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LA LETTERA RUBATA
Seneca
Il furto
Fu accolto con cordialità: perché l’uomo era insieme tanto amabile quanto
spregevole e noi non lo vedevamo da alcuni anni. Visto che eravamo rimasti
seduti al buio, Dupin si alzò per accendere una lampada: ma si rimise a
sedere, senza farlo, sentendo G. dire che era venuto a consultarci, o meglio
per chiedere il parere del mio amico, su una questione di lavoro che gli stava
creando una quantità di guai.
«Ancora un’altra delle sue bizzarrie», disse il prefetto per il quale era bizzarro
tutte ciò che superava la sua capacità di comprendere e che, perciò, viveva in
mezzo a un mondo di bizzarrie.
«Verissimo», disse Dupin offrendo una pipa all’ospite e spingendo verso di lui
una comoda poltrona.
«Proprio sì! Eppure non esattamente. L'uno o l'altro, se credete meglio. Il fatto
è che siamo in grave imbarazzo in quanto è veramente semplice, eppure non
ne veniamo a capo ».
«Per amore del cielo! Chi ha mai sentito una simile idea!».
«Ah! Ah! Oh! Oh! Ah! Ah!», tuonò il nostro ospite che sembrava divertirsi un
mondo. «Oh! Dupin, lei mi farà morire malgrado tutto!».
«Arriverò fino a dire che questo documento dà al suo detentore un certo potere
in un certo ambiente in cui questo potere ha un valore immenso». Il prefetto
aveva un debole per il linguaggio diplomatico.
«Questo presunto ascendente», mi intromisi io, «dipende dal fatto che il ladro
sa che il derubato conosce chi è il ladro. Chi oserebbe…».
«Il ladro», disse Monsieur G., «è il ministro D., che è capace di osare tutto,
conveniente o sconveniente che sia per un uomo. La meccanica del furto è
stata ingegnosa non meno che ardita. Il documento in oggetto, una lettera, per
essere franco, è stata ricevuta dalla persona derubata, mentre si trovava da
sola nel boudoir reale. La stava leggendo quando, improvvisamente, fu
interrotta dall’ingresso dell'altro illustre personaggio, proprio colui al quale
voleva particolarmente nasconderla. Dopo essersi affrettata, invano, a tentare
di gettarla in un cassetto, dovette lasciarla, aperta com'era, su un tavolo.
L'indirizzo era visibile, il contenuto era, perciò, nascosto, e quindi la lettera non
attrasse l’attenzione. E’ in quel momento che arriva il ministro D. Il suo occhio
di lince coglie immediatamente il valore del documento, riconosce la calligrafia
dell'indirizzo, nota l'imbarazzo della persona cui era indirizzata e ne capisce il
suo segreto.
«Dopo aver trattato qualcuno dei suoi affari, sbrigativamente come suo
costume, estrae dalla tasca una lettera quasi uguale a quella incriminata, la
apre e finge di leggerla mettendola proprio accanto all'altra. Si rimette a
discutere per circa un quarto d'ora d’affari pubblici. Tirata alla lunga la cosa,
mentre si congeda, prende dal tavolo la lettera che non gli appartiene. Il
legittimo proprietario vede ma, naturalmente, non può rischiare di attrarre
l’attenzione sul fatto in presenza del terzo personaggio che gli è accanto. Il
ministro se ne va lasciando sul tavolo la sua lettera senza importanza ».
«Ecco qui», disse Dupin rivolgendosi a me, «questo è esattamente quel che lei
cercava per ottenere un potere perfetto: il ladro sa che il derubato sa chi è il
ladro».
«Sì», replicò il prefetto, «e da qualche mese a questa parte ha usato
ampiamente, a fini politici, il potere che ha così conquistato, e fino a un limite
molto pericoloso. La persona derubata è di giorno in giorno sempre più
convinta che è necessario recuperare la lettera. Ma chiaramente questo non si
può fare alla luce del sole. In breve, spinta dalla disperazione mi ha affidato
questo incarico».
«Lei mi adula», replicò il prefetto, «ma è possibile che questa fosse proprio la
sua opinione».
«È evidente come ha detto lei», intervenni io, «che la lettera è ancora nelle
mani del ministro; è il fatto di possederla, e non l'uso che se ne può fare, a
dargli potere. Usandola il potere verrebbe meno».
«È vero», disse G., «e mi sono mosso con questa convinzione. La mia prima
cura è stata quella di procedere a una minuziosa perquisizione nella dimora del
ministro; il mio principale ostacolo è dovere cercare a sua insaputa.
Soprattutto sono stato avvertito del pericolo che deriverebbe dal fatto che
sospettasse del nostro piano».
«Mi pare», dissi, «che lei si trovi au fait in un’indagine del genere. La polizia
parigina ha fatto più d’una volta ricorso a questa pratica».
«Certo! Per queste ragioni non dispero. Le abitudini del ministro, poi, mi
danno un grande vantaggio. E’ spesso assente da casa sua per tutta la notte. I
domestici non sono tanti, dormono a una certa distanza dall'appartamento del
loro padrone e poiché sono, in gran parte, napoletani, si lasciano facilmente
ubriacare. Come sapete dispongo di chiavi capaci di aprire tutte le camere e
tutti gli uffici di Parigi. Per tre mesi non è passata notte in cui, per gran parte,
io non abbia a lungo frugato, personalmente, il palazzo D. Ne va del mio onore
e, in confidenza, la ricompensa è enorme. Così non ho abbandonato le ricerche
finché non mi sono convinto che il mio ladro era più astuto di me. Ritengo
d'avere esaminato ogni angolo, ogni più piccolo ripostiglio in cui fosse possibile
nascondere una lettera».
«Ma non si può pensare», insinuai, «visto, come è sicuro, che il ministro ha la
lettera, che egli l’abbia nascosta fuori di casa sua?».
«No! E’ impossibile!», disse Dupin. «lo stato attuale, particolare, degli affari
della Corte e la natura degli intrighi in cui D., come si sa, è coinvolto, fanno
dell’immediata possibilità di uso del documento, della possibilità di produrlo
istantaneamente, un punto importante quanto possederlo».
«Proprio così», disse il prefetto; «per due volte è stato aggredito da falsi
rapinatori che l’hanno scrupolosamente perquisito sotto i miei occhi».
«Si sarebbe potuto risparmiare la fatica», disse Dupin; «D. non è del tutto
sciocco, presumo, e se non lo è deve aver previsto questi agguati come cosa
normale».
«Non è del tutto sciocco», disse G.; «ma è un poeta e questo, a mio parere, lo
porta a un passo dall'esserlo».
«E’ vero», disse Dupin dopo una lunga tirata meditabonda della sua pipa di
schiuma, «anche se io stesso mi sono reso colpevole di qualche verso».
La perquisizione
«E perché?».
«Talvolta capita che i piani, sia dei tavoli che di ogni altro mobile simile, siano
removibili proprio per creare nascondigli. Si scavano perfino le gambe dei
tavoli per nascondere qualcosa nelle cavità e poi richiuderle. Lo stesso vale per
i montanti dei baldacchini dei letti».
«Mi sembra impossibile che abbiate potuto smontare, che abbiate potuto fare a
pezzi tutti i mobili che potessero diventare un deposito di quel tipo. Una
lettera può essere arrotolata in un cilindro non dissimile per forma e volume
da un grosso ferro da calza, e in questa forma essere inserita in una gamba di
seggiola, per esempio. Ha smontato tutte le seggiole?».
«Presumo che lei abbia controllato gli specchi, telai e lastre e che abbia frugato
letti e coperte, tende e tappeti».
«Le due case adiacenti?», esclamai. «deve essere stata una sfacchinata».
«Sicuro! Abbiamo aperto ogni pacco e involucro. Non abbiamo soltanto aperto i
libri, li abbiamo sfogliati pagina per pagina, senza contentarci di scrollarli come
fa qualcuno dei nostri funzionari. Abbiamo persino misurato lo spessore di ogni
rilegatura con grande minuzia, attraverso l’indiscreto esame del microscopio.
Se qualcosa fosse stata inserita di recente nelle rilegature, non avrebbe potuto
sfuggire all’ osservazione. Cinque o sei volumi appena usciti dalle mani del
rilegatore, sono stati accuratamente sondati con aghi per tutta la lunghezza».
«Anche».
«Avete cercato nelle cantine?».
«Così», dissi io, «avete sbagliato strada e la lettera non si trova nel palazzo.
Come lei pensava».
«Temo che lei abbia ragione», disse il prefetto, «Ora, Dupin, cosa mi consiglia
di fare?».
«È inutile», replicò G. «sicuro come il fatto che sono vivo, la lettera non è nel
palazzo!»
Un mese dopo circa, ci fece una seconda visita e ci trovò pressappoco occupati
come la volta precedente; prese una pipa e una seggiola e cominciò a parlare
di questo e quello finché non intervenni dicendo:
«Allora G. che ne è della lettera trafugata? Immagino che ora si sia convinto
che mettere nel sacco il ministro non è poi tanto semplice!».
«Ma... certo ...», disse Dupin tirando fuori le parole lentamente dalla bocca
insieme a larghe boccate di fumo. «Io credo… veramente...che lei, caro G., non
abbia fatto in questo caso tutto il possibile. Lei potrebbe fare... un po' di più,
penso. No?».
«Ma ...(puff, puff)… potrebbe ...(puff, puff) chiedere consiglio in materia, no?
(puff, puff, puff)… si ricorda cosa si racconta di Abernethy?».
«Al diavolo! Certo e tanti saluti! Allora, c’era una volta un ricco, molto avaro,
che trovò un espediente per evitare di pagare a questo Abernethy un consulto
medico. A questo scopo, durante una festa da amici, intraprese una normale
conversazione con il medico nella quale tentò di insinuare il proprio caso
fingendo che si trattasse di un caso immaginario. "Potremmo supporre", disse
questo avaro, "che i sintomi siano questo e quest’altro, allora, dottore, cosa gli
avrebbe detto di prendere?" "Prendere?", disse Abernethy, "certamente
prendere consiglio con un medico"».
Il funzionario lo agguantò quasi morto di gioia, la aprì con mani tremanti, uno
sguardo veloce al suo contenuto, poi, inciampando e precipitandosi alla porta,
uscì senza tante cerimonie, dalla stanza e dalla casa, senza aver detto una sola
parola da quando Dupin gli aveva chiesto di firmare l'assegno.
«La polizia di Parigi», disse, «è troppo abile nel fare il suo mestiere. E’
perseverante, ingegnosa, furba e possiede tutte le qualità richieste dal dovere.
Per questo quando G. stava illustrandoci nei dettagli il suo modo di perquisire il
palazzo D., ero totalmente certo che avesse condotto una indagine adeguata,
fin dove possono le sue competenze».
«Sì», disse Dupin. «le misure adottate erano le migliori del loro genere e
perfettamente eseguite. Se la lettera fosse stata nascosta con la logica che
ispirava quella perquisizione, quei poliziotti l'avrebbero trovata, non ho dubbi».
«Ma è veramente lui il poeta?», chiesi, «ci sono due fratelli, questo so.
Entrambi con una reputazione di letterati. Il ministro credo che abbia scritto
cose notevoli sul calcolo differenziale. Lui è il matematico, non il poeta».
«Lei mi stupisce», dissi, «con queste sue idee, in contrasto con quello che si
pensa normalmente. Non vuole ammettere una idea maturata nel corso di
tanti secoli. La ragione matematica è da molto tempo considerata la ragione
per eccellenza».
«Il y a à parier», rispose Dupin, citando Chamfort, «que toute idée publique,
toute convention reçue, est une sottise, car elle a convenu au plus grand
nombre1. Ammetto che i matematici hanno fatto del loro meglio per propagare
l’errore popolare cui lei allude, e che non è meno erroneo soltanto per il fatto
che è propagato come verità. Per esempio siamo stati abituati, con artificio
degno di miglior causa, a definire “analisi” le operazioni algebriche. I francesi
sono i primi colpevoli di questo inganno scientifico; ma se si riconosce che le
parole di una lingua hanno una importanza reale, se le parole traggono senso
dal loro uso, allora posso concedere che “analisi” equivalga ad “algebra”, più o
meno come accade in latino dove “ambitus” vuol dire "ambizione", religio,
"religione", e “homines honesti”,gente di onore».
«Vedo già», dissi io, «che è in polemica con qualche algebrista parigino, ma la
prego di continuare».
1
Ha scommesso che qualsiasi idea pubblica o convenzione ricevuta è una sciocchezza perché conviene alla maggior
parte delle persone.
cita una analoga fonte di errore quando dice che “benché nessuno creda più
nelle favole pagane, ce ne dimentichiamo spesso e ne tiriamo deduzioni come
se fossero realtà esistenti”. Gli algebristi, però pagani essi stessi, a certe favole
pagane danno credito, e ne traggono conseguenze, non tanto per un difetto di
memoria, quanto per un’ incomprensibile confusione dei loro cervelli.
Insomma, non ho mai incontrato un matematico puro del quale fidarmi al di là
delle sue radici ed equazioni; o uno che non fosse segretamente sicuro
fideisticamente che x2+ px sia assolutamente e incondizionatamente eguale a
q. Provi a dire a qualcuno di questi signori, per prova e per divertimento, che
crede alla possibilità che x2 + px, non sia completamente eguale a q; quando
gli avrà fatto capire che cosa intende, si metta al riparo il più rapidamente
possibile perché indubbiamente tenterà di prendervi a pugni! »
«Quello che intendo», continuò Dupin mentre io mi limitavo a ridere delle sue
ultime osservazioni, «è che se il ministro fosse stato soltanto un matematico, il
prefetto non avrebbe avuto necessità di firmarmi quell’assegno. Lo conoscevo,
però, come matematico e poeta e le misure che presi erano commensurate alle
sue capacità e tenevano conto delle circostanze in cui agiva. Sapevo bene che
era un cortigiano e un audace intrigante. Pensai che un uomo simile era
perfettamente al corrente dei metodi ordinari della polizia. Evidentemente
doveva aver previsto - e i fatti provano che aveva previsto- tutti gli agguati
che gli sono stati tesi. Tenni conto che aveva presagito le segrete perquisizioni
in casa sua. Tutte quelle assenze notturne che il prefetto aveva salutato come
circostanze favorevoli al buon esito finale, mi parvero subito come delle ruses2
per facilitare minuziose perquisizioni da parte della polizia che facessero
credere, come effettivamente alla fine credeva G., che la lettera non si trovava
in casa. Qualche cosa mi convinceva che tutte le idee che ho fatto fatica ad
esporle nel dettaglio, poco fa, sulla ripetitività dei metodi polizieschi di
perquisizione in cerca di oggetti nascosti, sentivo, ripeto, che tutta questa serie
di idee si era necessariamente presentata alla mente del ministro. Questo lo
aveva portato obbligatoriamente a sdegnare ogni volgare angolino come
nascondiglio. Non poteva, pensai, consentirsi la debolezza di ignorare che il
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dei trucchi
nascondiglio più complicato, il più riposto del suo palazzo sarebbe risultato
aperto come un banale armadio agli occhi, alle sonde, ai trapani e ai
microscopi del prefetto. Capii infine che sarebbe stato indotto alla semplicità
inevitabilmente, anche se non come conseguenza di una sua scelta deliberata.
Ricorderà quanto ridesse il prefetto quando, fin dal primo incontro, suggerii che
era probabile che il mistero lo turbasse tanto proprio perché era di assoluta
semplicità».
«Certo! Ricordo perfettamente la sua ilarità. Credevo che stesse per avere un
attacco di nervi».
Le spiegazioni
«Esiste», riprese Dupin, «un rompicapo che si gioca con una carta geografica.
Uno dei giocatori prega l’altro di indovinare una data parola, un nome di città,
di fiume, di Stato o di impero, insomma una parola qualunque tra le tante
esistenti sulla confusa e complicata superficie della carta. Un inesperto del
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forza d'inerzia
giuoco cerca subito di mettere in imbarazzo gli avversari scegliendo tra i nomi
scritti nel modo più impercettibile; i più esperti, invece, scelgono parole che si
estendono a grandi caratteri, da un capo all'altro del foglio. Queste parole,
come le insegne e i manifesti stradali a lettere cubitali, sfuggono
all'osservatore proprio perché sono troppo evidenti. E’ il caso in cui la svista
materiale è esattamente analoga alla disattenzione morale con cui l’intelletto
si lascia sfuggire le considerazioni che sono troppo vistosamente e
palpabilmente evidenti in sé. Ma è un caso, chiaramente, troppo al di sopra o
troppo al di sotto dell'intelligenza del prefetto. Non ha mai creduto possibile o
probabile che il ministro avesse depositato la lettera sotto il naso di tutti, come
modo migliore per impedire a chiunque di vederla. Ma più riflettevo
sull'ingegno audace, spregiudicato e fantasioso di D., sul fatto che il
documento doveva sempre restare a portata di mano per farne un immediato
uso in caso di bisogno, e sull’altro fatto, che era stato ampiamente dimostrato
dal prefetto, che cioè il documento non era nascosto nel raggio incluso in una
perquisizione abituale, tanto più mi sentivo convinto che, per nascondere
questa lettera, il ministro aveva fatto ricorso al più ingegnoso e sagace
espediente di non provare neanche a nasconderla. Preso da questa idea, mi
fornii di un paio d'occhiali verdi e mi presentai, un bel mattino, come per caso,
al palazzo del ministro. Trovai D. in casa, sbadigliante, ozioso e curioso, come
sempre, con la pretesa di sembrare al massimo dell’ennui.4 D. è, forse, la
persona più energica che ci sia, ma lo è soltanto quando è sicuro che nessuno
lo veda. Per non esser da meno cominciai a lamentarmi dei miei occhi delicati e
della necessità di portare gli occhiali, da dietro i quali, intanto, passavo in
rassegna, con cura e minuzia, tutto l’appartamento, fingendo di essere
totalmente preso solo dalla conversazione del mio ospite. Un’ attenzione
particolare dedicai all’ampia scrivania, presso cui era seduto, dove si
ammucchiavano alla rinfusa varie lettere e carte, uno o due strumenti musicali
e alcuni libri. Dopo un accurato esame, tirato molto per le lunghe, non notai
nulla che potesse destare sospetti particolari. Finalmente il mio sguardo
vagante per la stanza cadde su un misero portacarte di cartone filigranato di
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noia
nessun valore, appeso per un sudicio laccio blu a un pomello di ottone sotto la
cappa del camino. Il portacarte, che aveva tre o quattro scomparti, conteneva
cinque o sei carte da visita e una unica lettera. Molto insudiciata e sgualcita.
Quasi strappata in due come se qualcuno avesse voluto, dapprima, stracciarla
del tutto perché senza valore e avesse, poi, cambiato idea. Vi era impresso il
sigillo nero di D., molto in evidenza, ed era indirizzata con minuta grafia di
donna al ministro in persona. Sembrava buttata con grande negligenza e
perfino con sfregio, in uno degli scomparti superiori del portacarte. Mi bastò
una rapida occhiata per capire che si trattava della lettera che stavo cercando.
In apparenza era sicuramente diversa da quella tanto minuziosamente
descritta dal prefetto. Qui il sigillo era grande e nero, con la cifra D.; l’altro era
piccolo e rosso, con lo stemma ducale della famiglia S. L'indirizzo di questa, al
ministro, era scritto in modo minuto da una donna, nell’altra, indirizzata a un
membro della famiglia reale, la scrittura era decisa, spavalda, forte. Le due
lettere si somigliavano solo per le dimensioni. Ma la radicalità di queste
differenze, eccessive, la sporcizia, lo stato della carta, cincischiata e strappata,
inconciliabili con le vere abitudini meticolose di D., denunciava l'intenzione di
sviare un curioso dandogli tutte le apparenze di una carta senza valore; tutti
questi elementi e la vistosa collocazione sotto gli occhi di tutti, che coincideva
con le conclusioni cui ero già pervenuto, tutto avvalorava i sospetti di chi era
venuto con l’intenzione di sospettare. Prolungai la durata della mia visita il più
possibile, e mentre sostenevo una animata discussione col ministro, su un
argomento che sapevo interessarlo molto, la mia attenzione restò concentrata
sulla lettera. In questo mio esame, fissai nella mente l’aspetto esteriore e la
sistemazione nel portacarte; finalmente scoprii qualcosa che eliminò ogni mio
piccolo dubbio residuo. Nell’esaminare i bordi della carta, mi accorsi che erano
più spiegazzati del necessario. Presentavano quei segni che compaiono su un
cartoncino piegato e schiacciato con un tagliacarte e poi ripiegato in senso
inverso, ma lungo la stessa traccia della piegatura originaria. Era la scoperta
che mancava: diventava chiaro che la lettera era stata girata come un guanto,
dall’interno all’esterno, reindirizzata e risigillata. Augurai il buon giorno al
ministro e presi immediatamente congedo, dimenticando una tabacchiera d'oro
sulla scrivania. Il mattino appresso tornai per cercare la mia tabacchiera e
riprendemmo con accanimento la nostra discussione del giorno prima. Mentre
eravamo così impegnati al massimo, si sentì una detonazione molto forte fuori
delle finestre del palazzo, come un colpo di pistola, seguita da una serie di
grida impaurite e da urla di folla. D. si precipitò verso una delle finestra, l'aprì
e guardò fuori. Nello stesso momento andrai diritto verso il portacarte, presi la
lettera e me la misi in tasca e la sostituii con un'altra, una specie di fac-simile
(nell'aspetto esterno) che avevo accuratamente preparato a casa,
contraffacendo facilmente la sigla D. con l’aiuto di un sigillo di mollica di pane.
Il tumulto nella strada era stato provocato dalla follia improvvisa d'un uomo
armato di moschetto. Aveva scaricato la sua arma in mezzo a una folla di
donne e di bambini; si accertò, comunque, che era caricata a salve, lo
considerarono un lunatico, o forse un ubriaco, e lo lasciarono andare. Soltanto
quando fu andato via, D. si ritirò dalla finestra dove io lo avevo seguito dopo
essermi assicurato l’oggetto cui miravo. Alcuni minuti dopo lo salutai. Il
presunto lunatico era un uomo che avevo assoldato io».
«Non capisco quale fosse il suo scopo», dissi, «nel sostituire la lettera con una
fac-simile. Non sarebbe stato più semplice prenderla direttamente e andarsene
fin dalla prima visita?».
«Deve sapere che D.», rispose Dupin, «è un uomo molto violento, un uomo di
nerbo. La sua casa, poi, è piena di servitori devoti ai suoi interessi. Se avessi
fatto lo scriteriato tentativo da lei suggerito, non sarei uscito vivo da quella
casa. La brava gente di Parigi non avrebbe mai più sentito parlare di me. Ciò
detto avevo altri buoni motivi. Lei conosce le mie simpatie politiche. In questa
azione ho voluto comportarmi come un partigiano della signora derubata. Per
diciotto mesi il ministro l’ha tenuta in suo potere. Ora il rapporto è invertito
visto che lui non sa ancora di non avere più la lettera e intende proseguire con
i suoi ricatti. Muovendosi, segnerà inesorabilmente la sua fine politica. La sua
caduta, oltreché precipitosa, sarà ridicola. Si parla con molta facilità del facilis
descensus Averni, ma in fatto di scalate, si può dire quello che la Catalani
diceva del canto, che è più facile salire che discendere. In questo caso non ho
nessuna simpatia, tanto meno pietà, per chi cade. D. è il vero monstrum
orrendum, un amorale uomo di genio. Confesso però che non mi dispiacerebbe
conoscere i suoi pensieri, quando, sfidato da quella che il prefetto chiama “una
certa persona”, sarà costretto ad aprire la lettera che io ho lasciato, per lui, nel
suo portacarte».
«Chiaro! Avrei dovuto lasciare l'interno bianco? Sarebbe parso insultante. Una
volta, a Vienna, D. mi tirò un colpo basso, io con grande cordialità gli dissi che
me ne sarei ricordato. Prevedendo la sua curiosità sulla persona che lo ha fatto
fuori, ho pensato che sarebbe stato un peccato non lasciargli almeno un
indizio. Egli conosce molto bene la mia calligrafia e, così, al centro del foglio
bianco ho copiato queste parole: …un dessin si funeste, S'il n'est digne d'Atrè,
est digne de Thyeste5. Li troverete nell'Atrée di Crebillon».
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Un disegno così funesto, se non è degno di Atreo, è degno di Tieste.