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LATINO

PUBLIO VIRGILIO MARONE nasce a Mantova nel 70 a.C. da piccoli proprietari


terrieri. I luoghi della sua educazione sono Roma e Napoli.
Nella sua prima opera, “Le Bucoliche ”, Virgilio allude più volte ai gravi
avvenimenti del 41, quando nelle campagne mantovane avvenne la confisca
dei terreni. Il periodo, infatti, è segnato da gravi disordini e in quest’opera
Virgilio riecheggia il dramma dei contadini espropriati. Tutto ciò è
autobiografico, dal momento che Virgilio stesso venne privato di un podere di
famiglia. Le Bucoliche, però, non recano a noi alcuna traccia di quello che sarà
il grande amico e protettore di Virgilio, cioè MECENATE. Allora il nostro poeta
entra nella cerchia degli intimi di Mecenate, quindi anche di Ottaviano, e
subito dopo lo segue Orazio.
In questi lunghi anni di incertezza e di lotta politica, che vanno fino alla
battaglia di Azio (31 a.C.), Virgilio lavora a un’elaborata opera, “Le Georgiche”,
in piena sintonia con l’ambiente di Mecenate. Tutta la vita di Virgilio che
conosciamo è molto povera di eventi esterni, perché è tutta raccolta nel tenace
lavoro poetico. Nel 29 a.C. Ottaviano torna dall’Oriente vincitore, si ferma in
Campania e si fa leggere da Virgilio le Georgiche appena
compiute. Da qui in avanti, il poeta è tutto assorbito dalla composizione del
grande poema: “L’Eneide”.
L’Eneide fu pubblicata, per volere di Augusto e per cura di Vario Rufo, poiché
Virgilio era morto il 21 settembre del 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio
in Grecia e fu sepolto a Napoli.

Le Bucoliche sono 10 brevi componimenti in esametri, anche chiamati


“Egloghe” e sono composti tra il 42 e il 39 a.C.
-Le Georgiche sono un poema didascalico in 4 libri in esametri.
-L’Eneide, invece, è un poema epico in 12 libri. Il metro è sempre lo stesso
(esametro).
-Le Bucoliche sono una poesia che trova le radici nei grandi autori ellenistici
che avevano frequentato la cultura
romana.
Modello di Virgilio è TEOCRITO con i suoi “Idilli”. La poesia degli Idilli è tutta
rivolta alla ricostruzione, nostalgica e dotta, di un mondo pastorale
tradizionale.
BUCOLICHE
CONTESTO
La contestualizzazione dell'opera è quella di una realtà profondamente drammatica, quella
dell'Italia del I secolo a.C., scossa dalla guerra civile. Virgilio aveva assistito da piccolo
alla congiura di Catilina, quindi all'ascesa di Giulio Cesare, alla guerra tra costui e Pompeo, al
suo assassinio nel 44 a.C. ed infine agli scontri tra i cesariani e pompeiani. Mentre Virgilio
scriveva la sua opera, Ottaviano aveva trionfato a Filippi. Tornato a Roma, Ottaviano aveva
espropriato i suoi contadini delle loro terre, per ridistribuirle tra i veterani come ricompensa per i
servigi da loro resi. L'esproprio delle terre fu per Virgilio un'esperienza drammatica, ed egli lo
visse come un sintomo di barbarie

Bucoliche: un’opera composta da Virgilio. La raccolta è costituita da


dieci  egloghe ad intonazione pastorale. I componimenti seguono il filone
letterario teocriteo, primo poeta inventore della poesia bucolica. L’etimologia
del titolo ne riflette il contenuto: Bucoliche, infatti, deriva dal greco e,
semanticamente, designa la figura del pastore, mandriano. La
contestualizzazione storico-letteraria dell’opera è inserita nell’Italia del I secolo
a.C. Virgilio assistette alla congiura di Catilina, all’ascesa di Giulio Cesare, ed al
suo assassinio avvenuto nel 44 a.C. A trionfare, in seguito, è Ottaviano:
espropria i suoi contadini dalle terre per distribuirle come ricompensa
ai milites come ringraziamento dei servigi resi. Virgilio vive questa decisione
come sintomo di sopruso, tanto da rimanerne drammaticamente colpito.

A differenza di Teocrito, la poesia pastorale di Virgilio non è mero esercizio


letterario, ma un qualcosa di connesso con la sua indole e le esperienze. La
poesia e la natura sono l’unico mezzo per evadere dalla realtà: solo con essa è
possibile superare la tragicità della vita. Solo attraverso la contemplazione
della natura è possibile rifuggire il tragico.

Virgilio si immedesima nei suoi pastori: ispiratosi all’antica e mitica regione


greca dell’Arcadia per la stesura dell’opera, non ne condivide le ambientazioni:
le Bucoliche, infatti, sono sempre fredde e ambientate al crepuscolo. A
differenza degli Idilli di Teocrito ambientati in Sicilia, dove il rigoglio della
natura è scalpitante. Virgilio rinuncia all’ambientazione felice poiché, ormai, i
pastori siciliani erano al servizio dei latifondisti romani: per cui, non più
considerabili come mandriani dell’amore o del canto.

Tuttavia, la differenza sostanziale sta nel lessico: Teocrito scrive delle


condizioni realistiche dei pastori utilizzando un linguaggio arcaico. L’aspetto
fisico rustico dei mandriani teocritei è reso quasi piacevole dallo scandire della
scelta metrica e del linguaggio. I pastori dell’Arcadia virgiliana non sono logori,
né compiono lavori che li degradino: intonano canti silvestri con il loro flauto e
nel loro mondo campestre si rifugiano da una realtà tragica. Virgilio si distacca
dal realismo trasfigurando il paesaggio campestre, ambientando le vicende
nell’ideale del locus amoenus: un luogo idealizzato, mitico. L’Arcadia è il locus
amoenus dei pastori descritti da Virgilio. Questo luogo mitico non era privo di
accezioni allegoriche che vi si riflettevano: simbolicamente, infatti, l’Arcadia era
un luogo d’amore e civiltà privo dall’impellenza delle barbarie. Un ambiente
dove sentirsi protetti sospeso fra spazio e tempo dove nulla si trasforma.

ECLOGA 1
Ecloga I
La prima egloga delle Bucoliche mette in scena il dialogo tra due pastori: il primo, Melibeo, che è
costretto ad abbandonare la sua patria perché è stato privato dei suoi beni e Titiro che,
contrapposto a quest'ultimo, si riposa all'ombra di un faggio intonando un canto silvestre dopo
esser riuscito a mantenere i propri possedimenti. Questo avvenimento fittizio e letterario risulta,
però, avere particolare pregnanza storica in quanto rappresenta lo sconvolgimento successivo
alle guerre civili e l'assegnazione delle terre ai veterani.
Stupefatto del diverso esito delle due vicende personali, pur non serbando alcuna invidia,
Melibeo non può trattenersi dal chiedere come sia stato possibile; la salvezza delle terre di Titiro
era stata resa possibile dall'intervento di un giovane dio. In questo modo si esplicita la ragione
della posizione incipitaria assegnata a quest'egloga: l'intercessione va infatti a giovare al canto e
permette al pastore di coltivare l'otium; pertanto in segno di riconoscenza egli praticherà sacrifici
modesti ma frequenti per tutta la durata della sua vita.
Titiro stesso afferma di aver incontrato il dio a Roma, essendovisi recato per riscattare la propria
libertà dalla precedente condizione di schiavitù; è importante sottolineare come la soluzione di
questa vicenda non fosse stata possibile finché era stato sotto il giogo dell'amore di Galatea la
quale imponeva un sacrificio economico in doni tanto grande da non poter esser sostenuto
altrimenti.
Melibeo, in canto elegiaco verso la propria sorte, attribuisce a Titiro l'aggettivo fortunatus, poiché
a quest'ultimo rimarranno i campi che ha coltivato per una vita intera e potrà godersi la frescura
di posti conosciuti, mentre egli sarà costretto a vagare come esule in territori a lui estranei,
mentre soldati barbari godranno dei frutti del suo duro lavoro. I due interlocutori mantengono
sempre un tono distaccato, ad eccezione dell'ultima parte dell'egloga in cui il tono si fa più
coinvolto. Infatti, quando, ormai al tramonto, Melibeo annuncia mestamente di essere in procinto
di incamminarsi verso l'esilio, Titiro afferma che lo avrebbe volentieri ospitato in casa sua per la
notte, se avesse voluto.

Ecloga IV
Durante l'ottobre del 40 a.C., mentre Virgilio scriveva l'opera, l'atmosfera nell'Urbe era molto
tesa, e la guerra civile era al suo culmine: nel 40 a.C. Ottaviano e Lucio Antonio (fratello di
Marco) si scontrarono nella cruentissima battaglia di Perugia e, dopo di essa, alcuni mediatori
(Nerva, Mecenate e lo stesso Pollione, amico di Virgilio e console in carica per quell'anno)
riconciliarono i due triumviri, che stipularono quindi la pace di Brindisi; in base a questo trattato,
ad Ottaviano fu assegnato l'Occidente, e ad Antonio l'Oriente; la penisola italica apparteneva ad
entrambi. La tregua fu sancita con un matrimonio tra Ottavia, la sorella di Ottaviano, e Marco
Antonio. Questo accordo fu salutato con grande speranza e gioia da parte dei veterani e degli
abitanti di Roma, ed i due triumviri, tra il tripudio della folla, celebrarono l'ovazione.
Anche Virgilio, di solito lontano dalla vita politica, dimostra grande entusiasmo per questo
accordo: nella IV egloga, in particolare, con un registro stilistico notevolmente più alto rispetto
alle altre, il poeta celebra l'imminenza del ritorno dei Saturnia Regna, in seguito alla nascita di un
“bambino divino”, che avrebbe posto fine al tragico presente per inaugurare una nuova età
dell'oro. Il poeta non fa il nome del puer, e il componimento assume così un tono profetico e
misterioso. Secondo alcuni studiosi, questo bambino a cui, senza immaginare che sarebbe stata
una femmina, Virgilio si riferisce, sarebbe il figlio derivante dall'unione tra Ottavia e Marco
Antonio; secondo altre interpretazioni, potrebbe essere Asinio Pollione oppure Salonino, figlio di
Asinio Pollione, ipotesi questa concepita già dagli antichi commentatori, o anche il nascituro figlio
di Antonio e Cleopatra; gli amanuensi cristiani videro nel puer la figura di Gesù Cristo e
nella Virgo la Madonna, e questa interpretazione fece sì che per tutto il Medioevo Virgilio venisse
venerato come un saggio dotato di capacità profetiche tanto che nella Divina
Commedia il poeta latino Stazio dice di essersi convertito al Cristianesimo dopo avere letto la IV
Bucolica (Purgatorio - Canto ventiduesimo, vv. 55-93). Potrebbe rappresentare, infine, una
metafora per indicare quel sogno di pace di una generazione disperata che sembrava in procinto
di concretizzarsi con la pace di Brindisi.
Un'altra interessante interpretazione è quella di Eduard Norden, che considera il puer come
personificazione del "Tempo" che ricomincia il suo ciclo, a partire dalla favolosa età
dell'Oro. Ettore Paratore nella sua Storia della letteratura latina[4][5] scrive che in questa bucolica
"tutte le correnti mistiche che agitavano in quell'epoca la coscienza delle folle hanno lasciato
traccia di sé [...]: le tradizionali correnti orfico-pitagoriche, il rinascente culto sibillino, le dottrine
filosofiche sulla palingenesi dell'umanità, la tradizione romana del saeculum, culti orientali
connessi con figure di monarchi ed eroi, la tendenza, già vigoreggiante nella casa Giulia,
all'apoteosi delle proprie figure eminenti [...] e, non ultimo, il profetismo ebraico, l'attesa
del Messia, di cui Virgilio doveva aver avuto notizia frequentando Pollione, presso il quale
trovavano ospitalità i dotti ebrei di passaggio in Italia". "Ma nell'avvento del puer rinnovatore, si
avvertono anche gli echi dei miti dei Magi, riguardanti la nascita di Zarathustra, vaticinans
puer rinnovatore del mondo, e l'avvento del Saoshyant, il Salvatore nato da una Vergine".[5] L'età
dell'oro e della pace era stata profetizzata anche dalla Sibilla Eritrea[6] e l'avvento del sovrano
inviato dal cielo a portare la pace e la giustizia nel mondo era già nella figura del rex magnus de
caelo profetizzato dagli oracoli sibillini.[7][8] Gli oracoli avevano anche previsto il ritorno all'età
beata.

GEORGICHE
Le “Georgiche” sono un poema didascalico scritto sul modello delle Opere e
Giorni  di Esiodo e in cui si realizza il programma delle Bucoliche. Virgilio
impiegò sette anni per la sua composizione, e lo dedicò al suo patrono
Mecenate. Virgilio si ispira ad Esiodo in quanto non è sua intenzione comporre
un manuale di avviamento all’agricoltura, bensì vuole rappresentare come
ideale la vita del contadino italico: essa è frugale e austera, certo esposta a
insuccessi e sofferenze, ma se vissuta in armonia con la natura e con l’ordine
divino delle cose è moralmente soddisfacente e procura in compenso pace e
soddisfazione; il lavoro agreste è il fondamento della grandezza d’Italia. Altro
autore a cui Virgilio si ispira, o meglio, con cui si confronta, è Lucrezio. Tra i
due poeti c’è un confronto interno. Lucrezio voleva dare una soluzione ai
travagli della morte e del tempo analizzandoli sotto l’ottica filosofica,
mentre Virgilio insegna a vivere in pace ed in serenità. Le due soluzioni
pur non essendo antitetiche sono comunque differenti: Lucrezio aveva un
rapporto molto conflittuale, quasi di rottura, con la società romana,
mentre Virgilio è più conciliante.
Si è lungo discusso su un eventuale corrispondenza tra l’opera di Virgilio e
un ipotetico programma di risanamento del mondo agricolo. La tesi fa
acqua da tutte le parti perché non c’è minima traccia di questo
programma nei documenti antichi. È più probabile che Virgilio si ispiri alla
propaganda ideologica augustea (esaltazione della tradizioni dell’Italia
contadina e guerriera in maggior parte). In effetti la coltivazione dei campi
può essere una metafora: i toni usati fanno capire che l’opera era
destinata all’élite romana e gli argomenti agricoli rappresentano gli antichi
valori della Roma delle origini, valori che la propaganda augustea teneva
in grande considerazione. Ma non si può pensare alle Georgiche come un
mero apporto alla propaganda augustea. Virgilio sentiva molto il mito
nazionale e il suo contributo personale fu notevole.
Le idee alla base.
Gli ideali delle georgiche erano l’esaltazione del contadino (il colonus) e
l’esaltazione dell’Italia in contrasto con le province, come propaganda
augustea voleva.  I temi dei quattro libri dell’opera sono nell’ordine: il
lavoro dei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame, l’apicoltura.
Lo schema tematico mostra come man mano che ci si inoltra nelle
tematiche si va da un lavoro dove la fatica umana diventa sempre meno
accentuata e la natura (vista comunque in funzione dell’uomo) è sempre
più protagonista; dal lavoro incessante dell’aratore nel I libro all’operosità
incontrollabile delle api nel libro IV, che altro non è che la
rappresentazione più fedele della natura umana (= umanizzazione della
natura) Altre corrispondenze coincidono con le digressioni dei singoli libri
e con i proemi. Le digressioni sono sempre alla fine dei libri e hanno
sempre un’estensione regolare: le guerre civili, la lode della vita agreste, la
peste degli animali del Norico, la storia di Aristeo e delle sue api.
I proemi.
I proemi invece hanno chiara funzione di cerniera i proemi: due sono
lunghi e eccessivi rispetto al tema georgico ( I e III) e due brevi e
strettamente introduttivi (II e IV). Ai libri I e III con proemi molto lunghi
corrispondono digressioni finali tristissime: la guerra civile e la pestilenza.
Ai libri II e IV con proemi brevi corrispondono vicende più liete (l’elogio
della vita campestre e la vicenda delle api, che comunque non è scissa
dalla vicenda tragica di Orfeo).  
Il mito di Aristeo e Orfeo chiude l’opera di Virgilio. Per parlare di ciò
bisogna partire da un problema: il finale delle Georgiche non era costituito
dal racconto di questo mito ma dall’elogio del poeta Cornelio Gallo, uno
dei padri fondatori del genere elegiaco romano. Il poeta Gallo, caduto in
disgrazia per un motivo tuttora oscuro, entrò in contrasto con l’amico
Ottaviano (ora chiamato Augusto), il quale rinnegò la sua amicizia; tempo
dopo il poeta si suicidò. Si pensa che non sarebbe stato opportuno per
Virgilio concludere l’opera con il suo elogio, che recava con se pericolosi
strascichi politici,  e per questo fu costretto a cambiare il finale con la
narrazione del mito di Aristeo e Orfeo. È difficile, però, considerare un
ipotesi così azzardata: la descrizione del mito, da come è scritto, non
sembra un inserimento improvviso. Si pensa allora che l’elogio seguisse
direttamente alla descrizione mitologica e che Virgilio si sia limitato a
eliminare l’elogio lasciando il mito al suo posto.

TEODICEA DEL LAVORO


Uno dei tratti più moderni e costruttivi delle Georgiche virgiliane è ravvisabile nella
nuova concezione del lavoro, che il poeta sviluppa a partire dal libro I (vv. 121-124;
133-135; 145-146):
 
La fatica del duro lavoro è dunque «dono» del padre Giove agli uomini, affinché le loro
menti non si assopiscano nell’ozio che, per tradizione, genera solo fiacchezza e vizio e
ottunde la mente.
Rispetto all’omnia vincit amor dell’ecloga X (v. 69), il labor omnia
vicit delle Georgiche (I, 145: vicit è un perfetto di consuetudine) segnala uno stato
d’animo più severo e produttivo, il distacco dall’età di Saturno (segnata dalla felicità,
grazie all’assenza del labor improbus) e l’ingresso nella storia, nel tempo presente. La
personale fatica, quotidiana e incessante, dell’agricola, la sua lotta contro il clima e la
terra grama appaiono come le basi stesse di quei mores maiorum che la politica culturale
augustea si proponeva di restaurare.

Il mondo dell’agricoltura per Virgilio è in primo luogo il mondo della fatica. Lavorare la
terra è un mestiere duro, che richiede sacrificio costante per strapparle quasi con
violenza i suoi frutti e per difenderli contro le mille insidie del tempo, degli animali, delle
piante infestanti. Ma questa fatica incessante non è per Virgilio pena, bensì dono di
Giove all’uomo, perché nell’inerzia non si riduca a bestia, rinunciando a esercitare
l’ingegno che dalla bestia lo distingue.

Interessante, in particolare, è il duplice richiamo all’ars (Georg. I, 122 e 133) necessaria


per domare la terra e piegarla ai bisogni dell’uomo; ars del tutto superflua nei tempi
felici dell’età dell’oro, quando la terra produceva spontaneamente i propri frutti e l’uomo
viveva beato, libero dalla fatica e dalla necessità del lavoro. Ma se oggetto dell’opera
virgiliana è per l’appunto questa particolare ars, il poeta esplicitamente afferma allora di
non rivolgersi ai futuri cittadini della nuova età dell’oro, bensì ai presenti e sofferenti
cittadini dell’età del ferro, i soli a trarre giovamento dagli insegnamenti dell’ars.
Le Georgiche non serviranno più allorché l’età dell’oro ritornerà sulla terra grazie a
Ottaviano (vedi ecloga 4); raramente un poeta sembra avere avuto tanto chiara nella
mente l’aspirazione alla propria inutilità: la poesia georgica di Virgilio si presenta al
lettore non come poesia del futuro, bensì come poesia del presente, legata al
contingente, non a una dimensione metastorica.

VECCHIO

Nel quarto libro delle Georgiche, Virgilio, dopo aver rinnovato la dedica dell’opera a Mecenate, parla
di apicoltura. Proprio in questo libro abbiamo un excursus sul vecchio di Còrico, figura che
esemplifica il principio epicureo dell’autarcheia, dell’autonomia del saggio, che considera la felicità
come un principio a sé intrinseco e vive per questo in equilibrio, con misura: Virgilio, ormai conscio
di non poter più raggiungere l’utopico splendore dell’età dell’oro, vuole comunque sottolineare che
la fatica viene sempre premiata e che, come già aveva asserito nel primo libro delle Georgiche, labor
vicit omnia; il vecchio di Còrico vede infatti le sue fatiche premiate, con equità, dalla terra, prospera
e fruttifera perché da lui lavorata con impegno, dedizione, sapienza e maestria. Virgilio non si rifugia
più, come succedeva nelle Bucoliche, nel sogno di riportare la civiltà a lui contemporanea, definita
del ferro, agli antichi fasti, ma accetta il cambiamento della società che lo circonda verso un
progressivo declino. Virgilio, parlando dell’apicoltura in generale, introduce questa digressione sul
vecchio con la praeteritio: il poeta asserisce infatti di voler tralasciare questo aneddoto, narrandoci
però a grandi linee la storia, ricordandosi direttamente in prima persona, per concretizzare l’esempio
e renderlo realistico. Il vecchio contadino (un ex pirata, probabilmente, venuto dalla natia Cilicia
dopo una sorta di amnistia concessa da Pompeo, al termine della campagna militare del 67 a. C.
contro quei pirati) possedeva pochi iugeri di terra “abbandonata”, perché improduttiva, “terra
infeconda al lavoro dei buoi, inadatta alle greggi, sfavorevole alle viti”: insomma, un terreno arido,
che però il vecchio, con il suo esperto e faticoso lavoro, riesce a rendere fertile, “sentendosi in cuor
suo ricco come un re”. Virgilio sottolinea quindi la capacità propria di un vero saggio di accontentarsi
di poche cose, comportandosi frugalmente, piuttosto che ricercare il superfluo invano, e sottolinea
ancora una volta la sua autosufficienza nel dire che egli “guarniva la mensa con cibi non comprati”. Il
contadino ha dunque un rapporto privilegiato e diretto con la natura, che lo ripaga dei suoi sforzi ed
è per questo felice, come solo un vero saggio potrebbe essere: è la saggezza di chi ha compreso il
segreto di una vita serena, che non risiede nella quantità, ma nella qualità delle cose, del tempo,
dello spazio che ci circonda; e nella intuizione che, se il regno della quantità dipende, in gran parte,
da fattori esterni al nostro volere, quello della qualità dipende, invece, pressoché unicamente da noi.

Nel quarto libro delle georgiche dedicato all’agricoltura si narra delle


vicissitudini del giovane Oristeo che per aver infastidito una ninfa viene punito
con la perdita del suo alveare. Per riottenerlo deve sacrificare un bue dalla cui
carcassa uscirà lo sciame . La vicenda si ricollega al mito di orfeo che persa la
sua amata si reca negli inferi per supplicare ade di restituirgliela. Tuttavia
Aristeo ha successo ed effettivamente riottiene le sua api, la spedizione di
Orfeo si rivela fallimentare: nel suo ritorno non riesce a trattenersi e si volta a
guardare euridice perdendola per sempre. La società delle api è ideale e
fondata sulla concordia e sull’assenza dell’eros, che era mal giudicato nel libro
III come causa di temporanea follia, infatti i romani credevano che le api si
riproducessero con il mito della bugonia. la struttura ad incastro era molto
apprezzata nella poesia alessandrina e poi anche da catullo e da virgilio.
EPILLIO diminutivo di epos ossia una breve narrazione epica o mitologica
elegante di
origine alessandrino.

ENEIDE
. ENEIDE e il confronto con OMERO
Secondo i grammatici antichi, l’intenzione dell’Eneide virgiliana ha un duplice
scopo: imitare Omero e lodare Augusto
partendo dai suoi antenati.
I 12 libri virgiliani sono innanzitutto concepiti come una risposta ai 48 libri
omerici:
ENEIDE ( Libro I a Libro VI )  PARTE ODISSIACA tratta del VIAGGIO
Racconta il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio. Tutto
ciò, con una retrospettiva sulle vicende
che avevano portato Enea da Troia a Cartagine.
ENEIDE ( Libro VII a Libro XII )  PARTE ILIADICA tratta della GUERRA
Con l’inizio del Libro VII i Troiani sono ormai giunti alla foce del Tevere. Questo
luogo è assegnato dal DESTINO/FATO e
da qui comincia la narrazione di una guerra.
Dal Libro VII a Libro XII è narrata la guerra, che si concluderà solo con la morte
di Turno all’ultimo verso.
Questa ripartizione è voluta da Virgilio stesso per sottolineare la sua volontà di
imitare Omero. Per questo la prima
parte è detta Odissiaca, perché prende gli influssi dall’Odissea, e la seconda
parte è detta Iliadica, perché narra della
distruzione di una città.
Le esperienze si presentano in sequenza rovesciata: prima i viaggi e poi la
guerra; questo comporta anche
un’inversione dei contenuti.
Questa complessa capacità dei modelli non ha precedenti. Ma se l’Eneide è
innanzitutto una contaminazione dei due
poemi omerici, non dimentichiamo che è anche una continuazione di questi
ultimi. La guerra nel Lazio di Enea, infatti,
è vista come continuazione della guerra di Troia.
ESEMPIO: I Troiani all’inizio sono assediati e vicini alla sconfitta. Alla fine,
risultano vincitori ed Enea riesce
addirittura ad uccidere Turno, capo avversario, e vincere; come Achille uccide
Ettore in Omero.
Il superamento virgiliano si ha in quanto mentre la guerra in Omero porta alla
distruzione di una città, quella di Virgilio
porta alla costruzione di una città nuova.
Enea in questo modo riassume sia l’immagine di Achille vincitore, ma
soprattutto quella di Odisseo conquistatore, che
dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace.
E’ in questo modo che si arriva all’intenzione di Virgilio: lodare Augusto
partendo dai suoi antenati.
I lettori romani di Virgilio, in questo modo, si trovano immersi in un mondo
omerico, così Virgilio permette di esaltare
sempre più la figura di Augusto, permettendo di guardare il suo mondo da
lontano.

Perché ENEA è PIO


La pietà (dal latino: pietās) è un sentimento che induce amore, compassione e rispetto per le
altre persone[1][2].
Il significato attuale della parola pietà, cioè compassione, misericordia, non corrisponde al
significato del termine da cui essa deriva: la pietas degli antichi era infatti la devozione religiosa,
il sentimento d'amore patriottico e di rispetto verso la famiglia, oltre al valore intrinseco e
gerarchico che essa rappresentava nel mondo ellenico. Enea veniva soprannominato il pio non
perché fosse buono e misericordioso, ma perché era particolarmente devoto agli dèi, come si
evince dalla cieca fiducia che ripose nei loro presagi, e inoltre incarnava perfettamente i valori di
rispetto dell'unità familiare, come si vede nell'Eneide, quando Enea, durante la fuga da Troia, si
fa carico sia del figlio sia del padre Anchise. Enea obbedisce sempre agli dèi e al fato mettendo
in secondo piano le vicende personali, come l'amore per Didone. Il motivo della pietas è molto
evidente nelle sue gesta, come quando è alla ricerca del vecchio padre e lo porta sulle spalle
mentre sono in fuga. Qui l'atteggiamento "pietoso" dell'eroe troiano consiste nel rispetto dei valori
tradizionali quali la famiglia, la patria e la religione. Enea infatti non si oppone al volere del fato
Altro passo utile per l’analisi del personaggio Enea è il momento del “costretto”
addio a Didone. Anche qui gioca un ruolo determinante la pietas, intesa come
osservazione scrupolosa del volere divino: Mercurio, messaggero di Giove, lo
ammonisce a lasciare Cartagine e a proseguire il viaggio. Enea non ha dubbi, si
prepara subito a lasciare la città, di notte e di nascosto. il colloquio che è
costretto ad avere con l’infuriata Didone è più una accusa-supplica da parte della
regina, un ultimo disperato tentativo di convincerlo a restare nell’isola e a
consolidare il suo rapporto con lei. Enea di fronte a lei mostra tutta la sua umana
debolezza: non è capace di portarle la reale motivazione e si limita a dirle che
tra di loro non c’è alcun vincolo coniugale. Solo all’ultimo accenna alla natura
divina del suo viaggio dicendo “  . Italiam non sponte sequor.”: un verso la cui
forza sta nell’incompletezza, (cosa rara nell’Eneide, 5 soli sono i versi non
completati), nel fatto di essere quasi singhiozzato; un verso che costituisce la
vera giustificazione di questa sua partenza, resa ancor più un dovere dal fatto
che stavolta è stato lo stesso Giove, attraverso Mercurio, a manifestare la sua
volontà.

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