Alessandro Candido
Necessitas non habet legem? Pandemia e limiti alla
libertà di circolazione
(doi: 10.1439/97136)
Ente di afferenza:
Università di Roma Tre (uniroma3)
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Note e commenti
Commenti
Sulla base essenzialmente dell’art. 118 Cost., la lotta contro la pandemia da coro-
navirus sta collaudando un modello di rapporti Stato-Regioni di stile diverso: meno
appesantito da incomprensioni e conflittualità, che nell’insieme sembra stia funzionando
bene. Poiché nessuno mette in dubbio un intervento complessivamente efficace delle
autorità centrali – inclusa la presa d’atto che un personale politico della cui adeguatezza
si poteva prima dubitare (per la sua mancanza di esperienza rispetto alla classe dirigente
del passato) è cresciuto nella capacità politica e amministrativa – nasce questa domanda:
come hanno affrontato le Regioni, che hanno la primazia tra le istituzioni non centrali, la
battaglia di contenimento e contrasto dell’epidemia Covid-19 coronavirus e, soprattutto,
come ne sono uscite nei confronti dello Stato-organizzazione e dello Stato-comunità
nazionale?
Fatti salvi alcuni, anche rilevanti, errori, omissioni o inutili sovraccarichi – avvertiti
specialmente nella fase iniziale, quando ci si è trovati a dover camminare impreparati
nelle tenebre e nelle angosce di una tragedia che si rendeva ogni giorno sempre più in-
combente – il giudizio, almeno fino al momento presente, è positivo. Sì: l’istituto Regione
(e con esso il sistema degli enti locali) ha retto di fronte al tremendo impatto, riuscendo
ad organizzare un contrasto efficace, nel senso di essersi dimostrato capace di schierare,
sui diversi campi di battaglia, batterie di uomini e mezzi che hanno voluto e saputo
combattere un male ignoto e subdolo, veloce nei suoi attacchi e particolarmente aggres-
sivo. I primi antemurali – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – e i ceti governanti
ivi operanti hanno retto all’urto della pandemia e si sono progressivamente legittimati
agli occhi del vero giudice: i loro cittadini, in primis, e la comunità nazionale poi. Certa-
mente, e necessariamente, lo Stato ha fatto la sua parte, anche qui al netto di errori ed
omissioni non tutte facilmente scusabili: soprattutto sul piano della preparazione remota,
nell’approvvigionamento dei presìdi sanitari e della comunicazione; nei fatti, si è pro-
dotta un’adeguata collaborazione con le Regioni. Queste ultime, dal canto loro, e senza
che se ne rendessero pienamente conto, erano sottoposte ad un esame costante da parte
dell’opinione pubblica, vale a dire dalla voce della democrazia pluralista. Dopo la cattiva
prova – e talvolta i pessimi esempi di condotta individuale dati dalle classi dirigenti regio-
nali dagli anni ’90 in poi – dimostrarsi non all’altezza dei propri doveri e far cattivo uso
dei poteri a disposizione per l’esercizio delle funzioni loro attribuite avrebbe significato
congiungere un eventuale insuccesso attuale con l’avvio di una progressiva ma accelerata
decadenza dell’istituto regionale stesso. Con parole più nette: se, nell’ora della prova e del
pericolo non si fosse palesata, nei fatti e nei comportamenti, una «comunità regionale»
presente e viva a fronte di una comunità nazionale sussistente di per sé e rappresentata
dalla figura statale e dai suoi organi, la campana a morte per le nostre Regioni avrebbe
cominciato a diffondere i suoi rintocchi.
Invece, dopo quarant’anni dal momento in cui l’aforisma «Regioni senza regionalismo»
venne coniato (con intimo dolore, nel 1980) da Giorgio Pastori, si può oggi dare ragione a
quell’altra sua massima: «se le Regioni non esistessero, bisognerebbe inventarle». Queste
sono, per il vero, affermazioni impegnative. Esse, da un lato, non vogliono essere assolutorie
degli errori che pur continuano a presentarsi in taluni atti e comportamenti delle Regioni,
ma neppure si possono supinamente accettare molte, non sempre indispensabili né accet-
tabili, misure di accentramento presso lo Stato di decisioni che potevano essere ritenute di
competenza regionale e che sono presenti anche nell’ultimo decreto-legge n. 19/2020. In tali
circostanze si resta tuttora sul terreno di «non regionalismo» ex parte statuale. Se ci si pro-
ietta adesso al di là del mero riparto di competenze quale è fissato nel nuovo Titolo V Cost.,
abbiamo (e potremmo meglio avere in futuro) una «misura» di reciproco riconoscimento
di ambiti, spazi, competenze, materie, oggetti (chiamiamoli come vogliamo) e dunque di
mutuo rispetto e di «leale collaborazione» tra ciò che spetta ad una comunità regionale,
e ai soggetti che la rappresentano, e ciò che spetta alla comunità statale e ai suoi organi.
L’indagine – necessariamente sommaria in questa sede – può aver inizio dai luoghi
dove si è abbattuta, con particolare violenza, l’epidemia. Se è vero, come è vero, che le
calamità uniscono, la «comunità regionale lombarda» (così autoproclamatasi nel suo
Statuto di autonomia, artt. 1 e 2) si è riconosciuta e palesata tale forse per la prima volta
dopo mezzo secolo. Fin da subito, una volta che il morbo ha aggredito la prima zona
intorno a Codogno, la combinazione di provvedimenti statali e regionali – entrambi in-
dispensabili dal momento che erano in gioco le competenze concorrenti di «tutela della
salute» e «protezione civile» – ha prodotto un certo tipo di misure: restrittive, dure ma
efficaci. Fin da subito, partendo dall’ambito locale coinvolto in prima istanza (i Comuni
con i loro Sindaci, le autorità socio-sanitarie locali, gli ospedali, gli operatori sanitari, le
imprese, il volontariato ecc.), si è avvertita una mobilitazione dell’intera società insediata
sul territorio regionale, anche con iniziative autonome, originali e spontanee. Si è così
dato incremento a svariate iniziative locali, ma coordinate in ambito regionale, dando vita
a quella differenziazione virtuosa che sembrava così ostica da capire per chi ragionava
sulla falsariga di un assioma sbagliato, in base al quale la differenziazione tra Regioni
produrrebbe di per sé diseguaglianza. Una diseguaglianza ostile e sfavorente le comunità
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Commenti
regionali dotate di minori mezzi e risorse. Questa era la pesante accusa rivolta, di recente,
ai tentativi di attuazione dell’art. 116, terzo comma.
Poter archiviare a lato positivo che la differenziazione è un principio di modulazione
di attività, riferite alle caratteristiche particolari dei territori, e tale da favorire, sussistendo
specifiche condizioni, una mobilitazione di risorse locali, materiali e morali, per produrre
un’uguaglianza di miglior qualità e che si colloca ad un livello di pubblica utilità più alto,
con lo scopo di metterlo a disposizione di tutti, appare già un risultato utile. Ancor più, il
confronto tra scelte di contrasto all’epidemia diverse tra le Regioni (casualmente con una
identica coalizione di governo, come accade tra Lombardia e Veneto), per il fatto che il Ve-
neto, sulla base di una propria concreta esperienza epidemiologica, quella di Vo’ Euganeo,
e con il supporto scientifico della sua maggiore università, quella di Padova, abbia deciso
per un’indagine su larga scala utilizzando i tamponi esperiti su migliaia di suoi cittadini,
evidenzia ulteriormente che il principio di differenziazione (se coniugato insieme a quelli
di appropriatezza e proporzionalità) può essere utile a trovare, nel tempo più breve possi-
bile, un’efficace risposta di contenimento, contrasto e cura. In tale contesto di sostanziale
«leale collaborazione» fra Regioni e Stato, stonano davvero prese di posizioni generiche
e buttate là ad blandiendum plebi come quelle del vicepresidente del PD Orlando e del
reggente 5 Stelle Crimi, volte a riconsiderare in senso statale accentrato il riparto di com-
petenze in materia sanitaria. Ed anche Cassese si muove in questa direzione.
Il passo in avanti che si è potuto scorgere sia nella decretazione d’urgenza (n. 6 e
n. 19 del 2020), sia nei molti d.P.C.M. di attuazione, sia nei plurimi decreti del Ministro
della Salute adottati in un mese (oltre un centinaio) è stato quello di appoggiarsi più
all’art. 118 che al 120, cioè sul potere sostitutivo, pur sapendo che quest’ultimo poteva
essere azionato in caso di necessità. L’uniformizzazione della tutela della salute in
campo nazionale ed il conseguenziale appiattimento farebbero venir meno la possibi-
lità di innovare e sperimentare sui territori che non sono tutti uguali per modalità di
organizzazione del servizio, che è opportuno restino diversificate. Ciò, sia sul piano dei
rapporti tra strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate, sia in quello della
gestione del personale sanitario, sia in quello di un diverso approccio circa la relazione
tra territori e malati cronici. Quest’ultima problematica – così centrale anche nel con-
teggio delle vittime con e per Covid-19 – ha visto differenti risposte. In Lombardia, ad
esempio, era avviata da poco (e con risultati ancora insoddisfacenti) la c.d. «presa in
carico» dei cronici da parte delle Aziende socio-sanitarie assistenziali (le ASST che
sostituiscono le vecchie ASL), mentre Toscana ed Emilia-Romagna hanno concentrato
la loro attenzione sulle «Case della Salute», mirando per altra via allo stesso scopo.
Adesso è il caso di proseguire sulla strada dell’art. 118 (e 119 da implementare) senza
regredire a centralismi inutili, anche perché probabilmente inefficaci e inefficienti.
Senza dimenticare che il riconoscimento e la promozione delle autonomie è un cardine
della democrazia pluralista.
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Note e commenti
Attraverso numerosi d.P.C.M. radicati sul d.-l. n. 6/2020 recante «Misure urgenti in
materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19», il go-
verno ha riportato l’attenzione dei costituzionalisti sull’art. 16 della Carta fondamentale
(tra i primi commentatori, cfr. V. Baldini, Emergenza sanitaria e Stato di prevenzione, in
dirittifondamentali.it, 1, 2020). In particolare, al fine di adottare «ogni misura di conteni-
mento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica»
(art. 1), il d.-l. in questione ha previsto l’emanazione di «uno o più decreti del Presidente
del Consiglio dei Ministri» (art. 3), con l’intenzione di fornire copertura ai successivi atti
normativi secondari. Questi ultimi – ci si riferisce soprattutto ai d.P.C.M. 8, 9, 11 e 22
marzo 2020 – hanno imposto alla libertà di circolazione misure restrittive che non hanno
precedenti nella storia repubblicana.
Il d.P.C.M. 8 marzo 2020 contiene un divieto penalmente presidiato, con l’obiettivo
(esteso dal d.P.C.M. 9 marzo 2020 all’intero territorio nazionale) di «evitare» tempora-
neamente «ogni spostamento delle persone fisiche». La norma, a dire il vero poco intel-
ligibile (sia consentito un rinvio ad A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà
di circolazione al tempo del Covid-19, nel Forum di Quaderni Costituzionali, 10 marzo
2020, pp. 3-4), pone una serie di eccezioni che consentono la circolazione, a patto che
vi siano «comprovate esigenze lavorative», «situazioni di necessità», ovvero «motivi di
salute», da giustificare tramite autodichiarazione. A differenza delle previsioni iniziali,
che ammettevano il rientro presso il proprio «domicilio, abitazione o residenza», a par-
tire dal 22 marzo 2020 «è fatto divieto» a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi
«in comune diverso da quello in cui si trovano» (con le eccezioni poc’anzi menzionate).
Dalle previsioni dell’art. 1, lett. a) del d.P.C.M. 8 marzo 2020, devono essere tenuti distinti
l’invito all’isolamento rivolto «ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e
febbre» e il «divieto assoluto di mobilità» dalla propria abitazione per coloro i quali siano
risultati positivi al virus, o per i soggetti sottoposti alla misura della c.d. quarantena. Si ag-
giunga che i d.P.C.M. in questione contengono una serie di misure impattanti negli ambiti
lavorativo, scolastico, culturale, ludico-sportivo, religioso, sanitario (rese ancor più incisive
dai d.P.C.M. 11 e 22 marzo 2020, che hanno sospeso la maggior parte delle attività pro-
duttive e commerciali) le quali, incidendo su tutti i rapporti civili, etico-sociali, economici
e politici, inevitabilmente condizionano il concreto svolgersi della libertà di circolazione.
Recentemente, il d.-l. n. 19/2020 ha abrogato quasi per intero il d.-l. n. 6/2020, enunciando
in modo più puntuale le possibili misure restrittive delle libertà individuali che successivi
d.P.C.M. potranno disciplinare e fornendo altresì copertura agli atti secondari sino a que-
sto momento adottati.
Com’è noto, mentre l’art. 26 dello Statuto albertino descriveva la libertà di «locomo-
zione» come un corollario della libertà personale, l’art. 16 della Costituzione consente di
limitarla soltanto «con legge», «in via generale» e «per motivi di sanità o di sicurezza». A
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Commenti
differenza del principio dell’habeas corpus, l’art. 16 da un lato pone una riserva di legge
rinforzata per contenuto, dall’altro non prevede la riserva di giurisdizione di cui all’art.
13 (sul rapporto tra artt. 13 e 16, si rinvia tra gli altri a C. Mortati, Rimpatrio obbligatorio
e Costituzione, in Giurisprudenza costituzionale, 1960, pp. 683 ss.). Interrogandosi sulla
natura della riserva di legge contenuta nell’art. 16 della Costituzione, una parte della
dottrina (ad esempio, U. De Siervo, Soggiorno, circolazione, emigrazione (libertà di),
in Novissimo digesto italiano, XVII, 1970, p. 820) ha sostenuto la natura relativa della
medesima, mentre un’altra scuola di pensiero ne ha affermato il carattere assoluto (A.
Barbera, I principi costituzionali della libertà personale, Milano, Giuffrè, 1967, p. 174). Il
giudice delle leggi è parso aggirare la questione, facendo comunque riferimento a quella
«sfera di discrezionalità che pur si deve riconoscere come necessaria all’attività ammi-
nistrativa» (Corte cost., sent. n. 2/1956; ma cfr. anche ord. n. 384/1987). Quale che sia
l’interpretazione circa la natura della riserva di legge, certamente l’art. 16 ammette l’in-
tervento di provvedimenti amministrativi esecutivi, quali i d.P.C.M. adottati dal governo
nel corso dell’emergenza; ragion per cui risulta legittima la previsione di cui all’art. 4 del
d.P.C.M. 8 marzo 2020, che affida al prefetto il compito di assicurare «l’esecuzione delle
misure», nonché quello di monitorare «l’attuazione delle restanti misure da parte delle
amministrazioni competenti». Una conferma di siffatta tesi la si rinviene, ad esempio,
all’art. 6 del Codice della strada, che consente al prefetto per motivi di sicurezza pub-
blica o di tutela della salute di «sospendere temporaneamente la circolazione di tutte o
di alcune categorie di utenti».
Altra questione è se lo strumento del decreto-legge sia sufficiente a fungere da delega
in bianco idonea a consentire al capo del governo di adottare atti di normazione seconda-
ria in deroga alla legge, senza passare per il controllo del Parlamento (che, invero, non è
stato coinvolto nemmeno nella fase di dichiarazione dello stato di emergenza). Sebbene
risulti indubbiamente opportuno che, in virtù delle riserve di legge contenute nella Co-
stituzione, la limitazione delle libertà derivi sempre da una fonte primaria, nell’odierno
contesto emergenziale la risposta può essere affermativa, ove si leggano i d.P.C.M. adot-
tati – al di là della loro veste formale – alla stregua dei provvedimenti di cui al d.lgs. n.
1/2018 che, nei casi (come quello di specie) di «deliberazione dello stato di emergenza
di rilievo nazionale» (art. 24), autorizza l’adozione di ordinanze di protezione civile, «in
deroga ad ogni disposizione vigente» (art. 25); senza tra l’altro dimenticare che lo stesso
Presidente del Consiglio «detiene i poteri di ordinanza in materia di protezione civile»
(art. 5). Del resto, l’art. 2 dell’abrogato d.-l. n. 6/2020, nella parte in cui disponeva che «le
autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’e-
mergenza», consentiva di rinviare a ulteriori competenze, previste altrove.
In secondo luogo, appare rispettata la locuzione «in via generale» contenuta
nell’art. 16, che si traduce nella «solenne riaffermazione del principio posto nell’art. 3
della Costituzione» (sent. n. 68/1964), nel senso che l’autorità può limitare la libertà di
singoli o gruppi di persone, purché ponga delle regole «con criteri generali e su basi
assolutamente obbiettive» (Corte cost., sent. n. 72/1963; nello stesso senso, cfr. P. Barile,
Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 171 ss.). Che poi
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Note e commenti
l’attuazione della norma comporti – come nel caso di specie accade – un margine di
discrezionalità nelle valutazioni dei casi concreti non costituisce certo motivo perché
possa ravvisarsi nella disposizione un contrasto con l’art. 3 Cost., «essendo proprie,
quelle valutazioni, di ogni giudizio diretto all’applicazione di norme giuridiche» (Corte
cost., sentt. nn. 2/1956 e 23/1964. In tal senso, cfr. G. Amato, Art. 16, in Commentario
alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, Zanichelli, 1977, pp. 117 ss.). Pertanto,
l’espressione «in via generale» non impedisce che la legge demandi all’autorità ammi-
nistrativa «l’accertamento del pericolo per la sanità e la sicurezza di singoli individui
e quindi conceda alla predetta autorità i necessari poteri valutativi» (Corte cost., sent.
n. 161/1980), purché il provvedimento amministrativo restrittivo risulti motivato (cfr. V.
Crisafulli, Questioni di costituzionalità di disposizioni di legge o questioni di legittimità
del provvedimento applicativo? (in tema di libertà di circolazione), in Giurisprudenza
Costituzionale, 1965, pp. 122 ss.). Del resto, il potere riconosciuto all’autorità ammini-
strativa non incide sulla garanzia giurisdizionale dei diritti, limitandosi invece a «de-
terminare l’oggetto della garanzia stessa; a porre, cioè, una certa disciplina di un dato
rapporto, in ordine al quale la tutela giurisdizionale resta libera ed impregiudicata»
(Corte cost., sent. n. 244/1974).
Allo stesso modo, risulta rispettato l’ulteriore requisito dei «motivi di sanità» posto
dall’art. 16 della Costituzione, da leggersi in combinato disposto con l’art. 32, dovendosi
comprendere entro tale definizione ogni provvedimento relativo alla tutela della salute
fisica e psichica dei cittadini e della loro incolumità (G. Demuro, Circolazione, soggiorno,
emigrazione (libertà di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, III, Torino, UTET, 1989,
p. 378). In tal senso, i menzionati d.-l. nn. 6/2020 e 19/2020 richiamano le considerazioni
dell’OMS, che prima ha classificato l’epidemia da coronavirus come emergenza di sanità
pubblica di rilevanza internazionale, poi ha dichiarato la pandemia. Il giudice delle leggi
in diverse occasioni ha affermato che il precetto di cui all’art. 16 non preclude al legisla-
tore la possibilità di adottare misure che influiscano sul movimento della popolazione,
dato che siffatte limitazioni possono trovare giustificazione «in funzione di altri interessi
pubblici egualmente meritevoli di tutela» (Corte cost., sent. n. 66/2005), a patto che «que-
ste rispondano a criteri di ragionevolezza» (Corte cost., sent. n. 264/1996).
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, si ritiene che la pressione senza precedenti
esercitata sul principio della libertà di circolazione giustifichi una temporanea torsione
del sistema delle fonti, superando al momento lo scoglio del giudizio di ragionevolezza,
anche alla luce dei contrappesi presenti nell’ordinamento che, pur nell’emergenza, ne
garantiscono la democraticità. Senza dimenticare infine il richiamo al buon senso della
collettività, nella consapevolezza che la stagione dei diritti tipica dello Stato sociale per
una volta deve lasciare spazio alla stagione dei doveri, primo tra tutti quello solidaristico.
E allora, forse, l’epoca più critica che l’umanità sta vivendo dal dopoguerra ad oggi avrà
rappresentato anche un’opportunità. Ex malo bonum, direbbe sant’Agostino.
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Anche senza dover arrivare al paradosso di scrivere una lettera di tipo carta-
ceo – come ha fatto lo Speaker della Camera dei Comuni britannica, Sir Lindsay Hoyle,
nei confronti del leader di maggioranza della Camera dei Comuni, Jacob Rees-Mogg:
altro che telefono, altro che email! – per ragionare intorno al progetto di permettere al
Parlamento di riunirsi e di lavorare virtualmente per il resto della crisi del coronavirus,
appare a tutti evidente che la pandemia Covid-19 ancora in corso ha avuto un forte
impatto pure sui modi e sulle forme di lavoro delle nostre istituzioni, a partire dai Parla-
menti, che sono i primi soggetti delle nostre democrazie che fanno della loro strutturale
fisicità in presenza anche il simbolo della loro esistenza.
In tal senso, le soluzioni che sono state proposte in ciascun ordinamento, compreso il
Parlamento europeo, sono state varie e quasi tutte improntate a permettere, con modalità
informatiche, lo svolgimento a distanza dei lavori e delle votazioni, così da consentire
tanto la difesa del ruolo del Parlamento, di controllore dell’azione del governo e di deci-
sore delle spese da autorizzare in questo tempo senza precedenti, quanto la protezione
della salute dei parlamentari, difendendo così pure il loro essere espressione fisica della
funzione rappresentativa. Così, chiamati a garantire la piena effettività di tale funzione
durante una pandemia, i Parlamenti del mondo hanno adottato misure eccezionali: molti
si sono virtualmente collegati, utilizzando metodi di lavoro a distanza, come in Spagna;
alcuni hanno continuato a riunirsi fisicamente, ma con restrizioni, come in Germania; altri
non si sono proprio riuniti, prendendo una pausa anticipata dalle loro sessioni di lavoro
dopo aver tuttavia votato una serie di misure di emergenza, ma attrezzandosi, come detto,
a farlo attraverso la tecnologia, come nel Regno Unito; altri, infine, cambiando il proprio
regolamento, hanno previsto la riunione di una commissione speciale al posto dell’intera
assemblea, come in Nuova Zelanda (cfr. Parliaments in a Time of Pandemic dell’Inter-
Parliamentary Union, a disposizione sul loro sito internet). A latere, vi è poi il dramma-
tico caso ungherese: quello di un ordinamento che negli anni ha via via perso importanti
elementi della propria natura democratica e che, oggi, utilizzando come pretesto proprio
il coronavirus, ha consentito, con un voto del Parlamento a maggioranza orbaniana, al
primo ministro Viktor Orbán, appunto, di assumere i pieni poteri a tempo indeterminato;
di fatto sospendendo ogni garanzia democratica (compresa la possibilità di tenere libere
elezioni e referendum) e punendo chiunque venga ritenuto colpevole, ad avviso del
regime, di «impedimento (o di intralcio) al controllo epidemico» o di diffondere notizie
considerate false (cfr. P. Mori, La questione del rispetto dello Stato di diritto in Polonia e in
Ungheria: recenti sviluppi, in federalismi.it, 1o aprile 2020). Insomma, una democrazia che
muore, rinunciando a ogni libertà, a partire da quella storicamente basica del Parlamento
di autoconvocarsi quando lo ritiene necessario.
Fatto si è che – per fortuna – nonostante la diffusione del virus, quasi tutti gli ordi-
namenti democratici hanno affermato che né la paura del contagio, né la mancanza di
volontà politica, né l’assenza di capacità tecnica avrebbero impedito loro di riunirsi. E
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così, infatti, è stato. In questo quadro, in beata solitudo, vi è l’eccezione rappresentata dal
Parlamento italiano: l’unico Parlamento che, al netto delle dichiarazioni dei leader di par-
tito o dei singoli parlamentari, è stato pressoché silente per quasi tutto il mese successivo
alla dichiarazione di emergenza dichiarata dal Governo il 31 gennaio 2020, rinunciando
ad esercitare da subito il controllo, ad esempio con gli strumenti del sindacato ispettivo,
rispetto ai provvedimenti emergenziali emanati dal Governo (sia consentito, amplius: F.
Clementi, Il lascito della gestione normativa dell’emergenza: tre riforme ormai ineludibili,
in Osservatorio AIC, 3, 2020, 7 aprile 2020).
La ragione di ciò attiene in parte – in minima parte – alla strategia di politica del
diritto messa in campo dal Governo (volta al parziale aggiramento del Parlamento tra-
mite un uso eccessivo della normativa secondaria rispetto alla fonte legislativa propria di
queste situazioni, ossia il decreto-legge). In parte – in larga parte – attiene ad altro: all’im-
barazzo, e al conseguente stallo decisionale, che hanno vissuto le Camere, rectius i loro
Presidenti, di fronte alla difficoltà di scegliere quali modi e forme di dibattito e di voto
poter adottare, per evitare, tra parlamentari e dipendenti positivi o messi in quarantena,
il casuale estendersi del contagio, col rischio di far venire meno, nel giro di pochi giorni,
pure il quorum di maggioranza. Una situazione che si è ulteriormente protratta fino a fine
febbraio quando il Parlamento ha istituzionalmente ritrovato la voce in tema pur non po-
nendo in modo formale la questione all’attenzione degli organi decisionali interni (ad ec-
cezione, se si vuole, dei due seminari on line sul voto a distanza organizzati dal Presidente
della Commissione Affari costituzionali della Camera). Cosa è emerso dunque? Una
reazione del Parlamento assai debole, da un lato; e, dall’altro, un dibattito sui modi e sulle
forme attraverso le quali garantire il funzionamento della democrazia parlamentare nel
nostro Paese che si è svolto da parte degli studiosi sui media e sulle riviste accademiche;
un confronto che si è focalizzato sul voto a distanza, ossia sulla possibilità di garantire, per
il tramite di soluzioni tecnologiche, l’operatività della nostra democrazia rappresentativa
senza che essa potesse rischiare di venir chiusa per malattia o per forme – non dichiarate,
ma palesi – di auto-confinamento.
Così, al netto di una duplice costante – ossia che a Costituzione vigente è legittima,
in quanto già da tempo praticata alla Camera dei deputati, l’interpretazione estensiva
dell’art. 64, comma 3, della Costituzione riguardo al concetto di presenza fisica dei
parlamentari (cfr. almeno C. Fusaro, Le Camere nell’emergenza della pandemia, in per-
fondazione.eu, quad. 5, 18 marzo 2020; e N. Lupo, Perché non è l’art. 64 Cost. a impedire
il voto «a distanza» dei parlamentari. E perché ammettere tale voto richiede una «re-in-
gegnerizzazione» dei procedimenti parlamentari, in Osservatorio AIC, 3, 2020, 31 marzo
2020) e, del pari, della intrinseca elasticità del diritto parlamentare – la scelta finale
adottata dalle Camere non è stata tuttavia capace di superare le resistenze e le rigidità
ad una modifica del Regolamento. Con forti restrizioni si è voluto, infatti, garantire che
il Parlamento potesse convocarsi nelle forme tradizionali, ma con un numero ridotto
di componenti, il minimo necessario alle votazioni, rispettando i rapporti di forza tra
i gruppi. Si è previsto così, sulla base di un accordo politico, una ridotta presenza di
parlamentari (e di personale) nell’edificio; un uso diverso degli ambienti – corridoi
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Tale imprescindibile funzione deve essere confrontata oggi con un’emergenza carat-
terizzata dal forte rischio di contagio del virus, quanto più possibile da evitare. Ciò ha
portato alcuni commentatori a insistere perché le Camere possano riunirsi e votare in via
telematica. Ma tale soluzione non convince per diversi motivi.
In primo luogo, l’art. 64 Cost. richiede, per la validità delle deliberazioni, la «pre-
senza» della maggioranza degli aventi diritto. Per considerare questa valida anche se
virtuale occorre un’interpretazione indubbiamente evolutiva rispetto alle intenzioni del
Costituente, che sarebbe poi destinata a valere anche oltre l’emergenza. Ciò rischierebbe
di svuotare lo stesso concetto di rappresentanza, nata per rendere presenti in un luogo
fisico un numero di persone che non possono materialmente starci e potrebbe aprire la
strada all’assunzione di molte decisioni da remoto, superando la necessità di intermedia-
zione dei rappresentanti. Una tale interpretazione della Costituzione potrebbe essere
fornita, secondo alcuni (ad es. B. Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la
Costituzione italiana, in Federalismi, 18 marzo 2020) a seguito di una riforma dei rego-
lamenti, la cui possibilità di fornire tale interpretazione del testo costituzionale sarebbe
confermata dalle sentt. nn. 78/1984 e 379/1996 della Corte costituzionale. Tuttavia, se,
da un lato, il richiamo ai suddetti precedenti pare poco conferente, dall’altro, le norme
regolamentari hanno già interpretato la presenza come fisica: in tal senso, tra gli altri, gli
artt. 31, 46 (comma 2), 53, 60, 61, 62 Reg. Camera e gli artt. 28 (comma 2), 58, 69, 139-bis
(comma 5), 163 Reg. Senato, pur recentemente riformato.
Peraltro, in relazione alla riunione da remoto, particolare enfasi è stata posta sulla
votazione, che pone non pochi problemi, sia per le possibilità di hackeraggio che po-
trebbe falsare il risultato, sia rispetto alle caratteristiche di segretezza (quando prevista),
personalità e libertà del voto, essendo evidentemente più facile condizionare il voto di
parlamentari che agiscono da loro sedi private. Ma il voto del parlamentare è soltanto il
punto terminale di un’ampia discussione, di un confronto, che necessita la condivisione
di uno spazio, in cui ciascuno può cercare di convincere altri delle proprie ragioni, an-
che in vista, semmai, di una soluzione di compromesso, considerando che la democrazia
«non è da indentificare con il principio della maggioranza che vince sulla minoranza, ma
piuttosto con le possibilità offerte, nel corso del processo democratico, a diversi punti di
vista di confrontarsi e reciprocamente trasformarsi» (D. Della Porta, Democrazie, Bolo-
gna, Il Mulino, 2011). Ciò indica come la riunione da remoto sia inidonea a sostituirsi a
quella in presenza ed evidenzia la debolezza dei tentativi di sostenere il voto deliberativo
a distanza dei parlamentari portando esempi di voto elettronico nelle elezioni (in merito
R. Dickmann, Alcune questioni di costituzionalità in tema di voto parlamentare a distanza,
in Federalismi, 1o aprile 2020).
Peraltro, non sembra che anche gli esempi di altre assemblee siano appropriati. Quello
del Parlamento europeo sconta la parziale differenza di funzioni dell’organo, tanto più in
un momento come questo, in cui – come dicevamo – la maggior parte dei provvedimenti è
assunta dal Governo (nazionale) rispetto al quale il Parlamento (nazionale) è chiamato a
esercitare poteri di indirizzo e controllo, senza poi considerare che il sistema messo a punto
a Bruxelles ha portato, il 26 marzo, a svolgere tre votazioni in cinque ore (cosa accadrebbe
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Tutte le suesposte considerazioni spingono, quindi, verso una soluzione che, pur nella
necessità di adattamenti dei lavori (con il potenziamento dello smartworking delle strut-
ture di supporto come per alcune riunioni informali), consideri imprescindibile che questi
siano portati avanti dai parlamentari con la loro presenza.
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quente e non sempre fondato – pare però dimenticare che la Giunta per il regolamento
non svolge un’attività deliberativa ma consultiva, per cui i suoi pareri non sono né neces-
sari, né vincolanti nei suoi confronti (artt. 18, comma 3, R.S. e 16, comma 2, R.C.), dato
che è solo al Presidente che spetta l’interpretazione e l’applicazione del regolamento
(art. 8 R.S.). Diversamente, si dovrebbe ritenere che, nella situazione di composizione
paritaria tra maggioranza ed opposizione in cui si trova oggi la Giunta per il regolamento
del Senato, ogni qual volta si determini un voto pari, la Presidente debba votare pur di
pervenire ad una decisione. Proprio tale situazione di parità, invece, costituisce il miglior
presupposto perché la Presidente, ascoltati tutti, decida sulle questioni regolamentari
sollevate in terribile solitudine. Una delle cause, infatti, dei cattivi precedenti di cui è
ormai intriso il diritto parlamentare sono proprio le interpretazioni decise a colpi di
maggioranza in Giunta per il regolamento, trasformatosi da organo consultivo in delibe-
rativo e per questo, al pari delle Commissioni, composto come detto in base a prevalenti
criteri di proporzionalità anziché di rappresentatività.
Pertanto, la decisione di votare in Giunta per il regolamento pare non solo criticabile
perché in contrasto con una prassi finora costante, ma anche inutile, poiché la Presidente
poteva ugualmente, e anzi più opportunamente, assumere la decisione votata senza par-
tecipare al voto. Per quanto sia illuministico sostenerlo, il diritto parlamentare avrebbe
tutto da guadagnare se il Presidente d’Assemblea interpretasse il regolamento non in
base alle ragioni della forza (politica) ma alla forza delle ragioni tecnico-giuridiche invo-
cate. Le stesse che dovrebbero ispirare il giudizio imparziale e indipendente e tecnico dei
membri della Giunta delle immunità sui reati ministeriali in considerazione dell’attività
giurisdizionale svolta. Ma questa è un’altra storia.
La nota del 12 marzo 2020 con cui il Presidente della Repubblica ha ricordato alle
istituzioni dell’Unione il valore fondativo per il progetto europeo della solidarietà, dopo
il «We are not here to close spreads» pronunciato dal vertice della BCE nel pieno delle
attività di contrasto alla diffusione del Covid-19 messe in atto dall’Italia, appare forse l’e-
sternazione più diretta finora rivolta al consesso sovranazionale. Al di là del tono critico
imposto dalla contingenza, il comunicato costituisce invece una conferma dell’attenzione
di Mattarella ai rapporti con l’Unione europea e, più in generale, alle relazioni estere,
cifra dell’intero mandato. L’attuale Capo dello Stato ha infatti impresso alla carica pre-
sidenziale un personale modo di interpretare la rappresentanza dell’unità della Nazione,
attraverso la costante espressione all’interno come all’esterno dell’ordinamento del posi-
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ternazionale ed eurounitaria. Come lui stesso scrive in una nota rivolta ai Governi Amato
(2000) e Berlusconi II (2001), la diversità funzionale e teleologica che esiste tra la politica
estera governativa, attuativa di un indirizzo politico libero nel fine, e l’indirizzo politico-
costituzionale di cui è titolare il Presidente della Repubblica, che è invece vincolato nei
e dagli obbiettivi costituzionali da perseguire (T. Martines, Indirizzo politico, 1971, ora in
Opere, I, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 436 ss.), legittima il coinvolgimento del Quirinale nella
materia estera, in rappresentanza del principio generale di continuità statuale e dei valori
di europeismo e multilateralismo che debbono essere sottratti al mutare del potere politico.
Dopo l’attivismo a forte personalizzazione dei mandati di Napolitano, la Presidenza
Mattarella torna ad una ponderata esposizione nel settore, secondo un doppio registro:
pochi interventi pubblici, limitati alle fasi congiunturali complesse e tesi a riaffermare la
collocazione internazionale italiana nella NATO, nell’Ue e nell’Eurozona, senza entrare
nelle scelte dell’Esecutivo; quindi, largo uso della moral suasion tra i poteri per preve-
nire o risolvere eventuali criticità sull’asse ultrastatale. Il peso specifico del settennato in
corso in ambito estero sembra dunque potersi identificare nel monitoraggio presidenziale
costante sulla conformità del sistema interno ai livelli normativi extrastatali cui l’Italia
partecipa (artt. 10, 11 e 117, primo comma, Cost.). Si tratta di un’attività complessa che è
riconducibile all’indirizzo politico-costituzionale del Capo dello Stato (P. Barile, I poteri
del Presidente della Repubblica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1958, pp. 308 s.) e
che risulta finalizzata a garantire nei limiti ordinamentali la coerenza tra i sistemi dome-
stico, europeo e internazionale, all’interno di una visione pluralistica e integrata, comune
anche a Ciampi e a Napolitano.
La riserva in favore del Quirinale di un’attività orientata per così dire in senso inter-
ordinamentale apre in realtà ad un’azione ad ampio raggio, estesa in potenza a tutti i pro-
cessi di iniziativa governativa che intercettano i piani giuridici europei e internazionali.
Ecco perché, soprattutto con riguardo al settennato in corso, appare preferibile adottare
una nozione ampia di ruolo estero del Capo dello Stato, non limitata alle prerogative di
cui all’art. 87, ottavo comma Cost. In quest’ottica, è possibile classificare gli atti presiden-
ziali occorsi durante la XVIII legislatura in ambito europeo e internazionale secondo un
criterio funzional-finalistico. Ne emergono: atti formali tesi a salvaguardare, tra gli altri, gli
obblighi eurounitari di ordine pattizio, come il rifiuto di Mattarella avverso la proposta di
nominare Savona al vertice del dicastero economico durante la formazione del Governo
Conte I (A. Spadaro, Dalla crisi istituzionale al Governo Conte: la saggezza del Capo dello
Stato come freno al «populismo sovranista», in A. Morelli (a cura di), Dal «contratto di
Governo» alla formazione del Governo Conte, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, p. 19);
atti informali di moral suasion, attraverso i quali il Capo dello Stato pone in essere un’at-
tività di mediazione presso gli organi interni allo scopo di interrompere le violazioni dei
principi internazionali, come nel caso dell’influenza esercitata sul premier Conte – con
una legittimazione ibrida, da Capo dello Stato e vertice delle Forze armate – per sbloc-
care lo stallo della nave della Guardia Costiera Diciotti e far cessare la lesione ai principi
internazionali di accoglienza e soccorso umanitario (M. Breda, Diciotti, la scelta obbli-
gata di Mattarella: doveva risolvere al più presto il conflitto tra poteri, in Corriere della
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Sera, 13 luglio 2018). Ancora all’interno degli atti informali si distinguono i colloqui che
Mattarella intrattiene con i capi di Stato esteri e i rappresentanti degli organi unionali in
momenti di particolare tensione diplomatica o istituzionale; tra questi, il contatto tele-
fonico avuto con il Presidente francese Macron per fluidificare la crisi diplomatica pro-
vocata dall’esternazione del Ministro degli Esteri Di Maio a sostegno della protesta dei
gilet gialli nel febbraio 2019, a seguito della quale la Francia aveva richiamato il proprio
ambasciatore a Parigi. Dello stesso tenore gli scambi avuti con il Presidente della BCE
e con il Commissario europeo per gli Affari economici, dopo il giudizio critico espresso
da Bruxelles sulla NADEF 2018 predisposta dal Governo Conte I. In tale ultima circo-
stanza, Mattarella ha peraltro rinforzato la sua azione di persuasione mediante l’invio di
una missiva (31 ottobre 2018) a latere della autorizzazione alla presentazione governativa
alle Camere del d.d.l. di bilancio 2019, nella quale ha invitato l’Esecutivo a un «dialogo
costruttivo con le istituzioni europee» (C. Fusaro, Perché Conte è vincolato dalla lettera di
Mattarella, in Libertaeguale.it, 4 novembre 2018).
L’attivismo presidenziale in campo estero non è tuttavia privo di zone d’ombra. In
dati casi, infatti, Mattarella ha funzionalizzato l’esercizio dei poteri di grazia e commu-
tazione della pena, ammesso dalla Corte costituzionale per eccezionali motivi umanitari
(sent. n. 200/2006), a una prevalente logica di politica commutativa tra Stati. In continuità
con la grazia concessa da Napolitano al colonnello statunitense Romano coinvolto nel
rapimento di Abu Omar, l’attuale Capo dello Stato ha quindi confermato la prassi disfun-
zionale del perdono come strumento di politica internazionale. È quanto si evince dalla
motivazione legata alla fine della pratica statunitense delle extraordinary renditions che
è stata posta alla base della grazia in favore degli agenti CIA Medero e Lady, nel 2015, e
De Sousa, nel 2017, pure coinvolti nella missione. Peraltro, la clemenza parziale del 2017
mostra un profilo di criticità ulteriore, quello di aperta lesione all’art. 46, par. 1, Cedu,
sul rispetto del giudicato convenzionale. Il provvedimento presidenziale confligge infatti
con la intervenuta sentenza Nasr e Ghali con cui la Corte Edu ha accertato la violazione
dell’art. 3 Cedu commessa dall’Italia nel caso Abu Omar, formulando un addebito espli-
cito al Quirinale per avere garantito l’impunità ai responsabili del reato proprio tramite
la clemenza (parr. 272 e 273).
Nel febbraio 2020 è stato reso noto un documento politico di grande interesse, il
Piano Sud 2030. Sviluppo e coesione per l’Italia, curato dal Ministro per il Sud e la Coe-
sione territoriale Giuseppe Provenzano. Si tratta di un vasto quadro delle politiche go-
vernative per il nostro Mezzogiorno, che si dichiara aperto a ulteriori contributi, revisioni
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«Nessuno può essere punito», principia l’art. 25, comma 2, Cost., adoperando una lo-
cuzione che attrae nella propria orbita l’intero diritto punitivo, indipendentemente dall’e-
tichetta appiccicata alle sue articolazioni: ciò che conta è l’idoneità della singola misura
a trasformare la natura della pena e ad incidere concretamente sulla libertà personale.
Quando ciò accade, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, deve scat-
tare la garanzia costituzionale del divieto di retroattività. Batte così il cuore della sentenza
n. 32/2020, pompando in circolo la soluzione più garantista a un problema meritevole di
«seria riflessione» (sent. n. 306/1993), già in passato a un soffio dall’odierna soluzione,
mancata solo per «un caso di coscienza» (testimoniato da G. Zagrebelsky, Princìpi e voti,
Torino, Einaudi, 2005, pp. 17-19).
A farne le spese, per primo, è uno dei frutti più bacati della malapianta del populismo
penale, riconoscibile già dalla sua demagogica denominazione: «legge spazzacorrotti».
Una disciplina capace di assimilare il trattamento penitenziario di delitti contro la pub-
blica amministrazione (anche a struttura monosoggettiva) a reati associativi commessi
per finalità di terrorismo, di eversione dell’ordine democratico, di criminalità organizzata
di stampo mafioso. E di autorizzarne la propria applicazione – omettendo qualsiasi spe-
cificazione intertemporale – a fatti pregressi alla sua entrata in vigore, attraverso il ri-
chiamo al principio tempus regit actum. La Corte costituzionale si oppone a tale soluzione
diacronica, perché «tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima
ancora che quantitativa» (par. 4.3.3), e se una disciplina introduce norme intrinsecamente
punitive, queste potranno valere per il futuro, non per il passato.
Lo scacco matto alla disposizione impugnata (l’art. 1, comma 6, lett. b), l. n. 3/2019)
si consuma in cinque mosse: 1) ricostruzione del diritto vivente giurisprudenziale, che
sottrae all’ambito di applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost., le norme di esecuzione
penitenziaria perché extra-penali; 2) conferma della regola secondo cui le pene detentive
vanno eseguite in base alla legge del tempo della loro applicazione; 3) incorporazione
dell’eccezione alla regola, «allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modi-
fiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì
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una trasformazione della natura della pena, o della sua concreta incidenza sulla libertà
personale del detenuto» (par. 4.3.3); 4) individuazione, all’interno della disciplina censu-
rata, delle misure intrinsecamente penali (il divieto di sospensione dell’ordine di esecu-
zione della condanna, le sopravvenute preclusioni alla concessione di pene alternative alla
detenzione) ricadenti nel divieto di retroattività; 5) conferma altresì di un’irretroattività
qualificata a scudare i benefici penitenziari concessi o soggettivamente maturati (per-
messo premio, lavoro all’esterno), in forza del principio di progressione del trattamento e
del divieto di una sua regressione incolpevole, elaborato dalla giurisprudenza costituzio-
nale (cfr. sentt. nn. 306/1993, 504/1995, 445/1997, 137/1999, 257/2006, 79/2007) e convenzio-
nale (Corte Edu, Grande Camera, Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/09, 21 ottobre 2013).
Già paragonata a una «rivoluzione copernicana» (R. De Vito, Corte costituzionale e
«Spazzacorrotti»: cronaca di una rivoluzione (non) annunciata, in questionegiustizia.it,
13 febbraio 2020) e appellata come «storica decisione» (G.L. Gatta, Art. 4-bis o.p. e legge
«Spazzacorrotti», in sistemapenale.it, 17 febbraio 2020), ci sarà tempo, modo e spazio ade-
guati per radiografare la sentenza n. 32/2020, anche nel suo stile argomentativo ricco di
rimandi al diritto comparato e agli orientamenti sostanzialistici della Corte di Strasburgo.
Qui e ora, interessa una ricognizione dei suoi tanti profili d’interesse, a futura memoria.
Sul piano della politica criminale, si conferma l’eclissi del c.d. doppio binario peni-
tenziario e della sua estensione a fenomeni accomunati solo da un percepito «allarme
sociale» (sent. n. 188/2019), e perciò travasati nella black list dei reati assolutamente osta-
tivi alla concessione di misure extramurali. Qui la sentenza n. 32/2020 si salda a una lunga
catena giurisprudenziale che, di tale automatismo legislativo, ha ora messo in discussione
finanche l’architrave: l’equivalenza tra collaborazione e ravvedimento, e tra mancata
collaborazione e pericolosità sociale del reo (cfr. sentt. nn. 253 e 263/2019). Stretto tra la
natura non più assoluta delle sue presunzioni legali e il divieto di un’applicazione a fatti
pregressi, l’art. 4-bis, comma 1, l. n. 354/1975, vede compressa la propria sfera di efficacia.
La morsa si stringerà ancor di più in futuro, all’esito delle questioni di costituzionalità che
certamente approderanno alla Consulta, con l’obiettivo di alzarne la saracinesca per con-
sentire anche ai non collaboranti l’accesso a tutte le misure alternative alla pena, nel solco
della ratio decidendi che già ha reso loro fruibile il beneficio del permesso premio (sent.
n. 253/2019). Oppure miranti a bonificare il catalogo dei reati ostativi perché «complesso,
eterogeneo e stratificato» (sentt. nn. 239/2014, 32/2016, 76/2017), magari riproponendo la
quaestio ora respinta per difetto di rilevanza processuale (ord. n. 49/2020), ma impregiu-
dicata nel merito.
Sempre in chiave di politica del diritto, importante è l’affermata assimilazione tra
detenzione e misure alternative alla stessa. Già in passato la Corte aveva riconosciuto che
queste «partecipano della natura della pena, proprio per il loro coefficiente di afflittività»
(sent. n. 188/1990), parlando più di recente di «eccedenza afflittiva» (sent. n. 253/2019)
per un regime penitenziario interamente intramurario. Oggi l’osmosi riguarda la loro
applicazione nel tempo. In prospettiva, c’è da augurarsi che ne riguardi l’inclusione – per
via legislativa – tra le pene principali disponibili già in sede di cognizione, così da relegare
la detenzione dietro le sbarre a sanzione di ultima istanza. Nel frattempo, si chiarisce
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una volta per tutte perché la condanna incapsuli – potenzialmente – tutte le modalità
esecutive contemplate dall’ordinamento penitenziario, e perché la pena detentiva possa
essere modificata nel corso dell’esecuzione, trattandosi comunque di diverse forme di
penalità: come scontarla, quella condanna, dipenderà – in ultima analisi – dalla condotta
del detenuto.
Il terzo profilo d’interesse investe la teoria generale delle fonti, con enormi ricadute
sul correlato problema della tutela dei diritti: l’allargamento dell’ambito di applicazione
del principio d’irretroattività penale (rectius: del diritto punitivo). Esso non riguarda
più solo leggi che incriminano fatti in precedenza penalmente irrilevanti, e leggi che
inaspriscono le pene per fatti già in precedenza incriminati. Include ora anche leggi in-
trinsecamente afflittive, perché incidenti sulla natura della pena e sulla libertà personale
del soggetto. Già in passato la giurisprudenza costituzionale – ai fini dell’operatività del
principio di legalità penale – aveva considerato sostanzialmente punitive discipline extra-
penali (ex plurimis, sentt. nn. 447/1988, 196/2010, 276/2016, 63/2019), in applicazione dei
noti Engel criteria elaborati dalla Corte Edu. È lecito ipotizzare un loro incremento:
penso, ad esempio, alle misure di sicurezza detentive o alla detenzione amministrativa
degli stranieri (come già ipotizzavo: cfr. A. Pugiotto, L’ergastolo nascosto (e altri orrori)
dietro i muri degli ospedali psichiatrici giudiziari, in questa Rivista, 2013, p. 359; Id., La
«galera amministrativa» degli stranieri e le sue incostituzionali metamorfosi, ivi, 2014, pp.
597-600) o ai termini di durata della custodia cautelare. Ci si può spingere anche oltre. La
sentenza n. 32/2020 valorizza la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, in base alle
quali l’imputato compie le proprie scelte difensive (cfr. par. 4.2.5, ma anche par. 4.4.5): è
lecito allora dedurne che si vìola il divieto di irretroattività anche con un’interpretazione
giurisprudenziale in peius, se non ragionevolmente ipotizzabile al momento del fatto (in
linea con quanto già ritenuto dalla Corte di Giustizia: cfr. Tribunale di primo grado, causa
T-59/02, Archer Daniels Midland c. Commissione, 27 settembre 2006).
Sul piano della giustizia costituzionale, va segnalato il ricorso alla tecnica dell’inter-
pretativa di accoglimento: ad essere annullata «è la norma risultante dal diritto vivente,
a tenore della quale la modifica introdotta con la disposizione censurata sarebbe appli-
cabile anche retroattivamente» (par. 4.5). Scelta criticata come «inusuale» (I. Giugni, La
differenza fra «dentro» e «fuori» il carcere è radicale, in diritticomparati.it, 11 marzo 2020)
o addirittura «singolare» (A. Apollonio, I guardiani della legge: le ragioni dell’intervento
della Consulta sulla «spazzacorrotti», in giustiziainsieme.it, 13 febbraio 2020), perché an-
drebbe a colpire «un mancato intervento del legislatore» (come lamenta in giudizio il Go-
verno: cfr. par. 3.5). Sono critiche impolverate. «Se è vero, come è vero, che le norme sono
non quali appaiono proposte in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera
del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci» (do you remember? era già la sent. n.
3/1956 a dirlo), quel vuoto legislativo è riempito da una norma vivente che, se illegittima,
la Corte ha il compito di rimuovere dall’ordinamento. Nel caso in esame, è indubbio che
l’indirizzo giurisprudenziale fosse consolidato, con tanto di bollino delle Sezioni Unite
penali, e fatto proprio dai molti giudici a quibus. Velleitaria, in tali condizioni, sarebbe
stata un’interpretativa di rigetto priva di effetti erga omnes: il Giudice delle leggi non fa
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accademia, semmai annulla norme illegittime, restituendo così la disposizione a una pos-
sibile lettura conforme a Costituzione.
È la logica della dottrina del diritto vivente (T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzio-
nale e teoria dell’interpretazione, in Rivista di diritto processuale, 1957, pp. 351 ss.) che così
s’impone sull’altrimenti onnivoro criterio dell’interpretazione costituzionalmente orien-
tata, oramai retrocesso da requisito di ammissibilità a questione che attiene al merito
della controversia (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 262/2015, 44, 95 e 240/2016). Anche guardata
dal lato delle regole del processo costituzionale, la sentenza n. 32/2020 conferma tutta la
sua ricchezza di senso.
Come annunciato da un comunicato stampa in data 11 gennaio 2020, «la Corte si apre
all’ascolto della società civile». Si tratta di un obiettivo che la Corte realizza attraverso
alcune modifiche delle proprie Norme integrative (sulle quali P. Ridola, La Corte si apre
all’ascolto della società civile, in federalismi.it, 2020; A. Schillaci, La «porta stretta»: qualche
riflessione sull’apertura della Corte costituzionale alla «società civile», in diritticomparati.it,
2020). Il baricentro dell’intervento è costituito dall’introduzione dell’istituto dell’amicus
curiae, anche se il mini-pacchetto di modifiche si compone di ulteriori novità. L’art. 4-ter
ammette la possibilità, per «le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istitu-
zionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità»,
«di presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta». La seconda innovazione
riguarda la possibilità di disporre che «siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita
adunanza in camera di consiglio» quando si ritenga «necessario acquisire informazioni
attinenti a specifiche discipline» (art. 14-bis, N.I.). Altra modifica riguarda infine la disci-
plina degli interventi in giudizio (artt. 4 e 4-bis).
Cominciando da quest’ultima, essa per un verso contiene una novità e, per altro verso,
recepisce una disciplina già introdotta dalla Corte nel 2018 (con Istruzioni e direttive
del Presidente). Sul primo punto l’art. 4, anziché limitare il vaglio di ammissibilità agli
«eventuali interventi di altri soggetti», lo estende a tutti gli interventi, compresi quelli del
Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Giunta regionale. In dottrina
si è apprezzata tale novità nella misura in cui essa potrebbe dare la stura ad una rivisita-
zione dell’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri (C. Tani, La svolta Cartabia.
Il problematico ingresso della società civile nei giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale,
in lacostituzione.info, 2020). Se tale esito può essere auspicabile, permangono dubbi sulla
modalità di innesco di esso. Ci si è interrogati in dottrina sulla natura di tale intervento,
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giungendo a diverse conclusioni a fronte di una prassi non univoca. Il ruolo del Presi-
dente del Consiglio riflette in definitiva «un interesse istituzionale alla “funzionalità”
dell’ordinamento» per usare la felice espressione di A. Cerri (Giustizia costituzionale,
Napoli, Editoriale scientifica, 2019, p. 160). Il fatto è che tale funzione conosce diverse
declinazioni, alcune meritevoli di apprezzamento, altre di critica. Come critiche si sono
levate nei confronti dell’unidirezionalità dell’intervento del Presidente del Consiglio, ta-
lora temperata attraverso casi di non costituzione in giudizio, oppure mitigata dal ricorso
all’interpretazione adeguatrice. La giurisprudenza dirà se il vaglio di ammissibilità svolto
dalla Corte sarà in grado di modificare una prassi dell’Avvocatura dello Stato che, oltre ad
essere radicata nel costume giudiziario, è espressione di una scelta politica del Governo.
Sul fatto che tale opzione di fondo, che ha nel bene e nel male connotato l’istituto dell’in-
tervento del Presidente del Consiglio, possa essere «influenzata», o «conformata», dal sin-
dacato della Corte in punto di ammissibilità dell’intervento stesso, si potrebbero nutrire
dubbi. Una maggiore ponderazione (per usare le parole di M.S. Giannini) degli interventi
del Presidente del Consiglio dei ministri, e/o dell’Avvocatura, dovrebbe forse partire dagli
stessi organi interessati, più che essere in qualche misura «indotta» dalla Corte.
Un’ulteriore norma è dedicata all’accesso degli intervenienti agli atti processuali (art.
4-bis). In disparte del fatto che qui si torna a distinguere tra intervento delle parti pub-
bliche e intervento di altri soggetti, si dispone che l’accesso agli atti di causa debba essere
subordinato ad una positiva delibazione sull’istanza di intervento. Si tratta di una norma
che recepisce una direttiva presidenziale del 2018 volta ad impedire l’accesso agli atti del
soggetto interveniente anteriormente alla delibazione di ammissibilità. È una regola che
vale sia nel processo civile che amministrativo quella secondo cui il soggetto che chiede
di intervenire, a qualsiasi titolo ciò accada, possa accedere agli atti di causa solo a seguito
della decisione che si pronunci per l’ammissibilità dell’intervento. Dato che il processo
costituzionale si esaurisce di norma in un’unica udienza, va da sé che, se l’interveniente
avesse manifestato l’interesse a conoscere gli atti, la Corte avrebbe potuto decidere sul
punto antecedentemente all’udienza fissata per la decisione. Forse non era necessaria una
norma per ribadire un dato scontato, l’impossibilità di accedere agli atti prima della deli-
bazione sulla ammissibilità dell’intervento, e per prevedere ciò che costituiva una via già
praticabile, la decisione sull’intervento anticipata rispetto alla decisione sul merito. Tutto
sommato una modifica di non ampio respiro, non certo impropria, ma non probabilmente
indispensabile alla luce dei principi processuali comuni e della possibilità di risolvere la
questione in via giurisprudenziale.
La seconda modifica consiste nella possibilità per taluni soggetti di presentare alla
Corte opinioni scritte. Si tratta dell’introduzione nel nostro sistema dell’istituto dell’ami-
cus curiae. Si può condividere l’opinione secondo cui tale istituto è funzionale a connet-
tere l’organo di giustizia costituzionale con le istanze pluralistiche tipiche delle società
contemporanee (P. Ridola, op. cit.). Per questa via molte voci della società civile potreb-
bero trovare eco davanti alla Corte. Se da una parte si tratta di voci che possono arricchire
il materiale a disposizione del Giudice delle leggi, è del tutto imprevedibile l’impatto che
l’istituto di nuovo conio avrà nella prassi, attesa anche l’estraneità di esso rispetto alla
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nostra tradizione. Se un apporto di «voci» dall’esterno può non essere inutile nel processo
decisionale, va osservato che tale ingresso può esporre la Corte a qualche forma di con-
dizionamento, a seconda del peso specifico dei soggetti che tali opinioni presentano, re-
plicando una dissimmetria di fondo tra istanze sociali pur egualmente presenti nel Paese
ma diversamente rappresentate. Ciò a tacere del fatto che la nostra Corte, attraverso la
sensibilità dei propri Giudici, non è mai stata sorda alle istanze della società civile, e ha
cercato di interpretarle con prudenza, facendo sì che esse potessero avere il giusto peso
nel processo decisionale solo quando ne fosse appurata la penetrazione nel tessuto della
società nel suo insieme. Sull’acquisizione di tali opinioni decide il Presidente, «sentito il
giudice relatore», quando esse offrano «elementi utili alla valutazione del caso, anche in
ragione della sua complessità» (art. 4-ter). La valutazione dell’utilità dell’opinione, in rela-
zione alla sua complessità, disvela una latitudine di apprezzamento di non poco momento
che, a differenza di quanto avviene per l’istruttoria in senso stretto e per l’audizione di
esperti, non spetta alla Corte nella sua interezza, ma al suo Presidente.
L’ultima modifica prevede la possibilità di audizione di esperti, nel caso la Corte
«ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline». Di questa
possibilità la Corte si è già giovata con l’ordinanza del 27 febbraio 2020 (reg. ord. n. 167
del 2019) in relazione ad una controversia avente ad oggetto alcune disposizioni della l.
n. 205/2017 riguardanti l’accesso a posizioni dirigenziali nell’ambito dell’Agenzia delle
entrate. Sono sospettate di illegittimità le norme che istituiscono posizioni organizzative
«per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità» in capo a impiegati sprovvisti
della qualifica dirigenziale in violazione delle regole costituzionali del concorso pubblico.
Le stesse disposizioni attribuiscono all’Agenzia il potere di disciplinare l’accesso alla
qualifica dirigenziale anche attraverso l’esonero dalle prove preselettive di candidati
dipendenti dall’Agenzia. Il sistema congegnato è censurato anche per possibile contrasto
con l’art. 136 Cost. (cfr. sent. n. 37/2015). In questo contesto la Corte «ritiene di dover
acquisire ulteriori e specifiche informazioni in relazione alle esigenze organizzative delle
agenzie fiscali, alle mansioni assegnate al personale e alle modalità di selezione dello
stesso, con particolare riferimento a presupposti e ricadute della introduzione delle cosid-
dette posizioni organizzative di elevata responsabilità» (ord. 27 febbraio 2020).
Non si può in questa sede entrare nel merito della questione da cui muove la richiesta
di audizione di esperti. Solo alcune considerazioni. a) I dubbi che ruotano attorno alla
disposizione sopra citata sembrano configurare questioni giuridiche in senso stretto, come
si desume dai meccanismi che disegnano e dai principi costituzionali evocati, che ruotano
attorno alla disciplina dell’accesso al pubblico impiego. b) Che le problematiche sul tap-
peto consistano in questioni giuridiche, e quindi rimandino al principio iura novit curia, è
dimostrato pure dal fatto che analoghe questioni sono state oggetto di decisione da parte
della Corte con la sentenza n. 37/2015, la quale ha dichiarato incostituzionali norme che
più di qualche assonanza sembrano avere con quelle censurate. c) Ferma restando la
non del tutto perspicua formulazione dei quesiti proposti agli «esperti», resta il fatto che
essi avrebbero potuto essere oggetto di una richiesta istruttoria ai sensi dell’art. 12 N.I.
(indirizzata al Ministro dell’Economia e delle Finanze). Ciò non solo avrebbe indotto
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Commenti
Sembra incredibile per chi conosca un minimo la materia, ma nell’Italia degli anni
Duemila c’è stato bisogno di impegnare tre gradi di giudizio per giungere ad affermare
un’ovvietà: sostenere che Dio non esista e propagandare l’attività delle associazioni che
rappresentano chi nega l’esistenza della categoria del divino (o si disinteressa della sua
esistenza), nel nostro ordinamento costituzionale, è non solo pienamente legittimo, ma
anche un vero e proprio diritto che discende dall’art. 19 della Costituzione al pari della
situazione inversa, cioè quella di chi ne afferma l’esistenza e propaganda l’attività delle
varie confessioni religiose.
Il caso da cui ha avuto origine il contenzioso risale al 2013, quando l’Unione degli atei e
degli agnostici razionalisti, che nell’ultimo ventennio con le sue campagne e le sue iniziative
ha dato modo alle giurisdizioni superiori (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti
dell’uomo, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato) di esprimersi su moltissimi problemi di
diritto ecclesiastico – a riprova del fatto che ateismo e religione rappresentano «una unità
dialettica indissolubile» cui deve conseguire «una sostanziale unità di regolamentazione
giuridica» (C. Cardia, Ateismo e libertà religiosa, Bari, De Donato, 1973, p. 17) –, promosse
una iniziativa pubblicitaria riguardante la propria attività espressa in forma sintetica su
manifesti che presentavano la seguente dicitura: «Dio», con la «D» barrata da una crocetta
che faceva residuare «io», cui seguiva sotto «10 milioni di italiani vivono bene senza D.
E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco», con in basso a destra il simbolo
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Note e commenti
dell’associazione. Non vi è chi non veda il significato univoco del messaggio espresso in
forma sintetica come vogliono le campagne pubblicitarie efficaci: Dio non esiste, o quanto
meno non interessa interrogarsi sulla sua esistenza, si può vivere bene pur senza la sua
presenza e, se si pensa di subire discriminazioni in virtù della propria non credenza in Dio,
l’UAAR viceversa esiste ed è pronta ad apprestare assistenza legale. Campagna pubblicita-
ria dunque, con la quale si esprime un’opinione e una visione dell’esistenza e con la quale,
ovviamente, si cerca di propagandarla e di far crescere il numero degli associati.
A fronte di ciò il Comune di Verona negò l’autorizzazione all’affissione sulla base
del «contenuto della comunicazione potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi
religione» e il giudice di primo grado, adito ex 702-bis c.p.c., in maniera piuttosto scon-
certante rigettò la domanda di accertamento della condotta discriminatoria del Comune
con una paginetta sostanzialmente priva di motivazione che si concludeva con questo
inciso: «Questo parere negativo all’affissione non può ritenersi discriminatorio nel senso
sopra precisato, perché, lungi da una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza ba-
sata sulla religione, ha semplicemente valutato un profilo di opportunità sul contenuto
formale del messaggio, sul suo linguaggio e tenore letterale, non certo sulla possibilità di
far valere le posizioni della società istante in ordine alle proprie convinzioni in materia
di religione» (Tribunale di Roma, II sez. civile, ordinanza del 17 dicembre 2015). A parte
il fatto che l’UAAR non è una società, ma un’associazione, sostanzialmente il giudice
assegnava alla pubblica amministrazione il potere di sindacare per ragioni di opportunità
e non di legittimità la libera manifestazione del pensiero.
Lo sconcerto, purtroppo, non terminava nemmeno leggendo la decisione in se-
condo grado: nella sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1869 del 2018 non vi era
traccia della riflessione dottrinaria e giurisprudenziale – che ogni giudice potrebbe e
dovrebbe facilmente conoscere già solo sulla base di un qualsiasi manuale di diritto ec-
clesiastico – che ormai da tempo immemore ha spazzato via le ricostruzioni degli anni
Cinquanta del Novecento, quando Agostino Origone poteva sostenere che l’art. 19 della
Costituzione, proteggendo esplicitamente il sentimento religioso, avrebbe reso l’ateismo
attivo illecito perché, appunto, la propaganda ateistica avrebbe comportato un attentato
al bene giuridico protetto dalla disposizione (A. Origone, La libertà religiosa e l’ateismo,
in Annali Triestini, sez. I, vol. XX, 1950). Nella decisione non leggiamo per la verità espli-
citamente quella posizione, ma i distinguo su cui cerca di basarsi la riecheggiano: si può
propagandare l’ateismo ma solo con misura e solo in un certo modo. Infatti, sottolineava
la Corte, «detto contenuto non si caratterizza per alcun messaggio propositivo da parte
di UAAR in favore dell’ateismo o dell’agnosticismo o più in generale in favore di valori
dalla stessa propugnati; bensì assume un unico ed uniforme connotato di negazione della
fede religiosa». Come a dire che affermare che Dio non esista, e che si possa vivere bene
lo stesso nonostante questo, non sia un valore propugnabile, ma solo un’insidia alla fede
altrui. L’effetto che se ne ricava è dunque il medesimo delle posizioni di Origone: sot-
toporre la propaganda ateistica a censura. La decisione era tutta giocata sul non ricom-
prendere tale messaggio sotto il concetto di propaganda: «i manifesti non contenevano
alcuna propaganda a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo, né essa si poteva in alcun
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Commenti
modo desumere dalla cancellatura della lettera “D” dalla parola “Dio”». Quindi, insidia
della fede altrui, gratuito fastidio irrogato ai credenti, questa sarebbe stata l’intenzione
del messaggio e questo non rientrerebbe nel diritto di fare propaganda. Con uno svarione
finale, come se la propaganda ateistica trovasse protezione nell’art. 21 e non nell’art. 19
Cost., si riconduceva la posizione giuridica dell’UAAR all’art. 21, posizione che avrebbe
dunque trovato nel bene giuridico protetto dal 19 – cioè il credo religioso, nella ricostru-
zione del giudice – un limite: «come ogni forma di libera manifestazione del pensiero,
si tratta di una libertà esercitabile nel rispetto delle altrui libertà di credo ed è limitata
proprio dal divieto di sminuire, svilire, se non proprio deridere l’altrui credo».
A fronte di queste decisioni patentemente erronee e motivate senza alcun riferimento
alla giurisprudenza costituzionale ormai risalente e saldamente consolidata in materia di
libertà religiosa è toccato alla Corte di Cassazione riportare un po’ d’ordine con l’ordi-
nanza n. 7892 del 2020 (il testo da cui sono tratte le citazioni successive è disponibile in
https://www.olir.it/wp-content/uploads/2020/04/Allegato2_Ordinanza.pdf) che ha cassato
con rinvio la decisione della Corte d’Appello. La decisione della Suprema Corte si basa,
come sarebbe ovvio aspettarsi da qualsiasi giudice della Repubblica, innanzitutto sulla
ricostruzione della giurisprudenza della Corte costituzionale; dalla stessa si evince con
chiarezza e certezza che le posizioni dottrinali e giurisprudenziali che radicavano la tutela
dell’ateismo e dell’agnosticismo (quando non negavano in toto tutela agli stessi) nell’art.
21 Cost., sono state totalmente smentite da un buon quarantennio: a partire dalla sent. n.
117 del 1979 – ignorata non si sa se per colpa o per dolo nei primi due gradi di giudizio – la
giurisprudenza costituzionale «leggendo in combinato disposto la norma dell’art. 19 Cost.
con quelle di cui agli artt. 2 e 3 Cost. – ha preso l’avvio dalla considerazione che la tutela
della c.d. “libertà di coscienza dei non credenti rientra nella più ampia libertà in materia re-
ligiosa assicurata dall’art. 19 Cost. e dall’art. 21 Cost. (libertà di opinione religiosa del non
credente intesa quale manifestazione del pensiero), da intendersi anche in senso negativo,
escludendo il nostro ordinamento costituzionale ogni differenziazione di tutela della libera
esplicazione sia delle fede religiosa sia dell’ateismo» (p. 7). La posizione del giudice delle
leggi è stata poi precisata ulteriormente dalla sent. n. 334 del 1996 – altra decisione igno-
rata dai giudici di grado inferiore – che ha desunto dagli artt. 2, 3 e 19 Cost. «il fondamento
della “libertà di coscienza” in relazione all’esperienza religiosa; diritto fondamentale che,
sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona
umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 Cost., e che, in quanto tale, spetta
ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici» (p. 7).
Poste queste premesse motivazionali, integrate dalle convergenti argomentazioni
ricavabili dalla giurisprudenza della Corte Edu, la Cassazione ha tratto due conseguenze
fondamentali: a) il diritto degli atei e degli agnostici di professare un credo che si traduce
nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa è tutelato «al pari e nella stessa misura
del credo religioso “positivo”»; b) dal diritto di professare il proprio convincimento ateo
o agnostico consegue «com’è del tutto evidente» la libertà di farne propaganda «nelle
forme che si ritengano più opportune», attesa l’ampia previsione dell’art. 19 Cost. (pp.
10 e 11).
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Note e commenti
Unico limite invocabile è la legge penale, non certo ragioni di opportunità: «la pre-
visione aperta e generica dell’art. 19 Cost. (“farne propaganda”) legittima le più diverse
forme di attività finalizzata – anche in forma critica, purché non si traduca, come di qui a
poco si dirà, in forme di aggressione o di vilipendio della fede da altri professata – al pro-
selitismo, ossia al procacciamento di nuovi adepti in tutti i modi leciti e possibili» (p. 11).
Il cenno al limite costituito dall’art. 403 c.p. (Offese a una confessione religiosa mediante
vilipendio di persone), in realtà, meriterebbe qualche annotazione critica stante soprat-
tutto la posizione della Suprema Corte penale nell’interpretazione dello stesso – richia-
mata da questa decisione – che pone diversi problemi di compatibilità della legge penale
con gli artt. 3, 19 e 21 Cost., non foss’altro perché non tutela in maniera paritaria, come
richiesto da quest’ordinanza, il sentimento religioso e quello areligioso (nello stesso senso
J. Pasquali Cerioli, «Senza D». La campagna UAAR tra libertà di propaganda e divieto di
discriminazioni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (www.statoechiese.it), 9, 2020,
p. 52). L’utilizzazione dei reati di vilipendio del sentimento religioso, per come sono a oggi
interpretati dalla Cassazione penale, rischia infatti di riportarci al punto di partenza, cioè
alla censura della propaganda areligiosa.
La Cassazione conclude poi il suo iter bacchettando i giudici dei primi due gradi di
giudizio anche sotto un altro profilo, ossia la ricostruzione del concetto di discriminazione
vietata nel nostro ordinamento: essa, per essere rilevabile, non ha bisogno che nello stesso
contesto temporale siano riscontrabili condotte che viceversa favoriscano qualcun altro;
«anche l’avvenuta concessione in passato, nonché la futura, eventuale, concessione di
detti spazi esclusivamente ai seguaci di religioni “positive”, mentre gli stessi sono negati
ad un’associazione che intende pubblicizzare un’opzione religiosa “negativa”, vale senza
dubbio ad integrare – nell’ottica di tutela a largo raggio, perseguita dal legislatore euro-
peo, della pari libertà di coscienza, anche di quella dei sostenitori di un credo laico – una
palese discriminazione in danno di questi ultimi» (p. 18). Una bocciatura, dunque, sotto
ogni profilo, di decisioni tecnicamente imbarazzanti che celano o una profonda igno-
ranza della materia, o un pregiudizio anti-ateistico cui piegare il diritto vigente (o, forse,
entrambe le cose).
L’art. 57, rubricato «Pari opportunità», del d.lgs. n. 165/2001, dispone, senza possibilità
di equivoci ermeneutici, che «le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari op-
portunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro: a) riser-
vano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente
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Commenti
delle commissioni di concorso» (comma 1), fermo restando il rispetto del requisito della
comprovata competenza. Si tratta di una disposizione legislativa che s’inserisce nella pro-
gressiva e tormentata concretizzazione del principio di parità d’accesso ai pubblici uffici,
anche sotto il profilo dell’uguaglianza sostanziale, costituzionalizzato nell’art. 51, comma
1, Cost. (con l. cost. n. 1/2003). In sintesi, un obbligo di riservare alle donne un terzo dei
posti nelle commissioni di concorso, volto a garantire le pari opportunità e ad agevolare
indirettamente l’accesso delle donne al lavoro pubblico.
Sono quindi rilevabili almeno tre dimensioni della quota: a) una dimensione ogget-
tiva, un interesse dello Stato-comunità alla garanzia delle pari opportunità nell’«accesso
al lavoro», che la quota sarebbe in grado di garantire; evidentemente tale logica si fonda
sul presupposto che una commissione in cui vi sia almeno un terzo di donne sia uno
strumento idoneo ad agevolare il suddetto risultato. La Corte costituzionale (ord. n.
39/2005) ha già dichiarato manifestamente inammissibile una questione sollevata dal
Consiglio di Stato (sez. V, ord. 13.1.2004, n. 50), sulla previsione (identica, contenuta nel
previgente art. 61, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 29/1993) dell’asserito privilegio accordato
al genere femminile, poiché l’ordinanza di rimessione non aveva tenuto conto, sotto il
profilo motivazionale, proprio dell’avvenuta modifica dell’art. 51 Cost., la cui nuova
formulazione costituisce una specificazione dell’art. 3, comma 2, Cost., assegnando «ora
alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e
uomini»; b) una prima dimensione soggettiva, ossia un interesse materiale della stessa
aspirante commissaria a essere nominata e quindi a prendere parte a un processo de-
cisionale in senso lato, rectius, all’esercizio di un potere pubblico (in senso conforme
alla Racc. CEE n. 84/635, par. 4); c) una seconda dimensione soggettiva, intimamente
relazionata a quella oggettiva, ossia un interesse materiale della candidata all’accesso
al lavoro. Queste tre dimensioni sono simultaneamente connesse all’attuazione non sol-
tanto degli artt. 3 e 51 Cost. (sia quindi in senso ordinamentale che individuale, sul lato
della commissaria e della candidata), ma anche dell’art. 97 Cost. («sotto il profilo della
migliore funzionalità ed equilibrio sia della commissione giudicatrice sia dell’Ufficio nel
quale il vincitore lavorerà, visto che organi squilibrati nella rappresentanza di genere
[...] risultano [...] potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti
dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato. [...] soltanto
l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi [...]
garantisce l’acquisizione [...] alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel
patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e professionalità, che assume una
articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità di genere»; così,
in modo suggestivo, TAR Lazio 25.7.2011, n. 6673).
Ciò posto, sono quindi enucleabili due situazioni giuridiche soggettive, corrispon-
denti alle dimensioni b), c), posto che alla dimensione a) corrisponde un interesse di
fatto della comunità alla legittima composizione delle commissioni, non processual-
mente tutelabile. Più specificatamente si tratta, quanto al profilo b), dell’interesse legit-
timo dell’aspirante commissaria a essere presa in considerazione ai fini della nomina,
e, quanto al profilo c), dell’interesse legittimo della candidata a essere valutata da una
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Commenti
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Note e commenti
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alla Giunta Elettorale Provinciale di Barcellona di dichiarare vacante il suo seggio, il quale
avrebbe dovuto essere attribuito al candidato successivo della lista Junts per Catalunya.
Come prevedibile, Quim Torra ricorreva dinanzi alla Sala del contenzioso-ammi-
nistrativo del Tribunale Supremo chiedendo che venisse sospesa in via cautelare la
decisione della Giunta Elettorale Centrale del 3 gennaio. Nell’Auto del 23 gennaio il
Tribunale rigettava il ricorso, affermando come non sussistessero dubbi sulla legittimità
costituzionale degli articoli contestati in materia di ineleggibilità e incompatibilità, e
come le accuse di una «supuesta actuación intempestiva, sesgada [prevenuta], indebida o
parcial» formulate contro la Giunta Elettorale Centrale fossero «claramente inconsisten-
tes». Il Tribunale, inoltre, rispondendo alla pretesa mancanza di competenza della Giunta
Elettorale Centrale a pronunciarsi sulla questione, evidenziava che, pur trattandosi di
una questione contradditoria, tale Giunta si presentava prima facie come l’organo ad hoc
competente in materia. Il Tribunale si preoccupava di segnalare, infine, come in ogni caso
esso si trovasse nella condizione di pronunciarsi nel merito di tutte queste questioni en-
tro un termine ragionevole. Alla luce di tale Auto del Tribunale Supremo con cui veniva
negata la richiesta di sospensione in via cautelare, la Giunta Elettorale Centrale ordinava
al Presidente del Parlamento catalano di dare immediata attuazione alla decisione da essa
adottata il 3 gennaio. Il 27 gennaio Roger Torrent decideva di rispettare tale ordine pri-
vando Torra del suo seggio da deputato, ma già pochi giorni dopo, il 5 febbraio, il plenum
del Parlamento esperiva un nuovo ricorso alla Sala del contenzioso-amministrativo del
Tribunale Supremo contro la decisione della Giunta.
Sono due le principali questioni giuridiche su cui vale la pena riflettere. La prima
riguarda l’individuazione dell’organo competente a pronunciarsi sulla ineleggibilità so-
pravvenuta di Torra. Da un lato, sia la Giunta Elettorale Provinciale di Barcellona sia la
Giunta Elettorale Centrale hanno sancito la propria competenza in materia. Quest’ultima,
nella decisione del 3 gennaio 2020, ha infatti evidenziato che «le incompatibilità funzio-
nali rientrano nell’ambito parlamentare e sono di competenza del Parlamento, mentre
l’incompatibilità per ineleggibilità è propria dell’ambito elettorale ed è di competenza
dell’amministrazione elettorale». Nell’opinione dissenziente (voto particular discrepante)
alla decisione della Giunta Elettorale Centrale, invece, è stata ritenuta fondata l’argo-
mentazione sostenuta da Torra secondo cui l’organo competente a pronunciarsi sul punto
sarebbe il Parlamento catalano. Dopo aver fatto riferimento a pronunce della Giunta stessa
e del Tribunale costituzionale che fungerebbero da precedenti, i sei membri dissenzienti
della Giunta Elettorale Centrale hanno richiamato l’art. 6.4 della LOREG («Le cause di
ineleggibilità lo sono anche di incompatibilità [...]»), ed hanno sottolineato come la legge
non attribuisca mai espressamente all’amministrazione elettorale (e dunque alla Giunta
Elettorale Provinciale di Barcellona e alla Giunta Elettorale Centrale) il potere di dichia-
rare la decadenza di un parlamentare in seguito ad una sua incompatibilità sopravvenuta,
mentre sia la LOREG sia lo stesso Regolamento del Parlamento della Catalogna attribu-
iscono al plenum della Camera la facoltà di decidere nei casi di incompatibilità. Anche il
Tribunale Supremo, nell’Auto del 23 gennaio 2020, si è espresso sul punto. Sebbene esso
abbia ritenuto, come accennato in precedenza, che l’individuazione dell’organo competente
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Note e commenti
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Commenti
sua precaria condizione politica, inoltre, contribuisce a rendere ancora più complesso il
tavolo negoziale da poco inaugurato con Madrid relativamente alla questione territoriale.
Il cammino verso una «normalità istituzionale in Catalogna» (De Miguel Bárcena, cit.)
pare insomma decisamente in salita.
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Note e commenti
catalano Roger Torrent, esponente di ERC, di procrastinare ogni decisione sul punto.
Altrettanto inevitabile, però, l’intervento dell’autorità giudiziaria che ha infine preteso la
destituzione di Torra da deputato, pur riconoscendo in capo al solo Parlamento il potere
di sollevare l’attuale Presidente della Generalitat dal suo incarico.
Fin qui i fatti, anche se il finale della vicenda resta ancora tutto da scrivere, sia sul
piano politico-istituzionale che su quello giuridico. Difficile, in primo luogo, valutare
quale sarà l’impatto, sul piano nazionale, determinato dalla destituzione di Torra, ora
che la coalizione tra ERC e JxCat, scossa dal contrasto Torra-Torrent, sta cedendo e la
Catalogna si avvia a celebrare nuove elezioni, non appena possibile. Problematico, altresì,
prevedere le possibili evoluzioni sul piano giuridico, che restano legate, sostanzialmente,
all’esito del ricorso che nei primi giorni di febbraio Quim Torra ha presentato al Tribunal
Supremo spagnolo avverso la sentenza del TSJC, lamentando di essere sottoposto a un’in-
debita persecuzione motivata da ragioni politiche. Se il TS non vorrà entrare nel merito,
per Torra si apre la possibilità di rivolgersi immediatamente alla Corte Edu, non essendo-
gli stato concesso un secondo grado di giudizio a tutela dei propri diritti; se, al contrario,
il TS deciderà di esprimersi nel merito, verosimilmente la sentenza non sarà depositata
prima che siano trascorsi nove mesi. In un caso come nell’altro, per la Catalogna si apre
un lungo nuovo periodo di stallo istituzionale in cui difficilmente il Parlamento si pronun-
cerà sulle sorti della sua Presidenza, mentre la tensione politica sarà destinata a crescere
inesorabilmente anche in vista della prossima campagna elettorale nella comunità.
È complicato fare previsioni. Forse anche sostanzialmente inutile. In fin dei conti
siamo davanti a uno scenario che come negli anni passati continua, in forma autistica, a
restare prigioniero delle proprie dinamiche senza avere la capacità o la volontà di rom-
perle e intraprendere una strada nuova. In questo caso, come nei precedenti capitoli di
questa saga di cui non si vede la fine, ancora una volta è demandato alla giustizia dire
l’ultima parola, mentre la politica scaramuccia. Quel che sarà, per ora, sta al TS dirlo. Se
non basterà, in ultima istanza interverrà il Tribunale costituzionale o la Corte Edu. Un
copione che si ripete e che, a ben guardare, mostra le ragioni profonde di una crisi che
da grave è divenuta gravissima; da gravissima, ingestibile (a tratti incomprensibile...) e
rispetto alla quale bisognerebbe adoperarsi per invertire la rotta, prima che da ingestibile
si trasformi in irreversibile.
A partire dalla sentenza n. 31/2010, con cui il Tribunale costituzionale spagnolo è inter-
venuto pesantemente a ridefinire i confini dello Statuto catalano, abbiamo assistito a un av-
vicendarsi frenetico di corsi e ricorsi alla giustizia costituzionale e ordinaria e a un frenetico
inseguirsi di pronunce giudiziarie che hanno dettato l’agenda politica non solo della Cata-
logna, ma, invero, dell’intera Spagna. Preferendo un atteggiamento di chiaro attendismo, le
istituzioni spagnole hanno via via demandato al potere giudiziario la soluzione di spinose
controversie dimenticando che sul piano costituzionale il diritto, quando è orfano della
politica, smarrisce la direzione e cessa di essere strumento di organizzazione e integrazione
della società, nonché mezzo per la gestione dei conflitti. Hanno dimenticato, altresì, che di
fronte al montare di fenomeni di indipendentismo, soprattutto se di matrice populista, la
risposta che proviene dalla sola giustizia non sempre è compresa nelle sue ragioni più pro-
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Commenti
fonde ed è per questo respinta, in quanto avvertita come priva di legittimazione e spesso in
opposizione con un preteso volere popolare oppresso. Dal 2010 ad oggi in Spagna, per quel
che concerne la questione catalana, si è assistito al progressivo arretramento della politica e
all’avanzare del diritto, finanche di quello penale. Si è detto, così, a più riprese che l’assenza
della politica è stata determinata, sin dall’inizio, dalla mancanza di uno spazio per il dialogo,
quasi che la dimensione del confronto politico costituisse un presupposto e non il prodotto
faticosamente ottenuto mediante l’attivazione e l’implementazione di politiche del ricono-
scimento e della mediazione. Si è detto, inoltre, che i toni alti dell’una o l’altra parte non
hanno permesso l’avvio di alcuna trattativa: così facendo, però, si è confuso il piano dello
slogan politico-elettorale con quello del linguaggio proprio del contraddittorio capace di
condurre al compromesso, che è essenza della democrazia pluralista.
Quel che è vero è che la crisi catalana è figlia di un convergere di concause: alcune
legate a contingenze di natura nazionale, come le trasformazioni profonde che, negli
ultimi anni, hanno interessato il sistema dei partiti spagnolo, che frammentandosi ha, di
fatto, neutralizzato il potere dei partiti regionali negli equilibri del governo centrale, ini-
bendo la loro capacità contrattuale; talune di portata internazionale, come la grave crisi
economico-finanziaria che ha investito a livello globale le liberal-democrazie occidentali
a partire dal 2008; altre di natura prettamente locale, con profonde radici nel tempo.
In Catalogna, in effetti, i risultati di un processo di nazionalizzazione della società, da
decenni avviato dai partiti locali, anche attraverso un deciso intervento nel sistema dell’i-
struzione, è divenuto un utile diversivo quando si è trattato di dover distrarre lo sguardo
degli elettori dalla politica domestica corrotta e non del tutto all’altezza delle aspettative.
Certo, ora non può che essere il tempo dell’attesa: i toni sono troppo alti ed episodi
giudiziari come quello della destituzione di Torra non favoriscono certo lo stabilizzarsi di
un equilibrio da cui ripartire. Ma sarà opportuno che i tempi lunghi del sistema giudiziario
diventino tempi fertili della politica. Bene, dunque, che il Parlamento catalano non abbia
proceduto a rimuovere Torra dal suo ruolo di Presidente. Ciò ha permesso al Primo mini-
stro Sanchez (la cui nomina è dipesa anche dal suo impegno a intraprendere un dialogo con
il Governo catalano) di aprire un tavolo di confronto con le istituzioni catalane, inaugurato
lo scorso 26 febbraio. La strada è in salita e le soluzioni da adottare sul lungo periodo tutt’al-
tro che agevoli. Non è da escludersi, infatti, che la crisi sia così profonda da aver intaccato le
fondamenta stesse del sistema costituzionale spagnolo, del resto ormai da tempo sottoposto,
dal punto di vista dell’organizzazione territoriale, a un forte stress interpretativo.
Anche per questo, forse, nel lungo periodo la via della riforma costituzionale appare
auspicabile al fine non tanto di conservare l’integrità territoriale del paese, quanto di ri-
generare la sua unità sociale. Ma anche per questo bisognerà attendere; la Spagna, infatti,
si trova a vivere quel «paradosso della riforma costituzionale» già formulato in passato
da Gustavo Zagrebelsky: se da una parte, per far fronte ai gravi problemi di tenuta del
sistema che la stanno scuotendo, è nella necessità, senza assecondare ulteriormente la
sua atavica riluttanza alla revisione, di avviare un processo di riforma per affrontare in
maniera strutturale la sua crisi, dall’altra, proprio il livello raggiunto dalla crisi tanto sul
piano sociale che politico rende del tutto sconsigliabile, se non impossibile, avviare, per il
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Note e commenti
Constitutional crises are value crises. We should engage in a substantial debate about
the core values and principles in our polity in order to support the discourse on the pre-
sent episode of extraordinary events related to the emergency powers in Hungary. By
revealing the substantial political and philosophical disagreements, we have the chance to
observe the core values of democracies in a new light and to reassert them after verifying
the good they represent.
On March 11, 2020, the Hungarian Government declared «state of danger» on the
entire territory of the country in order to mitigate the consequences of the worldwide
pandemic caused by the coronavirus (Covid-19). There was relative agreement among
the general public that special measures are needed in order to protect the lives and the
health of the citizens. Yet, the Act No. XII of 2020 on the protection against the coronavi-
rus (the Act), adopted by the Parliament on March 30, 2020, has stirred up harsh criticism
because of the unlimited powers granted to the Government. While more and more de-
tails gain international attention, the Hungarian government and its sympathizers refer to
the overall success in handling the crisis, such as in the relatively low number of Covid-19
patients (roughly 2800 confirmed patients and around 312 deaths as of April 30), a great
increase in testing (thirty thousand tests to be done starting from the last week of April),
and the introduction of perhaps the biggest government action plan in Hungary’s modern
history for revitalizing the economy.
There is a great polarization between the diverging opinions. On the one hand, critics
call for implementing the strictest international measures against the rising totalitarian-
ism that has given Orbán «fully-fledged dictatorial powers» (K.L. Scheppele, Orban’s
Emergency, in Verfassungsblog, March 29, 2020). Members of the Hungarian administra-
tion, on the other hand, argue that the extraordinary measures are both constitutional,
as they balance the government’s powers with important checks, such as facilitating the
virtual sessions of the Constitutional Court, and necessary, as the end of the pandemic is
not foreseeable, therefore exceptional measures are needed for longer than in the case
of a simple flood.
414
Commenti
This is a debate in which our attitude to the discourse is just as important as our argu-
ments. Only when scholars and politicians remain open to be provoked both intellectually
and personally by the challenges posed by reality, we leave room for self-criticism, which
is a precondition to reassert or change our preconceptions. Only an open and truly free
debate is something worth defending and suffering for. This, however, does not mean that
we should not call things by their name, or that the discourse should not preserve its moral
character in the sense that it should always be directed towards the good of the individual
and its communities. This is why sheer power should never justify public decision-mak-
ing – notwithstanding that it tries to cloak itself under the color of law – it will always fail
to create a complete community necessary for a stable democratic government. Therefore,
in such a polarized situation, we should remain committed to a different stance: stop for
a moment, ask questions and raise those core moral and philosophical issues that we con-
sider to be threatened and explain the fundamental reasons why we still act upon them.
When reading the Act from the perspective of liberal constitutionalism, its provisions
will not escape the condemnation of «the horror of retrogression» (A. Vermeule, All
Human Conflict is Ultimately Theological, in Church Life Journal, University of Notre
Dame, July 26, 2019), as one could easily argue that it goes against principles such as
constitutionalism, rule of law, and division of powers. Even under strict tenets of classi-
cal constitutionalism, no power should be unlimited, neither on the formal positive level,
nor on the institutional-practical one. However, in a constitutional democracy that is
not liberal, sovereignty serves as the key concept and it has close ties to the incumbent
political power that rests on the majoritarian popular support; therefore, the vote of the
majority could legitimately push decisions in various different directions. Of course, there
are instances in which one will not find any sort of political philosophy behind a rule, but
a disguised abuse of power.
The question about which variant of democracy and constitutionalism one finds
worthwhile to support entails a value. Only by acknowledging this value choice, politi-
cal and legal decisions become fully intelligible – as well as their criticism. In turn, these
choices are not only made by the Prime Ministers and members of the Government, but
by public servants and simple citizens as well, who, through their diverse actions in the
end maintain and legitimize the legal system. Only by acknowledging this choice one can
begin to grasp, constructively discuss and vindicate the values that constitute a democracy.
We can see this choice in everyday policy decisions, but even in the seemingly irrele-
vant quarrels in European politics, such as the most recent confrontation between Donald
Tusk and Viktor Orbán. Alas, when Tusk asserted – critically – that Orbán is a disciple of
Carl Schmitt, he unwittingly offered an additional intellectual background to understand
the Hungarian politics behind linking the Hungarian PM with Nazism. Carl Schmitt was
indeed an arch-enemy of liberalism. In The Concept of the Political (1st ed., München,
Duncker&Humblot, 1932), «he elaborates the conception of sovereignty as the making
of decisions which concern the exception». Schmitt reasons in length how these decisions
are born in an essentially political space, outside of legality, where democracy and public
decisions are not measured by discussion, compromise or procedures of justification. He
415
Note e commenti
argues that this political space is the «realm of nature», an existential, ontological state
of affairs that is exempt from all justification. For Schmitt, «the political is the arena of
authority rather than general law», which requires sovereign decisions, acts that «have the
quality of referring only to themselves, as moments of “existential interventions”» (T.B.
Strong, Foreword: Dimensions of the New debate around Carl Schmitt, in The Concept
of the Political, Chicago, University of Chicago Press, 2007, p. xiv.). Schmitt fleshed out
a serious criticism to liberalism, which has shaped the opinion of key figures from both
intellectual traditions from the left and the right. Even these few lines should be enough
to identify important links with the nature of the Hungarian regime.
There have been several analyses published arguing the unconstitutionality of the
Act, so now I am going to mention only those issues that are important for the point to
be made here. One of the problems is that article 53 of the Hungarian Fundamental Law
is only applicable for events of «natural disaster or industrial accident», but not for a pan-
demic. Another argument alleging the unconstitutionality is that the Act permitted the
emergency decrees to suspend laws, regulations and introduce extraordinary measures «in
addition to» the ones set forth in the Act on the management of catastrophes. Finally, the
Act allowed the Government decrees to last «until the end of the emergency». All these
problems concern the constitutionality of the emergency measures in a strict sense. They
concern the basic rule of law principles of emergency powers, the Parliament’s duty to
limit the powers of the Government, or the relevant institutional guarantees to make sure
that the division of powers is effective in practice. As these guarantees are clearly missing,
and because the system of checks and balances is particularly weak in Hungary now, it is
practically the Government alone that has the decision in its hands. Therefore, the Act is
not in line with the basic principles of rule of law and constitutionalism.
From the political perspective of the Government, the Act is constitutional, because
it was born in a democratic procedure, and it received a proper authorization from the
Parliament to guarantee the efficiency of the Government in order to protect the life
and health of the citizens. The problem however is not simply with the Act in itself, but
with the context that surrounds it and how low our standards are for a «democratic pro-
cedure». There is very little to know for instance about the reasons why the Government
rejected the opposition’s attempts to find a compromise about the end of the emergency
powers, to grant alternative means of maintaining the sessions of the Parliament, or to
give the opportunity to the leaders of the opposition parties to initiate a procedure at the
Constitutional Court. Having failed to demonstrate that there was a serious debate based
on mutual respect about these measures, we are left with no other interpretation that
the Government abused its dominance and took the decision alone without meaningful
constraint. This practice, however, is not novel at all, nor it is the exclusive invention of
the last ten years only – it is unfortunately part of the lived experience since decades, as
it has been lamented in the national media, remembering the thirstiest anniversary of
the inauguration of Hungary’s first democratically elected Parliament after the change
of regime on May 2. This is why the solution could not come from simply invoking legal
principles that ordinary people do not care about.
416
Commenti
How should we react to these practices then? By engaging in the substantial moral
and debate about the fundamental values of our communities. Where there is an open
and honest quest for the good of the individual and the community, we should take part
in the underlaying political and philosophical debate. By doing so, we will find ourselves
engaging in a process of redefining and reasserting the value and meaning of law, rule of
law and the fundamental character of the reasons for our choices.
Over the last legislation periods, German Parliament again and again debated on sui-
cide assistance which in Germany was not, and indeed is not, prohibited. Following a so-
called orientation debate in November 2014, Bundestag intensely discussed four rivalling
motions concerning the legal framework of suicide assistance in July and November 2015.
One of them was an intergroup bill containing a criminal ban on suicide assistance as pro-
fessional services, i.e. as a recurring pursuit (geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung).
After earnest discussions across all parliamentary group barriers, this bill was accepted
with 360 out of 602 votes. The new section 217, subsection 1, of the German Criminal Code
read: «Facilitating suicide as recurring pursuit. Whoever, with the intention of assisting
another person to commit suicide, provides, procures or arranges the opportunity for that
person to do so and whose actions are intended as a recurring pursuit incurs a penalty
of imprisonment for a term not exceeding three years or a fine». The intention was not
to prohibit any suicide assistance but professionalised ones, i.e. the work of specialised
commercial or non-commercial suicide aides. The provision came into force in December
2015. Consequently, associations offering suicide assistance, persons with serious illnesses
seeking to end their lives with the assistance of such an association, physicians, and law-
yers advising on suicide-related matters filed constitutional complaints. In the meantime,
the Federal Administrative Court, in a controversial judgment of 2 March 2017, decided
that a person suffering from a severe and incurable disease has a right to acquire a lethal
dose of sodium pentobarbital to commit suicide. In April 2019, the Second Senate of the
Federal Constitutional Court held a two-days oral hearing.
In its judgment of 26 February 2020, the Senate held the provision unconstitutional
and void. The Senate perceived a violation of the general right of personality (art. 2.1) in
conjunction with art. 1.1 of the Basic Law guaranteeing human dignity and the free devel-
opment of personality. Those two rights read as follows: «Human dignity shall be invio-
lable. To respect and protect it shall be the duty of all state authority. Every person shall
have the right to free development of his personality insofar as he does not violate the
417
Note e commenti
rights of others or offend against the constitutional order or the moral law». The Court
found that the guarantee of human dignity encompasses the protection of one’s individu-
ality, identity and integrity. As an expression of personal autonomy, the general right of
personality encompasses a right to a self-determined death. This right is, according to the
Senate, not limited to situations defined by external causes like serious or incurable ill-
nesses, nor does it only apply in certain stages of life or illness. Rather, it is guaranteed in
all stages of a person’s existence. Moreover, according to the judgment, it extends to the
protection of support by third parties. Where the exercise of a fundamental right depends
on the involvement of third parties, and the free development of one’s personality is de-
pendent on the participation of another, that fundamental right also provides protection
from restrictions that take the form of prohibiting those third parties from offering, in the
exercise of their own freedom, such necessary assistance.
The indirect or factual encroachment on the right to commit suicide by the criminal
law provision requires constitutional justification. According to the Senate, sec. 217.1
Criminal Code makes it factually impossible for individuals to receive suicide assistance.
This interference is deemed to be particularly serious considering the fundamental sig-
nificance of the right to a self-determined death. Therefore, according to the Senate, the
interference is not justified under constitutional law. It is measured against the standard
of strict proportionality, i.e. the four-step test: legitimacy of purpose, suitability of means,
necessity of means and appropriateness of means (i.e. proportionality strictu sensu). While
the Senate assumes the legitimacy and suitability of the criminal provision and leaves its
necessity open, it denies the appropriateness of the ban on suicide assistance as profes-
sional services; the exemption of suicide assistance from criminal liability is, according to
the Senate, not at the legislator’s free disposal: the individual must still be afforded the
freedom to refuse life-sustaining treatments and to carry out a decision to end their own
life with the assistance of a third party. Therefore, the Court held that the prohibition
of assisted suicide services violates constitutional law because it fails to leave sufficient
space for the pursuit of autonomous self-determination. The provision effectively causes
the right to suicide to be largely vitiated.
At the end of the decision, the Senate adds that the legislator is not barred from
imposing rules on suicide assistance (e.g. procedural safeguards such as information
obligations or mandatory waiting periods) – but that they must aim at protecting the self-
determination of the individual so that sufficient space must remain for the individual to
exercise their right to a self-determined death. The Senate explicitly states that material
criteria such as an incurable or lethal sickness are illegitimate. In a further addition, the
Court points to the fact that irrespective of the individual’s right to suicide no one can
be obliged to assist in another person’s suicide. The Senate does not disclose the ratio of
votes with which the decision was taken. Contrary to some conjectures in the German
debate, this does not point to unanimity.
The judgment is highly controversial. In the words of the (then) President of the Ger-
man Ethics Council Peter Dabrock, it amounts to a disruption in our legal culture. And
indeed, the Court’s decision is disruptive both methodologically and in substance. The
418
Commenti
legislator’s margin of appreciation is mentioned but not given effect. By linking the right
to suicide to human dignity in the sense of art. 1 (1), the strict proportionality test entirely
absorbs the legislator’s wide margin of appreciation. Following the dissenting opinion of
Justice Hassemer in the decision on sibling incest (BVerfGE 120, 224), the Senate stresses
that to pursue the preservation of a societal consensus on values by way of criminal law
would, for the legislator, be an illegitimate objective. Even though (or rather, exactly
since) art. 1 and art. 2 are stake, the strict proportionality test is unconvincing and leaves
an aftertaste of judicial activism because any provision (or indeed regulatory omission) in
this field has to balance diverse interests in a multipolar fabric of concerns. Furthermore,
the reasoning of the decision is conspicuously deductive, the starting point being the Sen-
ate’s philosophical premises rather than the wording of the constitution. For instance, in
the attempt to describe the constitution’s notion of human beings (menschenbild), the
Senate stresses autonomy, self-determination and personal responsibility. Dignity seems
to consist in autonomy – a reasoning that is not easy to reconcile with the wording of
art. 1 and art. 2. The Constitutional Court’s famous formula «The constitution’s notion
of human beings is not that of an isolated sovereign an individual» dating back to 1954
is silently taken leave of. Referring to it might have challenged the Senate’s concept of
autonomy as the nucleus of human dignity. Similarly, the Senate bypasses the explicit con-
stitutional limits to the right to self-determination set out in art. 2.1 – i.e. rights of others,
constitutional order and the moral law (the latter admittedly being ignored in German
constitutional doctrine for decades) – by immunising autonomy through dignity.
In substance, the conceptualization of autonomy as the core of human dignity (some-
times misleadingly attributed to Kant) rests on contestable premises. The Senate’s philos-
ophy seems reductionist. It is tempting, especially for healthy and smart people, to think
that human dignity consists in autonomy. But might not human dignity equally consist in
an unpossessive concept of one’s life? And whatever the philosophical narrative might
be, why should the Senate’s be superior to Parliament’s? A second concern relates to the
content of the right to suicide: Given there is a constitutional right (guaranteed by art. 2
or even in conjunction with art. 1), what is its ambit? The Senate creates a far-reaching
positive right, stating that the right to suicide encompasses a guarantee that third parties
are not by law barred from assisting, or even the availability of assisted suicide services.
In a border case (in which no physician, family member, or association is willing to as-
sist), must the State render suicide assistance as a consequence of its constitutional duty
to protect this fundamental right? A closer look on the decision reveals that the Senate
not only stated the right to suicide but a right to suicide services. Thirdly, the legislator’s
objectives justifying the encroachment on the right to suicide are not taken seriously. The
purpose to hinder a societal normalization of assisted suicide services and to effectively
protect old, sick and/or weak persons are wiped away. Quite on the contrary, the Court
narrows the legitimate objectives for future legislation in a startling way.
The «broad spectrum of options» which the Senate placatingly grants to the legislator
boils down to symbolic instruments designed to protect the autonomy. The Senate’s ambi-
tion to shape the future provisions becomes clear in the astonishing final addition (hardly
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Note e commenti
necessitated by the case) that the physician’s professional regulations and potentially the
Narcotics Act must be modified and that material criteria such as a lethal sickness cannot
be part of a legitimate provision.
Franz Reimer è Chair for Public Law and Legal Theory presso l’Università di Giessen.
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Commenti
fine vita. Così ad esempio nel 2015 in Catalogna è stata approvata una Carta dei diritti
in campo sanitario, dove si specifica che «la persona ha diritto che il personale sanitario
renda disponibili medicine e trattamenti necessari per facilitare una morte degna e senza
sofferenze, sempre nel rispetto delle leggi». Allo scopo infine di approvare una norma-
tiva statale valida per tutto il Paese, il gruppo parlamentare Ciudadanos ha presentato il
16 dicembre 2016 una proposta di legge (decaduta per lo scioglimento anticipato delle
Camere) con la finalità di dare certezza al personale medico di fronte alla richiesta del
paziente di interrompere trattamenti anche vitali e di fissare le forme e le condizioni per
rendere possibili le dichiarazioni anticipate di fine vita.
Di maggiore impatto sociale ed attualità è la proposta di disciplinare le forme di euta-
nasia attiva. Un progetto in tal senso fu presentato durante il secondo governo Zapatero
(2008-2011); esso non ebbe successo, ma ottenne il risultato di aprire un dibattito nel
Paese, il quale è successivamente proseguito ed ha portato la maggioranza degli spagnoli
ad una valutazione favorevole alla regolamentazione dell’eutanasia. In tal senso il Centro
di investigazione sociologica ha rilevato che mentre nel 1989 il giudizio favorevole era del
58% degli intervistati, nel 2011 era salito al 77,5%, e uno studio elaborato nel 2019 dalla
Fondazione BBVA ha reso noto che 7 spagnoli su 10 sono favorevoli ad una disciplina
che riconosca ed autorizzi pratiche eutanasiche. Una prova di questa sensibilizzazione al
problema è stata, nel maggio 2019, la raccolta in poche settimane di un milione di firme,
fatte pervenire al Congresso dei deputati nel settembre successivo. In considerazione di
questo diffuso consenso, sono state presentate dal gruppo parlamentare socialista il 21
maggio 2018 ed il 30 luglio 2019 due proposte di legge organica di regolamentazione
dell’eutanasia; entrambe, dopo la presa in esame del Congresso dei deputati, sono deca-
dute per interruzione anticipata della legislatura.
Il 31 gennaio 2020 è stata presentata una nuova, analoga, proposta da parte del
gruppo parlamentare socialista e l’11 febbraio scorso il Congresso ha approvato la presa
in esame, a seguito di una discussione che ha avuto toni anche vivaci tra le parti contrap-
poste. A favore della proposta hanno votato 201 deputati, contro 140, con 2 astenuti. Tra i
favorevoli, anche Ciudadanos che ha quindi rotto il fronte di opposizione, mentre hanno
votato contro il partito popolare (PP) e Vox. La relatrice Carcedo ha ricordato la frase
pronunciata da Fernando Cuesta, che si era dovuto recare in una clinica svizzera per rice-
vere assistenza medica al suicidio: «chi vuole vivere, viva, però che lascino noi morire in
maniera degna»; e, con riguardo alla proposta di cure palliative del PP, ha osservato come
trattasi di fattispecie molto diverse.
La disciplina dell’eutanasia è contenuta in una proposta di legge organica (che ri-
chiede per l’approvazione il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti
del Congresso), dal momento che essa va ad incidere sull’esercizio di diritti fondamentali,
quali in particolare il diritto alla vita ed alla integrità fisica e morale. Tale proposta opera
in effetti un bilanciamento tra i diversi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costitu-
zione spagnola, specie la libertà di autodeterminarsi, la dignità umana, l’integrità fisica
e morale, la libertà di pensiero e di coscienza, il diritto all’intimità; e tende a introdurre,
secondo quanto affermato nella relazione alla proposta, nell’ordinamento giuridico spa-
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Note e commenti
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Commenti
morte di una persona o aiuti la realizzazione della stessa, quando questa soffre di una ma-
lattia grave e incurabile o di una malattia grave, cronica e invalidante, nei termini stabiliti
dalla normativa vigente».
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