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16. Il lascito del colonialismo e la relazione con l’altro
fenomeni migratori, della religione e del mercato del lavoro. Oggi a essere
stigmatizzati sono gli immigrati in quanto tali. La loro inclusione selettiva, a
partire dalla loro clandestinizzazione, obbedisce inoltre a regole non scritte
che privilegiano le migrazioni “bianche” rispetto a quelle “di colore” (Mez-
zadra, 2008; Curcio, Mellino, 2012; Mellino, 2012). Inoltre, come sottolinea
Valérie Amiraux (2012, p. 218, trad. mia), la razzializzazione dell’Islam crea
nuove divisioni attraverso un processo che «ricostituisce frontiere interne
razziali e religiose all’interno di un’Unione Europea che, ironicamente, rap-
presenta, o si pensa rappresenti il compimento di uno spazio sociale, politico
ed economico privo di frontiere territoriali». Nuove divisioni interne, nuove
frontiere esterne. La pericolosa costruzione del Mediterraneo come frontiera
armata – ma anche confine poroso e deterritorializzato sul quale l’Europa ha
parzialmente dislocato i controlli verso paesi terzi come la Libia e il Maghreb
– sancisce tale struttura di discriminazioni (Cassano, Zolo, 2007; Chambers,
2007). «Quelle linee di confine […] – il Mediterraneo tutto – stanno diven-
tando la linea d’ombra del nostro paese […]: di qua il rispetto delle genti, di
là l’infamia» (Caminiti, 2002, p. 181). Come Caterina Resta scrive: «Quel
mare, i cui fondali hanno restituito reperti di inestimabile valore archeolo-
gico, oggi si è trasformato in un “cimitero marino” di morti senza nome»
(2012, p. 81). Dal 1988 al 2012, almeno 18.673 persone sono morte lungo le
frontiere della “fortezza Europa”, di cui 2.552 soltanto nel 2011, anno di nasci-
ta delle primavere arabe. «La prima generazione globale in Europa», scrive
Gabriele Del Grande (2008, p. 83), «Schengen, Ryanair e l’Erasmus hanno
fatto miracoli. Ma negli stessi anni, una politica dissennata e irresponsabile
ha fatto del Mediterraneo un abisso di morte».
È stato evidenziato il paradosso che l’Europa si sia costruita attraverso una
costante comparazione con immagini e rappresentazioni di un’alterità sel-
vaggia: non semplicemente un’alterità esterna alle frontiere europee, ma «in-
sediata fin dall’inizio nei concetti e nelle categorie che articolano l’unità e
l’omogeneità dello spazio europeo» (Ellena, 2010, p. 136; Chambers, 2004).
L’approccio postcoloniale – un campo vasto ed eterogeneo di studi che oc- L’approccio
cupa uno spazio interdisciplinare ed elabora il «movimento di retroazione postcoloniale
dalle colonie sulla metropoli» (Mezzadra, 2008, p. 59) – aiuta a portare luce
su queste costellazioni. Achille Mbembe (2010, p. 87, trad. mia) suggerisce
che l’Europa scriva la sua autobiografia «a partire dall’Altro, in risposta alle
questioni che costui le rivolge».
Le società europee – nelle loro storie e nelle loro memorie collettive – sono
segnate dai totalitarismi della modernità europea. Hannah Arendt (1951) in-
dividua nel totalitarismo una forma di potere che definisce come del tutto
nuova nella storia dell’umanità: una forma di potere basata sull’ideologia e
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2012a; cfr. cap. 15). Questo ancoraggio alla storia individuale e circoscritta
appare più consono per imparare – noi – a rispettare, a conoscere e a metterci
in relazione con la nostra storia coloniale e postcoloniale. Conoscere i trau-
mi subiti dalle vittime di questi soprusi potrebbe essere il primo passo ver-
so un processo di riconoscimento, verso la costruzione autocritica di una
memoria coloniale da parte nostra ( Jedlowski, Siebert, 2011). Per superare,
finalmente, questo «rifiuto ostinato di ogni sentimento di colpevolezza»
(Mbembe, 2010, p. 171, trad. mia).
Lo statuto di vittima L’evento traumatico non viene subito compreso, ha una particolare strut-
tura temporale: una latenza connessa agli accadimenti, un ritardo dell’espe-
rienza storica. Spesso la violenza rimane, per chi l’ha subita, incomprensibile.
È come se l’esperienza ordinaria del tempo e dello spazio fosse annientata.
Le vittime stesse, spesso, appaiono stupite, ammutolite. A partire dal vissuto
delle vittime il trauma pone un conflitto tra il dovere della memoria e il
bisogno di dimenticare. D’altra parte, la stessa definizione di “vittime”, che
è una costruzione prevalentemente passiva di queste persone, andrebbe rifor-
mulata. Simona Taliani (2011, p. 10, trad. mia) denuncia «la de-storicizzazio-
ne del rifugiato come figura emblematica di una umanità universale priva di
consapevolezza». È qui che risiede la pertinenza di mediare traumi collettivi
con i singoli traumi individuali. Una tendenza analoga di generalizzazione,
simile a quella evidenziata da Taliani, possiamo osservarla nel modo in cui ci
si rapporta ai migranti in generale.
Sandro Mezzadra (2006, p. 126), inoltre, sottolinea l’ambivalenza della
condizione migrante – «la tensione tra la realtà di oppressione e la ricerca
di libertà» – che caratterizza molte esperienze migratorie. Un caso emble-
matico appare quello delle giovani donne nigeriane portate in Europa per
prostituirsi: imprigionate tra violenza simbolica, coercizione fisica, riti di
possessione e abuso sessuale – sia in Nigeria sia in Europa, ma anche duran-
te il viaggio migratorio attraverso paesi come Benin, Mali e Libia –, queste
donne spesso esprimono una forte volontà di affrancarsi dalla loro schiavitù
(Achebe, 2004; Taliani, 2012). Implicitamente, spesso anche esplicitamente,
queste vittime chiedono un riconoscimento delle responsabilità morali e
storiche dei loro carnefici. Ma rimangono il più delle volte inascoltate. Una
nostra maggiore solidarietà e presa di responsabilità (che presuppone per co-
minciare una maggiore conoscenza dei contesti coloniali e postcoloniali) e
una costruzione pubblica delle ferite coloniali come trauma storico, potreb-
bero essere un primo passo verso un rapporto meno squilibrato con coloro
che arrivano in Europa in cerca di giustizia e una vita decente. In sostanza: il
problema non sono loro, ma piuttosto noi stessi, come avverte Iain Cham-
bers (2007, p. 130): «Questa “emergenza” non è costituita dall’immigrazione
– in se stessa prodotto e produttrice della “nostra” modernità – bensì dalla
xenofobia; perché siamo “noi” a dipingere noi stessi come le “vittime” e a
costituire, in varia misura, il vero problema».
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Ma torniamo alla domanda iniziale: quale nesso vi è tra la mancata elabo- Il nesso tra la mancata
razione del colonialismo come trauma, la legittimazione più o meno aperta elaborazione
del razzismo e i processi migratori che interessano l’Europa di oggi? Theo- del colonialismo come
dor W. Adorno (1959a, trad. it. p. 23), analizzando l’elaborazione del pas- trauma
sato nella Germania post-nazista, annotava che «i meccanismi psicologici e gli attuali processi
della rimozione di ricordi angoscianti e sgradevoli sono funzionali a scopi migratori
estremamente inerenti al reale». Lo sfruttamento degli ex colonizzati, ora
migranti extracomunitari, la razzializzazione etnica del mercato del lavo-
ro e la contemporanea criminalizzazione dei processi migratori (cfr. cap.
17) rimandano a questi «scopi estremamente inerenti al reale» di cui parla
Adorno. E la trasformazione del Mediterraneo da espace mouvement, per ri-
chiamare la celebre definizione di Fernand Braudel (1902-1985), a confine
estremo dell’Europa ne è un dolente sintomo (Gatti, 2007; Gatta, 2012). Oc-
corre lavorare per un riposizionamento dei paesi del Mediterraneo nel conte-
sto europeo, sia elaborando le ferite del trauma coloniale, sia rivitalizzando il
pensiero meridiano (Cassano, 1996). La pensée de midi, formulata da Albert
Camus (1913-1960), mette l’Europa di fronte alle sue promesse non eludibili.
Nei paesi mediterranei lo scrittore vedeva «le fontane di vita a cui l’Europa,
esausta e vergognosa, tornerà un giorno ad abbeverarsi» (Camus, cit. in Pa-
stura, 2013). L’Europa sarà quel che il suo Mezzogiorno sarà.
Ma l’immagine che oggi offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante: le L’immagine odierna
sue coste settentrionali rappresentano un ritardo rispetto al Nord Europa, e del Mediterraneo
le rive meridionali sono in perenne conflitto con quelle europee rispetto ai
flussi migratori. È diventato difficile considerare il Mediterraneo come un
insieme. Il mare stesso è diventato sempre di più una frontiera armata per
separare l’Europa dall’Africa e dall’Asia Minore: «è nata un’Europa sepa-
rata dalla “culla dell’Europa”» (Matvejević, 2007, p. 436; Resta, 2012). La
frontiera della fortezza Europa è di fatto antitetica allo sviluppo pacifico del
mondo euromediterraneo. Le speranze suscitate dalla Conferenza di Barcel-
lona (1995) appaiono oggi sbiadite, anche se per ora è difficile prevedere i
futuri sviluppi in seguito alle primavere arabe. La Dichiarazione di Barcel-
lona – una dichiarazione di intenti senza carattere vincolante – riveste tut-
tavia una certa importanza. Si tratta del primo accordo multilaterale firmato
dai paesi arabi del Mediterraneo con l’Unione Europea; anche se, dopo il
2003, con la “Politica di vicinato” l’Unione europea riporta la cooperazio-
ne con i paesi terzi sul binario degli accordi bilaterali (Gallina, 2007; Zolo,
2007).
Il partenariato euromediterraneo ha incentivato la creazione di innu- L’asimmetria
merevoli organismi ma non ha modificato l’asimmetria dei rapporti tra euromediterranea
i paesi attorno al Mediterraneo; la sua realizzazione appare ferma a una
dimensione meramente retorica (El Kenz, 2007). Nella politica estera
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Così, per quanto riguarda l’Europa, ciò che dobbiamo evitare a ogni costo è la buona
coscienza. Il lavoro della memoria deve lasciar rifluire verso di noi l’ossessione delle
barbarie: asservimenti, tratta dei neri, colonizzazioni, razzismi, totalitarismi nazista
e sovietico. Questa ossessione, integrandosi all’idea dell’Europa, fa sì che integriamo
la barbarie alla coscienza europea.
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