lassa CLXXI (che si configura come
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Duecento e Trecento
un vero e proprio catalogo, sia pure mitizzato e fantasticamente amplificato, delle campagne
militari di Carlo) e ancora, secondo il tipico modulo della ripresa a distanza, in altre tre lasse
(CLXX, 2306-08; CLXXII, 2351-53; CLXXV, 2377)). Non mancano i riferimenti patriotti-
ci alla terra di Francia, definita santa (v. 2311) e dolce (v. 2378).
La simbologia feudale del rapporto vassallatico, d’altronde, è talmente connaturata alla
cultura del narratore, che su di essa si modella persino il rapporto tra il fedele e Dio: per ben
tre volte (sempre secondo il modulo accennato delle lasse parallele), Orlando offre il suo
guanto a Dio (CLXXIII, 2364); CLXXIV, 2372; CLXXV, 2388): un gesto che ripete con
esattezza il cerimoniale feudale, e indica la sottomissione del vassallo al suo signore.
Se il nome di Orlando occupa con le sue imprese la sequenza della battaglia e della strage,
il poema si apre e si chiude sulla figura di Carlo, l’imperatore cristiano. L’esordio ha una
solenne intonazione epico-guerresca: a Carlo, che da sette anni combatte felicemente in
terra di Spagna, si contrappone Marsilio, già votato fin dall’esordio alla rovina (I, 9) a cau-
sa delle sue false credenze (si noterà fra l’altro che Maometto non è descritto come un
profeta ma come una divinità, onorata al pari di Apollo). I fatti storici sono deformati: la
spedizione iberica di Carlo (non ancora imperatore nel 778) era stata effimera e poco effi-
cace, anche a causa dell’insurrezione dei Sassoni che minacciavano il regno ad oriente e
che avevano consigliato un rientro repentino in terra di Francia: le iperboliche conquiste (I,
4-5) di Carlo andranno interpretate alla luce della «Reconquista» cristiana dell’XI secolo
(l’occupazione di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia, nel 1085, è coeva alla compo-
sizione della Chanson). La lassa conclusiva, giocata sui toni della malinconia e della mesti-
zia, si impone per una sua arcaica forza visiva: all’appello severo dell’arcangelo Gabriele,
che esorta Carlo a riprendere le armi per nuove imprese al servizio della fede, si contrap-
pone il pianto umanissimo dell’imperatore, ancora prostrato dalla morte dei suoi paladini.
I
La canzone di Orlando Re Carlo, il nostro imperatore grande,
(vv. 1-9; 3988-4002),
trad. di R. Lo Cascio, sette anni pieni è stato nella Spagna,
introd. di C. Segre, e l’alta terra ha preso fino al mare.
Rizzoli, Milano 1985 Non v’è castello che innanzi a lui rimanga,
5 né città o muro che debba ancora infrangere.
Sol Saragozza, che sta su una montagna,
tiene Marsilio, il re che Dio non ama,
serve Maometto e Apollo prega e chiama:
dalla rovina non si potrà guardare.
CCXC
L’imperatore, quando ha fatto giustizia,
e s’è placata un po’ la sua grand’ira,
3990 Bramimonda: 3990 fa Bramimonda cristiana divenire.
moglie di Marsilio, bat- Passato è il giorno, la notte s’è incupita.
tezzata (nella lassa prece-
dente) col nome di Giu- Va nella camera a volta il re a dormire,
liana. ma san Gabriele viene da Dio per dirgli:
«Carlo, gli eserciti dell’impero riunisci!
3995 A forza: a viva 3995 A forza andrai nella terra di Bira,
forza; altri traducono: “a per dare aiuto al re Viviano in Infa,
tappe forzate”.
3995-96 Bira ... Vivia- nella città che or d’assedio è recinta,
no... Infa: nomi di per- dove i cristiani levano a te le grida».
sona (Viviano) e di luo- L’imperatore non vorrebbe partire:
ghi (Bira, Infa) variamen-
te interpretati, probabil- 4000 «Dio, – disse – quanto penosa è la mia vita!»
mente immaginari. Comincia a piangere, la barba bianca tira.
Qui ha fin la gesta che da Turoldo è scritta.
Guida all’analisi
Temi convenzionali La lirica offre un sintetico repertorio dei temi e delle situazioni convenzionali della gran-
de produzione trobadorica: la primavera come stagione privilegiata dell’amore (I strofa); la
lontananza della donna, di cui il poeta attende con tremore un messaggio risolutivo (II stro-
fa); il patto d’amore che lega gli amanti (vv. 12 e 20); le chiacchiere dei maldicenti (V strofa),
da cui il poeta si difende proteggendo il nome della sua donna con un senhal (Buon Vicino);
l’amore come tensione e desiderio, rappresentato in modo oggettivo nell’immagine del ramo
di biancospino «che intirizzisce sull’albero, / la notte, nella pioggia e nel gelo» (vv. 15-16).
Metafore feudali Il rapporto d’amore fra il poeta e la sua donna è modellato su quello fra vassallo e signo-
re, e trascina con sé, inevitabilmente, tutto il vocabolario tecnico e metaforico del diritto
feudale. Qui, come si è visto, due volte (vv. 12 e 20) il poeta fa riferimento a un patto (fi
nell’originale, dal latino fides [“fede”, nel senso di “fedeltà” all’impegno assunto, alla parola
data]) che lega i due amanti, obbligando l’uomo a un rigoroso e codificato servizio d’amo-
re. Ma anche l’anello, il mantello e l’espressione conclusiva («il pezzo e il coltello») divengo-
no comprensibili solo nell’ambito delle rigide istituzioni feudali: anello (v. 22) e coltello (v.
30) facevano parte della cerimonia dell’investitura, durante la quale il signore copriva con il
lembo del mantello (v. 24) il vassallo, in segno di protezione; «pezzo» (v. 30 – pessa nell’ori-
ginale) fa riferimento alle terre concesse in beneficio dal signore al suo vassallo. Queste im-
magini alludono a una trasparente simbologia erotica, e assumono nel contesto della poesia
d’amore nuovi significati: dire che «abbiamo il pezzo e il coltello» (v. 30) varrà nel senso che
abbiamo quello che ci serve per amarci. Il ricorso alle immagini e alle metafore del mondo
feudale denuncia esplicitamente l’ideologia aristocratica di questa poesia, che nasce e si svi-
luppa nell’ambito delle potenti e magnifiche corti della Francia del Sud.
Quello che segue è l’esordio del celebre trattato Sull’amore di Andrea Cappellano, un chie-
rico che operò alla corte del re di Francia verso la fine del XII secolo e compose la sua
opera intorno al 1185, più di mezzo secolo dopo la morte del primo grande trovatore pro-
venzale, traendo spunto dalla produzione lirica in lingua d’oc e dai romanzi d’avventura e
d’amore in lingua d’oïl, ripensati attraverso la mediazione del ciclo erotico-didascalico di
Ovidio. Il brano inizia con la definizione della natura d’amore, una «passione» che nasce
dall’immagine della donna e si alimenta attraverso i pensieri dell’amante. L’autore sottoli-
nea in particolare il carattere interiorizzato e tormentoso di questo amore: una forza natu-
rale (perciò superiore a ogni vincolo sociale, a cominciare da quello del matrimonio) che
l’amante vive con tremore e sofferenza (come indica del resto l’etimologia del termine
passione, dal verbo latino pati, “soffrire, sopportare, patire”).
L’elaborazione teorica di Andrea Cappellano coincide perfettamente con la lirica di Gu-
glielmo d’Aquitania: l’amore è visto in entrambi come tremore, speranza, attesa, pensiero
costante e ossessivo dell’amata. Anche Guglielmo fa riferimento a «complici e messaggeri»,
teme i «pettegolezzi della gente»; lontano dalla sua donna è tormentato all’idea di averla
perduta e non fa altro che pensare a quando potrà di nuovo incontrare l’amata, agli ostacoli
che si frappongono a questo appuntamento a lungo desiderato.
A. Cappellano, De amore L’amore è una passione naturale che procede per visione e per incessante pensiero di
trad. di J. Insana,
con uno scritto di persona d’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro, e nel-
D’Arco Silvio Avalle, l’amplesso realizzare concordemente tutti i precetti d’amore.
ES, Milano 1992 Che l’amore sia passione, si vede facilmente. Infatti, prima che l’amore sbocci da tut-
te e due le parti, non esiste angoscia maggiore, perché l’amante teme sempre che l’amo-
re non ottenga l’effetto desiderato e che siano inutili le sue fatiche. Teme anche i pette-
golezzi della gente e tutto ciò che gli può nuocere, perché le cose non compiute vengo-
no meno al più piccolo turbamento. Se l’amante è povero, teme che la donna disprezzi la
sua povertà; se è brutto, teme d’essere disprezzato per la sua bruttezza o che la donna si
leghi a un altro più bello; se è ricco teme che la sua spilorceria di una volta possa dan-
neggiarlo. A dire il vero, non c’è nessuno che possa elencare le paure che sono proprie di
ogni amante. È dunque passione quell’amore che sorge da una parte sola, e si può chia-
mare amore di uno solo.
E anche quando si compie l’amore di entrambi, le paure non diminuiscono perché
l’uno e l’altro amante teme di perdere per le fatiche di un altro ciò che con molta fatica
ha ottenuto – cosa che risulta più dura dell’essere delusi nella speranza e sentire che la fa-
tica non porta frutti. È più doloroso perdere quanto si è ottenuto che essere spogliati del-
la speranza di ottenere. Teme anche di offendere in qualche modo l’amante. E sono tan-
te le paure che è troppo difficile enumerarle.
Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché la passione, a ben guarda-
re la verità, non nasce da nessuna azione; ma la passione procede dal solo pensiero che
l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, uno vede una donna che corri-
sponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a
desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più
pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue mem-
bra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possede-
re tutto per il proprio piacere.
Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai
fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incon-
trare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno,
perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succe-
de così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’a-
more non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensie-
ro misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare
amore.
Guida all’analisi
Il canto gioioso e vitale della guerra Il componimento è costruito secondo la tecnica del plazer: vengono cioè
elencate le cose che piacciono al poeta. La potenza visiva e realistica della rappresentazione,
la nettezza dei particolari, spesso truci e violenti (teste e braccia mozzate, cavalli sbandati,
tronconi di lance che trapassano i cadaveri), la gioiosa ed energica vitalità del canto sono i
caratteri che più colpiscono la fantasia del lettore. Non deve stupire lo svolgimento del te-
ma: la lirica provenzale è poesia di corte, spesso appannaggio di nobili guerrieri che ripon-
gono il loro pregio (vv. 29-30) nelle attività militari e nei tornei cavallereschi. L’invettiva
contro il principe esitante, sprezzantemente definito Signor Sì-e-No, ben rivela il carattere
aristocratico e feudale di questa poesia.
La leggenda di Bertran de Born Non è un caso che Dante collochi Bertran de Born all’inferno, tra i seminato-
ri di discordia (If XXVIII 112-141), raffigurandolo come un uomo che porta la propria te-
sta mozza in mano «a guisa di lanterna»: giusto contrappasso per chi aveva fomentato divi-
sioni e odii quando era in vita. La collocazione infernale non impedisce a Dante di celebra-
re Bertran de Born: nel De vulgari eloquentia (II, II, 10) come nobile poeta delle armi; nel
Convivio (IV, XI, 14) come un esempio di liberalità. Si veda, del resto, la prima delle due vidas
a noi note: «Bertran de Born fu un castellano del vescovado di Périgord, signore di un ca-
stello che aveva nome Hautefort. Fu sempre in guerra con tutti i suoi vicini, col conte di
Périgord, col visconte di Limoges, con suo fratello Costantino e con Riccardo, finché que-
sti fu conte di Poitou. Fu buon cavaliere e buon guerriero e buon corteggiatore e buon tro-
vatore, assennato e di bella conversazione; e seppe trovare buona soluzione a cose buone e
cattive. La faceva da padrone, ogni volta che volesse, col re Enrico d’Inghilterra, e con suo
figlio; ma cercava sempre che essi si guerreggiassero l’un l’altro, padre e figlio e fratello. E
cercò sempre che il re di Francia e il re d’Inghilterra si facessero guerra. E ove avessero pa-
ce o tregua, subito si dava da fare con i suoi sirventesi affinché la pace si rompesse, dimo-
strando come, in tal pace, chiunque è disonorato. E da ciò gli derivarono gran bene e gran
male» (trad. di G. E. Sansone).
Guida all’analisi
Il topos dell’«amore lontano» Quello dell’«amore lontano» è un motivo assai diffuso in età medievale: lo ri-
troviamo nel vasto repertorio delle fiabe, nella lirica cortese come nei romanzi cavallere-
schi. Nella poesia provenzale, tuttavia, e in specie in quella di Jaufré Rudel, esso esprime
un’intensità particolare: se infatti l’amore, nei trovatori di Provenza, è desiderio e tensione
inappagata, l’«amore di lontano» diviene metafora dell’amore stesso, la sua manifestazione
simbolica più compiuta ed esemplare. La poesia, qui, nasce dalla distanza che separa il poe-
ta-amante dall’amata, e si realizza in un ampio movimento fantastico interrotto soltanto
dall’invettiva che conclude, riportando la canzone all’amara realtà (vv. 48-52): entro que-
sto lungo movimento, troviamo evocati il mondo della natura (vv. 1-7), il tempo del viag-
gio e dell’avventura romanzesca (vv. 13-19), il momento tanto vagheggiato dei dolci con-
versari d’amore (v. 26).
Non mancano, com’è ovvio, elementi, situazioni e motivi propri del codice d’amore
cortese: il binomio primavera-amore (vv. 1-7); il rapporto di vassallaggio tra l’amante e la
dama (v. 14); la fedeltà all’amata (vv. 8-9); l’enumerazione di cose piacevoli (vv. 2, 46); il mo-
tivo della «gioia» d’amore, parola-chiave più volte evocata (vv. 8, 15, 22, 28, 45, 46); le lodi
della donna (vv. 10, 12, 35). Ma tutto è come assorbito dalla voce del poeta, dalla sua soffe-
renza d’amore, dalla sua dolorosa nostalgia (estremo paradosso) per un luogo e una donna
mai veduti, ma che proprio per questo si fanno emblemi assoluti del sentimento amoroso.
Jaufré Rudel,
L’amore di lontano, Jaufré Rudel di Blaia fu molto nobile uomo, principe di Blaia. E s’innamorò della
a c. di G. Chiarini, contessa di Tripoli, senza averla vista, per il bene che sentì dirne dai pellegrini che era-
Carocci, Roma 2003 no venuti da Antiochia. E fece su di lei molte canzoni, con belle melodie e semplici
parole. E per il desiderio di vederla si fece crociato e si mise in mare, e una malattia lo
prese sulla nave, e fu portato a Tripoli, in un albergo, come morto. E fu fatto sapere al-
la contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese fra le sue braccia. Ed egli compre-
se che lei era la contessa e recuperò l’udito e il respiro, e lodò Dio perché gli aveva
conservata la vita fino a che l’avesse vista; e così egli morì fra le braccia di lei. Ed ella lo
fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si
fece monaca per il dolore che ebbe della morte di lui.
Presero per la via diritta, e cavalcarono fino al declinare del giorno, quando
1 nona... vespro: l’ora raggiunsero il Ponte della Spada; era nona passata, verso vespro.1
nona corrisponde all’incir- Ai piedi di quel ponte, che è molto infido, sono smontati da cavallo e vedono
ca alle 15; il vespro è l’ora
canonica, la penultima, fra l’acqua traditrice, nera e rumoreggiante, densa e scura, orrida e spaventosa come
la nona e la compìeta, cioè un fiume dell’inferno, e sì pericolosa e profonda che non vi è creatura in tutto il 5
circa le 18.
mondo che, se vi cadesse, non sarebbe perduta come nel mare gelido. Il ponte
che l’attraversava è diverso da ogni altro; non ve ne fu mai, né mai ve ne sarà, uno
simile. Se mi si chiede il vero, dirò che non fu mai visto un ponte tanto orrendo,
né una passerella sì insidiosa: sull’acqua fredda, il ponte era fatto con una spada
bianca e lucente; forte e robusta, e lunga quanto due lance, era infitta da ogni 10
parte in un grande tronco. Né vi è pericolo che il cavaliere possa cadere: la spada
non si spezza né si piega, anche se, all’aspetto, non sembra poter sopportare un
grande peso.
A tale vista, i due compagni del cavaliere sono presi da grande sconforto, anche
perché credono di scorgere due leoni o due leopardi legati a un masso all’altro ca- 15
po del ponte. L’acqua, il ponte e i leoni li gettano in un tale timore che tremano
di paura da capo a piedi e dicono: «Signore, seguite il consiglio che vi è suggerito
da quanto vedete: ne avete grande bisogno e necessità. Questo ponte è stato lavo-
rato, tagliato e congiunto con malvagità. Se non tornerete subito sui vostri passi,
ve ne pentirete troppo tardi. In molti casi, prima di agire si deve ponderare a lun- 20
go. Immaginiamo pure che siate passato dall’altra parte, e questo non potrebbe av-
venire in alcun modo, non più di quanto possiate trattenere i venti e impedire lo-
ro di spirare, o agli uccelli di cantare, o far sì che non osino più levare le loro vo-
ci; ovvero più di quanto sia concesso a un uomo di rientrare nel ventre della ma-
dre e nascere una seconda volta: tutto ciò sarebbe impossibile, come non si po- 25
trebbe mai vuotare il mare. Potete tuttavia supporre e credere che quei due leoni
infuriati, incatenati dall’altra parte del ponte, non vi uccideranno e non vi suc-
chieranno il sangue dalle vene, e non mangeranno la vostra carne, per poi rosic-
chiarvi le ossa? Già sono troppo ardito, io che li fisso negli occhi e li guardo! Sap-
piate per certo che, se non agirete con prudenza, essi vi uccideranno, e in un 30
istante vi strapperanno e vi spezzeranno ogni membro del corpo: invero, non
avranno pietà. Abbiate compassione di voi stesso, e restate con noi. Commettere-
ste un torto verso la vostra stessa persona, se vi metteste consapevolmente in simi-
le pericolo di morte».
«Signori» risponde l’altro ridendo «vi ringrazio molto per la pena che mostra- 35
te nei miei confronti, e che di certo è dovuta ad affetto e a generosità. So bene
che non vorreste in alcun modo la mia sventura, ma la fede e la fiducia che ri-
pongo in Dio sono sì grandi che credo che mi proteggeranno da ogni male. Per-
ciò non temo né l’acqua né il ponte, più di quanto abbia paura della terraferma.
Voglio anzi rischiare l’avventura e prepararmi a passare dall’altra parte. Preferisco 40
morire piuttosto che tornare indietro».
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.5
Gli altri non sanno cosa dire, ma entrambi piangono e sospirano forte per la
compassione.
Il cavaliere si prepara meglio che può a superare l’abisso e compie un gesto dav-
vero singolare: si toglie dalle mani e dai piedi l’armatura che li ricopriva. Non giun- 45
gerà certo dall’altra parte intero e senza danni! Ma si sarà tenuto ben saldo sulla spa-
da più tagliente di una falce, a mani nude e scalzo, poiché sui piedi non ha lasciato
né calzari, né calze e nemmeno le piastre di armatura atte a proteggerne il collo.
Non si prende cura di ferirsi le mani e i piedi: preferisce storpiarsi, piuttosto
che cadere dal ponte e bagnarsi in quell’acqua da cui non uscirebbe mai più. 50
Passa dall’altra parte con grandi affanni e dolori; si piaga le mani, le ginocchia e
i piedi, ma tutto lo riconforta e lo risana Amore, che lo guida e lo accompagna, sì
che soffrire gli è dolce. Aiutandosi con le mani, con i piedi e con le ginocchia,
riesce infine a superare il ponte.
Allora gli torna alla mente il ricordo dei due leoni che credeva di aver veduto 55
quando si trovava sull’altra sponda; guarda, ma non c’è nemmeno una lucertola, né
altra cosa che gli possa recare danno. Si pone la mano davanti al viso, fissa l’anello, e
poiché non scorge alcuno dei due leoni che gli sembrava di avere veduti, ha la pro-
va che è stato ingannato da un incantamento: là non c’è alcuna creatura vivente.
I suoi compagni, rimasti sull’altra riva, vedono che è passato e se ne rallegrano 60
come devono, ma non sanno nulla delle piaghe che si è inflitto.
Eppure il cavaliere considera di aver fatto un buon baratto a non aver sofferto
danni maggiori.
Guida all’analisi
Nel regno dei morti Giunto al Ponte della Spada, Lancillotto si trova dinanzi a un fiume dalle rapide scure e
minacciose, che il narratore non esita a paragonare alle acque dell’Acheronte (r. 5). Lo stesso
paese che Lancillotto sta attraversando, «il regno da dove non si torna», è un’inquietante me-
tafora del regno dei morti. Non a caso il cavaliere, in un episodio precedente, era giunto a
uno spettrale monastero, all’interno del quale si trovavano le tombe, ancora vuote, dei cava-
lieri di re Artù. Fra queste, Lancillotto aveva scorto una tomba più grande delle altre, coper-
ta da una pesante lastra di pietra con sopra incise queste parole: «Colui che solleverà questa
lastra da solo e con le proprie mani, libererà quanti sono prigionieri nella terra da cui nessu-
no, né chierico né gentiluomo, è mai uscito dopo che vi era penetrato». Lancillotto solleva la
lastra fra lo stupore dei presenti: non era difficile, per un lettore dell’epoca, riconoscere in lui
una figura di Cristo, che aveva trionfato sulla morte osando scendere fin nelle tenebre del-
l’inferno per liberare l’uomo dalle tenebre del peccato. Chrétien, tuttavia, non insiste più di
tanto su questa via, lasciando implicito e indefinito il simbolismo della vicenda.
Le prove L’ardimento di Lancillotto non potrebbe tuttavia essere spiegato senza questa fede asso-
luta (la fede in Cristo che può spostare le montagne) riposta nel suo cuore: di fronte allo
sconforto e al terrore dei suoi due compagni, affranti alla vista del fiume e del ponte, egli ri-
sponde «ridendo» (r. 35). Intraprende dunque un’impresa che i compagni considerano im-
possibile; perciò, per dissuaderlo dal tentativo, ricorrono a una serie di adùnata (cioè di “co-
se impossibili”, rr. 21-26): non si può attraversare il ponte come non si può impedire che gli
uccelli cantino, i venti soffino eccetera. Pur ferendosi gravemente alle mani e alle giunture,
Lancillotto giunge invece all’altro capo del ponte, dove scopre che i leoni erano soltanto un
incantesimo maligno, l’ennesima prova a cui era stata sottoposta la sua fede.
La vera forza è Amore Quello che consente a Lancillotto di sprezzare ogni pericolo e di affrontare temeraria-
mente ogni avventura, uscendone sempre vincitore, è «Amore, che lo guida e lo accompa-
gna» (r. 53). Nelle pagine successive, egli giunge a una torre dove Meleagant tiene prigio-
niera Ginevra, e durante il duello con il suo avversario sembra avere la peggio. Ma alla vista
dell’amata, Lancillotto, nonostante le ferite e la debolezza, ribalta le sorti del combattimento.
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Duecento e Trecento
pianto. Allora un vecchio le dice: «Bella signora, così m’aiuti Iddio, noi abbiamo
un dolore così grande che mai gente ne ebbe maggiore. [1790] Morto è Tristano,
il nobile, il prode: era di conforto a tutti quelli del regno. Era liberale coi biso- 40
gnosi, di grande aiuto ai sofferenti. Di una ferita che il suo corpo ebbe è morto,
proprio ora, nel suo letto. Mai non toccò a questa regione così grande sventura».
Appena Isotta ode la novella, [1800] non può dir parola dallo strazio. Così ad-
dolorata è della sua morte, che va discinta per la via dinanzi agli altri al palazzo.
Mai Bretoni videro donna della sua bellezza; stupiti si chiedono per la città onde 45
venga, chi sia. Isotta va, là dove vede il corpo, e si volge verso oriente, [1810] pre-
ga piamente per lui: «Amico Tristano, poiché vi vedo morto, è giusto che non
possa vivere oltre. Morto siete per il mio amore, e io, amico, muoio di tenerezza,
perché non potei venire a tempo per guarire voi e il vostro male. Amico, amico,
per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, gioia, né allegrezza, né alcun 50
piacere. [1820] Maledetta sia quella tempesta che in mare mi fece tanto indugiare
che io non potei venire! Se io fossi venuta a tempo, amico, vi avrei ridata la vita e
parlato dolcemente dell’amore che è stato fra noi; avrei rimpianto la mia sorte, la
nostra gioia, il nostro piacere, la pena e il grande dolore [1830] che è stato nel no-
stro amore, e questo avrei ricordato e voi baciato e abbracciato. Se io non posso 55
guarirvi, possiamo dunque insieme morire! Poiché non potei e non ebbi la sorte
di venire a tempo, e sono venuta alla morte, avrò conforto della stessa bevanda.
[1840] Per me avete perduta la vita, e io farò come verace amica: per voi voglio
egualmente morire».
L’abbraccia, e si distende, bacia la bocca e la faccia e molto stretto a sé lo strin- 60
ge, si stende corpo contro corpo, bocca contro bocca, e allora rende lo spirito, e
muore così a fianco a lui per il dolore del suo amico. [1850] Tristano è morto per
il suo desiderio, Isotta, perché non poté venire a tempo. Tristano è morto del suo
amore, e la bella Isotta, di tenerezza.
Guida all’analisi
Struttura e caratteri del brano Possiamo dividere il brano in quattro sequenze, di forte impatto scenografico e
di straordinaria intensità emotiva. La prima e la seconda si bilanciano nella prospettiva, op-
posta, dei due amanti, accomunati dal reciproco desiderio di incontrarsi: dopo un tratto di
navigazione agile e veloce, Isotta è trattenuta dalla bonaccia dinanzi alle coste di Bretagna,
dove è impaziente di approdare (rr. 1-15); a terra, nella sua stanza, Tristano si lamenta e sof-
fre nell’attesa, lasciandosi poi morire di dolore alle parole ingannatrici della moglie (rr. 16-
31). Le ultime due sequenze sono centrate sulla figura di Isotta. Dapprima lo scenario è
quello, luttuoso e desolato, delle vie cittadine, dove la donna, fra rintocchi di campane e ri-
suonare di pianti, apprende la notizia della morte dell’amato e corre «discinta» e come paz-
za (immagine tradizionale delle eroine appassionate) alla casa di Tristano (rr. 32-44). L’ultima
sequenza è certo la più patetica, ed è caratterizzata, rispetto alla precedente, da un movi-
mento più lento e interiorizzato: dopo aver pianto lo sventurato destino di Tristano, Isotta
decide di lasciarsi anch’ella morire (rr. 45-64).
Il monologo di Isotta bilancia, sul piano strutturale, quello di Tristano. Il narratore de-
scrive i sentimenti e i gesti dei due tragici amanti con molta finezza: Tristano si gira verso il
muro (quasi a occultare il suo dolore); Isotta si volge verso Oriente (là dove sorge il sole,
simbolo di vita e di speranza). Il linguaggio è scelto e cortese: si veda, ad esempio, come
Isotta annunci la propria risoluzione di morte dicendo di voler bere la stessa bevanda di Tri-
stano. Ma la metafora (bevanda = morte) si carica di un senso tragico e fatale nell’allusione
al filtro d’amore da cui aveva avuto origine la storia dei due sventurati amanti.
I versi conclusivi vogliono ribadire l’esito della vicenda: Tristano è morto per il desiderio
di Isotta; Isotta per la tenerezza verso l’amante. I protagonisti sono delineati secondo il co-
dice cortese dell’epoca: Tristano viene descritto (nelle parole dei sudditi) come un cavaliere
giusto e gentile, Isotta come una donna di grande bellezza e di veemente passione.
Echi classici: la storia di Piramo e Tisbe La letteratura greco-latina offriva molti esempi di tragiche vicende
amorose, per lo più centrate su figure di eroine: la più nota era quella di Didone, la regina di
Cartagine che nel racconto virgiliano decideva di darsi la morte dopo essere stata abbando-
nata da Enea. Il precedente più significativo, per la storia di Tristano e Isotta, è tuttavia la vi-
cenda di Piramo e Tisbe, narrata dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 55-166).
Piramo e Tisbe sono due giovani babilonesi che si amano ardentemente ma non posso-
no sposarsi a causa della reciproca ostilità delle famiglie.Vivendo in due case contigue, rie-
scono tuttavia a parlarsi grazie a una fessura in un muro divisorio. Decidono infine di fug-
gire di casa, dandosi appuntamento per la notte presso il sepolcro di re Nino, appena fuori
città. Giunge per prima Tisbe, che è costretta però a fuggire alla vista di una leonessa. Du-
rante la fuga, la fanciulla lascia inavvertitamente cadere un velo, che il leone sporca del san-
gue di una precedente vittima. Quando Piramo giunge, e scorge il velo insanguinato, e le
orme ancora fresche della belva, credendo che Tisbe sia morta, si trafigge per il dolore.
Riappare la fanciulla, che fa appena in tempo a raccogliere l’ultimo respiro dell’amato, tra-
figgendosi infine «sulla lama ancora calda del sangue» di Piramo. Questa la vicenda narrata
da Ovidio, fondata anch’essa su un amore appassionato e irresistibile, che si conclude tragi-
camente, per un equivoco fatale, con la morte di entrambi gli amanti (come nel Romeo e
Giulietta di Shakespeare).
Echi classici: la storia di Teseo e di Egeo Il motivo della vela bianca o nera, che gioca un ruolo decisivo nella
conclusione del romanzo di Tristano e Isotta, richiama invece la vicenda mitica dell’eroe
ateniese Teseo. Gli abitanti di Atene erano da tempo costretti a pagare un tributo umano al
re di Creta Minosse e al mostruoso Minotauro, al quale ogni anno (secondo le varianti del
mito ogni tre anni, opppure ogni nove anni) erano destinati sette giovani e altrettante fan-
ciulle, che il mostro antropofago divorava. Teseo si offrì di uccidere il mostro: alla partenza, il
padre Egeo gli diede due vele, una bianca e una nera, che la nave di Teseo avrebbe dovuto
issare nel viaggio di ritorno: quella bianca avrebbe annunciato il successo dell’impresa; quel-
la nera la sconfitta e la morte dell’eroe. Teseo riuscì ad uccidere il Minotauro grazie all’aiu-
to di Arianna, la figlia di Minosse che si era innamorata di lui. Ma al ritorno (seguiamo il
racconto di Plutarco), «per la grande gioia né lui [Teseo] né il pilota si ricordarono di issare
la vela con cui erano d’accordo di segnalare da lontano ad Egeo ch’erano salvi. Il re vide
spuntare la vela nera; preso dalla disperazione, si gettò dalla scogliera, rimanendo sfracellato»
(Teseo 22). Da quel giorno il mare Egeo ebbe il suo nome.
Laboratorio 1 Confronta i passi del ciclo carolingio con rici e narrativi che hai letto, definisci il
COMPRENSIONE quelli del ciclo bretone che hai letto, sof- concetto di cortesia e il rapporto che tali
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE fermandoti in particolare sulla diversità: testi istituiscono con il mondo aristocra-
– dei temi; tico feudale.
– degli scenari narrativi; 3 Delinea l’immagine della donna quale ri-
– degli eroi protagonisti. sulta dai testi di questo capitolo, sia lirici
2 Facendo concreto riferimento ai testi li- che narrativi.
VERIFICA
1 Indica i tratti distintivi del genere epico così come si è sviluppato dal mondo classico a
quello medievale.
2 Che cosa sono le chansons de geste? In quale epoca si diffusero? In che rapporto sono que-
ste opere con la realtà storica contemporanea?
3 Racconta in sintesi la vicenda della Chanson de Roland: qual è il nucleo storico da cui sorse
la leggenda narrata? Perché essa rende la forma di un grande conflitto religioso fra mondo
arabo e mondo cristiano?
4 Individua i caratteri precipui della figura di Orlando: perché diciamo che essa deve molto
alle vite dei santi? Quali sono gli altri personaggi, positivi e negativi, del poema?
5 Sulla base dei testi antologici, indica le tecniche narrative predominanti nella Chanson de
Roland.
6 Che cosa intendiamo con espressioni come «età cortese», «amor cortese», «virtù cortesi»?
7 Individua i tratti più caratteristici dell’amor cortese, spiegando in particolare i seguenti
termini: «servizio d’amore», «fin’amor», «midons». Illustra, inoltre, il rapporto che viene a
istituirsi fra il codice feudale e il codice dell’amor cortese.
8 Quali sono i precetti fondamentali dell’amor cortese esposti nel trattato De amore di An-
drea Cappellano? In particolare: come viene interpretato il matrimonio nella prospettiva
dell’amor cortese?
9 Chi sono i trovatori? In quale contesto storico si muovono? Qual è la loro estrazione so-
ciale?
10 Illustra i temi e i motivi predominanti della poesia provenzale.
11 Spiega, possibilmente con riferimenti concreti alle letture fatte, i seguenti termini: vida, ra-
zo, trobar leu, trobar clus, alba, pastorella, canzone di crociata, tenzone, planh, plazer.
12 Distingui fra materia classica e materia bretone, illustrando i caratteri fondamentali dei due
cicli.
13 Indica i titoli dei cinque romanzi arturiani scritti da Chrétien de Troyes. Sapresti indicare i
temi fondamentali della narrativa in versi di Chrétien?
14 Che cosa si intende con il termine queste? In quali cicli narrativi esso compare?
15 Esponi la vicenda di Tristano e Isotta. Perché viene definita una storia di amore e morte?
Siciliani e Siculo-toscani
6
n Pagina illustrata dal codi-
ce De arte venandi cum avi-
bus (L’arte della caccia con
gli uccelli) del 1258-1266.
Alla corte di Federico II di Svevia, imperatore e re scuola si esaurisce entro il 1266, seguendo le sorti
di Sicilia, si sviluppa la prima scuola poetica in volga- della potenza sveva nell’Italia meridionale.
re italiano con intenti propriamente artistici. I rimatori Rispetto ai modelli provenzali i Siciliani, che ope-
siciliani sono in prevalenza funzionari di corte alle di- rano in una cerchia omogenea ed esclusiva, entro una
rette dipendenze del sovrano, impegnato fra il 1220 e struttura statale fortemente accentrata – dunque in
il 1250 (anno della sua morte) in un ambizioso pro- un ambiente assai diverso da quello feudale-cortese,
getto di accentramento politico e insieme nella pro- terreno di coltura della lirica occitanica – procedono a
mozione di una straordinaria fioritura culturale (la co- una drastica riduzione tematica, assumendo ad argo-
siddetta “rinascenza meridionale”). La produzione dei mento unico della loro poesia l’amor cortese. Dal
Siciliani si configura come un’esperienza poetica raf- punto di vista stilistico-formale, si mostrano per lo più
finata ed elitaria, di impronta laica, che si ispira alla orientati verso un elegante trobar leu, rifuggendo dal
lirica provenzale ma ne rielabora i prestigiosi modelli virtuosismo sperimentale e dall’asprezza del trobar
in una nuova lingua d’arte, aulica e sovramunicipale, clus. Si definiscono tre generi metrico-tematici fon-
il “siciliano illustre”. Iniziatore del movimento e capo- damentali: la canzone, destinata alle prove di più alto
scuola riconosciuto è il Notaro Giacomo da Lentini, impegno concettuale e retorico; la canzonetta, dove
attivo a partire dagli anni 1233-34; tra le personalità trovano spazio tonalità più cantabili e uno stile me-
poetiche più notevoli si possono ricordare Guido delle diano; il sonetto, impiegato fra l’altro nel dibattito
Colonne, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Ri- dottrinale (le “tenzoni” poetiche). Si registra inoltre un
naldo d’Aquino e Giacomino Pugliese. L’attività della “divorzio” della poesia dalla musica.
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106
6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA
maggiori esponenti:
Giacomo da Lentini (caposcuola)
Guido delle Colonne
Pier della Vigna inedite figure di giuristi-poeti,
Stefano Protonotaro funzionari di corte
Rinaldo d’Aquino
Giacomino Pugliese
La scuola siciliana
generi metrico-tematici:
canzone
canzonetta
sonetto
me Michele Scoto, astrologo di corte che proviene dalla scuola di Toledo, grande cen-
tro di traduzioni dalla lingua araba. Se non vi fu una capitale, fiorirono nelle città del
regno, sia in Sicilia (soprattutto a Messina e Palermo), sia sul continente, grandi centri
di cultura, dando vita a quella che si suole definire «rinascenza meridionale».
In questo clima di straordinario fervore intellettuale, accanto a una nuova cospicua
fioritura di letteratura latina, in versi e in prosa, e di poesia greco-bizantina, si inserisce
quella che resta la realizzazione più significativa, in campo letterario, della stagione fe-
dericiana: l’esperienza poetica in volgare dei rimatori siciliani.
Inizi e cronologia della scuola Anche se l’imperatore Federico, poeta egli stesso, verosimilmente non
fu l’effettivo iniziatore della produzione poetica della scuola, certo al suo impulso – e
forse a sue precise direttive – si deve l’avvio di questa originale esperienza di trasposi-
zione in volgare siciliano della lirica trobadorica.
Un’operazione perfettamente coerente con l’indirizzo della politica culturale di
corte, in quanto ripresa di un prestigioso modello di poesia laica, dotta e raffinata, se-
gno di riconoscimento di una società aristocratica ed esclusiva, in una lingua poetica
“indigena”, priva di precedenti letterari ma al tempo stesso aulica e sovramunicipale
(non-dialettale), così da rendere inequivocabilmente palese la fondazione di una tradi-
zione lirica inedita e autonoma, svincolata dal particolarismo feudale e dal municipa-
lismo (l’occitanico era la lingua dei trovatori operanti nelle città e nelle corti del
Nord Italia, politicamente ostili al progetto imperiale) e dunque idonea a rappresenta-
re degnamente la nuova realtà dello stato federiciano. Avrà avuto un certo peso anche
l’esempio recente del Minnesang germanico, che, non a caso, proprio durante l’impero
di Federico II attraversa il suo momento di maggior splendore.
Alle origini del movimento, peraltro, si avverte l’impronta di una forte e creativa
personalità di poeta, con ogni probabilità il Notaro Giacomo da Lentini, cui si rico-
nosce concordemente la statura e il ruolo di caposcuola. La lirica dei Siciliani, assai
povera di riferimenti “esterni” (eventi, date, personaggi storici), offre scarsissimi e insi-
curi appigli ai tentativi di determinarne la cronologia; ma i pochi dati accertati indur-
rebbero a situare intorno al 1233-1234 gli inizi della scuola, che esaurisce la sua più
rigogliosa fioritura nell’arco breve di circa un ventennio. I poeti siciliani più tardi sono
perciò coevi ai Toscani della prima generazione, a Bonagiunta e al giovane Guittone.
Il giudizio di Dante Già Dante, cui si deve la prima sistemazione storico-critica della produzione liri-
ca in volgare italiano, ritenuta ancor oggi valida nelle sue linee fondamentali, acuta-
mente individuava il legame tra le condizioni politico-culturali create nel regno meri-
dionale dagli ultimi sovrani svevi e le realizzazioni poetiche dei rimatori di corte, ad-
ditando nell’attività della scuola la fase iniziale e determinante di una tradizione in cui
pienamente si riconosceva.
Il “trapianto” dell’esperienza lirica occitanica La lirica siciliana si sviluppa dunque nel cuore di
una struttura statale fortemente accentrata, dominata dalla personalità d’eccezione del
sovrano, entro la cerchia omogenea, compatta ed esclusiva di un’unica corte, ad opera
non già di poeti professionisti, com’erano per la maggior parte i trovatori di Provenza,
ma di raffinati dilettanti, prioritariamente dediti alle loro alte incombenze di funzio-
nari statali, che coltivano la poesia come attività “separata” e al tempo stesso integrata
in un organico progetto politico. Il “trapianto” dell’esperienza lirica occitanica avvie-
ne pertanto in un ambiente sociale e culturale assai diverso da quello di origine, feu-
dale e cortese, variegato e policentrico; questo rende ragione delle differenze, anche
notevoli, che si possono cogliere fra la produzione dei Siciliani e i modelli provenzali.
Il rapporto con i modelli provenzali: riduzione e innovazione tematica Rispetto al più ampio
ventaglio tematico della produzione occitanica, i rimatori siciliani procedono a una
drastica selezione, assumendo ad argomento unico ed esclusivo del loro canto l’amor
cortese, con il suo tradizionale repertorio di motivi, atteggiamenti e situazioni codifi-
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Duecento e Trecento
cate. Di qui l’assenza pressoché totale di riferimenti alla cronaca e alla storia contem-
poranea, di cui si avvertono soltanto risonanze indirette e remote; di qui l’astensione
dalla propaganda e dagli interventi nelle contese politiche di un’epoca pur agitata da
aspri e drammatici conflitti, che trovano invece un’eco appassionata nelle voci disso-
nanti dei loro colleghi provenzali del Nord.
La tendenza a recidere qualsiasi legame con le occasioni contingenti si riflette an-
che nella trattazione del tema amoroso: non è certo un caso che per i Siciliani non sia
mai stata tentata la costruzione di “leggende biografiche”, ricavate dall’opera poetica,
come è accaduto invece per le vidas provenzali [R T 5.4 Doc 5.5 ]. La concezione feudale e
cortese della fin’amor come “servizio d’amore” esemplato analogicamente sull’omag-
gio del vassallo al suo signore, viene recepita nella Sicilia federiciana in quanto feno-
meno essenzialmente artistico, un mito (e un codice) letterario che non trova preciso
riscontro nella realtà sociale e nel costume di corte, e che perciò si rende disponibile a
rielaborazioni e sviluppi almeno parzialmente originali. Così, accanto a imitazioni più
ravvicinate e convenzionali dei modelli, l’interesse si concentra soprattutto sulla feno-
menologia e l’essenza ontologica d’Amore; l’esperienza amorosa si interiorizza nella
contemplazione-espressione di complessi movimenti psicologici, con uno spostamen-
to del centro lirico dall’oggetto d’amore al soggetto, come accade esemplarmente nel-
la poesia di Giacomo da Lentini [R T 6.1 ].
Le scelte formali Dal punto di vista stilistico, i rimatori federiciani si mostrano per lo più orientati,
soprattutto nella fase iniziale, verso un elegante trobar leu, rifuggendo dal virtuosismo
sperimentale e dall’asperitas, dai moduli espressivi ardui ed ermetici, insomma dalla li-
nea “espressionistica” e “difficile” della poesia trobadorica. Sebbene, com’è ovvio, nel-
la produzione della scuola si distinguano chiaramente maniere, voci e filoni diversi, si
può parlare, nel complesso, della ricerca di un raffinato stile “unitonale”: il linguaggio
poetico, aristocratico e selezionato, altamente convenzionale, si tiene lontano dagli
estremi, con una tendenza, se mai, verso l’alto e verso l’astratto.
Il divorzio dalla musica La redazione dei testi lirici provenzali, destinati alla recitazione e al canto, era
intrinsecamente e originariamente legata alla componente musicale, anche se non
sempre i poeti provvedevano personalmente ad elaborarne la notazione. I trovatori in-
sistono di continuo sull’esigenza di armonizzare le parole e i suoni (motz e sos). Per
contro, mancano esplicite indicazioni di tal genere nei Siciliani; certo, questi ultimi al-
ludono con grande frequenza alla loro poesia con i termini «canto» e «cantare»
[R T 6.1 ; R T 6.3 ], che però sono da intendere in accezione metaforica. Non è perve-
nuto nei codici alcun esempio di notazione melodica, né risulta documentata l’esecu-
zione musicale dei testi. I rimatori della Magna Curia sono dunque poeti-scrittori e
non poeti-cantori; se pure, com’è certo, i loro testi – in sé concepiti per la lettura – so-
no stati talora rivestiti di note e cantati, si tratta comunque di uno sviluppo successivo,
distinto dal momento della creazione poetica.
Un caposcuola: Giacomo da Lentini La raffinata ed eclettica esperienza poetica di Giacomo da Len-
tini, detto per antonomasia il «Notaro», appare determinante, sia sul piano tematico che
tecnico-retorico, per gli sviluppi della produzione siciliana e della successiva produzio-
ne lirica in volgare italiano. Il primato di Giacomo, attestato dalla posizione privilegia-
ta riservata ai suoi testi negli antichi canzonieri toscani, è confermato dal riconosci-
mento del suo ruolo di caposcuola in un celebre passo del Purgatorio dantesco (XXIV,
56), ma soprattutto dalle inequivocabili, fittissime riprese di motivi, stilemi, forme me-
trico-strofiche del suo repertorio nei poeti posteriori, siciliani e toscani. Di lui ci resta-
no trentotto componimenti, in cui saggia si può dire tutte le potenzialità contenutisti-
che e formali che si realizzano in seguito nell’intera produzione poetica della scuola.
Tre generi metrico-tematici: la canzone Nel canzoniere di Giacomo, infatti, risultano già ben defi-
niti i tre generi metrico-tematici fondamentali della poesia siciliana: la canzone, la
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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA
canzonetta e il sonetto. La forma della canzone è riservata alle prove più alte e impe-
gnative nell’espressione lirica dell’amor cortese, sia dal punto di vista dell’elaborazione
retorica e stilistica, sia della complessità metrica, concettuale e sintattica [R T 6.3 ]. I
canzonieri più antichi e autorevoli concordano nell’assegnarle una posizione privile-
giata; ma sarà Dante nel De vulgari eloquentia a teorizzare il primato della canzone qua-
le forma più illustre della nostra lirica d’arte.
La canzonetta La canzonetta ripropone lo schema di base della canzone in una versione “allegge-
rita”, caratterizzata dall’impiego di versi brevi (per lo più settenari [R T 6.1 ], mai co-
munque eccedenti la misura dell’ottonario), da strutture metriche meno complesse, da
movenze sintattiche agili e piane, da un andamento ritmico più “facile” e melodico; è
la forma che meglio si presta alle realizzazioni poetiche di stile medio, in ogni caso
meno elevato rispetto alla canzone, con interessanti sviluppi in direzione dialogica e
narrativa e aperture all’inserzione di spunti popolareggianti, anche se non si registra
mai un effettivo distacco da modi espressivi alti e “cortesi”.
Il sonetto Il sonetto, quasi certamente un’invenzione di Giacomo da Lentini, è una forma
nuova e originale, destinata, come si sa, ad eccezionale fortuna in Italia e nelle lettera-
ture europee. Fra le varie ipotesi formulate nell’intento di ricostruirne la genesi, la più
accreditata è quella che fa derivare il sonetto dalla stanza di canzone, di cui presenta la
struttura bipartita in fronte (le quartine) e sirma (le terzine), secondo il modello delle
coblas esparsas (o stanze isolate) dei trovatori provenzali. Si tratta – ed è questo l’ele-
mento più innovativo – di una forma chiusa e fissa, cui fa riscontro una certa mobilità
tematica: presso i nostri primi lirici si trovano in maggior numero sonetti amorosi, ma
anche, talvolta, d’argomento religioso e morale; in particolare, la forma-sonetto è im-
piegata per il dibattito teorico e dottrinale nella corrispondenza poetica, secondo i
modi della «tenzone» a più voci [R T 6.2 ].
Le esperienze poetiche dei rimatori siciliani La denominazione tradizionale di “Siciliani”, un tem-
po estesa ai primi imitatori toscani, oggi «vale a designare i rimatori, di qualsiasi re-
gione italiana», che appartennero alla corte sveva di Sicilia «o le gravitarono attorno»
(Contini). Agli isolani, fra cui Giacomo da Lentini e il folto gruppo dei messinesi
(Guido delle Colonne, Tommaso di Sasso, Stefano Protonotaro, Mazzeo di Ricco), si
affiancano i “continentali”: Rinaldo d’Aquino, Pier della Vigna capuano, Giacomino
Pugliese, fino al nobile genovese Percivalle Doria (morto nel 1264), vicario di Man-
fredi in Romagna e nella Marca Anconitana, che fu poeta bilingue, in siciliano e in
provenzale. Poeti furono anche membri della casa imperiale, Federico II e suo figlio re
Enzo (così detto poiché ebbe dal padre il titolo di re di Sardegna).
Non è facile tracciare una cronologia interna della scuola data la scarsità delle atte-
stazioni documentarie, né isolare le singole personalità poetiche, data la forte impron-
ta unitaria di scuola. Sembra invece opportuno, per tracciare quanto meno alcune li-
nee di demarcazione fra le varie esperienze individuali, concentrarsi sulla prosecuzio-
ne dei due filoni che si dipartono dal canzoniere di Giacomo da Lentini. Possiamo co-
sì distinguere un filone aulico e illustre (o “tragico”), che trova la sua forma espressiva
di elezione nella canzone, coltivato soprattutto da Guido delle Colonne [R T 6.3 ], da
Al quarto decennio del secolo XIII risalgono i documenti d’archivio che attestano l’attività
pubblica del notaio Giacomo da Lentini, funzionario della corte imperiale di Federico II; è il so-
vrano stesso a dichiarare due privilegi del 1233 redatti «per manus Iacobi de Lentino, notarii et
fidelis nostri [per mano di Giacomo da Lentini, notaio e nostro fedele]»; un atto messinese del
1240 reca la firma del teste «Iacobus de Lentino domini Imperatoris notarius». Agli stessi anni si
ritiene di dover circoscrivere anche la sua attività letteraria, che sembra dunque coincidere con
gli inizi e con la fase di massima fioritura della scuola poetica siciliana.
Pier della Vigna, il grande retore, e dal più tardo Stefano Protonotaro (attestato nel
1261), rimatori dalla cifra stilistica alta, ricercata e preziosa; e un filone più “leggero”,
talora colloquiale, “oggettivo” e popolareggiante, caratterizzato da uno stile mediano e
aperto a soluzioni assai varie (lamenti, contrasti dialogati, rappresentazioni più mosse,
vivaci e colorite), che appare particolarmente congeniale a poeti quali Rinaldo d’A-
quino e Giacomino Pugliese (peraltro attivi entrambi anche sul versante aulico).
Il Contrasto di Cielo d’Alcamo L’esito più splendido di questo filone popolareggiante o “mediocre” è
rappresentato tuttavia dal contrasto Rosa fresca aulentissima [R T 6.4 ], citato da Dante;
un componimento non lirico, per molti aspetti problematico e persino misterioso, che,
se da una parte si differenzia nettamente dai testi dei poeti di corte, dall’altra consente
significativi agganci con la produzione della scuola, in cui sono già presenti, come si è
detto, svariati componimenti dialogici.
Tramandato insieme ai testi dei rimatori siciliani senza indicazione d’autore, il
componimento fu attribuito a un Cielo d’Alcamo soltanto nel XVI secolo. A lungo
creduto un testo autenticamente popolare e più antico (De Sanctis apre la sua Storia
della letteratura italiana proprio con il Contrasto di Cielo), oggi, in virtù della raffinata
organizzazione metrica e formale, lo si ritiene opera di un autore certamente colto,
che impiegando con perfetta consapevolezza artistica la tecnica giullaresca «distingue e
contrappone ad arte, con intenti satirici e parodistici, la sfera aulica preziosa e quella
idiomatico-popolaresca, fermando nel dualismo delle battute due indimenticabili con-
tendenti amorosi» (Quaglio).
Tradizione manoscritta e “toscaneggiamento” dei testi Dei rimatori siciliani ci sono pervenuti
poco più di 150 componimenti, una trentina dei quali anonimi, i restanti suddivisi
(non senza ardue questioni di attribuzione) fra venticinque autori, molti dei quali
rappresentati da un solo testo. Si tratta di un corpus più ristretto di quello originale,
in quanto fin dal Duecento i testi furono dispersi in antologie collettive; per la stes-
sa ragione risulta pressoché impossibile ricostruirne l’ordinamento cronologico. Inol-
tre, per la più gran parte, i componimenti ci sono pervenuti non nella veste lingui-
stica originaria, ma in una redazione modificata dall’intervento di copisti toscani, che
già nella seconda metà del XIII secolo adattarono i tratti fonomorfologici degli ori-
ginali al proprio idioma mediante una capillare operazione di “toscaneggiamento”.
Fisionomia linguistica originaria: il siciliano illustre I testi vennero originariamente redatti in un
siciliano “illustre”, cioè un volgare siciliano depurato dai tratti dialettali e idiomatici
più vistosi: una nuova lingua d’arte, composita e letterariamente elaborata, modellata
sul provenzale e sul latino, onde renderla idonea ad accogliere i temi della poesia tro-
badorica e ad esprimerli con adeguata raffinatezza metrico-stilistica e retorica.
La “sicilianità” linguistica originaria è stata riconosciuta dagli studiosi in base a
svariati indizi di carattere morfosintattico e lessicale, ma in particolare attraverso l’a-
nalisi delle rime. I testi, nella veste offerta dai canzonieri toscani, presentano infatti
un gran numero di rime imperfette, rigorosamente escluse nel sistema metrico pro-
venzale, quali ogn’ora : pintura [R T 6.1 ], piacere : audire, aulitosa : usa [R T 6.3 ], che era-
no invece perfette negli originali (ogn’ura : pintura; piaciri : audiri; aulitusa : usa). Rime,
▍ L’autore Guido delle Colonne
Nulla sappiamo della biografia privata del giudice messinese Guido delle Colonne, mentre è docu-
mentata fra il 1243 e il 1280 la sua pubblica attività di funzionario del Regno di Sicilia, il che in-
duce a fissare la data di nascita intorno al 1210. L’esperienza poetica di Guido, consegnata a un esi-
guo canzoniere di cinque componimenti soltanto, si colloca verosimilmente fra il 1240 e il 1250,
coeva dunque, o meglio di poco posteriore a quella di Giacomo da Lentini. Appare infatti scarsa-
mente fondata l’assegnazione di Guido alla cosiddetta ‘seconda generazione’ dei rimatori siciliani,
proposta da alcuni studiosi; assai più convincente la sua «ascrizione al gruppo antico» (Contini).
È questa la prima stanza della canzone di Stefano Protonotaro, il solo testo dei Siciliani
a noi pervenuto integro nella veste linguistica presumibilmente originale, prezioso docu-
mento di quel linguaggio poetico “illustre”, non dialettale, che tuttavia conserva le carat-
teristiche fonetiche della lingua siciliana di base. La lirica, esempio di stile aulico e som-
mamente elaborato, si apre sul ben noto motivo trobadorico del “canto per amore”, de-
rivato soprattutto da Bernart de Ventadorn (R T 6.3 , note ai vv. 34-36).
Nota metrica ascondete : vedrite). 10-12 In cor... di fore: 21 voi simigliante: somi- copre, allora lì (loco) arde di
Canzonetta di tutti sette- sembra proprio che io vi gliante a voi. più e non può stare chiuso,
nari, disposti in sette stan- 1 Meravigliosamente: porti nel mio cuore, dipinta 22 vio: vedo. nascosto.
ze di nove versi ciascuna, con intensità tale da destare come realmente apparite, 24 v’aggia avante: vi ab- 39 risguardare: guardare
costituite da una fronte di stupore. eppure ciò non appare all’e- bia qui, davanti a me. di nuovo.
due piedi identici e da una 2 distringe: stringe, lega. sterno. 27 ancor... inante: sebbe- 42 ancosciare: respirare
sirma indivisa concatena- 4-6 Com’om... pintura: 13 co’... forte: come mi ne non veda davanti a sé con affanno, singhiozzare;
ta alla fronte dalla rima fi- come un uomo (un pittore) pare duro, crudele. (quello in cui crede, l’ogget- così nel v. successivo.
nale, secondo lo schema che osserva con attenzione 15 con’: come. to della sua fede). 43 bene: così tanto.
abc abc ddc. Sono siciliane un modello (altro exemplo) 17 ca pur... ascoso: che vi 28 doglia: dolore. 44 a pena mi conoscio: a
le rime dei vv. 3-6-9 ne dipinge un’immagine guardo soltanto (pur) di na- 30 a lo suo... ascoso: na- stento resto padrone di me
(ogn’ora : pintura : figura); fedele, somigliante. scosto. Ca, dal latino quia, è scosto, vicino al petto. stesso, sono quasi fuori di
30-33-36 (ascoso : incluso : 8 ’nfra lo core meo: forma meridionale che cor- 31-33 e quando... incluso: me.
amoroso), 48-51-54 (avete : dentro il mio cuore. risponde al che toscano. e quando più lo avvolge, lo
55 Canzonetta novella,
va’ canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogni amorosa,
60 bionda più c’auro fino:
«Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino.»
45 mi pare: mi appari. questo per finzione,per arti- 55 novella: appena com- nel provenzale aur.
47-48 in tutte... ch’avete : ficio (per arti), dato che voi posta, nuova. 61 caro: prezioso (pro-
dappertutto, cioè in ogni persistete nel nascondervi 56 va’ canta: vai a cantare. venzale car).
mio componimento poeti- (pur vale “continuamente”). 57 da maitino: a buon’o- 63 ch’è... Lentino: indica-
co, per (di) la vostra bellezza. 52-53 Sacciatelo... a ra, al mattino presto (pro- zione del cognome (che na-
Nel testo, bellezze è singola- linga: interpretate dai segni venzale maiti). sce, che si chiama “da Lenti-
re (siciliano billizzi). (per singa), ciò (zo) che non 60 auro: oro. La forma au- no”), oppure della patria
49-51 Non so se... v’a- riesco ad esprimere con le ro, che mantiene il dittongo (che è nato a Lentino o Len-
scondete: non so se vi han- parole (a linga). latino di aurum, è siciliana; lo tini), del poeta.
no raccontato che io faccia 54 vedrite: vedrete. stesso fenomeno si riscontra
Guida all’analisi
Una struttura unitaria, simmetricamente bilanciata Dal punto di vista strutturale e tematico il componi-
mento si sviluppa simmetricamente: nelle prime tre stanze predomina il motivo della con-
templazione interiore, nelle tre successive quello del travaglio amoroso; il collegamento fra
i due blocchi è assicurato dalla ripresa di passo e guardo, in ordine inverso, all’inizio della V
stanza, secondo la tecnica delle coblas capfinidas. Uno scarto piuttosto deciso, con un effetto
di alleggerimento tonale, si registra invece nel congedo (ultima stanza).
Un discorso poetico per immagini: la figura nel cuore e il foco ascoso In entrambe le sequenze il nucleo vi-
tale del discorso si raccoglie in un’immagine centrale fortemente significativa: dapprima la
pintura, la figura nel cuore (stanze I-III); poi il foco… ascoso (stanze IV-VI).
Tali immagini si richiamano alla tradizione provenzale e cortese: l’amore che non pare di
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Duecento e Trecento
fore (v. 12), ma che d’altra parte, paradossalmente forse, non può star celato, è un topos della
lirica occitanica; la stessa metafora del foco… ascoso (vv. 29-30), che arde più forte quanto più
si tenta di coprirlo, risale, attraverso innumerevoli riprese, alle Metamorfosi di Ovidio: (IV, 64:
«e quel fuoco nascosto, più lo si nasconde, più divampa», trad. M. Ramous). Nell’immagine
della pintura, tuttavia, si potrebbe ravvisare almeno in parte un’invenzione originale: se è ve-
ro che i trovatori di Provenza affermano ripetutamente di «portare nel cuore», di «vedere
con gli occhi del cuore» le fattezze della donna amata, l’elemento di novità sembra risiede-
re nel riferimento diretto e preciso all’arte figurativa (che ricorre in altri componimenti del
caposcuola siciliano).
La dimensione dell’interiorità Ad ogni modo, in questa lirica, proprio mediante l’immagine della pintura nel
cuore – una figura ben distinta dalla persona della donna – il poeta sembra alludere a uno
svincolarsi dell’esperienza d’amore dalla visione fisica (ritenuta comunque imprescindibile:
cfr. il sonetto Amor è uno desio [R T 6.2 ]), privilegiando la dimensione dell’interiorità, indi-
viduata come spazio “altro” e diverso, almeno potenzialmente sottratto alle contingenze
esterne; un tema qui accennato, che sarà sviluppato e approfondito dagli stilnovisti e da
Dante.
Uno stile “medio” per la forma della canzonetta Come si addice alla canzonetta, con i suoi versi brevi e le sue
strutture metriche semplificate rispetto alla canzone, il testo presenta una sintassi agile e pri-
va di complessità, un andamento ritmico melodico e cantabile, uno stile piano, che si vale di
un’ornamentazione retorica contenuta e di un lessico non eccessivamente ricercato. Tuttavia
il poeta non rinuncia alle raffinatezze di una composizione accurata, né agli ingegnosi gio-
chi verbali, cari al gusto della lirica illustre in volgare così come dell’elaborata prosa latina
dell’epoca.
Laboratorio 1 Descrivi la struttura complessiva del 2 In quali passaggi del testo si fa riferimen-
COMPRENSIONE componimento, individuando per ciascu- to esplicito alla figura della donna amata?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE na stanza temi, motivi, immagini ricor- Quale immagine ne scaturisce?
renti e parole-chiave. In che cosa consiste
l’artificio delle coblas capfinidas?
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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.2
Nota metrica chi, prima di tutto (in prima), poeta) nasce dalla vista degli 12-14 lo cor... fra la gente:
Sonetto, secondo lo sche- a generare l’amore, (poi) il occhi (cioè dalla visione il cuore che accoglie, riceve
ma ABAB ABAB ACD cuore gli dà nutrimento, lo sensibile della persona ama- (è concepitore) ciò (zo, vale a
ACD. Rima identica ai vv. alimenta. ta per mezzo degli occhi,or- dire queste rappresentazioni
1-9; rima ricca ai vv. 2-4- 5-8 Ben è... nascimen- gani del senso corporeo del- visive), contempla l’imma-
6-8. to: può ben darsi che talvol- la vista). gine (imagina) della persona
ta (alcuna fiata) qualcuno 9-11 ché li occhi... natu- amata, e prova piacere nel
1-4 Amor... nutrica- (om, un uomo; gallicismo ralemente: poiché gli occhi desiderarla (li piace quel de-
mento:Amore è un deside- con valore impersonale) trasmettono al cuore la rap- sio): ed è questo l’amore che
rio che viene dal cuore (e ami senza vedere la persona presentazione delle qualità vive, che risiede nel mondo
nasce, deriva) dall’abbon- amata (so ’namoramento); ma positive e negative (bono e (fra la gente).
danza del grande piacere quell’amore che afferra con rio) di ogni cosa che vedono,
(che la vista dell’oggetto intensità sconvolgente (cioè secondo la sua conforma-
d’amore ispira); sono gli oc- il vero amore, intende il zione naturale.
Guida all’analisi
Le strutture dell’argomentazione Il testo della lirica presenta una struttura logico-dimostrativa scandita in tre
tempi. Nella prima quartina il poeta enuncia ordinatamente, per frasi staccate, ognuna delle
quali coincide con un verso, i punti fondamentali della sua tesi: dapprima identifica la natu-
ra d’amore (v. 1), quindi l’origine e la causa del suo sorgere (v. 2), precisando successiva-
mente le modalità e le fasi del processo generativo (vv. 3-4). Nella seconda quartina apre
una digressione, escludendo che possa nascere un vero amore «senza vedere so ’namora-
mento» (v. 6): trasparente l’allusione polemica alla concezione dell’amore ses vezer (in lingua
d’oc «senza vedere», appunto), che la vida provenzale attribuisce a Jaufré Rudel R T 5.4 , can-
tore dell’amor de lonh. Chiusa la digressione con un verso-cerniera che rilancia l’argomenta-
zione (v. 8), legando le due parti del sonetto mediante la ripresa del termine-chiave occhi, il
poeta dedica lo spazio delle terzine alla puntuale dimostrazione delle enunciazioni conte-
nute nei primi quattro versi.
Fonti dottrinali del sonetto: il trattato De amore di Andrea Cappellano Dal punto di vista dei contenuti con-
cettuali, l’argomentazione condotta nel sonetto di Giacomo da Lentini ricalca puntual-
mente le formulazioni dottrinali di Andrea Cappellano nel trattato De amore, e precisamen-
te alcuni paragrafi dei capitoli iniziali del primo libro [R T 5.2 Doc 5.4 ], dove si trovano le
enunciazioni fondamentali in ordine alla natura e alla genesi del sentimento d’amore, che
costituiscono la base teorica dell’intera trattazione. Siamo di fronte a una delle più significa-
tive e precoci attestazioni dell’immensa fortuna del De amore in Italia e dell’influsso eserci-
tato dall’opera sulla nostra letteratura, dai lirici della scuola siciliana agli Stilnovisti e a Dan-
te, fino al Boccaccio.
Laboratorio 1 Il sonetto Amor è uno desio fa parte di una 4 Poni a confronto le tesi sostenute da Gia-
COMPRENSIONE «tenzone» poetica. Cosa significa? como da Lentini in questo sonetto sulla
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE
2 Enuncia per punti il contenuto del sonet- natura e la genesi del sentimento d’amore
to, evidenziando: a) qual è la tesi che Gia- con le enunciazioni di Andrea Cappellano
como si propone di dimostrare; b) quali sul medesimo argomento, contenute nei
argomenti adduce a sostegno della mede- primi capitoli del trattato De amore
sima. [R T 5.2 Doc 5.4 ], evidenziando puntual-
3 A che cosa allude il poeta nella seconda mente le corrispondenze fra i due testi.
quartina?
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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.3
Gioiosamente canto
e vivo in allegranza,
ca per la vostr’amanza,
madonna, gran gioi sento.
5 S’eo travagliai cotanto,
or aggio riposanza:
ben aia disïanza
che vene a compimento;
ca tutto mal talento – torna in gioi,
10 quandunqua l’allegranza ven dipoi;
und’eo m’allegro di grande ardimento:
un giorno vene, che val più di cento.
Nota metrica forme siciliane aulitusa e mento: bene abbia (aia è dente passione (ardimento, gazione in una lunga tradi-
Canzone di cinque stanze, amurusa). Le rime interne forma siciliana), cioè sia be- dal provenzale ardemen, vale zione di interpretazione
ciascuna di dodici versi, o rimalmezzo sono evi- nedetto, il desiderio che “fuoco amoroso”). simbolica delle “nature”
costituite da una fronte di denziate dal trattino; per giunge a realizzarsi. 13 passa: supera. degli animali, codificata nei
due piedi eguali di quattro ulteriori osservazioni cfr. 9-10 ca tutto... ven di- 14 cera: carnagione, in- repertori dei bestiari, che
settenari (vv. 1-8) e da le note al testo e la Guida poi: poiché tutto lo scon- carnato del volto. risale alla tarda antichità e
una sirma di quattro en- all’analisi. tento si trasforma (torna) in 15 spera: raggio di sole. perdura nel Medioevo lati-
decasillabi concatenata gioia, ogniqualvolta (quan- 16-18 e la bocca... d’una no e romanzo.
alla fronte da rima interna 3 ca per... amanza:poi- dunqua) è seguito dalla feli- fera: e la (vostra) bocca pro- 20 usa: vive.
(vv. 9-12), secondo lo ché per il vostro amore (per cità amorosa. Torna è fran- fumata manda un profumo 21-22 Sovr’ogn’agua...
schema abbc abbc la forma ca, si veda la nota al cesismo; anche nel francese (aulore) più profumato (au- ognunqua sete: o donna
(c)DDEE. Rima siciliana v. 17 di R T 6.1 ). moderno tourner ha il signi- lente), cioè più intenso, di amorosa, voi siete una fon-
ai vv. 16-20, ripresa dalla 5 travagliai cotanto: ficato di “volgere, girare”. quello che emana dalla tana che mi ha tolto qua-
rima interna al v. 21 (auli- soffersi tanto a lungo. 11 und’eo... ardimento: bocca di una fiera (che non fa lunque sete. Rima equivo-
tosa : usa : amorosa; nella 6 aggio riposanza: ho perciò io (eo, come ai vv. 5, d’una fera, lett. “di quanto ca fra gli omografi sete (siete,
veste linguistica origina- riposo, sono in pace. 23, 53) mi rallegro del mio non accada a una fiera”). La voce verbale) e sete sostanti-
ria rime perfette con le 7-8 ben aia... compi- grande fuoco, della mia ar- similitudine trova una spie- vo.
Guida all’analisi
Armonie compositive e calcolate simmetrie strutturali Esempio di stile aulico e di raffinata elaborazione for-
male, la lirica presenta una struttura compatta e unitaria, grazie a un’articolazione interna
perfettamente equilibrata. Due nuclei tematici fondamentali (tra loro ovviamente collegati e
complementari) si sviluppano secondo un criterio di armonica alternanza: l’empito di gioia
per l’amore corrisposto – che si identifica fin dall’esordio, secondo un tópos caro ai poeti
provenzali, con il canto stesso del poeta – domina nella I e nella III stanza, mentre nella II e
nella IV trovano spazio le lodi dell’amata, del suo pregio incomparabile («donna fina», v. 40;
«donna caunoscente», v. 42) e della sua «gran bieltate» (v. 49), graziose variazioni sui modu-
li convenzionali mutuati dalla lirica occitanica, con felici tocchi coloristici e descrittivi
(«Ben passa rose e fiore / la vostra fresca cera, / lucente più che spera», vv. 13-15), talora av-
vivate da una metafora più ardita e originale («Sovr’ogni agua, amorosa – donna, sete / fon-
tana...», vv. 21-22). Al motivo della lode si affianca con naturalezza la professione di fedeltà
dell’amante, che implica dedizione assoluta al servigio amoroso (vv. 23-24). Tutte le linee te-
matiche fin qui evidenziate convergono poi nella V e ultima stanza, che le riprende e le fon-
de senza residui tra loro, chiudendo saldamente il componimento in armoniosa unità.
Similitudini “culte” e preziose Il discorso poetico si sviluppa prevalentemente secondo un procedimento ana-
logico-comparativo, attraverso un susseguirsi di metafore e similitudini. Accanto alle aggra-
ziate comparazioni con fenomeni naturali luminosi e primaverili, ne compaiono altre, più
ricercate, che evocano un immaginario favoloso di origine culta e libresca, tipicamente
medievale, come quella della pantera (vv. 16-20), che attinge all’antica tradizione dei bestia-
ri, già ampiamente rivisitata in chiave profana, o quella dei fumatori di hascisc (vv. 23-24),
che si richiama ai racconti leggendari intorno al Veglio della Montagna e alla setta degli «as-
sessini», riferiti, tra le altre fonti medievali, da Marco Polo in una famosa pagina del Milione.
Laboratorio 1 Riassumi il contenuto della canzone, 2 Indica mediante quali immagini e figure
COMPRENSIONE stanza per stanza, in brevi paragrafi, asse- retoriche il poeta da espressione nelle cin-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gnando a ciascuno un titolo adeguato. que stanze ai motivi centrali della canzo-
Qual è la situazione amorosa rappresenta- ne: la gioia dell’amore corrisposto e la lo-
ta in questa lirica? de dell’amata.
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Duecento e Trecento
156-160 Meo sire... in ven- «Le Vangel[ï]e, càrama? ch’io le porto in seno:
tura: mio signore, dal mo- a lo mostero présile (non ci era lo patrino).
mento che mi hai giurato, io
m’infiammo tutta quanta Sovr’esto libro jùroti mai non ti vegno meno.
(d’amore): sono qui, alla tua Arcompli mi’ talento in caritate,
presenza, non mi difendo da
voi (= da te);se ti ho disprez- 155 ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate.»
zato (minespreso àjoti), per-
donami (merzé), mi arrendo
a voi (= a te).Andiamo a let- «Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.
to, subito (a la bon’ora), poi- Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difenno.
ché questa cosa ci è concessa
per nostra fortuna! S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
160 ché chissa cosa n’è data in ventura.»
Guida all’analisi
Gli antecedenti letterari del Contrasto: la “pastorella” La situazione-base, così come l’esito, tutto sommato pre-
vedibile, dell’amorosa tenzone fra Amante e Madonna non mancano certo di precedenti,
anche illustri, nella tradizione letteraria medievale. In particolare, risaltano le evidenti affinità
con il genere delle pastorelle provenzali, componimenti dialogati che sceneggiano un ritua-
le di seduzione a schema sostanzialmente fisso, con alcune varianti anch’esse codificate: in
uno scenario boschereccio e rusticano, che talora si tinge di colori idillici, un cavaliere in-
contra appunto una bellissima pastorella e s’infiamma subitaneamente per lei di un prepo-
tente desiderio sensuale; alle esplicite richieste amorose dell’aristocratico corteggiatore la
fanciulla, ritrosa e diffidente, gelosa almeno in apparenza del proprio onore, oppone un de-
ciso rifiuto, in toni polemici e/o supplichevoli, talora resistendo vittoriosamente, più spesso
arrendendosi da ultimo, per amore o per forza, alle voglie del cavaliere.
Il Contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras L’accostamento più convincente, tuttavia, sembra quello propo-
sto con il Contrasto bilingue di un trovatore di Provenza, Raimbaut de Vaqueiras, composto
intorno al 1190. In uno scenario non più campestre ma cittadino, si affrontano nel duello
verbale un giullare provenzale (e un giullare è verosimilmente Amante nel Contrasto di Cie-
lo), che si esprime in lingua d’oc facendo uso dei raffinati stilemi della lirica cortese, e una
donna genovese che risponde nel proprio dialetto con ruvida immediatezza, opponendo al-
la suadente eloquenza dell’innamorato-poeta un implacabile diniego. Appare chiaro che
l’effetto ricercato nella singolare composizione di Raimbaut è quello dell’inusitata e stri-
dente collisione linguistica (e stilistica) tra due livelli sociali e culturali diversi, fra due psico-
logie, due mondi insomma, ben definiti, distanti e inconciliabili, ognuno dei quali riverbera
sull’altro una luce bizzarra, si direbbe straniante, con esiti parodistici e caricaturali.
Una rielaborazione complessa e originale A differenza di quanto si rileva nei componimenti sopra ricordati, nel
Contrasto di Cielo i due personaggi non appartengono a categorie socio-culturali diverse,
né, soprattutto, appaiono caratterizzati, sul piano della lingua e dello stile, da due registri o
livelli contrapposti. Si può affermare che Amante e Madonna parlino la stessa lingua, affron-
tandosi ad armi pari in una “recita” consapevole, orchestrata dall’autore con eccezionale abi-
lità tecnica: entrambi ricorrono a forme del linguaggio alto di stampo cortese, alternandole
incessantemente ad espressioni popolaresche e dialettali. L’intrecciarsi dei due registri lin-
guistici risponde a una ben precisa intenzione espressiva, che mira ad effetti parodistici di ir-
resistibile comicità. Ciascuno dei due antagonisti appare impegnato nel tentativo di ingan-
nare l’altro mediante una strategia di simulazione che peraltro non riesce a reggere fino in
fondo, quasi fosse costretto inevitabilmente a tradirsi, a togliersi la maschera, rivelando a
tratti la sua autentica personalità e le sue reali intenzioni. Il lettore (o l’ascoltatore; forse lo
spettatore, se veramente la vivacità mimica e gestuale del dialogo rimanda a una fruizione
teatrale) è chiamato a gustare un gioco sottile e malizioso di equivoci e di travestimenti, che
sprigiona tutta la sua carica di ironia e di giocosa ambiguità attraverso i continui ammicca-
menti e l’enfasi iperbolica del linguaggio.
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Duecento e Trecento
Raimbaut de Vaqueiras, Raimbaut de Vaqueiras, trovatore provenzale attivo fra il 1180 e il 1205, fu per lunghi anni
Domna, tant vos ai preia- in Italia, legandosi stabilmente, dopo un breve soggiorno a Genova presso Obizzo II Mala-
da, trad. di A. Roncaglia,
in Storia della letteratura spina, al marchese Bonifacio I del Monferrato. Al seguito di Bonifacio, eletto nell’autunno
italiana,I, Garzanti, Mi- del 1201 capo della IV crociata, partì per l’Oriente, dove partecipò a diversi fatti d’arme e
lano 1965 trovò probabilmente la morte.
Fra i suoi componimenti più celebri, il Contrasto bilingue (datazione presunta: 1190-
1194) di cui riportiamo l’ultima strofa e le due tornadas; secondo il Roncaglia, «il primo
esperimento d’impiego di un nostro dialetto in una composizione poetica regolare, entro
gli schemi di un’arte matura e raffinata» (R2.2). Occorre tuttavia osservare che nel Contra-
sto uno dei nostri idiomi municipali, cioè l’antico dialetto genovese, risulta adibito essen-
zialmente a fini espressivi di realismo comico, appunto in quanto volgare privo di prestigio
letterario da contrapporre al linguaggio aulico della lirica provenzale.
Nota metrica
Sei strofe singulars (cioè – Jujar, to proenzalesco, 85 Domna, en estraing cossire
che, pur ripetendo il s’eu aja gauzo de mi, m’avez mes et en esmai;
medesimo schema, pre- non prezo un genoì. mas enquera·us preiarai
sentano diverse uscite di
rima) di 14 versi ciascu- No t’entend plui d’un Toesco que voillaz qu’eu vos essai
na, tutti settenari tranne 75 O Sardo o Barbarì, si cum Provenzals o fai,
il quadrisillabo finale, ni non ò cura de ti. 90 quant es pojatz.
secondo lo schema abb,
abb, cb, cbbbbd, seguite Voi t’acaveilar co mego?
da due tornadas (conge- Si·l saverà me’ marì, – Jujar, no serò con tego,
di) analogamente for- mal plait averai con sego. poss’asì te cal de mi:
mate di cinque settenari
e un quadrisillabo, se- 80 Bel messer, ver e’ ve dì: meill varà, per sant Martì,
condo lo schema no vollo questo latì; s’andai a ser Opetì
cbbbbd. fraello, zo ve afì. 95 que dar v’à fors ’un roncì
73 genoì: il genoino era Proenzal, va, mal vestì, car sei jujar.
una moneta genovese di largaime star!
scarso valore.
94 ser Opetì: il signor
Obizzino è il marchese – Giullare, il tuo provenzale, s’io di me stessa abbia gioia, non pregio un genoino;
Obizzo II Malaspina, allo-
ra protettore del poeta, non ti capisco più che un tedesco o un sardo o un berbero, e non ho cura di te. Ti vuoi
che compose il Contrasto accapigliare con me? Se lo verrà a sapere mio marito, avrai con lui mala lite. Bel mes-
mentre era ospite alla sua sere, io vi dico il vero: non voglio saperne di questi discorsi. Fratello, ve lo assicuro.Vat-
corte. Il testo è dunque
certamente anteriore al tene, provenzale mal vestito, lasciami stare!
1094, data di morte del Donna, in insolito affanno e pena m’avete messo; ma ancora vi pregherò che voglia-
marchese. te ch’io vi provi come un provenzale sa fare all’amore, quando è alla monta.
– Giullare, non sarò con te, poiché così di me ti cale: meglio varrà, per san Martino,
se ve ne andate dal signor Opizzino, che vi donerà forse un ronzino, ché siete giullare.
Laboratorio 1 Chi sono i due protagonisti-contendenti? 4 Per quali ragioni lo si può definire un te-
COMPRENSIONE Quali i rispettivi atteggiamenti e inten- sto parodistico?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE zioni? In qual luogo si svolge la loro 5 Ricerca le espressioni caratteristiche del
schermaglia amorosa? Quale ne sarà l’esi- “rinfaccio” o ritorsione verbale, cioè le
to? riprese da una battuta all’altra delle me-
2 In quale tradizione letteraria si inserisce il desime parole e immagini; individua
Contrasto? Per quali aspetti si distacca dai inoltre le coblas capfinidas. In questo singo-
propri antecedenti e modelli? lare contesto, qual è la funzione espressiva
3 In base a quali riferimenti interni è possi- di tali artifici tecnici?
bile circoscriverne la datazione a un de-
terminato periodo?
126 © Casa Editrice Principato
6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA
dai Siciliani, saggiando le possibilità del trobar clus e dell’asperitas (in latino, “asprezza”),
di una scrittura poetica ardua e “difficile”, talora ai limiti dell’oscurità e della non-leg-
gibilità.
I centri di produzione e le esperienze poetiche La fioritura della più antica lirica toscana – riflet-
tendo in certo modo le mutevoli vicende politiche del secondo Duecento – appare
caratterizzata dalla pluralità dei centri di produzione. Sono rappresentate tutte le mag-
giori città di Toscana: Lucca, dove opera Bonagiunta; Pistoia, Pisa, Siena; Arezzo, patria
di Guittone (R 6.3); numerosi i fiorentini, tra cui spiccano Chiaro Davanzati, Monte
Andrea, Dante da Maiano e un’unica, misteriosa poetessa, la Compiuta Donzella.Ver-
so la fine del secolo, all’irresistibile ascesa di Firenze fa riscontro il declino dei centri
“provinciali”, sui quali il Comune fiorentino impone la propria egemonia politica e
insieme culturale; a Firenze si concentrano allora le esperienze letterarie più significa-
tive, e lo Stilnovo imprime nuovamente all’attività poetica un forte segno unitario.
In ogni caso, è possibile rintracciare nel panorama frastagliato e tutt’altro che
uniforme della lirica pre-stilnovistica in Toscana due principali linee di tendenza, le
quali peraltro, in molti punti, non mancano di intersecarsi e sovrapporsi: da una parte
lo sperimentalismo, il gusto del poetare aspro e difficile di Guittone e dei guittoniani
(R 6.3); dall’altra una ripresa più fedele dei Siciliani e del trobar leu, che si riconosce
piuttosto nell’esperienza, cronologicamente anteriore di parecchi anni, del lucchese
Bonagiunta, «l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini).
Bonagiunta da Lucca Di Bonagiunta Orbicciani non possediamo, in pratica, notizie biografiche. Co-
me si deduce dal titolo di «ser» che gli attribuisce il Canzoniere Vaticano, esercitò la
professione di notaio; si riferiscono a lui documenti d’archivio compresi fra gli anni
1242 e 1257, il che permette di collocare la sua nascita intorno al 1220. Poiché figura
tra i personaggi della Commedia, è certo che sia morto prima del 1300. Di lui posse-
diamo circa 40 componimenti, fra cui 11 canzoni e una ventina di sonetti. La sua poe-
sia riecheggia in forme sobrie e limpidamente aggraziate, dalle cadenze melodiche, i
modi della lirica siciliana, soprattutto di Giacomo da Lentini, mostrando una netta
predilezione per le tonalità mediane e cantabili, senza concessioni al rimare artificioso
e complicato della maniera guittoniana.
Chiaro Davanzati Il fiorentino Chiaro Davanzati, combattente guelfo a Montaperti, fu capitano del
popolo nel 1294; morì tra il 1303 e il 1304: della sua vita non sappiamo quasi nient’al-
tro. Il suo vasto canzoniere, dopo quello di Guittone il più cospicuo del Duecento, è
consegnato quasi per intero al solo Codice Vaticano, che include 61 canzoni e ben più
di 100 sonetti, cui vanno aggiunte varie rime di corrispondenza non comprese nella
silloge. Chiaro è un raffinato rielaboratore, non un inventore; nella sua eclettica pro-
duzione, sostanzialmente priva di sviluppo interno, si riconoscono gli influssi di tutti i
principali modelli della tradizione lirica, remota e recente, dai Siciliani ai Provenzali,
da Guittone e da Guinizzelli fino agli Stilnovisti, riecheggiati con notevole abilità
tecnica e compositiva in eleganti variazioni manieristiche. Il suo è un mondo squisita-
mente letterario, anzi libresco, disegnato mediante «il ricorso a un repertorio di im-
magini, che valgono come puri spunti evocativi: elementi di una tradizione rivissuta
per una sorta di compiacimento letterario» (Tartaro), come accade nel sonetto che
rievoca la favola di Narciso, o nella famosa serie di componimenti costruiti su prezio-
se similitudini animalistiche, attinte al ricchissimo e colorito serbatoio dei bestiari
medievali (Come la tigra nel suo gran dolore; Sì come il cervio che torna a morire; Il parpaglion,
che fere a la lumera) in parte, naturalmente, filtrate attraverso i rimatori di Provenza e di
Sicilia [R T 6.3 ].
93-97 Fiorenza... e i Se- va”), vi chiama alla sua cor- na) della Toscana, ora so- i Tedeschi e i Senesi.
nesi: Firenze, fiore che sem- te, lei che vuole proclamarsi prattutto che (dapoi che “dal
pre rifiorisce (rinovella, con regina (fare vol de sé rei“vuo- momento che”) ha soggio-
valore riflessivo: “si rinno- le farsi re”; rei è forma pisa- gato con la forza delle armi
Guida all’analisi
Il compianto sulla rovina di Firenze Con la dolente esclamazione che apre il componimento (Ahi lasso), Guitto-
ne intona il compianto o lamento funebre sulla rovina di Firenze, che si snoda nei versi in-
tensi e appassionati della prima stanza, carichi di deprecazione e di sgomento, per culminare,
con la ripresa della movenza esclamativa d’esordio (Oh lasso, v. 12) in angosciose interroga-
zioni. Il poeta non esita a chiamare in causa Dio stesso, invocato quale difensore supremo del
«diritto», prossimo a perire insieme alla città del Fiore, contro il «torto» trionfante (v. 15).
Confronto drammatico tra il passato e il presente: elogio della perduta grandezza Nella II stanza il compianto
si arricchisce di un drammatico confronto tra la decadenza attuale e la passata grandezza,
rievocata in un commosso quanto iperbolico elogio della Firenze guelfa, fino a ieri esempio
di concordia civica (v. 17), città imperïale temuta e possente, intesa alla creazione di un do-
minio politico e territoriale che doveva assicurare, come già l’impero di Roma, il manteni-
mento dei supremi valori, la Giustizia e la Pace (v. 26).
Il mito di Roma antica Fin dai primissimi versi della canzone, infatti, risultava evidente che Guittone identifica
senz’altro il crollo della Firenze guelfa con la morte della Giustizia (Ragione, v. 2) e
dell’«onorato antico uso romano» (v. 6), la gloriosa tradizione dell’antica Roma, della quale
Firenze viene presentata come discendente e legittima erede, anche in forza di una leggen-
da assai diffusa e accreditata all’epoca, che attribuiva ai Romani la fondazione della città. Il
mito popolare e municipale di Firenze, celebrata dai cronisti toscani come «piccola Roma»,
si trasforma nell’appassionata perorazione di Guittone in una idea-forza che sottrae la pole-
mica alla dimensione del contingente per situarla sul piano dei valori assoluti e universali.
Simboli araldici e linguaggio metaforico A questo procedimento di sublimazione e di mitizzazione degli accadi-
menti della cronaca comunale, contribuisce decisivamente la scelta delle forme espressive: il
discorso di Guittone – contemplazione della rovina presente e rievocazione per contrasto
della passata grandezza – si sviluppa e si addensa in chiave metaforica intorno a due immagini,
i due simboli araldici della città di Firenze: il Fiore e il Leone. Dapprima Firenze viene identi-
ficata con il Fiore (l’emblema del giglio): un’immagine di vitalità, di prosperità e di bellezza,
elemento unificante che ritorna più volte in tutta la canzone, ma con significative mutazioni:
nella I stanza rappresenta un omaggio al fulgido passato della città («l’alta Fior sempre grana-
ta», v. 5); nella II stanza esprime il rammarico per la desolazione presente («sfiorata Fiore», v.
16); nel congedo si carica di sferzante ironia («Fiorenza, fior che sempre rinovella», v. 93), a
chiudere l’invettiva sarcastica delle stanze finali contro la viltà dei cittadini. Alla fine della II
stanza compare il secondo emblema, quello del Leone (il Marzocco), immagine di fierezza e
di potenza che nella stanza successiva si snatura mediante una metamorfosi analoga a quella
del Fiore disfiorato: privato degli artigli, delle zanne e della forza, catturato e soggiogato, «Leo-
ne, lasso, or no è...» (v. 31).
Dal lamento all’invettiva Con la IV stanza si verifica un primo repentino mutamento del registro espressivo,
sebbene la continuità del discorso sia assicurata anche qui dall’artificio della ripresa (conqui-
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Duecento e Trecento
se / Conquis’è). Se già nelle stanze precedenti (specialmente nella III) il poeta aveva fatto
chiare allusioni ad eventi storici precisi, e aveva adombrato il quadro catastrofico dell’attua-
le situazione di Firenze, da questo momento passa a descriverlo e deprecarlo in modo aper-
to e diretto. Il testo si affolla ora di nomi di persone e di luoghi ben noti, di riferimenti rea-
listici e concreti, con inserti di sapore quasi cronachistico. Nella V stanza Guittone passa al-
le tonalità più accese della polemica morale e politica, preparata dalla recisa denuncia dei re-
sponsabili di tanta rovina che chiude la stanza precedente: «E tutto ciò li avene / per quella
schiatta che più ch’altra è folle» (vv. 59-60): si raccoglie in una sosta meditativa (vv. 61-66),
per lasciare ormai prorompere, con la veemente apostrofe del v. 67 («A voi che siete ora in
Fiorenza dico»), gli accenti fieramente risentiti dell’invettiva.
Rovesciamento ironico e sarcasmo Si profila in questi versi un secondo mutamento di registro: l’indignazione
del cittadino guelfo che vede distrutta l’autonomia del libero Comune e la condanna del
moralista si esprimono in tutta la loro forza, con una sorta di acre e doloroso compiacimen-
to, in un rovesciamento ironico e paradossale della situazione delineata in precedenza, che
esplode nel feroce sarcasmo della VI stanza e del congedo: i capi ghibellini (i Conti, gli
Uberti e gli «altri tutti», v. 77) meritano di ricevere ingenti doni dai Fiorentini per averli
condotti «a tanto grande onor» (v. 78), cioè per avere messo Siena in loro potere; la perdita
ignominiosa delle città e dei dominî elencati nella IV stanza viene ora presentata come
trionfale acquisto di «onor e segnoria» (v. 87); Firenze, che ha «conquisi per forza» (v. 97)
Alamanni e Senesi, può ben considerarsi ormai la città-regina della Toscana.
Laboratorio 1 Da quale evento storico prende le mosse no l’uno o l’altra, spiegando quale rap-
COMPRENSIONE la canzone? Siamo in possesso di altre si- porto si istituisce fra i due momenti.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gnificative testimonianze e/o rievocazio- 6 Analizza e commenta le metafore, le me-
ni letterarie al riguardo? tonimie e le similitudini presenti nel testo
2 Riassumi in brevi paragrafi, stanza per della canzone, soffermandoti sulle imma-
stanza, il contenuto del testo, assegnando gini riferite a Firenze, in particolare quel-
a ciascuno un titolo esplicativo le del fiore e del leone.
3 In che modo Guittone interpreta e giu- 7 Rintraccia quelle che a tuo giudizio sono
dica la sconfitta della Firenze guelfa? le parole-chiave della canzone, segnalan-
4 Ricerca nel testo i passi in cui il poeta do se ricorrono in rima e/o se entrano in
rievoca il passato e quelli in cui affronta la un gioco di antitesi con altre di significa-
situazione presente della città; evidenzia i to opposto.
mutamenti significativi di tono e di lin- 8 Identifica i passi in cui Guittone si espri-
guaggio. me secondo i modi dell’ironia e del sar-
5 Nel testo si alternano lamento e invettiva: casmo.
ricerca e distingui i passi ove predomina-
VERIFICA
Lo Stilnovo
7
n La fontana dell’amore da
un codice del XIV secolo.
ne sulle virtù della donna (come accade nella canzone dantesca Donne ch’avete intelletto
d’amore [R T 9.2 ]) e più spesso il monologo lirico del poeta sul medesimo tema o sugli
effetti che amore produce in lui. La lode stessa della donna non riguarda più tanto le
virtù mondane, cortesi e cavalleresche, e neppure più l’aspetto fisico particolare quanto
piuttosto una vaghissima bellezza quasi metafisica e virtù tutte morali e spirituali. Quel-
la della donna è in ultima istanza un’immagine interiorizzata, «una sintesi di ideali»
(Marti).
La donna angelicata: non solo una metafora galante, ma un ideale morale Proprio in questa
sua nuova dimensione acquista senso il tema della cosiddetta donna angelicata, cioè
del paragone che viene sovente istituito fra la donna amata e un angelo. Quando esso
compariva nella poesia cortese si limitava ad essere un complimento galante («bella
come un angelo»).Viceversa nella poesia stilnovistica il paragone o la metafora si tra-
sformano in un’allusione a un concetto assai più profondo, ricco di implicazioni eti-
che e talora anche religiose. Nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido
Guinizzelli [R T 7.1 ], la frase «“tenne d’angel sembianza” non vuol dire soltanto che la
donna era bella come un angelo, ma soprattutto che essa operava beneficamente e vir-
tuosamente sul cuore del poeta» (Marti); ed è inserita in un contesto in cui si instaura
una sorta di parallelismo tra le intelligenze angeliche, che regolano l’ordine del cosmo,
e la donna-angelo che regola quello morale. La donna trova insomma un posto nel-
l’ordine provvidenziale proprio perché si rivela capace di elevare, ingentilire, nobilita-
re non solo l’amante ma tutti coloro che l’accostano. Se tale azione in Guinizzelli e
Cavalcanti rimane al livello propriamente morale, in Dante ad un certo punto si volge
a più precisi significati religiosi e addirittura teologici, diventa vera e propria rivela-
zione, figura della liberazione dell’anima dal peccato e del suo ricongiungimento a
Dio, figura di un viaggio conoscitivo della mente a Dio.
1 Tutto: del tutto. lora anche religioso). 7 novità:“creazioni mi- 12 lo villan:il cuore villa-
1-2 salva... salutare... sa- 3 in cui... compiute: racolose” (Quaglio). no, in tradizionale antitesi
lute: insistito ricorso al mo- dotata di ogni grazia, in lei 8 quali... mostrare: pa- con quello gentile.
tivo stilnovistico del salutare perfetta. ri a quelle che Dio attraver- 13 fôre: via.
(saluto) che salva, che “do- 5 fa... l’âre: rinnova, ri- so la sua persona ci mostra. 14 ch’abassi gli occhi: in
na salute”, cioè gioia e sal- crea la terra e l’aria, il mon- 11 deven giocondo: si segno di vergogna e rispet-
vezza (in senso morale e ta- do insomma. rallegra. to.
veggia l’intelletto nostro» (Cavalcanti, Io non pensava [R T 7.5 ]). Il fatto che il poeta di-
chiari di non poter esprimere appieno le virtù benefiche e il valore della donna, o ciò
che egli prova all’atto della sua contemplazione, fa sì che la rappresentazione stilnovi-
stica della donna assomigli molto a quella del divino propria della letteratura religiosa.
«Trasumanar significar per verba non si poria», l’innalzarsi sopra i limiti dell’umano
non può essere espresso a parole, dirà d’altronde Dante stesso nella Commedia dell’e-
sperienza di mistica ascesa a Dio: l’assoluto, il divino non è comprensibile da mente
umana, è ineffabile. Di fronte ad esso – come di fronte alla donna angelicata che ne è
la figura – sono possibili solo l’abbandono nell’estasi mistica o l’angoscia dell’inade-
guatezza.
Citazioni bibliche e alone religioso Per attribuire alle manifestazioni della donna un alone religioso
che le trasforma in ‘apparizioni’ sacre, i poeti stilnovisti spesso fanno uso di trasparenti
allusioni a passi scritturali (talora vere e proprie citazioni), dal Cantico dei Cantici, dai
Salmi, dai Vangeli e da numerosi altri libri della Bibbia. L’incipit di un celebre sonetto
di Cavalcanti, ad esempio, «Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira / che fa tremar di
chiaritate l’âre?», è una felice rielaborazione di un passo del Cantico dei Cantici notissi-
mo ai lettori del tempo. In Dante, poi, Beatrice grazie ai molteplici riferimenti evan-
gelici diventerà espressamente simbolo e figura di Cristo, colei cioè che assolve al tem-
po presente la funzione salvifica che Cristo assolse al tempo della sua discesa in terra.
Ma altrettanto importante è la presenza di svariati riferimenti al linguaggio filosofico-
scientifico e teologico del tempo. Questa complessiva presenza dottrinale venne espli-
citamente individuata già dai contemporaeni come un tratto distintivo della nuova
poesia e rimproverata a Guinizzelli – per la sua sottigliezza filosofica e la sua oscurità –
da Bonagiunta da Lucca, un rimatore più tradizionale.
Un nuovo canone stilistico nel segno della dolcezza La formula usata da Dante per definire l’e-
sperienza stilnovistica è più precisamente quella di “dolce stil novo”. Con questa
espressione, prima ancora che individuare un gruppo di poeti accomunati da profon-
de affinità nella concezione dell’amore, Dante definisce soprattutto un canone stilisti-
co e un modo di intendere l’esercizio poetico che ha nella dolcezza il suo tratto pecu-
liare. Il termine “dolce stile” designa «un ideale artistico di compostezza, di ordine, di
proporzione essenziale», che si concreta nel complesso delle scelte linguistiche e reto-
rico-stilistiche. In particolare la dolcezza si fonda, oltre che sulla sintassi piana, su «un
lessico privo di asprezza e ricco invece di una musicalità raffinata e coscientemente
perseguita in toni ora melodici e gracili, ora più potenti e robusti» (Marti), sulla so-
brietà degli ornamenti retorici e sulla scelta di immagini per lo più ispirate a una no-
bile ed elegante semplicità. Si tratta insomma di un insieme di aspetti formali che si
contrappongono alla sintassi spesso contorta e difficile, al lessico raro, peregrino e
spesso oscuro – irto per di più di rozzi municipalismi – , all’alta densità di artifici reto-
rici propri di Guittone e dei guittoniani, che Dante stesso aveva criticato.
I poeti stilnovisti tuttavia non disdegnano, specie nei testi che hanno un’ambizione
dottrinale o programmatica, un diverso tipo di oscurità, quella che può derivare dalla
densità concettuale e dall’uso di un linguaggio filosofico: Donna me prega, la canzone
dottrinale di Guido Cavalcanti, è anzi uno dei testi più ardui e controversi della poe-
sia delle origini. Se dunque gli stilnovisti accusano i guittoniani di oscurità per bizzar-
ria e artificiosità retorica, a loro volta vengono puntualmente accusati di densità e
oscurità concettuale dai seguaci della tradizione.
Dolcezza dello stile e varietà tematica La dolcezza dello stile è un fatto formale che comunque non
pregiudica la varietà dei temi e degli stati d’animo: può esprimere non solo la con-
templazione estatica della donna, la lode delle sue virtù angeliche o la gioia sublime
che l’innamorato prova, ma anche la malinconia, il dolore, l’angoscia, la paura, il senso
di morte.
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Duecento e Trecento
Guido Guinizzelli può essere identificato con un Guido figlio di Guinizzello di Magnano (giu-
dice bolognese). La data della sua nascita, collocata solitamente tra il 1243 e il 1245, in virtù di al-
cuni recentissimi ritrovamenti documentari è stata anticipata al 1218 circa. È probabile che rag-
giungesse una posizione di prestigio in ambiente bolognese come giudice (documenti ne atte-
stano l’attività tra il 1268 e il 1274), dopo aver forse trascorso alcuni anni in Toscana. Militò a fa-
vore della parte ghibellina dei Lambertazzi: questo impegno politico gli costò la condanna all’e-
silio, nel 1274, a Monselice. Si sa che morì prima del 14 novembre 1276. Secondo il Rossi «è le-
cito ipotizzare che la sua attività di rimatore si collochi fra il 1263 e il 1274», ma l’anticipazione
della nascita al 1218 potrebbe mettere in discussione anche questa congettura.
1 stella diana: la stella ogni altra. lezza... virtù. oserei pronunciare parola.
che annuncia la luce diurna 4 dea: dia, produca. 9-11 dal suo... ardito: so- 12 disiri: desideri.
(Lucifero). 5 grana: granato, rosso no come assalito, sopraffat- 13 seria servito: sarei ri-
2 anzi... albore: prima (la sia pur minima descri- to dalla sua virtù, la quale compensato.
che il giorno produca i pri- zione fisica è un motivo più genera in me un tale stato di 14 martiri: sofferenze.
mi chiarori, prima che al- tradizionale). turbamento, un continuo
beggi. 7 cristiana: donna. sospirare (la fera battaglia di
4 sovr’ogn’altra: più di 8 biltate... valore: bel- sospiri) che davanti a lei non
lenza della donna e le angustie sono determinate dalle ripulse). Questa dialettica non
comparirà più nei poeti successivi di scuola stilnovistica, ed anzi il con-cetto verrà ul-
teriormente perfezionato e sublimato da Dante nelle sue «nove rime» (R 9.3).
Un alone religioso Già con Guinizzelli la lode della donna si ammanta di un alone religioso, consono
al ruolo salvifico assegnatole, che precorre le più impegnative implicazioni teologiche
che Dante assegnerà alla figura di Beatrice. Lo testimoniano l’ampio ricorso a fonti
scritturali, che emerge dall’esame attento delle fonti, e anche il tema della luce, che
Guinizzelli prende dalla tradizione cortese ma riconduce a nuovi significati spirituali.
La metafora della stella che annuncia il sorgere del giorno, che designa la donna amata
in Vedut’ho la lucente stella diana, era tradizionalmente attribuita alla Vergine Maria e
«l’uso che ne fa Guinizzelli poté apparire al limite dell’irriverenza e dell’eterodossia»
(Rossi), tanto palesi apparivano le sue implicazioni religiose; senonché è la dottrina
stessa dell’amore da lui formulata a riscattarlo dall’accusa di irriverenza e a farne vice-
versa un elemento di coerente sacralizzazione della figura femminile.
Guido Cavalcanti e il suo leggendario «disdegno» Guido Cavalcanti, il più anziano dei poeti stil-
novisti toscani, sentito come un secondo maestro dal giovane Dante, è dipinto dal cro-
nista Dino Compagni come «nobile cavaliere e ardito ma sdegnoso e solitario e in-
tento allo studio». Anch’egli si muove nell’ambito letterario che abbiamo descritto, ma
la sua posizione ideologica è più complessa e sfumata, forse più ambigua. Su Caval-
canti pesa ad esempio la fama, divenuta ad un certo punto leggendaria, di essere ‘filo-
sofo’ eterodosso, un intellettuale cioè in odore di eresia. Forse sulla sua presunta etero-
dossia incidono anche la collocazione del padre Cavalcante nel girone infernale degli
epicurei (ai tempi di Dante con questo nome si indicavano quanti ritenevano l’anima
mortale) e un celebre giudizio dello stesso Dante, che parla in quella sede di un «di-
sdegno» di Guido per Beatrice, cioè per la teologia o la fede. Sta di fatto che, nono-
stante gli sforzi degli studiosi, i motivi della crisi intercorsa con Dante alla fine della
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Duecento e Trecento
1 Tu... mente: il poeta rivelano alla vista (agli occhi sibile. 10-11 che... rame: che, a 14 che... segno: che in-
si rivolge alla donna amata: degli osservatori) che il 7-8 che... udire: che chi lo osserva, sembra un dichi apertamente il modo
tu mi hai riempito di tanto cuore non può resistere. sembra non voler per nulla uomo fatto di rame. in cui egli è morto.
dolore la mente... 6 E’... morire: mi duo- (nïente) ascoltare (discorsi 12 che... maestria: che si
2 si briga: si ingegna. le che tu debba morire. che invochino) per te muova solo in virtù di un
4 mostrano... soffrire: 7 fiera: crudele, insen- pietà. artificio meccanico.
superiorità della donna, e quindi della sua incomprensibilità e ineffabilità spesso acqui-
stano così contorni dolorosi e tragici.
Teoria degli spiriti e drammatizzazione del conflitto interiore Questa introspezione viene
espressa con un ampio ricorso al lessico e ai concetti della fisiologia del tempo e in
particolare alla teoria aristotelica degli spiriti nella versione (gli spiriti sono i fluidi
corporei che consentono ogni attività vitale) del filosofo Alberto Magno (1206-1280).
La passione è insomma rappresentata come un conflitto interiore, un turbamento fi-
siologico che si caratterizza quasi sempre per la violenza e la virulenza, e determina
talora collasso psico-fisico, oscuramento mentale, annichilimento, tanto che il timore
della morte aleggia quasi sempre nella poesia di Cavalcanti come temuto esito di que-
sto conflitto. La fenomenologia della passione amorosa si manifesta, poi, tipicamente
nei termini di una drammatizzazione del conflitto interiore: l’individuo sembra disag-
gregarsi nelle sue componenti – mente, cuore, animo, spiriti, occhi, ecc. – che talora
sono chiamate a dialogare fra loro e con Amore (mediante le figure retoriche della
personificazione e della prosopopea).
Un paesaggio interiore, un desolato campo di battaglia Ancor più forte che in Guinizzelli è la
sensazione che Cavalcanti voglia cogliere la vicenda d’amore nei meandri dell’interio-
rità. Il paesaggio evocato nelle sue poesie non è più neanche il generico ambiente ur-
bano dove la donna passa, bensì l’interno del proprio corpo dove gli spiriti per lo più
“sbigottiti” si muovono fra i vari organi. Questo paesaggio viene però rappresentato
attraverso frequenti metafore guerriere tanto da assumere l’aspetto di un desolato
campo di battaglia. Ora per l’abbondanza di tecnicismi (gli spiriti) ora per la disaggre-
gazione dell’io, ora per effetto del linguaggio metaforico o più raramente per sopras-
salti metafisici si ha l’impressione di una rappresentazione straniata e quasi astratta
della vicenda d’amore [R T 7.5 ].
Guido Cavalcanti, fiorentino, nacque non prima del 1259 e morì, forse per le febbri contratte
nell’esilio in Lunigiana, nel 1300. Apparteneva a una famiglia d’origine mercantile, divenuta una
delle «più possenti case di genti, di possessione e di avere in Firenze» (G.Villani). Il padre, secon-
do il giudizio del Boccaccio, «leggiadro e ricco cavaliere seguì l’opinion d’Epicuro, in non cre-
dere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti
carnali»; questa opinione risale a Dante, che colloca Cavalcante nel cerchio degli eretici.
Guido nel 1284 fece parte del Consiglio generale del Comune insieme a Dino Compagni e
Brunetto Latini. Sposò Bice di Farinata degli Uberti, stringendo un legame dettato da motivi di
opportunità politica. Guelfo di parte bianca, partecipò con ardore alle lotte intestine di Firenze;
nel 1297 prese parte a un assalto contro le case dei Donati, capi di parte nera. Nel 1300, in se-
guito a nuovi disordini, fu allontanato da Firenze dai priori (uno dei quali era Dante), assieme
agli altri principali esponenti delle fazioni avverse. Esiliato a Sarzana, vi rimase però poco tempo,
forse perché contrasse la malaria che di lì a poco – rientrato a Firenze – lo condusse a morte.
Giovanni Villani racconta che, dall’esilio, «tornonne malato Guido Cavalcanti, onde morìo; e di
lui fu grande dammaggio [fu una grave perdita], perrocché [perché] era, come filosofo, virtudio-
so uomo in più cose, se non che era troppo tenero e stizzoso [suscettibile e sdegnoso]». Fu sepol-
to in patria, a Santa Reparata.
I ritratti che il Compagni e ilVillani delineano del loro contemporaneo ne rivelano la persona-
lità spiccata, il temperamento sdegnoso, irreligioso, l’orgoglio intellettuale. A giudizio di Filippo
Villani «fu filosofo d’autorità, non di poca stima, e onorato di dignità, di costumi memorabili, e de-
gno d’ogni laude e onore». Analogamente il Boccaccio lo definisce «uomo costumatissimo e ricco
d’alto ingegno», «ottimo loico e buon filosofo... buon dicitore in rima». Guido Cavalcanti lascia 52
componimenti di certa attribuzione: 36 sonetti, 11 ballate, 2 canzoni, 2 stanze isolate di canzone, 1
mottetto. Per lo più si tratta di componimenti in stile tragico e “dolce”, cioè di gusto stilnovistico;
non mancano tuttavia componimenti in stile comico, tra cui due tenzoni e una “pastorella”.
Guida all’analisi
La teoria della gentilezza Al cor gentil è una “canzone dottrinaria” fondata su una solida struttura argomentativa.
Guinizzelli innanzitutto espone una personale “teoria della nobiltà”, o – com’egli dice –
della gentilezza. Tale teoria può essere così esposta: la gentilezza, e cioè la vera nobiltà, non
trova il suo fondamento nell’appartenere a una stirpe illustre (secondo la concezione aristo-
cratica e feudale della nobiltà), bensì nelle doti morali e intellettuali dell’individuo (stanza
IV) che a loro volta sono essenzialmente delle qualità naturali («lo cor... è fatto da natura /
asletto, pur, gentile», st. II, vv. 18-19). Anche se una simile affermazione non è nuova in as-
soluto, è però chiaro che storicamente acquista un particolare significato se collocata sullo
sfondo della società e della cultura comunale duecentesca: la teoria della nobiltà fondata
sulle qualità naturali, sui meriti individuali, e la polemica contro la concezione aristocrati-
ca e feudale della nobiltà, costituiscono un dato fondamentale della mentalità di quei ceti
borghesi che, proprio attraverso un conflitto con la società feudale, hanno affermato la
propria autonomia e la propria indipendenza politica, e in parte culturale.
La dottrina d’amore In secondo luogo, Guinizzelli formula una teoria dell’amore. Amore rifugge dalla natura
ignobile (vv. 25-26) e ha la sua sede naturale nei cuori gentili (stanze I-III). La donna, ope-
rando secondo un disegno provvidenziale, si manifesta all’uomo dal cuor gentile e lo inna-
mora (v. 20), come la stella infonde nella materia depurata da ogni scoria la proprietà che
la rende preziosa. L’innamoramento si configura così per Guinizzelli come un tradursi in
atto di quelle disposizioni naturali, di quelle virtù morali che sono presenti nell’uomo allo
stato virtuale. In altri termini: solo l’uomo che è naturalmente predisposto al bene può as-
sumere in sé l’amore, ma d’altro canto è solo l’amore che rende effettivamente operante la
predisposizione al bene che è nell’uomo. In questa concezione d’amore – che ricorrendo
alla nozione di “potenza” e “atto” fa riferimento alla filosofia scolastica – starebbe la mag-
giore novità guinizzelliana, a giudizio di gran parte della critica. In ogni caso, è chiaro che
l’amore è concepito come un processo tutto interiore, spirituale; un processo – semplifi-
cando – di ingentilimento e di perfezionamento morale che si non si attua in tutti ma so-
lo in chi è naturalmente predisposto a viverlo.
Il ruolo salvifico della donna nel disegno provvidenziale Abbiamo osservato che la donna opera secondo un
disegno provvidenziale. È quanto viene asserito nella stanza V, la più schiettamente filosofi-
ca, grazie al paragone fra l’azione delle intelligenze angeliche sul moto dei cieli e quello
della donna nei confronti dell’uomo gentile. «Da una parte l’Intelligenza contribuisce al-
l’ordine cosmologico, muovendo il proprio cielo in ottemperanza alla volontà di Dio; dal-
l’altra la donna-angelo con uguale disinteresse e provvidenzialità contribuisce all’ordine
morale, muovendo, anch’essa in ottemperanza alla volontà di Dio, il cuore dell’uomo ver-
so il bene» (Marti). L’azione della donna, insomma, si inserisce in un disegno provviden-
ziale e opera sul piano morale proprio come su quello cosmologico operano gli angeli ve-
ri e propri.
Possiamo pertanto concludere, con Marti, che la tradizionale metafora della donna an-
gelo (in origine semplice complimento galante: “bella come un angelo”), che ricorre nel-
l’espressione «Tenne d’angel sembianza» (stanza VI), nel contesto stilnovistico assume su
questi fondamenti etico-filosofici un nuovo più pregnante significato.
«Tenne d’angel sembianza» (una meditazione sulla poesia) La stanza conclusiva richiede un breve supplemen-
to di indagine. Si noti che Dio rimprovera l’anima di aver dato ad un amore vano come
termine di paragone la Sua immagine (l’immagine di Dio stesso), cioè di aver utilizzato
nella sua poesia metafore e paragoni celesti per qualificare un amore profano, mentre le lo-
di (come aveva detto anche san Francesco: «tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne
benedictione») spettano di diritto esclusivamente a Dio e alla Madonna. È importante sot-
tolineare il fatto che in questo modo viene espressamente accusata l’anima del poeta in
quanto poeta e che l’accusa di Dio sembra voler implicare alcuni componimenti guiniz-
zelliani (ad es. Io voglio del ver la mia donna laudare) e forse l’uso stesso della tradizionale me-
tafora della donna angelo (effettivamente, di solito, usata arbitrariamente a scopi profani).
L’autodifesa dell’anima consiste in una «coraggiosa, ironica e geniale risposta»: l’errore è
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7. Lo Stilnovo T 7.1
consistito non nel prendere Dio come termine di paragone per celebrare un amore profano,
ma «in un abbaglio analogico assai minore, quello di innamorarsi della “semblanza” angelica
della donna» (Boitani). In altri termini, nella bellezza terrena della donna è stata vista, intui-
ta una scintilla della bellezza divina: questo il vero oggetto dell’amore e della lode, questo il
senso – rinnovato – della metafora dell’angelicità della donna.
Nella stanza conclusiva della canzone, insomma, c’è anche un’implicita riflessione sulla
poesia: un distanziamento al tempo stesso dalla poesia cortese, in quanto sfruttava per scopi
profani nozioni religiose come quella della bellezza angelica, e dalla poesia di chi, come
Guittone, aveva semplicemente rinnegato e abbandonato la poesia cortese per una poesia
propriamente religiosa (e la voce di Dio in realtà esprime il punto di vista e l’accusa di
Guittone). Con questa clausola ironica Guinizzelli delimita l’esatta collocazione della sua
poesia (e poi dello stilnovo) nel mezzo di quei due estremi: la sua è una poesia d’amore per
una donna terrena che assume la dignità di un impegno etico-metafisico cristiano.
DIO
intelligenze donna
angeliche
piano piano
cielo uomo
cosmologico morale
DIO
Laboratorio 1 Scheda, parafrasando e, se necessario, sin- senza ricorrere alle note; al termine del-
COMPRENSIONE tetizzando il testo, le similitudini esplicite l’esercizio il ricorso alle note consentirà a
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE o implicite presenti nella canzone (è bene ciascuno di verificare autonomamente il
che l’esercizio sia fatto dopo aver ben proprio grado di comprensione ). Il se-
compreso il testo originale del Guinizelli; guente schema funge da modello.
la parafrasi o la sintesi dovrà essere fatta
Nota metrica
Io voglio del ver la mia donna laudare
Sonetto secondo lo sche- ed asembrarli la rosa e lo giglio:
ma ABAB,ABAB, CDE, più che stella dïana splende e pare,
CDE.
4 e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
1 del ver: secondo ve-
rità. Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
2 asembrarli: parago-
narle. tutti color di fior’, giano e vermiglio,
3 stella dïana:Venere o
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
Lucifero, la stella (in realtà
il pianeta) che annuncia la 8 medesmo Amor per lei rafina meglio.
luce diurna.
3 splende e pare: «cop-
pia verbale sinonimica di Passa per via adorna, e sì gentile
valore pregnante: “appare ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
splendente di luce”»
(Quaglio). 11 e fa ’l de nostra fé se non la crede;
4 somiglio: paragono.
5 Verde... âre: rassomi-
glio a lei la verde campa-
e no·lle pò apressare om che sia vile;
gna (river’) e l’aria (âre, ae- ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
re). 14 null’om pò mal pensar fin che la vede.
6 giano: giallo.
7 azzurro: pietre pre-
ziose azzurre, cioè lapislaz-
zuli.
7 ricche... dare: gem- 9 adorna: ornata d’una 11, a proposito del giorno non la crede: e lo converte vanni 20, 17» (Rossi), frase
me preziose degne d’esse- dignitosa bellezza. del Giudizio: «L’uomo ab- alla nostra fede, se ancora pronunciata da Cristo ri-
re date in dono. 9 gentile: nobile. basserà gli occhi alteri, la non è un credente. sorto.
8 medesmo... meglio: 10 abassa... salute: dimi- superbia umana si piegherà; 12 no.lle po’… vile: non 13 ch’a maggior vertu-
perfino Amore per opera nuisce l’orgoglio, rende sarà esaltato il Signore, lui può avvicinarsi a lei perso- te: che possiede una dote
sua si perfeziona (rafina me- umile colui al quale ella ri- solo in quel giorno». na vile. «Versione profana ancor più straordinaria.
glio). volge il saluto. Cfr. Isaia, II, 11 e fa ’l de nostra fé se del noli me tangere di Gio-
Guida all’analisi
La struttura del plazer e la tecnica dell’analogia Il sonetto per tecnica e temi può venir abbastanza agevolmen-
te distinto in due “tempi”, che coincidono con la divisione metrica in quartine e terzine.
Nelle due quartine il poeta utilizzando la tecnica dell’analogia (si notino i verbi sinonimi:
asembrarli, somiglio, rasembro ai vv. 2, 4, 5) paragona la donna di cui vuol tessere la lode (vo-
glio... laudare, v. 1) agli elementi naturali più piacevoli e preziosi (fiori, prati, aria, stelle, pietre
preziose). Con ciò suggerisce al lettore l’immagine di un suggestivo paesaggio primaverile:
ma questo è evocato per il tramite delle similitudini, e non è propriamente l’ambiente in
cui si collochi alcun avvenimento.Va inoltre notato che il modo della lode è ancora piutto-
sto tradizionale: si ricollega infatti ai plazers provenzali (enumerazioni di cose piacevoli). Il
tema stesso della lode della donna amata è presente sia nella poesia classica sia in quella ro-
manza (trovadorica e siciliana).
Riferimenti scritturali e strategia ascensionale (dalla natura al cielo) Quella che a noi può apparire una lode
condotta in termini puramente naturalistici al lettore medievale doveva fare un effetto di-
verso, in quanto rievocava alla mente dei noti passi scritturali. In effetti il motivo dell’analo-
gia fra la donna e le forme naturali «s’ispira manifestamente al Cantico dei Cantici» (Conti-
ni), il libro del Vecchio Testamento nel quale si celebra l’amore nuziale e che nel Medioevo
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7. Lo Stilnovo T 7.2
veniva interpretato allegoricamente, per cui nella sposa si identificava la Vergine o l’anima
cristiana o anche la Chiesa. Al v. 2 la rosa e lo giglio ricorda la similitudine «Come un giglio
fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle» (Cantico, II, 2); al v. 3 «più che stella diana» e al
v. 4 «e ciò ch’è lassù bello» evocano un’altra similitudine: «Chi è costei che sorge come l’au-
rora, / bella come la luna, / fulgida come il sole…?» (Cantico,VI, 10). Secondo Rossi, anzi,
«Guinizzelli sembra far ricorso al Cantico, per prospettare, in forma simbolica, un percorso
ascensionale, dalla comparazione dell’amata con gli elementi naturali (v. 2), attraverso quel-
la con gli astri (v. 3), fino alle bellezze celesti (v. 4). Si tratta d’un procedimento che, in ma-
niera estremamente sintetica, richiama quello articolatamente argomentato in Al cor gentil. È
chiaro comunque che il complesso di virtù mirabilmente racchiuse in una creatura terrestre
qual è la mia donna è tale da compiere miracoli, non diversi da quelli tradizionalmente attri-
buiti alla Vergine (e nell’esegesi più diffusa del Cantico, alla Sposa)». Per questa via «l’esalta-
zione dell’amata, in Guinizzelli diviene quasi adorante, sul modello del santificetur nomen
tuum [sia santificato il tuo nome] del Pater Noster, nonché delle Laudes ad omnes horas dicendas
[Lodi da dirsi ad ogni ora]».
Le terzine: il tema del saluto e i suoi effetti morali Nelle terzine la lode analogica e allusiva della
donna si trasforma infatti in enumerazione degli effetti palesemente miracolosi che essa
produce passando per via, manifestandosi e porgendo un saluto. A questo proposito si no-
terà: 1) non è detto e non importa se la donna ricambi o no l’amore di colui che la loda; 2)
la donna non agisce esclusivamente sull’animo dell’innamorato ma su tutti coloro che en-
trano nella sua sfera d’azione (a cui... om... om); 3) gli effetti che la donna produce mediante
la semplice presenza, lo sguardo e il saluto sono di ordine morale («abassa orgoglio», «no·lle
pò apressare om che sia vile», «null’om pò mal pensare», vv. 10, 12, 14) e di ordine religioso
(«fa ’l de nostra fé», v. 11). È possibile pertanto riconnettere questa mia donna, e il suo modo
di manifestarsi e di agire sull’uomo, alla donna-angelo e alla sua funzione salvifica delle due
stanze conclusive della canzone Al cor gentil.
Guittone d’Arezzo, il principale esponente della poesia cortese toscana, più tardi si convertì
a una poesia morale e religiosa, implicitamente condannando come immorale tutta la pre-
cedente tradizione poetica. Venne aspramente attaccato da Dante, che in più circostanze
ebbe parole di aperto disprezzo per la sua poesia, che giudicò rozza e municipale. Guitto-
ne mostrò anche di non comprendere le potenzialità di rinnovamento morale e letterario
dell’esperienza stilnovistica, e certamente – come Dante fa dire a Bonagiunta nel citato
canto XXIV del Purgatorio – rimase al di qua di quell’esperienza letteraria, come del resto
i siciliani e lo stesso Bonagiunta («“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo / che ’l Notaro
e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”», Pg XXIV 55-57).
Nel sonetto S’eo tale fosse, ch’io potesse stare Guittone, riferendosi proprio a Io voglio del ver
la mia donna laudare e a un altro testo laudativo del Guinizzelli, Vedut’ho la lucente stella dia-
na, esplicitamente attacca il poeta bolognese per aver paragonato la donna a degli elemen-
ti naturali, che nella gerarchia delle creature sono ad un livello inferiore della donna. Con
ciò dimostra di rigettare il concetto guinizzelliano di naturalità dell’amore e di non condi-
videre o addirittura di non cogliere il ruolo salvifico che, nell’ordine naturale e provviden-
ziale, Guinizzelli attribuisce alla donna.
Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave del 2 Quali affinità (tematiche, ideologiche,
COMPRENSIONE testo e prova a schematizzare in un dia- tecniche...) presenta questo sonetto con
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gramma i temi delle terzine (situazione, la canzone Al cor gentil? Ci sono significa-
personaggi, effetti). tive divergenze?
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Duecento e Trecento
Nota metrica 2 m’ancide: mi uccide. 5 per mezzo lo cor: at- traverso gli occhi come fa il rende: nella quale non vi so-
Sonetto secondo lo sche- 3-4 non ha... merzede: traverso il cuore. fulmine (trono) che colpisce no (ricorre) né vita né anima,
ma ABAB,ABAB, CDE, non si preoccupa se mi arre- 6 ched oltre ’n parte: (fer’) attraverso la finestra ma che possiede esclusiva-
CDE. Siciliana la rima B. ca offesa (peccato), se mi fa che da parte a parte. della torre... mente l’aspetto d’uomo.
soffrire oppure mi fa grazia 8 quelli: uno che... 12 ottono: ottone.
(merzede), mi dà sollievo. 9-10 Per... torre: passa at- 13-14 ove vita né spirto...
Guida all’analisi
Un’apparizione sconvolgente Anche per gli stilnovisti l’amore è una passione che può sconvolgere. Accanto al-
le rime in lode della donna, accanto all’analisi degli effetti “miracolosi”, di ingentilimento ed
elevazione di chi entra nella sfera d’azione della donna (temi questi cari, poi, soprattutto a
Dante) si colloca l’analisi spesso drammatica del turbamento che il manifestarsi d’amore pro-
duce nell’uomo (tema tipicamente cavalcantiano). Il Guinizzelli “precursore” dello stilnovo
dà l’avvio ad entrambe le direzioni che percorreranno i due capiscuola fiorentini.
In questo sonetto è notevole rilevare innanzi tutto come la vicenda esterna del rapporto d’a-
more si riduca drasticamente alla menzione del saluto e dello sguardo (e tutt’al più all’atto-
nita immobilità del poeta), mentre tutta l’analisi si concentra sullo stato di turbamento inte-
riore, sugli effetti psicologico-morali dell’incontro. Anche in questo caso lo sconvolgimento,
drammaticamente rappresentato come trafittura, fulgurazione, pietrificazione, è del tutto in-
dipendente dall’atteggiamento della donna, dalla dialettica cortese di dichiarazioni, patteg-
giamenti, promesse, rifiuti, speranze, disillusioni che hanno come fine almeno la reciprocità
dell’amore, ma anche rapporti più concreti. Non è la ripulsa della donna che annichilisce l’a-
mante, ma la sua semplice apparizione. Qui il tema non ha espliciti risvolti metafisici, ma ap-
pare del tutto in armonia con la rappresentazione della donna-angelo e il turbamento che
l’uomo prova di fronte all’apparizione del divino (e la contiguità con testi più espliciti come
Al cor gentil consente di leggere il sonetto in questo senso). Estasi e annichilimento, gioia e
terrore sono d’altronde anche nella letteratura mistica i due opposti e complementari effetti
che la manifestazione del divino determina nell’uomo che ne fa esperienza.
Fonti Di per sé, tuttavia, molte delle immagini qui utilizzate sono tradizionali: l’immagine del
dardo d’amore ha radici lontane (classiche e bibliche: per le prime R Doc 7.5 , per le seconde si
ricorda ancora una volta il Cantico dei Cantici, IV, 9: «Vulnerasti cor meum, soror mea spon-
sa, vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum» [Tu hai trafitto il mio cuore, sorella mia
sposa, tu ha trafitto il mio cuore con un solo tuo sguardo]) ed è diffusa in tutta la lirica cor-
tese, la similitudine col fulmine è presente già in Guittone; quella della statua è già nella li-
rica provenzale.
Quella del dardo scagliato da Amore che trafigge il cuore dell’uomo facendolo innamorare,
è una metafora antichissima, fra le più costanti del linguaggio della lirica amorosa di tutti i
tempi. Nella forma sua più tipica ha origine nelle letterature classiche. Il Medioevo e Gui-
nizzelli stesso in questo sonetto con tutta probabilità la derivano da un passo delle Meta-
morfosi di Ovidio, una delle principali fonti anche per la conoscenza mitologica medievale.
A proposito del mito di Dafne (figlia di Peneo e perciò designata come «ninfa penea»), Ovi-
dio racconta che Apollo, ancora insuperbito per avere sconfitto il serpente Pitone, apostro-
fa in malo modo il fanciullo Cupido che stava tendendo il suo arco: che vuoi fare con ar-
mi così impegnative, che si addicono più alle mie spalle che alle tue? Cupido replica che
l’arco d’Apollo può trafiggere ogni cosa, ma il suo può trafiggere il cuore di Apollo.
Ovidio, Metamorfosi,
I, 466-474, trad. M.
Ramous Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,
fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce
d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.
470 La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,
la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.
Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra
colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.
Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore
475 vuol sentire…
Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave di 3 Metti a confronto i due sonetti T 7.2 e
COMPRENSIONE questo sonetto e prova a schematizzarli in T 7.3 : quali elementi (anche soltanto im-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE un semplice diagramma. pliciti) li accomunano e quali viceversa li
2 Quali affinità (tematiche, ideologiche, distinguono? Spiega come una medesima
tecniche…) presenta questo sonetto con concezione dell’amore e della donna pos-
la canzone Al cor gentil? Ci sono significa- sa sortire effetti così diversi.
tive divergenze?
155 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
Guida all’analisi
Amore come dramma della conoscenza L’atteggiamento che Cavalcanti manifesta nei confronti della donna e
dell’amore, dà luogo nella sua poesia a una sorta di ‘dramma conoscitivo’ e più precisamen-
te alla drammatica scoperta della propria incapacità di conoscere appieno l’oggetto del pro-
prio amore. Nel suo canzoniere Cavalcanti continuamente si interroga sulla natura della
donna e della passione che a lei lega l’innamorato: il suo principale tormento deriva non
tanto da un atteggiamento di non corresponsione della donna (elemento questo della tradi-
zione cortese, solo vagamente accennato in qualche componimento nei soliti termini di
mancanza di «pietà»), quanto piuttosto dalla sua natura eccedente l’umana comprensione e
dall’irrazionalità (inspiegabilità in termini razionali) della passione stessa che egli prova. Del
resto anche i rari momenti di gioia estatica hanno origine dalla contemplazione e dall’in-
tuizione della sovrumana perfezione della donna.
La natura benigna della donna e la coralità della visione Importante in questo testo – per il distanziamento dal-
la tradizione cortese – è il concetto di umiltà nel senso di “benevolenza, benignità”. Il con-
cetto e la parola che lo esprime hanno forti implicazioni cristiane ed evangeliche e ricon-
ducono la rappresentazione cavalcantiana alla funzione eticamente positiva che già Guiniz-
zelli aveva teorizzato per la donna. La donna qui lodata ha in misura tale questa virtù che
ogni altra donna paragonata a lei può essere definita ira, cioè una forma di malignità, un vi-
zio pressoché antitetico. La distanza che intercorre fra la lodata e le altre appare una distan-
za incolmabile, infinita.
Occorre inoltre notare che la benevolenza qui celebrata non ha alcuna attinenza con
l’atteggiamento della donna nei confronti dei sentimenti del poeta, non è una forma di cor-
responsione all’amore; è una qualità assoluta della donna, che si manifesta a tutti. Cavalcan-
ti qui infatti adotta un «punto di vista indefinito o ‘corale’» (De Robertis): l’ammirazione, i
sospiri, la stessa impossibilità di comprensione è riferita a tutti gli astanti («ogn’om la mira»)
o all’umanità intera («Non fu sì alta già la mente nostra / e non si pose ’n noi tanta salute, /
che propiamente n’aviàn canoscenza») e riserva a se stesso solo «l’ammissione dell’ineffabi-
lità», della propria insufficienza ad esprimere con parole la natura ‘eccessiva’ della donna
(«dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare»).
Apparizione e religioso stupore Che Cavalcanti voglia ammantare d’un religioso stupore questa apparizione
della donna, slegandola da ogni riferimento a una storia d’amore privata, appare chiaro dal-
la trama di immagini, di concetti e di riferimenti biblici che regge il sonetto. Come già in
Guinizzelli, in tutto il suo canzoniere svaniscono quasi completamente dati che rimandino
a situazioni e contesti precisi, a elementi riconducibili a una vicenda biografica sia pur im-
maginaria. Tutto è risolto in un’apparizione dai contorni indefiniti e nell’analisi delle rea-
zioni che essa induce. L’apparizione è espressa con un inequivocabile stilema biblico: la ci-
tazione quasi letterale di alcuni passi del Cantico dei Cantici già utilizzati da Guinizzelli
[R T 7.2 ] «Quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens?» [Chi è costei che sorge
come l’aurora?], «Quae est ista, quae ascendit de deserto?» [Chi è colei che sale dal deser-
to?]) fa notare a Contini che «poiché l’esegesi cristiana applicò questi passi a Maria, è evi-
dente l’assimilazione [della donna lodata dal Cavalcanti] al culto mariano».
La splendida immagine dell’aria che all’apparire della donna trema per la lucentezza, ri-
conducibile al lessico della fisica del tempo, ammanta poeticamente colei che si mostra
d’una luce numinosa e associa gli elementi naturali (l’aria) al fremito di stupore che percor-
re gli uomini (Cavalcanti stesso nella canzone Io non pensava che lo cor giammai R T 7.5 ). E il
tremore è sintomo topico dell’apparire del divino. Del resto la simbologia della luce ha una
parte rilevante, sin da Guinizzelli, nella smaterializzazione della donna stilnovistica. Infine, il
tema dell’inconoscibilità e dell’ineffabilità della donna ricorda la mistica e la teologia nega-
tiva: il divino non è compiutamente conoscibile dalla mente umana né compiutamente
esprimibile dalla parola umana.
Allusione a un sonetto del Guinizzelli: concorrenza nella lode Sul piano letterario e ideologico è da notare il
fatto che questo sonetto nasconde un’allusione a un sonetto guinizzelliano (Io voglio del ver
R T 7.2 ): questa è segnalata – come nota Contini – dalla «comunanza di due rime, una nel-
le quartine (-are) e una nelle terzine (-ute), e anzi di ben quattro parole in rima, una per cia-
scuna quartina o terzina (âre, pare, vertute, salute)». Contini parla anzi di «‘concorrenza’ nella
loda»: l’analogia con elementi naturali, sufficiente per la donna di Guinizzelli, non lo è più
per la donna di Cavalcanti, per intendere la quale «ogni ordinario procedimento conosciti-
vo, che sia di qua dalla rivelazione (salute)» risulta insufficiente (cfr. nota al v. 13).
Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave di che i riferimenti biblici hanno nella poe-
COMPRENSIONE questo sonetto e prova a schematizzarli in sia stilnovistica.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE un semplice diagramma. 3 In questo sonetto, come in molti altri testi
2 Muovendo dall’analisi di questo testo e cavalcantiani, spicca l’assenza dei paragoni
dal confronto con i testi guinizzelliani, naturali, presenti ad es. in Al cor gentil: che
formula alcune considerazioni sul ruolo significato può avere questa assenza?
Guida all’analisi
Valore ‘eccessivo’ della donna, inconoscibilità e ineffabilità della sua natura Si diceva nella premessa che Io non
pensava che lo cor giammai può essere considerata una “canzone programmatica” per lo svi-
luppo e l’evidenza con cui sono affrontati i temi centrali della poetica cavalcantiana, che in
parte abbiamo già visto espressi nel precedente sonetto. Esaminiamoli brevemente. La don-
na appare tanto gentil (v. 19), di tanto valor (v. 22) e claritate (v. 23), di tante bellezze adorna (v.
16) – in senso sia fisico sia spirituale, poiché per gli stilnovisti la bellezza tende a configurarsi
come immagine di bontà, di ogni virtù – da comportare due conseguenze importanti. E
cioè: 1) «mente di qua giù no la sostene...»: la mente umana non è in grado di reggere l’im-
patto con la sua perfezione, né a maggior ragione la può comprendere in modo compiuto
(vv. 17-18 e 20-22); il valore della donna è insomma ‘eccessivo’ per l’amante, nel senso che
‘eccede’, va oltre le sue umane facoltà (cfr. «troppo è lo valor di costei forte», v. 8; «per sover-
chio de lo su’ valore», v. 49); 2) la sua spirituale bellezza (v. 16), il suo valore (v. 22), e cioè
l’essenza profonda della sua spiritualità, è ineffabile, incomunicabile.
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Duecento e Trecento
L’inadeguatezza del poeta produce ora l’estasi ora l’angoscia Si configura, insomma, nel rapporto d’amore, una
sorta di insormontabile inadeguatezza dell’amante rispetto alla donna amata, che i motivi
dell’incomprensibilità e dell’ineffabilità della donna rivelano. Sul piano psicologico-morale,
l’inadeguatezza dell’uomo si manifesta in due stati opposti e (fino a un certo punto) alter-
nativi: l’estasi provata nella contemplazione della miracolosa visione oppure lo sbigottimen-
to e l’angoscia che pervadono il poeta conscio della propria inadeguatezza («l’anima sento
per lo cor tremare», v. 20; «Amor… / mi sbigottisce sì, che sofferire / non può lo cor» vv. 33-35;
«un che si more sbigottitamente» v. 56). Quest’ultima è la condizione psicologico-morale più
frequente nel canzoniere cavalcantiano, e sovente si propone come prefigurazione o timore
della morte, come è chiaramente detto in questo testo (v. 4, vv. 7-8, v. 42 ecc.).
Coerenti con il campo semantico del conflitto sono anche le menzioni del ferire (ferire,
v. 13; fere, v. 23) e della sofferenza (tormento, v. 2; sofferire, v. 34), della paura (v. 52), del tremo-
re (tremare, v. 20) e della viltà (non ardisco, v. 32), della battaglia (v. 11, cui si associa il dimandar
merzede, l’arrendersi, il chiedere pietà del v. 27).
Drammatizzazione del conflitto interiore Lo stato di angoscia, di sbigottimento (vv. 34 e 56) fin da questa canzo-
ne si configura come esito di un conflitto interiore che ha per protagonisti le facoltà, i sensi,
gli organi dell’uomo raffigurati come entità autonome, ai limiti della vera e propria personifi-
cazione.
Nella canzone, sin dalla prima stanza, il conflitto rappresentato ha tre protagonisti (che po-
tremmo definire esterni): Io, Amore e madonna (vv. 1 e 6). Si tratta di due persone e di un’en-
tità personificata (mediante la maiuscola) che in due occasioni si rivolge direttamente al poe-
ta comunicandogli l’inevitabilità della disfatta («Tu non camperai...», vv. 7-8; «Io ti dispero...»,
vv. 36-42) nella battaglia in cui egli (Amore) assolve il ruolo di condottiero di madonna (vv.
13-14, 33-35).
L’io del poeta, in piena ma fallace evidenza ad inizio del v. 1, appare subito come disgrega-
to in un insieme di elementi (facoltà, sensi, organi) che divengono protagonisti (interni po-
tremmo definirli) del conflitto con Amore e madonna: il cuore (v. 1), l’anima (v. 3), gli occhi (v.
23), la virtù (v. 9), gli spiriti (v. 14). Il cuore prova tormento, l’anima piange, la virtù parte scon-
solata, gli spiriti sono volti in rotta, gli occhi sono feriti. Dell’io così disgregato che cosa resta?
Possiamo concludere che nel complesso del canzoniere cavalcantiano questa disgregazione
dell’io (in organi e facoltà), che spesso si configura come vera e propria drammatizzazione del
conflitto interiore (facoltà, spiriti, organi ecc. si comportano come veri e propri personaggi e
talora addirittura parlano), appare come l’equivalente simbolico della condizione di angoscia
provata dal poeta.
Un dramma sotto gli occhi di tutti Tipico di Cavalcanti, e poi di Dante, è il fatto che la sofferenza e lo sbigotti-
mento dell’innamorato sono sotto gli occhi di tutti. Spesso, come in questo caso ai vv. 23-
28, compare un personaggio che denuncia lo stato pietoso del poeta. Rispetto alla lirica
cortese, dove terze persone comparivano nella funzione dei lauzengiers, maldicenti invidiosi
che mettevano zizzania fra il poeta e la donna, qui la funzione dei terzi è esclusivamente
quella di constatare la sofferenza dell’innamorato, di additarne l’esemplarità e, caso mai, al-
l’opposto, di sollecitare la pietà della donna (se il «Non guardi tu…» del v. 25 fosse interpre-
tabile come un appello alla donna stessa). Il poeta d’altronde sembra voler chiedere com-
prensione e solidarietà, ma vanamente vista la sua impotenza, alle persone sensibili («Quan-
do ’l pensier mi vèn ch’i’ voglia dire / a gentil core de la sua vertute…», vv. 29-30). Anche
sotto questo rispetto ci si distanzia dalla poesia cortese, dov’era buona regola il «ben celare».
Laboratorio 1 Analizza le metafore militari presenti in 2 Abbiamo definito questa una canzone
COMPRENSIONE questa canzone, distinguendo i termini programmatica: confrontala con Al cor
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE tecnici militari (ad es.: battaglia, saetta...) gentil, la canzone dottrinale di Guinizzelli.
dai termini che vengono attratti nell’area Quali sono le principali caratteristiche
semantica della battaglia e della guerra tematiche e formali che le distinguono?
(ad es. valor, camperai...).
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7. Lo Stilnovo T 7.6
1 Voi... core: voi che mi della passione) producono 5 E’... valore: Egli lo l’aspetto esteriore rimane 14 nel lato manco: nel la-
trafiggeste il cuore «serven- effetti sconvolgenti. (Amore) avanza colpendo in potere di amore: un cor- to sinistro, dove è collocato
dovi degli sguardi» (Conti- 2 destaste… dormia: di taglio (vèn tagliando) con po senz’anima, insomma, il cuore. L’anima che si ri-
ni) oppure passando «attra- risvegliaste (cogliendo di tale forza, maestria. «Taglia- vista la fuga degli spiriti. scuote atterrita alla vista
verso gli occhi miei» (De sorpresa) la mia mente che re» è termine tecnico del 8 parla dolore: costru- della morte del cuore (tra-
Robertis). Il senso generale era addormentata. lessico militare come il pre- zione transitiva: manifesta il fitto dal dardo d’amore) si-
non cambia: nel canzoniere 4 che sospirando la di- cedente «passare». proprio dolore, parla dolo- gnifica, nella solita forma
cavalcantiano tanto l’aspetto strugge Amore: che Amore 6 spiriti: gli spiriti vitali, rosamente. metaforica, lo sconvolgi-
della donna che i suoi sguar- distrugge facendomi sospi- ovvero le facoltà psico-fisi- 9 vertù: forza, potenza. mento delle facoltà alla
di (entrambi percepiti attra- rare (la è pleonastico, sospi- che dell’uomo; R T 7.5 , 10 presta: rapida. constatazione dell’avvenu-
verso gli occhi del poeta, il rando è riferito logicamente nota v. 48. 12 ritto: diritto, preciso. – to innamoramento.
canale principe per la genesi a vita). 7 riman... segnoria: so- tratto: lancio.
Guida all’analisi
I temi, l’azione rappresentata Ricostruiamo così l’azione rappresentata: la donna si manifesta al poeta, gli rivol-
ge uno sguardo (v. 10); il suo sguardo, come un dardo scoccato d’amore, passando attraverso
gli occhi (v. 1) del poeta che lo ha colto, ha raggiunto il cuore (v. 1; v. 11) e lo ha trafitto; l’a-
nima che riposava si è riscossa (v. 2; v. 13), gli spiriti vitali sono fuggiti via di fronte all’assal-
to d’amore (v. 6), il cuore è morto (v. 14); solo l’aspetto esteriore e una fioca voce rimango-
no e sono in potere d’amore (vv. 7-8); la voce manifesta tutto il dolore per la disfatta (v. 8).
Una battaglia metaforica Anche in questo caso organi e facoltà dell’io compaiono oggettivati, personificati.
Quella che all’origine è una vicenda psicologica è trasformata da Cavalcanti in un’azione
scenica di grande intensità drammatica, ma al tempo stesso astratta (il lettore percepisce una
scena di battaglia, ma comprende che non deve intenderla realisticamente bensì metaforica-
mente e che deve riferirla ad uno stato interiore). L’uso di un lessico tecnico, le metafore, le
personificazioni sono i principali procedimenti stilistici e retorici che consentono questo ri-
sultato.
161 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento
All’ambito del lessico tecnico, in questo caso della fisiologia (nell’ambito della filosofia na-
turale), appartengono gli «spiriti», una vera e propria parola-chiave della poesia di Caval-
canti, tanto che egli stesso compirà una sorta di autoparodia nel sonetto Pegli occhi fere un
spirito sottile, nel quale il termine compare ben quindici volte. Non c’è da stupirsi che Ca-
valcanti, così attento all’analisi delle passioni e incline a una poesia che mostrasse spessore
filosofico, introducesse sovente questo concetto nella sua opera. Gli spiriti di cui qui si par-
la sono dunque dei «corpi sottili» (Contini), dei vapori prodotti dal cuore che si diffondo-
no nei diversi organi e sono responsabili di pressoché tutti i processi vitali.
La fisiologia del tempo, e specificamente Alberto Magno, che nel De spiritu et respiratio-
ne [Il soffio e la respirazione] o nei suoi Parva naturalia [Questioni naturali] descriveva il cor-
po «come una complessa macchina pneumatica» (De Robertis), ne distingueva diverse ca-
tegorie. Cavalcanti parla esplicitamente solo dello «spirito visivo» (Rime XXII e XXVIII),
per il resto li usa nell’accezione generica o in forma immaginativa («spirito che ride», «spi-
rito di gioia», «rosso spirito», come rileva De Robertis). Ciò non toglie che nella sua rap-
presentazione egli tenga conto di questa letteratura medico-filosofica. In particolare, per la
fenomenologia cavalcantiana della passione d’amore, sono importanti gli spiriti che hanno il
compito di trasmettere le singole percezioni dagli organi sensoriali esterni (gli occhi so-
prattutto) al cervello (mente), che è la sede centrale delle sensazioni. Ma nel nostro com-
ponimento la fuga degli spiriti (vitali) dal cuore indica una sorta di collasso psico-fisico, che
debilita le principali facoltà intellettive e vitali (rimane solo l’aspetto esteriore d’essere vi-
vente e «voce alquanta, che parla dolore»): in un altro sonetto, memore di Guinizzelli, Ca-
valcanti descrive questo stato come una sorta di condizione meccanica d’automa.
Più tardi Dante (in questo molto probabilmente dipendente dal gusto e dall’uso caval-
cantiano) evoca a più riprese nella Vita nuova gli spiriti: ad esempio, al capitolo secondo
[R T 9.1 ] per descrivere l’effetto che la prima comparsa di Beatrice fece su di lui, egli di-
stingue spirito de la vita (che ha sede nel cuore), spirito animale (che ha sede nel cervello),
spirito naturale (che ha sede nel fegato), spiriti sensitivi (responsabili in genere delle perce-
zioni sensoriali) e spiriti del viso (responsabili della vista).
Vita Nuova II, 4-7 In quello punto [alla vista di Beatrice] dico veracemente che lo spirito de la vita, lo qua-
le dimora nella secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che
apparia ne li menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole […]. In questo
punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti gli spiriti sensi-
tivi portano le loro percezioni [il cervello], si cominciò a meravigliare molto, e parlando
spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole […]. In quello punto lo spirito na-
turale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro [il fegato],
cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole […]. D’allora inanzi dico che
Amore segnoreggiò la mia anima…
Guida all’analisi
Tono dolente e malinconico sul motivo della lontananza Rispetto ai tanti componimenti che nel canzoniere
cavalcantiano affrontano il tema dell’angoscia, questa ballata segna un mutamento di registro
stilistico: dai toni tragici si passa a toni più dolenti e malinconici. In proposito si notino, ad
esempio, l’uso reiterato del diminutivo ballatetta (al v. 39 in rima con deboletta, v. 37), il ca-
rattere di pacato e confidenziale colloquio che tutto il discorso assume e, infine, il fatto che
non è la donna la causa diretta di sofferenza per il poeta (ché, anzi, la si immagina benevol-
mente disposta verso la ballatetta messaggera, vv. 2-5), ma, forse, proprio la sua lontananza in
un momento cruciale («la morte mi stringe...», vv. 17-18).
Il dialogo affettuoso con la ballatetta Sul piano della struttura viene introdotta la notevole variazione del ri-
volgersi direttamente alla ballatetta, cioè al proprio componimento, quale tramite tra il poe-
ta e la donna separati da una insormontabile e definitiva lontananza: questo espediente, tipi-
co delle stanze di congedo delle canzoni (ad es. Io non pensava, R T 7.5 ), è qui protratto per
l’intera ballata e ne determina l’originalità. A tal proposito si noti – come ha scritto il Qua-
glio – la «tenerezza confidenziale» con cui il poeta si rivolge alla propria ballata messaggera,
apostrofata più volte con il tu (vv. 3, 6, 7, 9, 12, 16, 23 ecc.), con il possessivo mia (v. 27), col
diminutivo, e accomunata dal medesimo procedimento retorico «alla voce sbigottita e debo-
letta (v. 37) e all’anima (v. 45) del poeta stesso». Un medesimo «delicato formulario espressi-
vo» si ripropone così lungo tutto l’arco del componimento. Il critico può pertanto conclu-
dere: «Come ben vide il Foscolo, su questi “ritornelli” che prolungano da un verso all’altro
la sinfonia della mestizia, il Cavalcanti innesta genialmente il fittizio colloquio con il pro-
prio componimento, l’unica presenza nel deserto della sua solitudine, conferendo nuova
eloquente soavità alla comunicazione con la muta ballatetta (un diminutivo anche sentimen-
tale), la creatura alla quale affida il suo dolente messaggio».
I consueti motivi cavalcantiani Pur con queste variazioni, la ballata ripropone peraltro quasi tutti i principali
motivi del canzoniere cavalcantiano (il servizio d’amore, qui esteso dal poeta alla ballata
stessa, la lode della donna per la sua bellezza e le sue virtù, l’adorazione di lei; la gentil natu-
ra; la distruzione dell’equilibrio psico-fisico espressa anche mediante le consuete personifi-
cazioni; i sospiri, il dolore, lo sbigottimento, la paura della morte ecc.).
Laboratorio 1 Nella guida all’analisi abbiamo citato al- riferimenti a personaggi e situazioni.
COMPRENSIONE cuni dei consueti motivi cavalcantiani Quali dati, ad esempio, fornisce il testo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE presenti anche in questa ballata. Indivi- riguardo alla donna amata e alle ragioni
duali nel testo e commentali. per cui il poeta soffre e si sente prossimo
2 Uno dei dati salienti di questa ballata è la a morire? Ci sono differenze rispetto ad
vaghezza (maggiore che in altri casi) dei altri testi da te analizzati?
VERIFICA
VERSO
L’ESAME
Guido Cavalcanti
Noi siàn le triste penne isbigotite 1280-1300
In questo splendido sonetto Cavalcanti rielabora genialmente alcuni dei suoi temi pre-
diletti, adottando un punto di vista davvero sorprendente.
1 siàn: siamo; indicativo non è chiaro se alla donna o van via»). -ci, che precede; altri ipo-
prima persona plurale co- alle persone che tante volte 7 la man… dice: forse tizza si debba leggere «voi»
me più avanti, due altri siàn, sono chiamate a constatare col suo tremito (De Ro- (cioè presso di voi).
diciàn, preghiàn, possiàn. la condizione di sbigotti- bertis), ma nel Cavalcanti 14 tanto che… vi miri:
1-2 le triste… dolente:pen- mento del poeta. non è insolito che parti del fintanto che vi prenda un
ne, cesoiuzze e coltellin sono 5 siàn partite: ci siamo corpo possano parlare. poco di compassione; vi
gli strumenti della scrittura: allontanate (dal poeta). Ma 8 cose dubbiose… ap- miri significa «vi guardi»,
gli ultimi due erano adibiti l’espressione ricorda la fu- parite: cose paurose; le ma- nel senso lato di «vi tocchi»
ad affilare le penne. ga degli spiriti dai centri nifestazioni cioè della pas- (per scambio di sensi, dalla
4 vo’: voi, riferito, come vitali (cfr. Voi che per gli occhi, sione. vista al tatto), «si impadro-
il vi del verso conclusivo, v. 6 «che’ deboletti spiriti 13 noi: rafforzativo del nisca di voi».
Per fare l’analisi di un testo in una prospettiva storico-letteraria devi avere numerose infor-
mazioni relative al contesto, all’autore, alla sua poetica, ad altre sue opere e ad autori e ope-
re affini. Più informazioni possiedi, più è probabile che la tua comprensione e interpretazio-
ne del testo risultino soddisfacenti e persuasive.
Nel caso di questa analisi scolastica diciamo che tutto quanto hai studiato fin qui sul conte-
sto storico-culturale e letterario del tardo Medioevo ti può essere genericamente utile, e in
particolar modo le informazioni desumibili dai capitoli sulla poesia cortese, siciliana e sicu-
lo-toscana, che ti forniscono uno sfondo su cui collocare (e con cui eventualmente confron-
tare) l’esperienza stilnovistica.
Ma per l’analisi specifica di questo testo naturalmente sono essenziali le informazioni pre-
senti in questo capitolo: ideologia, poetica, temi prediletti, linguaggio e stile comuni agli
stilnovisti e particolari di Guido Cavalcanti. La conoscenza dei suoi testi presenti in antolo-
gia ti consentirà di rilevare affinità e differenze e quindi di valutare l’originalità di questo so-
netto.
Nei questionari, così come nelle interrogazioni, le domande o le richieste vanno analizzate e
scomposte per rispondere in modo adeguato.
COMPRENSIONE
7 Ti pare lecito descrivere questo testo come una
1 Qual è il «punto di vista sorprendente» da cui poesia d’amore? Motiva la risposta.
viene affrontato il tema del testo? Descrivilo e commentalo. Suggerimenti Qui non si nomina espressamente l’a-
more, ma devi esaminare gli stati d’animo che vengo-
Suggerimenti Chi parla in questo testo? Di che cosa
no attribuiti al poeta e in particolare le «dubbiose cose
parla? Che effetto ti pare produca questo espediente?
nel core apparite»: da che cosa possono essere pro-
2 Ai locutori vengono attribuiti dei sentimenti: dotti tali stati d’animo? Sono compatibili con quelli
quali? prodotti in lui dall’amore e dalla vista della donna?
loghi? Ti pare possibile un trasferimento di sentimenti 8 Questo testo è anche, in forma metaforica, una
dal poeta a questi oggetti per ‘simpatia’ o per analo- implicita riflessione sulla scrittura poetica e sulla sua impor-
gia? Che sentimento rivelano nei confronti del poeta? tanza nella vita del poeta. Prova a illustrare questa possibile
implicazione.
ANALISI Suggerimenti Nota l’affinità dei sentimenti attribuiti
3 Individua e contestualizza storicamente la forma agli strumenti di scrittura e al poeta; ricorda il conge-
metrica e indica lo schema di rime di questo componimento. do di T7.5 Io non pensava in cui il poeta si rivolge alla
canzone come a una persona e le attribuisce impor-
Suggerimenti Si tratta di una forma usuale nei poeti
tanti compiti; ricorda anche il T7.7 Perch’i’ no spero,
stilnovisti? E nelle scuole poetiche precedenti? A chi
che è tutto un dialogo fra il poeta e la ballata.
se attribuisce l’invenzione? Cfr. T6.2, T7.2-4, T7.6.
9 Quali sono gli aspetti prettamente stilnovistici di
4 La personificazione di oggetti, parti del corpo, questo sonetto?
sentimenti o concetti astratti ricorre in altri testi di Caval-
Suggerimenti Individuato il tema o i temi centrali di
canti? In che cosa si distingue questo testo da altri a te noti?
questo testo (in particolare ai quesiti 5, 6, 7) collocali
Suggerimenti Cfr. ad es. T7.5 dove Amore è personifi- sullo sfondo dell’esperienza stilnovistica qual è de-
cato e parla, facoltà e parti del corpo del poeta sfiora- scritta nel par. 7.1.
no la personificazione come pure la canzone stessa a
cui il poeta si rivolge nella stanza finale.
La poesia comico-realistica
8
della vita quotidiana e della cronaca cittadina, in un
rovesciamento programmatico del repertorio della li-
rica in stile alto e “tragico”. L’opzione per lo stile co-
mico (cioè medio, secondo la codificazione medieva-
le degli stili, con frequenti incursioni verso il basso)
si realizza attingendo ai diversi livelli del parlato po-
polare e municipale toscano, ricco di espressioni vi-
vaci e colorite, senza rinunciare a libere commistioni
con altri registri linguistici, non escluso quello colto e
letterario, sovente impiegato in funzione parodistica
e di contrasto. La forma metrica di elezione dei gio-
cosi è il sonetto.
La critica ottocentesca di matrice romantica ave-
va interpretato in modo antistorico la poesia comico-
realistica quale poesia autenticamente popolare,
contrapposta alla lirica d’arte in quanto creazione
“spontanea” di poeti incolti e immediata trascrizione
di reali e personali esperienze biografiche. Appare
ormai pienamente accertata, invece, la letterarietà
della produzione giocosa (confermata da significati-
ve sperimentazioni del registro comico da parte di
poeti della linea aulica, soprattutto gli stilnovisti e
Dante), che si riconnette in particolare alla tradizione
mediolatina dei canti goliardici, rappresentata so-
prattutto dalla raccolta dei Carmina Burana (XII-XIII
sec.), dove trova spazio la spregiudicata esaltazione
dell’amore sensuale, della vita libera e sfrenata, del
vino, del gioco e della taverna, in una prospettiva
edonistica, ludica e “carnevalesca”.
Numerosissimi i rimatori giocosi attestati: tra le
personalità più notevoli, Rustico Filippi fiorentino,
iniziatore della poesia comico-realistica in volgare
toscano, che colpisce per l’energico realismo della
n Scena di vita cittadina Tra la metà del Duecento e i Primi del Trecento, rappresentazione nelle forme predilette dell’invettiva
(part. degli affreschi di Andrea nei centri della Toscana comunale (Firenze, Arezzo, e della caricatura; il senese Cecco Angiolieri, che nel
Bonaiuti e allievi, Cappellone
degli Spagnoli, Firenze). Siena, San Gimignano e altri) si sviluppa una cospi- suo canzoniere costruisce con rara maestria espres-
cua produzione poetica variamente denominata «co- siva, retorica e metrico-ritmica un suo personaggio
mico-realistica», «giocosa», «burlesca» o «borghese». teatralmente empio e dissacratorio, rielaborando con
Sebbene i rimatori che coltivano questo genere di grande originalità i tradizionali motivi della vita gau-
poesia non costituiscano una “scuola” unitaria, sono dente e scioperata, del vituperium, dell’umor nero
tuttavia accomunati da caratteristiche predilezioni iroso e distruttivo; Folgore da San Gimignano infine,
tematiche (accompagnate da scelte del tutto coerenti che nelle sue “corone” di sonetti (celeberrima quella
sul piano linguistico e formale), che si indirizzano dei Mesi ) disegna scene di vita lieta e cortese in uno
verso gli aspetti più corposi e “terrestri” dell’espe- stile “mediano” sospeso tra realismo descrittivo e di-
rienza, aprendo nuovi spazi alla rappresentazione mensione fantastico-evocativa.
Carmina moralia
(canti satirici, invettive, la fortuna)
centri di produzione
ne fanno il loro metro di elezione: entro la struttura breve, compatta e scandita dei
quattordici versi concentrano scorci descrittivi di singolare efficacia, rapidi spunti nar-
rativi, scenette di vita cittadina e ritratti (R 8.3); e poi dialoghi mossi e vivaci, talvolta
concitatissimi [R T 8.1 ], quasi un’azione teatrale in miniatura, fino agli affollatissimi e
policromi arazzi, sospesi tra realtà e sogno, di Folgòre [R T 8.3 ].
Esperimenti giocosi in stile comico dei poeti “tragici” Una conferma decisiva della natura lette-
raria e colta di questa produzione viene dal fatto che anche i poeti coevi della linea
aulica e “tragica” compongono occasionalmente sonetti in stile comico sui motivi ca-
nonici, sperimentando la tonalità opposta a quella loro consueta e più congeniale. Si
va da Guinizzelli a Cavalcanti, a Cino da Pistoia, al Dante della tenzone [R T 9.8 ] e
forse del Fiore (R 9.7), il quale in seguito si varrà da par suo di tale esperienza stilisti-
ca e tonale nell’orchestrazione della Commedia. Si registra anche il fenomeno inverso:
l’esempio più vistoso è offerto dal canzoniere “bifronte” di Rustico Filippi (R 8.3),
equamente diviso tra rime giocose e rime amorose di stampo aulico, sulla scia dei Si-
ciliani.
Autobiografia e letteratura Sarebbe tuttavia un errore, in certo modo opposto e simmetrico a quello
degli studiosi ottocenteschi, negare qualsiasi autentico coinvolgimento personale, bio-
grafico e umano, nelle tematiche trattate.
Occorre innanzitutto osservare che “traducendo” nel volgare italiano temi e moti-
vi della tradizione giocosa, e filtrandoli per di più attraverso un inedito e vivacissimo
parlato popolare toscano, questi rimatori restituiscono sulla pagina i colori e il forte
sapore di un ambiente e di un’epoca, di una realtà concreta e minuta, per quanto rie-
laborata nella finzione letteraria. In secondo luogo, se da un lato non sarà il caso di
credere ingenuamente a Cecco Angiolieri quando proclama il suo ideale di vita (Tre
cose solamente m’ènno in grado, R 8.4 e R Doc 8.4 ), dall’altro non si potrà certo escludere a
priori «che i giocosi, o qualcuno di loro, possano essere stati donnaioli, giocatori e ta-
vernieri» (Marti). E in ogni caso si dovrà quanto meno ammettere una congenialità
psicologica e umana che abbia indotto alla scelta di quei temi e di quello stile; una scel-
ta, d’altra parte, a tal punto vincolante sul piano espressivo che i rapporti fra autobio-
grafia e letteratura se mai finiscono per invertirsi: quando nelle rime dei nostri poeti
giocosi compaiono elementi autobiografici – in alcuni casi accertati dai documenti
d’epoca – questi vengono calati entro gli stampi letterari codificati, modellandosi sul-
le convenzioni del “genere” secondo tradizione.
d’Orléans, nato nel 1093, soprannominato il «Primate» per l’eccellenza dei suoi versi,
o Gualtiero di Châtillon (1135-1204), celebre per i suoi canti satirici e morali. Tutte le
liriche erano destinate ad essere cantate, ma soltanto per una trentina di esse gli ama-
nuensi hanno riportato la notazione musicale. Si tratta della raccolta di gran lunga più
importante e organica di poesia goliardica a noi trasmessa dal Medioevo. Ampiamente
diffusi sia tra gli uomini di cultura sia a livello orale e popolare, i Carmina Burana la-
sciarono un’impronta duratura nelle letterature europee.
I goliardi, clerici vagantes I Carmina Burana sono il frutto della creatività dei cosiddetti goliardi o clerici
vagantes, studenti e magistri attivi soprattutto nella Francia del Nord e nell’area renana,
dove, nel corso del secolo XII e poi nel XIII, più fervida si sviluppava la nuova cultu-
ra delle Università (R 1.4): «chierici», cioè intellettuali; «vaganti», ovvero itineranti, in
quanto si spostavano frequentemente da un centro di studi all’altro, non di rado con-
ducendo vita disordinata e avventurosa. A un ostentato atteggiamento anarchico e
trasgressivo, a uno stile di vita libero e sregolato, quale provocatoriamente si esprime
nei celebri carmi, allude appunto l’appellativo di «goliardi», di cui i chierici-studenti si
fregiarono: il termine deriva da Golia (Goliath), il gigante del racconto biblico, abbat-
tuto dalla fionda di Davide. Identificato nell’interpretazione allegorica medievale con
il demonio, Golia assurge fra l’altro (per la facile assonanza con gula, “gola” o “ingordi-
gia”, uno dei sette vizi capitali) a simbolo di voracità e bassa sensualità. Questa figura
di goliardo ribelle corrisponde soltanto in parte a realtà storica: se i documenti dell’e-
poca non lasciano dubbi sull’esistenza di una frangia di chierici-studenti “irregolari”,
dissoluti, squattrinati e chiassosi, contro i quali a più riprese tuonarono le più alte au-
torità ecclesiastiche, d’altro canto appare evidente che si tratta per molti aspetti di una
finzione letteraria, di una “maschera” assunta da dottissimi letterati, né eretici né rivo-
luzionari, talora personalità di grande prestigio che contribuirono ad elaborare una
nuova visione, più libera, aperta e dinamica della ricerca e del sapere, sullo sfondo del-
l’imponente rinnovamento culturale del secolo XII (R 1.4).
Carmina moralia La prima sezione dei Carmina Burana (1-55) include prevalentemente canti satirici
e di invettiva, che esprimono in toni veementi una rivolta morale contro la corruzio-
ne e la mondanizzazione della curia papale e degli ordini monastici (R 3.2), attribuite
all’ingerenza del potere laico nella vita spirituale e alle ambizioni politiche e tempora-
Fortune plango vulnera stillantibus ocellis, Piango per i colpi della Fortuna con gli occhi pieni di la-
quod sua michi munera subtrahit rebellis. crime, poiché mi è contraria e mi sottrae i suoi doni. È
Verum est, quod legitur fronte capillata, vero, come si legge, che la Fortuna ha i capelli sulla fronte
4 sed plerumque sequitur Occasio calvata. e la nuca sempre calva.
In Fortune solio sederam elatus, Sedevo orgoglioso sul trono della Fortuna dove portavo la
prosperitatis vario flore coronatus; corona dei variopinti fiori del successo;ma mentre prima
quicquid enim florui felix et beatus, ero al colmo di ogni gioia e felicità, ora sono stato rove-
8 nunc a summo corrui gloria privatus. sciato e non godo più di alcuna gloria.
Fortune rota volvitur: descendo minoratus; La ruota della Fortuna gira continuamente: scendo sempre
alter in altum tollitur; nimis exaltatus più in basso mentre un altro viene innalzato; un nuovo re
rex sedet in vertice – caveat ruinam! siede sul trono, sollevato sopra tutti. Stia attento a non ca-
12 nam sub axe legimus Hecubam reginam. dere! Sotto la ruota troviamo infatti Ecuba, la regina.
Carmina Burana (16), a Nota metrica nario sdrucciolo, il se- 12 Hecubam: Ecuba, assunta ad emblema del-
cura di P.V. Rossi, Versi goliardici, formati condo un senario piano, moglie di Priamo e regina l’incostanza della fortuna.
Bompiani, Milano di due emistichi, il pri- disposti in quartine ri- diTroia,già presso gli autori
1989 mo dei quali è un sette- mate (strofa goliardica). classici (Virgilio, Ovidio)
È questo il cosiddetto «canto dei bevitori» (Carmen potatorum), senza dubbio il più famoso dei
carmi goliardici.Alle prime due strofe, qui riportate, fanno seguito i brindisi e il “catalogo” dei
bevitori, che coinvolgono, in un frenetico crescendo ritmico, tutti gli ordini e tutte le figure della
società medievale.
Carmina Burana (196, 1-
16), trad. di G.Vecchi In taberna quando sumus Quando siamo alla taverna,
non curamus quid sit humus, non ci importa più del mondo;
sed ad ludum properamus, ma al giuoco ci affrettiamo,
cui semper insudamus. al quale sempre ci accaniamo.
5 Quid agatur in taberna, Che si faccia all’osteria,
ubi nummus est pincerna, dove il soldo fa da coppiere,
hoc est opus, ut queratur, questa è cosa da chiedere:
sed quid loquar, audiatur. si dia ascolto a ciò che dico.
Quidam ludunt, quidam bibunt, C’è chi gioca, c’è chi beve,
10 quidam indiscrete vivunt. c’è chi vive senza decenza.
Sed in ludo qui morantur, Tra coloro che attendono al giuoco,
ex his quidam denudantur; c’è chi viene denudato,
quidam ibi vestiuntur, chi al contrario si riveste,
quidam saccis induuntur. chi di sacchi si ricopre.
15 Ibi nullus timet mortem, Qui nessuno teme la morte,
sed pro Baccho mittunt sortem. ma per Bacco gettano la sorte.
Rovesciamento carnevalesco e parodia Quello della taverna appare dunque una sorta di “mondo al-
la rovescia”, che presenta evidenti analogie con la festa del carnevale, notoriamente ca-
ratterizzata dall’atteggiamento ludico e beffardo, dall’egualitarismo anarchico e dal
trionfo della corporeità.
Sul piano delle tecniche e delle forme espressive, il capovolgimento “carnevalesco”
degli ordinamenti, dei valori e delle gerarchie sociali trova il suo strumento più tipico
nella parodia, che nei Carmina Burana si configura come esercizio estremamente colto
e raffinato, in quanto richiede un’eccezionale padronanza della lingua latina e una
stretta familiarità con i testi sacri e con le opere dei classici.
I carmi sono costruiti attraverso un fitto intreccio di allusioni parodistiche alle for-
mule liturgiche e alle scritture sacre, come nella Messa dei giocatori o nel cosiddetto
Vangelo secondo il Marco d’argento. Una parodia, quella del comico carnevalesco medie-
vale, che non nega né distrugge, nonostante la “scandalosa” ostentazione di empietà
che può sconcertare i lettori moderni, ma anzi rigenera, poiché riconosce e sanziona
dall’interno, capovolgendoli temporaneamente, i valori dominanti di una società e di
una cultura ufficiale «caratterizzata da un tono esclusivamente serio» (Bachtin).
Oggettività del ritratto: lo «schizzo a macchia» Tranne rari e discreti accenni, Rustico non parla di
sé, né crea un “personaggio” autobiografico come invece farà Cecco Angiolieri, pro-
ponendosi piuttosto quale testimone e osservatore, benché lasci trasparire i propri
umori e risentimenti partigiani di acceso ghibellino. La rappresentazione tende dun-
que all’oggettività del ritratto, uno «schizzo a macchia» (Marti) istantaneo e potente-
mente icastico, isolato nella misura autonoma del singolo sonetto. Ma il dato crona-
chistico di partenza viene sottoposto a una deformazione caricaturale, ora argutamen-
te ironica (come accade per l’anonimo soldato smargiasso), ora affidata alla violenza
crudamente espressionistica del vituperium (in latino “vituperio”, “ingiuria”).
Scelte linguistiche ed espressive Quanto alla tecnica compositiva, il ritratto-caricatura appare co-
struito soprattutto attraverso una martellante accumulazione che alterna particolari
concreti e vistosi a fini tratti psicologici, per risolversi in una chiusa paradossale di gu-
sto epigrammatico: «sed e’ non muoion sol di pensagione» [R Doc 8.3 ]. Il vigore della
rappresentazione è adeguatamente sostenuto dalle scelte linguistiche ed espressive: un
lessico coloritissimo e vivacemente idiomatico, ricco di fiorentinismi, sovente dispre-
giativo e triviale, giocato sui registri della crudezza e dell’oscenità; il gusto delle paro-
le rare e di forte energia sonora; una sintassi mossa, attinta dalle forme del parlato; una
retorica fondata su un accumulo straripante di comparazioni, metafore, iperboli, cita-
zioni proverbiali, doppi sensi.
della povertà, l’esaltazione del danaro, ardentemente bramato sopra ogni cosa, non
certo al fine di tesaurizzarlo né di investirlo, ma di sperperarlo allegramente.
Vituperium antipaterno e «malinconia» Alla perentoria enunciazione di un ideale di vita esclusiva-
mente dedita ai piaceri materiali s’innestano dunque per antitesi gli altri temi e moti-
vi di spicco: il vituperium antipaterno e gli irosi sfoghi dell’umor nero o «malinconia».
In una nutrita serie di sonetti risuonano insistenti gli augurî di morte e l’acre invettiva
contro il genitore ricco, vecchissimo e avaro, che non si decide a lasciarlo erede del pa-
trimonio e finalmente libero di spendere a suo piacimento. E appunto dall’avvertita
impossibilità di soddisfare i suoi desideri – estremamente concreti e terreni – a causa
della protervia di Becchina così come dell’inossidabile salute del padre taccagno, sorge
nel personaggio-Cecco, perseguitato da un destino di miseria e di irrimediabile di-
sdetta, una perenne irritazione, un malcontento corrosivo: è l’umor nero o «malinco-
nia», che dilaga incontenibile a coinvolgere in apocalittiche fantasie distruttive l’intero
universo, finché il poeta svela ammiccando il proprio gioco [R T 8.2 ].
Manifesto di questo ideale di vita compiutamente goliardico, sebbene calato entro un più
ristretto orizzonte corposamente municipale, il celeberrimo sonetto che riportiamo, nel
quale l’Angiolieri, riprendendo la tecnica illustre del plazer, riunisce in una memorabile sin-
tesi i temi più peculiari (insieme agli artifici espressivi più tipici) della sua poesia.
Poeti del Duecento
a c. di G. Contini, Tre cose solamente m’ènno in grado,
Ricciardi, le quali posso non ben ben fornire,
Milano-Napoli 1960
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.