Il cane di magonza
A cura di Carmine De Luca
Prefazione di Mario Di Rienzo
Prefazione
Dopo aver diretto dal 1945 al 1947 «L’ordine nuovo», periodico della
federazione del partito comunista di Varese, Gianni Rodari è assunto, a partire
dalla primavera del 1947, all’edizione milanese dell’«Unità», come cronista
annonario. Sul trasferimento di Rodari all’edizione milanese dell’«Unità» non
mancano le testimonianze. Scrive Fidia Gambetti, allora capo redattore in
cronaca: «Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno
giovani. Dalle varie province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri
giornali; dall’attività politica». Insieme a G. Crosti, G. Panozzo, L. Montesi, A.
Pancaldi, G. Signori ed altri, «un altro “personaggio”, fra i nuovi, è Gianni
Rodari [...]. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel viso da
ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e
arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in
vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e
divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui
muri» 1.
Dopo alcuni mesi di ambientamento, ricopre l’incarico di inviato speciale e
redige con lo pseudonimo Lino Piggo, la rubrica che «l’Unità» dedica ai
bambini. «Promosso [...] inviato speciale l’estate scorsa [1948] in occasione di
un tragico fatto di cronaca [...]: decine di bambini di una colonia di Albenga
annegati nell’affondamento di un barcone. Poiché il servizio di Alfonso Gatto,
inviato sul posto, tardava, incaricammo Rodari di scrivere un pezzo di maniera
in redazione, utilizzando le notizie dell’Ansa. Il servizio fu il migliore, il piú
informato e il piú “scritto” fra tutti quelli della stampa milanese» 2.
Bastano i primi articoli a fare apprezzare in redazione le sue qualità,
l’arguzia, la schiettezza, l’ironia «con quel tratto – ha scritto P. Spriano – che
non lo ha mai abbandonato: di limpidezza di racconto, di serenità, di
malinconia, come le sponde del lago su cui era nato» 3.
La sua andata all’«Unità» è considerata un acquisto prezioso. Chi lo conosce
bene, come F. Gambetti, sa che non è solo il bravo cronista e l’originale
creatore di filastrocche per bambini; riesce a stimarne pure la vasta cultura e
l’attenta curiosità con cui segue il dibattito politico e culturale. Per questo
Gambetti gli affida l’incarico di recensire per la sua rivista letteraria Adamo il
primo volume dei Quaderni del carcere di A. Gramsci, Il materialismo storico e
la filosofia di Benedetto Croce che l’editore Einaudi pubblica all’inizio del 1948.
(«L’articolo – scrive Gambetti – che ho pubblicato di apertura, ha suscitato
interesse. Velso Mucci, direttore della rivista “Il costume politico e letterario”
di Roma, mi scrive apposta per congratularsi e per avere l’indirizzo di
Rodari» 4).
La recensione, oltre a mostrare con quale esemplare lucidità Rodari riesca a
cogliere e a trasmettere l’essenza piú vera del discorso gramsciano e a
replicare – senza alcuna acrimonia – ai tentativi messi in atto dagli ambienti
liberali, nel periodo 1947-48, per accreditare una lettura fortemente riduttiva
dei Quaderni, tanto riduttiva da parlare addirittura di Gramsci come di un
«crociano dissidente»; la recensione, dicevo, può contribuire, oggi, in sede di
considerazione critica dell’intera attività di Rodari, ad indagare in maniera
precisa e concreta le basi del suo marxismo. Lo straordinario equilibrio
dell’elaborazione politica di Gramsci, la molteplicità dei temi trattati con
immutata tensione speculativa e interesse culturale («[...] è impossibile isolare
in Gramsci l’interesse letterario da quello sociale», rincorrere un «momento
speculativo» o anche «distinguere una sua attenzione puramente politica»,
osserva Rodari nella recensione), la concretezza dell’analisi («una cultura
integrale [...] che non evada mai dalla realtà, che non pretenda mai di avere
esaurito il suo compito “fotografando” tale realtà»); questi aspetti dell’opera
gramsciana certamente indirizzano il marxismo di Rodari su un percorso che,
per un verso, si lascia alle spalle certi elementi populistici presenti negli scritti
del settimanale comunista di Varese e, per l’altro, lo condurrà a superare,
soprattutto per quel che riguarda la produzione per l’infanzia, un ancora
irrisolto rapporto, un certo squilibrio fra ideologia e vena fantastica 5.
Nilde Jotti
Lettera al direttore.
Caro Direttore,
Il poema Compagni fratelli Cervi fu letto a Reggio Emilia l’8 maggio del 1955
in occasione dell’80° compleanno di papà Cervi al Teatro Municipale, davanti
ad un’assemblea di ragazzi. Era vivissima ancora l’emozione suscitata dal
sacrificio dei sette fratelli Cervi del 28 dicembre 1943, e il vecchio Alcide Cervi
era il simbolo vivente dell’antifascismo, il patriarca di intere generazioni di
giovani democratici. In tale clima sembrava che nulla potesse essere concesso
al lirismo idillico: che l’unico modo di fare versi fosse quello di una «poesia
civile» alimentata da forte tensione morale e stilistica. Era necessario
esprimere istanze di rinnovamento e di liberazione, adoperare l’arma dei versi
per comunicare alle nuove generazioni certezze etiche e sociali. Cosí si spiega
il poema Compagni fratelli Cervi, un’esperienza isolata nell’attività di Rodari.
Per la sua intelligenza ritengo utili due postille:
a) l’anno prima, nel 1954, Pasolini aveva pubblicato la raccolta di poesie La
meglio gioventú. Il titolo viene mutuato da Rodari e utilizzato come stilema
carico di una forte tensione etica e ideologica nella quarta parte del poema.
(«Cara patria, terra avara... non eri il proclama del generale | ma la nenia, il
lutto degli alpini | che vanno alla guerra | la meglio gioventú che va sotto
terra»). Ma echi pasoliniani possono rintracciarsi sia nelle opzioni lessicali sia
nell’andamento dei versi di questo poema;
b) un articolo di Italo Calvino, apparso su «Patria indipendente» del 20
dicembre 1953, chiarisce alcuni fondamentali temi del poema. Ad esempio,
l’episodio iniziale del trattore di Aldo Cervi. Scrive Calvino: «Un giorno famoso
quello in cui Aldo andò a Reggio a comperare un trattore. Fece la strada del
ritorno guidando il trattore nuovo fiammante, e i contadini lungo la strada
venivano a vederlo passare, il terzo dei fratelli Cervi al volante di quella
macchina, sopra la quale troneggiava uno strano oggetto che non ci si sarebbe
mai aspettato di trovare là sopra: un mappamondo, un grosso mappamondo,
nuovo fiammante anche esso. Era un’altra compera fatta in città da Aldo quel
mattino».
Quel mappamondo che, «solenne goffo re da biblioteca», nel poema di Rodari
riassume il senso della geografia e della storia, del mito e della politica; quel
mappamondo che, «fragile giocattolo | fatto per un festoso girotondo», diventa
protagonista e pretesto di evocazioni: il gigante Atlante; la ricerca di «un
mondo senza fame | senza guerra, senza paura»; l’utopia del «colore» della
felicità.
A papà Cervi
con ammirazione
con affetto
I.
II .
III .
IV .
Italia, tu vivevi
nella casa di Praticello, seduta al focolare dei Cervi, non
padrona né schiava ma sorella e compagna di fatica
e d’amore.
E quando lo stivale straniero calcò il tuo cuore
e infangò le tue strade, la tua bandiera sventolò sui
monti, vegliò ai fuochi fumosi delle baite, viaggiò
segreta nella bicicletta del gappista, brillò nei suoi
occhi d’acciaio, e i tuoi sette fratelli, i tuoi sette
Cervi dal limpido cuore furono i tuoi sette fucili, per
colpire ti diedero gli artigli: «I cani ci chiamano
banditi, ma il popolo conosce i suoi figli».
V.
La leggenda dirà
di una casa emiliana che materna abbracciò coi suoi muri
il fuggitivo braccato dai cani, e per l’inglese, il russo
prigioniero impastò il pane con tenere mani, e vegliò
il lor sonno.
Il cuore non conosce frontiere, per donarsi non chiede
passaporti.
A te, a te aviatore americano delle tue bombe non ti
chiese conto, gettate sulle nostre città sui nostri
morti, ma fasciò la tua ferita.
La tua vita, nel Texas, nel Nevada, fu comprata con la
vita di sette comunisti,
e la loro casa fu bruciata, la loro madre uccisa dal dolore
perché tua madre non dovesse piangere.
VI .
La leggenda dirà
dell’ultima battaglia: dove cantò la cicala abbaia la
mitraglia.
Una muta di cani
la notte ha circondata, il fumo lecca i muri della casa
incendiata.
VII .
In tutto ciò che vive sono vivi, in tutto ciò che spera sono
vivi, in tutto ciò che soffre e lotta e vive i miei figli
per sempre sono vivi.
VIII .
Il furto del Cupolone di San Pietro a Roma è uno dei temi ricorrenti in
Rodari. Sembra che ci sia sempre qualcuno intenzionato a trafugare la cupola
michelangiolesca.
Il 30 gennaio 1959 appare su «Paese Sera» la novella Chi ha rubato il
Cupolone? Ha la struttura di una «lettera al direttore» e contiene gli sfoghi e le
ossessioni di un impiegato che, accusato di aver privato la basilica di San Pietro
della cupola, si è trasferito nell’«orrida giungla» di Maracaibo. A distanza di
circa venti anni, il tema è ripreso nel racconto Ciabattino e Fornaretto, uscito
su «Paese Sera» il 24 dicembre 1978 e poi inserito nella raccolta Il gioco dei
quattro cantoni pubblicata postuma (Einaudi, Torino 1980). C’è da aggiungere
che questo racconto ha lo stesso andamento narrativo della poesia Col favore
delle tenebre pure del 1978, inserita nel volumetto Parole per giocare
(Manzuoli, Firenze 1979). Ma nel 1975 un ironico accenno all’eventualità del
furto del Cupolone lo troviamo nell’Intervista con messer Buonarroti
all’indomani del suo 500simo compleanno, uscita ancora su «Paese Sera», il 9
marzo 1975. Michelangelo manifesta le sue preoccupazioni all’intervistatore-
Rodari perché, per burla, qualcuno gli ha annunciato che il Cupolone «se lo
sono pappato con tutto il tamburo». Rodari-intervistatore cerca di
tranquillizzarlo: «Come avete potuto credere che... Quel po’ po’ di mole... Chi
mai riuscirebbe a caricarselo sulle spalle?»
Michelangelo: «Non si può mai dire. Siete capaci di tante diavolerie
elettroniche, atomiche, parapsicologiche, al giorno d’oggi».
Rodari: «Ma uno che rubasse, col favore delle tenebre, il vostro Cupolone,
che cosa diavolo potrebbe farsene?»
Michelangelo: «Non chiedetelo a me. Potrebbe essere d’accordo con il mio
conterraneo Fanfani per compromettere il compromesso storico. Potrebbe
impegnarlo al Monte di Pietà [...], portarlo in Svizzera [...], regalarlo allo scià di
Persia [...]».
Michelangelo ancora preoccupato chiede al suo interlocutore: «Tornate a
guardare se c’è la Cupola...»
Rodari: «Tutto a posto, Maestro».
E Michelangelo conclude: «Bene, bene. Son contento anche per il ministro
Spadolini: se si affaccia, non avrà l’impressione che gli manchi qualcosa».
Egregio signor direttore,
1. G. Rodari, Gip nel televisore e altre storie in orbita, Mursia, Milano 1975, p.
13.
L’avvocato Minerviano Marello acquistò un televisore il 6
giugno del 1957, il 7 giugno si fece impiantare l’antenna
sul terrazzo e da quel giorno fino al 23 dicembre del 1959
non perdette una sola trasmissione. Telequiz, teledrammi,
telefilm, telegiornali, balletti, rubriche scientifiche e
pubblicitarie, programmi per bambini, per agricoltori, per
massaie: tutto lo interessò, lo affascinò, lo inchiodò per ore
e ore sulla poltrona. Perdette molte amicizie, ma non un
solo «intervallo», non una sfilata di pecore o una visione di
cascate. Non lasciava il suo posto nemmeno quando sul
video compariva, in italiano o in lingue diverse, a seconda
che si trattasse di un programma nazionale o di
un’eurovisione, l’annuncio che la trasmissione era
interrotta per cause atmosferiche, o tecniche, o d’altro
genere. Il teleschermo lo ipnotizzava, lo attraeva
irresistibilmente, e la sera del 23 dicembre scorso lo
attrasse al punto che egli ci cascò dentro tutt’intero.
La moglie, sopraggiunta per avvertirlo che la cena era in
tavola, trovò la poltrona vuota e suo marito che la chiamava
dal video:
– Rosa! Rosa!
– Che fai là dentro?
– Ci sono cascato, e non so piú come uscire. Scomparve
per un attimo dietro un siparietto (era in onda
«Carosello»), riemerse dietro una parete di dadi da brodo e
implorò:
– Telefona a qualcuno.
La signora Rosa telefonò per prima cosa a sua madre,
che però non seppe darle consiglio. Intanto anche i figli
dell’avvocato, il geometra Roberto e la dottoressa Maria
Grazia, erano rincasati e si erano messi a ridere.
– Disgraziati, – inveí Minerviano.
– Abbi pazienza, – disse la signora Rosa, – ora chiamo
l’elettricista.
Nemmeno l’elettricista, però, aveva mai avuto esperienza
di casi del genere. Disse che avrebbe tentato di rintracciare
il tecnico della ditta, ma che con ogni probabilià quello non
si sarebbe mosso prima della mattina seguente.
L’avvocato si dispose dunque a trascorrere la notte nel
televisore. La signora Rosa, prima di andare a letto, fece
macchinalmente l’atto di girare la manopola
dell’accensione, ma il marito la fermò con un urlo:
– Sei pazza? Se spegni mi sai dire dove finisco?
La povera signora non riuscí a dormire. Ogni tanto si
alzava, infilava vestaglia e ciabatte e andava a controllare
se Minerviano era sempre là. Difatti era là, piuttosto
ingrugnato, e nemmeno lui riusciva a prender sonno.
– Avessi almeno un libro giallo, – borbottava,
passeggiando avanti e indietro in quei ventun pollici di
spazio.
La mattina dopo venne il tecnico della ditta, ma non
seppe dare un suggerimento di qualche utilità. Al contrario,
finí col provocare l’irritazione generale proponendo di
cambiare la valvola termoionica: si sa che un tecnico
qualche pezzo da cambiare lo trova sempre.
Verso le dieci arrivò il primo cliente e l’avvocato Marello
lo ricevette dal teleschermo, gli dettò il testo di un esposto
al tribunale, gli fece cercare sugli scaffali un fascicolo della
rivista giuridica che gli occorreva, agitandosi perché
quello, poco esperto, durava fatica a trovarlo, e gli fece
lasciare i soldi sulla scrivania. Per fortuna, essendo la
vigilia di Natale, i clienti erano scarsi. Altra fortuna, tutta
gente discreta, che non fece chiacchiere, sicché la notizia
del dramma dell’avvocato Minerviano Marello rimase
circoscritta alle pareti domestiche.
Le feste di Natale e di Capodanno passarono in una
atmosfera di nervosismo che fece andare di traverso lo
spumante alla signora Rosa. La poveretta, per cominciare,
si preoccupava che il marito potesse morire di fame, e
anche quando fu chiaro che l’avvocato non aveva alcun
bisogno di cibo o di bevande per sopravvivere là dentro,
ogni boccone era per lei veleno. Discussioni a non finire: e
come si fa, e come non si fa, e che cosa succederà, e cosí
via. Il guaio era quando, nelle ore di trasmissione,
bisognava sentirsi attraverso il fiume delle musiche, delle
canzoni, delle conversazioni, dei giornali parlati, eccetera.
Se si abbassava il volume, anche la voce dell’avvocato si
affievoliva fino a scomparire; e se si alzava, bisognava
aspettare gli intervalli per parlarsi con calma.
Il 3 gennaio Minerviano fece il diavolo a quattro perché
si comprasse, intanto, un altro televisore. Là dentro si
annoiava a morte, le ore non passavano mai, e perdeva tutti
i programmi, perché con la televisione sentire senza vedere
è peggio che la tortura, e lui, essendo proprio in mezzo ai
programmi, non vedeva niente. Il geometra Roberto e la
dottoressa Maria Grazia, con l’intolleranza dei giovani, si
opponevano all’acquisto.
– Quel che è successo non ti basta, – gridavano, – non ti
ha guarito dalla tua mania.
– Cosa volete che mi succeda di peggio? – ribatteva a
pieno volume l’avvocato. – E poi sono vostro padre. Il sale e
il sapone che consumate li pago ancora io.
Fu la signora Rosa, con le lagrime agli occhi, a decidere
per il secondo televisore. Lo mise proprio davanti al primo,
a specchio, girò la manopola dell’accensione e sospirò.
– Vedi bene, Minerviano? – domandò con dolcezza.
L’avvocato non fece in tempo a rispondere. Con tale
avidità aveva fissato gli sguardi sul nuovo teleschermo, che
subito ci schizzò dentro, balzando dall’uno all’altro come un
oggetto che lasci una calamita per un’altra di maggior
forza. Difatti il nuovo televisore aveva lo schermo
panoramico.
– Minerviano, dove sei? – gridò la signora Rosa.
– Sono qui, cretina, dove vuoi che sia?
– O Madonna santa, che paura.
– Sta attenta, adesso, – continuò Minerviano, preso da
una improvvisa eccitazione. – Chiama il portiere. Digli che
porti su anche un paio di giovanotti un po’ robusti.
– Che cosa vuoi fare, per carità?
– Sbrigati, – strepitò l’avvocato, – fa come ti dico e non te
ne incaricare.
Mentre parlava, schizzò di nuovo da un teleschermo
all’altro, attraversando a volo il salotto.
– Prima spegni quell’accidente, – ordinò, – altrimenti non
mi riuscirà di star fermo un minuto.
La signora Rosa spense il televisore, regolò le manopole
di quello in cui Minerviano passeggiava, tormentandosi il
mento con una mano, nell’atteggiamento di chi stia
riflettendo profondamente, e corse a chiamare il portiere.
Per combinazione c’era in portineria in quel momento il
fuochista addetto alla caldaia del riscaldamento centrale, e
salí anche lui. Aveva riflessi un po’ lenti e Minerviano patí
le pene dell’inferno a fargli capire le sue istruzioni. I primi
tentativi, anzi, andarono a male.
Era stato acceso anche il secondo televisore. Minerviano
balzò un paio di volte da un teleschermo all’altro, in preda
alle due opposte attrazioni. Al terzo tentativo, finalmente, il
portiere e il fuochista riuscirono ad afferrarlo per le braccia
mentre attraversava l’aria, la signora Rosa fu lesta a
spegnere contemporaneamente entrambi i televisori, e
l’avvocato Minerviano Marello cadde sul tappeto dello
studio-salotto boccheggiando. Prima ancora di rialzarsi
regalò un televisore al portiere e l’altro al fuochista. Ma i
due, in seguito, si guardarono bene dal fargli sapere che lo
stesso giorno li avevano venduti, il primo in cambio di un
motoscooter, il fuochista per comprare alla moglie un
frigorifero.
Il discorso inaugurale
n fattoriale
a)
c fattoriale (n – c) fattoriale
594 fattoriale
b)
18 fattoriale (594 – 18) fattoriale
Con questa Poesia lepidaria il filone satirico, già piú volte segnalato, esce
dalla terza pagina dei quotidiani («l’Unità» e «Paese Sera») e fa la sua
apparizione in una sede certamente piú adeguata: sulle pagine della rivista «Il
Caffè» (n. 3, giugno 1961), diretta da G. B. Vicari, Rodari si trova in compagnia
di Borges, A. Bertolucci, L. Longanesi, ecc.
Rodari satirico presenta il suo biglietto da visita fin dall’inizio con il gioco di
parole «lepido/lapide»: il primo termine produce il titolo Poesia lepidaria, il
secondo dà il titolo a quattro dei cinque componimenti (Lapide seconda, Lapide
tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide quindicesima). Ma la coppia può
suggerire anche alcune riflessioni: sono lepidezze sulla morte; sono lepidezze
sul morto linguaggio delle lapidi; ecc. La Lapide seconda è stata inserita nella
raccolta Parole per giocare edita da Luciano Manzuoli con presentazione di T.
De Mauro e illustrazioni di F. Tonucci.
A quanto mi risulta, in una sola occasione due di questi componimenti
(Lapide quattordicesima e Lapide quindicesima) sono stati riproposti e
considerati per quello che in effetti sono. Cesare Vivaldi le inserisce nella sua
antologia Poesia satirica nell’Italia d’oggi (Guanda, Parma 1964).
Nell’introduzione al volume Vivaldi colloca questa attività di Rodari
all’interno di un filone satirico e grottesco della nostra poesia al cui capo sta
Palazzeschi. E questa «linea palazzeschiana» dove Rodari sta in ottima
compagnia insieme con Nelo Risi, Sanguineti, Fratini, Vollaro, ecc., è
caratterizzata – secondo quanto dice Sanguineti citato in Vivaldi – dal fatto che
«il margine d’ironia sia tornato ad essere [...] come già lo fu, nel nostro secolo,
in altre decisive e critiche svolte, condizione indispensabile per sfuggire ad un
gioco precostituito di forme e motivi».
Nelle «lapidi» è da notare, insieme al divertito gioco degli incastri di troppo
usati stereotipi linguistici, piú in generale la dissacrante trasgressione del
rigido codice linguistico commemorativo (quello delle lapidi ufficiali), che,
eredità di un’Italia patriotticamente savoiarda e fascista, ha attraversato i
tempi conservando forme lessicali e sintattiche di assoluta fissità e
conformismo.
Nell’altro scherzo umoristico-ironico, Metamorfosi, risultano prevalenti gli
accenti di satira politica. Protagonista è il dc Tambroni che, impegnato in un
inarrestabile processo di sublimazione politica, finisce per accomunare in sé i
titoli eccelsi di «Padre della Patria» e di «Cupola di San Pietro».
Lapide seconda
A QUESTA PORTA
IN SEGUITO
A INFORMAZIONE INESATTA
BUSSÒ NEL QUATTORDICI
IL RAGIONIER FEDERICO
GIOBATTA
DA PORTOFINO
DIMANDANDO DI GIACOMINO
SOLERTE E SEVERA
RISPONDEVAGLI PORTIERA
NESSUN GIACOMINO QUI RISIEDE
NÉ MAI RISIEDETTE
NÉ MAI RISIEDERÀ
RAGIONÒ IL RAGIONIERE
Lapide tredicesima
A SEDICI ORE
SALVO ERRORE
E SARVOGNUNO
DA QUESTA FINESTRA IMPRUDENTE
SPORGEVASI IN VESTAGLIA
LA MAESTRA ENRICHETTA TRAVAGLIA
IL FREDDO PUNGENTE
PUNGEVALA AL PUNTO
DA FARLE ESCLAMARE
BRRRR
EX CASA DI TOLLERANZA
ORE SERENE E DI SUA VITA FORSE
LE PIÚ DOLCI
TRASCORSE
CARLO EMANUELE FELICE
FILIBERTO FRANCALANZA
PROFESSORE DI STORIA E FILOSOFIA
AMÒ
SECONDO LA QUINDICINA
GINA MARTINA LA MORA LA TOPOLINO
LILIANA ANNALISA LA ROSSA
GELSOMINA
LA PESCATORA LA BADESSA CLOTILDE
MARIANNA LA ZINGARA LUANA LILÍ WALLY
LA LUPA DI FERRARA
CON TUTTE CORTESE DI MODI DI MANCE
GENEROSO
SPIRITO ELETTO
ARGOMENTI
IL PREZZO DELLA BENZINA
LE POPPE DI PALMINA
LA DOMENICA DELLE PALME
L’EQUIPARAZIONE TARIFFARIA
AL PENSOSO AMATORE
FU LEGGERA
L’ARIA
Metamorfosi
TRASFORMAZIONE DI QUESTO IN
QUELLO
DI UN FILODRAMMATICO IN UN FILUGELLO
DI UN CAVALLO A DONDOLO IN UN CAMMELLO
DI UN VESPILLONE IN UNA SPILLA DA BALIA DI TAMBRONI NEL
RE D’ITALIA DI UN PAIO DI FORBICI IN UN CRITICO D’ARTE
DEL GENERALE DE GAULLE IN NAPOLEONE BONAPARTE
DI UN ANEDDOTO NAPOLEONICO IN GOAL
DI TAMBRONI NEL GENERALE DE GAULLE
DI UN TELEFONO A GETTONI IN UN ASCENSORE
DI DUE CAVALIERI IN UN SOLO COMMENDATORE
DI UN ALBERO DI TRASMISSIONE IN UN ALBERO DI MELE
DI TAMBRONI NELL’ARCANGELO SAN MICHELE
DI UN ASINELLO SARDO IN UNA VIOLA DEL PENSIERO
DI TAMBRONI NEL FONDATORE DELL’IMPERO
DI UN QUESTURINO IN UNA COLOMBA PASQUALE
DI TAMBRONI NELLO STEMMA DELLA BANDIERA NAZIONALE
DI UN IPPOPOTAMO IN UN OTORINOLARINGOIATRA DI TAMBRONI
NEL PADRE DELLA PATRIA DI UN CAPPELLO DA PRETE IN UN
PORTACENERE DI VETRO
DI TAMBRONI NELLA CUPOLA DI SAN PIETRO
Favole minime
– Pronto?
– Pronto. Chi parla?
– Non saprei. Lei chi è?
– Non ricordo.
– Chiediamo al centralino?
– Ma no, lasci perdere: fingiamo di essere qualcuno. Lo
fanno in tanti.
Un tale era cosí buono che gli portarono via il burro dal
pane, il pane dal piatto, il piatto dal tavolo e il tavolo dalla
stanza. Ridotto sul lastrico, cosí si consolò: – Tanto, il burro
mi fa male.
Con le due puntate del «manuale per inventare favole» (pubblicate su «Paese
Sera» il 9 e il 19 febbraio 1962) siamo in una fase importante della costruzione
della «Fantastica», che è – secondo Rodari – l’arte capace di individuare i
meccanismi dell’immaginazione creativa, della fantasia che agisce sulla realtà.
L’idea iniziale gli è suggerita dal «frammento» n. 1905 di Novalis: «Se avessimo
anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare».
Con l’espediente letterario del manoscritto ritrovato immagina che una
traduzione giapponese del «manuale» (autore un improbabile prof. Otto
Schlegel-Kamnitzer; con un titolo un po’ meno improbabile di Fondamenti di
una Fantastica, derivato – come avverte Rodari – dall’incrocio della kantiana
Fondazione di una metafisica dei costumi e del «frammento» di Novalis sopra
ricordato); dicevo, immagina che una traduzione giapponese dell’opera gli sia
stata consegnata da un giovane giapponese conosciuto a Roma, durante le
Olimpiadi. Perché proprio giapponese la traduzione? Certamente perché –
come suggerisce nella presentazione a Gip nel televisore – gli sembra giusto
che a diffondere il «manuale» di Fantastica sia «un figlio del paese che ha
provato nelle proprie carni l’orrore della bomba atomica» 1.
Questi articoli di «Paese Sera» sono importanti per due ordini di ragioni:
a) rappresentano la prima esibizione pubblica di una già organica
sistemazione tipologica del «ricettario» fantastico, e quindi sono l’abbozzo che,
nei suoi sviluppi finali, darà vita poco piú di dieci anni dopo alla Grammatica
della fantasia;
b) rivelano la scelta di Rodari di privilegiare le colonne di un quotidiano
come tribuna per rivolgersi non tanto ai bambini, ma al pubblico variegato ed
eterogeneo qual è quello dei lettori di un quotidiano. Infatti scrive che il
manuale è «dedicato piú che altro [...] a maestri, nonni e genitori di scarsa
fantasia». E qualche anno dopo, a proposito dell’uso della fantasia da parte
degli adulti, aggiungerà che «per stare coi bambini ci vuole molta fantasia
perché bisogna essere sempre con la fantasia un passo piú avanti di loro per
poterli sfidare a raggiungerci, a venire su» 2.
Rodari individua due distinti metodi per inventare favole: il primo è quello
che comprende le tecniche che fanno muovere la fantasia dall’interno verso
l’esterno; al secondo gruppo appartengono i metodi in cui, viceversa, il moto
della fantasia va dall’esterno verso l’interno. Tipico del primo gruppo è il
sistema «sorgi e cammina» (o dell’animazione): «In ogni oggetto è contenuta
una favola, ma vi è contenuta allo stesso modo che Lazzaro nella tomba». E
porta come esempio la sedia che non tollera il peso di persone con i baffi. La
legge di Hawthorne, autore dell’opera Racconti raccontati due volte,
appartiene al secondo gruppo. La fantasia interviene dall’esterno a manipolare
racconti già bell’e fatti, ne conserva la struttura, ma trasforma la vicenda e i
particolari secondo schemi nuovi e diversi. La leggenda del Re Mida, ad
esempio, che trasforma in oro tutto quello che tocca, è mantenuta intatta, in
quanto a impianto strutturale, in una storia che abbia a protagonista qualcuno
che trasforma in acqua tutto ciò che tocca.
Altre «ricette», piú vicine – dice Rodari – «alla nostra sensibilità di uomini
della seconda metà del secolo» (il «manuale» nella finzione risale al 1912) sono
presentate nei due articoli. Tra l’altro: il sistema del fortuito incontro (nato
dall’analisi logico-fantastica del noto paragone del poeta surrealista
Lautreamont: «Bello come il fortuito incontro su un tavolo operatorio di una
macchina da cucire e di un ombrello»); l’incarnazione della metafora (cioè, resa
alla lettera e sviluppata seguendo direzioni conseguenti); il sistema della calza
rovesciata (esempio: nel paese di Pinocchio le bugie fanno allungare il naso, in
un paese diverso le bugie fanno accorciare il naso).
1. G. Rodari, Gip nel televisore e altre storie in orbita, Mursia, Milano 1975, p.
5.
2.G. Rodari, Scuola di fantasia, in Riforma della scuola, n. 5, 1981. È il testo
della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 17 aprile 1974 ad un anno dalla
pubblicazione della Grammatica della fantasia.
1. Manuale per inventare favole.
La variante interplanetaria.
La calza rovesciata.
Deformazioni e realtà.
Alberti: Credo che fra gli altri motivi che concorrono alla
larga diffusione del fumetto e a cui gli altri hanno ben
accennato, non va trascurato il fatto tecnico. La vivacità del
colore, l’essenzialità della figura, la brevità del testo scritto
sono elementi che destano immediato interesse, colpiscono
fortemente la fantasia del bambino e vi si imprimono
facilmente.
Piú in generale il fumetto risponde ad una esigenza di
comprensione istantanea che è avvertita non solamente dai
bambini, in una società nervosa e rapida, come la nostra, la
quale lascia poco tempo alla lettura meditata ed alla
riflessione. Non per niente hanno trovato subito successo
certi films western tutti azione e violenza, sfrondati cioè da
qualsiasi tentazione di approfondimenti psicologici o
sociologici.
Nell’aprile 1968 Rodari torna con tutti gli onori (a lui è dedicata la copertina)
sul «Caffè» con un consistente gruppo di 20 poesie. Di queste, l’Esercizio n. 18
e In viaggio saranno riprese per il libretto Parole per giocare dell’editore
Manzuoli. Che dire di queste poesie? Ancora una volta evidente è il gioco con le
parole. Un gioco che libera la fantasia e rende piú comprensibile il mondo e le
sue storture. In alcuni di questi componimenti la satira si fa amara. Dettata da
una forte amarezza è, ad esempio, Un sogno: sono aggredite le abilità
camaleontiche messe in atto dalla diffusa pratica dell’arrivismo sociale. La
forza trasgressiva dei versi sta anche nel ribaltamento totale dello stereotipo
poetico che annette ai sogni soltanto qualità idilliche. Qui la dignità del sogno è
progressivamente svenduta fino alla resa finale e allo spregevole ghigno
conclusivo: l’abietta volontà di toccare i «parapetti della vita» produce incubi e
fascismi. In Fucilazione, al contrario, al sapore amaro della violenza non
cedono l’ottimismo e la speranza; la «dolcezza che non si può perdere» è la
soluzione di ogni «smorfia di felicità»: all’infanzia è affidato il messaggio
salvifico per l’umanità.
1. Il cavallo saggio.
2. Esercizio n. 17.
3. Esercizio n. 18.
Il dí dell’Ascensione
salivo in ascensor
e per combinazione
trovo il commendator.
S’accomodi in salotto
cosí le spiegherò
perché non havvi al Lotto
la ruota di Salò.
O conte di Salina,
la spada tua dov’è?
L’ho persa alla marina,
non chiedermi perché.
4. Il topo sigaro.
5. La terra natia.
6. Un sogno.
8. Il cappello a cilindro.
Un cappello a cilindro andò da un droghiere per farsi
riempire di cioccolata calda.
Non posso servirla, il droghiere disse.
Perché, disse il cappello a cilindro: dei pubblici esercizi il
pubblico è padrone e i cappelli a cilindro hanno
sempre ragione.
Sarà, riconobbe il droghiere,
ma giustappunto abbiamo finito la cioccolata di cui
abbiamo fornito settecento ettolitri al locale
comando della guardia forestale.
Grazie, disse il cappello a cilindro, mi rivolgerò al
suddetto comando
a stretto giro di posto.
Difatti girò l’angolo,
scantonò il cantone,
tirò diritto a sinistra
e si trovò di fronte al comandante in persona che
distribuiva la cioccolata fumante ai boscaioli e ai
cacciatori di frodo con la piuma sul cappello.
Buongiorno, buongiorno, signor comandante.
Buongiorno a lei, cappello a cilindro, in che cosa le posso
essere utile
e in che cosa posso favorirla?
Per cortesia, mi riempia di cioccolata calda.
Mi duole, mi duole, stimatissimo cappello, lei non ha il
porto d’armi,
come può rivolgermi la parola senza arrossire?
Si indirizzi al comando dei cappelli a cilindro in carta da
bollo da quarantacinque miliardi, per avere
l’autorizzazione
di avanzare la richiesta
allo scopo di inoltrare domanda
in deroga alla legge numero quattrocentomila articolo
diciassette bis secondo capoverso, pagina
quarantadue contando dalla copertina, pagina
sessantacinque contando dalla controcopertina,
tredicesimo chilometro partendo dalla via Cassia.
Il cappello a cilindro impallidí,
si fece largo nella folla a colpi di lupara e si recò dove di
dovere.
Il comandante dei cappelli a cilindro, uomo vissuto e di
larga esperienza, sensibile all’omaggio e devoto al
suo incarico, piú volte decorato al valore civile
militare e religioso, abbonato al palco dell’opera
e a quello delle autorità,
era morto da pochi istanti.
Giaceva nella bara in stato di immobilità e di totale
inservibilità.
Ecco, disse il cappello a cilindro, in che mondo viviamo e
come ti trattano, il comandante muore lasciandoti
senza cioccolata ma della cosa non sarà fatta parola
sulla sua lapide tombale,
non mi resta che dare le dimissioni.
Difatti si dimise dai cappelli a cilindro ma per tutta la
vita ebbe il rimpianto della cioccolata calda.
9. Il pianoforte a vela.
10. Insiemi.
13. In viaggio.
16. La bambola.
18. Un esperimento.
Un bambino di nome Stefano
aveva cinque anni.
Facevamo un esperimento:
a chiamarlo forte
si toglieva il berretto.
Bisognava fare grande attenzione
per trovare il volume giusto:
assolutamente non piano,
ma nemmeno troppo forte:
indovinare fino a che punto
gli piaceva fingersi sordo
oltre che punto avrebbe rifiutato
di ricevere il messaggio.
Del punto esatto egli solo era l’arbitro.
La regola del gioco era segreta.
Camminava davanti a me senza voltarsi e quando fu
stanco corse via
senz’altro scopo che quello di lanciare uno strido con
tutta la sua gola di passero.
20. Fucilazione.
Nel 1965 («La voce della libreria», n. 18, dicembre 1965) Rodari apre cosí un
consuntivo sulla Letteratura per l’infanzia oggi: «I fatti di maggior rilievo dei
quali dovrà tener conto chi tenterà una rappresentazione organica della
letteratura infantile italiana in questi ultimi vent’anni (1945-1965) mi
sembrano, a un primo sguardo, i seguenti: il ritorno della libertà, ossia la
Resistenza con il suo durevole strascico di grandi lotte democratiche;
l’espansione della scuola pubblica e, da ultimo, l’estensione dell’obbligo
scolastico fino al quattordicesimo anno di età; lo sviluppo, forse disordinato, ma
imponente, dell’industria editoriale o, se vogliamo azzardare una definizione, la
trasformazione della letteratura per l’infanzia in una grande industria;
l’avvento di nuovi mezzi di comunicazione e di svago (cinema, fumetti,
televisione: a rigore il cinema dovrebbe esser lasciato fuori da questa
categoria, perché un po’ meno “nuovo”; ma la sua influenza sul costume si è
talmente ingigantita da costituire un fatto nuovo in molti sensi); l’accresciuta
difficoltà per i critici e gli storici della letteratura infantile di dare una
sistemazione teorica, una sintesi di tanti fatti, tuttora in movimento».
Soprattutto a quest’ultimo fattore andavano le attenzioni di Rodari, tanto che a
distanza di qualche anno prende l’iniziativa di dare lui una prima «sistemazione
teorica» della letteratura per l’infanzia in riferimento anche a quanto è in
movimento nella cultura e nella società del paese. Lo fa in una relazione tenuta
al Convegno sull’educazione artistica, organizzato dall’associazione Italia-Urss
a Roma nel giugno 1968. La relazione viene pubblicata su «Scuola e Città», n.
3, marzo 1969.
Sono anche da ricordare due diversi contributi che alla definizione della
letteratura infantile lo scrittore fornirà successivamente: nel dicembre 1977
pubblicherà sulla rivista spagnola «Cuadernos de pedagogias» un articolo dal
titolo Un juguete llamado libro; sulla stessa rivista nel febbraio 1980 uscirà La
imaginacion en la literatura infantil. In quest’ultimo saggio tra l’altro scrive:
«Una volta trovato il punto giusto per l’incontro e la sintonia con il bambino,
[l’autore di letteratura per l’infanzia] continuerà ad essere un adulto, si
comprometterà completamente, dirà tutta la verità. La difficoltà sta nel trovare
quel punto giusto. È il frutto di lavoro e di sperimentazione piuttosto che di
intuizione».
Certe posizioni nostalgiche, tipo «i ragazzi non leggono
piú come una volta», appaiono assolutamente ingiustificate;
si può dire, al contrario, che appena ora il libro stia
cessando di essere un privilegio di classi e ceti limitati per
diventare un bene di tutti. Pochi decenni or sono, intere
regioni erano afflitte dalla piaga dell’analfabetismo, intere
classi sociali vivevano a un livello basso, o addirittura
miserevole. Dalla Liberazione in poi è cominciato un
processo contraddittorio ma costante di elevamento del
livello di vita e di cultura. La scolarizzazione si è estesa. Il
prolungamento dell’obbligo scolastico fino ai quattordici
anni, per quanto attuato tra grandi difficoltà e resistenze
oggettive e soggettive, rimane un fatto di grandissima
portata. Il clima di vivace e continuo dibattito di idee che
caratterizza la vita pubblica italiana dalla sconfitta del
fascismo in poi ha portato alla ribalta il problema della
cultura popolare. Vivacissimo è stato ed è il dibattito
pedagogico e didattico, nella scuola e fuori della scuola.
Anche la scuola è un campo di battaglia di idee e di metodi
nuovi: sbaglierebbe chi la rappresentasse unicamente alla
luce delle sue manchevolezze strutturali ed organiche, che
pure sono gravissime. In questo quadro si comprende il
notevole incremento quantitativo dell’editoria per ragazzi.
Sono comparse numerose nuove case editrici. Antiche case
editrici che non si erano mai occupate dei ragazzi
destinano loro, oggi, una o piú collane. Numerose sono le
mostre, i convegni, i dibattiti pubblici intorno alla
letteratura infantile. Sono stati istituiti molti premi letterari
destinati a libri per ragazzi, sia agli autori dei testi, sia agli
autori delle illustrazioni.
Non si sono mai stampati tanti libri per ragazzi come
oggi.
Le nuove tecniche tipografiche hanno avuto la loro parte
in questo sviluppo quantitativo. La letteratura per ragazzi è
diventata un’industria remunerativa e attenta, che avvicina
il bambino fin dai primissimi anni, con albi e libretti
illustrati, plastificati, stampati su tela, lavabili, con libri-
giocattolo, dalle pagine mobili e agibili; lo richiama nelle
edicole con periodici illustrati da raccogliere in volume, con
albi accompagnati dal disco; lo attrae con volumi a colori,
ricchi di riproduzioni fotografiche, ideati secondo tutte le
risorse della grafica moderna.
A questa espansione sembra che abbiano contribuito,
direttamente e indirettamente, anche i fumetti – della cui
fortuna tratteremo piú avanti – sia fornendo a poco prezzo
un certo materiale di lettura a zone sociali escluse
dall’acquisto dei libri, generalmente cari; sia abituando i
ragazzi all’iniziativa, cioè all’acquisto spontaneo in edicola;
sia costringendo l’opinione pubblica, coi modelli peggiori
(se dal male può venire un bene) a porsi seriamente il
problema delle letture infantili.
L’opinione pubblica merita un altro cenno. È in questi
anni, grazie alla generale spinta democratica e culturale
partita dalla Resistenza, che si è verificata – se non ancora
la creazione di una «coscienza pedagogica» da parte della
società adulta nel suo insieme nei confronti della società
giovanile e infantile – una certa presa di coscienza, sempre
piú diffusa, delle difficoltà e delle responsabilità connesse
con il «mestiere di genitore». Corsi e scuole per genitori,
associazioni di genitori ed altre simili iniziative non hanno
ancora, da noi, la consistenza che sarebbe augurabile, sono
ancora iniziative isolate e di minoranza, ma non si può
negare che un poco abbiano mosso le acque. La radio e la
televisione avrebbero potuto fare di piú, ma un loro
contributo alla conoscenza e alla diffusione di libri per
ragazzi, alla nascita nei ragazzi e nei genitori di stimoli
culturali che solo il libro può soddisfare completamente,
almeno per oggi, non può essere negato.
Il primo, serio limite qualitativo dell’espansione
tratteggiata, ci appare dettato dal carattere
prevalentemente commerciale dell’insieme della
produzione. Tale carattere non è forzatamente un elemento
negativo: nel nostro sistema economico l’editore assume in
proprio il rischio della propria iniziativa ed ha quindi in
prima persona il merito, dove esiste, di tale iniziativa. A
parte però i casi deteriori, in cui il libro per ragazzi è
prodotto semplicemente come una merce che si vende, e
naturalmente si vendono anche merci brutte, se danno un
profitto, chiunque conosca un poco la produzione corrente
è in grado di distinguere l’editore che si prefigge
esclusivamente lo sfruttamento e l’incremento di un
mercato dei libri per ragazzi in formazione, dall’editore che
attribuisce a questa sua attività un carattere culturale o
educativo, e orienta la sua produzione di conseguenza.
Dall’insieme risulta un panorama alquanto confuso. Sono
rari i programmi editoriali chiaramente orientati a uno
scopo, a uno dei tanti scopi possibili, quali potrebbero
essere lo stimolo a una creazione e produzione nazionale, lo
sviluppo di collane divulgative di un determinato carattere,
e cosí via. Sono rare le iniziative editoriali dietro le quali si
intraveda il lavoro di una équipe pedagogico-letteraria:
certo piú rare di quelle, anche fortunate, dettate dal gusto
personale o dall’intuizione o dai contatti internazionali
dell’editore.
Scrittori e collane.
I ragazzi-adulti.
Conclusioni.
Conclusioni, ovviamente, del tutto provvisorie. Dopo aver
elencato tanti problemi, nella speranza che il dibattito li
faccia avanzare, vorrei limitarmi a sottolineare quattro
punti:
1) si è avuto, negli anni scorsi, in Italia, un boom del
libro: ma non ancora un boom del libro per ragazzi, il cui
mercato è tuttora limitato principalmente alle feste
natalizie, nelle quali, se non altro, il libro ha preso un buon
posto tra le «strenne» tradizionali. Io penso che questo
boom non sia lontano. La scoperta dei ragazzi è appena
cominciata: continuerà se educatori, editori, scrittori e
genitori insisteranno nei loro sforzi. Un giorno rideremo
senza arrossire della famosa barzelletta in cui una madre,
che va a comprare un regalo per il figlio, rifiuta il
suggerimento della commessa («gli prenda un bel libro»)
rispondendo: «Ne ha già uno...»
2) I problemi accennati dovrebbero aver giustificato in
anticipo la riserva che io avanzo ora intorno allo stato della
teoria intorno alla letteratura infantile: penso che sia
necessaria, oggi, una sintesi teorica nuova, che tenga conto
di tutti i fenomeni nuovi e del ritmo dei mutamenti
determinati principalmente dai nuovi mezzi di
comunicazione. I classici manuali di letteratura infantile ci
servono sempre meno. Le teorie che muovono da altre
teorie, i libri che nascono da altri libri, ci servono sempre
meno; abbiamo bisogno di riflessioni fresche, sui fatti, sulle
cose, fuori degli schemi culturali tradizionali che la realtà
ha fatto invecchiare.
3) Agli scrittori vorremmo rivolgere un appello analogo a
tener conto della realtà d’oggi, a non trascurare il dovere di
informarsi sui progressi della psicologia, della pedagogia,
della didattica, della sociologia. Noi dobbiamo nutrirci a
tutte queste fonti, se non vogliamo creare opere che, nel
nostro tempo, appariranno superflue. Certo, nel momento
della creazione, nulla conta fuorché l’immagine che nasce
nella fantasia e si svolge in piena libertà. Non sono schemi
psicologici, ideologici, pedagogici, che possono
determinare la riuscita del nostro lavoro, che non può fare
a meno della piú assoluta libertà creativa. Ma la libertà
stessa ci servirà a poco, se sarà soltanto libertà di
fantasticare nel vuoto, o di chiuderci in un mondo che non
è quello d’oggi, non è quello dei ragazzi d’oggi.
4) L’occasione del convegno, durante il quale riceveremo
informazioni su ciò che per i ragazzi si fa in un grande
paese amico, dovrebbe anche essere l’occasione per
riflettere su quanto abbiamo perduto e continuiamo a
perdere, su quanto hanno perso e continuano a perdere i
nostri ragazzi, per la scarsità dei contatti tra l’editoria
italiana e quella sovietica di letteratura infantile.
Conosciamo troppo poco ciò che viene scritto, stampato
e diffuso in un paese in cui i ragazzi che leggono sono
decine di milioni, i libri hanno tirature per noi quasi
incredibili e le biblioteche per ragazzi sono frequentate
come i cinematografi; un paese in cui, tra l’altro, esiste un
cinema per i ragazzi, esiste un teatro per i ragazzi, esiste
quella che noi abbiamo chiamato, nel nostro desiderio, una
«civiltà dell’infanzia».
Conoscenze meno superficiali, legami piú stretti in
questo campo tra i nostri amici sovietici e noi, possono
essere soltanto utili all’amicizia tra i nostri Paesi; ma, quel
che piú conta, utili soprattutto per i ragazzi italiani e
sovietici, dei quali noi siamo qui i rappresentanti, e, se ci
state, i servitori.
Pro e contro la fiaba
L’avventura umana.
I cosiddetti «orrori».
La fiaba illustrata.
L’ideale educativo.
Dalla fiaba alla poesia. Esiste una poesia per bambini? Quali caratteri ha o
dovrebbe avere? Quale rapporto tra i bambini e la poesia? Come educare alla
poesia? In che termini porre la questione della comprensione? A queste e altre
grosse questioni, che ancora oggi ci poniamo, Rodari fornisce risposte nel
saggio I bambini e la poesia pubblicato sul «Giornale dei genitori», n. 6-7,
giugno/luglio 1972. Lo scritto si configura come integrazione al saggio La
letteratura infantile oggi.
Alla domanda se esista una poesia per bambini si
potrebbe anche rispondere subito di no, che non può
esistere una poesia per bambini piú che non esista una
poesia per avvocati, o per maestri di scuola, o per vigili
notturni. La poesia esiste autonomamente, a prescindere
da chi si trova ad essere il destinatario del suo messaggio;
o non esiste. Ci sono poesie che possono essere capite,
sentite, diciamo pure vissute dai bambini,
indipendentemente dal fatto che siano state create per loro
oppure no. E ce ne sono altre, troppo lontane dal loro
campo di esperienza, troppo dissonanti con le loro strutture
mentali o con il loro mondo sentimentale, troppo discordi
con il loro vocabolario perché essi possano in qualche modo
goderne. Ma non esiste quella cosa che possa essere poesia
per i bambini e non-poesia per gli adulti.
Sono quasi luoghi comuni e ci si potrebbe lavorare sopra
solo per tautologie. Sono poi la traduzione affrettata,
l’applicazione automatica della legge generale secondo la
quale non esisterebbe una letteratura per bambini, ma solo
libri dei quali anche i bambini si possono impadronire.
Questa legge ha esercitato tanto a lungo tra noi il suo
impero, diciamo pure la sua dittatura, ed è cosí comoda da
adoperare, che è diventato quasi obbligatorio renderle
omaggio anche quando si ha intenzione di violarla, per
darsi un’opinione diversa.
Libri di prose o di versi potrebbero giungere ai bambini
solo per caduta, cosí come ad essi sono giunte le fiabe, nate
con tutt’altri caratteri da quello di «trattenimento dei
piccirilli», o le maschere del teatro, l’arco e le frecce della
tribú primitiva; oggetti già sacri e rituali come la trottola o
la bambola, e cosí via. Il che è stato certamente vero fino a
quando il bambino è rimasto una semplice appendice della
società adulta, senza il diritto di avanzare esigenze proprie,
rivendicazioni autonome. In generale non sembrerebbe piú
vero da quando il bambino è stato scoperto dall’industria,
prima come lavoratore poi come consumatore, valorizzato
dalla pedagogia, studiato dalla psicologia.
Oggi, poi, in presenza di un’industria culturale che, al
seguito dell’allargamento della scolarizzazione e
dell’obbligo scolastico, va scoprendo il pubblico infantile,
l’ostacolo teorico non viene negato, ma semplicemente
rimosso. Dopo aver imparato a distinguere tra poesia e
cultura, abbiamo imparato a distinguere anche tra cultura
e industria culturale. A loro volta i bambini, hanno
imparato a manovrare una infinità di strumenti, dal
giradischi al registratore, dal proiettore alla radio, al
televisore, con i quali compiono certamente esperienze
diverse da quelle del bambino di cento anni fa, che a sei
anni di massima andava a zappare la terra o a lavorare in
filanda. Bisogna tenerne conto, per parlare di poesia e di
bambini, oppure no?
Ecco insomma affollarsi i dubbi e le domande intorno alla
perentoria risposta negativa da cui siamo partiti. Per lo
meno si sente il bisogno di articolarla, secondo
determinazioni piú controllate. Anche le teorie estetiche
hanno camminato, sotto il pungolo della linguistica,
l’offensiva della semeiotica. Possiamo allora sospendere la
risposta e fare qualche indagine preventiva. Può darsi ci
capiti di scoprire che la stessa domanda non sia del tutto
precisa nell’indicare i termini della questione – che le
sfugga la realtà dei rapporti tra il bambino e la poesia.
Ninne-nanne e filastrocche.
Una prima indagine da fare mi sembra quella relativa
agli incontri e agli usi della poesia che il bambino fa
spontaneamente nei primi anni di vita. Poesia, in questo
caso, popolare, secondo l’individuazione che ne fece per
primo, nella cultura europea, lo Herder, seguito dai
romantici. Parlo delle ninne nanne, nella ristretta misura in
cui esse sono ancora vive e non siano già precocemente
sostituite dai rumori di Carosello. Parlo delle filastrocche,
cantilene e tiritere popolari che, per lo meno nel mondo
contadino, hanno ancora una qualche esistenza e funzione;
delle contine, che continuano a far parte del rituale dei
giochi, distribuendo i ruoli in base a una formula magica;
delle preghiere in rima, dei proverbi, dei nonsensi che
accompagnano da sempre certi giochi tra adulto e
bambino. Si tratta di forme che appartengono, per lo piú, a
patrimoni regionali, dialettali, a circolazione limitata. Noi
non possediamo un «corpus» nazionale di queste creazioni
del folclore. Anche per le fiabe, del resto, abbiamo dovuto
accontentarci per molto tempo di raccolte regionali,
quando già in altri paesi, dalla Germania dei Grimm alla
Russia di Afanasjev, prima l’entusiasmo dei romantici, poi
quello dei folcloristi, avevano portato alla nascita di grandi
raccolte nazionali, in un certo senso anche nazionaliste,
cioè progettate e sentite come contributi alla formazione di
uno spirito nazionale.
Per quel che riguarda le rime popolari certo i lavori piú
importanti, con diversi intendimenti, sono quelli dei
tedeschi: la raccolta dei Volkslieder dello Herder, che per
altro aveva una sua visione non soltanto nazionale del
carattere e dell’importanza dei canti popolari; e il Des
Knaben Wunderhorn, di Achim von Arnim e Clemens
Brentano, al quale capitò la fortuna, o la disdetta, di
ricevere un riconoscimento ufficiale dal governo prussiano,
per il «patriottismo» cui faceva appello, nel momento in cui
era all’ordine del giorno la «liberazione dai francesi» (sono
parole del ministro prussiano degli Interni, von Stein). A
proposito di questa raccolta, è singolare che, accogliendovi
anche poesie di Goethe, accanto a canzoni anonime, gli
autori proclamassero «popolare non solo ciò che è fatto, ma
ciò che è accolto dal popolo». Non vedo però in Europa e
fuori un paese che abbia qualcosa di paragonabile alle
Nursery Rhymes inglesi, una raccolta che si è fatta da sola
nel tempo e che è parte integrante dell’unità linguistica
dell’Inghilterra, strettamente intrecciata al costume
nazionale, tanto che i suoi personaggi, le sue rime
burlesche, sono entrati nel repertorio delle citazioni
quotidiane e col loro spirito hanno decisamente influito
sulla nascita di un capolavoro come «Alice nel paese delle
meraviglie», che si nutre di «nursery rhymes» almeno
quanto Pinocchio si nutre di fiabe popolari toscane.
Anche il nonsense letterario, il «limerick», un genere in
cui è diventato famoso Edward Lear, ma che è praticabile
da tutti, grazie a una formula fissata con grande precisione
e facilissima da adottare, entra nel patrimonio di ogni
bambino inglese: è un genere in cui il popolare e l’infantile
si fondono felicemente.
In Francia, il Trésor de la poesie populaire, di Claude
Roy, fa largo spazio a contine, ninne nanne eccetera, come
a testi di canzoni, ballate, storie di «images d’Epinal», in
un’antologia di un folclore duro a morire proprio perché si
esprime di preferenza nella lingua nazionale. Le differenze
brevemente accennate fra la tradizione italiana, sparsa per
cento rivoli a lungo incomunicanti, e la tradizione tedesca,
inglese, francese, non sono davvero casuali. Inglesi e
francesi hanno raggiunto la loro unità nazionale, anche
linguistica, molto prima di noi. In Germania l’unificazione
politica è avvenuta in ritardo, ma il sentimento nazionale
tedesco aveva già trovato il modo di esprimersi, prima nella
Riforma (è appena necessario accennare ai canti di Lutero),
poi nel Romanticismo e nella sua filosofia. Si tratta di paesi
in cui, per strade diverse, è caduto prima che da noi il solco
tra letteratura e popolo, il ritmo della rivoluzione borghese
è stato o piú rapido o meno contraddittorio.
L’incontro con la poesia popolare è dunque il primo
incontro del bambino, e che questo avvenga in prevalenza
su basi dialettali ha la sua importanza, certo, ma non muta
la qualità dell’incontro, la sua ricchezza emotiva.
Si tratta pur sempre di incontri che sono situazioni vive,
non artificiose. La madre che canta la ninna nanna e il
bimbo che si addormenta ascoltandola vivono una
situazione reale, di cui le parole e la musica sono
l’espressione poetica. Vita e poesia sono la stessa cosa
nella voce che canta e fornisce insieme la sostanza
dell’espressione e la sua forma, il contenuto e le sue forme.
Nella ninna nanna le parole tendono a scomparire, a
diventare un sottovoce, un canto a bocca chiusa. Tende
insomma a prevalere la musica, di cui sarebbe sbagliato
vedere solo la funzione rassicurante, consolatoria, il
rifornimento di protezione e tranquillità di cui è la fonte. Il
bambino vive pienamente quel momento che è anche
formativo della sua mente e della sua sensibilità. La voce
che canta, come ogni altro segno, indizio o sintomo del
mondo che lo circonda, è una guida alla scoperta della
realtà e delle sue forme.
Le «conte».
Il «giocattolo poetico».
Un esempio: Gatto.
Re della luce
perché ti nascondi
nella nebbia fitta?
Prima il paese
era brillante
lucente
dorato.
Ora è triste
senza i colori
e senza i bambini
per le strade.
Mi piace vivere
giocare e saltare
ridere
e avere vicino
la mamma e il papà.
Ti ringrazio, Signore.
Scende la notte
buia buia
la luna ascolta
i canti delle mamme.
Alcune difficoltà.
Rovesciare il metodo.
Schemi e personaggi.
Difficile ma necessario.
A quali condizioni.
1958
1959
1960
1961
1962
1963
1964
1965
20 gennaio: Quando la ricerca è utile ed educativa [Sul Convegno del Mce sulla
formazione scientifica nella scuola dell’obbligo].
27 gennaio: Si può insegnare tutto a tutti [«Ciò che educa l’intelligenza, educa
la personalità. È probabile che quei bambini (“che arrivano, per
manipolazione, a concepire matematiche fondate su basi diverse da quella
decimale”) arrivino prima di altri a comprendere che vi sono non soltanto
matematiche, ma uomini “fondati” su basi diverse: ideali, religiose,
politiche...»].
16 febbraio: Galileo ha inventato l’«orologio a dondolo» [Sui giornalini
scolastici].
26 maggio: Anche Roma conquistata da Evtuscenko [Il poeta sovietico ai
«Martedí letterari»].
8 settembre: Italiani in Jugoslavia [I problemi di una minoranza].
21 ottobre: Dante Alighieri era un parafulmine? [Una mostra di lavori infantili
sul tema «Dante visto dai bambini»].
17 novembre: Anche in Italia arriva Tintin [Sul fumetto].
4 dicembre: La macchina magica di 007 in un libro per ragazzi [«... non è
difficile rendersi conto che l’automobile dell’agente 007 [...] è una parente
stretta degli esseri magici che popolano le fiabe classiche, l’incarnazione
moderna dei “doni fatati” che nelle fiabe gli eroi ricevono per portare a
termine vittoriosamente le loro imprese e sposare, a lieto fine, la figlia del
re»]
1966
1967
3 gennaio: L’uomo dell’anno [Articolo di fondo sui giovani. «Il fatto nuovo è
l’elaborazione da parte dei giovani – in Italia forse meno che altrove – di una
loro filosofia, perfino di una loro piattaforma politica, che in Inghilterra e in
Olanda sarà magari di vaga opposizione all’establishment, all’ordine
costituito e invecchiato nei suoi schemi; in America è diventata [...]
opposizione alla politica estera del Presidente, e soprattutto alla guerra nel
Viet Nam [...] Sbagleranno, ma è giunto il momento – per i partiti, per
esempio – di dedicare ai giovani un’attenzione di tipo nuovo, meno
cattedratica, meno paternalistica»].
18 marzo: Carriere per domani [Articolo di fondo sui dati di un’indagine Istat
sui giovani laureati].
6 giugno: Bambini e architetti vogliono le stesse cose [Sulla «Giornata
dell’architettura e dell’urbanistica»].
7 giugno: Saranno i bambini i nostri liberatori?[Approvata una «Carta dei diritti
del fanciullo al gioco e al lavoro»].
5 agosto: Zero in condotta [Articolo di fondo sull’«autoritarismo nella scuola»].
9 agosto: Le macchine per insegnare [«Le macchine renderanno l’insegnante,
se possibile, piú prezioso di prima, proprio perché si accolleranno quella che,
fino a un certo punto, possiamo chiamare la parte bruta dell’istruzione. Esse
saranno, diciamo, il calamaio, la lavagna, e magari la pagella di domani: ma
non il maestro»].
15 agosto: Il robot amante tradirà la padrona [Prima puntata di un’inchiesta su
«Fantasesso-Fantavideo-Fantapolitica»].
19 agosto: Nulla di consolante nel «futuro televisivo» [«...la rivolta
dell’intelligenza nei confronti della televisione ha qualche punto in contatto
con le primitive rivolte operaie contro l’introduzione delle macchine»].
22 agosto: Se lo spettatore si eccita disponibile la mascherina [Ultima puntata
dell’inchiesta].
16 settembre: La scelta del colonnello [Intervista immaginaria al colonnello
greco Parapopulos sul Patto Atlantico].
1 ottobre: Ritorno a scuola [«... solo il 65 per cento dei pre-adolescenti
frequenta la scuola media. (Occorre) recuperare quel trentacinque per cento
di ragazzi che si perde per strada nel periodo della scuola obbligatoria [...]
Sono troppi per poter dire che la scuola obbligatoria fino a quattordici anni è
stata realizzata, almeno nel suo aspetto quantitativo». «Una violenta
denuncia del carattere classista della nostra scuola [...] è contenuta nella
Lettera aperta ad una professoressa [...] Il libro [...] è un po’ il testamento
(ma non diremo spirituale, meglio dire “di lotta”) del prete toscano [...] Un
libro urtante [...] Senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni [...]
Non tiene conto del pur grande lavoro di liberazione compiuto, negli ultimi
decenni, dalla pedagogia e dalla psicologia. Di una sincerità a volte brutale,
di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò, il piú bel libro che sia mai stato
scritto sulla scuola italiana, il piú appassionante, il piú vero»].
4 ottobre: Il simbolo contrario della bomba atomica [Sul lancio dello Sputnik].
9 novembre: I ragazzi e la televisione [Quali programmi della Tv per ragazzi
piacciono al pubblico cui sono destinati?].
9 dicembre: Sesso e supersesso per quattordicenni inibiti [La stampa
pornografica e le incriminazioni per oscenità].
Il libro
www.einaudi.it