Sei sulla pagina 1di 316

Gianni Rodari

Il cane di magonza
A cura di Carmine De Luca
Prefazione di Mario Di Rienzo
Prefazione

In principio Il cane di Magonza era semplicemente un


racconto, pubblicato su «Paese Sera» l’8 ottobre del 1962.
Vent’anni dopo (1982), sempre nel mese di ottobre, divenne
anche il titolo di questo libro, che si configura come
un’antologia di articoli, scelti tra i tanti pubblicati da
Rodari sul quotidiano romano, secondo un criterio ben
preciso: tutti, chi piú chi meno, hanno un sapore letterario.
La scelta degli articoli è di Carmine De Luca, uno dei
primi e piú sagaci «rodarologi» che abbiano analizzato con
meticolosità e acume critico la produzione poetica,
narrativa e giornalistica di Rodari. Quel che accomuna gli
articoli selezionati e riproposti per questa agile antologia,
se cosí si può dire, è dunque la loro «letterarietà». Sono
articoli che si leggono con piacere, e, per di piú, senza
essere vincolati a una lettura sistematica e ordinata, dalla
prima all’ultima pagina. Si può saltare da un pezzo (cosí si
definiscono, nel gergo giornalistico corrente, gli articoli)
all’altro senza rispettare l’ordine cronologico che ha
seguito il curatore nel metterli insieme. Ognuno può darsi
l’ordine che vuole, passando da un articolo all’altro, a suo
piacimento. D’altra parte, proprio perché sono articoli,
sono nati in modo autonomo, scritti e pubblicati in giorni
diversi.
Detto ciò, bisogna subito aggiungere che il libro è anche
frutto di un’operazione culturale di largo respiro, voluta
dall’amministrazione del Comune di Reggio Emilia allora in
carica, che, a due anni dalla morte di Rodari (1980), volle
dedicargli il primo grande convegno tenutosi in Italia, in
cui si tratteggiò l’immagine di Rodari intellettuale
«impegnato», giornalista prolifico, scrittore brillante e
poeta raffinato, con la regia sapiente dello stesso Carmine
De Luca. Questi sono i motivi che stanno dietro la nascita
del libro.
Il titolo di quel convegno – «Se la fantasia cavalca con la
ragione» – era quanto mai suggestivo e intrigante: lasciava
intendere chiaramente che lo scopo del convegno era
quello di individuare e mettere in luce i vari aspetti
dell’opera di Rodari poeta, scrittore, giornalista e
intellettuale. Le aspettative, bisogna dire, non andarono
deluse. Gli interventi dei «rodarologi» chiamati a
tratteggiare la figura e l’opera di Rodari, personaggio dal
«multiforme ingegno», furono tutti interessanti. E
altrettanto interessanti risultarono i materiali approntati
dagli organizzatori, distribuiti a tutti i partecipanti. Tra i
quali c’era anche questo libro, Il cane di Magonza, curato
da De Luca, che, se proprio vogliamo dirla tutta, è da
considerarsi come un primo, serio, documentato approccio
critico alla figura e all’opera di Rodari. Non è un caso che
gli argomenti toccati qui da Rodari siano quanto mai vari.
Ciascun pezzo – articolo o saggio che sia – si rivolge a un
aspetto particolare della vita sociale e della cultura del suo
tempo.
I pezzi raccolti, scelti e presentati, uno per uno, da
Carmine De Luca, con schede precise sotto il profilo della
documentazione e rigorose sotto il profilo culturale, sono
sempre improntati alla chiarezza, pur toccando a volte temi
e problemi complessi, spesso guardati con sospetto dagli
intellettuali di professione. Il che non mutò l’atteggiamento
di Rodari, che ebbe sempre una linea di condotta coerente
e meticolosa. Si pensi, tanto per fare un esempio concreto,
al fumetto, visto sotto una cattiva luce da molti intellettuali
e uomini di cultura. Tutti, a qualsiasi orientamento politico-
culturale appartenessero, quando si parlava di fumetto
storcevano il muso o si turavano il naso. Il che equivaleva a
dire che il fumetto era considerato un sottoprodotto e non
aveva nulla a che spartire con la cultura e con la
produzione letteraria vera e propria. Rodari, dal canto suo,
non demonizza i fumetti, né dimostra di avere un
entusiasmo sperticato, irrazionale. Egli suggerisce
semplicemente di entrare nel merito di cascun fumetto,
come si fa con i libri e con i film, e analizzarli senza
pregiudizi, preoccupandosi, invece, di metterne in
evidenza, con onestà intellettuale, pregi e difetti.
Per i fumetti bisogna avere lo stesso atteggiamento
critico che si ha di fronte ad altri prodotti editoriali.
Bisogna saper distinguere il grano dal loglio, vale a dire il
prodotto buono da quello scadente o cattivo o addirittura
nocivo, con imparzialità, e scegliere, ovviamente, di
conseguenza. Come esistono libri eccellenti, buoni,
scadenti e addirittura dannosi, cosí esistono fumetti
eccellenti, buoni, scadenti e dannosi. Distinguere e
scegliere con intelligenza, questo è il messaggio. Lo stesso
criterio, d’altra parte, si deve avere per un film, un
programma televisivo e via dicendo. Mai lasciarsi guidare
dal pregiudizio, o dal «sentito dire».
Se ci addentriamo poi nei problemi affrontati da Rodari
in questi articoli, scopriamo un mondo tutto particolare,
pieno, com’è, di fatti e situazioni paradossali, al limite
dell’incredibile e dell’assurdo. Sono tutti pezzi che danno a
Rodari lo spunto per un commento rapido e sapido al tempo
stesso, contenuto, magari, in una sola frase che sembra
buttata lí casualmente, distrattamente, ma che, di fatto,
risulta poi essere intenzionale; perché mette sotto gli occhi
del lettore la dimensione ironica della maggior parte di
questi scritti, che, in certi casi, finiscono con l’assumere
addirittura una connotazione apertamente e fortemente
sarcastica. Questa vuole essere soltanto un’avvertenza non
peregrina per dire che il Rodari scrittore per l’infanzia, che
si rivolge ai bambini e ai ragazzi, è diverso dal Rodari
giornalista, che parla agli adulti. Anche se, poi, a una
rilettura piú ravvicinata, scopriamo che Rodari, con la sua
scrittura cosí leggera e le sue storie cosí fantasiose e
accattivanti, il suo messaggio lo manda a tutti, sia ai
bambini sia agli adulti. E forse, proprio perché le storie, le
favole, le filastrocche sono lette con gusto e piacere anche
dagli adulti, tutte finiscono, poi, con l’assumere i caratteri
tipici della letteratura tout court senza aggettivi. Perché le
sue storie, le sue poesie, i suoi racconti, i suoi romanzi
possiedono tutti la dimensione della leggerezza, della
rapidità, dell’esattezza, della visibilità e della molteplicità
proprie della letteratura di cui parlava Calvino nelle Lezioni
Americane, che inducono il lettore a leggere con
partecipazione e gusto e, alla fine, a pensare, a guardarsi
intorno e a cercare di capire. Il bello è che tutto ciò avviene
inconsapevolmente. Potenza della letteratura, della buona
letteratura: sedurre il lettore e, al tempo stesso, arricchirne
la mente e la sensibilità.
MARIO DI RIENZO
Introduzione

Questo libro nasce in stretta relazione con il convegno su


Gianni Rodari e la sua opera promosso a Reggio Emilia (dal
10 al 13 novembre 1982) dal Comune di Reggio Emilia,
dalla Provincia, dalla Regione Emilia-Romagna, dall’Arci,
sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica.
È sembrato opportuno e utile per l’occasione fornire –
con la pubblicazione di questa raccolta – un «catalogo» di
materiali e coordinate perché il dibattito e la ricerca su
Rodari si aprano a considerare aspetti e scritti finora inediti
o troppo scarsamente conosciuti. Sostanzialmente duplice è
l’obiettivo del convegno reggiano.
Vuole costituire per un verso l’occasione per una
ricognizione complessiva della presenza di Rodari nella
cultura italiana ed europea, certamente non riducibile alla
pur coraggiosa opzione per la letteratura infantile. La sua
attività di «poligrafo» svoltasi per un trentennio e piú
(1945-1980) attende di essere indagata e valutata nella sua
evoluzione e nelle interne scelte culturali, politiche ed
educative, ma anche in riferimento al complesso delle
vicende politico-sociali e culturali del paese. Ma pure a
voler limitare all’ambito della letteratura per l’infanzia
l’accertamento critico del rilievo dell’opera di Rodari e
della quota ad essa attribuibile per il rinnovamento delle
forme poetiche e narrative, occorrerebbe seguire la pista,
certo non agevole, indicata da Andrea Zanzotto quando
vede coniugati in Rodari il «sorriso pedagogico» e
l’«incarnazione della speranza», un «socialismo spontaneo
prima che ideologico» e l’«energia incircoscrivibile
dell’infanzia».
L’altro obiettivo del convegno può essere posto sotto
l’etichetta «a partire da Rodari». Da parte dei promotori si
ritiene che alcune proposte rodariane, da individuare negli
scritti noti, meno noti e inediti (una scelta dei quali si ha in
questo volume) possano recare notevoli contributi in
almeno tre settori di viva attualità: quello generalmente
culturale e quelli relativi alla pedagogia e ad un
complessivo progetto educativo e associazionistico.
Per quanto riguarda il primo ambito è significativo che in
Rodari si trovino anticipati sostanziali spunti e indicazioni
relativamente al crescente interesse per il tema dei
rapporti tra fantasia/creatività e scienza/razionalità.
Occorrerà allora riflettere sui ruoli possibili della creatività
e del riso a distruggere «la serietà unilaterale e tutte le
pretese di significato e di certezza al di fuori del tempo»
(M. Bachtin) e si tratterà di verificare la portata della
norma cosí formulata da M. Bachtin: «una certa
carnevalizzazione [cioè, un prodotto dell’immaginazione
divergente e trasgressiva] della coscienza precede sempre,
preparandoli, i grandi rivolgimenti, persino in campo
scientifico».
Altrettanto senso va assegnato alla costante
sperimentale della scrittura rodariana: ci si riferisce, per
citare solo due aspetti, alla continua trasgressione dei
modelli narrativi e creativi tradizionali e, cosa ancora piú
rilevante, all’audacia dell’opzione di mettere il proprio
impegno artistico e politico al servizio di un settore – la
letteratura per l’infanzia – da secoli subalterno ad irenici e
rugiadosi valori di conformismo (tale opzione – ha
osservato A. Zanzotto – costituisce «un fatto di coscienza la
cui validità si riflette su tutta la poesia di oggi, un gesto di
chiarificazione, una scommessa compiuta secondo una
nuova forma di umiltà e di allegria»). In questa direzione
Rodari ha operato non solo nel senso di liberare le cose e
gli uomini «dalla schiavitú di essere utili», ma, riportando a
superficie la dimensione infantile che è in ognuno di noi, ha
sostenuto le valenze della fantasia capace di agire nella
direzione di segno positivo, opposta a quella ricavabile, ad
esempio, dalla conclusione di un’osservazione di Walter
Benjamin: «La fata, grazie alla quale si ha diritto ad un
desiderio, c’è per ognuno. Solo che a pochi riesce di
ricordarsi del desiderio che hanno espresso».
D’altra parte, quella che ho chiamato «costante
sperimentale della scrittura» porta a collegare, in ambito
europeo, Rodari oltre che alla letteratura umoristica, di
marca surrealistica e non (Carroll e Lautréamont, Lear e
Palazzeschi, Cros e Zavattini), ad autori sperimentali per
eccellenza come R. Queneau (il quale, ad averne
l’occasione, avrebbe certamente nominato Rodari membro
onorario del suo «Opificio di letteratura potenziale»).
Per quel che concerne le proposte sulla scuola e
sull’associazionismo, non è qui certo possibile farne una
presentazione esaustiva, neppure in termini di semplice
formulazione tematica. Basti accennare all’opinione,
sufficientemente argomentata e motivata, di un Rodari
pedagogista che «parte da una precisa concezione della
mente infantile e da un’altrettanto precisa cognizione delle
finalità del processo educativo» (M. Dallari). In questo
senso, la lunga esperienza di Rodari, sostanziata di
sollecita attenzione ai problemi educativi, di costante
presenza nella scuola, di impegno a favore di progetti
associativi di ragazzi (l’Api e la direzione del «Pioniere» nei
primi anni cinquanta) e di genitori (la direzione del
«Giornale dei genitori»; il contributo al Cogidas prima e al
Cgd dopo), va riconsiderata e studiata oltre che nelle
interne scelte e nella maturazione di proposte diverse e
nuove, come «l’altra faccia», complementare a quella
creativa ed artistica, di un impegno sempre al servizio della
democrazia e della partecipazione.
I testi qui raccolti provengono perlopiú dalle pagine di
quotidiani (soprattutto «Paese Sera»), periodici e riviste.
Ad eccezione di pochi, si tratta di scritti creativi che
rispetto alle opere destinate all’infanzia certamente
mantengono un buon margine di autonomia. Rivelano un
Rodari narratore e poeta tout-court, senza etichette
riduttive o emarginanti. Invitano in questo senso ad un
riesame complessivo e serio dell’opera rodariana, ad una
ricognizione attenta dei collegamenti della sua produzione
letteraria con gli eventi culturali e sociali degli ultimi
quattro decenni, forniscono coordinate nuove per rileggere
i grossi appuntamenti con la storia che Rodari ha rispettato
ed ha tradotto in termini fabulatori o satirici, gioiosi o
amari. Un solo esempio significativo, quello delle Favole
minime.
Di fronte al dilatarsi incontrollato delle illusioni per un
benessere pensato come definitivo che agli inizi degli anni
sessanta occupava l’animo e la mente di molti italiani,
occorreva opporre una riproposta-recupero degli aspetti
piú seri della vita e del sapere: gli strumenti della
razionalità critica e del dubbio chiarificatore, la capacità di
guardarsi dentro e l’intelligenza lucida della realtà, lo
slancio creativo sono l’alimento e il messaggio di quelle
Favole minime che Rodari, evitando i toni predicatori e
apocalittici allora tanto diffusi, racconta ad una silenziosa
maggioranza di italiani illanguiditi e spersi nella selva dei
miti della persuasione di massa. Dunque testi autonomi
quelli qui proposti – e Rodari maestro di diffidenza.
Tuttavia essi sembrano pure configurarsi come occasioni
sperimentali di tecniche, procedimenti e contenuti che
verranno poi impiegati in novelle e filastrocche per
l’infanzia. Tanto produttiva è l’osmosi tra i due livelli di
produzione letteraria che per quasi tutti i testi che formano
questo volume si potrebbero agevolmente indicare
corrispondenze e trasferimenti nell’ambito della letteratura
per bambini. In alcuni casi si arriva addirittura a vere e
proprie riscritture (vedi, ad esempio, Chi ha rubato il
Cupolone? e Teledramma).
In questo ambito, riveste particolare interesse il processo
di affinamento delle strategie e delle tecniche di
rappresentazione satirica, a partire dalla fine degli anni
cinquanta. Le prime prove si hanno sulla terza pagina
dell’«Unità» (vedi L’esplorazione del Rio Rubens, L’astante e
Un benefattore incompreso). Si direbbero quasi «esercizi»
volti a ricercare la perfetta adesione di strumenti e
modalità satiriche ai temi selezionati, ad ottenere il
massimo straniamento della realtà descritta per metterne
piú efficacemente in luce le incongruenze e le storture.
È da osservare che l’appropriazione degli strumenti
satirici è alimentata dal fatto che al tronco di una solida e
sicura formazione politica di natura marxista va ad
innestarsi una vivace e intelligente attenzione alla cultura
nuova che a partire dalla seconda metà degli anni
cinquanta fa conoscere in Italia i termini piú recenti della
ricerca nel campo delle scienze linguistiche e delle
comunicazioni di massa, della psicologia e psicanalisi,
dell’antropologia.
Da questi anni in avanti l’elemento ironico e satirico, e
generalmente umoristico, farà parte integrante delle
proposte letterarie di Rodari con l’assunzione del ruolo di
trasfigurazione della realtà. È una componente che per un
verso depura il suo laboratorio creativo di certi strumenti
semplicemente mimetici e didascalici, presenti in alcune
delle sue prime opere, per altro verso arricchisce
notevolmente la gamma delle sue possibilità narrative e
poetiche.
Premi letterari e Il discorso inaugurale sono esemplari di
questo nuovo modo d’essere della scrittura rodariana:
l’intreccio tra satira e fantasia produce una letteratura-
gioco, le potenzialità ludiche del linguaggio sono impiegate
a rompere ogni limitatezza della rappresentazione.
L’eversione delle regole descrittive e narrative viene
realizzata attraverso un uso della parola che non tiene piú
conto del monolitico e univoco rapporto tra significante e
significato. È la rivincita del significante: si libera dei
legacci di una conoscenza appiattita e monocorde e gioca a
creare simboli e gerarchie nuove. La realtà (quella realtà
alla quale Rodari in quanto giornalista – e giornalista
comunista – ha l’obbligo di prestare la massima attenzione)
in alcune sue porzioni diventa «materia prima»
manipolabile secondo le operazioni e i meccanismi, le
regole della letteratura-gioco. Quando poi la letteratura-
gioco privilegerà a suoi destinatari i bambini e diventerà
proposta educativa per lo sviluppo delle facoltà creative dei
piccoli, le regole e i procedimenti di manipolazione della
realtà assumeranno contorni piú precisi man mano che
procederà la ricerca di Rodari di una Fantastica che si
costituisca come «arte» di inventare: il frutto ultimo e piú
maturo di questa ricerca sarà la Grammatica della fantasia
alla quale Rodari stesso augurò di essere utile «a chi crede
nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto
nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a
chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola».

A chi ripercorresse con attenzione l’intero arco


dell’attività giornalistica di Gianni Rodari (dal 1945 al
1980) apparirebbe immediata l’estrema varietà di interessi,
argomenti e toni. Un catalogo tematico degli scritti
giornalistici risulterebbe quanto mai composito. Via via
negli anni presta attenzione a fenomeni nuovi come la
diffusione dei mass-media, commenta avvenimenti sportivi,
è attento ai mutamenti di costume, osserva le vicende della
vita politica e civile e ne chiarisce e sottolinea i risvolti piú
interessanti, rivolge particolare attenzione ai problemi
educativi, alla famiglia, alla scuola, agli insegnanti e alle
loro organizzazioni. Soprattutto, affida alle colonne di
quotidiani e periodici («l’Unità», «Paese Sera», «Il
pioniere», «Vie Nuove», «Il giornale dei genitori», «Noi
donne», «Il caffè», ecc.) buona parte della sua produzione
creativa.
L’alta qualità di questi scritti dà la misura esatta della
rilevanza assunta dall’attività giornalistica ai fini delle
scelte culturali e stilistiche nel tempo fatte. Alle pagine di
quotidiani e periodici Rodari assegna il compito di essere
occasione di sperimentazione di forme e procedure creative
nuove.
Nella grande massa degli scritti rodariani poco
conosciuti ho selezionato quei testi che posti in successione
cronologica meglio si prestano a rappresentare l’evoluzione
della scrittura rodariana e il processo delle scelte maturate
via via al passo con i tempi.
I «cappelli» che introducono i testi intendono essere allo
stesso tempo schede di lettura e note integrative di quanto
fin qui ho detto.
CARMINE DE LUCA
Il cane di Magonza
L’uomo nella realtà

Dopo aver diretto dal 1945 al 1947 «L’ordine nuovo», periodico della
federazione del partito comunista di Varese, Gianni Rodari è assunto, a partire
dalla primavera del 1947, all’edizione milanese dell’«Unità», come cronista
annonario. Sul trasferimento di Rodari all’edizione milanese dell’«Unità» non
mancano le testimonianze. Scrive Fidia Gambetti, allora capo redattore in
cronaca: «Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno
giovani. Dalle varie province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri
giornali; dall’attività politica». Insieme a G. Crosti, G. Panozzo, L. Montesi, A.
Pancaldi, G. Signori ed altri, «un altro “personaggio”, fra i nuovi, è Gianni
Rodari [...]. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel viso da
ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e
arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in
vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e
divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui
muri» 1.
Dopo alcuni mesi di ambientamento, ricopre l’incarico di inviato speciale e
redige con lo pseudonimo Lino Piggo, la rubrica che «l’Unità» dedica ai
bambini. «Promosso [...] inviato speciale l’estate scorsa [1948] in occasione di
un tragico fatto di cronaca [...]: decine di bambini di una colonia di Albenga
annegati nell’affondamento di un barcone. Poiché il servizio di Alfonso Gatto,
inviato sul posto, tardava, incaricammo Rodari di scrivere un pezzo di maniera
in redazione, utilizzando le notizie dell’Ansa. Il servizio fu il migliore, il piú
informato e il piú “scritto” fra tutti quelli della stampa milanese» 2.
Bastano i primi articoli a fare apprezzare in redazione le sue qualità,
l’arguzia, la schiettezza, l’ironia «con quel tratto – ha scritto P. Spriano – che
non lo ha mai abbandonato: di limpidezza di racconto, di serenità, di
malinconia, come le sponde del lago su cui era nato» 3.
La sua andata all’«Unità» è considerata un acquisto prezioso. Chi lo conosce
bene, come F. Gambetti, sa che non è solo il bravo cronista e l’originale
creatore di filastrocche per bambini; riesce a stimarne pure la vasta cultura e
l’attenta curiosità con cui segue il dibattito politico e culturale. Per questo
Gambetti gli affida l’incarico di recensire per la sua rivista letteraria Adamo il
primo volume dei Quaderni del carcere di A. Gramsci, Il materialismo storico e
la filosofia di Benedetto Croce che l’editore Einaudi pubblica all’inizio del 1948.
(«L’articolo – scrive Gambetti – che ho pubblicato di apertura, ha suscitato
interesse. Velso Mucci, direttore della rivista “Il costume politico e letterario”
di Roma, mi scrive apposta per congratularsi e per avere l’indirizzo di
Rodari» 4).
La recensione, oltre a mostrare con quale esemplare lucidità Rodari riesca a
cogliere e a trasmettere l’essenza piú vera del discorso gramsciano e a
replicare – senza alcuna acrimonia – ai tentativi messi in atto dagli ambienti
liberali, nel periodo 1947-48, per accreditare una lettura fortemente riduttiva
dei Quaderni, tanto riduttiva da parlare addirittura di Gramsci come di un
«crociano dissidente»; la recensione, dicevo, può contribuire, oggi, in sede di
considerazione critica dell’intera attività di Rodari, ad indagare in maniera
precisa e concreta le basi del suo marxismo. Lo straordinario equilibrio
dell’elaborazione politica di Gramsci, la molteplicità dei temi trattati con
immutata tensione speculativa e interesse culturale («[...] è impossibile isolare
in Gramsci l’interesse letterario da quello sociale», rincorrere un «momento
speculativo» o anche «distinguere una sua attenzione puramente politica»,
osserva Rodari nella recensione), la concretezza dell’analisi («una cultura
integrale [...] che non evada mai dalla realtà, che non pretenda mai di avere
esaurito il suo compito “fotografando” tale realtà»); questi aspetti dell’opera
gramsciana certamente indirizzano il marxismo di Rodari su un percorso che,
per un verso, si lascia alle spalle certi elementi populistici presenti negli scritti
del settimanale comunista di Varese e, per l’altro, lo condurrà a superare,
soprattutto per quel che riguarda la produzione per l’infanzia, un ancora
irrisolto rapporto, un certo squilibrio fra ideologia e vena fantastica 5.

1. F. Gambetti, La grande illusione: 1945-1953, Mursia, Milano 1976, p. 85.


2. Ivi, p. 109.
3. P. Spriano, I suoi libri restano nelle nostre case, in «l’Unità», 16 aprile 1980.
4. F. Gambetti, op. cit., p. 91.
5. Cfr. P. Boero, Gianni Rodari: invenzione e ideologia, in Id., L’illusione
impossibile. La serie B: autori contemporanei di letteratura giovanile, La
Quercia, Genova 1980, pp. 7-37, e Id., Uomini e cose sui binari della fantasia,
in Riforma della scuola, n. 9, 1980, pp. 34-36.
Al di sopra, o al fondo, dei temi che Gramsci affronta
negli scritti raccolti in questo volume (Il materialismo
storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi), vive un
«modo» di interesse culturale che non trova esempi
precedenti nella storia del pensiero italiano: ed è come dire
che in Gramsci vive un tipo nuovo di «uomo di cultura». A
una prima lettura ci si convince, per esempio, che è
impossibile isolare in Gramsci l’interesse letterario da
quello sociale, rincorrere un «momento speculativo» o
anche «distinguere» una sua attenzione puramente
politica: parli di Croce o di Bucharin, di filosofia o di storia,
il suo obiettivo rimane la creazione di una cultura integrale,
che sia filosofia e vita, pensiero per azione, che non evada
mai dalla realtà sociale, che non pretenda mai di avere
esaurito il suo compito «fotografando» tale realtà, che non
si illuda di raggiungere punti fermi universali, ma riconosca
e attui continuamente, pazientemente, ostinatamente, il
suo destino di essere una cultura di parte, impegnata in
una lotta di parte. Questo non significa che Gramsci non
presti attenzione ai problemi teoretici, anzi, tutto il suo
sforzo è teso alla conquista di strumenti teorici e teoretici,
ma proprio per il loro valore di «strumenti», di armi: e la
sua lotta contro Croce è un continuo smascheramento di
posizioni teoriche e teoretiche che si presentano come
posizioni universali e disinteressate dello spirito, per
rilevarne il significato ed il valore storico di strumenti della
conservazione sociale.
L’originalità di Gramsci è in questa presenza incessante
di una concezione integrale della cultura, da un lato, e nella
sua costante adesione (adesione attiva e critica)
all’ambiente storico-sociale della sua ricerca, che è dato
dalla situazione italiana.
Entrambe queste «costanti» sono costanti marxiste, di un
marxismo, alla luce dei suoi piú recenti sviluppi,
approfondito, continuamente arricchito dalla vita, criticato
dalla realtà che critica, difeso dalle tentazioni dogmatiche e
metafisiche. Sarebbe assurdo parlare di una «eterodossia»
di Gramsci: la sua opera costituisce invece una riprova
della vitalità del marxismo, ma anche del suo dinamismo,
della sua irriducibilità a formulette catechistiche, della sua
estrema «produttività». Per questo, e non solo per la
vivacità dell’intelligenza di Gramsci, ogni pagina, quasi
ogni periodo di questo libro, sollevano problemi, scoprono
nuovi orizzonti di ricerca. Spesso il discorso si trasforma in
appunto, il verbo si colloca all’infinito o scompare: ne
nascono densi elenchi di interrogativi, di argomenti per
altri saggi. Il marxismo come «scoperta» di realtà che non
sono state descritte, di un passato che non è stato
compreso. Per questa via, per esempio, Gramsci «riscopre»
il passato italiano, svela la reale «tradizione», quella della
struttura sociale sulla quale si sono edificate tradizioni
fittizie o parziali, che hanno nascosto i compromessi, i vizi
di sviluppo della società borghese in Italia, conciliato
frettolosamente contraddizioni che una filosofia
rivoluzionaria deve invece individuare, opporre
irrimediabilmente, se vuol dare un giudizio scientifico della
realtà. Per questa via svela la frattura fra intellettuali e
popolo-nazione.
Gramsci ha reso il marxismo capace di abbracciare la
realtà italiana, di giudicarla, di inserirsi concretamente in
essa, di affrontare le sue piú grosse questioni. Egli lo
saggia al compito che ritiene essenziale al progresso della
società e della cultura in Italia: «rifare per la concezione
filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici
della filosofia della prassi hanno fatto per la concezione
hegeliana».
Poiché, egli aggiunge, «è questo il solo modo
storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata
della filosofia della prassi, di sollevare questa concezione
che si è venuta creando per le necessità della vita pratica
immediata, “volgarizzando” all’altezza che deve
raggiungere per la soluzione dei compiti piú complessi che
lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alla
creazione di una nuova cultura integrale».
Ci sono in questa frase i due temi fondamentali del libro,
le due esigenze concrete piú urgenti del pensiero di
Gramsci: combattere da una parte le «volgarizzazioni»
della filosofia della prassi, e dall’altra, in Croce, l’uomo che
coagula sul piano dell’assoluto gli «ideali» della democrazia
borghese la cui filosofia costituisce un elemento
fondamentale della forza coesiva delle classi dominanti in
Italia, perché giustifica le condizioni della loro esistenza
come principio universale, come «religione della libertà».
Nelle «Note critiche su un tentativo di saggio popolare di
sociologia» la critica di quella «combinazione» inferiore,
che è la combinazione col materialismo metafisico dei
positivisti, col meccanicismo, col piatto evoluzionismo, è
brillante e spietata.
Nessuna religione della materia, nessuna divinizzazione
della materia, della pura quantità, possono convivere con il
materialismo storico: il suo scopo non è di fornire una
nuova religione, con la sua Causa ultima e la sua
grossolana spiegazione pronta per ogni fenomeno. Per il
materialismo storico, la presenza dell’uomo nella storia è in
ogni momento attiva, e dialetticamente attiva, nei confronti
di una materia «socialmente e storicamente organizzata».
Alle spalle di Gramsci c’è tutta la cultura italiana, non
subíta, ma attivamente rielaborata. E Vico non è solo un
ricordo suggestivo per frasi come questa: «Si prevede solo
nella misura in cui si opera».
L’accento, in Gramsci è sempre su questa «misura in
cui», su questo continuo condizionamento dell’azione
dell’uomo alla realtà, della realtà all’azione dell’uomo.
Presentandosi cosí come un’integrale concezione della
storia e della cultura, come una filosofia non «volgare» ma
che pure trae la sua forza dal contatto con la vita dei
semplici e con l’azione, il materialismo storico si propone
come una tale forza che, dopo tanti altri, e assieme ad altri,
Benedetto Croce è costretto a fare i suoi conti con esso.
Non può ignorarlo e non può sconfiggerlo, benché aspiri a
passare per il suo «liquidatore». L’opera di Croce è in
questo senso ben diversa: essa è consistita in un tentativo
di appropriazione del materialismo storico da parte
dell’idealismo in una ritraduzione della filosofia della prassi
in termini idealistici, in una sua riduzione a «canone
empirico» per la ricerca storica, che deve però svolgersi sul
terreno suo proprio, quello, per Croce, etico-politico. In
questo senso, e in nessun altro, è vero ciò che da qualcuno
è stato detto, che cioè Gramsci insegna Marx in Croce:
Gramsci non fa che mostrare come Croce, nel tentativo di
togliere alla filosofia di Marx tutto il suo valore
rivoluzionario, si sforzi di isolarne alcuni aspetti e di
riconciliarli, in una revisione del marxismo, alla sua
filosofia, che è la filosofia del liberalismo italiano.
Gramsci, cioè, non difende il marxismo contro Croce, ma
svela il carattere difensivo dell’opera filosofica e storica di
Croce di fronte a Marx.
Non c’è nulla nella critica di Gramsci a Croce di
frettoloso o di grossolano. Gramsci non è Papini, per
fortuna della cultura italiana. Il «fatto Croce» è tale, nella
cultura e nella vita italiana, che importa assai piú
riconoscerne onestamente la vastità e il peso, che
minimizzarlo per artificio polemico. Questo «rispetto» per
Croce e l’oggettività, la scrupolosità del suo metodo,
conducono Gramsci a ben piú consistente vittoria: a
svelare, cioè, del pensiero di Croce, il contenuto
storicamente conservatore.
Dibattito sul fumetto

Nel n. 12 del 1951 di «Rinascita» esce l’articolo di Nilde Jotti su La questione


dei fumetti. La parlamentare comunista, sollecitata dal dibattito – inedito in
Italia – sulla stampa a fumetti per ragazzi, giunto anche tra i banchi del
parlamento, si chiede: «Che cosa è, oggi, il fumetto, e da che parte viene?» La
Jotti dà un giudizio decisamente negativo, scrive che il «fumetto [«modo di
raccontare per immagini una storia rappresentata nei momenti piú salienti»]
riduce la rappresentazione della realtà a un certo, limitato numero di segni
visivi chiarissimi ma primitivi, e sopprime tutto il resto, che è la vera creazione,
non diciamo dell’arte, ma della espressione consapevole». Essi piacciono ai
bambini soltanto «perché la mente del bambino è primitiva».
La conclusione («Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare
del fumetto sono dunque fatti collegati, ma non come l’effetto e la causa, bensí
come manifestazioni diverse di una realtà unica») bisogna tenerla presente per
metterla a confronto con le posizioni che in anni successivi Rodari assumerà
sulla questione.
All’articolo della Jotti Rodari, nella sua qualità di direttore del «Pioniere»,
periodico per ragazzi che va pubblicando in quegli anni anche fumetti, replica
con una «lettera al direttore» nel numero successivo di «Rinascita» (n. 1 del
1952). Contesta l’opinione che non possano darsi fumetti «diversi da quelli
americani, con forme, contenuti, spirito e intendimenti diversi», e conclude
auspicando «la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia» che comprenda
accanto ai libri i fumetti.
L’intervento di Rodari è seguito da una «Postilla» dovuta evidentemente alla
penna di Togliatti. Il direttore di «Rinascita», se liquida bruscamente la
discussione sull’utilità dei fumetti («il fumetto... soffoca, strozza nel suo
sviluppo ciò che potrebbe venir fuori di positivo da questa ricerca» di cose da
leggere, da vedere), nella conclusione rilancia il problema – ancora oggi aperto
– «di riuscire a creare una letteratura e una pubblicistica per bambini e ragazzi
che attirino, piacciano, educhino».
Rodari tornerà piú volte sulla questione dei fumetti. In un articolo di «Paese
Sera» del 17 novembre 1965 (Anche in Italia arriva Tintin), farà
un’osservazione interessante (ricorda in una certa misura la conclusione
dell’articolo di Nilde Jotti): «la passione per i fumetti [è] un sintomo piuttosto
che una causa: non causa di degenerazioni, spinte delinquenziali, eccetera, ma
sintomo di una povertà intellettuale che essi sfruttano senza averla creata,
favoriscono senza portarne la responsabilità principale. Diamo i libri ai ragazzi
come daremmo loro scapaccioni: strumenti di tortura, o poco piú [...]. Cosí
ripiegano sul fumetto. Il suo linguaggio schematico, approssimativo, senza
spessore, basta ai loro ridottissimi appetiti».
Al dicembre 1966 risalgono le risposte di Rodari ad alcune questioni poste da
Riforma della scuola.
Ancora su «Paese Sera» nel 1968 (I sessant’anni del Corrierino, 17 novembre
1968) scriverà: «Doppiamente spregiudicata ci appare [...] l’operazione con cui
vennero importati dall’America i piú fortunati “fumetti” [...]: in primo luogo,
perché quell’importazione massiccia di personaggi era tutt’altro che nelle
tradizioni della nostra provincia pedagogica [...]; e poi per l’astuzia che rasenta
l’inganno con cui quei “fumetti” vennero presentati al pubblico italiano [...].
Nati in America con la regolare nuvoletta a portata di bocca, con un linguaggio
sul filo del gergo, popolare e contemporaneo, a livello di qualunque monello da
strada, apparvero nelle pagine colorate [...] del “Corriere dei piccoli”
decentemente mimetizzati in versi ottonari rubati all’Arcadia [...]. Eppure,
anche cosí, ficcate in abiti un po’ deformanti, le storie avevano una freschezza
insolita, antipedagogica, rivelavano un contatto autentico col reale, davano un
suono adulto [...]. Teoricamente, rimane in Italia lo spazio per un giornale
d’altro genere, che riuscisse a interpretare piú pienamente i fermenti
d’impegno morale pur presenti nella generazione dei giovanissimi [...], e piú
ancora ce ne sarebbe per un giornale del tutto rivolto ai piccolissimi, che non
c’è. Sicuro, ma chi li fa?»
La questione dei fumetti.

Il dibattito sulla stampa a fumetti per i ragazzi, che ha


avuto luogo alla Camera dei deputati, ha suscitato un
interesse notevole ed è stato a sua volta il risultato di un
movimento di opinione pubblica abbastanza largo, creato
nel paese attorno a questa questione. La legge discussa nel
parlamento, e che si riduce a una serie di misure degne di
un dispotismo illuminato e a una proposta di sequestro
preventivo, è da respingersi perché reazionaria e
inefficace. Inconsistente è l’argomentazione che misure
simili, attraverso le quali la stampa per bambini e ragazzi
dovrebbe essere «moralizzata», potrebbero influire nel
ridurre la delinquenza giovanile e far sparire certe forme di
degenerazione e delitto dei giovani, di cui si sono avuti di
recente, in Italia e altrove, esempi numerosi e pietosi. La
delinquenza dei minori è un fatto sociale le cui origini
lontane e vicine sono da cercare ben piú profondamente, e
in altre direzioni vitali. La stampa che i giovanissimi e i
giovani leggono è, se mai, uno degli aspetti della loro vita,
e non è certo l’aspetto determinante di quegli orientamenti
della mente e del costume, che certo contribuisce
(vogliamo ammetterlo) sia a rendere manifesti che a
rendere piú acuti. La radice vera di questi orientamenti
bisogna cercarla molto piú a fondo, da un lato nelle
condizioni materiali dell’esistenza, nelle catastrofi a cui la
politica fatta dai governi e dalle classi ha portato le
associazioni umane, gli Stati, e dall’altro lato nello spirito
generale che in queste associazioni umane, qui in
Occidente, cioè nei paesi dove dominano ancora i
capitalisti, è diffuso dappertutto e si respira. La stampa che
i giovanissimi e i giovani ricevono, cercano, leggono, è uno
degli elementi della cultura che oggi esiste in queste parti
del mondo. Vale dunque la pena, sotto questo aspetto, di
discuterne.
Il dibattito non è nuovo, del resto, anche se oggi prende
forme acute. Quando sorsero, nella Francia del Seicento, «i
racconti di fate», la reazione moralistica contro questo
genere di letteratura per l’infanzia fu vivace. La storia del
gatto degli stivali fu denunciata come istigazione alla
malafede, esaltazione del brigantaggio, della rapina. Da
quella polemica si può datare l’origine di quella
noiosissima, stomachevole letteratura per l’infanzia e la
giovinezza che, per insegnare la virtú, elabora il tipo del
ragazzo virtuoso, ma cretino e lo fa muovere in un mondo
di stoppa dipinta e di lattemiele, di enti e moralità non
reali, lontani tanto dalla vita che veramente si vive quanto
dai sogni della fantasia popolare. I libri di scuola
appartengono quasi tutti a questa famiglia, purtroppo, e
neanche il Cuore se ne stacca. La tradizione della
letteratura per i ragazzi, è, da un lato, quella dei racconti
popolari ingenuamente fantastici, che sotto la fantasia
nascondono una concezione vigorosa e semplice del mondo,
delle sue difficoltà, delle sue stranezze, e dall’altro è quella
realistica, che racconta e fa capire la vita cosí com’è e
insegna ad affrontarla con calma. In Pinocchio le due
correnti felicemente si congiungono e per questo Pinocchio
è una grande, classica opera d’arte.
Che cosa è, oggi, il fumetto, e da che parte viene? È un
modo di raccontare per immagini una storia rappresentata
nei momenti piú salienti: non vi è commento scritto,
soltanto alcune parole che escono in una nuvoletta di fumo
dalla bocca dei protagonisti. È comparso in America nel
1894, lanciato da Hearst, il piú grande editore di giornali
del mondo, padrone di centinaia di fogli collegati a catena e
di conseguenza dell’opinione pubblica degli Stati Uniti.
All’inizio la cosa suscitò proteste, ma in breve i fumetti
divennero una delle maggiori fonti di reddito per il
monopolio di Hearst. Il racconto è sempre avventuroso e vi
si esaltano la violenza, la brutalità, la lotta fra gli uomini,
l’istinto sessuale.
Qui si apre una questione, che è poi al fondo di tutto il
dibattito. Si fa distinzione fra la forma del fumetto e il
contenuto del racconto a fumetti. Si sostiene che ciò che
rende dannosa la stampa a fumetti sarebbe il suo contenuto
e non la sua forma. Per difendere questa posizione si sono
andati a cercare precedenti nella storia della pittura e dei
suoi mezzi espressivi; si sono disturbati Giotto e Simone
Martini e i primitivi che affrescando le mura delle chiese
del Duecento e del Trecento avrebbero tenuto a battesimo,
essi, il fumetto. Questa affermazione ci sembra, oltre che
irriverente, assai superficiale. Basti pensare che si tratta di
pittura e non di letteratura, e che per «raccontare» quelle
storie sacre i cui episodi erano il soggetto di famosi
affreschi in serie, i papi facevano scrivere codici preziosi e
non solo dipingere i muri delle chiese. D’altra parte gli
affreschi di Giotto sulla vita di san Francesco o di Gesú, ad
esempio, non sono immagini che si svolgano l’una dopo
l’altra, concatenate per dare il senso di un racconto: sono
episodi salienti di una vita, qualche volta non disposti
neppure in ordine di tempo, ma raffigurati cosí come la
fantasia dell’artista li ha visti. Ancor oggi, dopo tanti secoli,
un pittore che volesse raffigurare la vita di un grande, non
potrebbe che seguire la stessa strada, perché questa è la
sola via delle arti figurative, e non farebbe, con ciò, una
narrazione a fumetti.
I fumetti sono un’altra cosa; non sono una serie di quadri
dedicati a diversi episodi di una storia, ma il racconto della
storia stessa, fatto con disegni rudimentali e battute di
dialogo adattate a questi disegni. Non sono una storia
dipinta; sono piuttosto una lingua scritta per immagini. Se
si vuol trovare un precedente, non è tra le pitture che
bisogna cercare, ma se mai riferirsi alla scrittura
ideografica, per geroglifici, cioè dei periodi di civiltà meno
sviluppata. Se si fa attenzione, infatti, se si confrontano un
grande numero di racconti a fumetti, si vede che le
immagini sono ridotte come tipo e come numero; sono su
per giú tutte eguali, perché il disegno trascura del tutto i
particolari e coglie soltanto pochissimi elementi della
figura. Le donne dei fumetti hanno tutte le stesse natiche a
semiluna, i seni che sporgono, la veste attillata, un dito di
coscia che vien fuori, ecc. Dei movimenti e atti del corpo
umano rimangono solo alcuni, quello del dare uno schiaffo
o un calcio, sparare un colpo, afferrare un altro per il collo,
mettersi a fuggire, spaccarsi la testa, o simili. Chi sia
abituato alle normali vignette e al modo normale di
raccontare, nel fumetto non capisce nulla. Ci si trova di
fronte a una notazione abbreviata, che colpisce invece,
attira e lega la mente di chi non è ancora arrivato o non è
ancora assuefatto al modo di esporre e ragionare
discorsivo, dove ciò che conta non è una serie continua di
gesti o di frasi folgoranti, ma è il nesso logico e il
complesso dei particolari, è il concatenamento dei fatti e
delle cose, rapido o lento, tranquillo o tumultuoso, ma
sempre guidato secondo uno sviluppo coerente, organico,
di immagini e di concetti.
Il confronto con certe scritture primitive vale quindi nel
senso che, come queste scritture sono ferme al primo degli
elementi della espressione scritta, che è una immagine
stereotipa, ma non giungono alle superiori forme di
organizzazione della lingua e della sua traduzione in segni,
cosí il fumetto riduce la rappresentazione della realtà a un
certo, limitato numero di segni visivi chiarissimi ma
primitivi, e sopprime tutto il resto, che è la vera creazione e
conquista dell’ingegno umano sulla via, non diciamo
dell’arte, ma della espressione consapevole.
Si dice che i fumetti piacciono ai bambini, ed è naturale,
appunto perché la mente del bambino è primitiva. Il
bambino vede e conosce senza comprendere, cioè senza
riuscire a cogliere esattamente il legame tra i particolari e
il nesso degli avvenimenti e delle cose. Una immagine
primitiva o una serie di immagini primitive, semplici,
urtanti, suscita in lui un ricordo di cose già viste, lo orienta
verso certi pensieri. Per questo il libro per bambini dovrà
sempre essere illustrato. Benissimo illustrati e a colori sono
i bei libri che si pubblicano per i bambini nell’Unione
Sovietica. Ma l’illustrazione deve avere i suoi particolari,
orientare alla ricerca di essi e, se legata a un racconto,
deve esserlo in modo da spingere il bambino a scoprire i
nessi tra i fatti, il legame logico che tiene uniti gli
avvenimenti nella realtà. Tutto questo nel fumetto non c’è e
non ci può essere. Il fumetto afferra la mente attraverso
poche immagini e sostituisce una serie violenta di queste
immagini alla ricerca dei particolari, di una logica e di un
processo discorsivo. Le poche parole illustrative sono una
molla, essa pure primitiva, che spinge da una immagine
all’altra una mente che non lavora, non riflette, si
impigrisce e arrugginisce mentre, d’altra parte, le vengono
fatte passare davanti, come strumento di avventura, le piú
portentose conquiste della tecnica.
La osservazione dei fumetti è quindi cosa profondamente
diversa dalla lettura. Non sostituisce la lettura, la
sopprime. La gioventú che si nutre di fumetti è una
gioventú che non legge e questa assenza di lettura nel
senso proprio della parola non è l’ultima tra le cause di
irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto
col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza,
alla brutalità, all’avventura fuori della legge e solidarietà
degli uomini. L’educazione al ragionamento e alla
riflessione che si ottiene con l’attenzione prestata al
racconto scritto, non ha soltanto il valore di una
preparazione letteraria, non è soltanto educazione
dell’intelletto, ma disciplina interiore degli istinti primitivi,
animaleschi.
Questa analisi del fumetto, che credo esatta, induce alla
conclusione cui volevo arrivare, che il contenuto e la forma
non sono qui separabili. Perché i fumetti narrano a
preferenza ed esclusivamente, anzi, storie orripilanti di
gente che corre la stupida avventura della violenza e della
brutalità, che è continuamente in guerra contro i propri
simili, che ogni contrasto tende a risolvere con la frode, col
pugno al plesso solare o con la pistola, che non ha
nemmeno il tempo di nutrir sentimenti, valutare, riflettere?
È il modo stesso del racconto che impone questo, perché
esige che i protagonisti siano di continuo – ad ogni nuova
figura – impegnati in un gesto e atto violento, se no la serie
non interessa, non resiste. Ricordate la figura quasi
idilliaca dell’inglese o dello svizzero sperduto nell’isola
deserta, che a poco a poco riconquista gli infiniti strumenti
materiali della civiltà e prende coscienza del proprio limite
e del proprio valore? Nel fumetto la sua storia diventa
un’allucinante serie di urti brutali e ridicoli (vince sempre
lui!) ed egli un energumeno senz’anima, bestia in lotta
contro altre bestie.
Ed è per tutto questo che il fumetto è stato inventato in
America e viene dall’America. Esso è adeguato a quel
complesso di aspetti negativi, repellenti persino, a cui
purtroppo sembra oggi ridursi la civiltà del paese che fu di
Walt Whitman e di Mark Twain. È un mondo dominato dalla
preoccupazione del successo materiale che consente di
viver bene e infischiarsi del resto. Ciò che si oppone al
successo materiale, trattisi di un concorrente o di una
legge morale, di una banda di malfattori o della polizia, di
una organizzazione di operai o della indipendenza di un
popolo, deve essere battuto, stroncato. Ha ragione il piú
forte. Ha ragione chi riesce a farla franca, ad aprirsi la
strada con qualsiasi mezzo, a vincere, a fare l’affare, ad
accumulare piú denaro. È scomparsa anche la vernice
religiosa dei primi pionieri; è rimasta la ferocia cinica con
la quale, pur non smettendo mai di leggere la Bibbia e di
predicarla, annientarono fisicamente un popolo intiero per
estendere le loro fattorie. Ingenuità e brutalità, assenza di
profonde tradizioni culturali e umanistiche completano il
quadro. L’eroe di questo mondo non può essere che il
bandito (il gangster), ed è bandito anche quando è un
grande finanziere o un capo di poliziotti o il presidente
della repubblica. Vita e storia di questo eroe si calano nel
fumetto aderendo perfettamente a quella forma. La massa
di poveretti che la società condanna allo stento e al
travaglio di una vita oscura, senza soddisfazioni, penosa nel
lavoro e paurosa nella disoccupazione, coltiva e sogna, da
lontano, la figura di questo eroe. Guarda il fumetto,
vaneggia colpi di borsa e colpi di pistola che lo facciano
diventare qualcuno, avere una donna come quelle, riuscire.
È logico che il fumetto sia stato lanciato da Hearst,
imperialista cinico e fascista. Se il popolo non pensa, non
riflette, rimane estraneo alla cultura, alimentando in sé in
modo grottesco una voglia assurda di danaro, di eleganza
femminile, di avventure e di successo, tanto di guadagnato
per i capitalisti. Questo popolo troverà maggiori, alle volte
insuperabili difficoltà per riorganizzarsi, far valere i suoi
interessi, disprezzare e ridurre alla ragione i suoi padroni.
Se qualcuno, esaltato o depresso, scantona e non ha
successo, c’è il bastone di gomma e la rivoltella dell’agente,
– come nei fumetti, precisamente.
Da noi vi fu una timida comparsa di questo genere di
pubblicazioni per la gioventú nel 1936, e ora ve ne è una
vera invasione, tra i ragazzi e i giovani. Naturalmente, la
cosa fa parte di tutto lo straripare di ammirazione ed
esaltazione per ciò che vien dall’America, dato che
dall’America è giunta l’investitura del potere per i
governanti attuali. Vi è poi la decadenza generale della
istruzione familiare e scolastica della cultura. Vi è una
estrema incertezza e contraddittorietà nelle tradizioni, nei
motivi stessi dell’orientamento morale che si cerca di dare
ai giovani. Oggi la coltivazione di un senso patriottico, per
esempio, quale viene fatta dal De Amicis, nel Cuore,
collegandosi alla tradizione risorgimentale, può essere
continuata soltanto esaltando la resistenza e la guerra dei
partigiani. Ma i partigiani sono, per l’opinione ufficiale, per
il predicatore pagato dalla Confindustria, delinquenti,
assassini da mettere in prigione o al bando. Il fascismo, poi,
come esaltarlo se è quello che ci portò alle catastrofi
peggiori? Si crea un vuoto, sensibile nei giovani molto piú
che negli adulti. Qualcuno pensa che si possa riempire
questo vuoto con una predicazione religiosa; ma anche qui
si apre un violento contrasto, perché della religione è stato
fatto il fondamento palese dell’ordine politico e sociale
odierno, cosí ingiusto, cosí offensivo per ogni persona di
intelligenza e di cuore.
Se poi si esaminano le condizioni sociali si ha un quadro
molto svariato, ma impressionante, di aspri squilibri, di
contraddizioni dolorose. La vita quotidiana è molto triste
per intieri gruppi di cittadini e di famiglie, e quindi anche
di ragazzi, di giovani. Mancando prospettive reali di
miglioramento, si è spinti alla evasione. Pensate al
ragazzetto che non va piú a scuola e non sa come, dove,
quando lavorerà; alla bambina che dopo la quinta
elementare, se l’ha fatta, sa che starà a casa ad attendere
se le riesce di trovare un marito decente (e se questo non
viene, dove andrà, farà la domestica, la segretaria d’ufficio,
di che vivrà, chi le vorrà bene?). Ma anche chi lavora, ma
non fa parte né dei ricchi né dei privilegiati, che
prospettiva ha, tra l’iniziativa privata che non accoglie se
non per eccezione, e l’impiego di Stato gramo, uggioso, di
vita stentata?
Tutto questo crea un terreno di malcontento e di
squilibrio morale, dove l’ideale diventa facilmente
l’avventura irreale, in cui l’impiegata costringe il padrone a
sposarla, o diventa stella di cinematografo; il giovane si fa
strada a cazzotti; vi è sempre un violento fortunato che alla
fine si fa un sacco di quattrini; ci si esercita al tiro al
bersaglio contro le pelli rosse o nere e cosí avanti. Tutto
questo appaga un segreto istinto di ribellione contro la
società, ma è un abbietto e pericoloso surrogato della lotta
reale per aprirsi una strada, per trasformare la società,
migliorare il mondo, creare per tutti le condizioni di una
esistenza felice.
Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e
dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati, ma non
come l’effetto e la causa, bensí come manifestazioni diverse
di una realtà unica. Proibire i fumetti, dunque, controllarli
a mezzo di una commissione di gente per bene, lasciar
circolare soltanto quelli che sian fatti dalle organizzazioni
cattoliche? Sono tutti palliativi, pretesti e in parte anche
ingiustizie e soprusi. Bisogna affrontare e risolvere tutta la
questione dell’orientamento ideale e pratico della
educazione, dello sviluppo intellettuale e morale dei
giovani. Ma non lo si fa, e non si mette il dito sulla piaga,
che è di ordine economico, sociale e anche politico.

Nilde Jotti

Lettera al direttore.

Caro Direttore,

ho letto nell’ultimo numero di «Rinascita» un articolo di


Nilde Jotti sulla Questione dei fumetti, e desidero
esprimere la mia opinione dicendo subito che l’articolo
della Jotti non mi convince.
Esso prende spunto dal dibattito in corso alla camera
sulla stampa per i ragazzi e giustamente respinge come
«reazionaria e inefficace» la legge proposta dai
democristiani, non soltanto perché contraria al principio
costituzionale della libertà di stampa, ma perché
«decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare
del fumetto sono [...] fatti collegati, ma non come l’effetto e
la causa, bensí come manifestazioni diverse di una realtà
unica».
«Bisogna affrontare e risolvere, – dice giustamente la
Jotti, – tutta la questione dell’orientamento ideale e pratico,
della educazione, dello sviluppo intellettuale e morale dei
giovani. Ma non lo si fa se non si mette il dito sulla piaga,
che è di ordine economico, sociale e anche politico».
Questa posizione nei confronti della legge sui fumetti è
giusta perché fondata sulla realtà, sulla pratica, e non su
ragionamenti accademici. Altrettanto giusta è l’analisi che
la Jotti fa del fumetto americano, figlio dell’imperialista e
fascista Hearst, e legittimo, cioè basato sui fatti, il giudizio
negativo.
La Jotti, però, estende questo giudizio negativo al
fumetto come genere, come modo di raccontare,
escludendo implicitamente la possibilità di fare «fumetti»
diversi da quelli americani, con forme, contenuti, spirito e
intendimenti diversi. Su questo punto mi sembra che la
Jotti non abbia tenuto conto della realtà di oggi, qui, in
Italia, e perciò abbia fatto dell’accademia.
Per quello che riguarda la stampa dei ragazzi, la realtà è
rappresentata da un mercato completamente dominato dai
«fumetti», che hanno creato, conformando il gusto dei
ragazzi a propria immagine e somiglianza, una «domanda»
di fumetti impressionante: e ti risparmio le cifre perché
sono note. Chi voglia parlare ai ragazzi e ai giovanetti, deve
tener conto del linguaggio a cui sono abituati, e che è
diventato uno dei piú importanti mezzi per comunicare con
loro: e se farà dei «fumetti», il giudizio su questi dovrà
essere dato non già in base alle sue intenzioni, ma
nemmeno in base a preconcetti, piuttosto in base ai
risultati.
Un giudizio teorico totalmente negativo è inesatto, o per
lo meno equivoco, e in un equivoco è caduta la Jotti,
secondo me, polemizzando sulla distinzione tra la forma del
fumetto e il contenuto del racconto a fumetti. Questa
distinzione – ha ragione la Jotti che la analizza molto
brillantemente – è impossibile. Ma la Jotti ha scambiato la
«forma» con il genere, o il mezzo, o lo strumento, o come lo
vogliamo chiamare, rappresentato dal «fumetto».
Che cos’è il fumetto? Risponde la Jotti: «È un modo di
raccontare per immagini una storia rappresentata nei
momenti piú salienti: non vi è commento scritto, soltanto
poche parole che escono in una nuvoletta di fumo dalla
bocca dei protagonisti». E perché non sarebbe legittimo
raccontare in questo modo? Vi sono molti modi di
raccontare, con la parola scritta, con la voce, con
l’immagine ferma o con l’immagine in movimento (cinema,
disegni animati, eccetera). Ognuno ha la sua funzione. Se si
equivocasse tra la funzione del fumetto e quella della
lettura, avrebbe ragione la Jotti, perché evidentemente non
sono due cose sostituibili, sono due cose diverse. Su altro
piano anche il cinema e la lettura sono due cose diverse,
hanno funzioni diverse e si avrebbe torto di chiedere al
cinema che ci insegni a leggere (a parte i documentari
didattici).
Da questo a ritenere il «fumetto» uno strumento ideale
evidentemente ci corre. Per esempio, se i ragazzi avessero
il loro cinema, – il cinema dei ragazzi che esiste nell’Unione
Sovietica, – credo sarebbero disposti a dimenticare i
fumetti da un giorno all’altro. L’avvento del cinema ha
creato il bisogno di «vedere»: è a questo bisogno,
probabilmente, che i ragazzi cercano soddisfazione nel
«futuro». Il giorno che avranno a loro disposizione cinema
e teatri, questo bisogno sarà soddisfatto. Finita la guerra
siamo tornati tutti al caffè e nessuno accetta piú il
surrogato.
E ancora: il «fumetto» non ci deve impedire di porci il
problema della lettura dei ragazzi che è un grosso
problema: di scrittori, di artisti, di mezzi. La lettura è
insostituibile, come ben dice la Jotti, come «educazione al
ragionamento e alla riflessione», «preparazione letteraria»,
«educazione dell’intelletto», «disciplina interiore degli
istinti primitivi, animaleschi». Anche questo della lettura è
un problema economico, sociale e politico e anche qui
bisogna guardare alle cose non con occhio accademico, ma
con realismo.
In quest’ultimo mezzo secolo, parallelamente
all’elevazione politica delle masse popolari si è formata una
nuova, immensa domanda di cultura. I giornali e le riviste
popolari hanno raggiunto tirature altissime. Centinaia di
migliaia di persone che non leggono nulla chiedono da
leggere: talora vanno a cadere nelle pagine di «Grand
Hotel» o simili e tuttavia anche questo è un sintomo del
bisogno di cultura. Nel secolo scorso i giornali e i libri per
ragazzi erano destinati a ristrette élites, rappresentate
dalle famiglie piccolo-borghesi o medio-borghesi. Oggi essi
si rivolgono a un pubblico enorme e anche per questo ha
prevalso, nella loro impostazione, lo spirito commerciale
sui principî educativi, la speculazione sulla cultura. I
«fumetti» sono stati, prima di tutto, un enorme affare
finanziario.
Che cosa ci può aiutare a far fronte a questa situazione?
Essenzialmente la nascita di una nuova letteratura per
l’infanzia, capace anche con i suoi mezzi organizzativi di
condurre una lotta efficace. Ma questo richiede anni di
lavoro, e richiede per il suo successo definitivo anche il
realizzarsi di nuove condizioni sociali e politiche. Accanto
ai libri possono i «fumetti» essere uno strumento, anche
secondario, in questa lotta oggi? Se non possono,
smettiamo di stamparli.
Postilla.

Non ci sentiamo di condividere la posizione del Rodari,


anche se i suoi argomenti sono degni di discussione. Egli
accetta, ci sembra, l’analisi e la conclusione circa la natura
non educativa e antieducativa del fumetto, considerato
nella unità di forma e contenuto. La distinzione tra forma e
strumento o genere o mezzo, non ci pare che regga, ed è da
respingere l’affermazione che ci troviamo di fronte (anche
in questo caso!) a una specie di nuova lingua. Quante
stramberie e assurdità non si è cercato di mettere in
circolazione con questa faccenda delle nuove lingue o delle
«ricerche di linguaggio», espressione che ha un valore
metaforico, ma poco piú, perché il linguaggio è uno e lo
hanno creato e lo creano i popoli con tutta la loro storia e le
famose «ricerche» non hanno spesso con esso niente a che
fare, non essendo altro che tentativi, esperimenti, successi
o insuccessi nell’ambito del vecchio rapporto tra la forma e
il contenuto della espressione. Ammesso il carattere
antieducativo dei fumetti, dunque, si propone che vengano
tradotte ed espresse in fumetti storie educative. Cosí fanno
certi giornaletti clericali, dove tra poco stamperanno in
fumetti la storia sacra; anzi, spiegheranno in fumetti i
misteri della creazione, dell’incarnazione, della redenzione.
Non ne trarrà certo un grande giovamento il sentimento
religioso! Per conto nostro, non metteremo in fumetti la
storia del nostro partito o della rivoluzione. Il fumetto a
contenuto educativo, poi, è una cosa per giunta scipita, che
non attira. Esiste la possibilità di contrapporre al fumetto,
invece, una narrazione figurata di tipo popolare, con
commenti chiari, che invitino alla lettura, piacciano, si
imprimano nella memoria e conservino in pari tempo una
dignità letteraria, accoppiando alla visione la lettura e i
suoi benefici? Senza dubbio questa possibilità esiste e si
riallaccia tanto a creazioni popolari, come furono le famose
images d’Epinal, come sono oggi le splendide stampe
cinesi, quanto a esempi di ottime cose già fatte nel passato.
A questo compito dunque ci si cimenti, invece di correr
dietro alle forme piú corruttrici dell’americanismo. Ma ci
sono anche giornali di sinistra che pubblicano fumetti!
Senza dubbio ci sono: ci permettiamo però di fare
osservare che nessuno di questi giornali si distribuiscono
attraverso le edicole. Si distribuiscono attraverso reti
proprie propagandistiche e di diffusione, e questo vuol dire
che non è che siano costretti a pubblicare fumetti per
superare la concorrenza e affermarsi. Lo fanno per altri
motivi, che non occorre qui indagare. Nemmeno accettiamo
l’affermazione che il fumetto sia una forma nuova di cultura
popolare. No! Forse la odierna diffusione di certi giornali
dimostra che vi è una ricerca piú ampia che nel passato di
cose da leggere, da vedere; il fumetto però soffoca, strozza
nel suo sviluppo ciò che potrebbe venir fuori di positivo da
questa ricerca, cioè impedisce che da essa germogli una
piú diffusa cultura del popolo. O vogliamo chiamare cultura
la conoscenza del calibro necessario per assassinare a sei o
a sessanta metri, del modo come si rincorrono a 120 all’ora
ladri e poliziotti, delle stolte peripezie della vamp e cosí via.
Certo, il fondo della questione è molto complesso perché
si tratta di riuscire a creare una letteratura e una
pubblicistica per bambini e ragazzi che attirino, piacciano,
educhino, e non ostante i buoni tentativi già fatti, si è
ancora indietro assai.
Due rose per un manifesto

Una caratteristica peculiare della scrittura giornalistica di Rodari è quella


che già in altra sede ho definito «il piacere di raccontare» 1. Numerosi suoi
articoli hanno un andamento narrativo, per il quale cooperano in perfetta
fusione elementi reali e fantastici; o meglio, i dati della realtà quotidiana, per
un irrefrenabile e spontaneo meccanismo fantastico, sono piegati a creare una
realtà diversa, piú immediatamente comunicativa. Si direbbe quasi un
procedimento narrativo allestito di proposito per stare dalla parte dei lettori. E
dietro il fantasioso giocoliere di parole, puoi scoprire l’utopista, colui che parla
di speranza e che crede profondamente nelle possibilità di migliorare il mondo.
Due rose per un manifesto, pubblicato sul settimanale comunista «Rinascita»
(n. 5 del 1953), è un tipico e significativo esempio del «piacere di raccontare»;
è piú «racconto» che «cronaca».
Due postille: la «ragazza con un pacco di manifesti sotto il braccio» è Maria
Teresa, compagna dello scrittore; nel signore che dal terrazzo «getta una rosa
alla ragazza: una rosa rossa, non del tutto sbocciata, tanto fresca che sembra
viva» è da individuare lo storico della letteratura italiana Francesco Flora.

1. Cfr. C. De Luca, Un giornalista con il gusto di raccontare, in Leggere Rodari,


a cura di G. Bini, Pavia 1981.
Il quartiere dei Parioli, a Roma, ha certe stradine
tranquille e silenziose dove anche il tram, se vi passa,
sembra fare meno rumore, o comunque un rumore meno
fastidioso. Come nelle piccole città di provincia, in queste
stradine basta poco a fare un avvenimento: due persone
che discutano a voce alta, una macchina che si fermi, un
gruppo di attacchini.
Quella sera si trattava appunto di un gruppo di attacchini
occasionali: due giovanotti coi secchi della colla e i
pennelli, una ragazza con un pacco di manifesti sotto il
braccio. Una ragazza che attacca i manifesti, ai Parioli, –
verso sera, sta bene, ma quando c’è ancora abbastanza luce
per vedere che è esile e graziosa, – è uno spettacolo, quasi
uno scandalo. Il vecchio signore che si godeva l’ultima
pagina del suo giornale sul balcone sorride con indulgenza.
La signora (ai Parioli non si dovrebbe mai dire «la donna»,
ma sempre «la signora»), la signora che rincasa dal tè,
meno indulgente, non sa trattenersi dal dire la sua:
– Si vergogni! Non si vergogna? Una ragazza con quella
roba.
La ragazza non risponde e continua a stendere sul
marciapiede, l’uno accanto all’altro, i tre pezzi di un grande
manifesto.
I giovani, tra due signore, non sanno cosa comandi la
cavalleria: l’attacco è stato cosí improvviso, e frontale, che
la prima reazione è un po’ goffa.
– Si vergogni lei!
La battuta è fiacca ma non ve ne saranno altre, perché la
signora continua per la sua strada, chiamando a testimoni
della sua indignazione le graziose villette e i profumati
giardini. Altra gente si affaccia. Altre mete si offrono agli
attacchini.
Un bellissimo terrazzo ridondante di rose si protende
sulla via: è sostenuto da un muro scabro e rugoso, di quelli
preferiti dagli attacchini perché è difficile grattarne via i
manifesti; e da alcune colonnine di cemento, che gli
architetti debbono aver ideato apposta per dare rilievo ai
manifesti di piccolo formato.
Un signore passeggia sul terrazzo, si sporge a guardare
sulla via, rientra fra le rose. Amico o nemico? Quando si
attaccano manifesti di notte, certi problemi non si pongono.
Di giorno, o verso sera, bisogna tener conto dei padroni dei
muri, prepararsi a sorridere loro con molta buona grazia
mentre si imbrattano con la piú tenace colla in commercio i
loro preziosi mattoni, graniti, marmi, cementi armati e
simili materiali da costruzione.
– Attacchiamo un poco in basso, altrimenti dal terrazzo li
potranno strappare.
Il signore si affaccia nel momento piú critico, mentre la
ragazza sta porgendo il manifesto ai suoi compagni. Se l’è
spiegato sul petto, e il signore non può vedere che una
superficie bianca.
– Che manifesto è?
La sua voce è piuttosto brusca. La ragazza si scuote i
capelli, nerissimi, e volta il manifesto: falce, martello e
stella d’Italia, e sotto tre lettere senza equivoci: Pci.
Il signore non commenta. Si ritira. Il manifesto viene
attaccato con la massima gentilezza possibile, con dignità e
discrezione, come la situazione esige. Ecco, il signore si è
riaffacciato e getta una rosa alla ragazza: una rosa rossa,
non del tutto sbocciata, tanto fresca che sembra viva. Cosí
la ragazza ebbe la sua prima rosa.
Di villa in villa, di muro in muro, il gruppo giunge a un
incrocio, dove si para alla sua vista uno di quegli spettacoli
che fanno battere piú forte il cuore degli attacchini: una
lunghissima, alta muraglia intonacata di scuro, lunga forse
un centinaio di metri... Di fronte ad essa negozi, caffè, una
fermata del tram, un’edicola dei giornali, un banco di fiori...
Quando un attacchino elettorale scopre un muro di questi,
è portato a dubitare dell’intelligenza di tutti gli attacchini
che lo hanno preceduto: si sente forte e acuto, mille volte
piú acuto dei suoi predecessori, a qualsiasi partito abbiano
appartenuto.
Il gruppo sceglie accuratamente, per cominciare la
decorazione del muro, il manifesto piú alto, piú largo e piú
colorato, studia le diagonali e la triangolazione, misura a
lungo, con occhio esperto, la superficie vergine per
individuare il punto di maggior spicco. E quando ha scelto,
i pennelli calano energici e sicuri: plaf, plaf... Nessun
barbiere ha mai insaponato facce con tanta soddisfazione.
Il manifesto, pezzo per pezzo, viene affisso, schiacciato,
premuto, affinché la chimica e la fisica abbiano modo di
esercitare alla perfezione le loro leggi sull’adesività,
l’elasticità e la penetrabilità dei corpi. Quando il secondo
pezzo ha raggiunto il primo, e solo l’occhio dell’attacchino
riconoscerebbe il punto di sutura, una mano batte
gentilmente sulla spalla della ragazza.
– E ora lo staccate.
– Come dice?
– Quel manifesto, ora lo staccate.
È un carabiniere. Giovane, ma già consapevole della
parte di autorità e di potere che Stato e governo gli
affidano.
– E perché?
– Perché questo è il muro di una caserma di carabinieri, e
i regolamenti vietano qualsiasi affissione di manifesti sulle
caserme.
I giovani insistono, ridono. È impossibile che proprio il re
dei muri, il muro dei muri, debba dare loro una simile
delusione. Il custode della legge si allontana mentre il
gruppetto affigge il terzo pezzo del manifesto,
raddoppiando in sapienza e potenza i colpi di pennello. A
opera finita, il carabiniere è di ritorno. Si è diviso in tre
persone distinte, ma non uguali: uno dei tre è un
maresciallo. Dalla fermata del tram la gente guarda, i piú
curiosi e i meno frettolosi si avvicinano. Gente esce dal bar,
il giornalaio esce dal chioschetto.
I giovani, nel frattempo, si sono ricordati che le caserme,
purtroppo, a norma di legge, sono veramente refrattarie
alle piú adesive colle elettorali.
Ma oramai il manifesto è lí, splendido per forma e
dimensione: e sotto l’aspetto tecnico, un’affissione ideale.
Si discute, intervengono anche i presenti. Il maresciallo
comincia a seccarsi di tanta pubblicità. Deve considerare la
piccola folla un assembramento, un comizio non
autorizzato, un perturbamento dell’ordine pubblico? Alla
fine preferisce lasciare di piantone i due sottoposti:
– Restate qui. O staccano il manifesto, o li accompagnate
in caserma tutti e tre.
Il sergente Javert non sarebbe stato piú crudele con il
povero Jean Valjean: la legge del muro e il muro della
legge... Chi vincerà?
Il pubblico discute, commenta, protesta. In fondo il
manifesto ha fatto il suo effetto. Vale la pena di farsi
fermare? Attacchino che non viene arrestato, è buono per
un’altra volta.
I due carabinieri intervengono debolmente:
– Strappate, strappate.
– Ma non si può, vedete? È la qualità del muro.
È uno di quei muri, di quelli su cui un manifesto resiste a
un paio di campagne elettorali. Quattro mani, sei mani
grattano, o fingono di grattare, per salvare la forma, la
legge e il manifesto... I due giovani e la ragazza si voltano. I
carabinieri sono timidi, ma impassibili.
– O lo strappate, o vi fermiamo.
E allora ecco, tra la piccola folla, i commenti si fanno piú
vivaci:
– A quegli altri tutto è permesso... Li attaccano anche
nelle chiese, i loro manifesti... Hanno sporcato anche la
stazione Termini.
Ora le mani grattano senza timore: il manifesto
scomparirà, almeno in parte, alla fine; ma molta gente ha
visto, ha riflettuto. Non è stata fatica sprecata, dopotutto. E
poi, non bisogna sapersi ritirare al momento giusto?
Alla fine, è la ragazza a dichiarare:
– Adesso basta, non strappo piú. Se non siete contenti
cosí, portatemi in caserma.
Prima che i carabinieri rispondano, un piccolo uomo
anziano si fa largo tra la piccola folla («gli astanti», come si
scrive nei giornali). È il fioraio che ha il banco all’angolo, e
ha una rosa in mano: una splendida rosa rossa
completamente sbocciata. È buio, oramai, ma la rosa rossa
sembra splendere di luce propria, come le stelle. Cosí la
ragazza ebbe la sua seconda rosa rossa, prima che i
carabinieri si decidessero a lasciare il gruppetto in libertà.
Cosí mia moglie venne a casa, quella sera, un po’ in
ritardo, ma con due bellissime rose rosse, che mettemmo
sul tavolo in un recipiente di vetro, di quelli della
marmellata.
Compagni fratelli Cervi

Il poema Compagni fratelli Cervi fu letto a Reggio Emilia l’8 maggio del 1955
in occasione dell’80° compleanno di papà Cervi al Teatro Municipale, davanti
ad un’assemblea di ragazzi. Era vivissima ancora l’emozione suscitata dal
sacrificio dei sette fratelli Cervi del 28 dicembre 1943, e il vecchio Alcide Cervi
era il simbolo vivente dell’antifascismo, il patriarca di intere generazioni di
giovani democratici. In tale clima sembrava che nulla potesse essere concesso
al lirismo idillico: che l’unico modo di fare versi fosse quello di una «poesia
civile» alimentata da forte tensione morale e stilistica. Era necessario
esprimere istanze di rinnovamento e di liberazione, adoperare l’arma dei versi
per comunicare alle nuove generazioni certezze etiche e sociali. Cosí si spiega
il poema Compagni fratelli Cervi, un’esperienza isolata nell’attività di Rodari.
Per la sua intelligenza ritengo utili due postille:
a) l’anno prima, nel 1954, Pasolini aveva pubblicato la raccolta di poesie La
meglio gioventú. Il titolo viene mutuato da Rodari e utilizzato come stilema
carico di una forte tensione etica e ideologica nella quarta parte del poema.
(«Cara patria, terra avara... non eri il proclama del generale | ma la nenia, il
lutto degli alpini | che vanno alla guerra | la meglio gioventú che va sotto
terra»). Ma echi pasoliniani possono rintracciarsi sia nelle opzioni lessicali sia
nell’andamento dei versi di questo poema;
b) un articolo di Italo Calvino, apparso su «Patria indipendente» del 20
dicembre 1953, chiarisce alcuni fondamentali temi del poema. Ad esempio,
l’episodio iniziale del trattore di Aldo Cervi. Scrive Calvino: «Un giorno famoso
quello in cui Aldo andò a Reggio a comperare un trattore. Fece la strada del
ritorno guidando il trattore nuovo fiammante, e i contadini lungo la strada
venivano a vederlo passare, il terzo dei fratelli Cervi al volante di quella
macchina, sopra la quale troneggiava uno strano oggetto che non ci si sarebbe
mai aspettato di trovare là sopra: un mappamondo, un grosso mappamondo,
nuovo fiammante anche esso. Era un’altra compera fatta in città da Aldo quel
mattino».
Quel mappamondo che, «solenne goffo re da biblioteca», nel poema di Rodari
riassume il senso della geografia e della storia, del mito e della politica; quel
mappamondo che, «fragile giocattolo | fatto per un festoso girotondo», diventa
protagonista e pretesto di evocazioni: il gigante Atlante; la ricerca di «un
mondo senza fame | senza guerra, senza paura»; l’utopia del «colore» della
felicità.
A papà Cervi
con ammirazione
con affetto

I.

Bella Emilia, splendeva la polvere delle tue strade che si


aprono il passo fino al cuore verde della pianura –
ora immobili al sole, ora smarrite nel labirinto delle
vigne, dove il campanello d’una bicicletta sembra
squillare in cielo con le allodole o sugli olmi affollati
di cicale – come splendeva, Emilia, la tua pace il
giorno che Aldo Cervi guidò il trattore nuovo verso
casa e bastava la mano sul volante a domare il
puledro di ferro dal muso fiammante
e il cuore prestava le sue parole alla cieca canzone del
motore: Trattore, passa e va!

Le case si affacciavano in cima alle cavedagne,


mandavano filari,
mandavano cani festosi e bambini dalle voci piú acute
delle frecce incontro al suo ruggito, e un ragazzo
che a scuola le vecchie favole aveva sentito rise:
Guardate Atlante, il gigante che regge il mondo in
collo!

Perché sulla macchina alto in trono viaggiava un


mappamondo, solenne goffo re da biblioteca esiliato
fra i campi, e ad ogni scossa la sua rotazione attorno
ai poli mostrava i continenti di sette colori e gli
oceani celesti, navigati da flotte di arcipelaghi.
L’Asia, l’Europa, l’Africa, l’America...
alla spinta d’un dito giravano in un vortice di trottola, e il
cane impazzito
abbaiava alla giostra, e i bimbi gli volevano mostrare
l’Italia che bagna il piede nel mare e lí è casa nostra,
noi siamo lí sotto l’unghia.
Balenò sulla sfera il riflesso di fiamma del trattore, si
bagnarono acque e terre in un bagliore d’incendio e
di sangue.

II .

Sette fratelli come sette olmi, alti robusti come una


piantata.
I poeti non sanno i loro nomi, si sono chiusi a doppia
mandata: sul loro cuore si ammucchia la polvere e ci
vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco brucerebbero le
paginette dove dormono imbalsamate le vecchie
favolette approvate dal ministero.

Ma tu, mio popolo, tu che la polvere ti scuoti di dosso


per camminare leggero, tu che nel cuore lasci entrare il
vento e non temi che sbattano le imposte, piantali
nel tuo cuore i loro nomi come sette olmi: Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ...
Nessuno avrà un piú bel libro di storia, il tuo sangue sarà
il loro poeta dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi di sole.

III .

La leggenda dirà della mano, grossa mano contadina, che


ogni sera in cucina a un lume di lucerna fece sul
mappamondo il suo viaggio cercando fraterna
altre mani, altre genti; dirà degli occhi fermi che videro
città gonfie di vita e giardini e feste
dove toccavano caute le dita sabbie di deserti,
mistero di foreste;
dirà di sette fratelli, fratelli a tutta la terra, che
sognarono un mondo senza fame, senza guerra,
senza paura.
Ai quattro venti, fuori, la pianura spalancava le braccia
nel buio, su tutta Italia era notte e paura, ma, nella
stanza, intrepida una voce parlava col domani:
Un giorno sarà
tutta la terra di un solo colore, il colore della libertà.

D’un ceppo la vampa


nel vasto focolare
ancora un lampo di sangue strappò sulla piccola terra, ed
un’ombra piú lunga l’ingoiò.

IV .

La leggenda dirà che lunga notte, Italia, fu la tua,


rotta dal canto ubriaco del fascista...
Cara patria, terra avara, non era la tua voce che cantava
la sconcia canzone:
essa tremava nelle nostre gole, pianto e maledizione,
quando tu ci mandavi per il mondo a seminare paesi
e città perché di terra nostra non avevamo da
riempire il pugno; e quando morivamo abbandonati
sull’orlo delle trincee tu non eri la bandiera
usurpata di tante stolte guerre, ma il pianto oscuro
della madre ignara, non eri il proclama del generale
ma la nenia, il lutto degli alpini che vanno alla
guerra, la meglio gioventú che va sotto terra.
Tu non hai mai parlato dai balconi dei palazzi pieni di
boria, tu disertavi le adunate imperiali, battevi con
le nocche insanguinate i muri delle prigioni,
sillabavi in segreto la tua storia, eri la penna che
graffiò paziente i quaderni di Antonio Gramsci, il
giornale proibito, il volantino di cui ogni parola era
pagata con un anno di galera; sei cresciuta nelle
officine, nelle grige periferie, nella stalla del
contadino.

Italia, tu vivevi
nella casa di Praticello, seduta al focolare dei Cervi, non
padrona né schiava ma sorella e compagna di fatica
e d’amore.
E quando lo stivale straniero calcò il tuo cuore
e infangò le tue strade, la tua bandiera sventolò sui
monti, vegliò ai fuochi fumosi delle baite, viaggiò
segreta nella bicicletta del gappista, brillò nei suoi
occhi d’acciaio, e i tuoi sette fratelli, i tuoi sette
Cervi dal limpido cuore furono i tuoi sette fucili, per
colpire ti diedero gli artigli: «I cani ci chiamano
banditi, ma il popolo conosce i suoi figli».

V.

La leggenda dirà
di una casa emiliana che materna abbracciò coi suoi muri
il fuggitivo braccato dai cani, e per l’inglese, il russo
prigioniero impastò il pane con tenere mani, e vegliò
il lor sonno.
Il cuore non conosce frontiere, per donarsi non chiede
passaporti.
A te, a te aviatore americano delle tue bombe non ti
chiese conto, gettate sulle nostre città sui nostri
morti, ma fasciò la tua ferita.
La tua vita, nel Texas, nel Nevada, fu comprata con la
vita di sette comunisti,
e la loro casa fu bruciata, la loro madre uccisa dal dolore
perché tua madre non dovesse piangere.

VI .

La leggenda dirà
dell’ultima battaglia: dove cantò la cicala abbaia la
mitraglia.
Una muta di cani
la notte ha circondata, il fumo lecca i muri della casa
incendiata.

Ma quando li portarono alla crudele morte,


non eri tu, fucile,
il piú fermo, il piú forte.

Nella nebbia dell’alba si nascosero i cani, e chiusero gli


occhi per non vedersi le mani.

Negli occhi dei sette Cervi l’aurora si specchiò, dagli


occhi fucilati il sole si levò.

Vecchio, tenero padre, olmo dai sette rami, nella vuota


prigione per nome ancora li chiami, e a notte fra le
sbarre fin dove soffia il vento intatte vedi splendere
sette stelle d’argento.

Sette stelle dell’Orsa come sette sorelle.


I cani non potranno
fucilare le stelle.

VII .

Vecchio nodoso come un olmo antico, pianta potata dei


miei sette rami, che dura scorza gli anni ed il
nemico hanno fatto al mio volto, alle mie mani.

I Cervi, è buona terra: ara, nemico, affonda il vomero


nelle mie carni, coi pugnali dell’erpice colpisci:
morte puoi darmi, male non puoi farmi.

È buona terra questa carne antica, mieti, nemico, le mie


sette spighe: il grano non muore nel pane, non sono
morti i miei sette figli che hanno dato la vita alla
vita.

In tutto ciò che vive sono vivi, in tutto ciò che spera sono
vivi, in tutto ciò che soffre e lotta e vive i miei figli
per sempre sono vivi.

VIII .

Li hanno veduti su tutti i fronti...

E quando irresistibile, fiorita di rossi fazzoletti partigiani


la primavera dirupò dai monti a rendere la patria
agli italiani erano il canto piú ardito, la lagrima piú
stellante di gioia, i colori piú belli dell’aprile i
compagni fratelli Cervi...
Li hanno visti nel Sud vestito di nero e di sole quando
uscí dalle grotte di Matera una valanga umana a
conquistare la patria e la terra: uomini, donne,
bimbi arruffati e puri negli stracci, e gli animali
dall’occhio fraterno, cavalli, asini, muli, e le
bandiere e i santi paesani sui ricamati stendardi,
tutti quel giorno, Italia, ti baciarono, ti tolsero gli
spini con mano amorosa.
C’erano, c’erano i Cervi a Melissa, anche di loro la terra
fu rossa, e sul primo trattore che la vittoria si scavò
tra i cardi, alto su tutti gli sguardi c’era il mio Aldo,
e fu il suo canto un tuono: Bandiera di libertà,
trattore, passa e va!

E li hanno visti a Modena, un mattino d’inverno che ai


cancelli delle Fonderie Riunite chi chiedeva lavoro
ebbe piombo: a Reggio Emilia, quando ci destò
l’indomabile rombo del «fischione», e i nostri bimbi
piangevano di nascosto dal padre battuto per le
strade, e l’inverno fu duro, ma a Natale il loro albero
crebbe favoloso tra le macchine salvate, nero
presepe fu la fonderia dell’Erre Sessanta,
e un canto di vittoria cantarono angeli in tuta turchina
con le ali macchiate di grasso: Bandiera di pace
e di libertà,
trattore, passa e va!

Dove la pianta uomo non si umilia, ma di tutto il suo


sangue fu una bandiera accesa di coraggio, là sono
vivi i miei figli, a Genova, nel porto conteso: oggi la
prima linea
passa tra le banchine, sui moli si tende
il reticolato,
la trincea è scavata nelle case dove non c’è piú pane ma
non entra viltà...

I sette Cervi scendono con voi sulle piazze d’Italia


quando scoppia come un uragano di speranza la
parola della classe operaia...

Stretti con voi nei banchi di scuola, con voi si macchiano


il dito d’inchiostro.
Scrivete: Italia... È il loro nome, e il vostro.
Sgranate gli occhi limpidi sul mappamondo, fragile
giocattolo fatto per un festoso girotondo, ed essi
guidano la vostra mano di frontiera in frontiera a
cercare i fratelli sconosciuti e vicini, e segnano per
voi
nel cuore delle genti la strada della pace, e vi dicono: Un
giorno la terra conoscerà
un solo colore,
quello della felicità.
Allora sarà vostra
come una palla, come una trottola, come il cuore che vi
fa vivi e buoni.
La prenderete allegri sulle spalle.
Vi presteremo noi la nostra forza che non conosce
nemici: perché voi siete gli olmi nuovi e noi siamo le
vostre radici.
L’esplorazione del Rio Rubens

Della componente umoristica e satirica della scrittura rodariana possono


essere rintracciate diverse prove soprattutto negli scritti giornalistici. Risale
probabilmente agli anni intorno al 1955, epoca in cui lo scrittore dirige il
periodico della Fgci «Avanguardia», un certo affinamento degli strumenti
umoristici e satirici: esso si rivela dapprima occasionalmente non sulle pagine
del periodico, che a quei tempi male avrebbe sopportato «esercizi» di satira,
ma in sedi affatto private e, come dire, conviviali quali le riunioni
postredazionali. In queste occasioni tra i redattori di «Avanguardia» era
consuetudine divertirsi a inventare, componendo un verso ciascuno, epigrammi
del genere: Paese Sera | palese pera. | Pavese c’era | ... or non c’è piú. Nello
stesso periodo sulla terza pagina dell’«Unità» Rodari pubblica alcuni
«racconti» di sapore satirico; fra i primi sono Nel regno degli indovinelli del 19
gennaio 1957 e L’esplorazione del Rio Rubens del 10 marzo 1957.
Nel primo la trasfigurazione satirica del Gioco degli indovinelli fa
immaginare un intero popolo di formiche e di ragni al quale «non sono
consentite assenze» dal rito settimanale. La conclusione è amara: «Non
importa, si pensa negli ambienti di corte, purché il Gioco trionfi, e i sudditi
siano soddisfatti. Anzi, non importa nemmeno che siano soddisfatti:
l’importante è che, pensando giorno e notte agli Indovinelli, non pongano altre
domande, su questioni delicate e difficili, sulle quali il popolo ha troppa voglia
di dir la sua, per solito». La dissimulazione satirica non sempre funziona e
lascia intravedere a volte una certa fragilità degli artifici narrativi.
Nel secondo scritto qui proposto (L’esplorazione del Rio Rubens) la satira non
è piú di costume, ma diventa politica. Rodari lancia strali contro la «religione»
del «Centrismo» nel cui Olimpo trovi il «Governante-Che-Compera-I-Voti-Di-
Fiducia», i «Deputati-Che-Vendono-Il-Voto-Di-Fiducia», il «Presentatore-Di-
Ordini-Del-Giorno-Di-Fiducia», ecc. L’artificio adoperato nello scritto è quello
del ritrovamento di un diario in cui sono descritte le abitudini di vita della tribú
del Rio Rubens.
Nel 2457 un gruppo di robot al servizio della Società
storico-geografica effettuò una completa esplorazione dei
territori del Rio Rubens. Gli automi, particolarmente
addestrati per i viaggi pericolosi e le rivelazioni
scientifiche, portarono a termine l’impresa – per la prima
volta nella storia – senza l’assistenza dell’uomo: perfino il
cappellano che accompagnava i pochi robot bisognosi di
sollecitazioni di tipo religioso (sette su venticinque) era un
«cappellano automatico», una macchina perfetta, capace di
recitare circa trentamila sermoni su altrettanti soggetti e di
svolgere un numero assai superiore di conversazioni e
dispute su argomenti come la psicotecnica, la speleologia,
l’astrobotanica, la balistica, la cabalistica e l’enigmistica.
Fu dunque un’esplorazione completamente
automatizzata e per questo solo fatto meriterebbe di
figurare, come figura, negli annali della benemerita Società
che si intitola al nome del celebre esploratore Pantagruel.
In realtà essa va famosa soprattutto perché legata alla
scoperta di una tribú umana rimasta ai costumi di alcuni
secoli prima: la tribú del Rio Rubens, appunto, che è oggi
del tutto scomparsa, e della quale rimase memoria solo nel
diario di uno dei robot che la osservarono.
Spulciamo da quel diario:
«... La città sorge nel cuore di una foresta vergine, e la
maggior parte dei suoi edifici e delle sue strade sono
sotterranei. Ciò ha permesso ai suoi abitanti, attraverso i
secoli, di sfuggire ad ogni ricerca e di mantenere
l’isolamento, fino a ieri totale, nel quale essi hanno
conservato e praticato la loro strana religione. Sembra
appunto che la città sia stata fondata dagli ultimi seguaci di
questo culto, dai piú intransigenti difensori della sua
purezza, dagli irriducibili custodi dei suoi dogmi. Non c’è
da meravigliarsi, date queste origini, che detta religione sia
giunta ai nostri giorni senza subire modificazione alcuna,
né delle credenze né dei riti.
La cerimonia principale è la preghiera della sera, che
avviene nel seguente modo: ad un segnale radiodiffuso,
tutti i cittadini abbandonano le loro occupazioni e sorgono
in piedi, piantandosi a gambe larghe in mezzo alla strada o
alla stanza in cui si trovano. Dev’essere il mezzo esatto, e in
tutte le strade apposite strisce bianche indicano il centro
geometrico perché i fedeli non incorrano in peccato
discostandosene. La distanza regolamentare fra i due piedi
dev’essere di ottanta centimetri circa. In questa posizione, i
fedeli cominciano ad oscillare lentamente, appoggiandosi
ora al piede destro ora a quello sinistro. Ad ogni
oscillazione la distanza tra i piedi deve diminuire di un
centimetro. Al termine di quaranta oscillazioni il fedele
viene a trovarsi nella posizione di attenti, con i piedi uniti, e
in tale posizione, chiamata il Perfetto Centro, rimane
immobile.
L’immobilità liturgica non deve durare meno di quaranta
minuti, ma i piú devoti la prolungano fino ad un’ora ed
anche piú. Ci si imbatte anzi, sulle piazze principali, in
santoni e fachiri che rimangono immobili nella posizione
del Perfetto Centro l’intera giornata. La religione è
chiamata Centrismo.
Sembra che in tempi molto antichi essa abbia conosciuto
un grande splendore, soprattuto nelle alte sfere politiche, e
che sia in seguito decaduta per cause oscure; dicono alcuni
per le molteplici eresie sorte nel suo seno, ad opera di
riformatori che sostenevano la maggior importanza di
questo o quel piede nelle oscillazioni rituali; dicono altri:
perché a lungo andare si rivelò impossibile non riconoscere
che la posizione di Perfetto Centro poteva essere sostenuta
soltanto appoggiandosi pesantemente al piede destro, che
sopporta meglio l’immobilità, ciò che però infirmava le basi
del dogma e provocava crisi di dubbio. In realtà, anche a
noi è parso che i fedeli pendano sensibilmente a destra, con
un’inclinazione, nei momenti di maggior fervore, che
ricorda quella della torre di Pisa...»
«... Abbiamo visitato oggi il Museo della tribú. Vi si
conservano, sotto spirito, i principali profeti del Centrismo,
oltre ad alcune singolari figure, delle quali ci è stato detto il
nome ma nessuno ha saputo dir altro, se non che sono
molto venerate dai Centristi. Vi è per esempio la mummia
di un Governante - Che - Compera - I Voti - Di - Fiducia. Ve
ne sono altre due, perfettamente uguali, sotto le quali si
legge sul cartellino: Deputati - Che - Vendono - Il - Voto - Di
- Fiducia. Altre figure particolarmente venerate sono quelle
del Presentatore - Di - Ordini - Del - Giorno - Di Fiducia, del
Socialdemocratico - Che - Non - Si - Dimette, del
Monarchico - Che - Si - Squaglia, e simili altre.
In un’altra sala, riservata alle pitture, sono esposti i
quadri che immortalano le scene piú note della storia sacra
del Centrismo. Elenchiamo alcuni titoli: Segni che medita
sulla giusta causa; Matteotti che ingoia il suo rospo
quotidiano; Saragat che detta condizioni ai socialisti; Il
pianto dell’onorevole Rossi, confortato dai familiari, all’idea
di lasciare il suo ministero; Liberale che riceve una
telefonata dalla Confindustria.
Innumerevoli i ritratti e in quasi tutti il punto centrale
dei visi, cioè il naso, è dipinto nel centro esatto della tela,
come ci è stato fatto notare da un cicerone. Gli autori di
un’altra scuola, invece, pongono al centro del ritratto il
portafoglio...»
«... Tra i documenti piú preziosi dell’Archivio del Sommo
Sacerdote del Centrismo sono conservati due assegni a
vuoto a firma di due deputati fascisti. Ci si dice trattarsi di
reliquie veneratissime, che ogni anno vengono portate in
processione da un capo all’altro della città».
«... Abbiamo scoperto un’altra particolarità del
Centrismo. I suoi addetti vengono severamente addestrati,
fin dalla piú tenera età, a non arrossire mai. Sembra che i
profeti del passato possedessero questa facoltà in un grado
eccelso. L’esame di non-arrossimento è uno dei piú
importanti nelle scuole pubbliche e nei collegi centristi...»
Singolare contraddizione: la tribú che non conosceva la
vergogna abitava le rive del Rio Rubens, il fiume «che
arrossisce». Il diario del robot occupa seicento metri di
micropellicola, ma crediamo di averne data un’idea
sufficiente.
L’astante

Un tipo come Rodari, naturalmente ironico e autoironico, non poteva


certamente lasciarsi sfuggire l’opportunità di scherzare sul mestiere e sul
linguaggio dei giornalisti. Avrebbe significato perdere la battuta, fare un
«buco». E la battuta, lui, non la perde. In L’astante («l’Unità», 14 luglio 1957)
personifica e dà voce ad una «figura» del gergo giornalistico, appunto l’astante,
uno che fa soltanto «cose che si dicono sempre allo stesso modo»: il suo
compito è di intervenire energicamente per far cessare lo sconcio; osserva la
scena dal marciapiede di fronte, si prodiga in una nobile gara di generosità,
ecc. Nessuno dirà mai di lui, «semplicemente ed umanamente», che si
arrabbia: lui può soltanto far sentire la sua indignata protesta.
Mi perseguita fin dalla primissima infanzia. Non risale
forse alle tranquille e pur avventurose settimane trascorse
nella culla, naturalmente tra candidi lini, l’oscuro ma
persistente ricordo di qualcuno non padre né madre né
parente, chino su di me a studiarmi, o a sorridermi
scioccamente, o a complimentarmi per essere venuto al
mondo?
Piú in là, quando ragazzo partecipavo a festose battaglie
nella neve, se succedeva che una pallottola mal diretta
fracassasse una vetrina, era lui, lo stesso personaggio
neutro e confondibilissimo, e nonostante questo
identificabile con certezza, era lui che interrompeva la sua
passeggiata e picchiando a terra col bastone o con
l’ombrello, ci gridava indignato: «Monellacci! Un giorno la
pagherete cara».
«Ma lei chi è, che vuole?» gli chiese in una di queste
burrascose occasioni il meno timido del nostro gruppo.
Egli ci guardò severamente, quasi con tristezza.
«Io sono l’astante», disse.
«Che cosa?»
«L’astante. Il mio compito è di intervenire energicamente
per far cessare lo sconcio. Osservavo la scena dal
marciapiede di fronte: è sempre di là che osservo le scene,
quando non mi trovo però alla finestra del palazzo
prospiciente».
Continuò per un pezzo, infilando parole di questo genere
particolarmente grigio. Per un po’ lo guardammo sbalorditi,
poi come un branco di uccelli, ci sbandammo ridendo e
stridendo. Ma io, lo confesso, non ero piú cosí spensierato,
non lo fui piú da quel giorno. Chi era il misterioso
personaggio? Perché si chiamava astante? Perché me lo
trovavo dinanzi, o di dietro, o ai lati, ogni volta che
succedeva qualcosa di interessante nei miei paraggi?
C’era un incendio. Ed eccolo, l’astante, a dar noia ai vigili
del fuoco.
«Ma lei che cosa fa, che cosa desidera?»
«Io mi prodigo, – dichiarava sostenuto l’astante, – in una
nobile gara di generosità. Se vi sono feriti, porto
prontamente i primi soccorsi».
I vigili si guardavano perplessi, ma non gli rivolgevano
addosso il getto delle pompe.
C’era un incidente automobilistico, e lui si faceva avanti,
l’astante, si presentava agli agenti, togliendosi
educatamente il cappello.
«Ho diligentemente annotato il numero della macchina
investitrice. Mi trovavo per puro caso a passare sul luogo
dello scontro e mi metto a disposizione dell’autorità
inquirente. Lo faccio sempre, capisce? Io accorro. L’astante
accorre, sempre».
Sarà – pensavo io, senza rendermi conto esattamente
della cosa. Ma un giorno, finalmente, intravidi la verità. Fu
il giorno in cui cominciai a leggere le cronache dei giornali,
e incontrai, scritta in tutte le lettere, la parola che mi aveva
tanto turbato.
«Gli astanti, commossi...» diceva il giornale. E poco piú
giú: «Tra l’intensa commozione degli astanti...»

Dunque erano molti, per lo meno piú d’uno, tanti da


consentire l’uso del plurale. Tenni per me la preziosa
scoperta, deciso a valermene al momento opportuno. Che
non tardò a venire. Ci fu una rissa, sul pianerottolo del
secondo piano, nello stesso casamento in cui abitavo. Due
uomini scamiciati e urlanti si rincorrevano per le scale,
tornavano ad afferrarsi, si rovesciavano addosso (come poi
lessi nei giornali) «torrenti di insulti». E tra le persone
subito accorse, parenti o semplici curiosi, eccolo là, in
prima fila, indaffarato e preoccupato, autorevole.
«Si faccia da parte, lei non c’entra», gridò uno dei
rissanti.
«Non c’entro? Lo dice lei, – ribatté pronto il mio uomo. –
Io faccio il mio dovere».
«È un astante, ha capito?» intervenni io, subdolamente.
Mi lanciò, devo pur dirlo cosí, «un’occhiata di fuoco»,
strinse le labbra e confermò, ostinato come un ammiraglio
sul ponte di una nave che affonda:
«Sono l’astante, sí, e sono accorso a separare i
contendenti nonché a calmare gli spiriti sovreccitati».
«Lei solo è l’astante? E gli altri non lo sono? Non lo sono,
io?»
Ormai lo aggredivo apertamente. Impallidí, mi voltò le
spalle, scese le scale a precipizio. Quando lo raggiunsi,
grosse lagrime gli rigavano il volto.
«Senta, – dissi, – non avevo nessuna intenzione di
offenderla. Però è vero che anche gli altri erano astanti, e
anch’io».
«È vero, – riconobbe tra i singhiozzi, – in un certo senso è
vero. Eppure, eppure, una differenza c’è. Gli altri, lei per
esempio, hanno una vita loro: sono padri, madri, figli,
meccanici, imprenditori edili, pellettieri e capitani
d’aviazione. Io non sono nulla di tutto ciò, nulla di nulla. Io
sono soltanto un astante. Vivo solo nelle cronache dei
giornali con questa qualifica. Nella vita vera, io non esisto.
Ha mai sentito qualcuno parlare di astanti? Ha mai sentito
qualcuno, nel dichiarare le proprie generalità, qualificarsi
un astante? Io sono una figura del gergo giornalistico. Io
sono l’astante che accorre, che vede la sventurata giovane
precipitare dal quarto piano rimanendo all’istante
cadavere, che osserva la paurosa scena trattenendo un
grido di orrore: faccio soltanto cose che si dicono sempre
allo stesso modo. Nessuno dirà mai di me, semplicemente
ed umanamente, che mi arrabbio: io posso soltanto far
sentire la mia indignata protesta, ...posso elevare una voce
di sdegno; non posso curiosare, se c’è un corteo: debbo
assolutamente far ala al passaggio, non posso battere le
mani, è mio dovere applaudire entusiasticamente, o
freneticamente. E cosí via: sorrido compiaciuto. Se
qualcuno mi chiede il mio nome, debbo rispondere: Di
Tommaso Vincenzo fu Paolo, cinquantasettenne, abitante in
via delle Coronate al numero 34: talvolta sono costretto a
confessare che la mia casa è sita nello stabile
contrassegnato dal numero 34. E infine, o sventura, talvolta
vengo anche minacciato, da qualche lestofante armato che
si fa largo tra la folla degli astanti e rimango
miracolosamente illeso.

I singhiozzi gli impedirono di continuare. Per anni ed


anni lo rividi, qua e là, mentre tratteneva un grido di orrore
o si precipitava a sorreggere l’anziana signora Giovanna
Martinelli, di anni 72, abitante in via Monopoli 41, che nello
scendere dal marciapiede poneva un piede in fallo,
riportando frattura al metatarso guaribile in 18 giorni.
Di anno in anno, abusando della mia bontà, si fece piú
invadente e ingombrante. Ma non voglio certo tediare
nessuno col racconto delle sue imprese. E poi, chi me ne dà
il tempo?
Eccomi infatti gravemente ammalato, forse moribondo.
Al mio capezzale, c’è anche lui: «Sono un astante, le porto
parole di conforto e di incoraggiamento. Se le cose
volgeranno al peggio, stia sicuro, ella sarà circondato dalla
pietà degli astanti, che piegheranno riverenti il ginocchio
mentre il sacerdote le somministrerà gli estremi conforti
della religione».
Raccolgo le mie ultime forze, balzo dal letto, afferro
l’astante e lo trascino rapidamente verso la finestra.
«Prima a te!» grido, spendendo quasi tutto il mio fiato.
Già: ma chi mi deruba della mia vendetta, chi mi
impedisce di farlo precipitare sul selciato? Loro: gli astanti.
E per sua istigazione!
«Fate il vostro dovere, – grida, – egli dev’essere
trattenuto dagli astanti!»
E gli astanti, purtroppo, mi trattengono, solidali con lui,
che sorride compiaciuto, immortale.
Un benefattore incompreso

Un benefattore incompreso («l’Unità», 18 agosto 1957) è un giornalista («un


giovane piú esile che magro, piccoletto, dotato di un inquieto sorriso che gli
vagava sulle labbra da sinistra a destra e da destra a sinistra come una farfalla,
e di due occhi troppo dolci») che inventa «cronache nichiliste», «cronache col
segno meno», in cui le notizie non accadono («ieri alle 14,35 al nono chilometro
della statale numero 1897 non si è verificato un terrificante scontro nel quale
non hanno perso la vita cinque persone...») È «incompreso» dal direttore del
giornale dove prova a lavorare e viene licenziato.
«Ieri alle 14,35 al nono chilometro della statale n. 1897
non si è verificato un terrificante scontro nel quale non
hanno perso la vita cinque persone. Un pesante autotreno
targato MI 2345, nel tentativo di non superare un carro
agricolo, non cozzava violentemente contro la macchina
targata Roma 4567, che viaggiava in senso contrario, e che
quindi non ribaltava rovesciandosi addosso a tre
motociclisti belgi sopravvenienti. Nel mancato urto non
hanno perso la vita: un camionista, due dei motociclisti, il
giovane che guidava l’automobile e la di lui fidanzata; gli
altri non hanno riportato ferite guaribili in periodi varianti
tra un mese e 75 giorni. La polizia stradale non ha avuto
bisogno di compiere indagini».
Il direttore del «Corriere popolare» lesse e trasecolò ad
un punto, senza dimenticarsi di cacciare
contemporaneamente un urlaccio che fece accorrere il
capocronista.
– Ha letto qui?
– Dove, scusi?
– Questa notizia a una colonna. Qui, sotto il taglio basso.
– Permetta. «Ieri alle ore...»
– C’è anche l’ora esatta, prenda nota: l’ora esatta in cui
non è accaduto nulla. Stiamo diventando un giornale per
fantasmi: tra poco stamperemo con inchiostro bianco.
– Mi dispiace, mi dispiace infinitamente. Una serie simile
di refusi... Darò una strigliata ai correttori di bozze.
– Lasci stare i correttori. Peschi il cronista che ha scritto
questa roba e me lo porti per la collottola entro cinque
secondi. Uno, due, tre...
L’autore di quella prosa, diciamo cosí, eccessivamente
negativa si rivelò un giovane piú esile che magro,
piccoletto, dotato di un inquieto sorriso che gli vagava sulle
labbra da sinistra a destra e da destra a sinistra come una
farfalla, e di due occhi troppo dolci.
– Si accomodi e mi dica subito se crede di essere capitato
in un giornale per enigmisti. Mi spieghi un po’ questa
notizia...
– È consolante, non le pare?
– Altroché.
– Del resto, è la pura verità. Non c’è una parola di falso.
– Piú che altro, non c’è una parola sensata.
– Ma, signor direttore, mi meraviglio: pensi alla gioia dei
lettori nell’apprendere che un incidente di quelle
proporzioni non è avvenuto affatto. Pensi se accadeva,
invece: cinque famiglie in lutto, forse dei figlioletti orfani a
Milano, in Belgio. Personalmente, avrei dato alla notizia un
titolo a cinque colonne.
– Perché no? E magari in prima pagina.
– Perché no? Io trovo che i lettori hanno bisogno, di tanto
in tanto, di una notizia distensiva, di quelle che fanno tirare
un respiro di sollievo ed esclamare: meno male! Secondo
me il giornalismo moderno...
– Questa me la dica dopo. Adesso ascolti: «Una singolare
avventura non è capitata, ieri sera all’imbrunire, al
quarantaduenne ragionier Badoni, residente nella nostra
città al numero 39 bis di via Bitonto. Mentre rincasava
dall’ufficio egli non si è imbattuto in una donna mascherata
e armata di pistola, che non gli ha intimato di consegnarle
il portafoglio contenente lo stipendio mensile e l’indennità
di ferie. Il ragionier Badoni non è quindi potuto essere
vittima della prima rapina a mano femminile armata che le
nostre cronache ricordino. La folla dei passanti non si è
congratulata con lui per lo scampato pericolo». Immagino
che sia roba sua.
– Povero ragionier Badoni, – sorrise il sorriso inquieto. –
È una persona tanto cara, abita nella mia stessa pensione.
Ho voluto fargli una sorpresa per il suo compleanno: un po’
di pubblicità fa piacere a tutti, sa, anche ad un ragioniere
del catasto. Ed è un nostro abbonato da ventisette anni. Io
trovo che il giornale, qualche volta, dovrebbe dare delle
soddisfazioni personali ai suoi lettori, procurare loro
qualche inatteso brivido, un istante di gloria.
– Non sospettavo che il ragionier Badoni esistesse
realmente.
– Ma sí, guardi l’elenco degli abbonati. Ed esiste anche
l’onorevole Soppesa.
– L’onorevole chi? – urlò il direttore balzando sulla sedia.
– Non mi dica che ha messo anche lui nelle sue cronache
nichiliste. È nel consiglio di amministrazione del nostro
giornale!
– Ecco, – disse pronto il sorriso, volteggiando come
un’ape sulla corolla. Il giovane trasse di tasca un foglietto
battuto a macchina (– Meno male, pensò il direttore –) ed
annunciò:
– Titolo: «Un discorso dell’onorevole Soppesa». L’ho
preparato per il giornale di domani. «L’onorevole Soppesa
non ha tenuto ieri alla radio un discorso sulla mortalità dei
conigli. Egli non ha esordito tessendo l’elogio del mansueto
animaletto, caro alle masse rurali e gradito ai buongustai.
Non ha proseguito citando le piú recenti statistiche sulla
mortalità che colpisce da qualche mese i conigli e non ha
concluso il suo dire con una commossa ed elevata
perorazione. Il programma non andrà in onda di nuovo
questa sera».
– Immagino che anche questa notizia col segno meno
debba avere uno scopo benefico.
– Per i lettori, signor direttore. Pensi che barba se
l’onorevole Soppesa avesse parlato davvero alla radio sui
conigli, o sulle galline faraone. Bisogna far apprezzare la
vita, signor direttore, far comprendere alla gente a quali
pericoli e disastri, a quali spaventose catastrofi scampiamo
ogni minuto. Le notizie che accadono realmente sono
un’infinitesima parte di quelle che potrebbero accadere
realmente. Un giornale moderno deve allargare il suo
campo d’informazione al regno del possibile.
– Ah, certo. Per esempio io posso informarla che nel
regno del possibile vedo la notizia del suo licenziamento.
Prova qualche consolazione particolare nell’apprenderlo?
– Un brivido di felicità, lei non se lo immagina nemmeno.
– Già. E per domani aveva pronta altra roba? Mi faccia
sentire, comincio a provarci gusto anch’io.
– Lo vede? Ho qui un appunto per una notizia
meteorologica. «Ieri, 17 agosto, alle dodici precise, non è
caduta la neve. Le strade e le piazze della città non erano
per nulla coperte da una coltre bianca e soffice. Su alcuni
quartieri la neve non è caduta a larghe falde: su altri non
ha assunto il caratteristico aspetto della bufera alpina. Il
Comune non ha disposto un servizio di spazzaneve».
Seguirà qualche considerazione su questo notevole
risparmio di spese.
– Condivido in anticipo queste considerazioni: infatti mi
propongo di risparmiare il suo stipendio, compresi i
contributi.
– Lo sapevo. Lei è il quarto direttore di giornale che
prende la stessa decisione. Sembra che le mie idee sul
giornalismo siano troppo avanzate. Mi si dice che sono un
utopista, un illuso... Ma la cosa non mi spaventa. Anche
Galileo, Marconi e tutti quegli altri, da principio, sono stati
trattati allo stesso modo e perfino peggio. Pazienza, mi
cercherò un altro posto. Sono giovane, ho tanto tempo
davanti a me.
E i dolcissimi occhi guardarono dolcemente in quel
tempo pieno di possibilità, di incidenti stradali non
avvenuti, di discorsi taciuti, di guerre non scoppiate, di
terremoti rientrati brontolando nelle viscere del pianeta.
Chi ha rubato il Cupolone?

Il furto del Cupolone di San Pietro a Roma è uno dei temi ricorrenti in
Rodari. Sembra che ci sia sempre qualcuno intenzionato a trafugare la cupola
michelangiolesca.
Il 30 gennaio 1959 appare su «Paese Sera» la novella Chi ha rubato il
Cupolone? Ha la struttura di una «lettera al direttore» e contiene gli sfoghi e le
ossessioni di un impiegato che, accusato di aver privato la basilica di San Pietro
della cupola, si è trasferito nell’«orrida giungla» di Maracaibo. A distanza di
circa venti anni, il tema è ripreso nel racconto Ciabattino e Fornaretto, uscito
su «Paese Sera» il 24 dicembre 1978 e poi inserito nella raccolta Il gioco dei
quattro cantoni pubblicata postuma (Einaudi, Torino 1980). C’è da aggiungere
che questo racconto ha lo stesso andamento narrativo della poesia Col favore
delle tenebre pure del 1978, inserita nel volumetto Parole per giocare
(Manzuoli, Firenze 1979). Ma nel 1975 un ironico accenno all’eventualità del
furto del Cupolone lo troviamo nell’Intervista con messer Buonarroti
all’indomani del suo 500simo compleanno, uscita ancora su «Paese Sera», il 9
marzo 1975. Michelangelo manifesta le sue preoccupazioni all’intervistatore-
Rodari perché, per burla, qualcuno gli ha annunciato che il Cupolone «se lo
sono pappato con tutto il tamburo». Rodari-intervistatore cerca di
tranquillizzarlo: «Come avete potuto credere che... Quel po’ po’ di mole... Chi
mai riuscirebbe a caricarselo sulle spalle?»
Michelangelo: «Non si può mai dire. Siete capaci di tante diavolerie
elettroniche, atomiche, parapsicologiche, al giorno d’oggi».
Rodari: «Ma uno che rubasse, col favore delle tenebre, il vostro Cupolone,
che cosa diavolo potrebbe farsene?»
Michelangelo: «Non chiedetelo a me. Potrebbe essere d’accordo con il mio
conterraneo Fanfani per compromettere il compromesso storico. Potrebbe
impegnarlo al Monte di Pietà [...], portarlo in Svizzera [...], regalarlo allo scià di
Persia [...]».
Michelangelo ancora preoccupato chiede al suo interlocutore: «Tornate a
guardare se c’è la Cupola...»
Rodari: «Tutto a posto, Maestro».
E Michelangelo conclude: «Bene, bene. Son contento anche per il ministro
Spadolini: se si affaccia, non avrà l’impressione che gli manchi qualcosa».
Egregio signor direttore,

il timbro postale di Maracaibo le avrà probabilmente


suscitato, oltre che sorridenti ricordi d’infanzia (o bei
romanzi di pirateria!), incantate visioni di mari e di foreste:
un tempo anch’io ho sognato il Venezuela sui francobolli, ed
era assai piú attraente dell’orrida giungla in cui mi trovo,
manovale addetto a lavori di disboscamento e di sterro,
alloggiato in puzzolenti baracche, tormentato dagli insetti,
atterrito dai serpenti, ossessionato dai ragni velenosi.
Rivedrò mai piú la mia bella Narni, le sue calde mura di
guardia ai colli e alla valle? Ma non le infliggerò la lettura
degli sfoghi nostalgici di un emigrato, anzi di un esule e
fuggiasco: la presente è per narrarle una storia che a me
stesso sembrerebbe incredibile, se attorno a me, mentre
scrivo, non si levasse il respiro gonfio e pesante dei miei
compagni di baracca, addormentati in fondo a un abisso di
fatica.
L’introduzione le avrà già fatto intendere che non sono
sempre stato uomo di piccone e di zappa. In altri tempi le
mie dita hanno battuto su una macchina da scrivere:
impiegato d’ordine ma, in segreto, appassionato di studi
letterari, vivevo la mia vita tranquilla e decente,
modestamente ma correttamente vestito, poveramente ma
pulitamente alloggiato in casa della mia vecchia madre con
la sposa che mi ero scelto nelle campagne umbre, bella
forte e buona, povera Santa mia, oggi condannata a
un’attesa che forse solo la morte coronerà.
Una notte, circa quattro mesi dopo il nostro matrimonio,
fummo destati da colpi battuti con violenza alla porta,
subito ripercossi dai nostri cuori posti in allarme. La mia
buona madre fu la piú lesta a levarsi e ad accorrere, ma
prima di aprire la porta domandò, come la udimmo: «Chi è?
Che cosa si vuole da noi a quest’ora?»
«La forza pubblica, – rispose una voce dura e imperiosa.
– Aprite subito».
La vecchierella affrettavasi ad ubbidire: ne seguí uno
scalpiccio, indi il tonfo di passi pesanti e chiodati.
«Vostro figlio è in casa?» udimmo chiedere. Io già mi
stavo rivestendo in fretta: la cara sposa, infilatasi una
vestaglia a fiori, accostava l’orecchio alla porta che
divideva la nostra camera dalla cucina, stringendosi una
mano al cuore per comprimerne i battiti.
Il dialogo ci perveniva anche troppo chiaro, nella sua
terribile alternanza di concitate domande e categoriche
risposte:
«Mio figlio non può aver fatto nulla di male. Ve lo dirà
egli stesso».
«Abbiamo le prove, cara signora. Ditegli senz’altro di
prepararsi a seguirci».
«Ma dove, in nome del cielo?»
«In carcere, signora».
«Il suo delitto?»
«Tanto vale che ve lo diciamo, signora: egli ha rubato la
cupola di San Pietro».
L’enormità dell’accusa mi colpí in pieno petto,
togliendomi il respiro. La cupola di San Pietro. Io, averla
rubata! Io, che non mi recavo a Roma da molti mesi, io, che
l’amo al punto di averne una riproduzione in gesso sul
tavolino da notte.
«Non è possibile!» gridò mia madre, gridando le stesse
parole che io pensavo.
«Che cosa faceva vostro figlio la sera del 26 novembre?»
«Dormiva certamente in casa, signor commissario: egli
non ha mai dormito fuori di queste mura se non quando fu
chiamato a compiere il suo servizio militare».
«Questo lo dite voi. Noi abbiamo altre informazioni. Non
accusiamo nessuno a vanvera. Abbiamo controllato il suo
alibi, prima di muoverci: vostro figlio non è in grado di dire
come ha passato la sera del 26 novembre. Per noi, il
colpevole è lui».
Mia moglie si staccò dalla porta, respirando
affannosamente.
«Arnaldo!» essa mormorò.
«Santa, ti giuro che sono innocente. Ma tu lo sai. Quando
avrei potuto compiere un furto cosí grave se non mi sono
mai allontanato di casa?»
«Io ti credo, Arnaldo. Ma ti sarà difficile dimostrare la
tua innocenza, se non disponi di un sicuro alibi. Fuggi,
Arnaldo, fuggi senz’altro. Va’ a casa mia: mio padre ti
nasconderà. Rimani laggiú fin che ti farò sapere come si
mettono le cose. Fuggi, amor mio: non voglio saperti in
carcere, sotto il peso di un’accusa spaventosa. Tu, tu, il mio
amore, il mio unico affetto, accusato di aver sottratto la
cupola michelangiolesca al massimo tempio della
cristianità!»
Fuggii, signor direttore, come la cara sposa mi
consigliava, a casa dei suoi onesti genitori. Mi calai dalla
finestra nella sottostante via, presi per i campi e in poche
ore raggiunsi i monti attorno a Otricoli, dove essi abitavano
ed abitano tuttora. Il vecchio cane mi riconobbe e non
abbaiò. Il buon suocero, levatosi per aprirmi, impallidí
ascoltando il mio racconto.
«Figlio mio, – egli disse, – sei perduto. Da una simile
accusa non ci si difende. Il suo peso ti schiaccerà».
Acconsentí tuttavia a nascondermi nel granaio, dove rimasi
alcune settimane. Il suocero stesso mi portava ogni giorno
il cibo. Feci sapere a Santa che non si muovesse, per non
portare i poliziotti sulle mie tracce. Le feci anche chiedere
che mi mandasse, con molta cautela, alcuni libri per
occupare le mie lunghe, desolatissime ore di reclusione.
Cosí rilessi, piangendo, le Mie prigioni di Silvio Pellico, e la
Gerusalemme liberata del Tasso, dalle cui ottave trassi
alimento per la mia speranza in una prossima liberazione.
Trascorso qualche tempo, persuasi il suocero a parlare al
buon parroco della mia quistione. Sulle prime il degno
sacerdote non voleva occuparsene, vedendo forse nel reato
di cui ero accusato un aspetto sacrilego e temendo che il
suo intervento potesse venir interpretato come un’indebita
ingerenza clericale nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Ma infine la carità cristiana poté nel santo vegliardo piú
del rispetto umano e dei pregiudizi politici (egli non
ignorava che, in passato, io avevo militato in un partito un
po’ di sinistra). Egli si recò a Roma con la corriera e un
compaesano lo accompagnò fin sulle soglie della questura.
Per molti giorni non si ebbero piú notizie di lui. Il Vescovo,
esperite le indagini del caso, appurò che il sacerdote era
stato internato in un manicomio. Certo il suo zelo nel
perorare la causa di un innocente accusato di aver rubato
la cupola di San Pietro dev’essere parso sospetto; si preferí
farlo passare per pazzo, anziché accusarlo come
favoreggiatore o complice, per non creare complicazioni
con la Chiesa.
La mia causa appariva ormai perduta. E fu ancora Santa
a salvarmi: la mia dolcissima sposa persuase il padre a
vendere una vigna, vecchio ricordo di famiglia, per
organizzare la mia fuga nelle Americhe. Un astuto sensale
si occupò del passaporto, del viaggio, del contratto di
lavoro nel Venezuela, tutto sotto falso nome. Ed eccomi qui,
da sette anni ormai, da trecentosessantaquattro settimane,
ad abbattere tronchi, a vibrare colpi di piccone in terra
straniera, a resistere come posso alla tortura della
lontananza, e piú alle sofferenze dell’innocenza accusata a
torto. Santa mi scrive, facendo imbucare le lettere ad
Avellino da un compare perché non diano sospetto: essa mi
consiglia di restare quaggiú, mi raccomanda di tacere, di
non espormi. «Pazienta, amor mio, – ella scrive. – Forse non
è lontano il giorno in cui la terribile accusa contro di te
sarà ritirata. Io stessa con i miei occhi ho potuto constatare
che la Cupola di San Pietro è sempre al suo posto. E
siccome può essere provato che non sei stato tu a
riportarla, ci sono buone probabilità di provare che non sei
stato tu nemmeno a rubarla. Cosí mi ha spiegato un
avvocato a cui mi sono rivolta, dopo aver venduto l’ultimo
prezioso che mi rimaneva: la fede d’oro che mi ponesti al
dito il giorno del nostro santo matrimonio».
Il ragionamento fila, signor direttore: dal momento del
mio mancato arresto sono stato nella pratica impossibilità
di ricollocare al suo posto quel gioiello dell’architettura,
frutto di un genio incomparabile e caro ad ogni cuore
amante dell’arte; e se un altro ve l’ha riportato, un altro
l’ha rubato. Ma chi mi assicura che io non sia accusato di
complicità? Chi mi garantisce che la mia fuga non continui
ad apparire sospetta? Chi potrà mai giurarmi di sapere che
cosa pensa il giudice, nel segreto della sua mente, segreto
che ha a sua difesa tanti articoli del codice penale! Quello
stesso codice, signor direttore, nel quale non esiste un
articolo atto a trarre da questa situazione di crudele
incertezza il suo infelice, il suo disperato ma ossequioso
lettore
Modica Arnaldo.
Premi letterari

Prosegue con questo racconto, pubblicato su «Paese Sera» il 20 ottobre


1959, il filone satirico della produzione rodariana. L’arma della satira lo
scrittore continuerà ad adoperarla in pratica fino agli ultimi suoi scritti sia in
forme letterarie (si veda quanto pubblica su una rivista specificamente satirica
come «Il Caffè» di G. B. Vicari) sia in forme giornalistiche (su «Paese Sera»
Rodari fu per molti anni autore quotidiano del corsivo firmato Benelux).
Ma è ora di chiedersi quale rapporto si istituisca tra la produzione
umoristico-satirica, di cui si son viste già importanti prove, e la produzione per
ragazzi (novelle, filastrocche, ecc.). Una risposta esaustiva alla questione non è
possibile fornirla in questa sede. Ha bisogno di puntuali e numerose verifiche.
Tuttavia un’ipotesi, in buona parte già verificata, può essere avanzata. Ed è
questa. Non esiste tra l’una e l’altra produzione alcuna soluzione di continuità.
Le modalità trasgressive della vena ironica, umoristica e satirica costituiscono
il piú delle volte la «materia prima» che, trasferita in un ambito in cui
prevalgono i meccanismi creativi e fantastici del pensiero infantile e adattata
alle forme di questi meccanismi, dà origine al «prodotto finito» delle novelle e
delle filastrocche.
Se l’ipotesi di questo processo di trasferimento e adeguamento è vera, ciò
che di inafferrabile sfuggente aspecifico, rivela la produzione rodariana per
l’infanzia, trova un qualche elemento di riferimento sufficiente a spiegare –
credo – il superamento di alcune generiche componenti esortative e mimetiche
presenti nella prima produzione per ragazzi e il passaggio a forme creative piú
efficaci.
Non è a caso, infatti, la coincidenza temporale (fine anni cinquanta - inizio
anni sessanta) degli scritti satirici piú validi (ad esempio, questo Premi
letterari) che consentono allo scrittore di porre la lente di ingrandimento sulle
storture dei comportamenti umani e liberano un sorriso di ironia, con la ripresa
della produzione per l’infanzia (a partire dalle Filastrocche in cielo e in terra
pubblicate nel 1960 dopo un periodo di quasi silenzio durato otto anni).
È da aggiungere che, proprio a partire dai primi anni sessanta, la produzione
satirico-umoristica e quella per l’infanzia procederanno in parallelo, e l’una e
l’altra saranno caratterizzate soprattutto dalla ricerca delle possibilità di
scombinare l’ordine costituito delle/dalle parole e di ri-combinare ordini e
dimensioni nuove, reinventando mille stranianti usi del discorso.
La scena si svolge, purtroppo, nel salone di un albergo
dove sono riuniti i dodici autorevoli membri della giuria
di un importante premio letterario. Immagini il lettore
quanto siano autorevoli e che solenne dozzina compongano
intorno al tavolo a ferro di cavallo. Ma perché «purtroppo»?
Perché non siamo in grado di precisare se l’albergo si trovi
in Toscana, nelle Prealpi venete o in un centro di cura per
le malattie dell’età di mezzo. Dalle finestre giunge un
rumore d’acque: ma sarà il mare, saranno torrenti alpini
che scrosciano con impegno a valle, o saranno fontanelle di
acqua purgativa? Mistero. Chissà. La scena, comunque, si
svolge.
Il segretario del premio sta concludendo la sua relazione
introduttiva. Silenzio. Lo si ascolti.
– Questi, signore e signori, i cinque nomi pervenuti al
ballottaggio risolutivo. E tra i cinque, come del resto
abbiamo già fatto sapere alla stampa, non c’è dubbio che i
maggiori titoli al premio appartengono al Biscardini. Il suo
libro è di tutti il migliore: ciò è fuori discussione. Da anni
un libro simile non compariva nelle vetrine italiane...
– A proposito di anni, – interrompe un giurato, – quanti
ne ha questo Biscardini?
– Trentacinque.
– Trentaquattro, prego, – precisa arcigno un altro
giurato. – Farà i trentacinque in gennaio, ho assunto le mie
informazioni. Un ragazzo forte come un bue, salute di ferro,
entrature di prima classe dappertutto. Mi pare che
mettergli in mano i due milioni del premio, a quell’età,
sarebbe piuttosto imprudente.
– Effettivamente è un po’ giovane.
– Si dica pure un bambino. Non siamo mica un comitato
di patronesse dell’asilo d’infanzia. Io scarterei.
Il presidente afferra la proposta al balzo, ed
effettivamente balza in piedi:
– Benissimo, scartiamo Biscardini. E giacché ci siamo,
scartiamo anche gli altri quattro nomi della rosa finale, per
non fare torti. Secondo me (vivi segni di attenzione in sala)
il Biscarducci invece...
Sorpresa generale. Rumori vari. Commenti.
– Biscarducci? Nuota nell’oro, quello.
– Però gli manca una gamba.
– Se volete dire che scrive con un piede solo, sono
d’accordo. Ma da questo a meritarsi il premio... Oggi ci
sono ottimi apparecchi ortopedici.
– Un uomo di appena sessantatre anni, nel pieno della
sua maturità: ha forse bisogno di incoraggiamenti?
Scartare, scartare. Se proprio volete la mia opinione,
eccovela: Biscardetti. Biscardetti e nessun altro.
Nullatenente, enfisema polmonare, sei figli e suoceri a
carico; ho qui lo stato di famiglia.
– Già, e suo cognato è vicedirettore della casa editrice
Biscardella, – interloquí un maligno.
– Qualcuno vuol insinuare che io mi voglia creare dei
meriti con una casa editrice di second’ordine come la
Biscardella?
Scambio di battute irritate. Scampanellata del
presidente.
– Biscardetti, – intervenne il vicepresidente, – ha qualche
numero, non si può negare.
– Ha qualche cognato...
– Non alludiamo, via. Chi non ha un cognato, o anche piú
d’uno? Mi meraviglio piuttosto che non sia stato fatto finora
il nome di Biscardoni.
– Ha scritto qualcosa, nell’ultimo decennio?
– Forse qualche cartolina illustrata.
– Non è questo, – continuò il vicepresidente, – no, signori,
non si tratta di questo. Ma una vita intera spesa al
servizio...
– Dell’editore Biscardo, cugino del vicepresidente.
– Ah, ma si torna ad alludere e ad insinuare? Non ritirerò
la proposta Biscardoni per far piacere a un basso
calunniatore. Biscardoni, signori, ha tutti i titoli per essere
premiato: ha settant’anni e un reumatismo articolare acuto.
– Biscardesi ha un solo rene, e una prostata grossa
quanto un puncing-ball!
– Biscardutti ha la gotta, il pneumotorace a destra,
settantasette primavere sulle spalle. Ho qui i certificati
medici, e li sottopongo senz’altro all’esame del nostro
tecnico in gerontologia.
Il gerontologo riceve i certificati, li studia
accuratamente, li soppesa, li rilegge anche a rovescio,
dall’ultima parola alla prima, per essere ben sicuro che
nulla gli sfugga. La sua sentenza è sfavorevole:
– Può campare come niente altri cinque anni.
– E noi abbiamo, – trionfa un avversario di Biscardutti, –
altri cinque anni per premiarlo. Che fretta c’è? Intanto
magari scriverà qualche altro libro...
– Sí, una raccolta di ricette mediche.
– Signori, l’arte nobilita ciò che tocca. Forse una ricetta
medica è meno poetica di un rospo? Eppure, sul rospo,
Victor Hugo...
– Ah, caschiamo nell’avanguardia adesso. Victor Hugo,
bell’esempio.
– Calma, calma, – raccomanda il presidente, – torniamo a
bomba.
– Si potesse tornare magari anche solo alla bombetta...
– Colleghi, – esordisce un giurato che ha fino a questo
momento osservato un silenzio di pietra, – ho l’asso nella
manica. Un uomo, signori, caduto nella piú completa
miseria, dimenticato da tutti, rinnegato dai familiari,
raccolto dalla pubblica beneficenza in un ospizio di
mendicità, afflitto dalle principali malattie del cuore, delle
vie respiratorie, del tubo digerente, dei centri motori.
Morbo di Basedow (esibisce il certificato), morbo di Pott, di
Patterson, di Batterson e Matterson (esibisce i certificati).
Anni novanta, mesi quattro, giorni sette.
– Ma di chi parla?
– Solo Francesco Domenico Guerrazzi, se fosse vivo...
– Signori, vi ho parlato di Biscardellini. Aggiungerò che
egli è completamente sordo, da trent’anni non può scrivere
perché paralizzato, da venti non può dettare perché muto.
Signori, vi sfido a fare un nome che meglio di questo meriti
di essere scritto a lettere d’oro negli annali del nostro
premio.
La frase a effetto strappa qualche applauso. Piú d’un
giurato si soffia il naso, commosso.
– Voterò per Biscardellini, – mormora un giurato al suo
vicino, – ma voglio prima sapere chi sono i suoi parenti.
– Nasce benissimo.
– Non m’importa come nasce: per caso non è suo genero,
– e abbassa ancora la voce, – il direttore del settimanale
per le domestiche Occhiolini? Sta cercando uno che gli curi
la «piccola posta». Duecentomila al mese...
Il giurato che aveva l’asso nella manica incalza:
– In quest’epoca corrotta e proterva...
– Corrotta, capisco, ma perché proterva?
– Allude ai protoni. Adesso vanno di moda le rubriche
scientifiche, vorrà mettersi in mostra con Occhioletti che
dirige un rotocalco per i carabinieri in pensione.
– In quest’epoca di teddy boys, vergogna della nazione,
delle lettere e... ee...
– ... delle latterie?
Una visione di teddy boys in latteria attraversa la sala
dove la giuria, riunita, sta accordandosi per premiare
Biscardellini.
– Affrettiamoci, signori, – esorta ad un tratto il
presidente, – o premieremo un fantasma. Un telegramma
mi avverte che Biscardellini è stato colpito da un attacco di
morbillo.
– Non me ne importa un accidente, – urla il giurato che
aveva citato Victor Hugo. Un attimo di silenzio, poi tutti
prendono a urlare.
Ogni giurato sostiene il suo candidato picchiando i pugni
sul tavolo, e chi non ha un candidato da sostenere tiene
fermo il tavolo che minaccia di rovesciarsi sotto i colpi. La
zuffa si conclude con la vittoria di un giurato timidissimo
che propone di dare il premio a Biscardea, nato durante il
congresso di Vienna e già caro al marchese Gino Capponi e
a Raffaello Lambruschini, che da cinquantasette anni non
scrive una riga.
Troppo tardi si viene a sapere che Biscardea è morto
mezz’ora prima, e che il giurato proponente è il suo erede
universale.
Il giudice a dondolo

Apparso su «Paese Sera» il 19 gennaio 1960, questo racconto richiama, per


un analogo meccanismo creativo che attiva lo sviluppo della narrazione, la
novella Vado via con i gatti (in Novelle fatte a macchina, Einaudi, Torino 1973):
in entrambi i casi i protagonisti – un giudice e un nonno – decidono di
dimettersi dalle proprie funzioni e finanche da cittadini e da uomini.
Quando uno dà le dimissioni, sa come comincia ma
difficilmente immagina come andrà a finire. Il caso del
giudice M.T. è molto istruttivo in proposito. Tra i piú
favorevolmente noti di un piccolo tribunale di provincia,
M.T. cominciò a dare segni di preoccupazione all’epoca del
processo De Cosimis, un caso, piú che altro, pietoso. De
Cosimis era certamente colpevole e mai gli articoli del
codice penale erano riusciti a cucire tanto fermamente un
imputato alla sua sedia, fino a impedirgli il minimo
movimento di difesa: la requisitoria del pubblico ministero
lo schiacciò addirittura come un ragnetto. Non c’era che da
condannarlo, e M.T. lo condannò.
De Cosimis non ebbe la minima reazione: da una seduta
all’altra pareva diventato piú piccolo di almeno venti
centimetri. Mentre lo portavano via i suoi occhi, quasi
certamente contro la sua volontà, si posarono sul giudice, e
se M.T. in quel momento avesse guardato da un’altra parte,
se si fosse dedicato come il solito alla contemplazione di un
vetro rotto, e alle conseguenti riflessioni
sull’amministrazione della giustizia, non sarebbe successo
proprio niente: invece anche M.T. guardò De Cosimis, i loro
occhi si incontrarono, e come raramente avviene, ma pure
una volta o l’altra capita, M.T. fu completamente inghiottito
dallo sguardo umile e senza protesta del piccolo
condannato, cascò nei suoi panni da un attimo all’altro e
sentí che, a dispetto degli articoli di legge e del reato
sicuramente commesso, De Cosimis era il delinquente piú
innocente della terra.
La cosa durò pochi istanti, ma lasciò M.T. di umore
inquieto per tutta una settimana. Poi ci fu il processo
Abbiati: e anche questo imputato era cosí decisamente
colpevole eppure altrettanto ed assolutamente innocente e,
preso a sé, ripulito di quei pochi articoli di legge che gli si
erano appiccicati in faccia come macchie, non punibile, che
M.T., al momento di pronunciare la sentenza lasciò il
pretorio, si ritirò nel suo ufficio e scrisse su due piedi
(proprio stando in piedi, battendo con poche dita sulla
macchina da scrivere posata sul tavolo) una lettera di
dimissioni.
Ebbe cosí inizio la serie imprevedibile delle decisioni che
in breve tempo portarono il giudice M.T. fuori del consorzio
civile e addirittura, come si vedrà, fuori della specie umana.
Le dimissioni dalla magistratura, infatti, gli parvero ben
presto (la sera stessa, a letto, nella silenziosa camera della
sua pensione) insufficienti a liberarlo da tutte le sue
responsabilità. «Se in quanto privato cittadino, – egli
rifletté, seguendo le evoluzioni di un millepiedi tra
l’armadio e il lavandino, – non sono piú responsabile delle
sentenze del tribunale, rimango responsabile delle leggi in
base alle quali quelle sentenze vengono ogni giorno
pronunciate. Potrei impiegarmi in una banca, concorrere ad
una cattedra nel liceo comunale, cercarmi un posto in una
ditta, e con ciò? Le sentenze verranno pur sempre
pronunciate anche in mio nome. In nome del popolo».
La mattina dopo si presentò al comune e chiese di poter
dare le dimissioni da cittadino. Lí per lí il funzionario
addetto all’anagrafe interpretò la richiesta di M.T. come
una normale domanda per un trasferimento di residenza, e
solo con molta difficoltà si rese conto che l’ex giudice
intendeva, molto piú radicalmente, essere cancellato
dall’anagrafe di quel comune per non ricomparire in
alcun’altra anagrafe di quella o di altre province.
«Insomma, – esclamò, quando credette di aver compreso,
– lei vuol rinunciare alla cittadinanza, alla nazionalità?»
«A tutto, – precisò M.T. – Il piú presto possibile».
Il giorno stesso scrisse anche all’Onu, per annunciare la
sua decisione di ritirarsi dal consorzio umano. «Se ne
avessi i mezzi, – egli precisò, nella lettera di quattro
facciate indirizzata al Segretario generale, – emigrerei sulla
luna, o altrove. La cosa non è praticamente fattibile.
Giuridicamente, tuttavia, niente mi impedisce di assumere
da questo momento la cittadinanza del pianeta Plutone,
riservando naturalmente a quelle autorità la decisione
finale in proposito. Quel che mi preme è di scindere in toto
ed ex abrupto le mie responsabilità dalla razza umana».
Il caso fece scalpore, ma non fu rettamente compreso.
M.T. fu scambiato per uno di quegli utopisti che da un
giorno all’altro si professano «cittadini del mondo», mentre
egli proprio a questa cittadinanza stava rinunciando. La
scelta di Plutone fu giudicata una bizzarria.
M.T. scendeva invece con fredda ostinazione la china
delle dimissioni sulla quale aveva posato il piede
rifiutandosi di giudicare l’Abbiati. Sotto il pungolo di una
ragione inflessibile, decise ben presto che le sue dimissioni
dalla razza umana non avevano alcun senso fin che egli
continuasse a vestire aspetto, panni e calzature d’uomo. La
lettera che egli ci spedí in tal senso al giornale, col
particolare delle calzature, ci lasciò nel dubbio che M.T.
intendesse, da un momento all’altro, comparire in pubblico
completamente nudo e senza scarpe. Il direttore mi
incaricò di avvicinare M.T. e di chiedergli dei chiarimenti.
«Ad ogni buon conto, – egli mi disse, – portati un
fotografo. Se esce nudo, non starà in circolazione per un
pezzo. Avremo almeno una foto in esclusiva».
La cittadina in cui M.T. si era ridotto a vivere non distava
piú di un’ora di macchina, ma mi ci vollero poi tre ore
buone a scovare la sua abitazione, perché M.T. non aveva
dato indirizzo e nessuno lo conosceva. Non starò a
raccontare la nostra piccola odissea, e a riferire le
bestemmie del fotografo. Quando finalmente trovammo una
porta con un biglietto da visita su cui, sotto il nome
cancellato da due tratti di penna a sfera si leggeva «Ex
uomo», fummo certi di non sbagliare, e bussammo.
«Avanti», ci rispose una voce sonora e calma.
Entrammo. Nella stanza non c’era nessuno. Anzi, non
c’era quasi niente: un lettino, un tavolino e una sedia a
dondolo. La sedia dondolava, dondolava, come se qualcuno
se ne fosse appena alzato: ma non c’erano porte, se non
quella per cui eravamo entrati, e nessuno poteva essere
uscito dalla finestra, che era chiusa dal di dentro.
«C’è nessuno?», domandò scioccamente il fotografo.
«Lo vedi da te», dissi.
«Ci sono io», annunciò invece la voce calma di poco
prima. Veniva dalla sedia. Anzi, mi parve che il dondolio
della sedia si fosse fatto improvvisamente piú vivace.
«Sembra il film dell’uomo invisibile», disse il fotografo.
La voce calma rise: «Se le interessa di fotografare una
sedia a dondolo, s’accomodi. Però poi non ci si sieda. Sono
diventato una sedia da tanto poco, che ho paura di non
sapere come si fa a reggere le persone. Inoltre, dallo
scricchiolio delle mie giunture, ho l’impressione di non
essere troppo solido. O solida, scusate. Dovrò abituarmi
anche a parlare al femminile».
Uscimmo e richiudemmo la porta.
Teledramma

Altro tema ricorrente in Rodari la metamorfosi, la «cosizzazione» di un


personaggio. La tecnica è applicata per la prima volta in una novella del 1946,
La signorina Bibiana (pubblicata nel 1946 su «La Prealpina», quotidiano di
Varese, è stata recentemente riproposta nell’inserto Omaggio a Gianni Rodari
del periodico della federazione comunista di Varese «L’ordine nuovo», n. 3,
1980): la protagonista si perde in uno specchio e a causa della sua vanità,
secondo una sorta di legge del contrappasso, diventa cosa inanimata.
Nel 1960, e anche prima se si considerano le date di stesura, il tema della
metamorfosi è ripreso in due scritti, un racconto e una filastrocca, che hanno lo
stesso titolo, Teledramma. Su «Paese Sera» (2 febbraio 1960) Rodari pubblica il
racconto: protagonista è l’avv. Minerviano Marello che, attratto
irresistibilmente dal teleschermo, ci casca dentro. Verrà salvato perché pescato
da moglie, portiere e fuochista nel momento in cui sta per balzare da un
teleschermo ad un altro messo davanti al primo. Nella filastrocca omonima
(Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi, Torino 1972) è il figlio «studioso di
magnetismo» ad escogitare «un abile meccanismo», quello del televisore messo
davanti al primo in cui è prigioniero il dottore. E nel momento preciso | che
galleggia nell’aria, | piú veloce di gabbiano | o nave interplanetaria, | il figlio
elettrotecnico | svelto di mano e di mente, | spegne i due televisori |
contemporaneamente. | Cade il dottor per terra, | e un bernoccolo si fa: |
meglio cento bernoccoli | che perdere la libertà.
Come si vede, con l’evoluzione tecnico-scientifica, Rodari utilizza lo stesso
meccanismo narrativo e adegua la sua capacità inventiva ai tempi: non è piú
tempo di specchi e vanità di signorine Bibiane, è l’epoca di boom televisivo e di
«televisionite»: se non c’è il pericolo di trasformarsi in cosa inanimata come la
signorina Bibiana, esiste certamente il rischio di «perdere la libertà», la libertà
di pensare in autonomia di giudizio. Cosí, analogamente a quanto capita all’avv.
Marello, a trasferire Gip nel televisore sarà la «televisionite», una «terribile
malattia» cui non solo i bambini sono soggetti: «C’era proprio l’altro giorno sul
giornale – spiega il papà di Gip alla moglie – un articolo di un certo Rodari che
descriveva un fatto del genere, capitato ad un avvocato, ma un avvocatone, un
principe del Foro. Questo avvocato si era talmente appassionato alla televisione
che trascurava la famiglia, gli affari, la salute. Per lui non c’era che il televisore
[...]. Era una malattia, naturalmente» 1.

1. G. Rodari, Gip nel televisore e altre storie in orbita, Mursia, Milano 1975, p.
13.
L’avvocato Minerviano Marello acquistò un televisore il 6
giugno del 1957, il 7 giugno si fece impiantare l’antenna
sul terrazzo e da quel giorno fino al 23 dicembre del 1959
non perdette una sola trasmissione. Telequiz, teledrammi,
telefilm, telegiornali, balletti, rubriche scientifiche e
pubblicitarie, programmi per bambini, per agricoltori, per
massaie: tutto lo interessò, lo affascinò, lo inchiodò per ore
e ore sulla poltrona. Perdette molte amicizie, ma non un
solo «intervallo», non una sfilata di pecore o una visione di
cascate. Non lasciava il suo posto nemmeno quando sul
video compariva, in italiano o in lingue diverse, a seconda
che si trattasse di un programma nazionale o di
un’eurovisione, l’annuncio che la trasmissione era
interrotta per cause atmosferiche, o tecniche, o d’altro
genere. Il teleschermo lo ipnotizzava, lo attraeva
irresistibilmente, e la sera del 23 dicembre scorso lo
attrasse al punto che egli ci cascò dentro tutt’intero.
La moglie, sopraggiunta per avvertirlo che la cena era in
tavola, trovò la poltrona vuota e suo marito che la chiamava
dal video:
– Rosa! Rosa!
– Che fai là dentro?
– Ci sono cascato, e non so piú come uscire. Scomparve
per un attimo dietro un siparietto (era in onda
«Carosello»), riemerse dietro una parete di dadi da brodo e
implorò:
– Telefona a qualcuno.
La signora Rosa telefonò per prima cosa a sua madre,
che però non seppe darle consiglio. Intanto anche i figli
dell’avvocato, il geometra Roberto e la dottoressa Maria
Grazia, erano rincasati e si erano messi a ridere.
– Disgraziati, – inveí Minerviano.
– Abbi pazienza, – disse la signora Rosa, – ora chiamo
l’elettricista.
Nemmeno l’elettricista, però, aveva mai avuto esperienza
di casi del genere. Disse che avrebbe tentato di rintracciare
il tecnico della ditta, ma che con ogni probabilià quello non
si sarebbe mosso prima della mattina seguente.
L’avvocato si dispose dunque a trascorrere la notte nel
televisore. La signora Rosa, prima di andare a letto, fece
macchinalmente l’atto di girare la manopola
dell’accensione, ma il marito la fermò con un urlo:
– Sei pazza? Se spegni mi sai dire dove finisco?
La povera signora non riuscí a dormire. Ogni tanto si
alzava, infilava vestaglia e ciabatte e andava a controllare
se Minerviano era sempre là. Difatti era là, piuttosto
ingrugnato, e nemmeno lui riusciva a prender sonno.
– Avessi almeno un libro giallo, – borbottava,
passeggiando avanti e indietro in quei ventun pollici di
spazio.
La mattina dopo venne il tecnico della ditta, ma non
seppe dare un suggerimento di qualche utilità. Al contrario,
finí col provocare l’irritazione generale proponendo di
cambiare la valvola termoionica: si sa che un tecnico
qualche pezzo da cambiare lo trova sempre.
Verso le dieci arrivò il primo cliente e l’avvocato Marello
lo ricevette dal teleschermo, gli dettò il testo di un esposto
al tribunale, gli fece cercare sugli scaffali un fascicolo della
rivista giuridica che gli occorreva, agitandosi perché
quello, poco esperto, durava fatica a trovarlo, e gli fece
lasciare i soldi sulla scrivania. Per fortuna, essendo la
vigilia di Natale, i clienti erano scarsi. Altra fortuna, tutta
gente discreta, che non fece chiacchiere, sicché la notizia
del dramma dell’avvocato Minerviano Marello rimase
circoscritta alle pareti domestiche.
Le feste di Natale e di Capodanno passarono in una
atmosfera di nervosismo che fece andare di traverso lo
spumante alla signora Rosa. La poveretta, per cominciare,
si preoccupava che il marito potesse morire di fame, e
anche quando fu chiaro che l’avvocato non aveva alcun
bisogno di cibo o di bevande per sopravvivere là dentro,
ogni boccone era per lei veleno. Discussioni a non finire: e
come si fa, e come non si fa, e che cosa succederà, e cosí
via. Il guaio era quando, nelle ore di trasmissione,
bisognava sentirsi attraverso il fiume delle musiche, delle
canzoni, delle conversazioni, dei giornali parlati, eccetera.
Se si abbassava il volume, anche la voce dell’avvocato si
affievoliva fino a scomparire; e se si alzava, bisognava
aspettare gli intervalli per parlarsi con calma.
Il 3 gennaio Minerviano fece il diavolo a quattro perché
si comprasse, intanto, un altro televisore. Là dentro si
annoiava a morte, le ore non passavano mai, e perdeva tutti
i programmi, perché con la televisione sentire senza vedere
è peggio che la tortura, e lui, essendo proprio in mezzo ai
programmi, non vedeva niente. Il geometra Roberto e la
dottoressa Maria Grazia, con l’intolleranza dei giovani, si
opponevano all’acquisto.
– Quel che è successo non ti basta, – gridavano, – non ti
ha guarito dalla tua mania.
– Cosa volete che mi succeda di peggio? – ribatteva a
pieno volume l’avvocato. – E poi sono vostro padre. Il sale e
il sapone che consumate li pago ancora io.
Fu la signora Rosa, con le lagrime agli occhi, a decidere
per il secondo televisore. Lo mise proprio davanti al primo,
a specchio, girò la manopola dell’accensione e sospirò.
– Vedi bene, Minerviano? – domandò con dolcezza.
L’avvocato non fece in tempo a rispondere. Con tale
avidità aveva fissato gli sguardi sul nuovo teleschermo, che
subito ci schizzò dentro, balzando dall’uno all’altro come un
oggetto che lasci una calamita per un’altra di maggior
forza. Difatti il nuovo televisore aveva lo schermo
panoramico.
– Minerviano, dove sei? – gridò la signora Rosa.
– Sono qui, cretina, dove vuoi che sia?
– O Madonna santa, che paura.
– Sta attenta, adesso, – continuò Minerviano, preso da
una improvvisa eccitazione. – Chiama il portiere. Digli che
porti su anche un paio di giovanotti un po’ robusti.
– Che cosa vuoi fare, per carità?
– Sbrigati, – strepitò l’avvocato, – fa come ti dico e non te
ne incaricare.
Mentre parlava, schizzò di nuovo da un teleschermo
all’altro, attraversando a volo il salotto.
– Prima spegni quell’accidente, – ordinò, – altrimenti non
mi riuscirà di star fermo un minuto.
La signora Rosa spense il televisore, regolò le manopole
di quello in cui Minerviano passeggiava, tormentandosi il
mento con una mano, nell’atteggiamento di chi stia
riflettendo profondamente, e corse a chiamare il portiere.
Per combinazione c’era in portineria in quel momento il
fuochista addetto alla caldaia del riscaldamento centrale, e
salí anche lui. Aveva riflessi un po’ lenti e Minerviano patí
le pene dell’inferno a fargli capire le sue istruzioni. I primi
tentativi, anzi, andarono a male.
Era stato acceso anche il secondo televisore. Minerviano
balzò un paio di volte da un teleschermo all’altro, in preda
alle due opposte attrazioni. Al terzo tentativo, finalmente, il
portiere e il fuochista riuscirono ad afferrarlo per le braccia
mentre attraversava l’aria, la signora Rosa fu lesta a
spegnere contemporaneamente entrambi i televisori, e
l’avvocato Minerviano Marello cadde sul tappeto dello
studio-salotto boccheggiando. Prima ancora di rialzarsi
regalò un televisore al portiere e l’altro al fuochista. Ma i
due, in seguito, si guardarono bene dal fargli sapere che lo
stesso giorno li avevano venduti, il primo in cambio di un
motoscooter, il fuochista per comprare alla moglie un
frigorifero.
Il discorso inaugurale

Pubblicato su «Paese Sera» il 16 settembre 1960, costituisce una delle cose


piú gustose e meglio elaborate del filone satirico rodariano. Siamo ormai
decisamente in una seconda e piú matura fase dell’attività di Rodari, la sua
scrittura si è liberata dei compiti rappresentativi e mimetici. Qui la realtà è
adoperata soltanto a sollecitare gli strumenti di una scrittura che gioca e
giocando mostra le insensatezze del «già dato». Rodari inventa un vorticoso
girotondo linguistico intorno al conformismo parolaio del «discorso
inaugurale»: all’uso incartapecorito e sciocco di un «mazzo» di parole oppone
un agire straniante della «parola»; prende il «mazzo», lo mischia, lo rimescola,
ne scombina l’ordine e, come un esperto prestigiatore della lingua, ne fa uscire
dieci, cento, mille possibilità d’uso. Allora, le parole riescono finanche a
produrre fantasiose formule matematiche o fisiche o chimiche.
– Signor presidente, – esordí il ministro.
– Signore, – aggiunse il ministro.
– Signori, – concluse per il momento il ministro. Quasi tutti
fecero silenzio e alcuni si misero anche le dita nel naso. Il
ministro proseguí:
– Mi era stato rispettosamente suggerito da taluno dei miei
segretari di premettere al discorso che andrò a pronunciare
l’efficacissimo preambolo della allocuzione con cui, il 27
gennaio 1932, inaugurai la storica fiera dei polli di
Massafiscaglia, mentre persone a me legate da lunga e
affettuosa parentela avrebbero preferito vedermi scegliere i
primi due periodi dell’orazione da me detta, or fanno tre anni,
nella nobile città di Ascoli Piceno, scoprendovisi il busto
dell’entomologo di chiarissima fama dott. professor N. H.
Gualtiero Pisani-Pisanetti, nel cinquantenario della morte della
sua balia.
Vi confesserò signori, che non ho tenuto conto alcuno di tali
consigli.
I numerosi lustri di ininterrotta permanenza nei governativi
Gabinetti mi hanno consentito di accumulare nei miei archivi
trentatre discorsi completamente dattiloscritti a spazio doppio,
ognuno dei quali è divisibile in diciotto elementi autonomi e
automobili, per un totale di cinquecentonovantaquattro
elementi liberamente componibili come i frammenti di una
tenia per formare nuovi discorsi. Quante diverse combinazioni
di diciotto elementi cadauna sono possibili con la suddetta
disponibilità di elementi numero cinquecentonovantaquattro?
Al sottile quesito il mio segretario particolare si sforzò di dare
una risposta applicando la formula:
n. x (n – a) piú l’on. Togni Giuseppe
18 x l’on. Pella Giuseppe

con la quale ottenne l’ambiguo totale di


antamilasettecentoanta, che mi lasciò notevolmente freddo.
Il gabinetto di analisi matematica dell’università di
Settecamini, da me all’uopo interpellato, applicò invece la
formula:

n fattoriale
a)
c fattoriale (n – c) fattoriale

Dando gratuitamente e generosamente a «n», che mi era


stato raccomandato dal mio sottosegretario, a nome di
monsignor Fiorenzo Mattoni, il valore di 594 e a «c» il valore di
18, si ottenne con estrema facilità, e senza colpo ferire:

594 fattoriale
b)
18 fattoriale (594 – 18) fattoriale

Questo primo successo, oltre a galvanizzare le energie dei


ricercatori, permise di togliere di mezzo un gran numero di
fattoriali, che furono abbandonati al loro squallido destino.
Nessuno li degnò di una lagrima.
(Voci: Bene!)
– L’iter della pratica si presentava ora alla nostra mente con
chiarezza solare, anzi oserei dire, nel quadro delle nostre
migliori tradizioni mediterranee:

c) 577 x 578 x 579 x 580 x 581 x


582 x 583 x 584 x 585 x 586 x
587 x 588 x 589 x 590 x 591 x
592 x 593 x 594
1x2x3x4x5x6x7x8x9
10 x 11 x 12 x 13 x 14 x 15 x 16
17 x 18
Il citato gabinetto, purtroppo, non disponeva né di una
calcolatrice elettronica né di un efficiente pallottoliere. Le
operazioni dovevano essere eseguite tutte a mano e a matita, su
carta vergatina formato 18 x 24. Si assunsero il delicato
incarico sette allievi dell’esimio professor Rodolfo Caprini-
Capretti-Cerotti di San Babaleo. Fedeli al motto dei padri,
«divide et impera», gli audaci si divisero tra loro le
moltiplicazioni: conquistarono d’assalto le trincee dei prodotti
parziali, li sommarono tra loro con grande sprezzo del pericolo,
e all’alba di una smagliante domenica di primavera, carica di
auspici per i destini della patria e della fede, ottennero il
risultato finale.
In cifre, signori: 79.450.745.379.459.
In lettere: settantanove trilioni, quattrocentocinquanta
miliardi, settecentoquarantacinque milioni,
trecentosettantanovemila quattrocentocinquantanove. Trascuro
i decimali: li lascio all’opposizione.
(Applausi scroscianti. Voci: – Cosí si difende l’Occidente dal
comunismo!)
Tale, o cittadini, è il numero dei discorsi prefabbricabili a mia
disposizione: l’uno diverso dall’altro, dal primo all’ultimo
ugualmente privi del minimo significato. Essi furono tutti
rigorosamente revisionati dal censore ecclesiastico e da lui
dichiarati consigliabili ai cittadini italiani d’ambo i sessi e di
ogni età, a qualsivoglia altitudine sul livello del mare, in tutti i
giorni feriali e festivi del calendario perpetuo. La mia esistenza
non basterà a dar fondo a un simile patrimonio oratorio: ho già
disposto per testamento che esso vada, dopo la mia morte, allo
Stato. Fin che ci saranno, in questa terra cantata dai poeti,
inaugurazioni, pranzi ufficiali, commemorazioni, ricevimenti,
festival del cinema o della viola da gamba, fiere del coniglio di
angora e dell’industria petrolchimica, cerimonie militari, civili o
religiose, nei secoli e nei millenni a venire, i discorsi
componibili con i miei 594 elementi copriranno il fabbisogno
degli oratori ministeriali e le superiori esigenze della nazione.
(Applausi)
– Stamane, signori, levatomi per tempo ed ascoltata la messa,
ho chiamato la mia fedele domestica, ciociara e analfabeta, e
l’ho pregata di scegliere i diciotto elementi necessari alla
composizione del discorso odierno. Essi sono caratterizzati,
nell’ordine, dai numeri: 7, 41, 48, 97, 321, 354, 371, 418, 440,
446, 449, 471, 491, 504, 520, 538, 549, 555. Ascoltate.
(A questo punto il ministro passò a pronunciare il discorso
propriamente detto). Indi proseguí:
– Ed ora, signori, dichiarando aperta la mostra internazionale
dello Strofinaccio da cucina pronuncerò con un bellissimo
crescendo ben venticinque parole con l’accento sull’a: libertà,
italianità, cristianità, umanità, bilateralità, antialonicità,
consunstanzialità, dabbudà, dicacità, elettricità, falpalà,
frugalità, guà, inamovibilità, civiltà, ossidabilità, parrocchialità,
stenoalinità, poziorità, preterintenzionalità, vicepodestà,
voracità, ministerialità, nominatività, babà, tarataratà,
parapunzipunzipà!
Seguirono applausi, congratulazioni a mano, per telefono, per
telegrafo, per espresso e per raccomandata con ricevuta di
ritorno.
Tra la folla che si allontanava adocchiai un signore anziano
che sogghignava come se si stesse raccontando, nel foro
interiore della sua coscienza, qualche barzelletta grassoccia.
– Magnifico discorso, vero? – lo attaccai tra ingenuo e
provocatorio. – Gli strofinacci da cucina dei cinque continenti
segneranno questo giorno «albo lapillo».
– Se non manderanno ai giornali una lettera di protesta, –
ridacchiò il maligno personaggio.
– È dunque cosí difficile accontentarli?
– In generale essi sono di bocca buona. Ma lei deve sapere,
gentile amico, che l’inaugurazione di stamattina non li
riguardava menomamente. Ha notato qualche traccia di
strofinaccio nei dintorni della cerimonia?
– No, – ammisi, impressionato, – ma devo confessare di non
aver effettuato ricerche particolarmente attente.
– Caro signore, sarebbe stato come cercare le forbicine per le
unghie nell’armadietto da bagno, dove notoriamente non si
trovano mai. Gli strofinacci non c’entrano piú dei tritacarne o
delle sonde cosmiche. Lei deve sapere che la scorsa settimana
Sua Eccellenza ha fatto conoscere alle autorità locali il suo
fervente desiderio di pronunciare, in questa città e in data
odierna, un discorso inaugurale. Purtroppo lí per lí non si trovò
niente da inaugurare: né una mostra, né un festival, né
un’opera pubblica, né una lapide commemorativa, né un asilo
per le pie cognate derelitte. Tutto era già stato
abbondantemente inaugurato. Delle prime pietre non parliamo:
ognuna di esse è già stata posata almeno una dozzina di volte in
posti differenti. Per non scontentare il ministro si è organizzata
ugualmente un’inaugurazione ufficiale: ma un’inaugurazione in
senso assoluto, quintessenziale, senza oggetto.
Un’inaugurazione astratta. La forma pura dell’inaugurazione.
L’arte per l’arte.
– Eppure ho visto il ministro tagliare un nastro...
– C’era qualcosa di là dal nastro?
– Ora che ci penso, c’era solo la banda.
– Vede.
– Ma il commovente accenno agli strofinacci?
– Un’espediente retorico, e anche un po’ demagogico. Per
guadagnare i voti delle donne. Gli è stato suggerito all’ultimo
momento dagli organizzatori della non-mostra. Ora vedremo
cosa ne penseranno gli strofinacci propriamente detti.
Poesia lepidaria

Con questa Poesia lepidaria il filone satirico, già piú volte segnalato, esce
dalla terza pagina dei quotidiani («l’Unità» e «Paese Sera») e fa la sua
apparizione in una sede certamente piú adeguata: sulle pagine della rivista «Il
Caffè» (n. 3, giugno 1961), diretta da G. B. Vicari, Rodari si trova in compagnia
di Borges, A. Bertolucci, L. Longanesi, ecc.
Rodari satirico presenta il suo biglietto da visita fin dall’inizio con il gioco di
parole «lepido/lapide»: il primo termine produce il titolo Poesia lepidaria, il
secondo dà il titolo a quattro dei cinque componimenti (Lapide seconda, Lapide
tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide quindicesima). Ma la coppia può
suggerire anche alcune riflessioni: sono lepidezze sulla morte; sono lepidezze
sul morto linguaggio delle lapidi; ecc. La Lapide seconda è stata inserita nella
raccolta Parole per giocare edita da Luciano Manzuoli con presentazione di T.
De Mauro e illustrazioni di F. Tonucci.
A quanto mi risulta, in una sola occasione due di questi componimenti
(Lapide quattordicesima e Lapide quindicesima) sono stati riproposti e
considerati per quello che in effetti sono. Cesare Vivaldi le inserisce nella sua
antologia Poesia satirica nell’Italia d’oggi (Guanda, Parma 1964).
Nell’introduzione al volume Vivaldi colloca questa attività di Rodari
all’interno di un filone satirico e grottesco della nostra poesia al cui capo sta
Palazzeschi. E questa «linea palazzeschiana» dove Rodari sta in ottima
compagnia insieme con Nelo Risi, Sanguineti, Fratini, Vollaro, ecc., è
caratterizzata – secondo quanto dice Sanguineti citato in Vivaldi – dal fatto che
«il margine d’ironia sia tornato ad essere [...] come già lo fu, nel nostro secolo,
in altre decisive e critiche svolte, condizione indispensabile per sfuggire ad un
gioco precostituito di forme e motivi».
Nelle «lapidi» è da notare, insieme al divertito gioco degli incastri di troppo
usati stereotipi linguistici, piú in generale la dissacrante trasgressione del
rigido codice linguistico commemorativo (quello delle lapidi ufficiali), che,
eredità di un’Italia patriotticamente savoiarda e fascista, ha attraversato i
tempi conservando forme lessicali e sintattiche di assoluta fissità e
conformismo.
Nell’altro scherzo umoristico-ironico, Metamorfosi, risultano prevalenti gli
accenti di satira politica. Protagonista è il dc Tambroni che, impegnato in un
inarrestabile processo di sublimazione politica, finisce per accomunare in sé i
titoli eccelsi di «Padre della Patria» e di «Cupola di San Pietro».
Lapide seconda

A QUESTA PORTA
IN SEGUITO

A INFORMAZIONE INESATTA
BUSSÒ NEL QUATTORDICI

IL RAGIONIER FEDERICO
GIOBATTA
DA PORTOFINO

DIMANDANDO DI GIACOMINO
SOLERTE E SEVERA

RISPONDEVAGLI PORTIERA
NESSUN GIACOMINO QUI RISIEDE
NÉ MAI RISIEDETTE

NÉ MAI RISIEDERÀ
RAGIONÒ IL RAGIONIERE

NON SI PUÒ MAI SAPERE

CHI VIVRÀ VEDRÀ

Lapide tredicesima

IN DATA 3 MARZO 1961

A SEDICI ORE
SALVO ERRORE

E SARVOGNUNO
DA QUESTA FINESTRA IMPRUDENTE

SPORGEVASI IN VESTAGLIA
LA MAESTRA ENRICHETTA TRAVAGLIA

IL FREDDO PUNGENTE
PUNGEVALA AL PUNTO

DA FARLE ESCLAMARE
BRRRR

CON QUATTRO ERRE MOSCE


LA SERA ISTESSA SUL LUNGOMARE
PERDEVA LE GALOSCE
Lapide quattordicesima

NELLA SALETTA RISERVATA


DI QUESTA ANTICA E RINOMATA

EX CASA DI TOLLERANZA
ORE SERENE E DI SUA VITA FORSE

LE PIÚ DOLCI

FRA L’AUTUNNO DEL ’35


E L’ESTATE DEL ’58

TRASCORSE
CARLO EMANUELE FELICE

FILIBERTO FRANCALANZA
PROFESSORE DI STORIA E FILOSOFIA

NEL CIVICO LICEO SAN


GEREMIA
CONTEMPLÒ APPREZZÒ FREQUENTÒ

AMÒ

SECONDO LA QUINDICINA
GINA MARTINA LA MORA LA TOPOLINO
LILIANA ANNALISA LA ROSSA
GELSOMINA
LA PESCATORA LA BADESSA CLOTILDE
MARIANNA LA ZINGARA LUANA LILÍ WALLY

NELLY MOLLY MARÍ LA LUNGARA

LA LUPA DI FERRARA
CON TUTTE CORTESE DI MODI DI MANCE

GENEROSO
SPIRITO ELETTO

TENEVA LE SCARPE A LETTO


Lapide quindicesima

SU QUESTO IMPERVIO RAMO


A GUISA DI CINCIA PETTIROSSO PICCHIO

ALLA BELLA STAGIONE


APPOLLAIATO

OLTRE OSTIL CANCELLETTO


APPETIVA LA RUBESTA DOMESTICA
DELL’UFFICIAL SANITARIO

BERTO ADALGISO ETELREDO


CALIMERO SALTICCHIO
DETTO IL SORCETTO

GIOVINE DI BUONA VISTA


E DI SALDO GARRETTO

E IN ATTESA DEL SOSPIRATO SEGNALE

A MEZZO DI PEZZUOLA O STROFINACCIO DA CUCINA

A SUO AGIO MEDITAVA


SUI SEGUENTI

ARGOMENTI
IL PREZZO DELLA BENZINA

L’ARTE DEL CAVADENTI

LE POPPE DI PALMINA
LA DOMENICA DELLE PALME

IL PESO DEL RISO IL SABATO DEL VILLAGGIO

L’AVVENIRE DEL GIARDINAGGIO

L’EQUIPARAZIONE TARIFFARIA
AL PENSOSO AMATORE
FU LEGGERA

L’ARIA

Metamorfosi

TRASFORMAZIONE DI QUESTO IN
QUELLO
DI UN FILODRAMMATICO IN UN FILUGELLO
DI UN CAVALLO A DONDOLO IN UN CAMMELLO
DI UN VESPILLONE IN UNA SPILLA DA BALIA DI TAMBRONI NEL
RE D’ITALIA DI UN PAIO DI FORBICI IN UN CRITICO D’ARTE
DEL GENERALE DE GAULLE IN NAPOLEONE BONAPARTE
DI UN ANEDDOTO NAPOLEONICO IN GOAL
DI TAMBRONI NEL GENERALE DE GAULLE
DI UN TELEFONO A GETTONI IN UN ASCENSORE
DI DUE CAVALIERI IN UN SOLO COMMENDATORE
DI UN ALBERO DI TRASMISSIONE IN UN ALBERO DI MELE
DI TAMBRONI NELL’ARCANGELO SAN MICHELE
DI UN ASINELLO SARDO IN UNA VIOLA DEL PENSIERO
DI TAMBRONI NEL FONDATORE DELL’IMPERO
DI UN QUESTURINO IN UNA COLOMBA PASQUALE
DI TAMBRONI NELLO STEMMA DELLA BANDIERA NAZIONALE
DI UN IPPOPOTAMO IN UN OTORINOLARINGOIATRA DI TAMBRONI
NEL PADRE DELLA PATRIA DI UN CAPPELLO DA PRETE IN UN
PORTACENERE DI VETRO
DI TAMBRONI NELLA CUPOLA DI SAN PIETRO
Favole minime

Nella produzione rodariana esistono aspetti scarsamente conosciuti. Uno di


questi riguarda, come si è già messo in rilievo, l’attività di scrittore e poeta
umoristico e satirico. Si tratta di un vero e proprio filone che comprende
scherzi in versi, racconti umoristici, cronache fantastiche, ecc.; scritti quasi
totalmente dimenticati in quanto affidati alla precarietà delle pagine di
quotidiani (soprattutto «Paese Sera») e di riviste. Accenti e toni di una satira
essenziale e incisiva Rodari adopera nelle Favole minime, pubblicate su «Paese
Sera» in tre puntate (6 febbraio 1961, 14 marzo 1961 e 23 gennaio 1962). Sono
brevi apologhi appartenenti ad un genere letterario estraneo alla tradizione
culturale italiana e per questo tanto piú apprezzabili. L’alta moralità che le
sorregge e l’impasto di irriverenza e di fantastico, di gusto surrealistico
dell’immagine e volontà dissacratoria dei moralismi stupidi fanno venire alla
mente il Gadda del Primo libro delle favole e il Saba delle lapidarie note di
Scorciatoie e raccontini. In questi apologhi, con ironia ed amarezza, Rodari va
a colpire gli errori e le distorsioni di una falsa razionalità, i sofismi di una
ragione troppo sicura di sé, i ragionamenti solo apparentemente logici. Si
prende gioco e mostra la fallacia di quella «sapienza» che già Aristotele chiamò
«apparente ma non reale» e che ancora oggi, assunti i panni della cultura
borghese, appiattisce la conoscenza al comune buon senso e riduce la ricerca
del bene e della felicità ad un’immediata utilità pratica. Oppure, sono svelate e
demistificate le false fughe verso la libertà e i falsi miti della felicità dietro
l’angolo: «Una marionetta scappò dal teatrino per amor di libertà. Però si era
dimenticata di tagliarsi il filo che le cresceva in testa e non capitò mai in un
posto dove non ci fosse qualcuno pronto a farla ballare a suo piacere. Si può
anche scappare lontanissimo, è facile, ma piú difficile è tagliare veramente la
corda». È significativo che a protagonisti di questi «sonni della ragione»
vengano assunti l’Anziano Proverbio, l’«uomo di neve», la «marionetta», ecc.,
figure ricadenti tutte, in un modo o in un altro, nell’area della cultura borghese.
Per il comportamento distorto rispetto ai meccanismi della razionalità questi
personaggi si collegano ad un per nulla improbabile «zio Toni», uno zio
«abbastanza importante» che, in seguito alla ripetuta coincidenza tra la morte
dei tre figli e lui che gira la polenta, conclude: «Tristo! Tutte le volte che faccio
la polenta mi muore un figlio! Basta polenta!» 1.

1. Il personaggio è ricordato nel Poscritto 4: storie di famiglia al capitolo IV di


G. Rodari, C’era due volte il barone Lamberto, Einaudi, Torino 1979 (edizione
scolastica).
Un pidocchio, dopo aver passato l’inverno sulla testa di
un celeberrimo scienziato, confidava agli amici: – Niente di
speciale: proprio un posto come gli altri.
Le teste fine non bisogna lasciarle giudicare ai pidocchi.

– A me un sasso, a me un sasso, – gridava un tale.


– Che cosa ne vuol fare? – gli fu chiesto.
– Darmelo in testa.
– Col cappello o senza?
L’uomo apparve titubante. Quindi decise: – Datemi un
aperitivo.
– Col seltz o liscio?
Quando si prende una decisione bisogna essere pronti a
prendere anche la seconda.

Un cassiere di banca rubò la cassa, fuggí all’estero e


visse felice e contento fino a tarda età. Un altro cassiere
scappò con un’altra cassa: fu subito preso e messo in
prigione. Fuggire non è ancora niente: bisogna anche saper
fuggire «in fuori», invece che «in dentro».

Un nome e il suo cognome litigavano per la precedenza.


Risolse la querela l’impiegato dell’anagrafe, scrivendoli
attaccati.
La terza via è sempre quella sbagliata.
– Non voglio aver niente a che fare con l’acqua, –
pensava il pesce rosso nella sua vaschetta.
Era un perfetto apolitico.
– Posso dar fuoco a un pagliaio, – si vantava un
fiammifero, – posso incendiare un deposito di benzina, un
ministero, un museo etrusco.
– Perché non dici che puoi accendere il gas per far bollire
la minestra?
Ci vantiamo sempre delle cose peggiori.

Fu cambiato l’ordine degli anelli, ma la catena rimase


una catena.

– Pronto?
– Pronto. Chi parla?
– Non saprei. Lei chi è?
– Non ricordo.
– Chiediamo al centralino?
– Ma no, lasci perdere: fingiamo di essere qualcuno. Lo
fanno in tanti.

Fiducioso nei proverbi cinesi un tale si sedette sulla riva


del fiume ad aspettare che passasse il cadavere del suo
nemico: vide invece passare l’anima del suo nemico che
andava in paradiso mostrandogli la lingua.

Una cicala cantava su un cipresso del Verano.


– Disgraziata, – la rimproverò il becchino, – non hai un
po’ di rispetto per i morti?
Ma va’ a sapere che cosa può far piacere ai morti.

Un tale, di spirito vendicativo, se la legò al dito. Ma il


dito era troppo fragile e si spezzò. Allora se la legò a un
piede, e camminava zoppo. Rinunciò a vendicarsi e andò
incontro al suo offensore con un sorriso amichevole. Cosí si
prese un pugno sul naso.

Un cane scendeva dalla ionosfera attaccato a un


paracadute. – Vedo, vedo, – commentò un’aquila, – porti
l’ombrello perché hai paura che piova.
C’è sempre il modo di evitare di dichiararsi battuti.

– Facciamo società insieme? – propose la lepre al leone.


– Facciamola.
– La chiamiamo società delle lepri?
– Chiamiamola cosí.
– Ma allora bisogna che ti tagli la criniera.
– Me la taglierò.
– Inoltre, non si può far parte della società delle lepri con
quegli artigli.
La storia non dice in quanti bocconi la lepre si mangiò il
leone.

Un tale trovò nel suo uovo di Pasqua un portachiavi. Ci


attaccò le sue chiavi e cosí le perdette tutte insieme invece
che una per volta. La vera sorpresa è sempre quella che
viene dopo.

Un tale era cosí buono che gli portarono via il burro dal
pane, il pane dal piatto, il piatto dal tavolo e il tavolo dalla
stanza. Ridotto sul lastrico, cosí si consolò: – Tanto, il burro
mi fa male.

– Non c’è piú entusiasmo, – borbottava il moralista, – non


c’è piú fede: siamo tutti stanchi, stufi e quasi morti.
A un palmo dal suo naso, su un ramo, febbraio faceva
spuntare le prime gemme. La vita ha risorse che i moralisti
non riconoscono, perché hanno rotto con lei i rapporti
diplomatici.

Una ciabatta scompagnata cercava la sua anima gemella


in un immondezzaio. Non è un’allegoria: a richiesta
forniremo l’indirizzo dell’immondezzaio.
– Voglio scendere ora, è mio diritto, – strillava il
passeggero. Scese dalla nave in alto mare e annegò.
Quando ti imbarchi, devi arrivare in porto.

Processata per un furto di polli, cosí si difendeva la


volpe: – Ho un alibi di ferro, stavo in un altro pollaio.
– E i testimoni?
– Li ho mangiati.
Gli imputati, a volte, sono innocenti perché sono
colpevoli.

Quest’anno, nella città di X, il carnevale è stato piú


divertente del solito, perché la gente, invece di mettersi la
maschera, se l’è tolta.

Il professor Y. Z. K. studiò tanto che la testa gli fumava:


la gente sospettò un incendio, mise mano alle pompe e lo
affogò. Non basta essere utili al prossimo: bisogna anche, e
purtroppo, evitare di sembrare pericolosi.

Un orso andò al mercato per vendere la propria pelle. E


difatti la vendette. E che guaio, quando gliela levarono. La
vedova e gli orfani, uno strazio. Tu credi di vendere solo
un’unghia, e perdi la tua vita.

Un tale aveva due lingue intercambiabili: una per dire la


verità, una per dire le bugie. E non si riusciva mai a capire
quale lingua avesse in bocca.

– Non c’è niente di nuovo sotto il sole, – disse un vecchio


Modo Di Dire.
– Accade in un’ora quel che accade in cent’anni, – ribatté
un Proverbio Ottimista. Il povero Modo Di Dire, per la
sorpresa, cadde in desuetudine e morí.
Un uomo di neve non era del tutto soddisfatto di se
stesso. – Mi manca, – si lagnava, – una pipa in bocca. Chi mi
mette una pipa in bocca? – Ma nessuno gli dava retta. Con
l’avanzare del sole, l’uomo di neve cominciò a sciogliersi. –
Ecco, – piangeva, – sto morendo dal dispiacere perché
nessuno ha voluto regalarmi una pipa. E infatti si liquefece
dalla testa ai piedi.
C’è anche chi crede di morire per una cosa e muore per
tutt’altra.

Un topo di biblioteca trovò un gatto in figura e lo


rosicchiò dai baffi alla coda.
– Tutto qui? – disse poi. – Non avrò mai piú paura dei
gatti: si lasciano divorare senza azzardar protesta, e per
giunta sanno solo di carta straccia.
Poco dopo lo studioso roditore s’imbatté in un gatto in
carne ed ossa, che ne fece un boccone. Non prima di
avergli sussurrato dolcemente all’orecchio: – Vedi? Era
meglio se studiavi un tantino anche dal vero.

Un semaforo impazzí e segnava sempre rosso.


Automobilisti e pedoni attraversarono l’incrocio senza
dargli retta.
– Fermi, – strillava il semaforo, – fermi tutti! Chi è che
comanda, qui? Non conoscete le leggi?
Quando le leggi cessano di essere utili, sarebbe da pazzi
rispettarle.

Una penna senza inchiostro e una matita senza punta si


abbracciavano in lacrime: – Ahinoi, la nostra ultima ora è
venuta, la dolce vita è finita. O tragedia.
Un bambino mise altro inchiostro nella penna, rifece la
punta alla matita e disse loro: – Vi basta davvero poco per
disperarvi –. Ogni tre disperazioni, almeno due sono
sciocche.
Un foglio di carta si vantava di essere bianco
immacolato. E non sarebbe stato meglio per lui e per tutti
se un Dante Alighieri lo avesse sporcato d’inchiostro,
scrivendoci qualche bella terzina, o una bella ragazza
scrivendo una lettera d’amore?
La vita, un pochino, sporca, si sa.

Un inventore fabbricò una macchina che distribuiva


sogni piacevoli a gettone. Nel paese dei cattivi sarebbe
stato arrestato e condannato all’ergastolo. Nel paese dei
buoni avrebbe fatto quattrini a palate. Si domanda al
lettore: di quale paese vorreste la cittadinanza?

Un asino desiderava diventare un uomo. Si tagliò la coda


e domandò agli astanti: – Sono come un uomo?
– Quasi, – gli risposero. – Dovresti tagliarti anche le
orecchie.
– Ecco fatto. E adesso sono un uomo?
– Quasi, – gli dissero di nuovo gli astanti. – Ti mancano le
scarpe e la cravatta.
Comunque, l’asino acquistò celebrità fra i suoi perché
era «quasi» riuscito a diventare un uomo. Per far parlare di
sé non bisogna avere paura della parola «quasi».

– Di notte tutti i gatti sono bigi, – disse un Anziano


Proverbio.
– Ed io sono nero, – miagolò un gatto nero dal tetto.
L’Anziano Proverbio morí di crepacuore. E i suoi parenti
furono piú di prima convinti che i gatti neri portano
disgrazia.

È difficile intendersi. Da noi le bugie fanno allungare il


naso; nel paese degli elefanti, al contrario, fanno accorciare
la proboscide. Cosí succede che noi prendiamo per bugiardi
gli elefanti con la proboscide lunga, lunghissima, che
invece sono innocenti e schietti come il vino buono, e ci
fidiamo di quegli altri, che sono falsi come l’olio d’oliva.

Un tale trovò sul pavimento, in un bar, un biglietto che


diceva: «Vada subito in via Jenner». Corse in via Jenner e
trovò un altro biglietto che diceva: «Vada in piazza
Navona». Prese un taxi e volò in piazza Navona, ma non ci
trovò piú nulla. Finita la storia.

Una marionetta scappò dal teatrino per amor di libertà.


Però si era dimenticata di tagliarsi il filo che le cresceva in
testa e non capitò mai in un posto dove non ci fosse
qualcuno pronto a farla ballare a suo piacere. Si può anche
scappare lontanissimo, è facile, ma piú difficile è tagliare
veramente la corda.

Rifletteva un ombrello: – Però non è giusto, mi bagno


sempre dalla parte di sopra.
Lo sciagurato avrebbe voluto che piovesse anche dal
marciapiede in su.

Un filosofo angosciato si ritirò sul Monte Bianco a


meditare su questo problema: – La salvezza dell’umanità
dipende da un messaggio che un muto deve trasmettere
per telefono a un sordo.
Nelle vicinanze del filosofo sorse un albergo di prima
categoria e fece ottimi affari.

Molti guai del mondo dipendono dal fatto che si può


scrivere con una macchina da cucire, ma non si può cucire
con una macchina da scrivere.

Un famoso scienziato inventò la macchina per battere la


testa nel muro: se fosse stato un po’ meno famoso, o un po’
meno scienziato, ci sarebbero stati meno feriti all’ospedale.
– Io accendo una candela a Dio e una al diavolo, – disse
un opportunista.
– Io accendo una pila, – disse un elettricista.
– Io accendo la pipa, – disse un fumatore.
Consumate le candele, esaurita la pila, bruciato il
tabacco, non sapevano piú che fare e che dire e morirono.
L’universo è pieno di storie senza conclusione.

La bugia aveva le gambe corte e si affannava a scappare.


Voltandosi indietro, però, vide che la verità aveva una
gamba sola, e storta anche quella: allora si fermò a
un’osteria, mangiò, bevve allegramente e schiacciò un
pisolino.

Una gallina, guardandosi allo specchio, si chiedeva: – Chi


sono io? Per essere un leone mi mancano due zampe, per
essere una volpe mi manca quel certo sorriso, per essere
una pantera nera sono troppo colorita. Chi sono, chi sarò
dunque mai? Dove andremo a finire?

Per tutta la sua vita un serpente si sforzò, senza riuscirvi,


di passare attraverso la cruna di un ago. Venuto a morte
lasciò l’ago in eredità al figlio primogenito, e questo al suo
primogenito, eccetera. Cosí, nella famiglia dei serpenti, ce
n’è sempre uno che compie nobilmente un dovere inutile.

Un colonnello si innamorò della sua sciabola al punto che


la sposò. La portava a spasso per Toledo, facendole
ammirare le vetrine, le comprò una camicia da notte tutta
pizzi e se la metteva a letto. La poverina, che amava
segretamente un rasoio di sicurezza, arrugginí di
crepacuore.

Un tizio salí in cima al Colosseo e gridò: – Mi butto?


– Non è regolare, – gli fecero osservare i passanti. – Lei
doveva metterci il punto esclamativo, non il punto
interrogativo. Torni a casa e studi la grammatica.
Qualche volta un errore di grammatica può salvare una
vita.

Un topo, credendo che la nave stesse per fare naufragio,


si tuffò in mare. Ma la nave non affondava. Il topo la
inseguí a nuoto, protestando, e già pensava di fondare un
partito nuovo, ma un pescecane lo inghiottí.
Fondamenti di una fantastica

Con le due puntate del «manuale per inventare favole» (pubblicate su «Paese
Sera» il 9 e il 19 febbraio 1962) siamo in una fase importante della costruzione
della «Fantastica», che è – secondo Rodari – l’arte capace di individuare i
meccanismi dell’immaginazione creativa, della fantasia che agisce sulla realtà.
L’idea iniziale gli è suggerita dal «frammento» n. 1905 di Novalis: «Se avessimo
anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare».
Con l’espediente letterario del manoscritto ritrovato immagina che una
traduzione giapponese del «manuale» (autore un improbabile prof. Otto
Schlegel-Kamnitzer; con un titolo un po’ meno improbabile di Fondamenti di
una Fantastica, derivato – come avverte Rodari – dall’incrocio della kantiana
Fondazione di una metafisica dei costumi e del «frammento» di Novalis sopra
ricordato); dicevo, immagina che una traduzione giapponese dell’opera gli sia
stata consegnata da un giovane giapponese conosciuto a Roma, durante le
Olimpiadi. Perché proprio giapponese la traduzione? Certamente perché –
come suggerisce nella presentazione a Gip nel televisore – gli sembra giusto
che a diffondere il «manuale» di Fantastica sia «un figlio del paese che ha
provato nelle proprie carni l’orrore della bomba atomica» 1.
Questi articoli di «Paese Sera» sono importanti per due ordini di ragioni:
a) rappresentano la prima esibizione pubblica di una già organica
sistemazione tipologica del «ricettario» fantastico, e quindi sono l’abbozzo che,
nei suoi sviluppi finali, darà vita poco piú di dieci anni dopo alla Grammatica
della fantasia;
b) rivelano la scelta di Rodari di privilegiare le colonne di un quotidiano
come tribuna per rivolgersi non tanto ai bambini, ma al pubblico variegato ed
eterogeneo qual è quello dei lettori di un quotidiano. Infatti scrive che il
manuale è «dedicato piú che altro [...] a maestri, nonni e genitori di scarsa
fantasia». E qualche anno dopo, a proposito dell’uso della fantasia da parte
degli adulti, aggiungerà che «per stare coi bambini ci vuole molta fantasia
perché bisogna essere sempre con la fantasia un passo piú avanti di loro per
poterli sfidare a raggiungerci, a venire su» 2.
Rodari individua due distinti metodi per inventare favole: il primo è quello
che comprende le tecniche che fanno muovere la fantasia dall’interno verso
l’esterno; al secondo gruppo appartengono i metodi in cui, viceversa, il moto
della fantasia va dall’esterno verso l’interno. Tipico del primo gruppo è il
sistema «sorgi e cammina» (o dell’animazione): «In ogni oggetto è contenuta
una favola, ma vi è contenuta allo stesso modo che Lazzaro nella tomba». E
porta come esempio la sedia che non tollera il peso di persone con i baffi. La
legge di Hawthorne, autore dell’opera Racconti raccontati due volte,
appartiene al secondo gruppo. La fantasia interviene dall’esterno a manipolare
racconti già bell’e fatti, ne conserva la struttura, ma trasforma la vicenda e i
particolari secondo schemi nuovi e diversi. La leggenda del Re Mida, ad
esempio, che trasforma in oro tutto quello che tocca, è mantenuta intatta, in
quanto a impianto strutturale, in una storia che abbia a protagonista qualcuno
che trasforma in acqua tutto ciò che tocca.
Altre «ricette», piú vicine – dice Rodari – «alla nostra sensibilità di uomini
della seconda metà del secolo» (il «manuale» nella finzione risale al 1912) sono
presentate nei due articoli. Tra l’altro: il sistema del fortuito incontro (nato
dall’analisi logico-fantastica del noto paragone del poeta surrealista
Lautreamont: «Bello come il fortuito incontro su un tavolo operatorio di una
macchina da cucire e di un ombrello»); l’incarnazione della metafora (cioè, resa
alla lettera e sviluppata seguendo direzioni conseguenti); il sistema della calza
rovesciata (esempio: nel paese di Pinocchio le bugie fanno allungare il naso, in
un paese diverso le bugie fanno accorciare il naso).

1. G. Rodari, Gip nel televisore e altre storie in orbita, Mursia, Milano 1975, p.
5.
2.G. Rodari, Scuola di fantasia, in Riforma della scuola, n. 5, 1981. È il testo
della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 17 aprile 1974 ad un anno dalla
pubblicazione della Grammatica della fantasia.
1. Manuale per inventare favole.

«Duello di parole. – Si prendano due parole a caso, dal


vocabolario o da qualsiasi altro testo stampato, facendo
bene attenzione a non introdurre alcun elemento
volontaristico nella scelta. (Un maestro, nella sua classe,
potrà invitare due scolaretti a scrivere su un foglio, l’uno
all’insaputa dell’altro, una parola ciascuno). Si gettino ora
le due parole l’una contro l’altra e si osservino le varie
combinazioni, si afferrino i suggerimenti espressi dal loro
occasionale duello. Prima o poi le due parole non
mancheranno di disporsi in modo da fornire l’immagine
iniziale, il nucleo di una favola. Siano le due parole, a mo’
d’esempio, “pianta” e “pantofola”. Dal loro incontro
nascerà quasi subito l’immagine di una “pianta delle
pantofole”. A questo punto preciso la favola è già nata, e
basterà che il narratore sviluppi a suo talento, e secondo il
suo temperamento, l’immagine iniziale. Un pessimista,
probabilmente, narrerà la triste e deprimente storia di un
povero contadino (o mugiko, o fellagah, a seconda
dell’ambiente storico-sociale) che possiede una sola
pantofola e a cui un amico burlone insegna che,
seminandola, vedrà crescere una pianta che recherà come
frutto la pantofola che gli manca, ecc. Un ottimista, al
contrario, farà alzare il suo contadino (mugiko, fellagah) di
buon’ora per andare a zappare nei campi: dove giunto egli
troverà che un vecchio fico ha fruttificato, ma da ogni
ramo, al posto dei fichi, penderanno a due a due pantofole
d’ogni foggia e colore che egli coglierà: aprirà un
magazzino per commerciarle, arricchirà, ecc.,
probabilmente a patto che nessuno salga mai sul suo albero
prodigioso. Un narratore d’indole burlesca, a questo punto,
si deciderà a burlarsi del contadino-calzolaio, lanciandogli
alle calcagna un lupo che lo obbligherà ad arrampicarsi lui
stesso sull’albero delle pantofole, distruggendo
l’incantesimo. Il moralista trarrà facilmente una morale
dalla favola. Non esiste niente al mondo da cui non possano
trarsi almeno due dozzine di insegnamenti morali
profondamente e irreparabilmente contraddittori».
La pagina singolare che vi ho qui presentata in una
traduzione approssimativa dovrebbe servire da
introduzione al resoconto, non meno singolare, che mi
appresto a fare. Non molti mesi fa, da un giovane
giapponese col quale ho fatto amicizia a Roma, durante le
Olimpiadi, ho ricevuto un lungo dattiloscritto in inglese,
contenente – a suo dire – la traduzione dal testo giapponese
in suo possesso di un’operetta che sarebbe stata pubblicata
a Stoccarda, dalla Novalis Verlag, nel 1912. L’autore
sarebbe un certo Otto Schlegel-Kamnitzer. Il titolo tedesco
dell’operetta suona testualmente: Grundlegung zur
Phantastik - Die Kunst Fabeln zu schreiben, ovvero
Fondamenti di una Fantastica - L’arte di scrivere favole. In
effetti il dattiloscritto (una cinquantina di cartelle in tutto)
costituisce una specie di manuale per inventare e scrivere
favolette d’ogni genere, dedicato piú che altro – a quel che
pare – a maestri, nonni e genitori di scarsa fantasia. Ma
non manca di pretese filosofiche, come si può notare da
quella solenne Grundlegung zur Phantastik, dove la prima
parola è presa di peso al di là di ogni dubbio, dal titolo della
celeberrima Fondazione di una metafisica dei costumi di
Immanuel Kant (in tedesco Grundlegung zur Metaphisik
der Sitten): e l’altra esce da un non meno celebre
«frammento» di Novalis che suona testualmente: «Se noi
avessimo una “fantastica”, cosí come abbiamo una “logica”,
avremmo scoperto l’arte di inventare. Alla “fantastica”
appartiene in una certa misura anche l’estetica, cosí come
la dottrina della ragione appartiene alla “logica”». (Vedi
Novalis, Philosophische Fragmente).
La cosa curiosa è che, fatte le ricerche del caso, non mi
risulta che a Stoccarda sia mai esistita una casa editrice dal
nome anche lontanamente somigliante a «Novalis Verlag».
Uno scrittore rispondente al nome di Otto Schlegel-
Kamnitzer, attivo intorno al 1912, è perfettamente
sconosciuto, nonché presso i germanisti di casa nostra,
nelle due Germanie.
L’amico giapponese afferma di essere in possesso di una
traduzione giapponese di questa «fantastica» e si mostra
ansioso di venire in possesso dell’originale tedesco. Questo
originale io non sono riuscito a trovarlo, per quanto abbia
speso – in tempo e in denaro (carta da lettere, francobolli,
telefono, ecc.) – per procurargliene una copia.
Tuttavia il dattiloscritto mi sembra degno di attenzione.
Nei presenti articoli mi propongo di farne conoscere le
linee essenziali, tagliando corto con i capitoli piú
propriamente teorici e abbondando invece nella citazione di
quelli che illustrano il «ricettario» di Otto Schlegel-
Kamnitzer (ma chi era costui?) per inventare favolette.
Eccovi alcuni esempi:
«Il sasso nello stagno. Questo metodo piú raffinato e
delicato di quello indicato al paragrafo “Duello di parole”
consiste nell’affidarsi alle suggestioni di una sola parola. La
si prenda a caso, con le solite garanzie, da un testo
stampato, o dalla voce del prossimo, la si getti come un
sasso nello stagno (apparente) della fantasia e si osservino
attentamente i cerchi suscitati sulla tranquilla superficie da
quell’eccitante intrusione. Un impulso irresistibile, prima o
poi, vi suggerirà di varare la vostra barchetta su uno dei
cerchi. Sia ad esempio la parola “fuoco”. L’avete gettata?
Aspettate. Fuoco, fuoco, fuocherello. Niente ancora?
Abbiate pazienza. La fantasia sta mobilitando le sue onde
per formare i cerchi. In questo momento il fuoco di Vesta,
l’incendio di Troia e quello di Chicago, l’acciarino magico,
la lampada di Aladino, la fiamma del vostro accendisigari,
l’eruzione del Vesuvio nel 79 – tutti gli elementi della vostra
memoria esistenziale, storica, letteraria e sociale che
contengono la parola fuoco sono in agitazione. Rompe le
nuvole una piccola pioggia di frasi fatte: col ferro e col
fuoco; fuoco a volontà; non c’è fumo senza fuoco, ecc. Ecco
apparire i primi cerchi. Improvvisamente l’occhio vi cade
su una poltrona, mentre dentro di voi la voce grida: fuoco!
Ma proprio fuoco col punto esclamativo. Una esecuzione
capitale. La poltrona fucilata. Via! Varate la vostra
barchetta. Il dittatore vuole disfarsi dei suoi nemici. Egli
odia la poltrona, che oppone ai suoi ordini una calma
impassibile, una resistenza passiva delle piú irritanti. Sia
fucilata! Ma anche le pallottole la trapassano senza
ucciderla. È sempre una poltrona. Ci si può tuttavia
schiacciare un sonnellino. Ed eccovi la storiella politica di
cui avevate bisogno».
Veramente né io né voi abbiamo bisogno di storielle
politiche. Ma non si può negare che il sistema del «sasso
nello stagno» abbia un suo fascino: lo stesso Proust, si
direbbe – pur senza conoscerlo – vi ha fatto ricorso piú di
una volta. Lui però i sassi li gettava nella memoria. Ma
lasciamo perdere le disquisizioni. La ricetta seguente è piú
pittoresca, fin dal suo titolo, arricchito da tre puntini di
reticenza:
«Che cosa succederebbe se... Le ipotesi favolose sono
infinite. La gente ha il torto di non accorgersene: ma in
fondo quanta gente si è accorta dell’esistenza delle onde
hertziane prima degli esperimenti di Hertz? La favola, in
questo caso nasce dalla combinazione di un qualsiasi
soggetto con una qualsiasi domanda. Sia il soggetto “la
Sicilia”. Che cosa succederebbe se la Sicilia cominciasse a
navigare? Tutto qui. Una mattina gli abitanti di Messina, al
risveglio, si accorgono che Reggio Calabria, dall’altra parte
dello Stretto, si è allontanata di parecchie miglia. La Sicilia
ha salpato le ancore, ha tolto gli ormeggi, ha spiegato le
vele al vento. Essa naviga in direzione di Gibilterra alla
velocità di venti nodi all’ora. Allarme geografico-
internazionale. Episodio marginale di un “ferry boat”
partito da Reggio, che insegue la Sicilia attraverso il
Mediterraneo occidentale. Passerà da Gibilterra? Non
passerà? Ecc.
Altro esempio, sempre con il soggetto indicato. Che cosa
succederebbe se la Sicilia volasse? Che cosa succederebbe
se la Sicilia perdesse i bottoni? Quest’ultima ipotesi è nata
dall’accostamento assolutamente casuale tra il soggetto e
una domanda scelta a caso in un libro. L’incoerenza è piú
apparente che sostanziale. Una facilissima riduzione al
concreto particolare narrativo permetterà di narrare la
storia del giorno in cui da un capo all’altro della Sicilia,
tutti i bottoni di tutti i vestiti, come per un magico segnale,
abbandonarono il loro posto di lavoro. Seguiranno alcune
descrizioni. Ecc. Altri esempi, con altri soggetti: Che cosa
succederebbe se un coccodrillo bussasse alla vostra porta
chiedendovi un po’ di rosmarino? Che cosa succederebbe
se il vostro ascensore precipitasse al centro della terra? O
schizzasse fin sulla Luna? E cosí via.
Esercizio: Scrivete duecento domande del tipo “che cosa
succederebbe se” con i seguenti soggetti: la Sicilia, la pipa,
una giraffa, la Regina d’Inghilterra».
Già, avevo dimenticato di avvertire che il fantomatico
Otto Schlegel-Kamnitzer aggiunge, ad ogni ricetta, un fitto
elenco di esercizi ad uso degli apprendisti. Io non ho avuto
tempo di farne alcuno, ma mi riprometto di provare il primo
pomeriggio di libertà.
Brevemente segnalerò ancora, per questa volta, il
metodo denominato «Insalata di favole». Esso consiste nel
combinare i personaggi di favole diverse per ricavarne
favole diverse, in cui l’intreccio nascerà dallo scontro delle
diverse caratteristiche dei personaggi scelti. Esempio:
Pinocchio e i Sette Nani; Giona e il Pirata Uncino;
Biancaneve e i Quaranta Ladroni; Cappuccetto Rosso e la
Bella Addormentata nel bosco. (In quest’ultimo caso,
secondo il nostro Otto, il lupo dovrebbe mangiarsi la Bella,
che non si sveglierebbe nemmeno nell’istante cruciale, e il
cacciatore, nello sventrare l’orso per liberare la nonna, ci
troverebbe invece una bellissima principessa da sposare
subito...)

2. A che può servire un anti-ombrello?

I metodi proposti da Otto Schlegel-Kamnitzer per


inventare favole si dividono, grosso modo, in due gruppi: un
primo gruppo comprende quelli in cui la fantasia si muove
dall’interno verso l’esterno; un secondo gruppo, gli altri, in
cui il moto è, viceversa, dall’esterno verso l’interno.
Esempio del primo gruppo: «Sistema “sorgi e cammina”.
In ogni oggetto che vi circonda è contenuta una favola, ma
vi è contenuta allo stesso modo che Lazzaro nella tomba.
Per liberarla, occorre qualcuno che sappia pronunciare al
momento giusto le parole giuste. Questo sistema si
riattacca al principio della “animazione”. Tutto può essere
animato, ad ogni oggetto può essere attribuita una
personalità. Prendete una sedia, animatela. Avrete una
persona che penserà ed agirà e avrà reazioni umane nelle
condizioni materiali di una sedia, avrà simpatie ed
antipatie, desideri e capricci. Eccovi una sedia che non può
sopportare di sostenere il peso di persone con i baffi.
Sopporterà un grassone, un elefante, una banda musicale
al completo; ma non un mingherlino coi baffetti sotto il
naso. Ogni volta che si annunciano dei baffi la sedia scappa.
Inutile rabbonirla, cercare di imbrogliarla, farle violenza.
Esercizio: sviluppate in tutte le direzioni possibili il tema
della sedia che non tollera i baffi».
È abbastanza chiaro che nella sedia non c’è niente del
tutto: tutto quel che occorre alla sedia per diventare una
favola dovremo mettercelo noi. Il nostro bravo Otto, però,
avrebbe fatto meglio a sviluppare la tecnica
dell’animazione. Ma già: io sto qui a criticarlo. E dov’è lui,
Otto? È mai esistito questo signor Schlegel-Kamnitzer?

La storia del Re Mida.

Esempio del secondo gruppo: «La legge di Hawthorne.


Questo sistema è stato chiamato cosí in omaggio allo
scrittore americano Hawthorne, autore dell’opera Racconti
raccontati due volte. Si tratta, in sostanza, di esercitare la
fantasia su racconti già pronti, conservandone la struttura
e, volendo, anche i personaggi, ma variando la vicenda e i
particolari secondo diversi schemi. Esempio: prendete la
storia del Re Mida (il quale, com’è noto, trasformava in oro
tutto ciò che toccava) e raccontatela per la seconda volta
ambientandola nella Nuova York del ventesimo secolo. La
prima cosa che Mida trasformerà in oro sarà ovviamente la
sua automobile, o il suo telefono, e ciò vi permetterà di
creare facilmente un’infinità di variazioni. La stessa storia
può essere raccontata per la seconda volta cambiando i
nomi dei personaggi, introducendo una variante nelle loro
caratteristiche principali. In questo caso si conserva solo la
struttura iniziale della storia di partenza. Mida trasforma in
oro tutto ciò che tocca, ridotto agli elementi strutturali, è: A
che trasforma in B ogni C su cui esercita l’azione D. Partite
ora da questa struttura e potrete avere, per esempio, un
personaggio che trasforma in acqua tutto ciò che tocca;
una signora che trasforma in ombrellini tutti i paracarri che
urta con la sua automobile; un guardiano dello zoo che
trasforma in giraffe tutti gli animali a cui dà da mangiare;
un frate che trasforma in biciclette tutti i fedeli che tocca
col suo cordone, eccetera».
Questo capitolo, nella Grundlegung zur Phantastik
(Fondamenti per una Fantastica), è fitto di analisi
minuziose e pedanti. Sono elencate ed esaminate tutte le
possibili combinazioni suggerite dalla formula del
«racconto raccontato due volte». Vi sono applicazioni
storiche («Esercizio: Applicate la struttura della storia dei
sette re di Roma alla storia di un droghiere e dei suoi
discendenti»), varianti geografiche («Esercizio: Applicate
successivamente lo schema narrativo delle guerre puniche
alla rivalità tra San Giorgio di Sopra e San Giorgio di Sotto
in provincia di Bologna»), zoologiche («Esercizio:
Componete un Olimpo completo, con descrizione dei suoi
abitanti e sviluppo dei vari cicli mitologici ad uso di una
tribú di formiche rosse») eccetera.
Piú vicini alla nostra sensibilità di uomini della seconda
metà del secolo (non bisogna dimenticare che l’opera, se è
autentica, risale al 1912) sono i metodi seguenti:
«Sistema del fortuito incontro. – Nato dall’analisi logico-
fantastica del noto paragone di Lautreaumont: “Bello come
il fortuito incontro su una tavola operatoria di una
macchina da cucire e di un ombrello”».
«Incarnazione della metafora. – Esempio: Si prenda la
metafora “egli aveva un diavolo per capello”, ma si prenda
alla lettera, narrando la tragedia di un signore a cui
spuntano in testa migliaia di diavoli, al completo di corna,
piede caprino e puzzo di zolfo. Sua disperata ricerca di un
metodo per diventare calvo. Altro esempio: “egli piangeva
come una fontana”. Descrivete le terribili conseguenze di
un’inondazione originata dalle lagrime del poveretto:
stanze allagate, si chiama l’idraulico, eccetera».

La variante interplanetaria.

«La variante interplanetaria. – Com’è ovvio, qualsiasi


favola del repertorio terrestre risulterà assolutamente
nuova e ricca di un fascino inedito se ambientata su un
pianeta extraterrestre».
(Nel 1912 la produzione dei romanzi di fantascienza non
era ancora stata organizzata su scala industriale, ma
l’acuto figlio di Stoccarda – se poi era di Stoccarda – aveva
già previsto il sistema piú facile per inserirsi con successo
in questo tipo di letteratura).
«Il prefisso fantastico. – Si prenda una lettera qualunque,
ad esempio la lettera “esse”, e la si collochi davanti a
qualsiasi parola. A un certo punto, si otterrà una parola
fantastica producente, ossia piena di favola come un uovo è
pieno del suo pulcino. Per esempio la parola “stemperino”:
essa indicherà, ovviamente, il contrario del temperino.
Invece che a temperare le matite servirà ad allungarle,
quando sono state troppo temperate. Sua utilità nelle
scuole. Proteste dei cartolai, eccetera. Dicesi prefisso
fantastico qualsiasi prefisso capace di lanciare una parola
vecchia in una favola nuova. Ecco la parola “ombrello”. Il
prefisso “anti” sarà sufficiente a darci un “anti-ombrello”.
Immaginarne gli usi».
Mi sono provato ad applicare questo sistema e sono
arrivato agevolmente a inventare lo «smacchiatore». Ma mi
è stato osservato che esso esiste da un pezzo, anzi, ne
esistono numerosi tipi, che si fanno una spietata
concorrenza. Provando, a caso, il «prefisso fantastico» bi ho
ottenuto senza troppe difficoltà un bicane, cioè,
apparentemente, due cani in uno: ma lí mi sono fermato in
attesa di sviluppi che non sono venuti.
«I paesi di Cuccagna. – Il senso dell’utopia, un giorno,
verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista,
l’udito, l’odorato, ecc. Nell’attesa di quel giorno tocca alle
favole mantenerlo vivo, e servirsene, per scrutare
l’universo fantastico. Si prenda un oggetto qualsiasi e lo si
collochi in un paese d’utopia, o di Bengodi, o di Cuccagna.
Si tratti, ad esempio, di una sedia. La sedia sarà, come
minimo, a motore. “La sedia a motore” sia il titolo della
vostra favoletta. Si prenda ora qualche altro elemento del
paesaggio domestico. Per esempio, la domestica vera e
propria. È indubbio che sarà un robot. Lavorerà giorno e
notte, perché le macchine non possono dormire.
Supponiamo invece che il robot domestico, osservando i
padroni che dormono e sognano sia preso dal desiderio di
imparare a dormire. Suoi sforzi inutili. Prova ad accendere
la radio, a leggere il giornale, a contare le pecore; niente.
Completate la favola a piacere».
«Cosizzazione del personaggio. – Questo sistema è
particolarmente adatto per creare favole comiche. Sia data
una situazione qualunque, in un ambiente qualunque. Per
esempio, un capufficio rimprovera severamente i suoi
dipendenti, minacciandoli e facendoli tremare sulle loro
sedie. Improvvisamente al personaggio si sostituisce una
cosa, per esempio un rotolo di carta igienica.
Evidentemente, il rotolo di carta igienica che ha la pretesa
di rimproverare degli impiegati e addirittura di minacciarli
di licenziamento ottiene tutt’altro effetto che un severo
capufficio. Esercizi: descrivete per cosizzazione le
disavventure di un capitano-imbuto che ordini al mozzo di
pulire la nave (il mozzo versa il secchio dell’acqua
nell’imbuto... ecc. ecc.)».
A questo punto credo di aver dato un’idea della bizzarra
operetta, che elenca a dir poco altri quaranta sistemi per
inventare favole, tra i quali citerò soltanto: la
burattinizzazione; la deformazione semplice (es. ogni volta
che il capufficio si arrabbia gli si allungano i piedi); la
deformazione composta (es. il capufficio che si arrabbia
diventa sempre piú piccolo mentre le scarpe gli diventano
sempre piú grandi, fin che egli non ha piú niente che lo
distingua da un sassolino nella scarpa); la
drammatizzazione (nella quale l’autore si rivela
espertissimo; egli è capace di creare un’intera commedia
dalla drammatizzazione del teorema di Pitagora, di una
regola grammaticale, di un manuale di conversazione per
turisti, ecc.).

La calza rovesciata.

«Il sistema della calza rovesciata. – Si prenda una favola


qualunque e si rovesci come una calza: si otterrà una favola
uguale e contraria dello stesso valore. Sia per esempio la
favola di Pinocchio, al quale le bugie fanno allungare il
naso. Rovesciando il verbo, si avrà una favola nella quale le
bugie fanno accorciare il naso. Converrà ora mutare il
soggetto, per trovarne uno a cui l’accorciamento del naso
possa procurare il dispetto che a Pinocchio procurava
l’operazione uguale e contraria. L’elefante si attaglia
perfettamente alla bisogna. Nel paese degli elefanti le
bugie accorciano il naso. Basterà analizzare le conseguenze
individuali e sociali del fenomeno per ottenere la favola
desiderata».
È veramente un peccato che nessuno sappia nulla di
questo Otto Schlegel-Kamnitzer e che il suo manuale,
secondo ogni evidenza, non sia stato mai pubblicato.
Il cane di Magonza

Tra gli scritti giornalistici di Rodari può essere individuato un filone


costituito dalle numerose annotazioni sulla propria attività di poeta e di
favolista e, in generale, sui meccanismi creativi e immaginativi da lui via via
adoperati e il cui uso comunica agli altri (siamo, in pratica, nell’area della
«Fantastica» entro la quale ricadono le due puntate del «manuale per inventare
favole»).
È probabilmente il canale da privilegiare per l’ingresso nel cantiere di
scrittore e poeta per l’infanzia, dove è possibile scoprire la complessa e ricca
attrezzatura di cui dispone e il vario e imprevedibile impiego di arnesi e
congegni. Ma occorre prestare attenzione perché gli strumenti del suo lavoro
non sono lí in bella mostra come sul banchetto di un ciabattino: una visita in
cantiere ci permette di conoscerne solo una parte, ma non tutti. Altri suoi
strumenti bisogna andarseli a scovare non tanto nel locale attrezzi, ma nella
perfetta e straniante geometria delle sue costruzioni. Sul significato di
quest’opera di esibizione pubblica della propria attrezzatura poetica ha scritto
cose notevoli T. De Mauro. «Accade [...] raramente che qualcuno parli
direttamente, senza iattanza e volgarità, di proprie dirette esperienze creative.
Vi sono testimonianze rare e preziose [...], come le note di Leonardo o lo
Zibaldone di Leopardi o le Lettere a un giovane poeta di Rilke. Accade ancor
piú di rado [...] che un ingegno creativo abbia la forza e il genio per parlare
della sua diretta esperienza in modo analitico e critico in un’opera organica,
destinata già in vita al pubblico. Dall’Ars poetica oraziana ai Dialoghi sulla
musica di Furtwängler, passando per gli scritti critici di Goethe, Tolstoj, Valery,
gli esempi non sono molti» 1.
Da un’analoga osservazione aveva, piú di un secolo fa, preso le mosse E. A.
Poe per la sua Filosofia della composizione (1846): «Ho spesso pensato che
interessante articolo da rivista potrebbe scrivere qualunque autore volesse –
cioè potesse – precisare, passo passo, i processi grazie ai quali una delle sue
composizioni raggiunse il suo punto estremo di completezza. Perché non abbia
mai visto la luce un articolo del genere, non saprei certo dire; ma forse la
vanità degli scrittori ha a che vedere con questa omissione piú di qualsiasi altra
causa. La maggior parte degli scrittori – specie i poeti – preferiscono lasciar
intendere che compongono in preda a una sorta di squisita frenesia,
un’intuizione estatica, e rabbrividirebbero addirittura all’idea di consentire al
pubblico un’occhiata dietro le quinte». È ovvio che l’esortazione di Poe sarà
accolta da pochi scrittori e poeti. Tra questi pochi vanno ricordati R. Roussel e
R. Queneau.
Roussel scrive un intero saggio-confessione Come ho scritto alcuni miei libri
(sta in appendice a: R. Roussel, Locus Solus, Einaudi, Torino 1975) in cui
esibisce il proprio modus operandi: «Giovanissimo scrivevo già racconti di
poche pagine impiegando questo procedimento. Sceglievo due parole quasi
simili (sul tipo dei metagrammi). Per esempio billard e pillard. Poi vi
aggiungevo parole simili ma prese in due sensi differenti, e ottenevo due frasi
quasi identiche».
In Segni, cifre e lettere di R. Queneau (Einaudi, Torino 1981) possono
trovarsi numerose dichiarazioni del genere: «vorrei esporre quella che può
essere una tecnica cosciente del romanzo, quale io stesso ho cercato di
praticare». Affinità, dunque, tra Queneau, Roussel e Rodari? L’ipotesi non è da
prendere sotto gamba. Soprattutto se si considera la comune esperienza –
diretta nei primi due, indiretta in Rodari – con il surrealismo.
In questo quadro di riferimenti va collocato lo scritto Il cane di Magonza (ma
tanti altri scritti impongono un’analoga collocazione), in cui Rodari analizza i
percorsi e i procedimenti mentali tramite i quali i bambini, deformando nomi e
parole, tendono a «prendere possesso del mondo, per conoscerlo riducendolo il
piú possibile a propria immagine e somiglianza».

1. Cfr. T. De Mauro, Al centro sta la parola, in Riforma della scuola, n. 9, 1980.


Uno di questi giorni la nostra bambina giocava da sola e
mescolando bambole e burattini si inventava sottovoce
chissà quale storia. Era però un sottovoce vibrato, nel
quale ricorrevano apostrofi drammatiche. A un certo punto
la sentimmo esclamare, a voce piú alta: «Cane di
Magonza!» Il tono era quello dell’insulto, dell’accesa
indignazione. Eccitata, presa nel minuscolo ma intenso
vortice della sua favola, la bambina ripeté piú volte: «Cane
di Magonza! Cane di Magonza!»
Non era difficile riconoscere, in quello strano epiteto,
una deformazione del nome di Gano di Maganza, il nemico
di Orlando, il «cattivo» del teatro dei pupi siciliani, cacciato
da Dante – ma col nome di Ganellone – nei ghiacci di
Cocito, nelle vicinanze del conte Ugolino e di altri traditori
della patria o del loro partito.
Meno facile, ma non impossibile, si rivelò la ricostruzione
del cammino che aveva trasformato Gano in un cane,
trasferendolo dalla famiglia dei Maganza alla città di
Magonza, senza l’aiuto dell’etimologia che probabilmente
lega i due nomi.

Deformazioni e realtà.

Il nome di Gano di Maganza la bambina poteva averlo


udito solo dal cuginetto, di tre anni maggiore, e piú erudito
di lei, appassionato di armi, corazze, duelli e paladini. Il
nome dovette sembrarle una accozzaglia di suoni senza
senso. «Gano?», deve avere fulmineamente ragionato la sua
fantasia «ho certamente sentito male. Gano non può essere
un nome come Paolo, Walter, Francesco». Talvolta i bambini
diffidano delle proprie orecchie e comunque sono
abbastanza egocentrici e disinvolti da manipolare a loro
modo i suoni, per tradurli in qualcosa che abbia significato.
Il tono del cuginetto, nel pronunciare la strana parola,
doveva essere quello del disprezzo, lo stesso di chi dice –
tra pirati e banditi si usa – «fellone», o «cane». Ed ecco il
colpevole della rotta dei cristiani a Roncisvalle ridotto
senz’altro allo stato bestiale.
Perché di Magonza, anziché di Maganza? Per motivi e
per un procedimento analogo. Maganza era un nome
nuovo, senza echi, improbabile. Nel libro di favole che la
bambina ascolta spesso ricorre invece il nome della città
tedesca di Magonza. La bambina ha senz’altro assimilato il
suono nuovo al nome già noto, costringendo – per cosí dire
– il fantasma a materializzarsi, l’apparizione inconsueta a
mettere piede su un terreno già solido.
Nasceva cosí, non dal nulla, ma da suggestioni diverse e
lontane, quell’irreale, o surrealistico «cane di Magonza».
Avremmo fatto prima a supporre, a nostra volta, che la
bambina avesse semplicemente capito male e ripetuto
male. Ma deformazioni del genere sono abbastanza normali
nei bambini: bisogna dunque che rispondano a una legge
del loro comportamento, a una «forma» del loro lavorio per
prendere possesso del mondo, per conoscerlo riducendolo
il piú possibile a propria immagine e somiglianza.

Padre «morto» che sei nei cieli...

Un bambino al quale, a casa sua, non sono state


insegnate le preghiere cattoliche, le ha udite per la prima
volta a scuola. Torna a casa e subito, vantandosi di averle
imparate, recita: «Padre morto che sei nei cieli». Non c’è
verso di fargli capire che ha udito male, che si deve dire
«Padre nostro». «Se è nei cieli vuol dire che è morto»,
ribatte trionfante. E in questa risposta c’è tutto il senso
della spiegazione che abbiamo tentato di dare piú sopra,
piuttosto grossolanamente. Il bambino ha catturato dei
suoni dispersi, di cui gli sfuggiva la funzione: li ha
ricomposti a suo modo, secondo una sua logica personale,
per una necessità di ordine e di comprensione che è di tutti
i bambini di normale intelligenza.

I miti dell’uomo primitivo.

Una signora che conosciamo, di fronte a certe uscite


della sua bambina, pensava che essa fosse un po’ sorda. La
piccola, avendo sentito chiamare san Giuseppe il «padre
putativo» di Gesú, era rimasta piuttosto turbata. «Ma
perché dicono che è “piú cattivo” se invece è tanto buono?»
Essa non riusciva, evidentemente, ad armonizzare la mite
figura del suo presepe con l’appellativo di «piú cattivo». E
ciò accadeva non già perché la bambina fosse un po’ sorda,
ma perché la sua mente aveva semplicemente respinto,
come privo di significato, l’aggettivo «putativo», e – non
credendo alle proprie orecchie – lo aveva sostituito con una
espressione piú comprensibile (e con involontaria
irriverenza che la madre, nel correggerla, ebbe la prudenza
di non farle rilevare).
Potremmo moltiplicare gli esempi, ma vi ritroveremmo la
stessa meccanica. Qualsiasi padre di famiglia potrebbe fare
lo stesso.
È vero, ci sono anche bambini che ripetono subito, senza
sbagliare, «putativo», qualsiasi altra parola ascoltino. Ma
questo non accade perché abbiano sensi piú acuti o
intelligenza piú pronta: forse, al contrario, accade perché
hanno meno immaginazione e accettano passivamente
anche ciò che non capiscono. Per conoscere veramente una
cosa, diceva Giambattista Vico, bisogna produrla, o almeno
mentalmente riprodurla. Per compiere questa operazione i
bambini non hanno ancora a disposizione (siamo ancora a
Vico) una «mente pura», capace di pura riflessione, ma la
fantasia di «un animo perturbato e commosso». Per capire
veramente una parola hanno bisogno di reinventarla.
A questo punto bisognerebbe tentare di penetrare
l’inattesa immagine del «cane di Magonza», di vedere
questa espressione, nata per un poetico errore, dal di
dentro. Ma questo è veramente impossibile, come è
impossibile per l’uomo moderno comprendere appieno i
miti dell’uomo primitivo, perché gli è impossibile viverli.
Il cane in oggetto, del resto, avrà vita breve, sarà presto
travolto in altri impasti della fantasia, insieme con altri
materiali ugualmente fluidi, che non hanno piú consistenza
di un lampo.
I giornali a fumetti e la scuola

Ho già ricordato le dichiarazioni rese da Rodari a Riforma della scuola sulla


questione dei fumetti a scuola (n. 7, dicembre 1966). Ritengo utile riproporre
per intero la mini-inchiesta della rivista, insieme con le posizioni di Fernando
Rotondo e Alberto Alberti.
Quali sono i motivi (di ordine formale e sostanziale) che a
tuo giudizio hanno determinato e determinano una cosí
larga fioritura, diffusione e consumo della stampa a
fumetti?

Rotondo: Bisogna innanzitutto premettere che mancano


ancora esaurienti studi sul «fenomeno fumetti» nei riguardi
dei lettori non adulti, per cui ogni tentativo di risposta
rimane piuttosto una ipotesi che andrebbe verificata. Oggi
noi possediamo solo alcune limitate indagini (vedi, ad
esempio, la relazione del prof. Quadrio a Lucca) che ci
dicono tuttalpiú la percentuale dei lettori, le preferenze, il
variare di queste preferenze in relazione all’età e al sesso,
e per il resto ci si affida nel migliore dei casi ad
osservazioni empiriche dettate da buon senso o nel
peggiore dei casi a trasposizioni meccaniche di schemi
elaborati per indagare il mondo dei lettori adulti ma
inadatti per quello dei ragazzi; e il piú delle volte si tratta
di schemi desunti da esperienze americane e quindi
totalmente refrattari alla indagine su un terreno culturale e
sociale cosí diverso.
Ciò premesso, mi sembra di poter rispondere che il
successo dei fumetti fra i ragazzi è dovuto in primo luogo al
fatto che essi trasmettono in forma elementare un
contenuto elementare, in secondo luogo al fatto che sono la
prima vera e propria lettura autonoma del ragazzo; lui li
sceglie e li compra, spesso con i soldi risparmiati o
«guadagnati» in casa.
Questo mi sento di poterlo affermare con una certa
convinzione, il resto – «parafulmine» su cui si scarica
l’istinto aggressivo, ufficio catartico, rispondenza tra
mondo psichico del fanciullo e mondo dei fumetti mediante
meccanismi di identificazione e proibizione, ecc. – è campo
libero per le ipotesi.

Rodari: Il fumetto è una specie di cinematografo


tascabile, essenziale, assai economico. È tutto azione,
gesto, rapidità. Tanto nel genere comico quanto in quello
avventuroso presenta personaggi già ampiamente
reclamizzati dal cinema, miti-chiave del folclore mondiale
contemporaneo. Il suo linguaggio per immagini (anche
quando scade a una stenografia per analfabeti) è
perfettamente integrato (anche quando ne rappresenta solo
la caricatura) alla moderna «civiltà per immagini». Ha
dunque una sua razionalità, e perciò una sua realtà che
sfugge alle deprecazioni. Alla sua fortuna contribuiscono
potentemente l’assenza di un vero cinema per ragazzi, la
mancanza di istituzioni per il loro tempo libero e il
carattere tradizionale dell’insegnamento scolastico, grazie
al quale (anzi, grazie per niente!) la parola scritta, il libro
non riescono a diventare qualcosa di reale e di necessario
per i ragazzi al di là delle strette necessità
dell’interrogazione e dell’esame.

Alberti: Credo che fra gli altri motivi che concorrono alla
larga diffusione del fumetto e a cui gli altri hanno ben
accennato, non va trascurato il fatto tecnico. La vivacità del
colore, l’essenzialità della figura, la brevità del testo scritto
sono elementi che destano immediato interesse, colpiscono
fortemente la fantasia del bambino e vi si imprimono
facilmente.
Piú in generale il fumetto risponde ad una esigenza di
comprensione istantanea che è avvertita non solamente dai
bambini, in una società nervosa e rapida, come la nostra, la
quale lascia poco tempo alla lettura meditata ed alla
riflessione. Non per niente hanno trovato subito successo
certi films western tutti azione e violenza, sfrondati cioè da
qualsiasi tentazione di approfondimenti psicologici o
sociologici.

Sotto il profilo formale, può il fumetto, e fino a qual


punto, essere di aiuto al fanciullo nel suo processo di
acquisizione di tecniche e nozioni scolastiche?

Rotondo: Anche in questo caso si procede a tentoni. Si ha


notizia di esperimenti in tal senso a Cuba e in Cina, ma
sono esperienze troppo lontane, anche culturalmente, per
potere fare testo; eppure sarebbe bene sapere qualcosa di
piú preciso. Non vedo, però, motivi validi per cui la tecnica
del fumetto non possa essere utilizzata a fini didattici. Una
«contaminazione» del genere, ad esempio, potrebbe essere
positiva nel libro di testo di I a elementare. Piú difficile mi
sembra l’uso di tale tecnica man mano che si procede verso
classi superiori nelle quali i contenuti elementari tendono
via via a scomparire per dar posto ad altri piú complessi e
problematici.
Una forma di utilizzazione molto interessante, infine,
potrebbe dare luogo a «drammatizzazioni per fumetti» di
avvenimenti e personaggi storici da parte degli stessi
ragazzi secondo le loro personali attitudini (soggettisti,
sceneggiatori, disegnatori, ecc.), come oggi già avviene in
forma di attivizzazione drammatica.

Rodari: Non credo che si possa avere – se questa è la


domanda – un «fumetto didattico». Sarebbe un espediente,
e io non credo alla scuola degli espedienti. Ridurrebbe
ancora la partecipazione attiva dei ragazzi alla vita
scolastica, ne impoverirebbe ulteriormente l’esperienza. È
vero che i testi scolastici sono, in gran parte, noiosi: e se
questo fosse il loro solo torto, forse i «fumetti» potrebbero
correggerlo; ma non è quello né l’unico né il piú grave dei
loro torti. Credo che le scuole abbiano bisogno di
biblioteche di lavoro e di biblioteche di lettura, ma che
anche questi strumenti saranno poco produttivi fin che una
vera rivoluzione del metodo non abbia realizzato nella
scuola le condizioni perché la vita scolastica sia esperienza
reale, e non esperienza artificiale. Il «fumetto» sarebbe
solo un artificio in piú.

Alberti: Sotto il profilo formale sono d’accordo con


Rotondo: ritengo che il fumetto, cosí come esso si presenta
sul mercato, possa costituire un modo simpatico di far
avvicinare il fanciullo al leggere ed allo scrivere.
Specialmente nelle prime classi elementari sarebbe
interessante ricorrere alle figure dei fumetti per la
presentazione di alcune lettere dell’alfabeto, per avviare
alle prime composizioni di frasi, le prime letture, ecc. Mi
rendo conto che non tutto il materiale è ugualmente adatto
allo scopo: ma qui sarà la sapiente cura del maestro, la sua
sensibilità e la sua cultura a fare le scelte piú opportune.
Oltre a ciò non mi sembra si possa andare: sia perché un
fumetto dichiaratamente didascalico pare anche a me
artificioso e – comunque – inadatto, per la sua stessa
schematicità e semplicità, a porsi come tramite di contenuti
complessi – quali sono quelli del «sapere» (scolastico o
meno); sia perché lo stesso linguaggio proprio del fumetto
(fatto spesso di esclamazioni, di suoni onomatopeici, di
punti esclamativi e... lampadine che si accendono!) ha una
sua tecnica e regole e strutture particolari e risponde ad
esigenze che non sono quelle presenti a scuola o nel
comune discorrere (non serve quindi per avviare alla
composizione, al tema, come qualcuno pretenderebbe).

Dal punto di vista del contenuto, può e in quale misura il


fumetto costituire un elemento di formazione mentale
(positiva o negativa) del fanciullo?
Rotondo: Non sono d’accordo con quanti vedono nel
fumetto un pericoloso veicolo di contenuti e messaggi
negativi e quindi un fattore negativo di educazione, e che,
conseguentemente, sognano un fumetto «educativo»
costruito appositamente per formare moralmente o
socialmente. I fumetti si limitano a portare allo scoperto
istanze ed esigenze della società che li produce, per cui il
vero elemento antieducativo che essi presentano consiste
nella rappresentazione di un mondo artificiale, falsamente
perbene e filisteo, in cui il «buono» trionfa sempre in
quanto «buono», che non esiste nella realtà e contro il
quale si scontrano i ragazzi stessi crescendo. Questa falsa
pittura concorre a mantenere i ragazzi, soprattutto gli
adolescenti, in una pericolosa immaturità emozionale in
quanto fornisce una concezione mitica della mobilità
sociale e una visione stereotipata dei pregiudizi intorno alla
facilità con cui gli ideali si possono toccare, gli ostacoli
superare, il successo può esser raggiunto e cosí pure la
bellezza fisica. La loro potenziale influenza negativa
consiste soprattutto nello sforzo di accreditare una
concezione di «lieto fine» programmaticamente scontato.
I fumetti «neri» sono la prima produzione italiana del
genere che si rivolga esplicitamente agli adulti, e questo è
uno dei principali motivi del loro successo. Purtroppo
vengono letti anche dai ragazzi. Per mia esperienza
personale mi sento di poter affermare che i ragazzi (delle
elementari e della media) apprezzano in tali pubblicazioni
non tanto la componente erotica quanto quella della
violenza. Le scene sessuali li lasciano indifferenti, mentre
sono colpiti da quelle truculenti e dai trucchi diabolici
escogitati dai supercriminali. Delle prime non parlano mai
tra di loro, moltissimo, invece, delle seconde. Se nei loro
giochi si atteggiano ad identificarsi con uno dei tanti eroi in
calzamaglia è per ripeterne episodi e prodezze criminose
non sessuali.
Nonostante la loro indubbia carica negativa bisogna
respingere con forza ogni tentativo di censura. Si tratta
piuttosto di un problema di maturazione intellettuale e
sociale collettiva, di capacità di orientamento delle scelte e
dei gusti da parte della critica, di costruzione e di
funzionamento di una scuola che sappia insegnare a
scegliere tra fumetto e fumetto e a «leggere» i fumetti
stessi.

Rodari: Rispondo no anche a questa domanda. Non credo


che il fumetto possa costituire elemento di formazione
mentale in senso positivo: è troppo povero in se stesso per
arricchire la mente del suo lettore. Ma non credo nemmeno
che il fumetto possa costituire elemento negativo,
corruttore eccetera. È moralmente troppo povero anche
per questo. Anche negli esempi peggiori è, magari, acqua
sporca, ma non acido che corrode. Viene e va senza
lasciare depositi. Può interessare, incuriosire e divertire
anche un ragazzo abituato ed appassionato a letture piú
ricche, cosí come, una volta alla settimana, un libro
poliziesco può incuriosire e divertire un filosofo. Il male
nasce quando i ragazzi leggono solo fumetti: ma questo non
è colpa loro. Nella maggioranza delle famiglie italiane c’è
un televisore, ma non una libreria. I padri che leggono solo
rotocalchi hanno figli che leggono solo fumetti. Ogni tanto
si sente parlare di proibire questo o quel fumetto: non
sarebbe piú utile proibire agli insegnanti di far odiare i
libri, trasformandoli in strumenti di tortura anziché di
scoperta?
Comunque sia, i fumetti fanno parte del mondo dei
ragazzi: né proibirli né ignorarli mi sembrano soluzioni
ragionevoli. Quando un ragazzo porta a scuola un fumetto,
invece di sequestrarglielo o di buttarla in predicozzi, non
sarebbe piú giusto usare anche del fumetto come di un
«mediatore» tra l’insegnante e i ragazzi? Leggerlo insieme,
discuterne, lasciare che parlino i ragazzi piú dell’adulto che
sta in cattedra, e può parlare ogni volta che vuole senza
chiedere permesso; far confronti; vedere se dalla
discussione può nascere una curiosità reale, un interesse
per qualcosa di serio. In questo senso, occasionalmente,
vedrei il fumetto a scuola: come fumetto, cosí com’è,
perché solo cosí è vero (il fumetto istruttivo puzzerebbe
subito di truffa e sarebbe rifiutato in blocco).

Alberti: Allo stato delle cose sono convinto anch’io che


questa lettura scivola via dalla mente del lettore.
Anche quando i ragazzi giocano agli indiani, ai
gangsters, agli uomini mascherati, ecc., non prendono dal
fumetto che un elementarissimo spunto di partenza: quel
tanto che sia necessario a dare una caratteristica ad una
attività che per se stessa si manifesta in modo spontaneo.
Per il resto, a parte i «bang-bang», gli «iauo» ed altri suoni
del genere, il gioco si articola secondo la fertilissima
fantasia del bambino, secondo certe circostanze
d’ambiente, ecc., e solo rarissimamente secondo moduli
tratti dalle vicende a cui inizialmente si è richiamati.
Tutto ciò è certo un bene nella misura in cui una attenta
lettura ci porterebbe a scoprire e ad assimilare i sottostanti
aspetti negativi (società basata sulla violenza, forza del
denaro, mentalità classista o almeno conservatrice, ecc.).
Ma lascia tremendamente indifesi di fronte alle possibilità
di assorbire – indirettamente – tali valori negativi.
Un collega or non è molto mi raccontava una sua
esperienza che mi pare da meditare. Invitata la scolaresca
a disegnare un personaggio che piú era piaciuto, fra i tanti
Garibaldi e Cavour fece la sua comparsa anche Pecos Bill:
con le pistole, però.
«Pecos Bill non ha pistole» – osservò l’insegnante. Il
ragazzo non ne fu convinto e la scolaresca stessa era
perplessa. Fu fatta dunque una attenta ricerca in tutti i
fascicoli a disposizione: fu accertato che il nostro
personaggio non spara mai. Cattura i fuorilegge col lazo, li
consegna allo sceriffo, contribuisce alla loro condanna e a
volte alla conseguente impiccagione ma non spara.
Quello che in fondo può essere l’elemento positivo di
maggior rilievo era sfuggito ai piú. Prova certo della
superficialità della lettura e della poca o punta adesione a
certi valori sottintesi. Ma – nella parte in cui appare la
pistola – prova altresí di una preoccupante falla aperta.
Mi pare che qui sia il punto delicato: abituare ad una
lettura critica che elimini il pericolo di assorbimenti
inavvertiti.
È un compito che sta di fronte alla scuola: alla riflessione
degli studiosi ed alle sperimentazioni dei docenti.
Leopardi e i giovani

Una costante attenzione Rodari rivolge come giornalista e educatore ai


problemi del pianeta giovani che a partire dalla fine degli anni cinquanta
assume e si presenta in Italia con connotati particolari. Le sue sensibili antenne
intellettuali e politiche avevano, per questo settore, avuto il lungo tirocinio
della direzione di «Avanguardia». Rifiutando e opponendosi ai diffusi
atteggiamenti moralistici, di diversa marca, che liquidano la questione
giovanile con formule precostituite, Rodari si sforza costantemente di calarsi
nella cultura delle nuove generazioni e di interpretarne manifestazioni e modi.
Il dialogo con i giovani, la volontà politica del giornalista e intellettuale
comunista di capire i loro reali e quotidiani bisogni erano iniziati, dalle colonne
di «Paese Sera», già da molti anni. Non si lascia sfuggire, mentre scrive le
cronache delle Olimpiadi del 1960, l’occasione di una dichiarazione dell’ex
campione olimpionico J. Owens che si dedica al recupero dei giovani «bruciati»
– come allora si diceva – per fare delle osservazioni sulla situazione italiana e
contro il decreto legge dell’allora democristiano ministro Gonella, «in cui il
problema dei giovani è affrontato dal lato sbagliato, con un inasprimento delle
pene detentive e delle misure repressive nei confronti dei delinquenti minori e
perfino dei giovani che “danno scandalo” senza commettere reato» («Paese
Sera», 7 settembre 1960). Ma è nel 1966 che il discorso di Rodari sui giovani
assume caratteri di particolare attenzione e accenti polemici anche verso i
partiti di sinistra. In numerosi corsivi di Benelux si schiera senza alcuna riserva
dalla parte dei giovani, dei «capelloni». E l’editoriale Leopardi e i giovani è il
precipitato culturale e politico di questa presa di posizione. «Al momento
giusto, – scrive Rodari, – si vede che i capelli lunghi non hanno guastato la loro
fondamentale salute morale. Le cronache dell’alluvione in Toscana e nelle
Venezie sono piene di episodi significativi [di giovani che] si sono prestati con
coraggio e con generosità all’opera di soccorso e salvataggio [...]. I guai
nascono quando la società adulta, per gelosia o per incomprensione, o
semplicemente per incapacità, non chiama i giovani a qualcosa che valga la
pena di fare [...]».
Lo stesso tema, in termini analoghi e in una visione internazionale, è ripreso
in un secondo articolo di fondo del 3 gennaio 1967 (L’uomo dell’anno): «il fatto
nuovo è l’elaborazione da parte dei giovani – in Italia forse meno che altrove –
di una loro filosofia, perfino di una loro piattaforma politica, che in Inghilterra e
in Olanda sarà magari di vaga opposizione all’“establishment”, all’ordine
costituito e invecchiato nei suoi schemi; in America è diventata [...] opposizione
alla politica estera del Presidente, e soprattutto alla guerra nel Vietnam. [...]
Sbaglieremo, ma è giunto il momento – per i partiti, per esempio – di dedicare
ai giovani un’attenzione di tipo nuovo, meno cattedratica, meno paternalistica».
Le riflessioni sui giovani proseguiranno poi negli anni settanta con la rubrica
settimanale Dialoghi con i genitori («Paese Sera»), le cui finalità sono
chiaramente esposte nella prima puntata del 29 novembre 1970 (I figli non
sono nostra proprietà): «Il mestiere di genitore non s’impara una volta per tutte
[...]. Non c’è una generazione di ragazzi uguale a un’altra [...]. Innumerevoli fili
legano oggi il bambino e il ragazzo (figuriamoci il giovane) a una realtà piú
complessa di quella familiare (e poi di quella scolastica), recandogli impulsi che
né la famiglia né la scuola sono in grado di filtrare e controllare. Questo non
vuol dire che si sia sempre, disperatamente, nel campo del “caso per caso” [...].
Esistono certamente dei comportamenti corretti: ma bisogna essere pronti ad
adeguarli all’infinito, con intelligenza e pazienza. Esistono dei principî, ma non
bisogna considerarli dogmi. Essi vanno continuamente verificati
dall’esperienza, rimessi ogni volta a fuoco con l’osservazione [...]. Nel nostro
atteggiamento verso i figli noi siamo guidati, prima di tutto da ciò che siamo
[“in base alle differenze sociali, ideologiche, politiche”]. E noi non siamo tutti
uguali, non vogliamo tutti le stesse cose, non possiamo avere la stessa idea
dell’educazione».
Nel corso di una conferenza stampa alla Tv l’onorevole
Longo, rispondendo a un giornalista, si è occupato qualche
settimana fa dei giovani: a) per riconoscere «che il Pci non
è ancora riuscito a trovare le forme, i modi opportuni per
riprendere contatto con la massa dei giovani, soprattutto
per portarli all’azione organizzata e ben diretta»; b) per
sottolineare che il fenomeno (la scarsa adesione giovanile
alla vita politica) tocca in egual misura tutti i partiti e le
loro organizzazioni giovanili; c) per indicare la gravità di
quel fenomeno in relazione alla solidità e all’avvenire della
democrazia in Italia.
Longo ha anche ricordato, però, che «nell’azione, nelle
lotte, in particolare nelle manifestazioni antifasciste, nelle
manifestazioni della Resistenza, in quelle in difesa della
democrazia, la gioventú è in primo piano, si batte e si batte
coraggiosamente».
Sono osservazioni esatte che chiunque si interessi dei
giovani può aver fatte a sua volta. I giovani hanno tanti
modi per manifestare la loro sfiducia nella società adulta,
nella quale vi sono cose che accettano e cose che rifiutano.
La loro opposizione può esprimersi in forme urtanti ed
offensive per il buon gusto, il buon senso e la buona
digestione dei padri: ciò tocca le musiche che preferiscono,
le fogge che adottano, gli atteggiamenti di sfida che
ostentano. Sono fenomeni di superficie, rituali di
generazione, mode. Al momento giusto si vede che i capelli
lunghi non hanno guastato la loro fondamentale salute
morale. Le cronache dell’alluvione in Toscana e nelle
Venezie sono piene di episodi significativi. Migliaia di
giovani, compresi gli «ye ye» e le varie specie di
«beatniks», si sono prestati con coraggio e con generosità
all’opera di soccorso e salvataggio. Era il loro momento.
Quando c’è «qualcosa da fare» che richieda slancio,
disinteresse, sforzo, è sempre il momento dei giovani.
I guai nascono quando la società adulta, per gelosia o per
incomprensione, o semplicemente per incapacità, non
chiama i giovani a qualcosa che valga la pena di fare: a
prendere iniziative, ad assumersi responsabilità in prima
persona. Nella «routine» della scuola o della fabbrica il
giovane, generalmente, si scontra solo con problemi di
disciplina. È un minorato senza diritti e senza personalità.
Un «allievo», cioè un essere di seconda categoria.
Queste cose le sapevano già i classici. Apriamo lo
Zibaldone di Giacomo Leopardi alla data del primo agosto
1820 e leggiamo, sottolineando qua e là per nostro piacere:
«Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo,
non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere,
non è tolto né possibile togliere il desiderare. Non è spento
nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, a
sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai
quali anticamente era rivolto questo ardore vedete a che
cosa li debba portare e li porti effettivamente. L’ardor
giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima,
una volta entrava grandemente nella considerazione degli
uomini di Stato. Questa materia vivissima, e di sommo
peso, ora non entra piú nella bilancia dei politici e dei
reggitori, ma è considerata appunto come non esistente.
Fra tanto ella esiste ed opera senza direzione nessuna,
senza provvidenza, senza essere posta a frutto... e laddove
anticamente era una materia impiegata e ordinata alle
grandi utilità pubbliche, ora questa materia cosí naturale e
inestinguibile, diventa estranea alla macchina e nociva,
circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco
elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né
impedire che non iscoppi in temporali, in terremoti ecc...»
Temporali, terremoti: si pensa a certe esplosioni di
violenza collettiva degli arrabbiati inglesi, alle rivolte dei
provos olandesi. Qualcuno potrebbe pensare anche (ma il
discorso si complicherebbe) alle «guardie rosse» di Lin
Piao. Tutto il brano, del resto, oltre che straordinariamente
lucido, appare, al nostro «senno di poi», quasi profetico.
Problemi che noi «buttiamo» in psicologia (uno
strumento prezioso che può anche diventare un idolo cui si
chiedono oracoli in materie estranee alla sua competenza)
Leopardi «buttava», come si vede, in politica. Parlava ai
«reggitori». Mostrava loro una forza da usare per cose
grandi.
Chiediamo ai giovani le «piccole virtú» e, giustamente, si
ritireranno in un angolino a suonare la chitarra. Ma chi li
chiamerà alle «grandi utilità pubbliche», una volta passate
le alluvioni, per le quali si sono mobilitati da soli?
Materia prima

Nell’aprile 1968 Rodari torna con tutti gli onori (a lui è dedicata la copertina)
sul «Caffè» con un consistente gruppo di 20 poesie. Di queste, l’Esercizio n. 18
e In viaggio saranno riprese per il libretto Parole per giocare dell’editore
Manzuoli. Che dire di queste poesie? Ancora una volta evidente è il gioco con le
parole. Un gioco che libera la fantasia e rende piú comprensibile il mondo e le
sue storture. In alcuni di questi componimenti la satira si fa amara. Dettata da
una forte amarezza è, ad esempio, Un sogno: sono aggredite le abilità
camaleontiche messe in atto dalla diffusa pratica dell’arrivismo sociale. La
forza trasgressiva dei versi sta anche nel ribaltamento totale dello stereotipo
poetico che annette ai sogni soltanto qualità idilliche. Qui la dignità del sogno è
progressivamente svenduta fino alla resa finale e allo spregevole ghigno
conclusivo: l’abietta volontà di toccare i «parapetti della vita» produce incubi e
fascismi. In Fucilazione, al contrario, al sapore amaro della violenza non
cedono l’ottimismo e la speranza; la «dolcezza che non si può perdere» è la
soluzione di ogni «smorfia di felicità»: all’infanzia è affidato il messaggio
salvifico per l’umanità.
1. Il cavallo saggio.

C’era una volta un cavallo molto saggio.


Fumava la pipa, uccideva i microbi, aiutava le vecchine
ad attraversare la strada nei giorni di pioggia.
Per loro gettava ponti di barche sulle pozzanghere, le sue
intenzioni erano lodevoli, nondimeno talune
vecchine per goffaggine o impazienza cadevano dai
ponti, la piena le trascinava dal Ticino al Po, dal Po
all’Adriatico che cosí veniva lentamente
riempiendosi di vecchine, ce n’erano migliaia da
Cervia a Cesenatico, se ne stavano nell’acqua fino al
piloro facendo la calza e borbottando continuamente
in tono nasale come le sirene dei mercantili che
partono da Porto Corsini per Patrasso.
La gente, chiusa nelle case per ripararsi dal malocchio,
sentiva le sirene e diceva: Sentite le sirene, sentite
come si sentono le sirene quando piove e tutti questi
bastimenti ne approfittano per fuggire in Grecia con
le stive piene di cervello fritto e di funghi arrostiti
sulla brace.
Verrà la carestia, i nostri bambini piangeranno, ci
chiederanno pane e dovremo dare loro code di
gatto, colpa di quelle maledette vecchiacce che
ostruiscono la foce del Po con le loro sottogonne.
Bisogna mandare una petizione al cavallo saggio che
fuma la pipa e uccide i microbi.
Un vecchio pescatore che in gioventú sapeva scrivere
mandò al cavallo un uovo sodo, due mele cotogne e
una fiasca di sangue di bue romagnolo.
Il cavallo ricevette il messaggio e lo interpretò
rettamente: l’uovo sodo significava pace e
benedizione, le due mele, che non ti manchi avena
né bastone, il sangue di bue romagnolo
significava, Che tu possa sputare il pancreas, che cosa ti
viene in mente di rifilarci quelle vecchie balorde,
con le loro chiacchiere hanno avvelenato il mare da
una sponda all’altra,
fanno tanta pipí che i pescherecci sbandano a babordo,
abbiamo già perduto sette mozzi nel fiore degli anni
e tutti di nome Gioachino, provvedi, saggio cavallo,
che la pipa ti strozzi, abbi compassione
dell’Adriatico, figlio di una fogna.
Il cavallo comprese che era tempo di prendere
provvedimenti e si accinse alla bisogna con le
migliori intenzioni, ma i provvedimenti non si
lasciarono prendere, saltarono sul tetto della casa
del parroco invocando il diritto d’asilo
e di lassú bersagliavano i passanti con tegole marce e
nidi di rondine.
Gran folla si adunò sul sagrato,
taluni parteggiando per il cavallo saggio, altri
pronunciandosi a favore dei provvedimenti, e
dicevano: Basta con queste persecuzioni, sono
venticinque anni che questo cavallo li tormenta.
I provvedimenti si sporgevano dal tetto approvando con
grandi cenni del capo, spalancavano la bocca per
mostrare le gengive prive di denti: Ecco che cosa ci
ha fatto il cavallo a colpi di zoccoli, e a quanti di noi
ha rubato l’ernia con l’inganno?
Siamo figli di mamma, orfani di padre, noi stessi siamo
padri di poveri orfanelli, e che la smetta di fumare
quella pipa pestilenziale caricandola con lombrichi
seccati al sole!
Giusto in quel momento dal fornello della pipa si sporse
un lombrico puntando l’indice minaccioso, mentre
con l’altra mano si pettinava la barba.
Menzogna, disse il lombrico, non siamo stati seccati né al
sole né alla luna, che il saggio cavallo ci fuma vivi
allo scopo di liberare i bambini dai vermi, egli è un
benefattore dell’infanzia, voi siete dei bastardi!
Cittadini,
acchiappateli, ci hanno seccati abbastanza, se vale la
pena di sprecare per loro una metafora...
Cosí cominciò la caccia ai provvedimenti che piú nessuno
oramai osava difendere, erano in realtà
provvedimenti molto impopolari...
Il sindaco mise sulla loro testa una taglia di dodici
quintilioni di centimetri quadrati.
Essi fuggivano di tetto in tetto demolendo i comignoli,
inseguiti dal cavallo saggio e da diecimila boyscouts.
Le vecchine, in assenza del cavallo, prive di ponti e
incapaci di costruirsi delle zattere, non piú osavano
attraversare le pozzanghere, bensí si assiepavano
sulla sponda,
ben presto non ci fu piú posto per altre sul marciapiede,
le seconde arrivate montarono sulle teste delle
prime, le terze si arrampicarono sulle teste delle
seconde, si formò una montagna di vecchine alta
circa diciotto metri, molte furono schiacciate dalla
calca e per lo spavento partorirono dei piccoli
analfabeti che infestarono i dintorni con urla
selvagge.
Dall’alto di una torre merlata il cavallo saggio osservava
il panorama succhiando stancamente la pipa e una
grande tristezza penetrò nel suo cuore, di
orecchietta in ventricolo si installò nell’aorta
provocandogli un attacco di angina pectoris.
Il cavallo saggio stramazzò su se stesso lanciando nitriti
d’emergenza
che furono uditi a Grande Distanza, in provincia di Lecce,
dove abitava suo fratello, minore a lui d’anni ma non
di saggezza.
I cittadini di Grande Distanza, atterriti, si nascondevano
in numerose ceste di fichi secchi ma il cavallo
fratello li rassicurò: Non sussiste minaccia di
movimenti sismici, né si è destata la piovra dai mille
tentacoli che ogni anno richiede il sacrificio di un
consigliere comunale, è mio fratello che mi chiama,
fiutando odor di morte, portategli queste pastiglie,
ditegli che ne prenda due ogni morte di vescovo con
un sorso d’acqua minerale, subito si sentirà meglio,
perfettamente in forma e tornerà alle sue utili
occupazioni.
Un ciclista si offrí di portare le pastiglie.
Egli inforca la bicicletta a vela
e il vento lo spinge alla velocità di novecento nodi.
Pedala con le mani e con i piedi, con le unghie e con i
denti, ma soprattutto col sudore della fronte.
mentre il campanello collegato con le pedivelle a mezzo
di un filo elastico di colore azzurrognolo trilla
automaticamente per chiedere strada.
Tutti fanno largo con impegno degno di onesta causa,
comprendendo l’importanza degli avvenimenti e
servendosi degli strumenti che si trovano a portata
di mano, zappe, vanghe, bulldozer, ramaioli, picconi,
spianano le montagne al passaggio del ciclista,
gettano ponti sui fiumi e fiumi sotto i ponti, torrenti
dentro i fiumi, ruscelli dentro i torrenti.
Risultato di questo magnifico sforzo collettivo in pochi
anni il ciclista reca le pastiglie a destinazione, il
vescovo sente che è giunta la sua ultima ora e
muore raccomandando al popolo di seguire i buoni
esempi del cavallo.
Il cavallo sta sempre sulla cima della torre merlata,
arrotolato su se stesso, soffrendo di angina pectoris,
appena le campane annunciano la morte del vescovo
inghiotte le pastiglie con un sorso d’acqua minerale,
la tristezza abbandona bestemmiando l’aorta e per
vie traverse si getta alla boscaglia.
Il cavallo saggio ritrova le sue formidabili energie,
cattura i provvedimenti, li costringe a bere le
pozzanghere, le vecchine attraversano la strada
all’asciutto, i piccoli analfabeti sono condannati
all’ergastolo, la foce del Po si sgombra, le sue acque
trionfali spazzano l’Adriatico con tutti i suoi delfini.
Dopo questa terribile avventura il cavallo saggio
continuò a fumare la pipa e a uccidere microbi, li
uccideva uno alla volta, schiacciandoli tra due
zoccoli, morendo essi pronunciavano frasi storiche
ma sconnesse e facevano testamento a favore della
città.

2. Esercizio n. 17.

Guadavamo i fiumi gialli,


sospettati di bronchite,
nascondendo nei cavalli
borotalco e dinamite.

Eravamo sette e sette,


tutti giovani e gagliardi,
coi pennini nelle ghette
per illudere i ghepardi.

Eravamo sette od otto,


senza un solo dente guasto,
con in tasca né un cerotto
né una pianta del catasto.

Tutti arditi, tutto ardore,


o l’ardente gioventú!
Non c’è prete né pretore
nei deserti di laggiú.

Non c’è prato, non c’è proto


e non c’è pronto soccorso.
Dopo l’alba cala il vuoto.
Ogni notte muore un orso.

Vien sepolto tra le foglie,


segnalibro forestal.
Or ci insegna nostra moglie
che chi muore si fa mal.

3. Esercizio n. 18.

Il dí dell’Ascensione
salivo in ascensor
e per combinazione
trovo il commendator.

Commendator, lei sale?


No, grazie, pepe sol.
Lo sale mi fa male
e l’insalata duol.

S’accomodi in salotto
cosí le spiegherò
perché non havvi al Lotto
la ruota di Salò.

Se a lei non piace il sale


né io son salottier:
siederò sulle scale
da prode condottier.

O conte di Salina,
la spada tua dov’è?
L’ho persa alla marina,
non chiedermi perché.

Non chiedermi percome,


non lo potrei contar:
lontano, senza nome
mi voglio rovinar.
Salivo in ascensore
il dí dell’Ascension,
ma nessuno ebbe cuore
di pigiare il botton.

4. Il topo sigaro.

Storia di un topo che non sapeva di essere un sigaro.


Il fatto che la coda gli fumasse
lo meravigliò da non dire,
lo intrigò per numerosi semestri,
indi ci fece l’abitudine.
Il rispetto che i gatti gli dimostravano scambiava per un
piacevole effetto
del suo fascino personale.
Perdonabile topocentrismo,
saremo gli ultimi a fargli la predica.
Una volta capitò in uno scompartimento per non fumatori
e una vecchia stava per incenerirlo con lo sguardo,
si salvò gettandosi nella sua disperazione.
Questo è niente in confronto all’incendio dell’Opera
causato da una sua perdita di scintille.
Furono accusati nell’ordine i cinesi, gli anarchici, la mala
di porta Genova, la mafia dei giardini, un tenore
schizofrenico, due contrabbassisti, un pompiere
degenere, un tecnico delle luci, un contralto del
peso di settantanove chili, tutti poterono discolparsi
dimostrando che fumavano soltanto marijuana.
Successivamente il piccolo roditore diede fuoco a un
distributore di benzina, a un dizionario dei sinonimi,
ai Musei Vaticani, a una pantofola del dottor
Salimbeni, funzionario del registro di Bracciano, ad
alcuni coccodrilli dello zoo,
a un traliccio dell’alta tensione,
bruciò alcune mosche al naso,
un pagliaio,
un agoraio,
un pecoraio con tutti i suoi pidocchi, due monsignori
della Sacra Rota.
Dovunque passava lasciava l’impronta delle cose
incenerite.
Nella sua inconsapevolezza avrebbe dato fuoco alla via
Lattea,
con quel che costa il burro,
se un passante non lo avesse spento schiacciandolo per
distrazione tra due ciottoli.
L’uomo della strada è il salvatore dell’universo anche
perché non ne ha il minimo sospetto.

5. La terra natia.

Un giovane romano, impiegato di concetto, trasferito a


Chieti per ragioni d’ufficio, si porta nella valigia un
sacchetto di terra raccolta sul Campidoglio un
sabato notte dopo aver salutato gli amici e i
superiori.
Il sacchetto, legato con un cordoncino d’oro, sta sul
comodino della camera d’affitto.
Talismano che assicura il ritorno
o acconto sulla tomba di famiglia?
Ah, quel giovane, perché non vi procurate piuttosto
sacchetti di terre avventurose,
Tahiti, Le Azzorre, la taigà, le pendici del Kilimangiaro,
terre di altri pianeti, di altri sistemi solari, scavate
dal cuore della nebulosa di Andromeda?
Che fa suo padre, perché non va a Chieti a buttare il
Campidoglio nel lavandino?
Suo padre è di Massa Carrara, nel suo studio a Roma
tiene sulla scrivania un sacchetto di terra delle Alpi
Apuane, ha faticato molto a trovarla, perché lassú è
tutto marmo,
ma se non è terra non vale.
Suo nonno è di Cinisello Balsamo,
abita nell’Ohio,
tiene nel cassetto delle pipe un sacchetto di terra
lombarda.
La moglie di suo nonno è di Toronto, abita essa pure
nell’Ohio,
precisamente dove abita suo marito, nella stessa casa,
dormono nella stessa stanza a causa della loro
mancanza d’immaginazione, essa tiene nel cestino
degli aghi
un sacchetto di terra di Toronto,
almeno crede. Ma lo spedizioniere
le ha mandato per isbaglio terra dell’Alaska.
La nonna sente ogni tanto cattivo odore.
Mai l’attribuirebbe alla sua terra.
E invece viene proprio di lí, perché c’è stato quello
sbaglio.
Chissà che cos’ha questa terra, ma chissà che cos’ha
questa terra: deve avere nostalgia della sua terra,
proverò a portarla a Toronto.
La porta a Toronto e la terra continua a puzzare.
La nonna dice: All’inferno questa terra natia.
La getta in un torrente e subito respira meglio perché le
è passato il raffreddore.

6. Un sogno.

Storia di un sogno che nessuno sognava.


Vagava insonne di cuscino in cuscino offrendo vanamente
le sue immagini.
Batteva gli autostelli con l’autostop, penetrava nelle
carceri dalle bocche di lupo, aveva già visitato tutti i
conventi, i collegi, i dormitori pubblici, i grandi
alberghi dove s’insinuava nel telefono sui comodini,
o si mescolava ai fantasmi del teleschermo.
Entrava nelle camere su vassoi di lacca a fiori.
Offriva la sua merce gratis, s’intende.
Non indietreggiava davanti ai tentativi di corruzione.
Piú volte provò a farsi accettare per denaro, promettendo
un regno, un cavallo, il favore delle belle, mentí,
strisciò, bestemmiò, implorò, leccò il pavimento in
un’abietta volontà di esistere.
Non diversamente la materia diventa scolopèndra
sanguisuga tafàno
pur di toccare i parapetti della vita, non diversamente
l’amante respinto
si umilia per un sorriso o anche per uno schiaffo.
Questo sogno in sostanza non poteva sapere se era un
bel sogno o un brutto sogno fin che gli toccava
aggirarsi nei corridoi piú oscuri senza mai poter
gettare un’occhiata in uno specchio.
Gli venne finalmente offerto un posto da incubo in una
casa di cura.
«L’ho fatto per mangiare», si giustifica.
Ma è ingrassato, ha due macchine, fiorisce, vóta a
destra.
7. Storia di un gatto.

Avevamo un gatto di nome Costantinopoli, suonava il


flauto, sputava le tagliatelle.
Viaggiava moltissimo in punta di piedi, senza rivolgere la
parola agli estranei, bella bestia dal capo alla coda
fin dove finiva, dagli occhi celesti colore di meteora
agli artigli blasonati di marca spagnola.
Non so quando né perché diede le dimissioni, scomparve,
mancò da ogni lato, fu una cosa di cui si parla come
se la si vedesse, come se le parole bastassero a
conferirle presenza.
Io guardavo in tutti gli angoli e dietro i topi, spiavo per
ore i marciapiedi piovosi.
Sul sentiero dei cinghiali una sera trovai il suo flauto
spezzato
e se fossi riuscito a suonarlo certamente Costantinopoli
sarebbe apparso dall’alto dei suoi baffi, in cima al
suo sguardo di fuoco azzurro, tra due valigie di fibra
dagli spigoli logorati, l’avrei visto oscillare tra due
note viola.
Soffiai nel flauto con tutta la mia forza, goffo, impetuoso
come l’infanzia.
Avrei dovuto, lo so, soffiare con dolcezza, insinuare un
lamento tra le sfere celesti, negli interstizi del
cosmo.
La materia non è cosí compatta
che un gatto non possa attraversarla a piacere in silenzio
come uno che se ne va,
si allontana dai sogni,
entra negli occhi scostando le ciglia con gli artigli
amorosi.

8. Il cappello a cilindro.
Un cappello a cilindro andò da un droghiere per farsi
riempire di cioccolata calda.
Non posso servirla, il droghiere disse.
Perché, disse il cappello a cilindro: dei pubblici esercizi il
pubblico è padrone e i cappelli a cilindro hanno
sempre ragione.
Sarà, riconobbe il droghiere,
ma giustappunto abbiamo finito la cioccolata di cui
abbiamo fornito settecento ettolitri al locale
comando della guardia forestale.
Grazie, disse il cappello a cilindro, mi rivolgerò al
suddetto comando
a stretto giro di posto.
Difatti girò l’angolo,
scantonò il cantone,
tirò diritto a sinistra
e si trovò di fronte al comandante in persona che
distribuiva la cioccolata fumante ai boscaioli e ai
cacciatori di frodo con la piuma sul cappello.
Buongiorno, buongiorno, signor comandante.
Buongiorno a lei, cappello a cilindro, in che cosa le posso
essere utile
e in che cosa posso favorirla?
Per cortesia, mi riempia di cioccolata calda.
Mi duole, mi duole, stimatissimo cappello, lei non ha il
porto d’armi,
come può rivolgermi la parola senza arrossire?
Si indirizzi al comando dei cappelli a cilindro in carta da
bollo da quarantacinque miliardi, per avere
l’autorizzazione
di avanzare la richiesta
allo scopo di inoltrare domanda
in deroga alla legge numero quattrocentomila articolo
diciassette bis secondo capoverso, pagina
quarantadue contando dalla copertina, pagina
sessantacinque contando dalla controcopertina,
tredicesimo chilometro partendo dalla via Cassia.
Il cappello a cilindro impallidí,
si fece largo nella folla a colpi di lupara e si recò dove di
dovere.
Il comandante dei cappelli a cilindro, uomo vissuto e di
larga esperienza, sensibile all’omaggio e devoto al
suo incarico, piú volte decorato al valore civile
militare e religioso, abbonato al palco dell’opera
e a quello delle autorità,
era morto da pochi istanti.
Giaceva nella bara in stato di immobilità e di totale
inservibilità.
Ecco, disse il cappello a cilindro, in che mondo viviamo e
come ti trattano, il comandante muore lasciandoti
senza cioccolata ma della cosa non sarà fatta parola
sulla sua lapide tombale,
non mi resta che dare le dimissioni.
Difatti si dimise dai cappelli a cilindro ma per tutta la
vita ebbe il rimpianto della cioccolata calda.

9. Il pianoforte a vela.

C’era una volta un pianoforte a vela che navigava di


porto in porto,
sempre sul mare, vivendo di musica e di pesca,
strumento di marea e non privo di àncora, battente
bandiera liberiana nei tempi pari, svizzera nei tempi
dispari,
temperamento sportivo e dodecafonico che aveva giurato
eterno odio ai romantici e ne sconsigliava l’ascolto
alle popolazioni rivierasche:
«Tenetevi lontani soprattutto dagli epígoni!
Ma anche Chopin a piccole dosi,
sotto controllo medico,
Schumann soltanto la domenica pomeriggio, per il resto
Scarlatti e Sciostakofic, Bach, Bela Bartok, Mozart,
Dallapiccola, siano il vostro cibo, contorno non
occorre».
Tali principi inevitabilmente gli valsero l’odio di numerosi
pianisti
battenti ogni sorta di bandiere,
non c’è da stupire né da rimanere di sasso né da
inghiottire chiavi di basso per la rabbia
apprendendo che essi organizzarono
una flotta di corazzate e incrociatori, senza contare i
sommergibili atomici armati di razzi a testata
nucleare, allo scopo di colare a picco il pianoforte a
vela.
La spedizione salpò le ancore un lunedí mattina, gran
folla di patronesse, autorità
religiose navali militari civili incivili dal molo lungamente
salutò gli audaci sventolando spartiti di Franz Listz,
fin che la flotta non fu che una manciata di note, una
collana di semibiscrome sparse all’orizzonte.
Allora apparve da oriente e biancheggiò una vela
solitaria ammiccando ironicamente.
Il pianoforte antiromantico si era armato di dissonanze a
lunghissima gittata.
Tenendosi fuori tiro sparò una bordata per primo
chiedendo la resa
degli stolti persecutori,
i quali essendo stolti non si arresero ma colarono a picco
in fila indiana, gli ammiragli con essi, salutando
militarmente i fogli d’album da combattimento
che avevano fatti salire sui piú alti pennoni con
orgogliosa e stolta sicurezza.
Il pianoforte a vela raccolse i naufraghi, li depositò su
uno scoglio lasciando loro acqua, viveri, quartetti di
Schoenberg e canti di Luigi Nono, si allontanò verso
il sole
seguito da delfini elettronici e concerti in un mare
finalmente mal temperato.

10. Insiemi.

Lo consolava la matematica degli insiemi.


Riflettendo sui suoi casi facilmente scopriva di far parte
di numerosi insiemi cosí catalogabili –: l’insieme
degli uomini nati nel 1920, l’insieme degli uomini
nati nel 1920 tuttora viventi, l’insieme di tutti i nati,
l’insieme di tutti i mancini,
l’insieme degli epatopatici,
l’insieme degli addetti al commercio, l’insieme degli
addetti al lavoro,
l’insieme delle persone che portano l’orologio al polso,
l’insieme dei mammiferi,
l’insieme dei bipedi
(di questi due insiemi egli occupava saldamente
l’intersezione senza l’imbarazzo di chi tiene il piede
in due scarpe), l’insieme degli abitanti della via
Lattea, la cui tabulazione sarà possibile
solo a completamento della sua esplorazione, l’insieme di
coloro che hanno schifo dei ragni, l’insieme degli
utenti della strada, l’insieme degli italiani
sopravvissuti alla seconda guerra mondiale,
l’insieme degli italiani che temono la terza, l’insieme
degli europei che abitano a sud di Francoforte sul
Meno ma a nord del Busento, a ovest di Saint Tropez
ma est di Salonicco, l’insieme degli uomini bianchi,
l’insieme degli uomini bianchi con occhi celesti, l’insieme
dei lettori di libri gialli, sia bianchi che negri,
l’insieme delle persone che non sanno usare un
calcolatore elettronico, l’insieme dei lettori di
giornali che non scrivono al direttore, l’insieme dei
vertebrati,
l’insieme degli alfabetizzati,
l’insieme dei moderatamente alcoolizzati, l’insieme dei
viaggiatori che sono stati una sola volta a Brindisi
ma non una volta sola a Recanati, l’insieme delle
organizzazioni individuali di materia vivente, di cui
fanno parte vescovi, ministri, tranvieri, scolopendre,
eucalipti, rododendri, muschi, scrittori, trachinie,
delfini, batteri, microbi, principi del sangue,
l’insieme di coloro il cui nome comincia con la
lettera M, tra cui si notano principi del foro, donne
di strada, attori svedesi, minatori boliviani, guardie
di finanza, ex membri del partito comunista, pastori,
monaci buddisti, l’insieme dei compratori di cravatte
(che non sta in corrispondenza biunivoca con
l’insieme dei portatori di cravatte, stanteché molte
mogli comprano cravatte ma non le portano e molti
mariti portano cravatte ma non le comprano).
Col tempo si rese conto, non senza un sentimento di
orgoglio, di essere un elemento di un insieme
infinito quale è certamente e al di là di ogni
meschino dubbio l’insieme degli uomini reali e degli
uomini immaginari.
Scoprí con gioia di far parte di numerosi sottoinsiemi, di
insiemi universali,
di insiemi disgiunti,
di insiemi complementari.
Lo entusiasmò la certezza che mai, per soffiar di venti,
sarebbe precipitato in un insieme vuoto, quale
l’insieme degli uomini alti diciotto metri, l’insieme
dei presidenti della R. I. eletti prima del 1940,
l’insieme dei numeri pari divisori di tredici, l’insieme
dei ramarri parlanti,
l’insieme dei rettangoli con cinque angoli, l’insieme delle
chitarre che fumano la pipa e quello delle pipe che
suonano la chitarra.
Paragonando l’insieme dei violinisti e quello dei generali
d’artiglieria giunse a formulare il seguente
sillogismo: tutti i violinisti hanno i capelli lunghi,
taluni generali d’artiglieria hanno i capelli corti,
dunque taluni generali d’artiglieria non sono violinisti.
La scoperta lo riempí d’entusiasmo: riuní i violinisti, i
generali e se stesso in un apposito insieme di cui
diede la rappresentazione tabulare provando un vivo
senso di solidarietà.
Ogni giorno egli aggiungeva all’inventario dei suoi
insiemi decine di nuovi interessanti raggruppamenti.
Come avrebbe potuto sentirsi mai solo, o temere per le
sue difese personali, contemplando l’insieme di tutti
i suoi insiemi, vedendolo crescere a vista d’occhio,
docile ai suoi comandi?
Mai vi fu uomo piú sicuro, piú protetto, eserciti
innumerevoli muovevano in suo soccorso da ogni
parte del cosmo,
dalle profondità del tempo,
dalle sterminate riserve dell’immaginazione, da ogni
piano del condominio.
Eppure di quando in quando, con frequenza irregolare,
guardandosi allo specchio o toccandosi la guancia,
non vedeva che un’immagine un po’ assurda.
Chiusa la porta di casa,
oltre a lui non c’era anima viva nelle stanze.
La notte si destava inquieto
nell’insieme dei suoi mobili, da cui restava escluso,
pensava stancamente un insieme
che costringesse almeno i fiori finti a schierarsi al suo
fianco
e, «che sarà», si domandava, «di me».

11. Il mistero delle dieci chiavi.

Un uomo che ha un mistero si distingue dagli altri perché


guarda sempre in dentro,
il pensiero dominante lo fa camminare curvo e furtivo
rasente i muri,
si chiude con dieci chiavi dietro dieci porte, non trova
nulla da dire alla famiglia, ascolta con occhio torvo
quanto gli viene detto, ha fretta di restare solo
nella tomba della sua anima.
Muore finalmente, per una ragione qualunque, si cercano
le chiavi, si aprono le porte una dopo l’altra con
unghie impazienti, l’erede può gettare un’avida
occhiata di scoperta sulla preziosa raccolta di carta
igienica rubata sui treni, negli alberghi, nei
ristoranti, negli uffici pubblici e privati,
in patria e all’estero, in tagli diversi, in rotoli colorati,
per lo piú a quadratini.
Ce ne sono quintali di tonnellate,
chilometri di centimetri e miriametri, parte in cataste
scrupolosamente ordinate, parte in cartelle su
appositi scaffali, bauli ne rigurgitano mucchi sotto il
letto, pieni di armadi, le tasche di ogni vestito, il
cassetto delle calze e quello dei fazzoletti, fogli
stanno infilati dietro i vetri dove sbiadiscono i morti
familiari
con una viola del pensiero sulla guancia, alcuni emettono
un leggero profumo, su altri la muffa ha tessuto le
sue coltivazioni, il bianco ragno del tempo che ha
condiviso il segreto, da antichi decenni lui solo
conobbe l’emozione che il ladro di carta igienica
provò intascando il primo foglietto, calando le
palpebre sugli occhi prima di uscire perché una
scintilla non tradisse la sua gioia fiammeggiante ai
piedi di un guardiano sospettoso, di una vecchia
laida con la mano tesa a ricevere la mancia o il
prezzo del tradimento.

12. Amico ti conosco.

Amico, ti conosco, sei di quelli


che bisogna far vivere a spintoni,
cacciare avanti a calci,
sempre in cerca d’una spalla, d’una giacca per piangervi
sopra lacrime troppo dolci, sempre in crisi come uno
che ha perso l’ombrello in un giorno di nubifragi,
con le tasche piene di drammi, di fiammiferi che non si
accendono,
di passioni scandenti,
di lamenti appiccicaticci,
sempre in caccia di qualcuno che porti il tuo zaino, con le
orecchie piene di buone parole che rubi agli altri,
ruberesti il lecca-lecca a un bambino, in filobus ti
appoggi sulla schiena del vicino, amico, vorrei tanto
non conoscerti, poterti cambiare
con un miliardo di zanzare.

13. In viaggio.

Noi leggevamo un giorno per diletto, noi leggevamo un


giorno sul diretto, soli eravamo e senza alcun
sospetto, sordi eravamo e senza alcun cornetto,
stolti eravamo e senza alcun concetto, saliti a
Teramo senza biglietto,
senza burro né strutto,
né pancetta né prosciutto,
morti eravamo senza alcun costrutto.
Sola, la morte, in sala d’aspetto,
era una morte di modesto aspetto,
povera morte senza doppiopetto,
ci fece un cenno dai vetri e fu tutto.

14. Bel ricordo.

Il mio piú bel ricordo l’ho scoperto destituito di


fondamento.
La presente servirà da smentita.
Portato per anni nello zaino
come un prezioso segreto,
non era che un tumore,
proliferazione impazzita
di cellule che vivevano
soltanto per uccidermi.
Scampato al pericolo,
cammino meglio, digerisco i sassi,
tutto comincia adesso,
bel ricordo non mi fai fesso.

15. Le avventure del dottor X.

Il dottor X esce di casa per recarsi al lavoro.


Cento passi fino al bar,
cento passi fino al garage,
dieci volte si tocca la tasca posteriore per assicurarsi che
ci sia il pettine.
La gente in generale pensa
ch’egli si accerti che la pistola è al suo posto, che il
proiettile è in canna.
Di questi tempi chi non porta almeno un cacciavite, una
chiave inglese, un martello
per il combattimento di ogni giorno.
Il dottor X non porta che il pettine.
Ogni sera rincasa sconfitto,
con la testa piú bassa, le spalle piú curve.
Sulla porta si misura,
ha perso un centimetro di statura.

16. La bambola.

Una bambola annegata in una pozza


fissava il cielo con occhi celesti, vestita solo d’una
sciarpa verde,
piccola Ofelia senza fiori di campo.
Morta nel gioco per salvare le bambine galleggiava senza
battere le palpebre, ma esse la dimenticarono per
molte notti e poi per tutto un lunghissimo inverno, in
cima alla montagna, nella fredda pozza.
L’acqua gelò sui suoi occhi spalancati, sul suo petto
rosato senza cuore.
La primavera rinverdí la sciarpa,
l’estate scaldò l’acqua,
i girini diventarono rane,
ma le bambine andarono su un’altra montagna.
Andarono altrove, sempre piú altrove, sempre piú
lontano. Ora sono grandi, se domandate loro:
«Chi vi ha salvato la vita?»,
ridono e non rispondono nulla.

17. Piccolo fuoco.


C’era un piccolo fuoco di rami secchi d’ulivo, c’erano
bimbi festosi che saltavano nel fumo, non proprio
nel fuoco, un poco piú in qua, ma l’anima ardita
passava
tra le fiamme senza scottarsi.

18. Un esperimento.
Un bambino di nome Stefano
aveva cinque anni.
Facevamo un esperimento:
a chiamarlo forte
si toglieva il berretto.
Bisognava fare grande attenzione
per trovare il volume giusto:
assolutamente non piano,
ma nemmeno troppo forte:
indovinare fino a che punto
gli piaceva fingersi sordo
oltre che punto avrebbe rifiutato
di ricevere il messaggio.
Del punto esatto egli solo era l’arbitro.
La regola del gioco era segreta.
Camminava davanti a me senza voltarsi e quando fu
stanco corse via
senz’altro scopo che quello di lanciare uno strido con
tutta la sua gola di passero.

19. Il vecchio uomo e il giovane ramarro.

Storia di un vecchio uomo e di un giovane ramarro.


Il primo, considerando il secondo che sul muretto di tufo
muta la prima pelle colore del cuoio per uscire verde
nel sole una mattina d’estate, si ricorda di quando a
sua volta
lasciava le sue spoglie qua e là per la vita, rinascendo
scarno, gentile e impaziente, senza dolore dalle
vecchie ferite,
libero di sbagliare senza pentirsi, di soffrire senza
perdersi,
di perdersi senza paura,
ora che porta l’ultima pelle,
quella che lo attendeva sotto le altre con rughe, macchie,
cicatrici, tumori, e molto è tentato di tenerla da
conto, ora che non ha piú niente da regalare,
nemmeno la sua pelle che nessuno vorrebbe perché
la vecchiaia non è quotata in borsa, prova nel petto
una tristezza funesta e afferra un sasso per
schiacciare il piccolo mostro piú bello di lui, piú
bello di se stesso, ma il ramarro guizza
dimenticandolo immediatamente, se ne va nella sua
vita d’erba e di terra dimenticando ogni ciottolo del
tempo, e fuggendo dona un po’ di vita anche al
vecchio, perché di tutto ciò che vive siamo vivi, ma il
vecchio non lo sa,
si ritira in fondo al petto con la sua tristezza, se ne va
con acrimonia agitando il bastone, vattene, vecchio
pazzo,
la vita è una storia raccontata da un ramarro sul vecchio
muro di un cimitero.

20. Fucilazione.

Un bambino faceva le bolle di sapone dalla finestra


quando mi fucilarono sulla piazza piantata di alberi
senza nome, una mattina deserta con poco sole
tra i rami secchi che non trattenevano le voci, tra quinte
grige di imposte sprangate oscillavano effimere
formazioni, grappoli subito disfatti in acini
trasparenti.
Un bimbo, solo una tenera macchia viva in un rettangolo
nero,
c’era un vasetto rosso sul davanzale, la sola cosa rossa di
quel giorno tutto grigio, io non potevo vedere i suoi
occhi
sentivo la sua anima appendersi dondolando in cima alla
cannuccia di paglia,
staccarsi con un brivido, volare in silenzio, trattenere il
fiato per pregare il vento, attraversare il poco sole
in punta di piedi, rapita in una smorfia di felicità.
I miei carnefici gli voltavano le spalle, nessuno di loro
poté vedere le sue mani sollevarsi in adorazione
quando una bolla piú gonfia, la piú bella di tutte,
partí dal davanzale come un pianeta di cristallo e prima
di scendere salí verso il tetto come una preghiera,
come una favola, piena d’ogni dolcezza che non si
può perdere, intatta e vera per il suo tempo giusto,
non ci sono abbastanza plotoni d’esecuzione in
questo mondo e in ogni altro
per fucilare tutte le bolle di sapone.
La letteratura infantile oggi

Nel 1965 («La voce della libreria», n. 18, dicembre 1965) Rodari apre cosí un
consuntivo sulla Letteratura per l’infanzia oggi: «I fatti di maggior rilievo dei
quali dovrà tener conto chi tenterà una rappresentazione organica della
letteratura infantile italiana in questi ultimi vent’anni (1945-1965) mi
sembrano, a un primo sguardo, i seguenti: il ritorno della libertà, ossia la
Resistenza con il suo durevole strascico di grandi lotte democratiche;
l’espansione della scuola pubblica e, da ultimo, l’estensione dell’obbligo
scolastico fino al quattordicesimo anno di età; lo sviluppo, forse disordinato, ma
imponente, dell’industria editoriale o, se vogliamo azzardare una definizione, la
trasformazione della letteratura per l’infanzia in una grande industria;
l’avvento di nuovi mezzi di comunicazione e di svago (cinema, fumetti,
televisione: a rigore il cinema dovrebbe esser lasciato fuori da questa
categoria, perché un po’ meno “nuovo”; ma la sua influenza sul costume si è
talmente ingigantita da costituire un fatto nuovo in molti sensi); l’accresciuta
difficoltà per i critici e gli storici della letteratura infantile di dare una
sistemazione teorica, una sintesi di tanti fatti, tuttora in movimento».
Soprattutto a quest’ultimo fattore andavano le attenzioni di Rodari, tanto che a
distanza di qualche anno prende l’iniziativa di dare lui una prima «sistemazione
teorica» della letteratura per l’infanzia in riferimento anche a quanto è in
movimento nella cultura e nella società del paese. Lo fa in una relazione tenuta
al Convegno sull’educazione artistica, organizzato dall’associazione Italia-Urss
a Roma nel giugno 1968. La relazione viene pubblicata su «Scuola e Città», n.
3, marzo 1969.
Sono anche da ricordare due diversi contributi che alla definizione della
letteratura infantile lo scrittore fornirà successivamente: nel dicembre 1977
pubblicherà sulla rivista spagnola «Cuadernos de pedagogias» un articolo dal
titolo Un juguete llamado libro; sulla stessa rivista nel febbraio 1980 uscirà La
imaginacion en la literatura infantil. In quest’ultimo saggio tra l’altro scrive:
«Una volta trovato il punto giusto per l’incontro e la sintonia con il bambino,
[l’autore di letteratura per l’infanzia] continuerà ad essere un adulto, si
comprometterà completamente, dirà tutta la verità. La difficoltà sta nel trovare
quel punto giusto. È il frutto di lavoro e di sperimentazione piuttosto che di
intuizione».
Certe posizioni nostalgiche, tipo «i ragazzi non leggono
piú come una volta», appaiono assolutamente ingiustificate;
si può dire, al contrario, che appena ora il libro stia
cessando di essere un privilegio di classi e ceti limitati per
diventare un bene di tutti. Pochi decenni or sono, intere
regioni erano afflitte dalla piaga dell’analfabetismo, intere
classi sociali vivevano a un livello basso, o addirittura
miserevole. Dalla Liberazione in poi è cominciato un
processo contraddittorio ma costante di elevamento del
livello di vita e di cultura. La scolarizzazione si è estesa. Il
prolungamento dell’obbligo scolastico fino ai quattordici
anni, per quanto attuato tra grandi difficoltà e resistenze
oggettive e soggettive, rimane un fatto di grandissima
portata. Il clima di vivace e continuo dibattito di idee che
caratterizza la vita pubblica italiana dalla sconfitta del
fascismo in poi ha portato alla ribalta il problema della
cultura popolare. Vivacissimo è stato ed è il dibattito
pedagogico e didattico, nella scuola e fuori della scuola.
Anche la scuola è un campo di battaglia di idee e di metodi
nuovi: sbaglierebbe chi la rappresentasse unicamente alla
luce delle sue manchevolezze strutturali ed organiche, che
pure sono gravissime. In questo quadro si comprende il
notevole incremento quantitativo dell’editoria per ragazzi.
Sono comparse numerose nuove case editrici. Antiche case
editrici che non si erano mai occupate dei ragazzi
destinano loro, oggi, una o piú collane. Numerose sono le
mostre, i convegni, i dibattiti pubblici intorno alla
letteratura infantile. Sono stati istituiti molti premi letterari
destinati a libri per ragazzi, sia agli autori dei testi, sia agli
autori delle illustrazioni.
Non si sono mai stampati tanti libri per ragazzi come
oggi.
Le nuove tecniche tipografiche hanno avuto la loro parte
in questo sviluppo quantitativo. La letteratura per ragazzi è
diventata un’industria remunerativa e attenta, che avvicina
il bambino fin dai primissimi anni, con albi e libretti
illustrati, plastificati, stampati su tela, lavabili, con libri-
giocattolo, dalle pagine mobili e agibili; lo richiama nelle
edicole con periodici illustrati da raccogliere in volume, con
albi accompagnati dal disco; lo attrae con volumi a colori,
ricchi di riproduzioni fotografiche, ideati secondo tutte le
risorse della grafica moderna.
A questa espansione sembra che abbiano contribuito,
direttamente e indirettamente, anche i fumetti – della cui
fortuna tratteremo piú avanti – sia fornendo a poco prezzo
un certo materiale di lettura a zone sociali escluse
dall’acquisto dei libri, generalmente cari; sia abituando i
ragazzi all’iniziativa, cioè all’acquisto spontaneo in edicola;
sia costringendo l’opinione pubblica, coi modelli peggiori
(se dal male può venire un bene) a porsi seriamente il
problema delle letture infantili.
L’opinione pubblica merita un altro cenno. È in questi
anni, grazie alla generale spinta democratica e culturale
partita dalla Resistenza, che si è verificata – se non ancora
la creazione di una «coscienza pedagogica» da parte della
società adulta nel suo insieme nei confronti della società
giovanile e infantile – una certa presa di coscienza, sempre
piú diffusa, delle difficoltà e delle responsabilità connesse
con il «mestiere di genitore». Corsi e scuole per genitori,
associazioni di genitori ed altre simili iniziative non hanno
ancora, da noi, la consistenza che sarebbe augurabile, sono
ancora iniziative isolate e di minoranza, ma non si può
negare che un poco abbiano mosso le acque. La radio e la
televisione avrebbero potuto fare di piú, ma un loro
contributo alla conoscenza e alla diffusione di libri per
ragazzi, alla nascita nei ragazzi e nei genitori di stimoli
culturali che solo il libro può soddisfare completamente,
almeno per oggi, non può essere negato.
Il primo, serio limite qualitativo dell’espansione
tratteggiata, ci appare dettato dal carattere
prevalentemente commerciale dell’insieme della
produzione. Tale carattere non è forzatamente un elemento
negativo: nel nostro sistema economico l’editore assume in
proprio il rischio della propria iniziativa ed ha quindi in
prima persona il merito, dove esiste, di tale iniziativa. A
parte però i casi deteriori, in cui il libro per ragazzi è
prodotto semplicemente come una merce che si vende, e
naturalmente si vendono anche merci brutte, se danno un
profitto, chiunque conosca un poco la produzione corrente
è in grado di distinguere l’editore che si prefigge
esclusivamente lo sfruttamento e l’incremento di un
mercato dei libri per ragazzi in formazione, dall’editore che
attribuisce a questa sua attività un carattere culturale o
educativo, e orienta la sua produzione di conseguenza.
Dall’insieme risulta un panorama alquanto confuso. Sono
rari i programmi editoriali chiaramente orientati a uno
scopo, a uno dei tanti scopi possibili, quali potrebbero
essere lo stimolo a una creazione e produzione nazionale, lo
sviluppo di collane divulgative di un determinato carattere,
e cosí via. Sono rare le iniziative editoriali dietro le quali si
intraveda il lavoro di una équipe pedagogico-letteraria:
certo piú rare di quelle, anche fortunate, dettate dal gusto
personale o dall’intuizione o dai contatti internazionali
dell’editore.

Scrittori e collane.

Questo limite non ha impedito la formazione di un


notevole gruppo, ormai, di scrittori affermati e capaci,
stimati anche fuori d’Italia, che dedicano in tutto o in parte
il loro lavoro ai ragazzi; non ha nemmeno impedito la
nascita di collane assai interessanti, in cui compare, per
esempio, il meglio della produzione straniera, soprattutto,
per ora, occidentale; di collane di divulgazione scientifico-
culturale quali, durante il fascismo, in un periodo di
chiusura totale delle frontiere ideali e di provincialismo
culturale e pedagogico, non sarebbero potute apparire.
Ma si pensa – o forse sono io, per deformazione
personale, che lo penso – quanto di piú o meglio avrebbe
potuto fare un’editoria robusta e, nell’insieme, piena di
iniziativa come la nostra razionalizzando meglio i suoi
sforzi, adottando metodi produttivi – in fase redazionale –
piú moderni, chiamando a una piú intensa collaborazione il
mondo pedagogico.
Un altro limite è rappresentato dalla scarsa
considerazione in cui tuttora è tenuto tra noi lo scrittore
per ragazzi dall’insieme della società culturale, quasi che
mettersi al servizio dei ragazzi, delle famiglie, della scuola,
fosse un’attività poco dignitosa, da lasciare a chi non ha
saputo trovare altri campi di affermazione, del resto oggi
tanto numerosi e tanto facili. L’umiltà di Tolstoj e di
Stevenson, che hanno prodotto capolavori rivolgendosi
direttamente al pubblico infantile o giovanile, non fa scuola
da noi abbastanza spesso come si potrebbe desiderare.
L’accademico anglosassone o sovietico non disdegna di
destinare direttamente ai ragazzi opere di divulgazione. E
perché non dovrebbe essere cosí? Nessuno meglio di chi è
andato piú avanti degli altri nella fisica, nella chimica, nello
studio della storia, nella conoscenza dei classici, può offrire
le sintesi chiare, eloquenti, ricche di stimoli di cui i ragazzi
hanno bisogno e che certo non può offrir loro chi, per
scrivere un lavoro divulgativo, deve accontentarsi di cucire
in fretta poche nozioni banali, in un campo che non
padroneggia completamente, nel quale egli non riesce a
distinguere l’essenziale dal secondario. Noi soffriamo
ancora delle conseguenze di un concetto aristocratico della
letteratura e della cultura duro a morire, anacronistico,
nell’epoca in cui letteratura e cultura non possono restare
privilegio di pochi, e meno che mai attività di corte.
Soffriamo anche del pregiudizio contro la letteratura
infantile dettato e diffuso da Benedetto Croce – un uomo,
tra l’altro, del quale abbiamo sempre pensato: che peccato
che una bella storia d’Italia per i giovani non l’abbia scritta
lui, che sapeva dominare i fatti e le idee con tanta ricchezza
e sapeva scrivere con tanta chiarezza.
A questo residuo aristocraticismo si deve, forse, la
mancanza d’interesse della critica letteraria per tutto ciò
che si fa per i ragazzi: come se non potesse essere compito
della critica distinguere – posto che il problema interessi
ancora – ciò che è arte da ciò che è cultura, ciò che è
poesia da ciò che è gioco; mentre il livello della produzione
nazionale non avrebbe che da guadagnare da
un’osservazione intelligente dei risultati.
Si dirà che dei libri per ragazzi debbono interessarsi gli
specialisti. Di tali specialisti, per fortuna, ne abbiamo in
Italia. Ma quanto pochi! Del resto non si vede come se ne
possano formare in numero sufficiente e di qualità sempre
elevata, dal momento che sono pochissime, nelle università
italiane, le facoltà e gli istituti pedagogici che si occupano
sistematicamente di letteratura infantile almeno dai due
punti di vista che ci sembrano essenziali: il primo, lo studio
e l’esame critico della produzione corrente, unito allo
studio dei tanti problemi storici, che costituiscono un
terreno quasi totalmente inesplorato, sui rapporti tra la
storia del libro per ragazzi e quella della cultura nazionale,
tra letteratura infantile e società (per esempio, tra libro
d’avventura e epoca del colonialismo e dell’imperialismo); il
secondo, lo studio scientifico, sperimentale, del pubblico
infantile nei confronti del libro, per l’individuazione delle
esigenze psicologiche, dei gusti e delle preferenze, della
comprensione lessicale, dell’interesse ai problemi ed ai
generi. I ragazzi cambiano in fretta. Chi scrive per loro può
e deve, certo, contare sulla sua intuizione personale del
loro mondo in movimento; ma se cerca un aiuto culturale,
ben di rado lo trova in studi sulle esigenze infantili
compiuti decenni or sono, superati, privi assolutamente di
rapporto con i bambini d’oggi.
Ancora un limite vorrei indicare (ma piú avanti tornerò
da un altro punto di vista sull’argomento), in relazione, ora,
piú diretta con il pubblico del libro infantile.
Non si nasce con l’istinto della lettura, come si nasce con
quello di mangiare e bere. Si tratta di un bisogno culturale
che può solo essere innestato nella personalità infantile.
Operazione quanto mai delicata, perché il solo paragone
che sopporta è quello con l’innesto di un nuovo senso: il
senso del libro, le capacità di usare anche del libro come di
uno strumento per conoscere il mondo, per conquistare la
realtà, per crescere. Non trascurerò l’importanza
dell’ambiente familiare, per la formazione di questo gusto
della lettura: è troppo evidente. Ma sulla scuola va detta
qualche parola di piú. Non sempre l’apprendimento della
lettura, il primo, che è il piú decisivo, avviene nella forma
piú adatta. Prevalgono, su ogni altra considerazione, troppo
spesso, le esigenze burocratiche della scuola: quelle
dell’esercitazione, dell’interrogazione, del voto, che
frappongono tra il bambino e la pagina scritta ulteriori
ostacoli da superare, oltre quelli rappresentati dalla
difficoltà di interpretare i segni.
La lettura, o è un momento di vita, momento libero,
pieno, disinteressato, o non è nulla. La scuola crea piú
spesso il riflesso puramente scolastico della lettura: non
l’interesse appassionato, non l’innesto nella personalità
infantile. Ed ecco i ragazzi che, abbandonata la scuola, non
leggono piú: non si aspettano l’interrogazione, non
debbono meritarsi il voto... e nessun altro stimolo li spinge
verso il mondo dei libri.
Tendenze nuove.

Non farò un panorama di autori. Oltretutto, essendo


anch’io autore di libri per ragazzi, non potrei farlo con la
competenza e l’onestà critica necessarie.
Le mie osservazioni possono soltanto contribuire ad
individuare alcune tendenze, nel lavoro dei miei colleghi e
nella produzione degli editori.
Mi sembra, prima di tutto, che sia lecito sottolineare –
ancora una volta – la profonda e durevole influenza della
Resistenza sugli scrittori per ragazzi. Prima ancora della
comparsa di nuovi mezzi di comunicazione che hanno
inserito i ragazzi nel mondo adulto, è stata la spinta ideale
della lotta democratica in Italia a mutare il rapporto tra gli
scrittori per ragazzi e il loro pubblico, a portare nel loro
dialogo temi che una volta dai libri per ragazzi erano
esclusi: il tema della pace e della guerra, quello della
libertà, le cose e i problemi del mondo d’oggi. Vi è tutto un
gruppo significativo di autori e di opere in cui questi temi
sono presenti, e non parlo solo dei pochi che hanno dato
narrazioni dirette di fatti della Resistenza: parlo dello
spirito nuovo, degli ideali nuovi che circolano in romanzi,
racconti, avventure, qualche volta anche nelle forme piú
tradizionali della fiaba. Altri temi presenti nei libri per
ragazzi: il sud, l’emigrazione, la conoscenza e
comprensione tra i popoli, la giustizia sociale.
Quanto ai generi – volendo mantenere per pura comodità
espositiva questa categoria – nessuno di essi appare in
crisi, nemmeno la fiaba che anzi sembra aver ricevuto un
nuovo impulso da particolari interpretazioni delle
possibilità del fiabesco e dall’apparizione di una grande
raccolta – la prima, in Italia, un paese che non ha avuto il
suo Grimm o il suo Afanasjev – delle fiabe nazionali. Si
discute molto sulla fiaba, senza tenere conto che la
richiesta di fiabe (alla radio, alla televisione, ai giornali per
ragazzi) è costante; che forme editoriali nuove – per
esempio, la fiaba col disco – hanno aumentato la
circolazione di un patrimonio che pareva destinato
all’archivio storico; che l’interesse e gli studi degli
etnografi hanno avuto in questi anni, proprio intorno alla
fiaba popolare, nuovi impulsi. Non bisogna fraintendere il
crescente interesse dei bambini per la conoscenza
scientifica, in un mondo dominato dal vertiginoso progresso
tecnologico: il bambino si arricchisce senza perdere nulla
di ciò che appartiene alla sua età; allarga il suo dominio,
nel quale però c’è ancora posto anche per la fiaba, proprio
perché nella sua personalità il posto della fantasia e
dell’immaginazione non può essere insidiato. La fantasia
evasiva, forse, ha trovato altre strade di sfogo, per esempio
i fumetti: la fantasia come mezzo per un approccio alla
realtà si servirà, io credo, ancora per molti anni, della fiaba
tradizionale e di quella che innesta, nel mondo della fiaba
tradizionale, figure, parole e cose d’oggi.
Per quel che attiene all’avventura, bisogna sottolineare
uno scarso sviluppo dell’avventura fantascientifica, che del
resto corrisponde esattamente alla situazione generale
della fantascienza in Italia, infinitamente meno diffusa che
all’estero e quasi tutta d’importazione, americana ma
anche, e con successo, sovietica. È probabile che la
spiegazione risieda lontano: per esempio, nelle tradizioni
quasi esclusivamente letterarie della produzione nazionale
per i ragazzi. Non siamo certo un paese alla retroguardia
nello sviluppo scientifico né ci mancano illustri esempi di
prosa scientifica (basti pensare a Galileo). Ma la divisione
tra letteratura e cultura in generale, tra letteratura e
scienza in particolare, è probabilmente piú profonda da noi
che in altri paesi, di piú giovane tradizione letteraria.
Un fenomeno dei piú interessanti è rappresentato dalle
coproduzioni. Non si tratta solo di una nuova tecnica
editoriale, ispirata ad altri esempi e dettata da necessità di
collaborazione internazionale in imprese produttive di
particolare vastità; ma anche di uno strumento utile alla
sprovincializzazione delle nostre iniziative, alla circolazione
delle idee, delle informazioni, delle novità. Un fenomeno,
insomma, da salutare con favore. Purtroppo, anche qui, il
veleno è nella coda: gli effetti culturali della coproduzione
non sono ricercati direttamente, ma solo come risultato,
indiretto e probabilmente secondario, dell’interesse
commerciale, piú evidente in questa che in altre iniziative.
Le coproduzioni interessano soprattutto rapporti tra editori
italiani ed editori americani, francesi, svizzeri, ecc.
Francoforte è la capitale di queste operazioni. Interessano,
però, anche rapporti tra editori italiani ed editori socialisti.
Anche in questo caso, però, l’aspetto commerciale prevale
su quello culturale. La produzione cooperativa tra editori
nostri ed editori, mettiamo, di Praga, ci può dare opere,
tipograficamente belle, commercialmente competitive:
raramente ci ha portato qualcosa di veramente significativo
in campo culturale. Ai nostri editori interessa la vendita, a
quelli socialisti interessa la valuta: ben altro ci potrebbe
dare, io credo, una collaborazione nella quale finalmente
prendessero il sopravvento interessi culturali, senza alcun
pregiudizio degli aspetti commerciali. Non è detto che un
libro culturalmente significativo si debba vender meno di
un libro bello ma superfluo.
Un’ultima osservazione toccherà del grande salto,
quantitativo e qualitativo, originato dalla legge che
introduce nella seconda e terza media la lettura
obbligatoria di un’opera di narrativa moderna, italiana o
straniera. La legge ha creato un mercato nuovissimo, che
ha grandemente stimolato gli editori. È sorta tutta una
eterogenea famiglia di collane, con o senza commento, in
cui appaiono disordinatamente classici e moderni, italiani e
stranieri, pigre ristampe di opere collaudate e
pacificamente accettate e adottate dagli insegnanti piú
tradizionalisti e scelte audaci dalle opere di grandi scrittori
del passato, da Dickens a Tolstoj, da Twain a Thomas Mann,
o di scrittori italiani d’oggi, da Moravia a Cassola, da Carlo
Levi a Calvino, ad Alvaro.
C’è molto disordine, in queste iniziative. Si scontrano
criteri diametralmente opposti. C’è chi mira soltanto alle
alte tirature garantite dalle adozioni.
Due risultati positivi vanno comunque sottolineati come
prodotto quasi spontaneo degli avvenimenti: da un lato,
l’ingresso nel mondo dei libri per ragazzi di classici che non
sono arrivati a loro «per caduta» (come i Robinson e i
Gulliver), ma per offerta dell’editore e della scuola;
dall’altro, l’accostamento dei ragazzi, a tredici, quattordici
anni, con gli scrittori piú significativi del nostro tempo, cioè
l’invito a considerarsi, anche culturalmente, membri della
società adulta.

I ragazzi-adulti.

Ciò non porterà alla decadenza del libro per ragazzi:


porterà a una giusta estensione del concetto del «libro per
ragazzi», un concetto che può allargarsi a comprendere
insieme opere nate per i ragazzi, opere adottate
spontaneamente dai ragazzi e opere nate per gli adulti ma
adatte anche ai ragazzi, suggerite loro dall’editore o
dall’insegnante. Ciò corrisponde alla crescente
integrazione dei ragazzi nella società adulta: nel mondo di
tutti, tanto piú vasto della stanza dei giocattoli o
dell’arcadia in cui ancora taluni vorrebbero rinchiudere i
ragazzi, perché vivano una loro vita impossibile,
artificialmente separata dalla nostra. I ragazzi guardano la
stessa televisione che guardiamo noi, ricevono le
informazioni in mezzo alle quali noi stessi siamo immersi:
mi sembra giusto che si aprano ad essi scaffali nuovi anche
nella libreria paterna.
Questa indicazione di problemi non sarebbe completa se
non indicasse almeno, senza la pretesa di trattarli
completamente, alcuni problemi vecchi e nuovi in relazione
all’argomento che ci interessa.
a) Il libro per ragazzi e i mezzi di comunicazione di
massa. La radio, il cinema e la televisione, come hanno
profondamente modificato la vita dell’adulto e i suoi
rapporti con la realtà, cosí hanno modificato la vita dei
ragazzi e i problemi dell’educazione. Non possono dunque,
restare senza influenze sulla letteratura infantile. Da un
lato, ovviamente, gli scrittori per ragazzi sono stimolati a
produrre anche per i nuovi mezzi, oltre che per l’editoria.
Essi sono tra i principali fornitori di materia prima per tutti
i prodotti alla cui confezione sia necessaria, accanto alla
tecnica, la fantasia. Il richiamo è forte, non solo per la
possibilità di guadagni maggiori che nella letteratura, ma
anche per la possibilità di parlare a un pubblico piú vasto,
enormemente dilatato. I pericoli sono gravi: quello, tra gli
altri, di lavorare per la confezione di un prodotto che li
oltrepassa, che si consuma rapidamente senza lasciar
tracce, nel senso tradizionale; quello poi, che comporta
l’adattamento a un tipo di produzione industriale, in
équipe, da parte di chi è abituato a lavorare in modo
artigianale, al suo tavolo, con carta e penna (o, massimo
tecnologico, la macchina da scrivere e il registratore).
La radio e la televisione hanno rivolto un invito diretto
agli scrittori italiani, a lavorare per i loro programmi per
ragazzi, in un certo senso anche mettendoli di fronte alle
loro responsabilità. Forse potrebbero fare di piú
organizzando direttamente la formazione di creatori
specializzati. Certo, parlando di problemi del genere, siamo
fuori di un discorso tradizionale sulla letteratura infantile.
È un discorso nuovo da fare. Anche gli educatori debbono
avere la loro parola da dire, in un discorso del genere.
Vi è poi l’aspetto che interessa direttamente il lavoro
degli scrittori come tali. Non si può piú raccontare
un’avventura senza fare i conti con un ragazzo abituato a
«vedere» le avventure sul teleschermo. Forse agli scrittori
dobbiamo dare un consiglio: leggete meno i classici e
guardate di piú la televisione, se volete essere vicini ai
ragazzi d’oggi.
Per il cinema, in Italia, il discorso è diverso.
Praticamente noi non abbiamo per nulla un cinema per i
ragazzi. Come non abbiamo un teatro per ragazzi, se non
per apparizioni saltuarie e casuali, quasi di fantasmi. Il
cinema e il teatro per ragazzi sorgeranno, quando sorgerà
da noi quella che è stata chiamata una «civiltà
dell’infanzia». Allora non potranno fare a meno degli
scrittori.
b) I fumetti. Abbiamo attraversato in Italia, nei confronti
dei fumetti, fasi alterne: dall’entusiastico accoglimento dei
fumetti americani negli anni trenta, sotto il fascismo,
quando essi significavano per i ragazzi una finestra su un
mondo meno chiuso, meno provinciale, meno soffocante del
nostro, alla proibizione decretata dal fascismo contro un
prodotto della «demo-plutocrazia» americana; dal ritorno al
seguito delle armate americane in Italia, all’allarme contro
il fumetto accusato di ogni genere di colpa e peccato
(l’aumento della delinquenza minorile, che era invece una
conseguenza diretta della guerra; la crisi degli ideali, che
era invece legata alle profonde trasformazioni del nostro
tempo, eccetera), fino all’attuale infatuazione
intellettualistica per il fumetto, considerato quasi una porta
sull’avvenire.
Oggi siamo in grado di valutare con piú distacco il
fenomeno: di coglierne le parentele col cinema, di
giudicare senza moralismi la sua funzione di evasione, tutto
sommato, innocua. Personalmente non abbiamo mai
imputato colpe eccessive al fumetto, che semmai
consideriamo – quando costituisca una passione ossessiva
ed esclusiva – un sintomo, non una causa, di povertà
culturale e morale – una povertà che ha ben altre cause ed
origini nella vita familiare, scolastica, sociale, ecc.
Senza condividere l’infatuazione per un prodotto che ci
sembra un cascame culturale, dove non è semplicemente la
continuazione di un genere di satira e di umorismo che può
avere la sua utilità, non condividiamo nemmeno le
condanne moralistiche e aristocratiche. Per un lettore
intelligente e critico, il fumetto sarà un semplice materiale
di svago. Un ragazzo culturalmente aperto e ricco si
stancherà presto di una lettura che gli offre solo
l’interminabile ripetizione di vicende che hanno scarso
rapporto con gli interessi meno superficiali della sua
personalità.
c) Le biblioteche per ragazzi. Questo tasto è doloroso. Le
cifre sulle biblioteche popolari, scolastiche e piú
direttamente, in tutto o in parte, organizzate per i ragazzi
rimangono – nonostante qualche progresso – sconsolanti.
Rarissimi gli esempi di biblioteche che siano centri vivi di
cultura e di iniziativa infantile. È questo un capitolo della
«civiltà dell’infanzia» che stiamo scrivendo con
straordinaria lentezza.
d) La preparazione degli insegnanti. Nella preparazione
degli insegnanti, sia a livello elementare, sia a livello medio
e superiore, la riflessione sui problemi della letteratura
infantile entra in misura del tutto inadeguata. Basta
un’occhiata ai programmi scolastici, ai programmi d’esame
e a quelli di concorso; basta una scorsa all’elenco degli
abbonati alle pochissime riviste che si occupano di
letteratura infantile. Su questo punto, il solo aspetto
positivo è la diffusa consapevolezza che le cose vanno
cambiate. Questa consapevolezza esiste e io spero che
potrà diventare, entro un tempo sopportabile, reale
pressione perché le cose cambino.

Conclusioni.
Conclusioni, ovviamente, del tutto provvisorie. Dopo aver
elencato tanti problemi, nella speranza che il dibattito li
faccia avanzare, vorrei limitarmi a sottolineare quattro
punti:
1) si è avuto, negli anni scorsi, in Italia, un boom del
libro: ma non ancora un boom del libro per ragazzi, il cui
mercato è tuttora limitato principalmente alle feste
natalizie, nelle quali, se non altro, il libro ha preso un buon
posto tra le «strenne» tradizionali. Io penso che questo
boom non sia lontano. La scoperta dei ragazzi è appena
cominciata: continuerà se educatori, editori, scrittori e
genitori insisteranno nei loro sforzi. Un giorno rideremo
senza arrossire della famosa barzelletta in cui una madre,
che va a comprare un regalo per il figlio, rifiuta il
suggerimento della commessa («gli prenda un bel libro»)
rispondendo: «Ne ha già uno...»
2) I problemi accennati dovrebbero aver giustificato in
anticipo la riserva che io avanzo ora intorno allo stato della
teoria intorno alla letteratura infantile: penso che sia
necessaria, oggi, una sintesi teorica nuova, che tenga conto
di tutti i fenomeni nuovi e del ritmo dei mutamenti
determinati principalmente dai nuovi mezzi di
comunicazione. I classici manuali di letteratura infantile ci
servono sempre meno. Le teorie che muovono da altre
teorie, i libri che nascono da altri libri, ci servono sempre
meno; abbiamo bisogno di riflessioni fresche, sui fatti, sulle
cose, fuori degli schemi culturali tradizionali che la realtà
ha fatto invecchiare.
3) Agli scrittori vorremmo rivolgere un appello analogo a
tener conto della realtà d’oggi, a non trascurare il dovere di
informarsi sui progressi della psicologia, della pedagogia,
della didattica, della sociologia. Noi dobbiamo nutrirci a
tutte queste fonti, se non vogliamo creare opere che, nel
nostro tempo, appariranno superflue. Certo, nel momento
della creazione, nulla conta fuorché l’immagine che nasce
nella fantasia e si svolge in piena libertà. Non sono schemi
psicologici, ideologici, pedagogici, che possono
determinare la riuscita del nostro lavoro, che non può fare
a meno della piú assoluta libertà creativa. Ma la libertà
stessa ci servirà a poco, se sarà soltanto libertà di
fantasticare nel vuoto, o di chiuderci in un mondo che non
è quello d’oggi, non è quello dei ragazzi d’oggi.
4) L’occasione del convegno, durante il quale riceveremo
informazioni su ciò che per i ragazzi si fa in un grande
paese amico, dovrebbe anche essere l’occasione per
riflettere su quanto abbiamo perduto e continuiamo a
perdere, su quanto hanno perso e continuano a perdere i
nostri ragazzi, per la scarsità dei contatti tra l’editoria
italiana e quella sovietica di letteratura infantile.
Conosciamo troppo poco ciò che viene scritto, stampato
e diffuso in un paese in cui i ragazzi che leggono sono
decine di milioni, i libri hanno tirature per noi quasi
incredibili e le biblioteche per ragazzi sono frequentate
come i cinematografi; un paese in cui, tra l’altro, esiste un
cinema per i ragazzi, esiste un teatro per i ragazzi, esiste
quella che noi abbiamo chiamato, nel nostro desiderio, una
«civiltà dell’infanzia».
Conoscenze meno superficiali, legami piú stretti in
questo campo tra i nostri amici sovietici e noi, possono
essere soltanto utili all’amicizia tra i nostri Paesi; ma, quel
che piú conta, utili soprattutto per i ragazzi italiani e
sovietici, dei quali noi siamo qui i rappresentanti, e, se ci
state, i servitori.
Pro e contro la fiaba

Quanto Rodari sostiene nel 1968 in La letteratura infantile oggi aveva


bisogno di ulteriori verifiche e approfondimenti, soprattutto per quel che
riguarda l’uso e il posto della fiaba nell’educazione delle nuove generazioni di
piccolissimi. Nel dicembre 1970 (7, 8 e 11) appaiono su «Paese Sera» queste
tre puntate dell’inchiesta «pro e contro la fiaba». Ma già nel 1969 in un articolo
pure di «Paese Sera» (I giovani: nei nostri figli vediamo come sarà l’uomo, 21
dicembre 1969) alcuni interrogativi e conclusioni dell’inchiesta sono anticipati.
Rodari riferisce i risultati di un esperimento realizzato con un gruppo di
ragazzi. L’esito dimostra che le nuove generazioni hanno acquisito una
«dimensione sociale» della fantasia: «oggi questa capacità si esercita in un
ambito nuovo, meno privato, piú vasto, piú aperto alle influenze di un mondo
cambiato. Voglio dire: il bambino di una volta (o di trent’anni fa), cercando
nella fiaba [...] un’immagine del suo destino, degli indizi sul mondo dei
sentimenti, degli esempi di classificazione morale (il buono, il cattivo, il furbo, il
prepotente) riferiva il tutto a un’esperienza chiusa nel quadro familiare; nel
bambino di oggi il riferimento è un’esperienza di cui fanno parte [...] lo Stato, la
città, gli avvenimenti del pianeta, quelli del progresso tecnico-scientifico».
Le conseguenze di un tale mutamento di prospettiva Rodari le individua nelle
accresciute possibilità di socializzazione dei ragazzi: «Mi pare che essi rivelino
fin dall’infanzia un’attitudine spiccata ad adeguare il loro ritmo personale di
crescita a quello della società. Non avranno paura. Non sono impreparati alla
crescente “socializzazione” dell’individuo. Uso questa parola in antitesi con
l’altra, “massificazione”, che conserva il suo valore di denuncia di un pericolo,
ma fa perdere di vista la possibilità di un esito diverso dello sviluppo umano».
1. Chi era Pollicino.

Un boscaiolo ha sette figli ed è troppo povero per


mantenerli. Un giorno li accompagna nel bosco e ve li
abbandona. Al calar della notte i bambini si disperano, ma
il piú piccolo di loro, chiamato Pollicino, arrampicatosi su
un albero, scorge il lume di una casa lontana lontana e vi
guida i suoi fratelli. Purtroppo quella è la casa dell’orco. Li
accoglie sua moglie, la strega, li sfama e li mette a dormire
accanto alle sue sette figlie che dormono con una coroncina
in testa. L’orco rincasa, fiuta i nuovi venuti e arrota un
coltellaccio per ammazzarli. Ma Pollicino e i suoi fratelli
scambiano le loro berrette da notte con le corone delle
figlie dell’orco il quale, credendo di uccidere gli intrusi, fa
strage della sua famiglia. Di buon mattino Pollicino e i suoi
fratelli scappano. L’orco, avvedutosi del tremendo errore, li
insegue con gli stivali delle sette leghe. A un certo punto si
stanca di correre e si mette a dormire. Pollicino gli ruba gli
stivali fatati, corre dalla strega, si fa consegnare il tesoro
dell’orco e cosí i sette figli del boscaiolo – che intanto s’era
pentito di averli abbandonati – tornano a casa ricchi e
contenti.
Che senso ha questa fiaba, non priva di elementi orridi o
addirittura truculenti?
I bambini amano ancora ascoltare fiabe del genere?
C’è ancora posto per le fiabe in una educazione
moderna?
Rispondere a queste tre domande – e alle altre
moltissime che pullulano intorno a loro come crateri minori
intorno ai maggiori – non è né semplice né superfluo. La
fiaba stessa di Pollicino è tutt’altro che semplice: essa ci si
presenta addirittura come un repertorio, una
ricapitolazione di temi fiabeschi.
C’è il tema del «minuscolo» presente in altre fiabe
famose. Basti ricordare i nani di Biancaneve. Il tema è stato
reso illustre da Swift con l’invenzione dei Lillipuziani nei
Viaggi di Gulliver. Pollicino è sicuramente l’antenato dei
Lillipuziani.
Il tema del numero sette, numero magico quanto altri
mai (sette i figli del boscaiolo, sette le figlie dell’orco, sette
i nani di Biancaneve, sette i re di Roma nella leggenda delle
origini).
Il tema del bosco e della casa nel bosco (che può essere
una capanna, un pagliaio, una grotta) è anch’esso dei piú
comuni. Si tratti della foresta russa o della giungla indiana,
il bosco sta alle fiabe come la farina al pane.
La strega e l’orco sono personaggi d’obbligo, come i re e
le regine, che nella fiaba di Pollicino mancano, ma solo fino
a un certo punto: le corone delle figlie dell’orco fanno di
loro, a guardarle bene delle principesse.
Gli stivali delle sette leghe vanno registrati sotto la voce
«oggetti fatati», insieme alle bacchette magiche, agli
acciarini, ai frutti stregati (che possono uccidere come, al
contrario, risanare dalle peggio malattie) alle erbe che
servono per trasformare un uomo in animale e viceversa.
Tema di assoluto rilievo quello della morte, che le fiabe
talvolta camuffano (il lupo mangia la nonna, ma è costretto
a restituirla viva) ma non dimenticano mai troppo a lungo.
La partenza (che altre volte è una cacciata, un bando, un
incarico rischioso) e il ritorno al termine dell’impresa
aprono e chiudono un gran numero di fiabe con la
regolarità di una rima obbligata. Ma va osservato ancora
che Pollicino risente, sia pure in secondo piano, del tema
del «contadino furbo» (che a sua volta risponde a quello,
assai piú antico ed universale, dell’animale furbo, volpe in
Occidente, coniglio o coyote nell’America indiana, ragno
nell’Africa nera eccetera).
Come si siano composti questi temi, e proprio nell’ordine
che tengono, nella fiaba di Pollicino, non è dato sapere. La
fiaba viveva già da secoli, quando i letterati e i folcloristi la
trascrissero dalla voce dei narratori popolari (ed ha
continuato a vivere di vita propria, di bocca in bocca, anche
dopo, ignorando i libri in cui appariva stampata). Gli
studiosi che, da quasi duecento anni, sono andati
inventariando il patrimonio fiabesco dei popoli indoeuropei,
possiedono ormai centinaia di versioni della stessa fiaba
originaria, in decine di lingue e di dialetti diversi, ma solo
in pochi casi sono in grado di puntare il dito su un luogo, su
un nome e di garantire che lí è cominciato il primo
principio. All’interno del mondo fiabesco poi, sono
individuabili numerosi generi, o gruppi: le fiabe
meravigliose con orchi streghe e oggetti fatati, sono forse
cugine ma certo non sorelle delle storie in cui gli animali la
fanno da protagonisti. A queste si può immaginare (ma
soltanto immaginare) una parentela con le credenze
totemistiche, possono farne fede gli innumerevoli miti
relativi ad animali magici, divini, demiurghi, eccetera, che
si raccolgono presso popoli ancora vicini al totemismo dei
loro antenati, o immersi ancora in una cultura primitiva di
quel tipo. Ma di altre fiabe si possono trovare le fonti –
nobilissime – nei miti greci. Del mondo fiabesco in senso
lato fanno parte anche leggende locali, aneddoti popolari,
magari incollanati in interi cicli, leggende religiose, ecc. Le
fiabe, nel loro insieme, ci si presentano insomma come un
deposito stratificato di piú culture, un archivio in cui il
tempo ha depositato le sue pratiche, evase in spazi
lontanissimi tra di loro: relitti di cui la fantasia popolare ha
fatto il suo bene, nel corso dei millenni, mentre pure
correvano, ma sulla testa del popolo e senza riguardarlo, le
piú illustri letterature; e che poi, ma solo in tempi molto
recenti, sono stati lasciati in eredità ai bambini.
Una piccolissima parentesi per rilevare che di simili
eredità è piena la stanza dei giocattoli. La trottola fu in
antichi tempi un oggetto magico e rituale prima di
decadere a balocco. Le bambole non sono state inventate
per i bambini ma per i morti: per tener loro compagnia
nella tomba, simulacri di divinità, di parenti, di schiavi. Dal
sacro al profano, dal rito al gioco: è questo il ritmo tenuto
da non pochi prodotti umani, nel passaggio e
attraversamento delle ere e dei modelli culturali. Cose che
accadono ancora sotto i nostri occhi: le maschere di
Carnevale, negli ultimi anni, già si stanno abbandonando
completamente ai bambini, che una volta erano esclusi dal
gioco. Questi fatti vanno distinti da quelli in cui si palesa
solo il normale processo di imitazione del mondo adulto che
fa parte della crescita, dell’addestramento infantile. La
lavatrice e il robot, tra i giocattoli, non hanno lo stesso
significato (anche prescindendo dal contenuto religioso)
delle statuine del presepio. Chiudiamo la parentesi
notando, dunque, che le fiabe sono giunte ai bambini «per
caduta» dal mondo adulto (e cosí del resto sono arrivati a
loro Gulliver e Robinson, ormai spogliati del «messaggio»
satirico o ideologico che recavano, ridotti a pura
avventura).
Non sono mancati i tentativi di una sistemazione teorica
dell’argomento. Ma noi qui, non li passeremo in rassegna.
Nel caso di Pollicino l’ipotesi piú convincente, secondo noi,
è ancora quella di Vladimir Propp – che non l’ha formulata
per Pollicino, ma per tutte le fiabe magiche di cui qui
abbiamo nominato Pollicino portavoce.
Ecco in poche parole, di che si tratta (e chi vorrà saperne
di piú potrà leggersi in traduzione italiana, del Propp, sia
La morfologia della fiaba sia Le radici storiche dei racconti
di fate). Le fiabe magiche risultano tutte – e in tutte le
versioni – composte di un certo numero di elementi fissi (o
temi, o motivi, o «funzioni», e quest’ultima è la parola usata
dal Propp) che resistono a tutte le variazioni, e dispongono
le loro figure intorno a uno schema che l’analisi e la
statistica permettono di riconoscere: c’è all’inizio una
partenza (a seguito di un ordine, o di un divieto violato);
l’eroe affronta prove rischiose, contro nemici dotati di
poteri straordinari, aiutato da esseri altrettanto
straordinari che pongono a sua disposizione oggetti fatati;
può morire (ma allora rinasce) o piú semplicemente
scomparire per un certo periodo; alla fine ritorna (qualche
volta sotto falso nome, come Ulisse al suo sbarco in Itaca),
trionfa dei suoi nemici e si sposa. Questo naturalmente, è lo
schema ridotto all’osso: le «funzioni», in realtà, sono quasi
quaranta, e consentono un paio di centinaia di «figure» (la
parola è nostra). Fate conto di avere un mazzo di quaranta
carte. Mescolatelo. Mostrate le carte una dopo l’altra; sono
sempre le stesse, ma la loro successione può variare in un
numero di maniere che un matematico vi potrà precisare.
Cosí fanno le fiabe magiche, mescolando le loro carte.
Ora, lo studio degli usi e costumi dei popoli «primitivi»
(la definizione è solo di comodo, e perciò la mettiamo tra
parentesi) tuttora viventi, o comunque descritti dai
viaggiatori, etnologi ed etnografi che li hanno visitati tra
l’ottocento e il novecento, rivela che dappertutto, a un
certo stadio culturale, quello della società che vive
prevalentemente di caccia, vige per i ragazzi il complesso
rito della «iniziazione».
A dodici, tredici anni i ragazzi lasciano la famiglia e
vanno a vivere in una casa speciale che spesso è per
l’appunto una capanna nella foresta, per un periodo piú o
meno lungo, durante il quale gli stregoni della tribú, che
bisogna immaginare sotto le loro maschere paurose, li
sottopongono a prove terrificanti, che non escludono una
«morte» immaginaria e, in qualche caso, un sacrificio
umano; rivelano loro segreti terribili; consegnano loro
oggetti sacri, dotati di poteri spaventosi. L’iniziazione può
culminare o no nella circoncisione (il coltellaccio dell’orco
di Pollicino...) Al termine dei riti i ragazzi tornano a casa.
Spesso essi hanno ricevuto un nome nuovo, il loro nome da
adulti; oppure un nome da tenere segreto. Ora sono uomini,
membri della tribú a tutti gli effetti. Alcuni studiosi – e
Propp, come s’è detto, con particolare genialità – hanno
sottolineato l’analogia tra la struttura dei riti iniziatici e la
struttura delle fiabe. Per quel che ci riguarda, Pollicino e i
suoi fratelli – se si spoglia la fiaba delle superfetazioni e
incrostazioni di cui la lunghissima tradizione l’ha arricchita
– sembrano proprio vivere l’avventura degli «iniziandi»:
sono portati nel bosco, sottoposti a prove e pericoli mortali,
hanno a che fare con oggetti magici – che prima funzionano
a loro danno, e poi a loro vantaggio –, tornano a casa
«diversi» (nella fattispecie, ricchi, mentre erano partiti
poveri). Nella fiaba c’è persino la traccia favolosa del
sacrificio umano. Un sacrificio sostitutivo, però: difatti la
morte tocca alle figlie dell’orco, di cui non sappiamo nulla,
se non che portavano corona, e questo è certamente un
particolare nato in tempi monarchici, non del tutto
boscherecci.
Ecco, ci dicono Propp e gli altri della stessa opinione,
ecco come sono nate le fiabe magiche. Esse ci narrano,
sotto mille travestimenti, ciò che una volta accadeva a tutti
i ragazzi, nel momento di diventare uomini.
I popoli indoeuropei debbono avere attraversato uno
stadio simile a quello che possiamo osservare e studiare nei
«primitivi» attuali. Piú tardi (e questo lo sappiamo per
certo) essi abbandonarono le loro sedi comuni per
disperdersi ai quattro venti (meno uno, perché a est
c’erano i mongoli e i cinesi...): col tempo diedero vita alle
popolazioni latine, germaniche, slave, crearono civiltà
agricole ed urbane. Gli antichi riti e miti decaddero,
sostituiti da altri, cioè da quelli delle religioni agricole, che
divinizzavano le forze della natura, le stagioni, la terra.
Morto nella sua forma originaria il rito dell’iniziazione,
rimase il racconto del rito, ormai dissacrato, ormai fiaba,
affidata alla tradizione orale ed alla fantasia, pronta ad
assumere, di terra in terra e di secolo in secolo, nuovi
colori. Nessun Pollicino venne piú portato nel bosco per
diventare uomo e cacciatore: nasceva il Pollicino della
fiaba, pronto a prendere, nelle varie lingue, decine di nomi
diversi.
La questione è ora di sapere se Pollicino possa ancora
servire, in qualche modo, alla «iniziazione» dei bambini
degli anni settanta del ventesimo secolo. Di ciò parleremo
nei prossimi articoli.

2. Dal tappeto volante al jet supersonico.

Che ai bambini le fiabe piacciano ancora non sembra


dubbio. Può abbassarsi l’età in cui la fiaba cessa di piacere;
può darsi che in futuro questa età si abbassi fino ad
annullare del tutto il ruolo della fiaba. Ma allo stato, come
si dice, degli atti, la richiesta di fiabe non sembra
sostanzialmente diminuita. Sono di questa opinione quanti
hanno a che fare direttamente con i bambini, dalla
redazione del «Corriere dei piccoli» ai servizi
radiotelevisivi. Sono in favore di questa opinione le
statistiche sulla diffusione delle fiabe con i vari mezzi
dell’industria contemporanea: l’album illustrato, il disco, il
libro-disco, la dispensa (con o senza disco), il cartone
animato eccetera. I «pro» e i «contro» di genitori ed
educatori non sono univoci: ma si basano tutti (come le
nostre personali opinioni, del resto) su intuizioni, su
fondamenti (o preconcetti) teorico-pedagogici. Non sui
fatti: cioè non sulle ricerche sperimentali, che non esistono,
non su speciali indagini, che nessuno ha ancora pensato di
compiere, o se ci ha pensato ci ha subito rinunciato, perché
costerebbero troppo.
Le affermazioni generali tipo «le fiabe piaceranno
sempre», o, al contrario, «le fiabe non possono piú
piacere», sono fatte a ruota libera. Nel caso migliore sono
generalizzazioni (arbitrarie) di esperienze limitate o
addirittura familiari, cioè relative a un solo bambino. La
scienza propriamente detta (la scienza dell’educazione, se
esiste) non si è ancora pronunciata. Il giorno in cui, per
assurdo, fosse consentito di proclamare che i bambini
rifiutano le fiabe, ci sarebbe ancora da domandarsi se tale
rifiuto sia un bene o un male; se sia un atteggiamento
autonomo dell’infanzia, o un comportamento indotto, frutto
di un determinato condizionamento; e se si tratti, allora, di
un condizionamento positivo (come quello che porta i
bambini, mettiamo, a non fare pipí in mezzo alla strada) o
negativo, come quello che li recluta tra i tifosi di
Canzonissima.
Per conto nostro abbiamo a lungo ragionato sul tipo di
esperienza che il bambino vive ascoltando la fiaba di
Pollicino, dalla quale siamo partiti nel primo articolo di
questa serie. A noi sembra un’esperienza molto complessa,
piú complessa di quanto possa sembrare a prima vista.
Essa si svolge contemporaneamente su diversi piani, che ci
proveremo ad analizzare.
In primo luogo, il bambino cui la madre racconta una
fiaba sperimenta l’esclusivo e prolungato possesso della
medesima. Non è facile, per un bambino di quattro, cinque
anni, avere la madre tutta per sé. La benedetta e amata
signora ha sempre un sacco di cose da fare, in casa e fuori.
Di giocare con il bambino raramente ha il tempo, la
pazienza e la voglia, per non parlare dell’estro che occorre
per farlo nel modo migliore. Quando racconta, o legge una
fiaba, la madre è presente, disponibile, servizievole, per un
tempo miracolosamente lungo. Il bambino può a suo agio
osservarla e studiarla, esaminare i suoi lineamenti, la sua
voce, i suoi gesti, godere a suo gusto del senso di
protezione e di sicurezza che quella presenza gli dà;
discorrere con lei, interrompendola con opportune
domande, o commentando la sua lettura con sorrisi,
esclamazioni, smorfie, o anche standosene zitto zitto,
usando allora delle parole della fiaba come di uno
strumento per un dialogo segreto, senza parole proprie,
intimo, enormemente profittevole. Su questo punto molte
altre cose sarebbero da dire, ma passiamo oltre.
Il bambino che ascolta la fiaba da una voce familiare è
nelle migliori disposizioni per realizzare un incontro con la
lingua materna. Ode e riconosce vocaboli, strutture,
macchine della lingua stessa che sarebbe difficile
propinargli in modo sistematico. Nomi e verbi, preposizioni
e proposizioni gli vengono incontro nella maniera piú
affettuosa. Su qualsiasi altro argomento egli non
tollererebbe di essere confinato nel ruolo di ascoltatore.
Ascolta brevi e precise risposte, da lui stesso sollecitate, su
ogni sorta di problemi tecnici, scientifici, astronomici,
eccetera. Ma solo di fronte a una fiaba egli è disposto ad
ascoltare a lungo: e ciò che egli interiorizza non sono
soltanto (o forse non sono tanto) le vicende esteriori della
fiaba quanto le parole che la costituiscono. Sotto questo
aspetto, la lingua, che è veicolo, agisce su di lui come fine.
Se l’ascolto avviene a mezzo disco (ma provate pure a
fargli ascoltare, su un disco, una conferenza di argomento
antropologico, geografico, storico, vediamo se sta a
sentire...) cadono alcuni elementi della sua esperienza, ne
subentrano altri: l’uso di strumenti meccanici, di manopole
e interruttori; il lavoro mentale per riconoscere, dalle voci,
i vari personaggi della vicenda; per ricostruire, dai
dialoghi, gli scatti e i progressi della vicenda stessa. Se la
fiaba è televisiva, il suo lavorio mentale si svolgerà intorno
al linguaggio delle immagini in movimento: non basterebbe
una conferenza a descriverlo.
E ancora: nelle fiabe il bambino ritrova certe
caratteristiche del suo modo di pensare. Il bambino è
animista, se urta contro un tavolo dice «stupido tavolo»;
immagina che, il sole, ci sia un signore ad accenderlo tutte
le mattine e a spegnerlo tutte le sere. Le fiabe sono, per lo
piú, animiste. Il bambino non conosce leggi di natura; le
fiabe godono della stessa franchigia. Nello stesso tempo,
però, il bambino – che non saprebbe criticare il proprio
animismo – riesce a criticare quello delle fiabe. Perché?
Innanzitutto perché gli è chiara, sufficientemente presto (a
tre, quattro anni sicuramente) la differenza tra il «mondo
delle cose vere» e il «mondo delle fiabe». Non chiedetegli
di precisare la distinzione: la fa, e tanto basti. E proprio
perché la fa il «meraviglioso» delle fiabe gli serve per
costruirsi, un pezzo alla volta, la differenza tra le cose
possibili e le cose impossibili, tra le cose vere e le cose
inventate.
Proseguiamo. Il bambino riferisce a sé l’avventura
vissuta dal protagonista della fiaba. Se ascolta la fiaba di
Pollicino, è lui stesso Pollicino; sventurato come Pollicino,
furbo come Pollicino, vittorioso come Pollicino. Si dice che
il bambino «si identifica» nell’eroe della fiaba. E questo è
certamente vero, ma non del tutto: la cosa piú importante,
forse, è che l’identificazione gli permette di sentire sé come
diverso dagli altri, di riconoscere nelle persone diverse
destini diversi; insomma, probabilmente, lo aiuta nel suo
non facile lavoro per stabilire il confine tra se stesso e il
mondo.
Ascoltando la fiaba il bambino è portato a percepire una
differenza tra il suo tempo e quello della fiaba. Che è –
inutile dirlo – il tempo del «c’era una volta». Un tempo che
adesso non c’è. Forse il tempo del papà, o quello del nonno.
Il bambino indaga, fa domande. Come non giungere alla
constatazione che il «c’era una volta» della fiaba è il primo
accostamento al «c’era una volta» della storia? Il passaggio
dalla fiaba alla storia avviene per gradi. Romolo e Remo
hanno un piede nella storia, ma uno – bene affondato, fino
alla caviglia – nella fiaba. Ma non sorvoliamo su
quell’imperfetto. Il bambino lo adopera anche per giocare,
quando stabilisce: Io ero il papà, tu eri la mamma, io
dicevo, tu facevi... È una specie di sipario, che divide la
realtà dal gioco. Anche la fiaba si colloca nel mondo del
gioco. È un gioco di parole ed immagini che alludono a
tutte le possibilità della vita. Si aggiunga che, per quel che
ne sappiamo, le radici della fiaba affondano nella vita di
popoli passati, cioè nella profondità del mare su cui
galleggia l’esperienza infantile (e la nostra). Anche la fiaba
è storia nostra, fa parte dello spessore che chiamiamo
«umanità».
Abbiamo lasciato per ultimo quello che solitamente è
indicato come il carattere distintivo delle fiabe (di queste
fiabe, cioè delle fiabe della tradizione popolare): il
«magico», il «meraviglioso», confusamente sentito come
una specie di scintillio fatto apposta per affascinare gli
occhi dei bambini, come le collane di vetro colorato erano
destinate ad affascinare, nei racconti degli esploratori e dei
missionari, i bambini-selvaggi. E questo ci sembra,
francamente, un equivoco.
Intanto, questo «meraviglioso» delle fiabe poteva
apparire meraviglioso una volta. Ma oggi? Sí, va bene, gli
stivali delle sette leghe: ma il bambino del settanta va in
automobile con suo padre, di velocità superumane ha
esperienza diretta e personale. I tappeti volanti non
possiedono piú la virtú di sbalordire che debbono aver
posseduto quando non c’erano i jet, i missili
intercontinentali, le astronavi. Nelle fiabe si strofina un
acciarino, ed ecco comparire un servo (o un cane, o un
diavolo, secondo le circostanze): ma il bambino gira un
interruttore ed ecco si accende una lampada, ne gira un
altro e sul teleschermo compaiono immagini che si
muovono e parlano. Nelle fiabe si può dire «tavolino,
apparecchiati» ed ecco comparire sulla tovaglia la piú
perfetta delle «omelettes confiture»; noi a tanto non siamo
arrivati, ma possiamo dire «bucato, lavati», «piatti,
sciacquatevi», e le macchine obbediscono. Ridotte all’osso,
tante meraviglie delle fiabe ci appaiono oggi
semplicemente delle ipotesi diventate realtà, perfino realtà
banali, addirittura scoccianti. Non si sono formate come
ipotesi: ma, oggettivamente, lo sono.
Dunque nella loro realtà oggettiva tali «meraviglie» del
fiabesco non appaiono al bambino come «meraviglie», ma
come ipotesi, come possibilità. Il «tutto è possibile» della
fiaba (che prima registravamo come adeguato alla
mentalità infantile che non conosce leggi di natura) ci si
rivela, da questo punto di vista, profondamente educativo.
Esso mette in movimento una facoltà indispensabile allo
sviluppo morale e intellettuale non solo del bambino, ma
dell’uomo completo: l’immaginazione. Nella fiaba il
bambino contempla le strutture della propria
immaginazione: di piú, con l’aiuto della fiaba se le fabbrica
egli stesso.
Si può obiettare che l’immaginazione non è essenziale
all’uomo cosí come lo desidera e lo promuove una società
che ha il mito della produzione e quello del consumo. Un
buon esecutore-produttore, un consumatore docile ai
consigli della pubblicità (commerciale o politica) non deve
avere immaginazione: deve soltanto essere disponibile per
tutti i condizionamenti. Nella costruzione di questi
condizionamenti la fiaba è un granello di sabbia negli
ingranaggi, come la musica, la poesia, la pittura, il gioco,
come tutte le attività disinteressate (almeno oltre il livello
in cui anche queste attività interessano il ciclo produzione-
consumo). Ma l’uomo completo deve, dovrà essere anche
un creatore: per esempio deve, dovrà saper immaginare e
creare un mondo diverso e migliore di quello in cui è
capitato a vivere.
La fiaba parla al bambino creatore. Lo aiuta a costruirsi
una mente aperta. Da sola non basta certo, a un’educazione
moderna. Ma privare il bambino della fiaba si risolverebbe,
secondo noi, in un suo netto impoverimento e inaridimento.
Dopo questa apologia della fiaba, bisogna ora sentire i
suoi critici ed accusatori. Lo faremo nel prossimo articolo.

3. James Bond litigherà con il lupo cattivo?

Dopo aver fatto l’apologia della fiaba abbiamo il dovere


di riportare gli argomenti contrari, che non sono pochi né
di scarso rilievo. A noi sembrano tutti confutabili, ma
naturalmente non pretendiamo di aver sempre ragione. La
loro principale debolezza nasce, secondo noi, dal fatto che
non si tratta di argomenti suffragati da indagini
scientifiche, da sperimentazioni pedagogiche, da tests
psicologici: sono opinioni, né piú né meno delle nostre. Le
raggrupperemo sotto sei titoli principali. E se il nostro
repertorio sembrerà incompleto, siamo disponibili per tutte
le correzioni del caso.

L’avventura umana.

1) Le fiabe nuocciono a un’educazione moderna perché


rappresentano una evasione dalla realtà. A un’obiezione del
genere si potrebbe rispondere che le fiabe fanno parte esse
stesse della realtà (storica, letteraria, sociologica,
folcloristica), ma la risposta avrebbe del sofisma. Tra l’altro
non a tutte le fiabe sarebbe lecito conferire un diploma di
«realtà». Le fiabe popolari tradizionali, quelle raccolte in
Germania dai Grimm, in Russia da Afanasiev, in Italia da
generazioni di studiosi che hanno avuto in Italo Calvino – in
tempi recentissimi – l’ultimo e sicuramente il piú geniale
dei trascrittori e ricreatori, hanno, come s’è visto, troppo
profonde radici in una lunga avventura umana perché si
possa tacciarle di evasività.
Tutt’altra cosa sono le fiabe sorte, dal settecento in qua,
per imitazione letteraria, o mondana, o cortigiana delle
autentiche fiabe popolari, c’è stata anche una moda delle
fate, e le fate figlie della moda è giusto che periscano con
quella moda. Analogamente, bisogna tener presente la
distinzione tra «fantasticheria» e «fantasia». La
fantasticheria è una fuga dalla realtà; la fantasia è una
dimensione della realtà umana. Per via di fantasia si può
entrare nel cuore del reale altrettanto a fondo che per via
di scienza. Le fiabe non allontanano dalla realtà: la
osservano e la rappresentano da un particolare e
liberissimo punto di vista, ecco tutto. Si può arrivare alla
realtà entrando dalla porta o entrando dalla finestra. Si può
(con l’aeroplano si può, alla lettera) osservare la realtà
dalle nuvole. Chi passa in una galleria di specchi
deformanti è sempre in grado di riconoscere il proprio volto
nelle deformazioni, negli stravolgimenti, nelle caricature
che lo perseguitano e che, esagerando ora l’uno ora l’altro
particolare, possono perfino rivelarne il significato meglio
di uno specchio di normale fedeltà.

2) Le fiabe nuocciono alla formazione dello spirito


scientifico, perché suggeriscono interpretazioni arbitrarie
dei fenomeni, sostituiscono l’immaginazione alla
osservazione. Già, ma bisognerebbe negare il ruolo
dell’immaginazione nella formazione di uno spirito
scientifico. Si capisce che debbono sparire, dai libri di
lettura delle scuole, i raccontini in cui il vento è spiegato
con il respiro degli angeli e le leggende religiose sono
presentate non come leggende, ma come spiegazioni dei
fatti (per esempio, del colore del pettirosso). Non si
capisce, invece, perché un atteggiamento scientifico verso
la realtà dovrebbe limitarsi alle attività di classificazione,
misurazione, sperimentazione. La capacità di formulare
ipotesi non è frutto di semplice preparazione matematica,
ma essenzialmente di immaginazione applicata allo studio
della realtà. Lo scienziato deve saper immaginare almeno
quanto deve saper misurare, classificare, eccetera. Deve
saper supporre, per esempio, forze ancora sconosciute.
Deve affrontare l’ignoto, procedendo per tentativi. Il ruolo
dell’immaginazione nella progettazione dei voli spaziali ci
sembra evidente. La libertà di ipotesi che è costitutiva della
fiaba è essenziale anche alla ricerca scientifica.

I cosiddetti «orrori».

3) Le fiabe sono piene di particolari orridi, di


avvenimenti crudeli, perfino sanguinosi, che possono
spaventare il bambino, compromettendo il suo equilibrio.
L’argomento si presenta, a livello di «senso comune», come
un’eredità dei tempi in cui le signore, andando a teatro,
raccomandavano alla balia, o alla cameriera, di «non
riempire la testa ai bambini con le loro fole», perché poi
avevano paura del buio. A piú alto livello ci si può imbattere
nella battuta di Umberto Eco secondo cui la prima
immagine dei forni crematori nazisti si trova nel forno della
strega della fiaba di Haensel e Gretel. A noi i cosiddetti
«orrori» delle fiabe sono sempre sembrati di tipo, piú che
altro, marionettistico. I pupi siciliani non sono meno
sanguinari, né meno o piú innocui del lupo di Cappuccetto
Rosso. «Passò quer tempo, Enea...», come dice il Belli.
Ossia, è lontano il tempo in cui quegli orrori – residui, come
s’è visto, di riti e di miti antichissimi – potevano veramente
spaventare, non pure i bambini, ma i loro genitori. Quel
lupo può atterrire un bambino solo nella misura in cui egli
ha già, dentro di sé, un oscuro spavento. Se ascolta la
storia dalla voce della madre, o del padre, egli si sente
abbastanza sicuro e protetto da affrontare non uno, ma
cento lupi. Se gliela racconta qualcun altro, per tenerlo
buono in assenza della madre o del padre, il lupo può
diventare il simbolo dei pericoli che egli già sentiva di
correre, essendo stato (sia pure provvisoriamente)
abbandonato dai genitori nel bosco della vita. Il lupo
funziona allora non già da causa, ma da sintomo di uno
squilibrio preesistente.
L’esperienza della paura.

Né bisogna dimenticare che, in un contesto


tranquillante, in compagnia dei genitori e dei nonni, la
stessa esperienza della paura è – entro certi limiti –
piacevole: e su questo si basa il successo del gioco di «bú-
bú-céttete», e di altri giochi in cui il bambino sperimenta e
assapora un brivido di paura. Piacevole e persino... utile:
perché stimola meccanismi di difesa che – per ora e per
qualche millennio ancora – sono indispensabili. La vita è
piena di pericoli reali e la temerarietà, l’assoluta ignoranza
del pericolo, non sono il modo migliore di affrontarli.

4) Le fiabe sono dannose ed esercitano nell’insieme


un’influenza regressiva perché presentano modelli culturali
superati, da cui il bambino non può apprendere nulla di
positivo. Questo è l’argomento meno debole contro le fiabe.
Checché si pensi delle loro origini, è indubbio che esse
hanno preso, negli ultimi secoli, i colori del mondo
contadino che le conservava e tramandava. Colori arcaici,
propri di una visione della vita, di una concezione del
mondo da cui lo stesso mondo contadino deve liberarsi, per
entrare nella storia. La pretesa «saggezza» delle fiabe, è
quella stessa dei «proverbi»: una saggezza che, per dirla
con un proverbio singolarmente autocritico, «non è buona
nemmeno a fare cavicchi» (in milanese: «i proverbi di vicc,
hinn nanca bon de fàa cavicc»).
Si tratta, però, di un discorso contenutistico che non
tiene conto delle caratteristiche dell’esperienza reale che il
bambino compie ascoltando le fiabe (cosí come l’abbiamo
descritta, a modo nostro, nel secondo articolo di questa
serie). La fiaba ha un piede saldamente piantato nel mondo
del gioco. Il bambino che l’ascolta «gioca» a crederla vera:
come si «gioca» a teatro, o all’opera, accettando le
convenzioni della rappresentazione teatrale. Il gioco non fa
questione di contenuti. Altri sono gli elementi che esso
valorizza e porta in primo piano. Il gioco si serve di
qualsivoglia «materia prima» per fabbricarsi il suo
«prodotto finito», che è sempre in relazione a una
esperienza attiva, e positiva, della personalità. Il gioco
riesce dunque anche a neutralizzare, a rendere innocua,
l’influenza regressiva che potrebbe essere propria di certi
contenuti. Giocare è sempre utile, sempre positivo.

5) I bambini hanno bisogno di fiabe: ma, al posto delle


vecchie fiabe, che appartengono a una tradizione morta,
bisogna dar loro fiabe contemporanee. L’argomento si
riallaccia al precedente, ma lo scavalca. Per intenderne la
portata bisognerebbe definire con chiarezza la «fiaba
contemporanea». La quale, ovviamente, non può essere
quella che tenti di far rivivere motivi, temi, personaggi e
moduli della fiaba classica: che sarebbe una operazione in
pura perdita, un esercizio letterario fuori del tempo; a
parte l’impossibilità di ricostruire a tavolino un mondo alla
cui formazione hanno posto mano, se non proprio «cielo e
terra», millenni di tradizione. Fiaba contemporanea sarà
dunque quella che tenterà di inserire nella dimensione
fiabesca cose, persone, problemi del nostro tempo; o che
semplicemente userà il linguaggio fiabesco per parlare, con
i bambini d’oggi, delle cose d’oggi; o che, muovendosi sulla
stessa linea, tenterà di rinnovare il linguaggio fiabesco. In
senso lato, «fiaba contemporanea» sono i cartoni animati di
Walt Disney, i fumetti, e forse perfino i film dell’agente 007,
basati su un ritmo che è, ridotto allo schema, lo stesso delle
antiche fiabe: un eroe riceve una missione pericolosa, la
porta a termine contro nemici dotati di superpoteri, aiutato
da amici e da oggetti fatati (la macchina che semina olio,
chiodi, pallottole a mitraglia), riporta la vittoria e quindi si
può sposare (o passare un week end alle Bermude con una
delle tante belle ragazze del film). «Fiaba contemporanea»
fu – ai suoi tempi – quella di Andersen (e rappresentò anche
la prima e forse l’ultima iniezione di cristianesimo nel
mondo pagano delle fiabe; piú laica, se non pagana, la
strada battuta da Pinocchio, altro personaggio fiabesco e
contemporaneo ai suoi lettori...)

La fiaba illustrata.

Non abbiamo niente contro la «Fiaba contemporanea»:


anzi...
Ma, di nuovo, non vediamo perché essa debba senz’altro
sostituire la fiaba classica, alla quale si riallaccia. I due tipi
di fiabe possono pacificamente convivere e integrarsi. La
fiaba classica, dal canto suo, ha dimostrato ad abbondanza
la sua capacità di adattarsi ai nuovi mezzi di
comunicazione, diventando fiaba illustrata,
cinematografica, televisiva. Essa rimane – se questa sola
virtú, per assurdo, le dovesse rimanere – una introduzione
indispensabile alla «fiaba contemporanea».
6) Le fiabe non servono a niente. Non è vero, e lo
abbiamo dimostrato. Se la fiaba non serve a niente, non
serve a niente nemmeno la musica, e l’arte in generale è
superflua, e il gioco un reato contro l’educazione utilitaria,
la poesia un peccato mortale, eccetera. Ci sono cose che
effettivamente, esaminate da un certo punto di vista, «non
servono a nulla». Ma da quale punto di vista? Da quello – e
torniamo su un argomento di cui ci siamo già serviti – di
una società grettamente e aridamente fondata sul ritmo
«produzione-consumo».

L’ideale educativo.

Non è indispensabile, per una grande fabbrica di


automobili, che i tornitori amino Beethoven, che i tecnici
leggano Montale o giochino al tennis, se non nella misura
in cui simili occupazioni possono essere concepite come
«svaghi», momenti di «relax» tra una catena di montaggio
e l’altra. Ma l’ideale educativo dell’ufficio personale di una
grande azienda, privata o pubblica, non è necessariamente
il migliore degli ideali educativi. Un uomo completo è
un’altra cosa. E di questa «altra cosa» fanno parte attività
che non rientrano nel computo del salario e nelle
statistiche della produttività, a cominciare dall’impegno
politico e sociale. Le fiabe, come la musica, come la poesia,
eccetera, appartengono alla vita dell’uomo libero,
dell’uomo completo. Possono perfino rappresentare una sua
difesa contro la totale resa in schiavitú. Su questo punto
l’ideologia produttivistica si può incontrare con
l’utilitarismo del senso comune, assai diffuso anche tra le
classi che di quell’ideologia fanno le spese. Pazienza, un
pregiudizio in piú da combattere...
Le fiabe, per un singolare rovesciamento della loro
posizione nella storia umana, hanno oggi piú a che fare con
la dimensione dell’utopia che con quella della nostalgia del
passato. Sono alleate dell’utopia, non della conservazione.
E perciò, oltre che per tutte le ragioni che abbiamo
elencate, noi le difendiamo: perché crediamo nel valore
educativo dell’utopia, passaggio obbligato dall’accettazione
passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno
per trasformarlo. Pollicino ha ancora qualcosa da dire.
I bambini e la poesia

Dalla fiaba alla poesia. Esiste una poesia per bambini? Quali caratteri ha o
dovrebbe avere? Quale rapporto tra i bambini e la poesia? Come educare alla
poesia? In che termini porre la questione della comprensione? A queste e altre
grosse questioni, che ancora oggi ci poniamo, Rodari fornisce risposte nel
saggio I bambini e la poesia pubblicato sul «Giornale dei genitori», n. 6-7,
giugno/luglio 1972. Lo scritto si configura come integrazione al saggio La
letteratura infantile oggi.
Alla domanda se esista una poesia per bambini si
potrebbe anche rispondere subito di no, che non può
esistere una poesia per bambini piú che non esista una
poesia per avvocati, o per maestri di scuola, o per vigili
notturni. La poesia esiste autonomamente, a prescindere
da chi si trova ad essere il destinatario del suo messaggio;
o non esiste. Ci sono poesie che possono essere capite,
sentite, diciamo pure vissute dai bambini,
indipendentemente dal fatto che siano state create per loro
oppure no. E ce ne sono altre, troppo lontane dal loro
campo di esperienza, troppo dissonanti con le loro strutture
mentali o con il loro mondo sentimentale, troppo discordi
con il loro vocabolario perché essi possano in qualche modo
goderne. Ma non esiste quella cosa che possa essere poesia
per i bambini e non-poesia per gli adulti.
Sono quasi luoghi comuni e ci si potrebbe lavorare sopra
solo per tautologie. Sono poi la traduzione affrettata,
l’applicazione automatica della legge generale secondo la
quale non esisterebbe una letteratura per bambini, ma solo
libri dei quali anche i bambini si possono impadronire.
Questa legge ha esercitato tanto a lungo tra noi il suo
impero, diciamo pure la sua dittatura, ed è cosí comoda da
adoperare, che è diventato quasi obbligatorio renderle
omaggio anche quando si ha intenzione di violarla, per
darsi un’opinione diversa.
Libri di prose o di versi potrebbero giungere ai bambini
solo per caduta, cosí come ad essi sono giunte le fiabe, nate
con tutt’altri caratteri da quello di «trattenimento dei
piccirilli», o le maschere del teatro, l’arco e le frecce della
tribú primitiva; oggetti già sacri e rituali come la trottola o
la bambola, e cosí via. Il che è stato certamente vero fino a
quando il bambino è rimasto una semplice appendice della
società adulta, senza il diritto di avanzare esigenze proprie,
rivendicazioni autonome. In generale non sembrerebbe piú
vero da quando il bambino è stato scoperto dall’industria,
prima come lavoratore poi come consumatore, valorizzato
dalla pedagogia, studiato dalla psicologia.
Oggi, poi, in presenza di un’industria culturale che, al
seguito dell’allargamento della scolarizzazione e
dell’obbligo scolastico, va scoprendo il pubblico infantile,
l’ostacolo teorico non viene negato, ma semplicemente
rimosso. Dopo aver imparato a distinguere tra poesia e
cultura, abbiamo imparato a distinguere anche tra cultura
e industria culturale. A loro volta i bambini, hanno
imparato a manovrare una infinità di strumenti, dal
giradischi al registratore, dal proiettore alla radio, al
televisore, con i quali compiono certamente esperienze
diverse da quelle del bambino di cento anni fa, che a sei
anni di massima andava a zappare la terra o a lavorare in
filanda. Bisogna tenerne conto, per parlare di poesia e di
bambini, oppure no?
Ecco insomma affollarsi i dubbi e le domande intorno alla
perentoria risposta negativa da cui siamo partiti. Per lo
meno si sente il bisogno di articolarla, secondo
determinazioni piú controllate. Anche le teorie estetiche
hanno camminato, sotto il pungolo della linguistica,
l’offensiva della semeiotica. Possiamo allora sospendere la
risposta e fare qualche indagine preventiva. Può darsi ci
capiti di scoprire che la stessa domanda non sia del tutto
precisa nell’indicare i termini della questione – che le
sfugga la realtà dei rapporti tra il bambino e la poesia.

Ninne-nanne e filastrocche.
Una prima indagine da fare mi sembra quella relativa
agli incontri e agli usi della poesia che il bambino fa
spontaneamente nei primi anni di vita. Poesia, in questo
caso, popolare, secondo l’individuazione che ne fece per
primo, nella cultura europea, lo Herder, seguito dai
romantici. Parlo delle ninne nanne, nella ristretta misura in
cui esse sono ancora vive e non siano già precocemente
sostituite dai rumori di Carosello. Parlo delle filastrocche,
cantilene e tiritere popolari che, per lo meno nel mondo
contadino, hanno ancora una qualche esistenza e funzione;
delle contine, che continuano a far parte del rituale dei
giochi, distribuendo i ruoli in base a una formula magica;
delle preghiere in rima, dei proverbi, dei nonsensi che
accompagnano da sempre certi giochi tra adulto e
bambino. Si tratta di forme che appartengono, per lo piú, a
patrimoni regionali, dialettali, a circolazione limitata. Noi
non possediamo un «corpus» nazionale di queste creazioni
del folclore. Anche per le fiabe, del resto, abbiamo dovuto
accontentarci per molto tempo di raccolte regionali,
quando già in altri paesi, dalla Germania dei Grimm alla
Russia di Afanasjev, prima l’entusiasmo dei romantici, poi
quello dei folcloristi, avevano portato alla nascita di grandi
raccolte nazionali, in un certo senso anche nazionaliste,
cioè progettate e sentite come contributi alla formazione di
uno spirito nazionale.
Per quel che riguarda le rime popolari certo i lavori piú
importanti, con diversi intendimenti, sono quelli dei
tedeschi: la raccolta dei Volkslieder dello Herder, che per
altro aveva una sua visione non soltanto nazionale del
carattere e dell’importanza dei canti popolari; e il Des
Knaben Wunderhorn, di Achim von Arnim e Clemens
Brentano, al quale capitò la fortuna, o la disdetta, di
ricevere un riconoscimento ufficiale dal governo prussiano,
per il «patriottismo» cui faceva appello, nel momento in cui
era all’ordine del giorno la «liberazione dai francesi» (sono
parole del ministro prussiano degli Interni, von Stein). A
proposito di questa raccolta, è singolare che, accogliendovi
anche poesie di Goethe, accanto a canzoni anonime, gli
autori proclamassero «popolare non solo ciò che è fatto, ma
ciò che è accolto dal popolo». Non vedo però in Europa e
fuori un paese che abbia qualcosa di paragonabile alle
Nursery Rhymes inglesi, una raccolta che si è fatta da sola
nel tempo e che è parte integrante dell’unità linguistica
dell’Inghilterra, strettamente intrecciata al costume
nazionale, tanto che i suoi personaggi, le sue rime
burlesche, sono entrati nel repertorio delle citazioni
quotidiane e col loro spirito hanno decisamente influito
sulla nascita di un capolavoro come «Alice nel paese delle
meraviglie», che si nutre di «nursery rhymes» almeno
quanto Pinocchio si nutre di fiabe popolari toscane.
Anche il nonsense letterario, il «limerick», un genere in
cui è diventato famoso Edward Lear, ma che è praticabile
da tutti, grazie a una formula fissata con grande precisione
e facilissima da adottare, entra nel patrimonio di ogni
bambino inglese: è un genere in cui il popolare e l’infantile
si fondono felicemente.
In Francia, il Trésor de la poesie populaire, di Claude
Roy, fa largo spazio a contine, ninne nanne eccetera, come
a testi di canzoni, ballate, storie di «images d’Epinal», in
un’antologia di un folclore duro a morire proprio perché si
esprime di preferenza nella lingua nazionale. Le differenze
brevemente accennate fra la tradizione italiana, sparsa per
cento rivoli a lungo incomunicanti, e la tradizione tedesca,
inglese, francese, non sono davvero casuali. Inglesi e
francesi hanno raggiunto la loro unità nazionale, anche
linguistica, molto prima di noi. In Germania l’unificazione
politica è avvenuta in ritardo, ma il sentimento nazionale
tedesco aveva già trovato il modo di esprimersi, prima nella
Riforma (è appena necessario accennare ai canti di Lutero),
poi nel Romanticismo e nella sua filosofia. Si tratta di paesi
in cui, per strade diverse, è caduto prima che da noi il solco
tra letteratura e popolo, il ritmo della rivoluzione borghese
è stato o piú rapido o meno contraddittorio.
L’incontro con la poesia popolare è dunque il primo
incontro del bambino, e che questo avvenga in prevalenza
su basi dialettali ha la sua importanza, certo, ma non muta
la qualità dell’incontro, la sua ricchezza emotiva.
Si tratta pur sempre di incontri che sono situazioni vive,
non artificiose. La madre che canta la ninna nanna e il
bimbo che si addormenta ascoltandola vivono una
situazione reale, di cui le parole e la musica sono
l’espressione poetica. Vita e poesia sono la stessa cosa
nella voce che canta e fornisce insieme la sostanza
dell’espressione e la sua forma, il contenuto e le sue forme.
Nella ninna nanna le parole tendono a scomparire, a
diventare un sottovoce, un canto a bocca chiusa. Tende
insomma a prevalere la musica, di cui sarebbe sbagliato
vedere solo la funzione rassicurante, consolatoria, il
rifornimento di protezione e tranquillità di cui è la fonte. Il
bambino vive pienamente quel momento che è anche
formativo della sua mente e della sua sensibilità. La voce
che canta, come ogni altro segno, indizio o sintomo del
mondo che lo circonda, è una guida alla scoperta della
realtà e delle sue forme.

La scoperta del ritmo.

La filastrocca gli dà qualcosa di diverso. Intanto, una


prima esperienza del ritmo che sembra svilupparsi
naturalmente sui piú semplici ritmi che il bambino scopre
in modo autonomo. Se il pensiero del bambino, come ci
spiega il Wallon, nasce per coppie (e Klee rincara: «non ci
sono concetti, ma coppie di concetti») cosí anche il primo
ritmo è semplicemente un movimento binario, un ta-ta, che
si presta a infinite ripetizioni. Binario è in genere il ritmo
delle filastrocche popolari: giro-giro-ton-do. Quattro quarti
è il loro tempo naturale, nella trascrizione musicale.
L’effetto di monotonia, e dunque di povertà ritmica, che ne
consegue, è corretto dalla notevole libertà di cui la
filastrocca popolare gode nella distribuzione delle sillabe.
Mentre la metrica italiana classica conta le sillabe con
molto rigore, pur ammettendo il meccanismo delle elisioni,
la filastrocca popolare conta gli accenti, non le sillabe: la
sua battuta, come la battuta musicale, consente una
«taktfuellung» abbastanza variata. Possiamo sentirla molto
bene in questa filastrocca pugliese (trascritta nei quaderni
della fondazione Basso):

Pizzi pizzi strangulizzi


la Maria facia lu pane
tutte le musche lu spurcane
lu spurcane a quattro a quattro
lu fischiettu m’ha ruttu lu piattu

(i primi due versi sono ottonari, novenario il terzo,


ottonario il quarto, decasillabo il quinto). La metrica
inglese e quella tedesca permettono libertà sillabiche del
genere. Heine ne ha fatto un uso straordinariamente ricco.
La scoperta principale della filastrocca, accanto a quella
del ritmo, è quella della rima. Essa consente
l’identificazione di coppie di parole per assonanza, dunque
arricchisce il bambino di un nuovo strumento conoscitivo e
linguistico. Il piacere caratteristico delle filastrocche non
mi sembra tanto quello della ripetizione, che certo vi ha la
sua parte, quanto per l’appunto questo, di scoprire nuove
parentele di parole, nuove classi. La scoperta è
accompagnata da una sorpresa piacevole, che provoca il
riso. Nella filastrocca il linguaggio è goduto in sé,
contemplato e sentito indipendentemente dagli usi pratici.
È già quel «parlare per parlare» in cui Novalis aveva
riconosciuto la «formula liberatoria». Si parla per agire, si
parla per essere, si parla per dire: ed ecco, si parla per
parlare, per scoprire nient’altro che le parole e i loro suoni,
le loro analogie segrete, per vivere di parole, per
lasciarsene incantare e trascinare. Cosí ricca, complessa e
formativa in piú sensi ci appare l’esperienza del bambino
che galoppa sulle ginocchia del padre, al ritmo di una
filastrocca: e la conclusione non è soltanto un suono piú
sorprendente degli altri, è talvolta un movimento
improvviso (il padre finge di lasciar cadere il bambino, per
esempio), cioè il piacere della paura.

Le «conte».

Le contine, offrono un’esperienza diversa. Esse sono un


fatto rituale: stabiliscono la regola del gioco, assegnano i
ruoli. Il bambino accetta questa regola, e accettandola dà
alla contina quasi un valore magico, che del resto la
contina merita, perché spesso non è che un antico
scongiuro ridotto a strumento di gioco infantile. Poesia e
magia sono, alle loro origini, strettamente intrecciate e i
bambini sono forse gli ultimi ad accettare che siano poche
sillabe, quasi sempre senza senso, a governare i loro atti:
an bara bai, cicí, cocò... Ara bell’ara discesa Cornara... An
ghin gò - tre galline e tre cappò... Qualche volta è possibile
seguire all’indietro la contina, rintracciare indizi della sua
storia. Cosí è per esempio per la contina settentrionale che
fa: Enkete penkete puffetiné - abeli fabeli domniné...
Ce n’è una tale e quale in Jugoslavia: nelle prime parole
è possibile riconoscere il verbo tedesco «impiccare»
«haengen». È una specie di ballata della forca (austro-
ungarica nella specie). Cosí nella cantilena infantile dei
bambini inglesi sul ponte di Londra che casca, è addirittura
possibile, come dicono i folcloristi, rintracciare un lontano
ricordo dei sacrifici umani che accompagnavano le nuove
costruzioni.
Nelle contine, insomma, sono precipitati relitti d’ogni
genere. E ne entrano continuamente dei nuovi, se in
Sardegna usano ora una contina che comincia: «Gigi Riva
che sai giocare - quanti gol mi puoi segnare - posso
segnarne ventitre - uno, due tre».
Alle contine, per il loro carattere rituale, possiamo
associare le sequenze che si recitano per accompagnare un
gioco: i bravi tamburini, la bella lavanderina, palla pallina,
che recitano le bambine battendo la palla contro il muro.
Quest’ultimo tipo di filastrocca rituale ha un diretto
collegamento con il comportamento spontaneo del bambino
che spesso, mentre gioca, si accompagna con le parole, per
descrivere il proprio gioco, per allargarne le frontiere con
l’immaginazione. Quando egli interiorizza il linguaggio e
non ha piú bisogno di questo monologo a voce alta per
pensare, la filastrocca rituale gli serve ancora per passare
dalla legge interiore a quella esteriore: la sua esperienza
giustifica quel modo di accompagnare il gioco e la
filastrocca gli traccia davanti il binario dei gesti e dei
movimenti, come una sfida, una difficoltà liberamente
scelta.
Le preghiere rimate, parlo di quelle autenticamente
popolari, partecipano della filastrocca e del rito. Non credo
che siano un autentico «pregare». Possono servire di
fondamento a un’educazione religiosa? Non credo
nemmeno questo, a meno di scambiare per educazione
religiosa l’abitudine a recitare formule di preghiera senza
vera partecipazione. Il loro significato sta piuttosto in
quella disposizione al raccoglimento, alla compostezza che
favoriscono e che solo in senso molto lato possiamo definire
religiosa. Rispondono a quel registro infantile che Luigi
Santucci ha chiamato dell’«accovacciato». Ciò che le
distingue essenzialmente è il loro carattere «serio» in
opposizione al carattere giocoso delle filastrocche, delle
contine, eccetera.
Le situazioni descritte hanno in comune di essere
situazioni vitali, nelle quali le varie forme della poesia
popolare sorgono direttamente dai singoli e diversi
momenti della vita e trovano in essi la loro motivazione.
L’ascolto o l’apprendimento da parte del bambino di quei
testi avviene senza forzature di nessun tipo, in modo
spontaneo, almeno nella misura in cui di spontaneità è
veramente lecito parlare: in sostanza sono elementi del
modello culturale ambientale che agiscono sul bambino
senza distrarlo, per cosí dire, dal suo essere bambino. Sul
bambino, e non, per esempio, sullo scolaro.
L’esperienza che il bambino compie per mezzo di quei
testi è esperienza vitale nel senso che non è finalizzata ad
altro, o ad altri che a lui. Dipende da lui l’intensità con cui
possono influire sulla sua formazione, l’intensità della sua
reazione attiva, autoriflessiva, ai vari stimoli che essi gli
forniscono, sul piano dei meccanismi del riso, di quelli del
linguaggio, di quelli logici e fantastici. Sappiamo quanto il
linguaggio conti nella formazione delle strutture mentali:
anche i testi della poesia popolare sono momenti
privilegiati del linguaggio, ne suggeriscono un uso libero e
autonomo, sono linguaggio per gioco, linguaggio
immaginato. È dunque già esperienza di poesia quella che il
bambino compie per loro mezzo. La definizione di poesia
popolare, del resto, è una definizione di comodo. Forse
sarebbe piú giusto parlare di poesia orale, in opposizione
alla poesia scritta, riferendosi alla sostanza
dell’espressione piú che alla sua forma.
Alla poesia popolare si collegano direttamente,
ispirandosi ai suoi modi, ai suoi ritmi, alle sue figure, non
pochi poeti di tutte le letterature, da Puškin che mette in
versi le fiabe russe, al Goethe di certe ariette – Roeslein,
Roeslein, Roeslein rot - Roeslein auf der Heide –, allo Heine
di certe ballate, al Pascoli letterarissimo ma capace di
movimenti semplici, di cantilena, al Valeri di certe
canzonette, e cosí via. Vi si avvicinano talvolta i
crepuscolari. Il collegamento può essere indiretto e passare
attraverso la nostalgia per l’infanzia: cosí per esempio nel
Child Garden of Verses di R. L. Stevenson, uno tra i piú
illustri esempi di un grande scrittore che abbia voluto
parlare direttamente ai bambini (Tolstoj è, per la prosa,
l’esempio massimo).
Talvolta è un collegamento piú diretto: per esempio
quello di Carroll col mondo dei nonsenses popolari inglesi.
Il caso di Carroll, tuttavia, è abbastanza speciale. Non si
tratta piú di un poeta che occasionalmente, per una certa
disposizione d’animo, presta la sua voce a una tradizione
diversa da quella letteraria e finisce per incontrarsi con i
bambini sul loro terreno, spesso senza averlo pensato; ma
di uno scrittore che volta decisamente le spalle a tutto per
mettersi a giocare con i bambini. Ha scelto lui il loro
terreno, e vi si è collocato intero, col suo gusto per la
matematica e per la logica, con i suoi umori dissacranti nei
confronti dell’accademia e dell’arcadia.

Il «giocattolo poetico».

Sul fatto che sia legittimo rivolgersi ai bambini in versi,


per interessarli, divertirli, per dire loro cose che dette in
altro modo non ascolterebbero, per dare loro immagini
stimolanti, per nutrire e formare la loro immaginazione, io
non ho davvero dubbi. Io stesso – la citazione mi sembra
doverosa, non immodesta – ho scritto molti versi per
bambini. Per lo piú comici, raramente gnomici, didascalici.
Non li ho mai chiamati poesie, ma filastrocche. Semmai
«poesie per ridere», o «poesie per isbaglio». Non mi ha mai
interessato, in relazione al mio lavoro, sapere se fossero
poesie o no: ho sempre preferito accantonare il problema,
dichiarandomi un fabbricante di giocattoli, di giochi con le
parole e con le immagini, di comunicazioni e provocazioni
in versi. Ho utilizzato coscientemente anche certi poeti che
amo, da Palazzeschi ai surrealisti, perché mi fornivano un
linguaggio cosí vicino a quello della poesia popolare e, al
tempo stesso – rispetto alle sue tradizioni – cosí
rivoluzionario, che l’accostamento doveva per forza riuscire
a qualche effetto sorprendente. Ho pubblicato le prime
filastrocche in un quotidiano: e da un quotidiano si può
parlare al pubblico solo in un certo modo, tenendo presente
anche quel che succede sulle altre pagine. Non ho
trascurato di tener conto che i bambini d’oggi traggono le
loro informazioni e i loro stimoli dalla televisione, dal
cinema, dal mondo della tecnologia, della pubblicità: per
farsi ascoltare da loro è indispensabile ricordarsene.
Naturalmente ho i miei alibi anch’io: non ho mai pensato
prima a un contenuto, a una lezione qualsiasi, da immettere
in questi o quei versi; ho seguito liberamente e
sinceramente le parole, dove mi portavano, cancellando,
dove potevo, quelle che avrebbero creato difficoltà
eccessive ai lettori. Questo porsi dei limiti, accettare una
certa chiave, fa parte della scommessa. È un modo di porsi,
per cosí dire, al servizio dei bambini. Dunque dei bambini,
non della poesia.
Penso che altri facciano lo stesso, senza preoccuparsi di
interpretare teoricamente il significato del loro lavoro. Lo
fanno perché credono di fare cosa utile. Su questo terreno,
la discussione non riguarda piú, evidentemente, la poesia o
la non poesia. Riguarda il modo di porsi al servizio dei
bambini. Perché crescano, non perché restino bambini. E
questo sgombra il campo da tutta la produzione
bamboleggiante, falsamente pedagogica, che qualche volta
si fa passare per «poesia per bambini»; che non è né
«poesia» né «non-poesia»: è pedagogia sbagliata. Non può
essere nemmeno definita «poesia di consumo», come
potrebbero essere i versetti del Bonaventura o le parole
delle canzoni dello «zecchino d’oro».
Mi sembra di aver detto, cosí, che credo alla cosiddetta
«poesia per bambini» solo quando si pone onestamente
come gioco poetico, come giocattolo, prendendo questa
parola in tutta la sua nobiltà. Il giocattolo poetico, con tutte
le sue possibilità (dal comico al drammatico), mi sembra un
necessario ponte di passaggio tra la poesia popolare della
prima infanzia e la poesia propriamente detta, quella che
non può tener conto del destinatario e delle sue esigenze
egocentriche, che non può accettare chiavi riduttive,
insomma che deve liberamente proiettare sul suo cammino
tutte le possibilità del linguaggio, tutti i suoi possibili
significati.
Può darsi che il giocattolo poetico si riveli,
occasionalmente, poesia. Ma sarà un risultato da accettare
come un dono non cercato. In questo caso la massima
evangelica va rovesciata: servi i bambini, e il regno dei
Cieli (la poesia) ti sarà dato per sovrappiú.
Ora a me sembra che l’allargamento dell’istruzione, la
nascita (stentata fin che si vuole) di una scuola per
l’infanzia al posto dei vecchi asili-deposito di bambini,
l’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione abbiano non
già diminuito, ma enormemente accresciuto la richiesta di
quello che ho chiamato «giocattolo poetico», cioè di parole
con le quali i bambini possano crescere.
Poesia, non-poesia, che importa? Il dilemma ha anche un
aspetto ozioso, aristocratico. Quello che importa è dare ai
bambini, con qualunque mezzo, parole vere, non suoni
superflui da dimenticare immediatamente. E intendo, con
parole vere, parole pronunciate da un adulto impegnato
con la sua totalità in questa creazione. Parole vere, cioè
piene.

Un esempio: Gatto.

L’ideale sarebbe che a fabbricare questi giocattoli, a


tenere ai bambini quei discorsi, a inventare per loro quelle
musichette, quelle strade di parole che li possono guidare
alla scoperta della poesia, fosse sempre un poeta.

Ho preso tutti i bambini per mano,


andiamo in corsa per la città.
Alto piú alto, nano piú nano,
evviva evviva la libertà.

È Alfonso Gatto che chiama cosí, dal suo «Vaporetto» di


«poesie, fiabe, rime, ballate per i bambini d’ogni età»,
dichiarando fin dal titolo la sua consapevolezza di far
poesia senza età, e nel tempo stesso accettando i limiti
dell’occasione, scegliendosi un pubblico, mettendosi al suo
servizio.

Non date retta al re,


non date retta a me.
Chi v’inganna
si fa sempre piú alto d’una spanna,
mette sempre un berretto,
incede eretto
con tante medaglie sul petto.

Non date retta al saggio,


al maestro del villaggio,
al maestro della città
che vi dice che sa...

Questo, con quel che segue, è un vero «discorso in


rima»: nasce da un semplice gioco di rime baciate, nella
tradizione popolare; non si allontana da un tipo di canto
facile, in un senso però diverso dal modo come è di solito
«facile» il canto di Alfonso Gatto; le rime non cadono per
tranquillizzare, per acquietare, ma per sorprendere e
provocare, per negare la tradizione in nome di una moralità
piú alta («sbagliate solo da voi»); i personaggi evocati
cadono come birilli sotto quel colpo preciso – «non date
retta» –, che è proprio il contrario della morale che viene
predicata, per esempio, a Pinocchio, e che spesso comincia
proprio con un «dà retta...» Il giocattolo verbale chiama i
bambini a un gioco tutt’altro che infantile. Gatto non
bamboleggia, rimane adulto in ogni parola. Fortuna sua,
rimane anche in ogni parola poeta.
Ma non disdegna di usare modi minori, di prosa appena
corretta da accenni di musica, se gli preme piú la cosa da
dire che il modo di dirla:

Tre bambini stanno zitti


zitti come coscritti
davanti al caporale.
E la mamma li guarda sospettosa,
gli dice: «vi sentite male
o state macchinando qualche cosa?»

Come vedete è falso, l’oro.


Il silenzio non è d’oro.

Eccetera. Qui non vedo poesia. La necessità di usare


quelle parole, collocandole in quella sequenza, è una
necessità pratica: il raccontino, in prosa, sarebbe stato
meno libero, meno attraente, meno giocattolo; le parole che
contano «zitti», «oro», non avrebbero avuto quel rilievo,
l’immagine del caporale non avrebbe ricevuto la conferma
dalla rima con «male».
Gatto stesso doveva sapere che il suo libro era fatto di
materie diverse, se nel sottotitolo ha distinto le «poesie»,
dalle «rime», dalle «ballate». E mi sembra molto bello che
un poeta come lui abbia accettato di firmare, per cosí dire,
un ibrido, un libro che il critico letterario non basta a
classificare, e si classifica benissimo, invece, dal punto di
vista del bambino, del suo piacere, perfino del suo utile. Il
libro rappresenta, piú o meno, un caso di felice incontro tra
un poeta e un padre affettuoso.
In questo libro il bambino non può riconoscere, da solo,
poesia da non poesia. Il bambino è per conto suo, per sua
necessità, contenutista. Se dovesse indicare la poesia che
gli piace di piú, probabilmente non riuscirebbe a indicare
quella che gli ha veramente parlato di piú, quella in cui
l’emozione gli è venuta dalla forma anziché dal soggetto, in
cui ha sentito vibrare l’insolita carica di significato della
parola poetica. La sua esperienza della poesia può
rimanere inconsapevole: questo non vuol dire che questa
esperienza non ci sia stata.

L’incontro con la lettura.

Col bambino che legge, però, siamo già a scuola. È qui


che avviene il vero e proprio incontro tra il bambino e la
poesia. O non avviene, secondo i casi. Il semplice fatto di
dover imparare a memoria delle poesie non è ancora un
incontro tra il bambino e la poesia.
A scuola avviene di solito anche il graduale passaggio
dalla poesia popolare, dal giocattolo poetico, alla poesia
vera e propria. La scuola è o dovrebbe essere la grande
mediatrice.
In un certo senso, però, la scuola è costretta a graduare
quell’incontro da difficoltà che non riguardano tanto la
poesia, quanto l’apprendimento del leggere e dello
scrivere. Le difficoltà d’ogni genere che comporta questo
apprendimento sono note e io non vi insisterò se non per
dire che di solito esse sono sottovalutate, al punto che il
libro di lettura è caricato di compiti che con
l’apprendimento della lettura non hanno niente a che fare:
copiatura, divisione in sillabe, analisi grammaticale, analisi
logica, eccetera. Il libro diventa facilmente uno strumento
di tortura. La lettura non è piú una scoperta, ma un
esercizio; non è un momento vitale, ma un adempimento
burocratico, finalizzato all’interrogazione, al giudizio, alla
pagella, eccetera. In queste condizioni, ogni discorso sulla
poesia cade, non ha senso.
Anche ipotizzando le condizioni migliori dal punto di
vista didattico, rimane la necessità di fornire ai bambini,
nei primi due o tre anni di scuola, testi facili, anche piú
facili di quelli che il bambino potrebbe affrontare
oralmente: la lettura è in un certo senso una riconquista
del lessico da un nuovo punto di vista. Sembrano
indispensabili testi di mediazione e anche versi di
mediazione, che consentano la riconquista sul terreno della
parola scritta delle scoperte che il bambino aveva già
compiuto a contatto con la poesia popolare: il ritmo, la
rima, il gusto della parola per la parola. È il momento delle
filastrocche, delle canzonette, delle poesie per gioco, delle
rime facili, del giocattolo poetico, come ben sanno i
compilatori di libri di lettura per il primo ciclo. I quali non
sempre tengono conto, tuttavia, che si tratta di un
momento importante non in ordine all’apprendimento della
lettura, ma in ordine alla formazione di una sensibilità per
le possibilità del linguaggio, cioè per la poesia. Gli errori di
gusto, in questa fase, possono avere conseguenze gravi. La
poesia è la piú alta forma di conoscenza ed esplorazione del
linguaggio: anche a livello di gioco, di mediazione e
preparazione, bisogna che essa si presenti con una sua
dignità, una sua capacità di emozione e sorpresa, che parli
per cosí dire un po’ piú in alto del bambino, lo faccia salire
sul piano dove anche le parole piú semplici possano
rivelare significati nuovi e le immagini offrano un’autentica
possibilità di lavoro alla fantasia.
Perché l’esperienza abbia già carattere di esperienza
poetica bisogna che essa abbia come perno principale la
parola, cioè la forma dell’espressione e la forma del
contenuto, piú del contenuto stesso. La scelta non può
dunque essere di carattere contenutistico. Voglio dire che
distribuire i versi nel libro secondo le esigenze del
calendario, anziché secondo quelle dell’educazione alla
poesia, è nocivo e arbitrario. Le stagioni, le feste, le
esigenze, reali o presunte, della formazione morale,
religiosa, ideologica e simili, che in molti libri
predominano, rispetto a quelle della qualità dei testi, sono
in realtà motivazioni esteriori: questa riduzione della
poesia a forme didascaliche mette tra parentesi la sostanza,
che è l’incontro con il linguaggio e la sua libertà.
Dalla terza in su mi pare che il discorso cambi. Quando le
difficoltà della lettura stanno diminuendo e già per molti
bambini il rapporto con la parola scritta non è piú un lavoro
di decifrazione di segni, ma di uso libero e fantastico di
quei segni, emerge la possibilità di favorire l’incontro con
la poesia vera, la poesia grande, senza piú aggettivi
limitativi. Il bambino, e anche il ragazzo, continueranno ad
aver bisogno di giocattoli, anche verbali, ma sta maturando
in loro una maggiore capacità di impegno umano. Lo stesso
loro bisogno di crescere, di conquistare piú pienamente la
realtà, li rende capaci di sforzi maggiori. Al tempo stesso la
loro disponibilità per le emozioni, i sentimenti, gli ideali,
l’assenza in loro di grettezza, il disinteresse con cui
spendono le loro energie, li apre ad accogliere il messaggio
poetico, che è un messaggio a vivere piú in alto, è sempre
un invito a «egregie cose».

«Lungi dal proprio ramo...»

Siamo in una quarta elementare. La maestra invita i


ragazzi a scegliersi, entro una settimana, nel loro libro di
lettura, la poesia che preferiscono. Essa ha capito che
l’incontro con la poesia non può fare a meno di un carattere
personale, privato e, insieme, di scoperta, di avventura. Ha
abbandonato da tempo la vecchia pratica di dettare o
indicare una certa poesia, illustrarla brevemente,
assegnarla per lo studio a memoria, ascoltarne la
recitazione, giudicarla con un voto. Non si può usare la
poesia per una pratica del genere: sarebbe come usare un
orologio d’oro per piantare un chiodo nel muro. Per i chiodi
esistono altri martelli.
Non tutti i ragazzi scelgono: chi per distrazione, chi
perché ancora sordo a certi richiami, chi per paura di
sbagliare. La maggioranza, però, sceglie e nelle sue scelte
appare molto divisa, anche se non sarebbe difficile
distinguere quelli che hanno scelto in proprio da quelli che
hanno scelto per imitazione. Tra le poesie scelte c’è «Lungi
dal proprio ramo - povera foglia frale», di Leopardi, ce n’è
una di Ungaretti. Ogni ragazzo legge la poesia che ha
scelto, la spiega se può, nasce una certa discussione. I
ragazzi vogliono ora sentire la maestra leggere essa stessa
le poesie scelte. Essa legge, aggiunge spiegazioni
puramente lessicali. La mattinata se n’è quasi andata:
qualcuno già si è messo a fare un disegno sulla poesia che
ha scelto. C’è appena il tempo di una specie di votazione. Si
scrivono tutti i titoli – una decina – sulla lavagna. Si vota
per la poesia piú bella. Viene scelta la poesia di Leopardi.
Appena un’ora fa molti ragazzi ridevano di quelle parole
inconsuete «lungi», «frale»: evidentemente fraintendevano
la sorpresa che li aveva colpiti. Ora l’hanno interiorizzata.
Ora sono proprio quelle parole ad affascinarli. I loro
commenti sono: com’è detto bene - non si potrebbe dire
meglio - è triste ma non fa piangere (La poesia è sempre
una vittoria sul dolore).
La maestra è prudente, non insiste, non assegna poesie
da studiare a memoria. La mattinata è stata piena di
emozioni. Anche il verso di Ungaretti: è il mio cuore il
paese piú straziato... è stato a lungo sentito, assaporato,
lasciato fluttuare nell’aria a caricarsi di echi.
Qualche giorno dopo la maestra ha portato a scuola un
piccolo schedario di poesie, da lei stessa ricopiate su alcuni
cartoncini, per porle a disposizione dei ragazzi. Tra quelle
poesie, la bella ballata del Carducci «Sul Castello di Verona
- batte il sole a mezzogiorno». Non so per quante settimane
quelle poesie siano rimaste là, come un discreto silenzioso
richiamo. So che a un certo punto il castello di Verona era
diventato, tra quei ragazzi, quasi una moda: e i versi che si
ripetevano piú spesso erano quelli in cui la parola del canto
era piú precisa, piú ricca di storia, con venature arcaiche
che collocavano la leggenda in una lontananza linguistica
oltre che temporale: «Il gridar d’un damigello - risuonò fuor
della chiostra»... «i donzelli ivano»... o quelli in cui con
maggiore schiettezza il Carducci ha raggiunto i toni della
poesia popolare, a un giro piú alto della spirale: «mala
bestia è questa mia - mal cavallo mi toccò - sol la vergine
Maria - sa quand’io ritornerò...»
Alla fine dell’anno i ragazzi conoscevano a memoria
diverse poesie, non tutti le stesse, ma quelle che avevano
scelte e frequentate piú spesso, e che si erano fissate nella
loro memoria da sole, cosí come a noi si fissano nella mente
le poesie che amiamo. Potrei citare a memoria anch’io molti
versi di Montale, di Gatto, di Sereni, di Luzi, di Betocchi, di
Hölderlin, di Apollinaire, di Eluard, dei poeti scoperti e
frequentati nell’adolescenza, negli anni delle grandi e
decisive passioni. E se ripenso al carattere di quelle mie
scoperte, mi sembra, per limitarmi alla poesia italiana, che
fosse quella di una lingua contemporanea salvata nella sua
serietà, nella sua dignità, nella sua capacità di elevare, di
accendere la mente, mentre intorno il regime fascista
faceva di quella lingua l’uso che sappiamo. Credo che quei
poeti abbiano molto aiutato, noi, allora giovani, a concepire
un atteggiamento verso la vita diverso da quello che
avrebbe voluto instillarci una propaganda tanto volgare
quanto onnipresente, fosse anche solo nel riconoscere quel
che non eravamo, quel che non volevamo.
L’esperienza della poesia che hanno avuto i ragazzi di cui
ho detto non è stata superficiale, scolastica, ma vitale,
profonda. La poesia è entrata per cosí dire nella loro vita:
non nei compiti di scuola, che non sono vita; la scuola può
educare solo se si nega come scuola, se ricrea in se stessa
le condizioni della vita. Hanno imparato a memoria dei
versi nel solo modo utile, cioè perché li hanno amati e
vissuti. Non è stata per loro, quell’esperienza, la
formazione di un riflesso scolastico: ma la prima
formazione di un gusto, di un bisogno intellettuale e
morale.
Perché questo accada, s’intende, bisogna che i ragazzi
abbiano una scelta ampia, alla quale non basta il libro di
lettura, come non basta l’antologia, nella scuola media. E
bisogna che questa scelta sia libera, bisogna che trovi in se
stessa le sue motivazioni.
Gli stessi ragazzi di cui ho detto avevano preso
l’abitudine di incidere su un registratore le poesie che
amavano: riascoltandosi mentre le leggevano o le
recitavano essi erano i primi a cogliere il momento in cui la
voce veniva meno alla parola, non la rivelava, l’espressione
non aderiva alla forma, ma era suono vuoto. In questo
ascolto essi proseguivano l’esplorazione della poesia, la
conquistavano sempre meglio, in tutti i sensi. Una poesia
poteva esaurire il loro interesse in una settimana, un’altra
bastava per mesi. Anche quell’ascolto aveva, mi sembra, il
carattere autoriflessivo che ha nell’arte il linguaggio. Essi
in fondo ricreavano il linguaggio di quelle poesie e cosí
penetravano davvero nel segreto della poesia, che è uno
sforzo di continua ricreazione del linguaggio.
Nella scelta di cui si è detto, ovviamente, i ragazzi vanno
aiutati. Tocca all’educatore la prima ricerca, quella per
individuare nel patrimonio poetico della lingua le parti che
possono meglio riuscire all’incontro tra i ragazzi e la
poesia. Tutta la poesia a tutti i ragazzi è un non-senso, per
tante ragioni. La loro comprensione ha dei limiti, come ne
hanno la loro esperienza di vita, la loro stessa capacità di
sforzo, di misurarsi con i sentimenti e le idee dell’adulto, la
loro conoscenza della realtà. Sempre che si scelga per
aiutarli, non per imporre loro dei limiti a nostro giudizio.
Scarteranno da soli le poesie che assolutamente «non
capiscono».
Si dirà che in questo modo si abusa della poesia,
introducendo in essa distinzioni che non le appartengono.
Ma anche qui, anche di fronte alla poesia, vale per noi il
punto di vista dei ragazzi e dei bambini. In loro nome
abbiamo tutto il diritto di ricavare un’antologia di poesia
per bambini, o per ragazzi – e in questo caso parleremo con
sicurezza di poesia, e non di giocattolo poetico, o di
introduzione alla poesia – dal patrimonio della poesia senza
aggettivi. E il modo, l’intelligenza, l’apertura, il coraggio
con cui sarà fatta l’operazione non risulteranno meno
importanti del modo come la poesia verrà presentata ai
bambini e ai ragazzi: non come un obbligo scolastico, ma
come un paese da scoprire.

La poesia dei bambini.

Credo che dobbiamo dire qualcosa, dopo aver parlato di


poesia per l’infanzia, anche delle poesie dei bambini. Ne
sono sempre nate, nelle scuole, ricevendo o no una
valorizzazione, spesso equivoca. Ne nascono oggi, penso
che ne nasceranno sempre piú domani, via via che si
faranno strada due idee, per ora quasi embrionali: la prima,
che l’insegnamento debba essere sempre piú creativo; la
seconda, che il bambino, piú in generale l’uomo, debba
essere considerato non tanto un semplice consumatore di
cultura – di libri, di poesia – ma un produttore di cultura, e
anche, perché no, di poesia.
Un’attività di invenzione verbale è presente nelle
manifestazioni spontanee del bambino nei suoi primi anni
di vita. Egli può, di volta in volta, scoprire una parola e
cantarsela o trovarle un ritmo, una melodia e adattarvi
delle parole. A volte parola e canto nascono insieme. A
volte è la scoperta di una rima buffa, che ne chiama altre,
che chiama a storpiare le parole, per obbligarle a rimare. Il
bambino gioca con gli accrescitivi, con i diminutivi, con i
nomi propri. Nomina insieme, senza distinguere, gli oggetti
che vede, le proprie emozioni, le fiabe che conosce, come in
questa canzoncina di una bambina di tre anni: Tavolino,
non cantare che viene il lupo... Sedia, non cantare che
viene il lupo... Mamma, non cantare che viene il lupo... Che
è insieme gioco, esorcismo, uso magico della parola,
espressione immediata, automatica, nella quale la
condensazione delle immagini (tavolino, non cantare...) ha
qualcosa di simile a quella di cui fa uso il sogno, nella sua
tecnica, descritta da Freud. Questi spunti, o germogli, o
brandelli di creatività presentano un grande interesse e
andrebbero studiati con maggiore attenzione di quanto non
si faccia. Studiati, voglio dire, non solo da un punto di vista
psicologico, non solo dal punto di vista della formazione del
linguaggio, ma del contributo che essi dànno alla
formazione delle prime strutture mentali. Cosí andrebbero
registrati e studiati i monologhi con cui spesso il bambino
accompagna il gioco che sta facendo, e nei quali sono
presenti tipi diversi di espressione, di affabulazione, di
creatività. È un lavoro che si è cominciato a fare nelle
scuole dell’infanzia (già materne); per esempio a Reggio
Emilia, col gioco del «cantastorie», durante il quale i
bambini inventano delle storie, del tutto liberamente, o
utilizzando stimoli semplicissimi, suggeriti dall’adulto.
Veniamo invece ai testi poetici che ci dànno i bambini
nelle scuole elementari.
Eccone uno, intitolato Paese triste

Re della luce
perché ti nascondi
nella nebbia fitta?
Prima il paese
era brillante
lucente
dorato.
Ora è triste
senza i colori
e senza i bambini
per le strade.

Avrete subito avvertito una singolare pulizia e nettezza


verbale. Il tema fantastico è molto semplice e si sviluppa
sull’opposizione quasi obbligatoria: sole / nebbia; il paese
visto col sole, il paese visto nella nebbia; che a sua volta è
sentita solo come assenza di sole, non è degnata di una
descrizione diretta, di una metafora, solo di quell’ora, tra le
immagini della memoria e quelle che stanno davanti agli
occhi. L’unica audacia è nell’attacco, perfino un po’
pomposo «re della luce» che, rispetto alla sobrietà degli
altri versi, rappresenta una deviazione. Eppure proprio in
quel «re della luce» è già un risultato poetico: direbbe
Sklovski che c’è già un effetto di «straniamento». L’oggetto
non è nominato direttamente, eppure proprio per questo
appare rivelato, amplificato. Non so come sia uscita
quell’immagine. Bisognerebbe domandarlo al solito Mario
Lodi, perché la poesia è uscita proprio da una sua classe,
una terza elementare, nel settanta. Lui certo saprà come
sono nate quelle parole una per una, perché la poesia è
nata alla lavagna, ed è firmata «tutti».
Possiamo solo immaginare che in una mattinata di nebbia
i bambini, o il maestro, abbiano cominciato a parlare,
appunto, della nebbia. Avranno fatto le loro osservazioni,
confrontato le loro impressioni, conversando con quella
libertà che Lodi sa cosí bene stimolare e rispettare. Si
tratta di bambini che sono già al terzo anno di «testo
libero», che sanno che parlare non è perdere tempo ma la
cosa piú importante da fare, che non si parla per fare bella
figura, per ottenere un voto, eccetera eccetera. Insisto su
questo punto. Le condizioni in cui la classe vive
abitualmente, i valori che la piccola comunità si è andata
costruendo, sono essenziali per capire come a uno di quei
bambini sia capitato di proporre: «facciamo una poesia
sulla nebbia?»
Ecco, che cos’è per loro «fare una poesia sulla nebbia»?
Non è come fare un tema sulla nebbia: già di temi, nella
classe di Mario, non se ne fanno mai. Non è nemmeno
come fare un «testo libero», in cui l’importante è dare
espressione immediata e sincera ai propri contenuti. È
un’altra cosa, dove quel che importa è il «come» dire, piú
che il «che cosa». La mattinata deve aver avuto qualcosa di
speciale, altrimenti sarebbe bastato un «testo libero».
L’emozione nata nella conversazione deve aver avuto una
certa qualità particolare. Occorrevano parole speciali,
proprio le parole giuste, scelte una per una, ordinate in un
certo modo, certi suoni, un certo ritmo.
Quando si fa un tema bisogna dire le cose in fila, dall’a
alla zeta. Quando si fa una poesia non c’è bisogno di dire
tutto, di dire molto: ma se si trovano le parole giuste si può
dire molto con pochissime parole, piene di significati e di
echi. Il bambino che ha suggerito «dorato» per descrivere il
paese nel sole forse ha cercato solo di dire un colore, ma
certamente quella parola gli è giunta anche dall’immagine
del «re»: il re ha una corona d’oro, nelle fiabe e nella
frettolosa mitologia dei luoghi comuni.
Perché non ci sono bambini nelle strade? Perché sono a
scuola, naturalmente, e noi lo sappiamo. Ma nella verità
della poesia, è la nebbia che li nasconde. Il verbo
nascondere del secondo verso, è lui che ha fatto sparire i
bambini dalla strada.
Brillante e lucente non era il paese: era il sole, è dal sole
che vengono quegli aggettivi, come dalla luce vengono i
colori. Le parole si rimandano, si richiamano, si collegano
con fili invisibili e sottili: è cosí che avviene nella misteriosa
economia della poesia.
Può stupire che io abbia impostato questo accenno di
lettura della poesia del Paese triste con tanto impegno,
come se stessi parlando di una poesia di Ungaretti o di
Montale. Non è che io giudichi quel risultato un grande
risultato, una poesia da stampare nei libri perché faccia il
giro del mondo. Essa è veramente viva, ovviamente, solo
nel contesto in cui è nata. I bambini che l’hanno scritta
sanno tutto di ciascuna parola: «questa l’ho detta io»,
«questa l’hai detta tu». È esperienza loro, in gran parte
incomunicabile. Ma che esperienza ricca, emozionante,
produttiva. Bambini che vivono di queste esperienze sono
certo infinitamente piú vicini alla poesia di quelli che hanno
conosciuto soltanto lo studio a memoria della
«pioggerellina di marzo». Quel che conta è l’esperienza
poetica di quella mattinata, il tono morale con cui è stata
vissuta, il ricordo che lascerà, e anche piú del ricordo, il
modo come quel lavoro si sarà fissato nelle menti e nelle
personalità dei bambini.
Dallo stesso giornalino «Insieme» da cui ho tratto il
Paese triste ecco invece la poesia di una bambina. Non ha
titolo. Sta con altre sotto un titolo unico Buon Natale. Ma
del Natale, apparentemente, non parla per nulla. Essa dice
soltanto:

Mi piace vivere
giocare e saltare
ridere
e avere vicino
la mamma e il papà.
Ti ringrazio, Signore.

Come sentite, siamo ben lontani dall’esibizione del solito


«bravo in italiano», che orecchiando un modo qua un altro
là, imitando, sfoggiando, compone la poesia di cui i genitori
andranno fieri. Esibizioni del genere, s’intende, andranno
scoraggiate. Ma questo di Primarosa è, mi sembra, un
frutto genuino: è la sua preghiera, tutta personale, schietta.
Primarosa non può pensare al Bambino che ha freddo: per
lei la nascita, la sua nascita, il suo Natale, è un dono
gioioso. La struttura è cosí semplice che quasi si può
vedere rampollare quel ridere dal vivere, e ancora dal vi di
vivere sentir nascere quel vicino. La parola che ha il
maggiore spicco è «ridere», eppure anche in questa parola
si sente una commozione vera. E com’è lontano quel «ti
ringrazio, Signore» da ogni formula rituale o devozionale:
esso rappresenta invece la scoperta di un sentimento di
gratitudine che vive di se stesso.
Mi si dirà: restiamo col solito Lodi. Lodi, si sa, è un
poeta. Nella sua classe tutti diventano poeti. Ma si sente
bene che è merito suo quella scrittura chiara, senza
banalità, fervida e misurata insieme. Certo, è cosí: ma non
nel senso che Mario Lodi sia intervenuto nella creazione di
questa poesia, suggerendo, correggendo. Il suo intervento
è stato ben altro: è stato quello di ogni giorno, la lunga
pazienza, la lunga premeditazione con cui è arrivato a
creare per i suoi ragazzi la condizione di libertà e di felicità
necessaria per trovare quelle parole.
Del resto, sentite ora questa filastrocca al sole

Sole, sole splendi


che tutti saremo contenti;
sole che hai tanti raggi lucenti
danne un po’ a noi
che saremo contenti.
Sole, tu fai splendere i vetri,
tu fai splendere il cielo.

È di una bambina di quarta elementare di una scuoletta


di campagna, Oira di Nonio, sul lago d’Orta. E il maestro
non si chiama Mario Lodi, si chiama Claudio Boldini.
E questi quattro versi, che vengono da una scuola
elementare di Mariano di Valmozzola, in provincia di
Parma:

Scende la notte
buia buia
la luna ascolta
i canti delle mamme.

E dalla stessa scuola, di un altro bambino:

Alzo la testa e vedo


cielo, cielo blú
Guardo nel secchio con l’acqua
e vedo cielo, cielo blú
voltato all’ingiú!

Quando semplici momenti della vita, piccole scoperte,


occasioni che in sé non hanno nulla di straordinario,
diventano parola veramente libera, pretendono la parola
che rifletta in se stessa la qualità e il ritmo di quel
momento, come il blú del cielo – rimando con l’ingiú –
ripete nelle parole il semplice gioco infantile, nasce la
poesia. È certo una poesia che balbetta, un lumino di
lucciola. Ma è un segno sicuro che in quella scuola, tra quei
bambini, è nata una civiltà piú alta.
Cosí anche questa poesia, che non vogliamo né
idealizzare né preferire a Leopardi o, se volete, a Zanzotto
– sarebbe ridicolo, ma soprattutto superfluo – anche questa
poesia esile esile ha aiutato i bambini a sentire, se non
ancora a capire chiaramente, che il loro ruolo nel mondo
non dev’essere quello di chi accetta la realtà bell’e fatta, di
chi deve solo eseguire, consumare e obbedire, ma è un
ruolo di produttori, di creatori, di trasformatori del mondo.
Non importa se usciti da scuola non faranno piú poesie:
certo, è piú facile che conservino il bisogno di poesia; in
ogni caso la poesia sarà stata per loro un esercizio di
libertà, un’educazione alla libertà i cui frutti dureranno a
lungo.
Lettera a un genitore sudista

Rodari e la scuola: è un lungo, lunghissimo capitolo dell’attività dello


scrittore. La sua attenzione alla scuola, a ciò che nella scuola succede, è stata
sempre vigile. Fin dai primi interventi giornalistici, risalenti agli inizi degli anni
cinquanta, pone i problemi dell’istituzione scolastica nei termini di una
vertenza di immediato interesse sociale. Nel 1952 scrive per «l’Unità» un
articolo (Si avvicina il giorno del ritorno a scuola, 11 settembre 1952)
particolarmente significativo. Chiama in causa i genitori e li esorta a portare
«fuori dalle pareti domestiche» il problema della scuola. Di partecipazione, di
decreti delegati ancora neppure l’ombra; ma nelle parole di Rodari si trova
anticipata un’idea che prenderà forma e si concretizzerà due decenni dopo:
«C’è un modo sbagliato e c’è un modo giusto di mandare i bambini a scuola. Il
modo sbagliato consiste nel preoccuparsi solo che abbiano un buon
grembiulino, una cartella che non vada in pezzi, l’occorrente per scrivere. Il
modo giusto è di preoccuparsi anche dell’organizzazione scolastica. La scuola è
un servizio statale. Il pubblico che se ne serve, e che paga le tasse, ha il diritto
di rivendicare dallo Stato che questo servizio funzioni [...]. Le famiglie hanno il
diritto di organizzarsi tra loro in comitati, in commissioni di mamme, in
associazioni, per contribuire alla soluzione dei problemi scolastici. [...] Il
problema della scuola è in questo periodo uno dei principali problemi familiari:
bisogna portarlo fuori dalle pareti domestiche, affrontarlo in forma associata ed
organizzata [...]. Di fronte allo Stato, è un diritto di tutti i cittadini chiedere per
la scuola nazionale i soldi che vengono sperperati nel riarmo». Interventi di
questo tenore sono numerosissimi. Non va dimenticato che Rodari diresse dal
1968 al 1977 il «Giornale dei genitori». Questa Lettera a un genitore sudista
appare su «Paese Sera» il 24 marzo 1970. Famiglia e scuola sono due mondi
profondamente in crisi: una soluzione al problema è possibile solo a condizione
di sostituire all’autorità non l’anarchia ma la solidarietà.
Caro collega,

e preciso subito: «collega» in quel «mestiere di genitore»


che esercitiamo in tanti, con passione, con sofferenza, con
competenza o con leggerezza, e secondo i casi con
esasperazione, con disperazione. La «colleganza» è del
resto delle piú generiche. Ci sono «colleghi» nostri per i
quali il problema da decidere è se comprare al ragazzo per
il suo compleanno, l’utilitaria o la fuoriserie; altri per i quali
il problema è di dargli da mangiare anche a cena, dopo
essere riusciti a dargli qualcosa a colazione. Le condizioni
in cui si esercita il «mestiere di genitore» sono tanto
diverse da impedire un discorso che valga per tutti. Per
esempio, se parliamo della scuola, è quasi impossibile
trovare una piattaforma comune tra il padre contadino
delle Puglie o un manovale del Tufello e il padre industriale
di Torino, professionista di Milano, burocrate capo di Roma,
eccetera: tra le classi che i figli all’Università ce li hanno
sempre mandati e quelli che non ce li mandano ancora; tra
i ceti ai cui figli il liceo era dovuto per diritto di nascita e di
censo (o magari per diritto divino) e quelli che per fare
arrivare i figli al liceo si levano il pane di bocca.
Un «partito dei genitori» per esistere, dovrebbe essere
due o tre volte piú interclassista della Democrazia
cristiana. Impresa impossibile. Aggiungiamo alla tara delle
differenze di classe il peso delle differenze politiche e
ideologiche e la «colleganza» tra i genitori si rompe
immediatamente su piú fronti, le idee sull’educazione
divergono in tutte le direzioni. Tra il genitore che ritiene
suo dovere principale educare il figlio al culto delle
memorie della «repubblica sociale italiana» e quello che
pone al di sopra di tutto la devozione a Santa Romana
Chiesa; tra il padre che vuole preparare il figlio a «farsi una
posizione» e quello che vuole soltanto se ci riesce, aiutarlo
a farsi una testa per ragionare, il dialogo è difficile, spesso
impossibile. In una società come la nostra la elaborazione
di un ideale collettivo comune urterà sempre contro
interessi che non possono essere composti in armonia.

Solo partiti e sindacati.

Per questo le dirò, caro collega, che non credo, o credo


pochissimo, nelle associazioni di genitori. Le sole
«associazioni di genitori» omogenee ed efficaci mi
sembrano i partiti e i sindacati, che sono espressione di
interessi comuni, di ideali scelti e condivisi
volontariamente. Che poi i partiti e i sindacati abbiano
coscienza di essere anche «associazioni di genitori» e si
comportino di conseguenza, questa è un’altra faccenda.
Da un punto di vista puramente concettuale esiste
certamente un «insieme» di tutti i genitori che hanno un
figlio al Giulio Cesare o al Virgilio o al Tasso, mettiamo.
Questo «insieme» può anche formalmente costituire una
associazione: ma non vedo come un’associazione di persone
socialmente, ideologicamente e politicamente eterogenee
possa proporsi, di fronte alla scuola, fini comuni. Essa può
esistere solo come luogo di un dibattito permanente. Se
concepita come tale, può avere una funzione, come ce l’ha
qualunque parlamento. Ma per funzionare egregiamente
dovrebbe potersi articolare in maggioranza e minoranza. E
poi? E poi mi spiega lei che cosa dà il diritto a me, genitore
di maggioranza, di prendere decisioni per il figlio del
genitore di minoranza? E come convincerà me, genitore di
minoranza a delegare ad altri la difesa degli interessi di
mio figlio, o addirittura il mio diritto ad educarlo?
Bisognerebbe cominciare con l’abolire ogni residuo di
«patria potestà» compresi gli aspetti irrinunciabili di
questo antico istituto...

Alcune difficoltà.

Con questo non vengo a dire che ogni incontro


organizzato ed istituzionalizzato tra scuola e famiglia sia
impossibile. Dico che bisogna tener conto delle difficoltà di
cui sopra. Dico, ancora, che bisogna tener conto di un fatto
grosso come una casa: e cioè che l’incontro tra scuola e
famiglia è, oggi, l’incontro fra due mondi in crisi. Sono due
crisi che si svolgono drammaticamente sotto gli occhi di
tutti, e non ci spenderò parole, che sarebbero accademia.
Vengo invece a spiegarle che cosa intendo – nella cornice
che sono venuto delineando – con la qualifica di «sudista»
che attribuisco a lei, caro collega, e ad altri moltissimi che
si comportano come lei. Il «sudismo» di cui parlo è un
comportamento e come tale può essere comune a persone
di ogni ceto e classe, indipendentemente dalla chiesa
frequentata e dal giornale di partito letto in famiglia. È un
fenomeno vistoso che compare nelle assemblee di genitori,
quando vengono convocate dai presidi in circostanze
speciali: per esempio, dopo uno sciopero di studenti, dopo
una serrata di professori, dopo un ciclo particolarmente
intenso di sospensioni, di occupazioni e cosí via.
In tali assemblee prendono la parola, generalmente, due
tipi di genitori: quelli che si presentano come alleati dei
loro figli, e in generale dei giovani (e meno giovani)
contestatori della scuola di oggi; e quelli che gli studenti
stessi hanno definito le «guardie bianche» cioè i genitori
che difendono coscientemente e coerentemente la scuola di
classe, la scuola autoritaria, che invitano il preside a
chiamare la polizia, che denunciano (alla stampa, al
provveditorato, al ministero, qualche volta al Procuratore
della Repubblica) i professori «sovversivi» (basta che un
professore non abbia la coda, e per loro è già un
«sovversivo»). I genitori «sudisti» di solito, non parlano. Si
accontentano di fischiare e urlare gli oratori del primo tipo
e di applaudire fino a slogarsi i polsi le «guardie bianche».
Le ho già detto che i «sudisti» sono spesso in buona fede,
che sono piú che altro gente confusa, disorientata, che
soffre? Glielo dico adesso. E le dico anche, finalmente,
perché ho scelto un aggettivo che appartiene alla guerra
civile americana tra il Nord industriale e il Sud cotoniero e
schiavista.
Se ha presente quella guerra, i molti film che le sono
stati dedicati, libri come Via col vento e tutto il folclore
relativo sarà d’accordo con me quando affermo che tra i
«sudisti» non c’erano soltanto grossi proprietari terrieri
che difendevano, con la guerra, i loro interessi di classe:
c’erano anche molte brave e oneste persone, sinceramente
convinte che il sistema andasse bene, che gli antichi ideali
fossero quelli giusti, che il Nord rappresentasse la
sovversione, e l’ateismo, insomma che per i negri stessi
fosse un bene rimanere schiavi di buoni padroni, di signori
paterni e bene educati, che per loro la libertà si sarebbe
risolta in un danno, perché non erano preparati ad essere
liberi.
Forse comincia a capire, caro genitore «sudista» perché
io la paragono a quelle brave e oneste persone. Lei è
sinceramente e onestamente convinto che i giovani non
siano maturi per le libertà che rivendicano (e che
rivendicano per loro pedagogisti, psicologi ed altri
corruttori della gioventú); che l’autorità paterna, e quella
della scuola come prolungamento e perfezionamento della
medesima, siano per i ragazzi un bene oggettivo, anche se
loro non se ne rendono conto; che la disciplina sia
necessaria come per i negri era necessario un pastore che
predicasse loro la rassegnazione e l’obbedienza. «I negri
non hanno l’esperienza che occorre, – dice lei... anzi scusi,
lei dice, – i giovani non hanno l’esperienza che occorre per
conoscere quali siano veramente i loro interessi;
l’esperienza ce l’abbiamo noi, e la vogliamo usare per il
loro bene». E ancora lei dice: «noi abbiamo la
responsabilità di educarli, e non possiamo abdicare». E poi
ci sono cose che lei pensa ma non dice o sente
oscuramente, e ancora meno può dire. Per esempio: «Io
sono cresciuto nell’obbedienza ai miei genitori: perché i
miei figli non dovrebbero obbedire a me, adesso che il
genitore sono io». E non voglio considerare – ma esiste
anche quella, si informi un po’ – la gelosia naturale,
l’invidia fisiologica del piú anziano per il piú giovane, di chi
vive ormai su un solo binario verso chi può ancora
scorrazzare in piena libertà su tutta la rete; di chi ha
sbagliato e può sbagliare sempre meno, verso chi ancora è
in diritto di sbagliare; di chi ha visto i suoi sogni personali,
cadere uno per uno, verso chi ha ancora tanti sogni. Tutto
ciò si muove e si commuove, nell’animo del genitore
«sudista» quando i figli si fanno indisponenti, inquieti,
ribelli; quando – ecco i verbi che vengono naturali al
«sudista» – i figli «eccedono esagerano vanno al di là di
ogni limite».
Caro collega «sudista» ne vuol sapere una? Per delineare
il suo ritratto ho dovuto, qualche volta guardarmi allo
specchio. Non mi proclamo immune da questa malattia.
Chissà quante volte in un giorno mia figlia mi considera un
«sudista» (e speriamo che non mi debba considerare mai
una «guardia bianca»). Non voglio essere ipocrita con te,
mio lettore, mio simile e fratello. Voglio solo comunicarti il
mio dubbio. In certe confessioni cristiane la fede, è
necessaria e sufficiente alla salvezza. Nel nostro discorso,
credo che la salvezza cominci dal dubbio. Dunque,
dubitiamo un po’ insieme.
In nome di che cosa noi riteniamo di dover educare i
nostri figli, ciascuno di noi secondo i suoi ideali?
Principalmente in nome della nostra esperienza. Ma
l’esperienza non è necessariamente saggezza. Niente ci
garantisce che noi non apparteniamo proprio a quella
specie di persone che partono per il giro del mondo in un
sacco e tornano a casa in un baule, senza imparare niente,
imparando a spizzichi, a barlumi. Inoltre, questa benedetta
esperienza, quando la consideriamo in veste di padri, ha la
tendenza a presentarsi come un blocco di conquiste
positive; forse, se fossimo un po’ piú severi con noi stessi,
la vedremmo meglio com’è un blocco d’errori che
cerchiamo di dimenticare.
L’esperienza senza la critica del dubbio, poco giova a chi
l’ha vissuta: figuriamoci se può servire a chi ne riceve solo
la comunicazione verbale, come i figli dai padri.
L’umanità va avanti solo perché c’è continuamente chi
mette in discussione la sua esperienza, le sue certezze.
Altrimenti vivremmo ancora nelle caverne, perché
nell’esperienza dei vecchi cavernicoli non c’è altro; e non ci
sarebbe America, perché l’America non era nell’esperienza
del mondo antico, è entrata nella storia perché Colombo è
andato a cercare nuove esperienze oltre le colonne
d’Ercole; e nessuno avrebbe inventato la penicillina,
nessuno avrebbe sperimentato i trapianti cardiaci, l’Italia
sarebbe ancora quella del congresso di Vienna.
Noi non possiamo pretendere di imporre la nostra
esperienza ai figli, primo perché non ci riusciremmo, ed
essi compirebbero le loro esperienze contro di noi; secondo
perché il mondo non finisce con noi, non si ferma, non si
congela. Possiamo – e questo sarebbe moltissimo – aiutare i
figli a compiere le loro esperienze: ma per riuscirvi
dobbiamo prima riuscire ad essere totalmente,
profondamente solidali con loro, dobbiamo accettare che la
loro esperienza corregga e critichi la nostra, dobbiamo – se
possibile – imparare dalla loro esperienza piú di quanto non
imparino loro.
È come dire che nei rapporti fra padri e figli, come in
quelli tra la scuola e i giovani, niente di buono può nascere
dall’autorità: tutto dalla solidarietà. Questo non significa
sostituire all’autorità l’anarchia, come dicono le «guardie
bianche» per spaventare i buoni «sudisti»: significa
sostituire all’autorità la solidarietà che è un’altra cosa.

Rovesciare il metodo.

Non è vero che i ragazzi non vogliono studiare. Non


vogliono studiare come abbiamo studiato noi, ecco tutto. La
legge, l’età, il fatto di tenere i cordoni della borsa ci
possono permettere di imporre loro quel nostro modo di
studiare, giusto o sbagliato che fosse: con la disciplina, la
severità, e tanti altri bla bla bla. E cosí avremmo le
apparenze dell’ordine, ma, in realtà, dal punto di vista
dell’educazione, avremmo fatto esattamente il contrario del
nostro dovere. Non esiste alcun motivo pedagogico
psicologico comunque giustificabile, per imporre loro i
vecchi modi di studiare: anzi, ne esistono di ottimi per
rovesciare la scuola come una calza vecchia. Lo hanno già
fatto paesi come l’America, la Germania, la Svezia, dei
quali tutto si può dire, ma non che siano paesi sovversivi.
Se entriamo nella scuola, come genitori, per appoggiare i
conservatori della scuola vecchia, noi agiamo contro i
nostri figli, contro le loro esigenze di giovani, contro i loro
interessi di giovani. Ci possiamo, e ci dobbiamo, entrare
per aiutare insegnanti e studenti a creare insieme una
scuola diversa. Allora facciamo cosa utile ai nostri figli,
anche se ci vorrà un po’ perché lo ammettano, diffidenti
come sono ormai, per colpa nostra, nei nostri confronti.
Ci possiamo e ci dobbiamo entrare non per gridare,
stupidamente «Disciplina! Disciplina!», ma per cercare
insieme noi e loro, genitori e professori e studenti, la strada
nuova; per mettere in discussione, con la modestia, la
pazienza, la tenacia, la tolleranza, che sono i mezzi della
democrazia per aiutare insieme la ragione a maturare e a
prevalere sulla prepotenza, l’ignoranza, lo spirito di
sopraffazione, lo spirito di conservazione, il privilegio (che
è la causa prima del disordine).
La modestia, la pazienza, la tolleranza, non sono virtú
giovanili. Dovrebbero essere virtú dell’età adulta. Noi
possiamo insegnarle solo con l’esempio. I giovani
metteranno nella ricerca la loro onestà intellettuale, la loro
mancanza di pregiudizi, la loro intransigenza.
Ho parlato di ricerca. Non vedo altro argomento per il
dialogo tra la famiglia e la scuola: soprattutto per quello
che io ritengo abbia le maggiori possibilità di diventare un
dialogo concreto, cioè l’incontro tra i genitori della prima A
con gli insegnanti della prima A, e dei genitori della prima
B con quelli della prima B, eccetera. Gli incontri in cui
qualcuno ritenga di avere un verbo da impartire sono
inutili, antidemocratici, antieducativi. Se ne convincano, se
possono, i presidi portati a difendere ancora poteri di casta.
Gli incontri in cui si grida, servono ancora a meno. Se ne
convinca soprattutto lei caro collega «sudista» che grida
piú degli altri: e grida soltanto per coprire la propria
incertezza, per mascherare la confusione, per far tacere la
benefica voce del dubbio.
Autointervista

In questa singolare Autointervista lo scrittore ancora una volta rivela i «ferri


del mestiere» utilizzati per la costruzione della macchina narrativa della storia
La torta in cielo. È praticamente inedita. È stata riprodotta in appendice a due
tesi di laurea (quella di Giovanna Parolin, Analisi pedagogica dell’opera di
Gianni Rodari, Univ. di Padova, a.a. 1969-1970, relatore A. M. Bernardinis, e di
A. T. Marcialis, La fiaba di Gianni Rodari, Università di Cagliari, Facoltà di
Magistero, a.a. 1975-1976, relatore Alberto Granese). La stesura
dell’Autointervista è da porre tra il 1966, anno di pubblicazione di La torta in
cielo, Einaudi, Torino, e il 1968, anno di redazione della prima delle due tesi.
Una torta personale.

Se parlerò qui sotto di un libro mio non sarà per


vantarmene: potrebbe anche rivelarsi un libro brutto e da
dimenticare. Non tengo ad esso piú che ad altri, semmai
meno, meno che alle Filastrocche in cielo e in terra e alle
Favole al telefono, che mi sono care per troppi motivi e
anche troppo privati. Per investigare sulla nascita di un
libro avrei potuto scegliere il libro di un collega, il piú bel
libro dello scrittore migliore. Andare dall’autore e porgli
delle domande e annotare delle risposte. Ma poi non so se
sarebbero state le domande giuste. Lavorare su quelle
risposte sarebbe stato un atto di immodestia peggiore di
quello che compirò lavorando su materiale personale a
scopo puramente documentario. Ecco il perché di questa
«intervista a me stesso». Spero almeno che nessuno se ne
scandalizzerà piú del necessario. E se anche fosse,
pazienza!
D. – Come hai avuto l’idea del tuo libro La torta in cielo?
R. – Io lavoro in un giornale, un quotidiano della sera.
Anni fa si chiacchierava in redazione del piú e del meno,
forse del piú che del meno, perché a un certo punto uno
disse: «ma questi sono castelli in aria». Un amico che è
vissuto lunghi anni in America e che ogni tanto introduce
nei suoi discorsi una battuta in inglese, disse invece: «pie
in the sky», che vuol dire «una torta in cielo». L’espressione
non è originale né strepitosa. A me però fece effetto, tanto
che me la annotai su una bustina di minerva, e a casa me la
trascrissi in un «ideario» (non un diario, ma un semplice
deposito di idee nel quale vanno a finire progetti, brandelli
di parole, titoli di romanzi, ecc.). «La torta in cielo» mi
pareva un’espressione fatta apposta per diventare un bel
titolo. Evocava, mescolandole piacevolmente, visioni di
pasticceria e di fantascienza, vassoi di dolciumi e dischi
volanti. Recava in sé bello e pronto anche un significato
nascosto (per noi non per gli americani che usano la
metafora): parola-emblema, parola-chiave.
D. – Vorresti dire che hai cominciato il libro dal titolo?
R. – Dovrei rispondere di sí, ma non sarebbe vero. Avevo
immagazzinato l’espressione e mi dava l’aria di un titolo.
Ma io non pensavo né al titolo né al libro. Lasciavo che
l’immagine vagasse senza scopo e senza meta nel suo cielo,
che circolasse di quando in quando, ogni volta che mi
capitava di dare un’occhiata di ricapitolazione all’«ideario»
delle mie fantasticherie.
D. – Potresti spiegare perché un’espressione del genere,
a parte il suo lato pittoresco abbastanza banale, ti abbia
fatto quest’effetto?
R. – Credo di sí. Un surrealista non mi farebbe nemmeno
questa domanda. Per lui sarebbe normale seguire i
suggerimenti dati dall’incontro casuale «tra un tavolo
anatomico e una macchina da cucire», per dirla con il loro
santo patrono Lautréamont. Non cito i surrealisti a caso. Le
loro tecniche di lavoro mi hanno sempre interessato e
divertito da quando le ho scoperte: cioè da quando,
ragazzo, ne trovavo le tracce nelle riviste e rivistine
letterarie e d’avanguardia. Credo che proprio dopo un
certo numero di «Prospettive» mi capitò di inventare un
giochetto che chiamavo «duello di parole» e che mi serviva
egregiamente a far ridere i ragazzi a scuola. Facevo il
maestro elementare. Mandavo due ragazzi alla lavagna,
uno davanti l’altro di dietro. Ciascuno dei due a insaputa
dell’altro doveva scrivere sulla lavagna una parola
qualunque. Il gioco consisteva nel fatto che io avrei
inventato una storia combinando quelle due parole:
«pianta» e «pantofole» o «orologio», diventava la pianta
delle pantofole, la pianta degli orologi.
Le storie che ne nascevano erano passabilmente assurde.
I bambini sono sensibili al fascino dell’assurdo. C’era da
ridere. Gettando una parola contro l’altra – questo era il
segreto del gioco – doveva per forza sprizzare una scintilla.
Bastava impadronirsene per accendere un piccolo fuoco
nella fantasia e stare a vedere come si sarebbe sviluppato
l’incendio. Ho fatto decine di volte quel gioco e raramente
mi ha deluso. Spesso lo faccio ancora per curiosità, per
divertimento.
D. – Proporresti ancora dopo vent’anni un giochetto del
genere ai bambini?
R. – Perché no? La fantasia fa parte di noi come la
ragione. È probabile anzi che siano strettamente
intrecciate, inestricabilmente ingarbugliate e impastate fra
loro. A gettare un sasso in uno stagno non c’è niente da
perdere e c’è il caso di svegliare ranocchi che dormono.
Voglio dire: c’è la possibilità di creare un movimento, di
provocare uno scatto qualsiasi in qualsiasi direzione.
D. – Questo potrebbe essere un elogio della
fantasticheria, dell’evasione e altri simili diavoli.
R. – Penso proprio di no. La fantasia fa parte di noi:
guardare dentro la fantasia è un modo come un altro per
guardare dentro noi stessi. E se la realtà è una casa, può
essere divertente ogni tanto entrarci dalla finestra invece
che dalla porta.
D. – Ci sarebbe da discutere ma ci allontaneremmo dal
tema. Sentiamo ora come un titolo – ammettiamo che fosse
un titolo – è diventato una storia.
R. – Qualche tempo dopo l’annotazione a registro
dell’espressione «la torta in cielo», andai a trovare i ragazzi
della signorina Bigiaretti, che insegna in una borgata di
Roma. Ci andavo abbastanza spesso: non troppo spesso,
per non disturbarli; non troppo raramente, per non
sprecare quella preziosa conoscenza. Vedere lavorare quei
ragazzi fra le macchine per stampare, proiettori,
microscopi, fisarmoniche, tempere, pennelli, linoleum da
incidere, magnetofoni da manovrare, era uno spettacolo
stimolante. Se tutte le scuole italiane somigliassero a quella
classe avremmo senza dubbio le scuole piú belle del
mondo. A quei ragazzi leggevo le mie storie o le mie
filastrocche, spiavo le loro reazioni, ascoltavo e leggevo piú
tardi i loro commenti. Da questo controllo sul vero ho
imparato piú che da molte ore a tavolino.
D. – Per esempio?
R. – Per esempio ho imparato che i ragazzi capiscono di
piú di quel che noi sospettiamo, che sono disponibili per
ogni audacia, che non soffrono di schematismi, ignorano i
regolamenti ufficiali dei generi letterari, che apprezzano
l’umorismo, che adorano i giochi di parole, che distinguono
ad occhio nudo le immagini vuote da quelle piene, le
fantasie ben nutrite di realtà da quelle puramente verbali e
automatiche, un dialogo vero da uno finto ecc., ecc. Non la
finirei piú se dovessi dire tutte le ragioni per cui è utile
incontrare e conoscere i lettori prima che il libro sia scritto.
Ad ascoltarli si impara presto, con una certa pratica si
capisce quando parlano per parlare (anche loro lo sanno
fare a meraviglia) e quando parlano perché hanno qualcosa
da dire, e quando sanno dire ciò che intendono, e quando
bisogna rovesciare le loro parole come calzette.
D. – D’accordo. E allora?
R. – Allora quando la maestra disse che io avrei
raccontato una storia, lí per lí mi venne in mente «la torta
in cielo». E cominciai a descriverla in modo misterioso.
Arrivando dal cielo non poteva essere che una torta
spaziale. Ma perché diventasse una storia invece che una
torta bisognava che si posasse a terra.
Fuori dalla scuola si vedeva allora una collinetta bruna,
pelata, sassosa. Quasi seccata che la speculazione edilizia
non avesse fatto piovere su di lei le sue benedizioni. Adesso
infatti la collinetta non c’è quasi piú, è coperta di case,
casoni e casacce. Non c’è piú posto per una torta di due o
tre chilometri di diametro come la mia. A quel tempo c’era.
Cosí feci scendere la torta sulla collinetta mentre la
popolazione fuggiva spaventata, temendo un’invasione
marziana. Avevo bisogno di personaggi nuovi e li avevo
davanti: i bambini e le bambine che mi ascoltavano, con i
loro nomi e i loro volti. Uno dopo l’altro, come facendo
l’appello, li feci entrare nella grande torta, ne misuravano il
raggio, anzi lo mangiavano, mangiavano il diametro, la
circonferenza. Qua e là nelle caverne della torta avevano
incontri piuttosto casuali ma lí per lí divertenti.
Incontravano l’ubriacone della borgata (lo conoscevano
benissimo): si era addormentato sulla collina e si era
svegliato nella torta e credeva di essere in paradiso. Ma i
ragazzi gli dicevano che era all’inferno. Incontravano un
pastore: a quel tempo sulla collina ci portavano davvero
alla stagione le loro pecore. Insomma raccontai una storia
piuttosto illogica, ma dato che era improvvisata
raccontandola mi rallegravo moltissimo perché capivo che
il tema della torta si prestava a molte variazioni. In
quell’occasione presi l’impegno di scrivere la storia e di
metterci dentro come protagonisti quegli scolaretti e la loro
maestra.
D. – La storia piaceva ai ragazzi?
R. – Piaceva sí. Ma non bisogna fare molto conto su
questo. La storia parlava di loro, nome e cognome. La torta
l’avevo messa proprio fuori dalla finestra. Il narratore non
leggeva ma parlava, gesticolava, faceva la scena davanti a
loro. Una situazione eccitante ma assai particolare. La
storia nasceva tra noi, per rubare una magnifica
espressione a Natalia Ginzburg, come un «lessico
famigliare». Nascono cosí molte storie tra madre e figli. La
madre le inventa mentre il piccolo aspetta il sonno. Sono un
colloquio affettuoso tra loro due, pieno di cose che essi soli
conoscono. C’è dentro, mettiamo, lo zio Anselmo che per il
bambino non è puro nome ma uno zio in carne e ossa:
quello che gli regala i cioccolatini, quello con cui ha
un’allegra amicizia. La mamma usa parole che fra loro due
hanno significati speciali, quasi ogni parola è un’allusione,
desta un’eco nell’esperienza del bambino. Mettiamo sulla
carta queste storie e facciamole leggere ad altri bambini:
sarà una delusione. Poi le mamme si lamentano: «Possibile?
Questa storia al mio bambino piaceva tanto!» Già, gli
piaceva tanto perché era la sua storia, la storia della sua
mamma, viveva in quella certa stanza, accanto a quel letto,
a quei giocattoli. Era un’esperienza privata. Per significare
qualcosa sulla pagina scritta, le esperienze private devono
subire molte complicate trasformazioni. C’è tutta una
chimica da considerare...
D. – Veniamo dunque alle trasformazioni della «torta in
cielo». Immagino ormai che ce ne sia stata piú di una.
R. – Piú di una e piú di due. Preso l’impegno di scrivere
la storia, tenute presenti le circostanze in cui era nata,
chiamai una stenografa...
D. – Come, come, una...?
R. – Una stenografa. Lo confesso senza vergogna, volevo
provare. Mi dicevo: andava tanto bene quando la
raccontavo; segno che per una volta bisogna che la storia
invece di scriverla io la racconti.
D. – Scusa, un magnetofono...
R. – Niente da fare. Col magnetofono non sono mai
riuscito a fare nulla, mi mette soggezione. Provai con la
stenografa. L’esperimento durò tre giorni: un fallimento. La
stenografa mi metteva piú soggezione del magnetofono. Si
divertiva, rideva, io mi sentivo in dovere di farla ridere, cosí
forzavo la mano, esageravo, e sbagliavo la misura. Quei
capitoli dovetti proprio buttarli via. Dopo aver detto alla
stenografa che dovevo partire, ricominciai da capo. Questa
volta feci un piano perfetto. C’era la storia della torta da
cima a fondo e i ragazzi della scuola erano diventati una
banda. Avevo pronto da anni per quella banda un bellissimo
nome: la «Saponia».
D. – Da anni? Cioè, per cosí dire, da prima della nascita
della torta?
R. – Da molto prima. Pochi anni dopo la Liberazione ero
stato a cena dal pittore Ernesto Treccani. I suoi figli allora
erano piccoli. Avevano un gioco tra loro due, un’invenzione
molto bella che si chiamava appunto la «Saponia». Era un
paese immaginario come qualche volta ne creano i bambini.
Ci si ritiravano a giocare appena potevano, avevano un
linguaggio «saponico», leggi «saponiche». Dicevano:
«Questo non è saponico, questo è abbastanza saponico».
Domandai mentalmente permesso ai figli del pittore
Treccani e trasportai la «Saponia» alla periferia di Roma.
Inventai regolamenti, costumi, perfino il linguaggio della
«Saponia». Al linguaggio era dedicato un intero capitolo. Vi
si spiegava come sostituendo vocale a vocale, consonante a
consonante si possa ottenere un alfabeto perfettamente
utilizzabile. Uno degli scolaretti traduceva in «saponico»
anche le poesie studiate a scuola. Ricordo per esempio che
La quercia caduta di Giovanni Pascoli in saponico suonava
cosí: «Cad’uni m’afvni an pú mi moungei plitcu | fansi, tú
leò gae sonvete sutvati». (Dov’era l’ombra or sé la quercia
spande | morta, né piú coi turbini tenzona). Posso sbagliare
la citazione saponica, ho perso quegli appunti...
Il grido della «Saponia» era «va a magnà er sapone», in
saponico naturalmente perché nessuno potesse capire.
Scrissi un sessanta o settanta cartelle, quasi metà
ricordavano la storia della «Saponia». Per esempio, moriva
un passero e i saponici lo portavano di nascosto a
seppellire tra le pietre del Colosseo.
Quando tornai a scuola a leggere quei primi capitoli, la
«Saponia» ebbe un grande successo. A metà lettura dovetti
piantarla e mettermi a spiegare i segreti del linguaggio
saponico, a tradurre frasi che mi venivano dettate, ecc...
Cominciarono a circolare bigliettini in saponico. Un
bambino trovò che si potevano inventare anche altri
alfabeti. Ciascuno volle il suo. Se ne andò tutto il tempo e la
torta era bell’e dimenticata. Se ne ricordò un bambino
mentre me ne andavo per domandarmi: «E la torta
atomica?»
D. – Scusa, perché atomica?
R. – Ah! Non lo so davvero. Se si è trattato di un lapsus,
debbo riconoscere che io non ne ho mai avuto di cosí
produttivi. Non so per quale motivo la mia torta fosse
diventata per quel bambino una «torta atomica». So che
quell’aggettivo mi obbligò a rivedere tutta la storia, mi
aiutò finalmente a capire il vero significato della torta. Nel
libro è tutto spiegato: la torta volante è nata per errore da
uno scienziato atomico. Una bomba atomica invece di
produrre il solito fungo produce una torta, con grande
disperazione dello scienziato e felicità dei bambini. La
morale del libro, se c’è, è del tutto involontaria. Immagino
che voglia dire che, se invece di sprecare i soldi per
costruire bombe atomiche si facessero tante torte al
cioccolato, ce ne sarebbero per tutti, e il mondo starebbe
meglio. Anzi io spero proprio che ogni piccolo ed
eventualmente grande lettore, dopo aver digerito e
dimenticato il libro, ogni volta che rivedrà sul teleschermo
o nella fotografia di un giornale, al cinema, un fungo
atomico, si mette a sospirare: «Disgraziati, ma perché non
fanno delle belle torte?» Ma posso garantire che questo
significato è entrato nella torta da solo. Io non ce l’ho
messo di mia volontà, non l’ho pianificato, ma soprattutto
non sono partito da una tesi per raccontare una favola.
Sono partito dall’immagine della torta e il resto è venuto da
solo, con l’aiuto dei bambini, e di quel bambino in
particolare.
D. – Sicché tu non c’entreresti per nulla?
R. – C’entro, c’entro. C’entra quello che sono, quello che
penso, c’entra la mia vita. Te l’ho già detto, nella realtà si
può entrare anche dalla finestra. Per un altro quella torta
avrebbero potuto portarla gli angeli per regalarla ai
bambini buoni. Sarebbe stata un’altra storia, avrebbe avuto
un’altra morale. Ma una storia cosí io non potevo scriverla.
Per un altro ancora la torta poteva essere un’astuzia
marziana, una torta di Troia per sbarcare sulla terra e
conquistarla con l’inganno. Anche quando fantastica,
ognuno fantastica con tutto se stesso. Noi siamo tutti interi
in ogni angolo della nostra mente e in ognuna delle nostre
parole. Il libro della torta può anche essere bruttissimo,
non è questo il punto, sarà scritto male, sarà slegato,
inutile, ma io debbo riconoscere che ci sono dentro tutto
quanto.
D. – Dopo quella lettura hai rifatto la storia?
R. – Per prima cosa dopo quella lettura separai
nettamente il tema della «Saponia» e quello della torta. Era
chiaro che non andavano d’accordo, che uno dei due
avrebbe schiacciato l’altro. Misi da parte la «Saponia» dalla
quale ricavai piú tardi un breve romanzetto che un giorno o
l’altro riscriverò se ne sarò capace. Presi a due mani la
torta e ricominciai da capo. «Il Corriere dei Piccoli» mi
aveva chiesto una storia a puntate, del tipo fiabesco, per i
lettori piú giovani. Era una buona occasione. Lavorare su
commissione dà un piacere particolare, è una molla che
funziona a meraviglia. Immagino che anche un falegname
se ha in mente un bel tavolo non è che si metta senz’altro a
tagliare il legno. Ma se un cliente vuole un tavolo, allora
l’ordine e l’idea si sposano e il tavolo è figlio di entrambi.
La storia non doveva essere lunga: benissimo, cosí la
tentazione di riprendere la «Saponia» e di perdermi nella
sua esplorazione era vinta in partenza. Inoltre era chiaro
che non dovevo piú scrivere la storia per i ragazzi di quella
scuola, ma per i lettori del «Corrierino dei piccoli»,
teoricamente per tutti i bambini. Niente «lessico
famigliare», niente allusioni private, personaggi da
riconoscere al nome, ecc. Fabbricare da capo il giocattolo
in maniera che funzionasse con chiunque. Cosí, dopo averci
girato intorno per due o tre anni, scrissi la storia in poco
tempo. La riscrissi poi un’ultima volta, senza troppi
cambiamenti per l’edizione in volume.
D. – Fine della storia?
R. – Direi di no. La storia di un progetto non è ancora la
storia della sua realizzazione.
D. – Su come, in pratica, hai lavorato durante la stesura
definitiva non hai detto nulla.
R. – In effetti è stata un’esperienza interessante. In quel
periodo seguivo certe riflessioni sul modo di costruire e
strutturare una storia. Per esempio facevo esperimenti.
Prendevo la storia di Cenerentola e la riducevo alla sua
formula: un personaggio X vive con Y e con Z e K con cui è
in urto. Y, Z, K ottengono un certo risultato che X non può
ottenere. Ma X con l’aiuto di A, non solo ottiene quel
risultato ma lo vanifica ecc., ecc. Poi sostituendo a X, Y, Z
ecc. personaggi diversi da Cenerentola e dalla matrigna,
ottenevo un’altra storia. Cosí feci – sempre per «Il Corriere
dei Piccoli» – la storia di Delfina al ballo. Delfina è la cugina
povera di una signora di Modena, proprietaria di una
tintoria. Mentre le parenti ricche debbono andare al ballo
dell’elezione del presidente del pianeta Marte, Delfina deve
rimanere a stirare l’abito da sera di una cliente. E via di
questo passo.
La traduzione in termini spaziali di Cenerentola è in
questo caso trasparentissima. Anche il bambino dovrebbe
riconoscerla e gustare la fiaba su un doppio piano: quello
della fiaba classica e quello della trasposizione. Si possono
inventare storie in cui la struttura d’origine rimane segreta.
In qualche modo però essa arricchisce nascostamente i
nuovi avvenimenti: i segreti di Pulcinella s’intende, cose
note a tutti. Non pretendo mica di avere inventato
l’ombrello, dico solo che in quel tempo mi piaceva fare
esperimenti del genere. Comporre su un tema obbligato è
una cosa che fanno anche i musicisti. I poeti una volta
prendevano lo schema del sonetto e obbedivano senza
discutere al suo stampo.
D. – Scusa, ma non siamo andati lontani da La torta in
cielo?
R. – No, anzi ci siamo proprio in mezzo. Io decisi infatti di
fissarmi dei passaggi obbligati e rispettarli scrivendo. Ogni
capitolo doveva alludere apertamente o nascostamente ad
una fiaba classica e ricalcarne la struttura o evocarne o
trasporne in chiave fantastica il personaggio principale o la
situazione di fondo.
D. – A che scopo tutto questo? La storia ce l’avevi già,
non avevi bisogno di ricalcarne altre.
R. – Proprio perché la storia ce l’avevo già mi pareva di
sentire che questo modo di lavorare l’avrebbe arricchita.
Incontrando situazioni, personaggi e movimenti della fiaba
classica, sia dichiarati che nascosti, il bambino avrebbe
avvertito dietro le parole un’eco, un suono piú denso,
avrebbe vissuto in una sola fiaba l’atmosfera di tante fiabe,
dietro i corridoi della torta ne avrebbe visti altri ben piú
misteriosi.
D. – Allora si tratta di una semplice ricerca di effetti?
R. – Non credo. Se devo parlare a scopo documentario
debbo dire che mi piaceva lavorare cosí e che credevo di
far bene. Non discuto il risultato, può essere pessimo, ma
non è all’ordine del giorno.
D. – Gli effetti di alcune fiabe sono ben riconoscibili. Per
esempio, Cenerentola.
R. – Certo. Quando Rita fugge dalla torta perde una
scarpina. Il comando militare, immaginando che i Marziani
sfruttino i bambini come informatori, ordina che il
proprietario o la proprietaria della scarpina venga
rintracciato. E il vigile Meletti è incaricato di provare la
scarpina a tutti i bambini della borgata per scoprire che
appartiene proprio a sua figlia.
Le variazioni sul tema di Cenerentola mi hanno molto
divertito. Spero che non annoino i lettori.
D. – Altri esempi?
R. – Il pifferaio di Hammelin. Questo è il caso di un
esempio nato completamente dall’obbligo di partire, per
quel capitolo, dal pifferaio di Hammelin. Il nuovo pifferaio,
il pifferaio moderno che raduna da tutta Roma i bambini
perché diano l’assalto alla torta è il telefono. Mentre infatti
per gli adulti l’oggetto misterioso è un nemico e si
preparano a distruggerlo, i bambini vogliono assaltare la
torta a tutti i costi, cioè mangiarla. Quelli che sono a parte
del segreto telefonano ai loro amici e questi ai loro e cosí
via. In pochi momenti il telefono porta dovunque la notizia.
Ne nasce la descrizione dei bambini che con tutti i mezzi si
precipitano verso la lontana borgata per mangiare la torta.
D. – E cosí via?
R. – Appunto, e cosí via. Con i loro panni o travestiti ci
sono di volta in volta, Ulisse, Pollicino, Gianni e Rita,
Pinocchio, Geppetto, e altri ancora.
D. – Questo è il tuo solito modo di lavorare?
R. – No. L’ho adottato per questo libro, oltre che per una
serie di «fantafiabe», ma non credo che l’adotterò per altri
libri. Mi sembra piú interessante di volta in volta trovare un
altro sistema per tenere sveglia la fantasia. Ci terrei a
precisare, comunque, che di questi sistemi mi servo molto
liberamente, mi invento delle regole, me le correggo ad
ogni passo con molte eccezioni.
D. – Parli sempre e soltanto di fantasia. Non hai paura
che essa ti porti tra le nuvole?
R. – Anche dalle nuvole si può guardare il mondo, è un
ottimo osservatorio. Dall’alto in fin dei conti si vede meglio
che dal basso.
D. – E di questa autointervista non ti vergogni almeno un
pochino?
R. – Nemmeno un po’.
D. – Dopo che è uscito in volume hai letto La torta in
cielo?
R. – Ancora no. Me ne vergognerei moltissimo. Lascerò
passare tre o quattro anni. Aspetterò che sia diventata
quasi la storia di un altro. Allora, se troverò che è un brutto
libro potrò ridere senza starci troppo male.
La prof. allergica e il padre aggressivo

Anche questo un documento dell’interesse di Rodari per la scuola. Abbiamo


visto in quali termini si rivolge ai genitori. Qui è la volta degli insegnanti
«allergici». Tra genitori e insegnanti non è sempre facile incontrarsi, schemi
comportamentali e preconcetti spesso impediscono il dialogo, si dimenticano gli
interessi comuni per i giovani. Soluzioni? «Nell’incontro, ognuno deve
rinunciare a qualcosa: non certo alle sue idee, ma a farle prevalere con la
forza». La prof. allergica e il padre aggressivo è pubblicato nel n. 1, 1975 del
«Giornale dei genitori».
«Io sono diventata allergica ai genitori», ci confida senza
mezzi termini l’amica professoressa. «Per il momento, e per
me, il solo risultato dei decreti delegati è questo: che
ormai, quando debbo incontrarmi con dei genitori, sono
presa da una specie di orticaria morale, irresistibile. Tu sai
che in linea di principio io non ero contro. Vedevo nei
consigli scolastici qualcosa di buono. Non prevedevo che
avrei dovuto assumere la parte dell’imputata, per venire
giudicata con animosità, con rozzezza, nel caso migliore
con una diffidenza viscerale. Alla prima sorpresa è seguita
una reazione di rigetto. La sola cosa che mi trattiene dal
dare le dimissioni e cambiar mestiere è la simpatia per i
ragazzi, che per fortuna sono riuscita a conservare. Per ora.
Ma non garantisco».
A questa «allergia» corrisponde sull’altro fronte, quasi
per una legge fisica, una reazione uguale e contraria. «Con
questi insegnanti – dichiara l’amico presidente di un
consiglio di circolo – non c’è niente da fare. Hanno piú
spine di un istrice. Ignoranti, presuntuosi, attaccati alle
loro abitudini, ai pregiudizi di casta, ai privilegi del sovrano
assoluto. Appena apri bocca ti beccano, dall’alto, dal basso,
della loro cosiddetta esperienza. Provinciali, retrogradi,
pettegoli, personalisti. Non ci si intende. La idea che la
scuola debba diventare qualcosa di radicalmente diverso da
ciò che è sempre stata non li penetra per nulla. Noi genitori
dovremmo star lí solo per farci spiegare da loro le cose.
Sempre col permesso del signor direttore».
Le due posizioni qui riportate esprimono un rigetto
reciproco, altrettanto globale. Allergia e contro-allergia.
Nessuna possibilità di comunicare. La scuola dei consigli
come scuola dei risentimenti dove ci si conosce solo per
disprezzarsi piú intensamente.
Si tratta, com’è ovvio, di posizioni estreme, che non
fotografano la realtà, bensí ne ingigantiscono e deformano
solo alcuni tratti, in cui lo scontro abolisce l’incontro. Però
fanno parte della realtà e la influenzano. Non vanno
sottovalutate. Fanno parte della realtà quotidiana, della
concretezza in cui s’incarna, luogo per luogo e giorno per
giorno, la realtà giuridica dei consigli scolastici. Una legge,
buona o cattiva o mediocre che sia, sono soltanto parole
scritte sulla carta: la realtà che le si costruisce intorno è
determinata dal modo come le persone si muovono,
agiscono, prendono coscienza di quello che fanno.
È come dire che il punto cruciale è proprio quello
dell’incontro di base tra genitori e insegnanti, forma
concreta dell’incontro tra società e scuola. Se questo
incontro fallisce, la struttura non vive.
Non disponiamo ancora di una fenomenologia, di una
descrizione completa dei modi come avviene l’incontro, né
di un numero di testimonianze ragionate sufficiente per
trarre delle conclusioni. Andiamo, forzatamente, per
impressioni. Cerchiamo di riflettere almeno su queste, in
attesa che il sociologo si accorga del nuovo campo di studi
che si apre alla sua attenzione.

Schemi e personaggi.

Il quadro dell’incontro è complicato da molte variabili.


C’è l’incontro di massa e l’incontro tra rappresentanti di
genitori e rappresentanti di insegnanti. C’è da considerare
la formazione, nei consigli, di maggioranze e minoranze
politico-pedagogiche miste: gruppi di insegnanti e genitori
contro altri gruppi di insegnanti e genitori. C’è da tener
conto della diversa natura dell’incontro nei diversi consigli,
di classe o d’istituto, d’interclasse o di circolo. La presenza
o meno degli studenti dà vita ad altri tipi di
raggruppamenti e di reazioni personali (tra padri e figli
l’incontro-scontro è permanente in casa, tra insegnanti e
studenti è quotidiano tra i banchi: la novità è rappresentata
dall’incontro tra genitori e insegnanti in presenza dei figli-
studenti). Un altro elemento determinante è la presenza
dell’autorità scolastica tradizionale (direttore, preside), una
presenza che modifica l’incontro tra insegnanti e genitori in
piú sensi: per esempio, è possibile lo schieramento
«preside progressista - insegnanti reazionari - genitori
progressisti», quello «preside reazionario - insegnanti
progressisti - genitori reazionari», quello «preside
burocrate - insegnanti divisi - genitori divisi», eccetera.
Questi però sono schemi. Sono magari anche
statisticamente accertabili. Ma l’esistenza del consiglio e,
piú da vicino, l’incontro tra insegnanti e genitori, dipende
da tante cose che sfuggono alla statistica: temperamenti,
caratteri, orientamento ideologico, modello culturale,
simpatie, antipatie, eccetera. Bisognerebbe dunque
scendere, o salire, dallo schema alla tipologia. Ai
personaggi, insomma.
Prendiamo il tipo del «genitore aggressivo», quello che
provoca l’«allergia» della professoressa. Ci accorgiamo
subito che il tipo ammette molti sottotipi. C’è il genitore
aggressivo, politicamente reazionario. E c’è quello
aggressivo, politicamente progressista. Ma si può essere,
anche se i termini sembrano contraddittori, progressista in
politica e reazionario in pedagogia. Piú difficile, ma non
impossibile, il caso contrario: reazionario in politica e
progressista in pedagogia.
Il contrario del genitore aggressivo è il genitore timido,
remissivo, o perché ha la stoffa del suddito a vita, o perché
ha un complesso di inferiorità.
C’è il genitore che si sostituisce all’insegnante (in questo
caso, insegnante timido) sale in cattedra e si mette a
spiegare, con esempi, che cos’è la poesia. Non ne
parleremmo se non ne avessimo conosciuto uno
personalmente.
Anche i genitori hanno conosciuto diversi tipi di
insegnanti, in tutte le sfumature tra il colto e l’impreparato,
il disponibile e l’allergico, l’aggressivo e il rivoluzionario,
l’educatore e l’impiegato d’ordine, il nonconformista e il
burocratico.
Bisognerebbe poi delineare una tipologia dei presidenti
di circolo o d’istituto (la funzione rende manifesti caratteri
e atteggiamenti diversi da quelli del «genitore semplice») e
un quadro dei rapporti tra presidente e direttore o preside:
collaborano, si odiano, si sopportano, si appoggiano, sono
complici, sono uno succube dell’altro, eccetera.
La realtà umana è varia, interessante, a volte irritante,
inquietante. E forse tutte queste premesse sembreranno
esagerate rispetto alla conclusione, che invece sembrerà
banale: e cioè, che incontrarsi è difficile. Ma è la realtà
umana che decide: non ci si può stancare di richiamarsi ad
essa.

Difficile ma necessario.

Quello che qui si vuol dire è poi molto semplice:


incontrarsi è difficile, ma è necessario. I consigli scolastici
sono un luogo di scontro tra diverse idee della scuola. Non
possono non esserlo. Debbono esserlo. Ma lo scontro sarà
utile solo se si svolgerà nelle forme di un incontro umano,
solo se prima di tutto, nell’interesse dei ragazzi, della
scuola, del paese, insegnanti e genitori impareranno ad
accettarsi, a capirsi, a rispettarsi. Non è fuori luogo, non è
velleitario, non è marginale l’appello alla comprensione
reciproca, alla tolleranza, al rispetto. Perfino, se si vuole,
alle buone maniere.
Ci sono regole non scritte, non codificate, che tutti
dobbiamo, insieme, fare nostre.
La prima è di sapersi ascoltare. Abbiamo sempre troppa
fretta di scavalcare le persone per arrivare allo schema che
le rappresenta. Chi è quello che parla? Un reazionario. Un
estremista. Un incolto. Un esibizionista. Un democristiano.
Un liberale. Un idealista. Eccetera. L’etichetta ci serve per
anticipare le sue conclusioni, per schematizzare il suo
discorso. E cosí ci vietiamo di capire se in ciò che sta
dicendo c’è, o non c’è in modo indiretto e distorto, qualcosa
che può essere vero e utile anche per noi.
Un’altra regola è quella di saper parlare. Parlare di cose,
di problemi, di oggetti, senza personalismi, senza
esibizionismi. Parlare per dire, non per ascoltarsi. Parlare
per comunicare, non per sfogarsi. Parlare per cercare, non
per auto-affermarsi, non per proclamare.
Piú difficile, ma ugualmente necessario, è nell’incontro o
nella discussione non cercare la vittoria, ma l’intesa, la
decisione possibile e opportuna. Discutere per avere
assolutamente, sempre e su ogni punto, completa ragione,
è puerile. Porta al cavillo (il gusto tutto italiano del cavillo...
siamo tutti avvocati).
Per l’insegnante, si tratta di accettare serenamente una
fatica in piú, che cambia il suo ruolo, ma non per
ridimensionarlo, bensí per nobilitarlo: l’insegnante che
diventa un animatore culturale e sociale è qualcosa di piú
del piccolo padrone di un registro su cui segnare voti.
Per il genitore, si tratta di capire che nell’incontro, se la
partita è di dare ed avere, l’insegnante deve dare piú di
quello che riceve, perché è lui che deve compiere le
rinunce meno agevoli: il genitore ha conquistato un diritto,
l’insegnante può vivere la nuova situazione come una
perdita di potere (naturalmente non è cosí per gli
insegnanti che non tengono al loro piccolo potere; ma sono
molti?)
Per gli uni e per gli altri si tratta di mettersi alla pari. E
di mettersi alla pari con gli studenti. Di superare i ruoli
tradizionali – genitore, insegnante, studente – per
assumerne uno nuovo, di protagonisti della riforma della
scuola.

A quali condizioni.

Arriviamo cosí al nocciolo della questione. Genitori,


insegnanti (e studenti: messi qui tra parentesi perché si
voleva parlare delle difficoltà di un incontro particolare)
s’incontreranno realmente se riusciranno a conquistare una
stessa idea della funzione dei consigli scolastici, una stessa
idea della scuola, un fine comune, un ruolo comune.
Nell’incontro, ognuno deve rinunciare a qualcosa: non
certo alle sue idee, ma a farle prevalere con la forza; non
sulla base di una cancellazione dei problemi che dividono,
ma su quella della sincera e disinteressata ricerca delle
soluzioni.
Qualcuno potrà dirci, e anche dimostrarci, che gli
atteggiamenti soggettivi sono secondari. E noi non gli
crederemo lo stesso. Ma questo non vuol dire che
trascureremo le condizioni oggettive in cui quegli
atteggiamenti si manifestano. E tra queste condizioni ne
metteremo alcune che ci riporteranno, necessariamente,
agli atteggiamenti soggettivi.
Per esempio, noi pensiamo che le riunioni debbano
essere il piú possibile brevi, agili, concrete. Noi italiani,
tutti quanti, parliamo troppo. Quando parliamo, costruiamo
il discorso all’antica, con un esordio, una trattazione, una
conclusione, la mozione degli affetti, la ricerca di
abbellimenti e fronzoli (aneddoti, ricordi personali,
citazioni, ecc.). Quello che diciamo in venti minuti, lo
possiamo dire anche in due, se ci teniamo all’essenziale. Le
riunioni lunghe generano stanchezza, la stanchezza
provoca intolleranza, è madre di confusione.
Un’altra condizione importante è che i consigli, a tutti i
livelli, coinvolgano il piú possibile l’assemblea, ponendo
all’ordine del giorno punti precisi, preferibilmente aperti.
La partecipazione piú larga spersonalizza le questioni, fa
cadere i particolari marginali, costringe all’oggettività.
La terza condizione è la piú importante, ed è che i
consigli non si taglino fuori dalla realtà sociale, che
rifiutino la chiusura, la delega riservata, la rappresentanza
gelosa, per diventare luoghi d’incontro tra la scuola e le
forze sociali, per fare dell’incontro tra genitori e insegnanti
il nucleo su cui costruire una vera gestione sociale della
scuola. Bisogna superare certe frontiere per sentirsi piú
liberi, piú sciolti dal caso personale, dalla vicenda chiusa,
per avere una visione meno deformata dell’importanza e
del rilievo delle questioni. Il corporativismo – quello dei
genitori come quello degli insegnanti – si batte dando una
dimensione sociale alla propria azione.
Questa dimensione del resto è inevitabile. Ci sono
problemi che i singoli consigli possono affrontare solo
portandoli fuori, trasformandoli in vertenze di quartiere, di
città, in vertenze generali. Questa dimensione educherà
tutti coloro che partecipano alla vita della scuola a
superare le visioni ristrette, spazzerà via tanti pseudo-
problemi. Ma è un punto di arrivo, non un punto di
partenza. Il punto di partenza può essere l’incontro tra
l’insegnante «allergico» e il genitore «aggressivo». La vita
quotidiana può essere cacciata dalla porta, ma rientrerà
dalla finestra. L’attenzione alla vita quotidiana, ai rapporti
quotidiani tra gli uomini, deve essere paziente e continua,
se vogliamo che la scuola dei consigli diventi per tutti una
grande occasione di crescita civile.
Appendice
Elenco degli articoli di Rodari dal dicembre 1958 al
dicembre 1967

La collaborazione di Gianni Rodari al quotidiano romano «Paese Sera» inizia


nel dicembre 1958 e si conclude, con la prematura scomparsa dello scrittore,
nell’aprile 1980 (l’ultimo articolo, dal significativo titolo Utilità educativa della
malattia, appare il 2 aprile). Nell’archivio redazionale di «Paese Sera» non
esiste traccia degli articoli di Rodari fino al dicembre 1967.
Una lunga e paziente ricerca mi ha consentito di ricostruire per il periodo
dicembre 1958 - dicembre 1967 l’elenco dei pezzi giornalistici che qui, in
appendice a questo volume, mi pare giusto rendere pubblico. Ho escluso, per
ragioni di spazio, le numerosissime recensioni apparse soprattutto nel
supplemento libri di «Paese Sera» e i quotidiani corsivi di prima pagina firmati
Benelux.
Di Benelux ho ritenuto opportuno inserire nell’elenco gli articoli di carattere
sportivo del luglio 1966.
Sul valore degli scritti giornalistici di Rodari ci sarà ancora molto da dire.
Che non possano essere liquidati, ritengo sia a sufficienza dimostrato dalla
scelta che qui si propone.
Chi vorrà e saprà leggere gli articoli di questo elenco e gli altri apparsi, a
partire dal 1947, sulle varie edizioni dell’«Unità», su riviste pedagogiche
(«Riforma della scuola», «Scuola e Città», ecc.), sul «Giornale dei genitori», su
settimanali e periodici vari, potrà rendersi conto che essi forniscono coordinate
e orientamenti per una valutazione piú completa e complessa di Rodari e della
sua opera.
Vengono segnati con asterisco i «pezzi» pubblicati in questo volume.

1958

12 dicembre: Pietà per i borsaioli [Racconto]


– Il dramma di Ghiani sempre piú allucinante
26 dicembre: Anche i maghi sbagliano [Le previsioni che non si sono avverate
nel 1958].
27 dicembre: Fine d’anno nel mondo: Roma

1959

2 gennaio: Il nonno e il video [Trasformazione del ruolo del «nonno» con


l’avvento della tv: da «guida» dei nipoti a telespettatore immobile e
condannato al silenzio].
3 gennaio: Consigli alla Befana [Filastrocche]
29 gennaio: Chi ha rubato il Cupolone?*
16 febbraio: Il maestro a Sanremo [Sui testi delle canzoni del festival di
Sanremo]
28 febbraio: Duecentomila ritmi al giorno dai «juke-box» della Capitale [Prima
puntata di un’inchiesta sulla diffusione della «macchina che canta»:
«l’organetto di Barberia si adegua all’epoca delle macchine e piglia il nome
di elettrogrammofono»].
6 marzo: La colazione dell’impiegato: un «cappuccino» e un disco [Seconda
puntata sui juke-box]
10 marzo: Diverte la periferia il «bullo» Buscaglione [Terza e ultima puntata
dell’inchiesta: «poche persone sono antipatiche quanto i moralisti, sempre
pronti ad appiccicare etichette, a vedere corruzione dappertutto... I juke-box
sono fragorosi, possono turbare i timpani... ma il nostro senso morale,
davvero, non lo possono turbare»].
2 aprile: Un mondo in miniatura nei fumetti di «Paese Sera» [A proposito di
Gordon Flash e contro chi «torce il naso, gli intolleranti (che) prendono sul
serio ciò che non ha pretese di serietà». «La fantascienza, Gordon compreso,
è un gioco: come le parole incrociate o il tressette. Come gioco, ha diritto di
cittadinanza anche nei giornali piú seri»].
4 aprile: L’ultimo coccodrillo [Racconto].
10 aprile: Pella non aveva risposto alla moglie del sen. Terracini [In risposta –
differita, dopo un anno, durante un discorso di fronte all’Associazione italo-
americana di New York – ad una lettera del 30 genn. 1958 della sig.ra
Terracini in cui la donna affermava: «Le assicuro che piuttosto della bomba
atomica preferisco per i miei figli perfino un governo retto da un ministro
come Lei!», Pella, ministro degli esteri, dichiara di preferire per sua figlia «il
rischio della bomba atomica a quello del comunismo»].
11 maggio: Il bambino del nostro tempo.
29 maggio: Polio Anno 1959.
4 giugno: Nei casi della cronaca nera non cerchiamo solo il brivido [La gente
non si accontenta piú del particolare sensazionale, della narrazione
concitata: vuol conoscere l’intimo processo dei fatti, scavarli a fondo. «La
democrazia sta diventando costume per milioni di individui...»]
21 agosto: Per vivere bene a Roma ci vogliono le ferie estive.
5 settembre:La pietà [Sul fenomeno dei «teddy boys»].
9 settembre: Compie un anno il delitto di via Monaci [A proposito del delitto
Martirano].
12 ottobre: Gioventú e teppismo [Sul convegno «teppismo e realtà giovanile
nella società d’oggi» di iniziativa socialista].
20 ottobre*: Premi letterari
11 novembre: Do re mi fa sol-letico [Sulle variazioni delle favole: «non mi
dispiace che la (mia) bambina cominci presto a non rispettare le verità
rivelate. Il dogma secondo cui Cappuccetto Rosso, attraversando un bosco, si
imbatte in un lupo, è un dogma divertente se possiamo rivoltarlo come ci
pare»]
14 novembre: Il «Campanile Sera» gioca ma la telecamera lavora [Conclusione:
«... noi, a dispetto di ogni prudenza, abbiamo fiducia nella telecamera, nella
sua onestà di macchina, spesso piú seria – è noto – di chi l’adopera»].
26 novembre: Un «eroe» ciociaro a Canzonissima [Sull’attore Nino Manfredi]
24 dicembre: Il pianeta degli alberi di Natale [Inserto di quattro pagine con
illustrazioni di Ugo Attardi].

1960

2 gennaio: Inventario dei cocci [Filastrocche sui cocci di San Silvestro].


18 gennaio*: Il giudice a dondolo.
1° febbraio*: Teledramma.
11 febbraio: La crisi del potere regionale siciliano [Massiccio intervento dei
monopoli e della mafia].
12 febbraio: L’Eni ha sottratto 3 miliardi a favore delle industrie siciliane
[Manovre finanziarie da parte della Dc e delle destre per escludere il Pci dal
governo dell’isola].
13 febbraio: Nessun accordo tra i capi gruppo sulle dimissioni del governo
Milazzo.
15 febbraio: Gravissimi addebiti all’assessore Corrao [L’esponente dell’Unione
Cristiano Sociale coinvolto in un tentativo di corruzione per ottenere il
passaggio di tre deputati democristiani al suo movimento].
15 febbraio: Il pedone e la zebra [Racconto. Un impiegato frustrato si ferma
sulle strisce pedonali e provoca dall’una e dall’altra parte della strada
ingorghi al traffico automobilistico. Prova cosí «l’intensa soddisfazione
dell’uomo che finalmente vede riconosciuti i suoi meriti e i suoi diritti, si
sente rispettato (ah, lo avessero potuto vedere colleghi, superiori, figli,
parenti che gli mancavano di rispetto dieci volte in un’ora...), ed ha, per cosí
dire, la città ai suoi piedi». Muore, alla fine, per infarto cardiaco, sulle strisce
pedonali «nel supremo tentativo di giungere con la testa ai tetti delle case,
per dominare la città intera...»].
16 febbraio: Il governo Milazzo si è dimesso.
17 febbraio: Il retroscena della crisi in Sicilia.
18 febbraio: Le labili «prove» dell’on. Santalco.
19 febbraio: L’on. D’Angelo faceva intercettare le telefonate dei suoi oppositori!
22 febbraio: Forse stasera la nuova giunta [Le elezioni all’assemblea siciliana].
23 febbraio: Stasera la nomina dei dodici assessori.
4 marzo: Mattinata a Palermo [Osservazioni sulla Sicilia: la gentilezza e
cordialità dei siciliani poveri e la volgarità di «baroni» e «don»].
22 aprile: Miracolo a Napoli [Un ammalato grave, per aiutare la propria
famiglia a uscire dalle disgrazie, inventa il miracolo di un volto di Cristo che
sanguina: «la gente che viene a sapere del trucco non si offende, non
protesta [...] C’è una solidarietà nel dolore che passa sopra alle ragioni
dell’ortodossia come a quelle del codice»].
26 aprile: Come parlare ai bambini delle «cose che non si dicono» [«La
maggioranza degli adulti non dispone in realtà nemmeno del vocabolario
necessario per parlare delle cose del sesso o per descrivere il fenomeno della
riproduzione: dispone solo del vocabolario [...] osceno, che gli è servito per
imparare di nascosto, come cose peccaminose, i fatti fondamentali della vita
fisica»].
31 maggio: Boris Pasternak [In occasione della morte dello scrittore sovietico]
14 giugno: Rouge et noir di Pino Zac con diavoli e processioni [«La lezione
della sua satira è soprattutto un invito alla tolleranza». «Egli crede nella
virtú educativa del riso: un riso civile, cosí spontaneo che bisogna fare uno
sforzo per rendersi conto che, a ridere a quel modo, ci vuole anche un
coraggio poco comune»].
9 luglio: Pellegrinaggio semiserio fra chiodi bulloni e stracci [Servizio «sotto
gamba» dei due «inesperti speciali» G. Rodari e P. Zac sulla 30 a Biennale di
Venezia].
13 agosto: Il pittore e gli scarafaggi [Scherzosi consigli ad un giovane amico
per raggiungere fama e successo nel campo della pittura].
25 agosto: Olimpiadi in poltrona [Le successive puntate di «Olimpiadi in
poltrona» sono pubblicate nelle seguenti date: 26, 27, 29, 30, 31 agosto; 1, 2,
3, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 12 settembre].
2 settembre: Era un attore e uno come noi [Sulla morte di Mario Riva].
15 settembre: Il discorso inaugurale.*
14 novembre: La Tv non uccide il comizio popolare
7 dicembre: Il calendario dell’anno nuovo su un canovaccio da cucina [Rose e
papaveri blu, misteriosi come oroscopi].
10 dicembre: L’uomo nero nella scuola [I rischi che si corrono quando si
sgridano i bambini. Il direttore scolastico che strilla: «Basta con queste
marcette!»].
15 dicembre: I nostri vicini: questi sconosciuti [A Roma persone che abitano da
dieci anni in uno stabile non conoscono neppure il nome della famiglia che
alloggia sullo stesso pianerottolo. Una città popolata da innumerevoli piccoli
Robinson che vivono nelle loro isolette ignorandosi a vicenda].
31 dicembre: Testamento del ’60 [Filastrocche].

1961

18 gennaio: Il pilota di Hiroshima.


21 gennaio: La scuola non può restare una macchina per pagelle
28 gennaio: Il verbo per giocare [Sull’«imperfetto fabulativo». «Quando i
bambini assumono una personalità immaginaria, quando entrano nella
favola, proprio lí sulla soglia, dove avvengono gli ultimi preparativi prima del
gioco, segnano il passaggio con un improvviso, magnifico imperfetto»]
6 febbraio: Favole minime.*
7 febbraio: Tutti vincitori a Sanremo [Con illustrazioni di Pino Zac].
18 febbraio: Busta gialla e foglio verde [Sul processo Ghiani. Prima puntata. Le
successive puntate sul processo Ghiani sono pubblicate nelle date seguenti:
20, 21, 22, 23, 24, 25, 27, 28 febbraio; 1, 2, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 16, 17, 21, 22,
23, 24, 27, 29, 30 marzo; 5, 6, 7, 8, 26, 28 aprile; 3, 4, 8, 9, 17, 24, 30
maggio; 5 e 12 giugno].
14 marzo: Favole minime.*
12 agosto: Zelanti e inesorabili i tedeschi ai musei vaticani [Turisti a Roma in
occasione del Ferragosto].
14 agosto: Per tutta Roma chiusura estiva? [Aprire banche e ministeri alle due
di notte. Coprifuoco dalle 8 del mattino alle 8 di sera. Scafandri con aria
condizionata. Ed altre idee «maturate (troppo) al sole di agosto»].
18 agosto: Viaggio di nozze tra lo zoo e il Colosseo.
21 agosto: Cosa pensano di noi i turisti stranieri.
30 agosto: Alle porte di Roma cominciano i deserti. [Il respiro economico di
Roma si ferma poco fuori dalle antiche mura: al di là nessuna traccia del
«miracolo economico»].
30 settembre: Scuole in chiesa.
17 ottobre: Libri scolastici scritti oggi per ragazzi di 50 anni fa.
9 novembre: Una prima elementare con tipografia, farfalle, registratori (e altre
cose) [Sul 10° Convegno del Movimento di Cooperazione Educativa. Le
tecniche Freinet. La classe di Mario Lodi].
10 novembre: Si pigia l’uva nella 3 a maschile dell’elementare di Certaldo.
11 novembre: Anche lo «scoubidou» serve per appassionare i ragazzi alla
scuola.
16 novembre: Imparano a vivere dipingendo e giocando con i burattini [Alla
borgata del Trullo di Roma nella classe di Maria Luisa Bigiaretti].
1 dicembre: Il miglior giocattolo è un vecchio solaio [Il diritto del bambino al
gioco].
9 dicembre: ’Sti benedetti ragazzini dove li mandiamo a giocare? [Le gravi
deficienze della scuola e dei Comuni. I bambini crescono tra le mura, come
prigionieri, nell’Italia del «miracolo»].
12 dicembre: La palla batte i treni elettrici [Risultati di un’inchiesta sui
giocattoli preferiti].
14 dicembre: Un maestro e i suoi scolari scrivono un libro insieme [Come è
nato Cipí di Mario Lodi].
30 dicembre: La posta di Capodanno [Filastrocche].

1962

23 gennaio: Favole minime.*


26 gennaio: Il vostro avvenire nella schiuma del caffè [La scienza dei presagi,
dall’ippomanzia agli strofinacci. «I bambini praticano questo gioco (delle
previsioni) molto prima di venire a sapere che i segni dello Zodiaco sono
dodici. Essi amano i segnali, i messaggi segreti del destino, le scommesse sul
futuro [...] In questo gioco si nota l’influenza delle favole: non c’è grande
favola senza drammatiche previsioni [...] Ma c’è anche l’oscuro, istintivo
bisogno di trovare nelle cose un ritmo, delle corrispondenze, il ritorno di una
cadenza che appaghi l’occhio o lo spirito, come il ritorno della tonica, nella
musica classica, appaga ed acqueta l’orecchio dell’ascoltatore»].
29 gennaio: Nella piccola pubblicità cambiano stile e tono [Molto apprezzate le
parole straniere perché si pensa facciano piú colpo].
9 febbraio: Manuale per inventare favole (1).
19 febbraio: A che può servire un anti-ombrello? (2)*
19 aprile: Il finto turista è pagato per «far calare» [Dialogo con un
«pappagallo» prezzolato].
7 giugno: Quando gli scienziati giocano come i bambini [«Questa idea di
sparare una bomba atomica per aria, «per vedere cosa succede», ci sembra
strettamente imparentata con l’esperimento del bambino che tira un sasso
contro un vetro [...] Anche i surrealisti fanno giochi del genere: ma li fanno
con le parole, per vedere che immagine salta fuori, per provocare la fantasia
[...] Quando ci sono di mezzo le nostre vite, siamo in diritto o no, di suggerire
agli scienziati di giocare in un altro cortile?»].
19 settembre: Le ferie dell’automobilista: una collezione di autostelli [«...C’è il
fascino della parola. Autostello è lo stesso che motel [...] Chi vincerà, alla
fine? È difficile dirlo. La parola motel ha una pregevole eco americana, e per
affascinarci si vale di mille citazioni nei libri gialli [...] La parola autostello,
sulle prime, rivela una parentela piuttosto urtante con la denominazione
degli ostelli della gioventú. Solo alla vista, però. All’udito, è tutta un’altra
cosa. Nella denominazione dell’autostello la parola “ostello” [...] è nascosta,
mimetizzata al punto che molti non la riconoscono: diventa piuttosto un vago
“stello”, un improbabile maschile di “stella”. La nostra bambina, per tutto il
viaggio, continuò tranquillamente a parlare di “autostella”, al femminile. Da
una tappa all’altra, la sua “autostella” la guidava, come la stella che guidava
i Magi al presepio di Betlemme»]
22 settembre: Un posto a Milano [Dialogo immaginario sulla ricerca di un posto
di lavoro].
25 settembre: Non sanno leggere 700 milioni di uomini [Convegno mondiale
«Alfabeto e società»].
27 settembre: Hanno portato l’alfabeto casa per casa, uomo per uomo [Incontro
a Roma con gli «alfabetizadores» cubani. «Il ragazzo che impara a leggere e
scrivere per puro obbligo potrà anche disimparare; il passo in avanti del
contadino che impara da adulto è invece irreversibile, se esso non ha
significato soltanto la conquista di una tecnica, ma il risveglio a una nuova
concezione della vita, la presa di coscienza di una sua posizione nel mondo»].
29 settembre: In che lingua l’Africa imparerà a scrivere?
8 ottobre: Il cane di Magonza.*
9 ottobre Non ci servono «asili» ma vere e proprie scuole [Convegno del Pci
propone l’istituzione della «scuola materna statale, universale e gratuita»].
12 novembre: Come viene insegnato l’italiano nelle scuole [Convegno del Mce
su «La didattica della lingua nella scuola dell’obbligo». «Il “tema” è il relitto
dell’educazione retorica»].
14 novembre: Anche la grammatica si impara dalla vita [«Quando si parte dalla
vita per arrivare alla grammatica, la conquista della lingua è cosa viva, non
esercizio noioso»].
21 novembre: Un maestro francese lotta «per la liberazione dei bambini» [C.
Freinet partecipa al Convegno del Mce sulla didattica della lingua. La
«scuola attiva» in Italia è generalmente praticata su ima linea balorda: «se la
“scuola attiva” deve essere un soave licor spalmato sull’orlo di un vaso dove
c’è dentro la zozza di sempre, allora i suoi critici hanno non una ma
centomila ragioni». «Nella scuola si valuta e si riconosce quasi
esclusivamente l’intelligenza di tipo verbale (e non anche “l’intelligenza della
mano, della condotta pratica”, disposta “piú verso il concreto che verso
l’astratto, piú verso le cose che verso le parole”). Ma questo è – come si
diceva al proposito del “tema” – un residuo dell’educazione retorica»]
5 dicembre: Compie ottant’anni la maestra che non ha mai dato compiti [Argia
Pucci, una bella figura della scuola].
22 dicembre: «I bambini poveri si alzino in piedi» [Una maestra che vorrebbe
fare una lezione «attiva» sulla carità e che, di fatto, con quella frase
costringe il «bambino povero» ad autodiscriminarsi. «... la carità spesso non
è affatto democratica: democratica è sempre la solidarietà, che è tutt’altra
cosa. La solidarietà non divide chi dà da chi riceve, perciò non umilia chi
riceve e non può dare»]

1963

1 gennaio: Bambini in libertà da Israele a Tivoli [Sui giornalini e i disegni dei


bambini].
5 gennaio: Quanto vivrà ancora la vecchia Befana? [Passeggiata a Piazza
Navona tra le bancarelle del mercato natalizio].
15 gennaio: «Diamogli l’arsenico...» [Prende a pretesto una poesia di Giusti (Il
Papato di Prete Pero) per ironizzare sulla stampa di destra che vede in
Giovanni XXIII un rivoluzionario].
2 aprile: Anche la chiocciola è andata a lezione [Visita nella classe di Albino
Bernardini].
31 maggio: Infanzia e psichiatria in un congresso a Roma.
1 giugno: Illustri psichiatri discutono sui bambini.
14 giugno: Bambini e serpenti di fuoco nello studio di Consagra [Visita allo
scultore che si ispira a Pinocchio].
17 giugno: Una ragazza in cielo [Il volo di Valentina Tereshkova].
25 agosto: La parte del fegato e la parte dell’occhio [A Chianciano].
1 ottobre: Genitori, seguite questi consigli [Sull’apertura dell’anno scolastico]
3 ottobre: A scuola c’è perfino la prima zeta [Sulla riforma della scuola media e
la scolarità di massa. «Litigheremo, ci scambieremo accuse, ci arrabbieremo
per il disordine, faremo questo e quest’altro: ma tutto accadrà intorno a un
fatto preciso, intorno a milioni di ragazzi che vanno a scuola. Bisogna essere
pronti a discutere per anni col professor G. (quello che dice: “Attenzione, è
tutta la baracca che scricchiola, che andrà a catafascio”) e con gli altri che
ragionano come lui, professori o genitori che siano»].
9 ottobre: L’ora di religione [«... la scuola riconosce il diritto alla esenzione
dall’insegnamento religioso, ma piú in là non va: non riconosce, cioè, al
bambino esentato, il diritto di essere considerato pienamente uguale agli
altri»].
15 ottobre: «Non voglio sentire bambini» [Sulla cultura e il comportamento di
un direttore didattico]
20 novembre: Il certificato di religiosità per insegnare nelle scuole [Quando
nell’800 il cardinal Vicario nominava i maestri a Roma]
11 dicembre: Scolari (e vescovi) in «riservata» [«Certe volte mi pare che noi
padri dovremmo formare una pattuglia a cavallo, per scortare la “riservata”
dei nostri figli sulla strada della scuola, come si scortavano le diligenze
cariche d’oro. Lo so bene che non è possibile, che non sarebbe nemmeno
educativo. Però sarebbe bellissimo»].

1964

4 marzo: Viaggio fra i bambini sovietici [Inchiesta sull’infanzia, sulle sue


condizioni di vita, sulle istituzioni scolastiche ed extrascolastiche, sui
rapporti tra ragazzi e insegnanti, tra figli e genitori e su altri temi analoghi].
6 marzo: Lezione di lettura a Sebastopoli.
11 marzo: I «comitati dei genitori» e la loro funzione nella scuola.
13 marzo: Pionieri, colcosiani e operai.
17 marzo: «Che ci sia per sempre il sole...».
20 marzo: Telescopi, meteore e pupazzi [L’educazione scientifica in Urss].
25 marzo: Nell’immenso parco di Artek la piú efficiente città dell’infanzia.
28 marzo: Il paese dove è stata fondata una vera «civiltà dell’infanzia» [Ultima
puntata del viaggio in Urss]
18 aprile: Il ventennale della Resistenza nelle scuole.
25 aprile: La capra del signor Seguin [I bambini di Mario Lodi riscrivono,
rovesciandone la conclusione, la favola di Daudet. «Respinta la morale
dell’obbedienza e della paura, gli scolaretti di Vho di Piadena hanno fatto
trionfare quella della libertà»]
6 maggio: Nel 1974 un milione di nuovi alfabeti? [Recensione al libro di F.
Froio, Una scuola da rinnovare].
13 maggio: I gatti della signorina Margherita [Le attività didattiche del Centro
italo-svizzero di Rimini].
20 maggio: Le ore dieci della piccola Alberta [Il fare scuola in una elementare
del Trullo].
23 maggio: Materia d’esame [Riflessioni di uno scrittore diventato suo
malgrado «materia d’esame» e oggetto di studio per molti studenti: «La
prima sensazione è dolcissima: di beatitudine, di lontananza. Senza che tu lo
voglia i gesti ti si riempiono di una certa solennità. [...] Pensi di te stesso al
passato remoto: nacque... fece... disse... operò... Anche il morí ti viene
incontro senza quell’alone di paura che circonda invece il verbo al futuro:
morirò, morirai. È già successo, capisci? Non c’è da piangere sul latte
versato. C’è da gustare questo stato nuovo e perfetto. Cammini con maggiore
dignità, quindi con prudenza tutta differente. Ti figuri Goethe al volante di
un’utilitaria? Ecco, tu sei quello. Gli insulti e le intemperanze degli
scavezzacolli stradali non ti toccano»].
17 agosto: Gordon ritorna [Sul fumetto].
1 dicembre: Imparavano a scrivere disegnando scarabei i ragazzi della Maltoni
[Ricordo della maestra Maria Maltoni].

1965

20 gennaio: Quando la ricerca è utile ed educativa [Sul Convegno del Mce sulla
formazione scientifica nella scuola dell’obbligo].
27 gennaio: Si può insegnare tutto a tutti [«Ciò che educa l’intelligenza, educa
la personalità. È probabile che quei bambini (“che arrivano, per
manipolazione, a concepire matematiche fondate su basi diverse da quella
decimale”) arrivino prima di altri a comprendere che vi sono non soltanto
matematiche, ma uomini “fondati” su basi diverse: ideali, religiose,
politiche...»].
16 febbraio: Galileo ha inventato l’«orologio a dondolo» [Sui giornalini
scolastici].
26 maggio: Anche Roma conquistata da Evtuscenko [Il poeta sovietico ai
«Martedí letterari»].
8 settembre: Italiani in Jugoslavia [I problemi di una minoranza].
21 ottobre: Dante Alighieri era un parafulmine? [Una mostra di lavori infantili
sul tema «Dante visto dai bambini»].
17 novembre: Anche in Italia arriva Tintin [Sul fumetto].
4 dicembre: La macchina magica di 007 in un libro per ragazzi [«... non è
difficile rendersi conto che l’automobile dell’agente 007 [...] è una parente
stretta degli esseri magici che popolano le fiabe classiche, l’incarnazione
moderna dei “doni fatati” che nelle fiabe gli eroi ricevono per portare a
termine vittoriosamente le loro imprese e sposare, a lieto fine, la figlia del
re»]

1966

14 maggio: I bambini sovietici dipingono in libertà come i loro coetanei d’ogni


parte del mondo [Su due mostre di piccoli artisti].
15 luglio: Benelux al video [Commenti ai Campionati mondiali di calcio visti al
teleschermo. Per vedere la partita Italia-Cile «ho scelto un’osteria coi
prosciutti appesi [...], un televisore rurale dal sistema nervoso refrattario alle
emozioni come quello di una mucca [...] I televisori di città sono nevrastenici
e psicopatici. Hanno l’infarto facile, il coccolone in tasca [...] Ho scelto il
televisore del “Sorcetto”. Tra me e il televisore, per scaramanzia, ho
collocato un mezzo litro rosso, una bistecca cotta sulla brace, un piatto
d’insalata mista, due belle fette di pane casareccio. Venite avanti, cileni del
diavolo: mi sento fortissimo in difesa». Dopo il 2 a 0: «Fuori, nel buio,
applaudono milioni di grilli: una civetta, sconfitta, si allontana piangendo
verso la macchia». Le altre puntate di «Benelux al video» sono pubblicate
nelle seguenti date: 18, 21, 22, 25, 30, 31 luglio].
20 ottobre: La scuola è la monarchia degli uffici [Fa riferimento a «un recente
numero» della rivista «Riforma della scuola» e, in particolare, a un articolo di
Lucio Lombardo Radice. «L’autogoverno (di insegnanti, studenti e famiglie)
auspicato da Gaetano Salvemini è andato a farsi, diciamo, benedire. I suoi
modesti germi (Consiglio Superiore e Ispettorato) appaiono praticamente
integrati nell’apparato burocratico [...] La conclusione di Lucio Lombardo
Radice è che sia giunto il momento di promuovere nella scuola e intorno alla
scuola una “rivoluzione democratica per abbattere la monarchia degli uffici e
instaurare la repubblica dei consigli” [...] Sollevare la questione del “potere
nella scuola” significa, prima di tutto, chiamare insegnanti, studenti, famiglie
a fare, di tre debolezze, una sola forza che [...] imponga, ad ogni passo, le
soluzioni della democrazia. Sarebbe già molto, insomma se [...] si riuscisse
ad avere, dal basso, un’azione comune»].

1967

3 gennaio: L’uomo dell’anno [Articolo di fondo sui giovani. «Il fatto nuovo è
l’elaborazione da parte dei giovani – in Italia forse meno che altrove – di una
loro filosofia, perfino di una loro piattaforma politica, che in Inghilterra e in
Olanda sarà magari di vaga opposizione all’establishment, all’ordine
costituito e invecchiato nei suoi schemi; in America è diventata [...]
opposizione alla politica estera del Presidente, e soprattutto alla guerra nel
Viet Nam [...] Sbagleranno, ma è giunto il momento – per i partiti, per
esempio – di dedicare ai giovani un’attenzione di tipo nuovo, meno
cattedratica, meno paternalistica»].
18 marzo: Carriere per domani [Articolo di fondo sui dati di un’indagine Istat
sui giovani laureati].
6 giugno: Bambini e architetti vogliono le stesse cose [Sulla «Giornata
dell’architettura e dell’urbanistica»].
7 giugno: Saranno i bambini i nostri liberatori?[Approvata una «Carta dei diritti
del fanciullo al gioco e al lavoro»].
5 agosto: Zero in condotta [Articolo di fondo sull’«autoritarismo nella scuola»].
9 agosto: Le macchine per insegnare [«Le macchine renderanno l’insegnante,
se possibile, piú prezioso di prima, proprio perché si accolleranno quella che,
fino a un certo punto, possiamo chiamare la parte bruta dell’istruzione. Esse
saranno, diciamo, il calamaio, la lavagna, e magari la pagella di domani: ma
non il maestro»].
15 agosto: Il robot amante tradirà la padrona [Prima puntata di un’inchiesta su
«Fantasesso-Fantavideo-Fantapolitica»].
19 agosto: Nulla di consolante nel «futuro televisivo» [«...la rivolta
dell’intelligenza nei confronti della televisione ha qualche punto in contatto
con le primitive rivolte operaie contro l’introduzione delle macchine»].
22 agosto: Se lo spettatore si eccita disponibile la mascherina [Ultima puntata
dell’inchiesta].
16 settembre: La scelta del colonnello [Intervista immaginaria al colonnello
greco Parapopulos sul Patto Atlantico].
1 ottobre: Ritorno a scuola [«... solo il 65 per cento dei pre-adolescenti
frequenta la scuola media. (Occorre) recuperare quel trentacinque per cento
di ragazzi che si perde per strada nel periodo della scuola obbligatoria [...]
Sono troppi per poter dire che la scuola obbligatoria fino a quattordici anni è
stata realizzata, almeno nel suo aspetto quantitativo». «Una violenta
denuncia del carattere classista della nostra scuola [...] è contenuta nella
Lettera aperta ad una professoressa [...] Il libro [...] è un po’ il testamento
(ma non diremo spirituale, meglio dire “di lotta”) del prete toscano [...] Un
libro urtante [...] Senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni [...]
Non tiene conto del pur grande lavoro di liberazione compiuto, negli ultimi
decenni, dalla pedagogia e dalla psicologia. Di una sincerità a volte brutale,
di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò, il piú bel libro che sia mai stato
scritto sulla scuola italiana, il piú appassionante, il piú vero»].
4 ottobre: Il simbolo contrario della bomba atomica [Sul lancio dello Sputnik].
9 novembre: I ragazzi e la televisione [Quali programmi della Tv per ragazzi
piacciono al pubblico cui sono destinati?].
9 dicembre: Sesso e supersesso per quattordicenni inibiti [La stampa
pornografica e le incriminazioni per oscenità].
Il libro

U N CATALOGO DI SCRITTI PREZIOSI, CHE SPAZIANO DALLA CRONACA

alla riflessione e arrivano al racconto, rivelando le tante


sfumature della penna acutissima di Rodari.

Gianni Rodari è stato un giornalista di quelli rari, capace di


muoversi tra registri e voci diverse grazie alla splendida versatilità
di una parola sempre esatta. Sapeva raccontare con semplicità il
suo approccio pedagogico attraverso l’errore di una bambina, che
orecchiando la Chanson de Roland dà vita a un misterioso animale:
il cane di Magonza. Ma Rodari poteva trasformarsi in un cronista
di razza, in grado di individuare, nel groviglio di voci che
circondano un evento, il dettaglio che cattura l’attenzione. E
sapeva quanto di vero si può dire con la fantasia. E cosí in queste
pagine ci s’imbatte anche in meravigliosi esercizi narrativi; pezzi
magistrali di «giornalismo surreale», in cui Rodari, da raffinato
scrittore comico, reinventa completamente la realtà per mostrarci
il volto segreto, talvolta tenero e talvolta ridicolo, della nostra vita
di ogni giorno.
L’autore

GIANNI RODARI (Omegna 1920 - Roma 1980) è stato giornalista,


scrittore, vincitore del Premio Andersen (il Nobel per la letteratura
infantile); le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo. Negli
Einaudi Tascabili sono disponibili: Lettere a Don Julio Einaudi,
Hidalgo editorial e ad altri queridos amigos, Il cavallo saggio, Il
giudice a dondolo, Scuola di fantasia, Chi sono io? ed Esercizi di
fantasia.
Dello stesso autore

Lettere a Don Julio Einaudi, Hidalgo editorial


e ad altri queridos amigos
Il cavallo saggio
Il giudice a dondolo
Scuola di fantasia
Chi sono io?
Esercizi di fantasia
© 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: illustrazione di
Alessandro Sanna.
Progetto grafico: 46xy.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere


copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o
trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di
quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto
dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata
di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul
regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto
previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio,
commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il
preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook
non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte
anche al fruitore successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858425732

Potrebbero piacerti anche