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a Zacinto
1. Nell’opera, Foscolo rievoca la bellezza della sua patria – Zacinto – luogo
d’origine di Venere e celebrata da Omero nell’Odissea. Come Ulisse,
Foscolo ha dovuto lasciare la sua terra natia; a differenza dell’eroe omerico
non potrà mai però ritrovarla, quindi nel sonetto esprime il suo dolore per
la sepoltura lontana e «illacrimata» cui è destinato. Zacinto conserverà del
«figlio» soltanto la sua poesia.
2. La nascita di Venere, avvenuta nelle acque di Zacinto, conferisce loro
sacralità – in particolar modo perché Venere è dea della fecondità e quindi
della vita, sacra di per sé. Le isole greche sono inoltre state celebrate da
Omero, il cui canto era idealmente dettato dalla dea Calliope – e
conservano in sé il «sacro» patrimonio dei valori della cultura greca.
Soprattutto, essendo sacra la patria, le «sacre sponde» di Zacinto sono tali
non in senso oggettivo, ma nell’ottica soggettiva del poeta, che vi è nato.
3. Ulisse è ovviamente un eroe classico: superiore al suo popolo per abilità,
forza o carisma, ne è il leader incontestabile, e supera avversità e le entità
superiori che gli si oppongono per compiere il proprio destino. Nella
poesia, tuttavia, Foscolo pone l’accento su i tratti dell’eroe che lo
accomunano a lui: Ulisse è «bello di sventura», ovvero è eroico non per i
successi ma per le avversità sopportate. La sua grandezza non è quindi
nell’essere tornato in patria, ma nell’aver viaggiato soffrendo la sua
lontananza; non nell’essere re e leader del suo popolo, ma nell’aver
affrontato questo viaggio in solitudine.
L’eroe foscoliano, con cui l’autore stesso può identificarsi, è un eroe che si
sente estraneo alla terra e alla società in cui vive e che quindi se ne isola,
ricercando ideali più alti – la bellezza, l’arte - al di fuori di essa. La
grandezza di questo eroe non è il compiere il proprio destino, ma l’essere
condannato a un destino spietato, e generare arte dal tormento. Ulisse è
infatti anche «bello per fama», ovvero in virtù del canto di Omero; con a
Zacinto, Foscolo intende forse cantare del proprio «eroismo».
La lettera da Ventimiglia