Sei sulla pagina 1di 10

Capitolo -2-

Dopo che tirò la porta in legno bagnato, Esther attaccò disperata il suo viso alla minuscole fessura tra
le tavole. La casa grigia con tetto appuntito si intravedeva appena attraverso il telo raro formato dagli
alberi che la circondano. Un vento forte si abbatteva verso le finestre, e deviava la pioggia da una
parte. L’edificio sembrava disabitato, solo il fumo che si alzava dal comignolo formando dei piccoli
vortici, smentiva l’impressione di abbandono e deserto.
Vedrai che ritornerai, le disse la maestra quando ha visto il suo viso tormentato, e le aveva creduto.
Adesso attaccata alla tavola bagnata un dubbio tremendo germogliava nella sua anima, quasi decisa a
ritornare, ma la voce impaziente dell’accompagnatrice le fece ricordare che si doveva sbrigare. Con
l’anima pesante riuscì a distaccarsi dal recinto bagnato, cominciando a camminare piano dietro la
piccola donna con la testa coperta da un fazzoletto con motivi floreali, che proseguiva davanti a lei un
può piegata in avanti attenta a evitare le pozzanghere. Adesso il vento le sferzava contro con forza
facendole gonfiare la sottanina, colpendola di continuo con raffiche di aria fredda, spiacevole. Esther
girò la sua guancia per evitare il soffio ostile, che oltre la pioggia portava anche fogli secche, resti di
carta e altri scarti. Con una mano asciugò gli occhi colmi di lacrime, mentre con l’altra tirò disperata
l’orlo alzato dal forte vento che li scoprivano le sottili gambe fino la sopra. La strada fino al nuovo
orfanotrofio è rimasta nel suo ricordo avvolta come in una nebbia, solo il grande cancello in legno
massiccio da dove sono passate nel cortile pavimentato in pietra circondato da edifici massicci;
costruiti nello stile gotico grezzo ed erano raggruppati e disposti proprio come una città fortificata
chiusa, le è rimasto impresso nella mente come in una pellicola di un film. La fortezza in cui era
entrata era ben difesa con le alte mura grigie degli edifici del cortile di davanti. Uno stretto vialetto
che si snodava tra due edifici, univa la parte di davanti con dei gradini in cemento rovinato e dirupati,
con il cortile di dietro. Nel cortile senza vita non arrivava nessun rumore dall’interno degli edifici, si
sentiva solo il rumore della pioggia che cadeva monotona sul tetto. Nascosto sotto la tettoia un cane
infreddolito stava attorcigliato, ignorando indifferente le due sagome bagnate dalla pioggia.
Nell’angolo dove si univano uno con l’altro i due edifici c’era un carretto e due casse in legno strette
e rettangolare. Innumerevoli vetri grandi allineati in modo simmetrico luccicavano come acque nere
circondate dal grigio delle mura. Il portiere che aveva aperto il portone, correva davanti a loro con
una coperta sopra la testa indicando frettoloso una porta, urlando con una voce ingrossata: Davanti,
scrive sulla porta Direttore, poi spari di nuovo nella sua guardiola. Mentre la sua accompagnatrice si
trovava nello studio della direttrice, Esther si è seduta come in trance sulle scale. Soltanto quando
alzò la testa osservò una ragazzina vestita di nero, che la misurava con sguardi curiosi, appoggiata
alla parete. Nell’attimo in cui i loro sguardi si sono incrociati, questa le fece subito un segno con il
dito premuto sulla bocca.
Non piangere. La zia mi ha detto che se piango, una signora mi frusterà, disse lei sottovoce impaurita.
Non piango, rispose allo stesso modo Esther.
Come ti chiami, si è interessata con voce spenta la ragazzina dalle guance paffute.
Ambrosius Esther, arrivò la risposta non tanto amichevole.
Io mi chiamo Mecky, disse la sconosciuta, questa volta sedendosi con più coraggio accanto a lei.
Vedi che vestitino ho? disse inaspettatamente sottovoce la cicciotella con aria importante. Me l’ha
comprato la zia perché è morta la mamma. Tu hai una zia?
No!
La piccola Mecky non ha avuto il tempo per essere offesa, la porta della cancelleria all’improvviso si
è aperta facendo uscire una donna magra con capelli grigi, raccolti in una treccia sulla nuca, che
mentre camminava gridava: Popa e Ambrosius, venite con me.
Nella stanza in cui erano entrate era colma di abiti, stracci, fili dappertutto, una vecchia macchina da
cucire Singer, un’asse da stiro su cui era appoggiato un pesante ferro da stiro in ghisa. Sono venute a
sapere più tardi che quella stanza nell’orfanotrofio si chiamava Biancheria. Guardandole brevemente
sopra gli occhiali, la donna mingherlina disse a loro, cercando attentamente qualcosa nel quaderno:
Spogliatevi e sistemate le vostre cose, là, sull’asse da stiro, poi chiudendo con un movimento breve il
quaderno, continuò: Ambrosius tu avrai il numero 28, e tu Popa 104. Per tutto il tempo che rimarete
qui, dovrete portare questi numeri. Ficcatevelo bene nella testa, non dimenticatevelo.
Vedendo Esther che esitava a spogliarsi, cominciò ad impazientirsi dicendole:
Su, su, più in fretta ragazzina, che non ne ho tempo. Questa si ritirò con ostinazione in un angolo,
fissandola da lì come un cane costretto in un angolo. Il vestitino che indossava lo aveva ricevuto in
regalo nella stessa mattinata da Ghizi-tante, la lavandaia dell’asilo dove era stata fino allora.
Era il più bel vestitino che abbia mai avuto fino allora, perché mai glielo doveva dare a questa donna
sconosciuta? Tra le lacrime, ripete decisa:
Non voglio. Non mi voglio spogliare. E’ il mio vestitino. Non voglio.
Accomodante la donna cercò di tranquillizzarla, spiegandole con un tono mite.
Non è possibile ragazzina. Qui, tutte le ragazze devono indossare l’uniforme, a nessuno è permesso di
vestirsi in modo diverso.
Non voglio, non voglio, cominciò Esther a gridare, quando la donna ci provò a toglierle il vestitino
con la forza. Provocata, si arrotolò come un riccio, accovacciandosi in un angolo accanto alla parete.
Dopo tanti tentativi falliti, la donna l’ha strappata con brutalità dal suo angolo, la sollevò da terra,
cominciando a schiaffeggiarla con forza furibonda. Presa di sorpresa, Esther dissertasi le braccia,
guardò muta la donna scatenata. Inerte, senza opporre nessuna resistenza, si lasciò spogliare. In un
angolo, la piccola Mecky nuda, assisteva con terrore alla scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi.
Grosse lacrime s’arrotolavano sulle paffute guance, non ha fatto neppure un sospiro. Indossando il
grembiule in fustagno scolorito e grezzi scarponi, Esther si è seduta indifferente accanto alla porta
aspettando di partire. Quando l’ha vista, la donna si rabboni all’improvviso.
Avvicinandosi a lei le disse con una voce mite, accarezzandole la testa:
Quando te ne andrai a casa, riceverai indietro il vestitino.
A casa? Per un attimo un brivido la stravolse alla speranza di tornare indietro, poi di nuovo tornò
impassibile e indifferente, lasciandosi senza opporsi presa dalla mano da Mecky. Ugualmente
spaventate giunsero tutte due all’infermeria, là dove si dovevano presentare più tardi.. Dopo che le ha
pesate, la sorella Katy, la fata buona dell’orfanotrofio che aveva curato fino allora due generazioni di
bambini senza genitori, si è alzata dalla sua piccola scrivania tacendo, avvicinandosi a Esther. I
capelli abbondanti, legati a coda di cavallo, di un rosso scuro con riflessi metallici, abbelliva
meravigliosamente il suo viso delicato da bambina.
Che bei capelli che hai ragazzina, mormorò lei con mitezza, accarezzando ammaliata i riccioli
pesanti. Sinceramente mi fa un male dell’anima che te li devo tagliare, mormorò con tristezza.
Udendola, Esther disperata cominciò a raccontarle che anche a C. la maestra non gli ha mai tagliato i
capelli, glieli aveva solo fatti accorciare ogni tanto. Perché li deve tagliare adesso, domandava lei con
innocenza. Tra i sospiri, cominciò ad implorare la sorella, cercando in modo maldestro a convincerla
a non tagliarli i capelli, però tutti i suoi tentativi rimasero senza risultato. Con paura capì che doveva
perdere l’unico suo tesoro, nell’asilo dove era stata prima aveva l’abitudine di sfruttare abbastanza
bene, soprattutto la mattina quando la pettinavano si lasciava coccolare dalla sorvegliante. Aveva
imparato che tutti quelli che vedevano per la prima volta i suoi capelli rossi, strani, gli ammiravano
incantati. Senza il tesoro dei suoi capelli, perdeva l’unica arma che aveva nella vita senza difesa che
l’aspettava. Disperata sollevò un ricciolo lucente e morbido come la seta dal mucchio che fino a poco
fa era stato il suo orgoglio. Accanto a lei Mecky sospirava piano, lei aveva intuito nella sua anima di
bambina di quanto sarebbe stata priva di aiuto da adesso in poi. Tranne se stessa non aveva a nessuno
e niente a difenderla. La vita felice e sicura che aveva nell’altro asilo dove era stata, era diventata
all’improvviso solo passato. Assente si lasciò nuovamente tirata per la mano dalla piccola Mecky, e
tutte due mute uscirono dalla minuscola infermeria nell’acquerugiola di settembre.
Nel dormitorio dove le avevano mandate solo i letti vicini alla finestra erano liberi. Cosi come hanno
saputo più tardi, le ragazze evitavano di dormire troppo lontane dalla grande stufa in metallo, che
diffondeva un tiepido calore intorno. Tutte sapevano che fino alla finestra, la stanza non si riscaldava
mai. Esther era contenta in se stessa che doveva dormire vicino alla finestra. La Mecky cicciotella
occupò in silenzio il letto accanto a lei.
Subito dopo che hanno spento la luce, Esther si accovacciò sotto la coperta leggera, immobile,
aspettando che tutte le ragazze intorno a lei si addormentassero. Dopo un tempo si alzò dal letto, e
senza fare rumore si avvicinò alla finestra. Con la fronte appoggiata al vetro freddo, guardò
insistentemente nella notte. Il cielo era diventano una sola cosa con la terra, e quello che poteva
ancora distinguere fuori nella notte, erano solo le ombre nere delle case e le pallide luci tremolante in
lontananza. Sembrava che il vento si era trasformato in una creatura viva, urlando con furia, facendo
tremare con forza i vetri, sibilando sotto la porta che lasciava una piccola striscia di luce sul nudo
pavimento in legno, grigio. Era passato un po’ di tempo da quando osservò che Mecky sospirava nel
suo letto. Senza dire niente, continuò a guardare fuori nella notte. Solo quando senti che si era proprio
congelata, ritornò nel suo letto, dove infreddolita si messe sotto la coperta ruvida, cercando di
dormire. I tanti pensieri, la paura pazzesca dell’ignoto che l’aspettava il giorno dopo, purtroppo le
avevano fatto andare via il sonno, l’unica salvezza che d’altro le poteva essere d’aiuto in quel
momento era di dimenticare la tristezza e la disperazione. Di quanto lei poteva ricordare ancora, la
sua vita non era stato altro che un continuo cambiamento. Di sua mamma, di suo padre non ricordava
più niente, solo a Omy e Selma-tante pensava ogni tanto. I suoi ricordi erano frammenti incoerenti, di
più sequenze, che mai era riuscita a mettere insieme. Come in un sogno le ritornavano a volte
immagini di una casa isolata ai margini di un bosco, di cui non ne era più sicura se fosse veramente
esistita nella realtà. Poi la sagoma poco chiara che con le sue dita affusolate, scheletriche si
muovevano sulle taste del pianoforte, stando dritta, maestosa, che ondeggiava al ritmo della musica,
la bocca con labbra appassite che si chiudeva e si apriva, senza che lei ricordava qualche suono, il
sorriso triste che la inseguiva quando giocava con i suoi giocatoli, il fruscio delle foglie mosse dal
soffio del vento che scorreva come un telo di seta sulla colina fino la sopra nel bosco, dove il suo
mormorio si rotolava continuando lentamente tra gli alberi. I suoni, i rumori, i misteri delle spaziose
stanze, a malapena illuminate, le ombre senza volti che si muovevano surreale, vivevano in lei, la
inseguivano, come se una volta, molto tempo fa avrebbe vissuto in un’altra vita, che non aveva niente
in comune con la sua esistenza di adesso. Nell’asilo dove era stata, aveva sentito dai bambini racconti
sulla mamma, su papà, fatti che sono stati vissuti a casa, con i fratelli, le sorelle, parenti, lei invece
non poteva raccontare niente. Non ricordava nemmeno un frammento del suo passato, non avrebbe
potuto concretizzare l’immagine di nessun uomo di quei anni offuscati di cui aveva ancora un vago
ricordo. Nella sua fantasia non esisteva nessuna creatura che l’avrebbe abbracciata o che l’avrebbe
presa in braccio, solo la testa ornata dalla crocchia bianca di Oma piegata sopra il suo letto,
intravedeva come nella nebbia, parlandole qualcosa sottovoce in una lingua che aveva dimenticato
del tutto. Il viso inondato di lacrime attaccato al suo, non ne era più sicura se fosse stato reale o
plasmato dalla sua mente. E poi la sagoma vestita da un largo mantello, che si allontanava sempre e
che tornava di continuo davanti agli occhi nel momento in cui gli chiudeva, ogni volta
sconvolgendole l’anima profondamente. Un mondo di ombre che le faceva tutte le sere compagna
fino a quando s’addormentava. La sagoma vestita con un mantello che si allontanava facendole un
segno con la mano, era immancabile dalla sua testa la sera prima di addormentarsi, purtroppo i tratti
di questa non era mai riuscita a decifrarli nella nebbia dei ricordi. Questa era arrivata nella sua
fantasia come una vecchia foto, da dove cercava inutilmente a indovinare i tratti scoloriti dal tempo.
L’immagine non troppo chiara della sagoma con mantello che ritornava tutte le sere nella sua mente
prima di addormentarsi l’ha impressionava fino alle lacrime, perchè non avrebbe potuto dire.
Nella realtà, gli orfani non piangono per i genitori che non hanno mai conosciuto. Chi racconta tale
storie, forse ha una ricca fantasia, però hanno poche cose in comune con l’esistenza degli orfani.
L’uomo non piange per quello che non ha mai conosciuto e non desidera una cosa che non ha mai
vissuto. Tanti orfani che non hanno conosciuto i loro genitori, forse nella loro fantasia costruiscono
un’immagine più bella di questi rispetto a quella che sarebbe potuto essere nella realtà.
Esther che viveva nell’orfanotrofio da quando aveva quasi cinque anni, aveva perso il sentimento
reale di amare i genitori. Il ricordo di loro si era cancellato col tempo quasi completamente. Nella sua
fantasia era rimasto quello che una volta era stata la sua famiglia, solo delle ombre, la maggior parte
triste, che davano l’impressione di sorvegliare su di lei inoffensive e docili, per cui lei in modo strano
piuttosto avvertiva un sentimento di compassione, come se loro fossero abbandonate e rimaste sole.
Tra i bambini dove aveva vissuto fino allora, si era fatta delle amiche con cui aveva giocato, poi tante
volte aveva gioito, a volte anche felice, mentre quelle ombre del suo mondo erano sempre triste e
strane. Tante volte aveva avuto la curiosità di insinuarsi nel loro mondo strano, sentiva che
apparteneva a loro, sentiva che apparteneva a quella casa fantomatica e alle sagome senza faccia,
senza delineamenti, sapeva che i misteriosi bisbigli che lei non capiva erano rivolte a lei, per questo
ogni volta era assalita da una profonda tristezza. Gli incubi che tornavano spesso la notte, erano
sempre gli stessi. Stanze vuote, senza porte, con tende mosse dal vento, bisbigli misteriosi che le
metteva paura e la faceva correre caotico da una stanza all’altra, cercando disperata un’uscita che
non la trovava mai. Ogni volta che si svegliava impaurita e colta dal panico, riprendeva fiato sollevata
che si trovava nel suo letto, che era al sicuro, vedeva le ragazzine che dormivano attorno a lei
respirando tranquille. In quei momenti, tutte diventavano le sue amiche, le sue sorelle, la sua
famiglia. Rassicurata si addormentava di nuovo, sicura di trovarsi in quella casa, che lei già chiamava
la sua famiglia. I racconti sui bambini senza genitori sono a volte triste finzioni di certi ipersensibili o
fantasie di quelli che vogliono sensibilizzare gli altri. Nel presente racconto nessuno cercherà di
mostrare che la vita in un orfanotrofio è bella e facile, cercherà solo di presentare la normalità e
l’integrazione dei bambini alle regole non scritte di un tale istituto. In comune, il freddo, la fame, le
bastonate a volte non sono cosi dolorose come la vita di tanti bambini con genitori violenti, ubriaconi
o tormentati nell’anima, macinati da ambizioni personali assurde, di fare dalle loro creature quello
che loro stessi non sono stati capaci di realizzare nella loro vita. Crescere senza l’amore oppressivo di
una mamma isterica, a volte è più sano soprattutto per l’esistenza del futuro adulto, di essere libero di
mostrare l’amore pieno di riconoscenza per i sacrifici di questa. Le anime libere decidono sempre da
sole la strada da fare nella vita. Questa ricchezza inestimabile è rara e sono in pochi quelli che
veramente riescono a godersela. L’orfano non è per forza infelice solo per il fatto che non ha i
genitori. Gli adulti, la comunità delle famiglie lo vogliono ancora purtroppo infelice. L’orfano, dice
l’istanza della famiglia, deve essere triste per il fatto che nessun bambino che è senza genitori non
può essere felice. La famiglia ha rappresentato, sin dalle sue origini nell'organizzazione delle
comunità umane, un embrione sano , essa ha anche le sue mancanze, quasi ufficializzate, sono tenute
nascoste dai difensori delle sue tradizioni. Più un uomo e meno realizzato spiritualmente, più ha
bisogno delle tragedie degli altri, per poter inscenare la propria felicità e nascondere la propria
scontentezza. In questo modo probabilmente è nata la pietà come sentimento umano, una delle più
ripugnante manifestazione della specie umana, e soprattutto quando questa viene messa in scena dai
privilegiati della società. L’uomo si è abituato a giudicare severamente gli sbagli del passato forse
anche per non dare motivazioni per il suo tragico presente. Allo stesso modo mette in scena anche la
propria sensibilità. Davanti agli schermi quando gira una tragedia di una bella povera, indifesa, la
maggior parte della gente si manifesta impressionata e solidale con questa, però gli stessi sensibili
nella vita di tutti i giorni distruggono senza rimorsi il romanticismo di una storia d’amore quando
questa disturba i conti nella famiglia. Fino a un certo punto la famiglia è una solida base per la
società, poi l’invidia, l’avarizia di accumulare ricchezze, i pregiudizi, le ambizioni, la corsa per il
potere e le barriere sociali mutilano in modo grottesco l’esistenza di questa. La famiglia diventa più
volte il promontorio dei pericolosi calcoli per guadagnare ricchezze allo svantaggio degli altri. Dal
piccolo nucleo sociale, la famiglia è arrivata a complicate combinazioni sociali, dalla tribù
all’imperio, dall’imperio alla nazione, dalla nazione al nazionalismo, dal nazionalismo alla superiorità
di razza, dalla superiorità di razza al crimine organizzato, processo che si è svolto man mano più
perfido, più sofisticato, fino a quando l’uomo probabilmente ritornerà al barbarismo e al caos. A
questo nucleo sociale manca spesso il carattere costruttivo e creativo, ma la cosa diventa più grave
quando si trasforma in cittadella sovrana, chiusa ermeticamente o diventa una pesante catena al collo
di alcuni e caldo e comodo rifugio per altri. In ogni caso, la vita di famiglia non ha per molti bambini
dell’orfanotrofio qualcosa di attraente, o se qualcuno la desiderano e se la sognano, questa deve avere
nella realtà l’armonia della loro fantasia. Quando a volte il sogno della famiglia per qualche bambino
senza genitori diventa realtà, i castelli d’illusioni e bellezze che questo aveva costruito col tempo, si
abbattono definitivamente. Quelli che raccontano le tragedie degli orfani, dimenticano di solito di
guardare la società anche dalle prospettive di questi. Quanti di quelli che piangono per i bambini
senza genitori conoscono veramente il trauma degli orfani che affrontano per la prima volta i gridi e
l’irazionalità di una madre che punisce la propria creatura con crudeltà solo per aver combinato
qualche sciocchezza senza importanza? O il sentimento di questo davanti alla brutalità del padre con
la mente annebbiata dall’alcol? Quanto tempo le rimane nella realtà ad una madre esausta di tanto
lavoro, travagliata dai pensieri per fare una carezza, per essere tenera e amorevole? Quanti genitori
riescono a essere amici, compagni alla pari nelle discussioni con i loro figli? Ma forse non per questo
vuoto che si è creato tra l’adulto e il bambino, quest’ultimo cerca la comunicazione solo nel mondo
dei bambini? Nella maggior parte dei casi, e soprattutto nelle cosiddette società civilizzate, nel
momento in cui il bambino comincia a pronunciare le prime parole il suo mondo si divide dal mondo
degli adulti.. I due mondi da quel momento, non possono più comunicare. In tante famiglie con figli,
funziona per un certo periodo due mondi distinti, ognuno con il modo di pensare e la propria
intuizione del mondo di fuori. I due mondi, dell’adulto e del bambino, hanno un percorso parallelo,
purtroppo le loro strade s’incrociano solo quando suona il gong biologico per consegnare la staffetta
alla futura generazione. La tragedia del mondo umano si specchia di più nel Bambino di ieri che una
volta diventato adulto dimentica del tutto il IO avuto nel mondo dell’innocenza. Narcotizzato
dall’amnesia degli adulti, veste il mantello del padrone, momento solenne nella sua Esistenza di
UOMO, cosciente che da ora in poi LUI, il nuovo, ha il diritto di comandare. La maggior parte degli
adulti sarebbero sconvolti se potessero leggere i pensieri di un bambino, e più sconvolti ancora
sarebbero se vedessero la loro vera immagine nello specchio degli occhi dei piccoli, purtroppo questa
capacità manca a loro del tutto. Non sono stati dotati dalla natura con questa. L’adulto, purtroppo, è
seguito come da una maledizione, quando passa dal suo mondo di bambino al mondo dei padroni,
dimentica completamente la purezza e il giudizio imparziale che lo aveva avuto quando era
sottomesso. Nella vita da adulto il bambino di ieri, prende su di sé l'eredità del comportamento, delle
idee e degli atteggiamenti dei loro antenati e sempre con la stessa esattezza disarmante. Nel moderno
mondo dei sociologi hanno sintetizzato queste ripetizioni come mentalità o tradizioni, ed è corretto
cosi, trascurano con tanta leggerezza il fatto che nella vita di tutti i giorni esiste qualcuno che
appartiene sempre alla specie di UOMO, ma che cresce al di fuori di ogni meccanismo sociale, senza
essere affetto dalla mancanza di questo biologicamente o mentalmente. Gli orfani, cosi come si sa,
cresciuti negli asili, isolati dalla società, appartengono a questo gruppo di individui che hanno una
chance, non sempre calda e sazia per viversi l’infanzia in modo tranquillo, che non è stata modellata
dalle tante assurdità che funzionano nel mondo degli adulti come normalità. Diventa tragico per loro
solo al battesimo della maturità, quando si trovano all’improvviso in un mondo pieno di bugie, truffe,
pregiudizi e barriere sociale. Da quel momento in poi comincia di fatto la tragedia dell’orfano. La
melodramma dell’orfano, per essere vera dovrebbe cominciare con l’età della maturità. Nelle colonie
di bambini orfani, dove loro rappresentano la maggioranza, gli adulti sono solo una minorità, che
prova inutilmente a privilegiarsi da soli. I bambini, che hanno dalla nascita quel istinto di scegliere il
bene dal male, raccolgono i buoni insegnamenti per la vita. Loro imparano senza il dogmatismo
religioso i sette comandamenti, le norme di etica e morale sono decifrate come un cruciverba e una
volta assimilate vengono applicate in pratica in modo naturale, non forzato, non imposto. Tra i
bambini, il fair play domina come una legge d’ordine interna non scritta. In pochi sanno che nella
comunità dei bambini, l’igiene s’impone attraverso il paragone, il tradimento, la falsità, le menzogne
sono punite senza parole, dando verdetti corti, chiari, e dalla solidarietà degli orfani, adulti
dovrebbero imparare a vedere il potere e la dignità di questi. Niente è più rifiutato in un tale istituto
come il sentimento di pietà e la maggior parte degli adulti credono esattamente che devono mostrare
proprio questo verso i bambini degli orfanotrofi. Della pietà questi bambini hanno meno bisogno.
Non sono stati educati in questo senso, loro capiscono piuttosto cosa che agli adulti non fa piacere
accettare, che la pietà è degradante, e a loro personalmente non gli serve assolutamente a niente. Tra
il mondo degli orfanotrofi e il mondo di fuori c’è un muro invisibile, e solo quelli che stanno dietro il
muro lo possono vedere e sentire. Gli adulti che oltrepassano questo muro ed entrano come in uno
zoo, spinti dal sentimento di pietà o altre ragioni morale, dimenticano incoscienti che la natura
avrebbe dato ai bambini senza genitori sufficiente risorse per sopravvivere, se questi erano lasciati a
crescere in libertà. La natura non ne ha bisogno della pietà dell’uomo, invece l’uomo non potrebbe
sopravvivere su questo pianeta senza la pietà della natura. I bambini senza genitori appartengono alla
natura. Questa gli ha dotati a sufficienza per poter sopravvivere in qualsiasi situazione. La dignità e
l’orgoglio, gli unici attributi umani con cui sono stati dotati alla nascita, gli aiutano a realizzare un
ordine sociale, interno. Questi attributi, che vengono feriti in modo permanente dalle indiscrezioni e
dall’abuso di potere dell’adulto, non fa altro che aumentare col tempo la loro l’ipersensibilità, e
diminuisce la capacità d’integrazione nelle comunità dove dovranno vivere più tardi. Per questo
motivo gli ex orfani sono più difficili o complessati rispetto ai bambini cresciuti in una famiglia. Le
loro reazioni si dovrebbero guardare come normali reazioni di quelli che vogliono stabilire da soli la
loro posizione sociale nella comunità dove andranno a vivere, non si può imporre in modo abusivo da
quelli che credono che hanno questa missione. Il lettore deve accettare questa parentesi sulla
psicologia dell’orfano e si doveva preparare per il racconto che segue della piccola Esther che non
racconterà la sua storia come una statua del dolore e della tristezza dei bambini senza genitori. La sua
vita ha avuto alti e bassi proprio come un’esistenza di un qualsiasi mortale, forse i troppi
cambiamenti ed eventi che ha subito, rende ancora più interessante la sua sorte e più degna da
raccontare rispetto alle altre. Certo è che nella sua infanzia rigida e a volte priva delle necessità
materiale è stata spesso felice, bei ricordi che porterà con se e le darà sempre la forza di lottare
davanti alle difficoltà della vita.
Più presto di quanto al lettore sarebbe piaciuto, Esther si è adattata alla vita del nuovo asilo. Fin dal
primo giorno è stata costretta a imparare il programma Spartano imposto da un tale istituto, com’era
l’orfanotrofio per gli scolari dove doveva vivere. La mattina il risveglio obbligatorio alle sei, la
ginnastica fuori nel cortile, il vestirsi, il lavarsi, il pasto e l’andare a scuola. Certo che i primi giorni
gli sono sembrati terribilmente difficili e questo non soltanto a lei, anche per tutte le ragazzine che
cominciava come lei la prima elementare. Chi non ha dovuto superare magari per una volta nella vita,
una novità con cui si doveva abituare e poi alla fine accettarla come normalità? Esther rispetto ad altri
bambini, era veramente un carattere complicato, cosa conosciuta da tutto il personale dell’altro
orfanotrofio. Esther si distingueva subito dal gruppo per la sua sensibilità, la sua forza di
interiorizzarsi e non soltanto per il suo aspetto non comune ma anche per il suo carattere speciale. Per
il suo carattere legava difficilmente amicizie, era sempre silenziosa, riservata, e se lei si affezionava a
qualcuno le doveva appartenere in esclusivo. La sua gelosia infantile non poteva essere ignorata con
tanta facilità, è proprio per questo suo temperamento passionale all’improvviso poteva trasformare i
suoi risentimenti in odio. La sua passione l’avrebbe potuta distruggere tante volte anche a lei stessa,
soprattutto per il fatto che non dimenticava mai quando qualcuno le faceva un torto. Un aspetto
abbastanza raro nei comportamenti dei bambini, Esther serbava sempre un odio costante per quelli
con cui aveva avuto qualche conflitto. Il suo senso esagerato di proprietà, costituiva anche questo una
caratteristica del suo carattere che le rendeva la vita difficile, visto che era costretta a vivere in una
comunità dove tutto era in comune. Per un bambino con un tale carattere, qualsiasi psicologo avrebbe
intuito che la vita in un orfanotrofio non sarebbe stata facile per lei. Nessuno può prevedere con
esattezza, l’evoluzione della vita di ogni individuo, questo perché la scuola, l’ambiente, le chance che
capitano o non capitano nell’esistenza di ognuno, le doti che possiedono fin dalla nascita, tutte queste
cumulate insieme possono orientare nel tempo, in modo positivo o negativo, lo sviluppo e la
formazione dell’adulto. Una sola cosa si poteva prevedere, nonostante la fragile età di Esther. Da un
carattere come il suo non poteva generare altro che un uomo con un forte senso di giustizia, un
intellettuale attratto dall’estetica e l’arte, caparbio, conseguente, che nella vita cerca di raggiungere il
suo scopo con perseveranza, fedele, sensibile, creativo, o un fallito perso che alla fine si suicide. Di
queste due strade estreme della vita parlavano specialmente la sua intelligenza e la sua sensibilità
fuori dal comune. Ai suoi sette anni non compiuti, il suo temperamento passionale contrastava
piacevole con il suo viso delicato, gracile, e la cosa interessante era che quasi tutti quelli con cui
veniva in contatto erano propensi a coccolarla, a difenderla, a prottergela. Nonostante il fatto che
viveva in una comunità chiusa, le sue monellerie e testardaggini, venivano spesso tollerate più degli
altri bambini. Si può dire che , senza a fare tanti sforzi, era sempre privilegiata. Perfino il posto nuovo
nel nuovo orfanotrofio l’ho aveva ottenuto grazie alla direttrice dell’altro orfanotrofio dove era stata.
Questa insistiva che lei doveva andare nel miglior orfanotrofio nazionale. Esther non ne aveva idea
delle difficoltà affrontate affinché lei potesse arrivare là, dove si trovava adesso. Era troppo piccola
per capire quante persone lo avevano aiutata di nascosto nella vita, persone che non ha mai
incontrato, cosi com’è successo con la direttrice dell’orfanotrofio dove era stata. La separazione da
questa è stata proprio ostile e precipitosa. La notizia che si doveva trasferire ad un altro asilo, un asilo
speciale per bambini d’età scolare, le ha fatto venire dei dubbi, che la direttrice, che fino allora le
aveva mostrato tanta simpatia, era stata veramente sincera con lei. Quando questa aveva provato a
spiegarle che non esisteva un’altra alternativa per un bambino che compiva una certa età se non
quella di andare a scuola, Esther le saltò addosso colpendola con i pugni e i piedi gridando scatenata:
Cattiva, Cattiva, fino quando stancata girò le spalle e si messe a correre. Fino al giorno della partenza
l’ho aveva evitata, nascondendosi dove poteva per non incontrarla. Pronta per la partenza, accanto
alla donna che la doveva accompagnare al nuovo asilo, non ha degnato di uno sguardo la direttrice,
nella sua mente solo lei era la colpevole della sua partenza. Prima di partire aveva rifiutato di darle la
mano, rifiutando decisa quando questa cercò di abbracciarla, e incamminandosi verso il cancello
neppure per un attimo si è voltata per guardare indietro. Era ancora convinta che tutto era solo un
gioco, aspettava da un momento all’altro che la direttrice la chiamava per tornare, che tutta la scena
doveva finire come una breve punizione, com’era successo tante altre volte quando questa voleva
dare una lezione a quelle che disubbidivano. Solo che questa volta se n’é accorta che il suo
ragionamento era sbagliato. Abbandonava il posto, che per lei era diventato il suo focolare, senza dire
addio alla donna che lei aveva imparato ad amarla e che accanto a lei si sentiva protetta, stupido
orgoglio di bambino che dopo lo ha pagato con lunghi giorni di tristezza e rimorsi. Questo suo modo
di reagire era normale per una bambina dall’età di Esther. La severità della direttrice fu un’esigenza
ingiusta nei confronti di un bambino che non avrebbe potuto capire a quella età fragile il perché del
trasferimento in un altro istituto. Tra le sue mani doveva passare altri bambini come la piccola Esther
e ognuno di loro avrebbe reagito allo stesso modo, poiché la paura dell’ignoto, delle cose nuove, sta
nascosta in ognuno di noi di più o di meno. Specialmente i più piccoli, hanno bisogno della sicurezza
e della protezione di un focolare, per questo quando vengono sradicati brutalmente dal posto che loro
credevano di appartenere, lascia dei profondi traumi nella psiche di tanti che ancora non sono pronti
per tali cambiamenti radicali. Nel profondo della sua anima Esther ha vissuto per tanto tempo con la
convinzione che era stata una bambina cattiva e senz’anima, convinzione che ulteriormente si è
rinforzata con il fatto che decideva sempre con chiarezza e senza compromessi nelle situazioni
estreme. Purtroppo, dietro questa maschera severa si nascondeva un carattere sensibile fuori dal
comune, e un spiccato senso di giustizia.
Fin dal primo giorno nel nuovo asilo, Esther ha dovuto imparare che non era più la principessa viziata
che era stata nell’altro asilo di S.., ma solo un numero tra altre 200 ragazze. La nozione scuola,
l’aveva spaventata quando aveva sentito per la prima volta di questa. Essendo un temperamento
ribelle, non si poteva adattare facilmente ad una vita fatta di orari rigorosi e disciplina. Non associava
la scuola all’insegnamento, ma lo percepiva come una limitazione della sua libertà, di cui era
istintivamente cosciente che la perdeva. Questo fatto si è confermato fin dal primo giorno di scuola.
L’inizio di ogni anno scolastico nell’orfanotrofio cominciava con una visita medica obbligatoria. Le
ragazzine spogliate e sistemate in fila, aspettavano fino a quando venivano chiamate per nome.
Quando fu chiamata Esther, il medico guardò un’altra volta la sua scheda, poi la misuro scontento
con lo sguardo. Le prese con dolcezza la mano, le fece fare un giro su se stessa, le tocco le
articolazioni, dopo di ché brontolò arrabbiato:
Questa ragazzina deve essere respinta. Guardate, pesa solo 19 Kg, non è possibile. Deve essere
rimandata un altro anno.
Mi dispiace, ma non è possibile, rispose calzante la direttrice che assisteva accigliata al controllo del
medico. Mentalmente la bambina è idonea, e la sua età non le permette di rimanere ancora ai
prescolari.
Come non le permette? Rispose acido il medico. Ha appena compiuto sei anni. Ai sensi della legge i
bambini cominciano la scuola all’età di sette anni. Comunque io, che Lei lo sappia, non metterò la
mia firma sulla sua scheda.
Con o senza la sua firma andrà lo stesso a scuola, tagliò corto la direttrice, chiedendo in modo
dimostrativo la scheda seguente. Il medico si girò verso di lei e a voce bassa gliela girata sarcastico:
Che andrà a scuola, ne sono convinto, ma per questi bambini nessuno deve rendere conto. Dottore,
scoppiò offesa la direttrice, come vi permettete di fare certe affermazioni, qui davanti a tanta gente….
Gentile signora, a me interesserebbe un’altra cosa, l’ha interrompe il medico, sono stato chiamato qui
in qualità di medico o solo per firmare delle schede? Ancora non mi sono abituato con questa
medicina burocratica e credo che non mi abituerò mai. Sono troppo vecchio per questo, concluse lui
girando le spalle alla direttrice. Con una voce mite disse a Esther:
Avvicinati, ragazzina. Girati. Cosi. Respira. Ancora un’altra volta. Respira profondamente. Vediamo
qui, cosi. Lo stetoscopio freddo le faceva venire un brivido ogni volta che toccava la sua pelle. Non
era solo infreddolita ma anche oppressa dalla folla intorno a lei, e cosi non desiderava altro che
vestirsi e andarsene in un posto dove si poteva accovacciare e stare da sola. La folla e tutti quei
sguardi concentrati su di lei le provocava non solo irrequietezza ma anche insicurezza.
Come ti chiami, domandò il medico mentre controllava i suoi riflessi con un martelletto di gomma.
Ambrosius Esther, rispose timida.
Sei tedesca, non è cosi, continuò questo alzando lo sguardo e misurandola insistentemente. Non lo so,
penso di sì, rispose lei sottovoce insicura.
Da dietro, la direttrice intervenni con una voce mielosa:
Sì, dottore, è tedesca. Lei non lo sa, quando l’ho hanno portata a S…era troppo piccola.
Esther si girò verso la direttrice sorpresa, proprio nel momento in cui questa cercava di fare un segno
con la mano al medico. Senza imbarazzarsi, questa disse sottovoce ma abbastanza forte per far sentire
anche a lei, che gli racconterà più tardi la situazione della scheda Ambrosius. Ancora non aveva
imparato, visto l’età che aveva, che stava facendo una cosa contro la legge. Purtroppo tanti impiegati
che lavorano presso tali istituzioni trovano assolutamente normale condividere i segreti che non gli
appartengono o informazioni che sono tenuti a non diffonderle, come se le loro mansioni ufficiali gli
danno questo diritto. La direttrice in causa che disgraziatamente occupava anche il posto di pedagogo,
aveva a sua disposizione tutte le cartelle di centinaia di bambini orfani, conosceva in dettaglio la vita
e le famiglie da dove venivano, non aveva imparato la cosa più importante nella sua professione che
esercitava. I segreti e le storie che stavano dentro quelle cartelle ed erano alla sua portata di mano,
appartenevano solo ai bambini; sarebbe stata desiderabile una legge per tutelare i bambini senza
genitori, anche in un Paese povero come la Romania, affinché la loro sorte non diventasse dibattito
pubblico o motivo di pettegolezzi davanti a un caffé per il personale che aveva in mano il loro
destino. L’anziano medico aveva abbastanza esperienza con gli uomini per osservare la voglia di
spettegolare della direttrice, per questo in maniera ostentativa continuò a domandare con mitezza a
Esther:
I tuoi genitori sono vivi?
Non lo so…Non gli conosco…disse sottovoce intimidita.
Ti ricordi di qualcuno? …continuò lui con le domande, mentre che la stava consultando.
Oma… Selmatante…non lo so….mormorò Esther.
Da quando sei all’orfanotrofio hai visto più Oma e Selmatante? Il suo interesse sembrava piuttosto
una provocazione che un interesse reale per la storia della graziosa ragazzina.
No… Questa volta, prima di poter dire altro, la direttrice intervenni arrabbiata:
Non sono più qui, La prego dottore non fatte sconvolgere la bambina. Lei non sa nulla dei suoi
parenti e della sua famiglia. Se Lei desidera sapere qualcosa, La invito dopo da me, nella cancelleria.
Il medico continuò a ignorare la conduttrice dell’istituto, misurando incapace la ragazzina che aveva
davanti, poi accarezzandole i capelli la invitò con voce spenta di vestirsi.
Sollevata dal fatto che era finita, si è precipitata nello spogliatoio contenta che finalmente si poteva
vestire. Da lì doveva andare in fretta al magazzino dove distribuivano zaini e uniforme di scuola.
Mentre che si vestiva, le sono tornate in mente le parole della direttrice: Non sono più qui…. Come
doveva interpretarle? Una cosa le era chiara adesso. Tutte due esistevano veramente. Le avrebbe fatto
piacere sapere dove se ne erano andate, ma la certezza che lei aveva a qualcuno da qualche parte la
faceva stare bene. Fino a quel momento era quasi convinta che solo lei e qualcun’altra non aveva a
nessuno da nessuna parte. Cosa volevano dire le parole della direttrice, di non sconvolgerla con le
domande? Tormentata da questi pensieri, corse per prendersi lo zaino e l’uniforme. Dal momento in
cui si messe in fila, dimenticò dell’incidente della visita medica concentrandosi su quello che doveva
ricevere per la scuola.
Il primo giorno di scuola, fu per Esther particolarmente triste. L’inizio della scuola per lei non era un
motivo di gioia, aveva avuto sufficienti motivi per non dimenticare tutto quello che ha vissuto in quel
giorno.
Alle sei di mattina il suono della campanella spaccò brutalmente il profondo silenzio dei dormitori.
Le ragazze sprofondate nel sonno profondo dei bambini, saltarono fuori dai letti, come folgorate da
una scarica elettrica, spaventate e stordite. Esther al primo momento si spaventò anche lei e guardò
sbalordita intorno a lei. Accanto a lei Mecky dormiva con la testa sotto la coperta. Per lei, il
campanello non aveva suonato ancora. Tornando in sé, si piego verso di lei, cominciando a scuoterla
piano, inutile, questa non aveva nessuna reazione. Riprovò un’altra volta, e di nuovo nessun risultato.
Decisa, tirò via la coperta, scuotendola più forte:
Alzati Mecky prima che arrivi la signora per darti botte, le disse sottovoce spaventata.
No…Non voglio. Ho sonno…non voglio, brontolava Mecky assonnata.
Già dal corridoio si sentiva la voce ruvida della sorvegliante che s’avvicinava al loro dormitorio,
gridando fortemente:

Potrebbero piacerti anche