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BRUNELLA GASPERINI

IO E LORO
Cronache di un marito

Disegni Di PAOLA MONDAINI


Proprietà letteraria riservata
1959 Rizzoli Editore Milano
terza edizione BUR: settembre 1980
IO E LORO

È da un pezzo che ho in mente questa idea, ma oggi è il giorno adatto per


cominciare a metterla in pratica. È una domenica d'agosto, ho raggiunto la famiglia sul
lago, e piove: come previsto. Secondo me, questo paese è fornito di un fortissimo senso
dell'odorato, che gli permette di avvertire la mia presenza a una ventina di chilometri di
distanza e chiamare a raccolta le precipitazioni atmosferiche per farmi festa. Quando
espongo questa mia teoria, mia moglie dice... Ma non cominciamo a divagare.
L'idea me l'ha data la professoressa di mio figlio, la quale, forse per allietare l'estate
alle famiglie dei suoi scolari, ha assegnato loro, come compiti per le vacanze, delle
cronache settimanali. Secondo l'esimia signora, le cronache dovrebbero essere dei
brillanti resoconti dei fatti più salienti avvenuti nel corso dell'estate. Secondo mio figlio,
le cronache sono degli elenchi niente affatto brillanti di fatti niente affatto salienti
compiuti da persone niente affatto intelligenti, che lui deve scrivere, non senza
discussioni e lai, nei giorni di pioggia. Le sue cronache cominciano invariabilmente con:
Questa settimana la mia mamma, il mio papà, la mia sorella Bruna, la mia sorellina Tatti e io..., e
come finiscano non so. Non ho mai avuto la forza di leggerle. Mia moglie dice che
dovrei. Mi istruirebbero, dice. Ragione di più per non leggerle. Non mi piace istruirmi. E
non mi piace fare quel che mia moglie dice che dovrei fare.
L'idea, comunque, mi è venuta di lì. Anch'io farò delle cronache. E saranno le
cronache di una famiglia. La mia. Quella di cui, in teoria, io sono il capo; che cosa sia in
realtà, ho ancora da saperlo. Forse lo scoprirete voi alla fine, come nei libri gialli.
Per facilitarvi il compito, comunque, comincerò col darvi l'elenco dei protagonisti.
Fanno appunto così nei libri gialli, avete presente? Prima di iniziare il racconto, vi danno
l'elenco dei personaggi principali, ognuno con la sua qualifica; così quando, dopo una
dozzina di pagine, le cose si ingarbugliano, le vostre idee anche, e cominciate a
confondere i buoni coi cattivi, i vivi coi morti ammazzati, le forze dell'ordine con quelle
del disordine e a sentirvi nervosi, andate indietro a consultare l'elenco, e tutto vi torna
chiaro; oppure buttate via il libro, e tutto è ancora più chiaro. Comunque, io l'elenco ve
lo do. Poi sceglierete voi.

PERSONAGGI PRINCIPALI

IO - Il marito.
LEI - La moglie.
BRUNA - La figlia grande.
POP - Il figlio medio.
TATTI - La figlia piccola.
IL BU - Un cane inconsulto.
LA ROSA - Una domestica in letargo.
LA VECCHIA – Un'automobile che spara.

Questi i personaggi che formano, come dire, il nucleo fisso del nostro pianeta. Ci sono
poi svariati satelliti che girano intorno complicando enormemente le cose, di per sé già
abbastanza complicate.
Ma i satelliti, parenti e amici, li conoscerete col tempo e con le cronache. Adesso
comincio a fare la descrizione del pianeta, tanto perché sappiate dove state.

Tranne la Rosa e la Vecchia (confrontare l'elenco dei personaggi: n.d.r.), siamo tutti qui nella
veranda a lago: da me al cane. Cominciamo da me, sebbene non sia certo che sia questo
l'esatto ordine gerarchico.

IO

Sono l'unica persona normale della famiglia, sebbene mia moglie abbia talvolta
l'aria di considerarmi un soggetto da psicanalisi. «E' figlio unico», sospira scuotendo la
testa. Secondo mia moglie un individuo, per essere appena appena normale, deve avere
un minimo di due fratelli. Lei, infatti, che ne ha avuti qualcosa come cinque, è
supernormale: il che significa pazza completa. Ma andiamo avanti con me. «Dino non
invecchia mai», dicono tutti. «Guardàtelo, sembra sempre un ragazzo», dicono. Al che
mia moglie mi guarda sollevando un angolo solo della bocca, cosa che mi rende molto
nervoso. Ma sto divagando di nuovo.
Ho trentasette anni e non li dimostro. Mi piace dipingere, coltivare fiori, sciare.
«Dino è un tipo sportivo», dicono tutti. «Ha un temperamento artistico», dicono anche.
Con tutto questo, faccio l'impiegato. In banca: otto ore dietro una scrivania a fare
statistiche idiote.
Questo succede quando uno si sposa troppo giovane. E va in guerra sette giorni
dopo le nozze. E quando torna, trova una figlia che cammina e parla e lo chiama zio
perché non sa che cosa sia un papà. Poi ha imparato. E intanto, grazie alle teorie
psicologiche di mia moglie, sono arrivati gli altri due e... Insomma, sono impiegato. Tipo
sportivo, temperamento artistico, e impiegato. Cose che capitano. Sono un padre.
Qualche volta mi sembra ancora strano: padre io.
E lei, madre. Ma va' là, ragazzina. Madre! Mi sembra ieri che l’ho vista per la prima
volta, una matricola sparuta col vestito della sorella maggiore e le mani più piccole del
mondo e diciassette anni. Ieri. E adesso è madre: e ha una figlia che ha quasi la sua età.
La sua età di allora; dico. Quella di adesso, la ignoro.

LEI.

Allora la chiamavo Osso e così la chiamo tuttora, perché osso è rimasta. Eccola lì,
seduta di sghimbescio al tavolo della veranda, abbronzatissima e microscopica, coi
calzoni rimboccati e i piedi nudi. Mia moglie sta sempre a piedi nudi: tranne quando va a
letto, chè allora si mette i calzini. Rossi. Senza i calzini rossi non può prendere sonno.
Che è tocca ve l’ho già detto. Fa la scrittrice per intenderci.
Anche adesso sta scrivendo. Con la gamba sinistra rannicchiata di sotto e la destra
protesa nel vuoto, la macchina da scrivere davanti e la radio accesa di dietro, un figlio
maschio a sinistra e due femmine a destra, un can barbone a babordo e me a tribordo,
scrive. O meglio, batte l'indice destro sempre sullo stesso tasto (l'X), mentre con l'indice
sinistro si attorciglia sempre lo stesso ciuffo di capelli. Il che significa che sta pensando, e
che la pensata non le riesce. Non so come sia, ma quando ci sono presente io è sempre
in queste condizioni. Scrive x, tira capelli, e non le riesce niente. E non ditemi che sono
io che la disturbo: manco fiato, io. Tutt'al più mi limito a darle qualche sensato consiglio.
Per esempio:
«Non tirarti i capelli! ».
«Eh?» dice lei
«Ho detto di non tirarti i capelli!»
«Ah» =, dice, continuando a tirarseli.
«NON TIRARTI I CAPELLI!!! ».
Lei allora dice che non è sorda. Che non capisce perché grido. Che siamo in un
paese democratico. Dopo di che prende su la sua macchina e si ritira sull'Aventino, ossia
nella camera da letto-studio, per scrivere in pace, dice. Cioè per tirarsi i capelli in pace.
Allora io vado a scuotere la maniglia della porta, e lei... Ma oggi non siamo ancora
arrivati al punto dell'Aventino. L'abbiamo sfiorato un paio di volte, ma non l'abbiamo
ancora raggiunto. Andiamo con ordine, dunque. Stavo facendo la descrizione generale
LA FIGLIA GRANDE

Con quell'aria di Alice nel paese delle meraviglie e una maglietta con dentro dei
tentativi che l'anno scorso non c'erano, mi fa una rabbia maledetta: chi le ha dato il
permesso di crescere? Eccola lì, distesa in una sedia a sdraio, con la coda di cavallo, le
gambe che non finiscono mai e quindici stupidissimi anni, che legge languidamente
Topolino. Se qualcuno di noi la guarda, assume un'aria profondamente annoiata. Ogni
tanto, per non lasciare dubbi in proposito, dice anche: «Che barba!». Da un po' di tempo,
per la grande tutto è barba. Barba la scuola, barba le vacanze, barba la famiglia, barba le
amiche, barba i ragazzi. Soprattutto quelli. «E' tutta scena», mi spiega in privato mia
moglie, la psicologa. «I ragazzi non le fanno barba, le fanno una paura d'inferno. Anche a
me la facevano». Mi guarda e si stringe nelle spalle. «Poi mi è passata», sospira.
Nessuno lo sa meglio di me.

IL FIGLIO MEDIO

Si chiama Maurizio, e voi avreste diritto di chiedermi come ne sia venuto fuori un
Pop. Il fatto è che fino all'età di due anni il mio unico diletto figlio maschio non sapeva
dire altro che pop. Qualsiasi cosa volesse chiedervi, diceva pop; qualunque cosa voi
voleste chiedere a lui, rispondeva pop. «Come fa il cavallo?» «Pop» «Come fa il leone?»
«Pop». «Come ti chiami?». «Pop» «Saluta la zia Carlotta». «Pop» La zia Carlotta si
offendeva; diceva che ero io a insegnargli a dirle pop, e giurava che non sarebbe mai più
venuta a trovarci; il che, se fosse stato vero, sarebbe stato l'unico vantaggio della
faccenda.
Il pop, comunque, gli è rimasto attaccato. Ha undici anni, adesso. Ha imparato a
parlare, ma come intelligenza non è migliorato molto da quando diceva pop. Sua madre
dice che non lo capisco. Lei sì: tra tocchi ci si intende meglio. Eccolo lì, seduto sui propri
talloni, che scrive con la biro sopra un quaderno che sta in terra. Non l'ho mai visto
scrivere in altra posizione. Dai sospiri che tira e dagli occhi lunghi che fa, deve trattarsi
della cronaca. Se allungo la testa sopra i suoi capelli alla porcospino e i suoi lài, posso
vederne l'inizio: Questa settimana la mia mamma, il mio papà, le mie sorelle e io.. Cosa vi avevo
detto?

LA FIGLIA PICCOLA

A sei anni, è la più in gamba della famiglia. «E solo la più furba», dice mia moglie.
«Ti fa su come niente». (Perché lei, invece...). Dite quel che volete, ma vi sfido a trovare
una figlia piccola meglio di questa.
Occhi a parte, ha tutto piccolo: piedi, mani, sederino in fuori, naso. II naso, poi,
per trovarlo bisogna metterlo controluce. In mezzo alla testa, proprio sul cocuzzolo ha
una pagnottella bionda che sarebbe uno chignon. Anche la grande qualche volta si fa fare
da sua madre lo chignon, che il figlio medio, in segno di dispregio, chiama scimmione. La
grande e il medio si spregiano sempre. Comunque, se in casa mia sentite dire: «Facciamo
il cavallo o lo scimmione?», non allarmatevi, si tratta delle pettinature delle figlie. Matti
siamo, ma cavalli e scimmie non ne facciamo. Per ora..
In questo momento la figlia piccola sta giocando con uno sterminio di bestie di
pezza che in casa mia si chiamano pelùches, letto com'è scritto, con l'accento sull'u. Ne
abbiamo quarantasette. Al momento i peluches sono una comitiva di turisti stranieri in gita
sul lago, cicerone un leopardo in cattive condizioni al quale la piccola presta una voce di
circostanza, enfatica e nasalissima, nonché piena di effe perché le mancano ancora tre
denti davanti. «Prefto, fignori e fignore, il accomodino sul motofcafo che fi parte
fubito... dài, prefto, fignori e frgnore, occhio a non cafcare... Plaf!». Grido di giubilo,
turista inglese caduta in acqua. «Aiuuuto! Affogo, falvatemi!». Tuffo di venti turisti
pelosi, troppo tardi: è affogata. La piccola ha un temperamento drammatico.

IL BU

Ha cinque anni, quindi è un cane maturo, o perlomeno giovanotto; ma si


comporta ancora come se fosse un cane in fasce: ruba calze, divora pantofole, abbaia
quando dovrebbe star zitto, sta zitto quando dovrebbe abbaiare, e via dicendo. Merito
dell'educazione di mia moglie. Secondo lei, infatti, non è giusto imporre le proprie
opinioni a un povero cane che non sa parlare: non è democratico. Morale, il Bu agisce
sempre di testa propria: una testa particolarmente inconsulta. E se qualcuno lo
rimprovera, mette il muso e dichiara lo sciopero. «È il più caro, buono, stupido cane del
mondo», dice mia moglie con voce dolce. Lui la guarda con gli occhi invisibili sotto i
peli, agitando il suo mozzicone di coda; e la saliva gli scende fino in terra. In quei
momenti immagino sopra la sua testa un fumetto, e in quel fumetto c'è mia moglie in
piedi sopra un altare, con un'aureola in testa, che emana intorno a sé musiche celesti.
Sono certo che lui la vede così. Come la vedo io, ve l'ho già detto.
In questo momento, acciambellato sotto la sedia della sua Divina Signora, il Bu
sonnecchia o finge di sonnecchiare: non si può mai saperlo, dati i peli. Solo di tanto in
tanto volta un po' il muso verso il giardino, e ringhia piano tra sé all'indirizzo della
Vecchia: tra il Bu e la Vecchia c'è una profonda, insanabile incompatibilità di carattere.

LA VECCHIA

Se ne sta sola in giardino sotto il diluvio, momentaneamente inoffensiva. Starà


preparando il piano di battaglia per stasera, quando dovrà riportarmi a Milano: sempre
che riesce a convincerla a riportarmici, magari a rate. Smettendo per un momento di
scrivere x, mia moglie lascia vagare fuori lo sguardo. «Povera Vecchia»», dice. «Andate
fuori un momento a farle pat-pat ».
Non so in casa vostra, ma in casa mia fare pat-pat significa dare dei piccoli,
affettuosi colpetti sulle spalle, sulla testa, in questo caso sul cofano. Non so in casa
vostra, ma in casa mia ogni oggetto, automobile compresa, viene trattato come una
persona. Io invece, che sono una persona, ho talvolta l'impressione di essere trattato
come un oggetto. Che la Vecchia abbia un'anima, comunque, non è solo opinione loro,
ma anche mia: un'anima dispettosa, vendicativa, fantasiosa.
Dunque i due figli piccoli si mettono gli impermeabili e vanno fuori a fare pat-pat
alla Vecchia. La grande no, è superiore a queste puerilità. Io l'ho vista più di una volta
fare pat-pat di nascosto sul didietro della Vecchia, ma ho fatto finta di niente.
I due figli piccoli rientrano, allagando completamente il pavimento e il Bu, e
assicurano che la Vecchia è molto offesa.
«Altro che pat-pat » dice la piccola, «quella voleva andare a fpaffo»
A chi lo dice. Anch'io volevo andare a spasso Ma piove a secchi, e mia moglie
scrive x, e così ecco qua come passo la domenica. E nessuno mi fa pat-pat.

LA ROSA

È pronta per l'uscita festiva pomeridiana (una guardia di finanza aspetta al


cancello sotto il diluvio), ha una gonna a fiori, molta cipria bianca in faccia e un sorriso
celestiale.
«Signora-se-non-hai-bisogno-niente-io-eschirei, dice »
La Rosa ha quasi diciotto anni, quando è venuta in casa nostra da un paesino delle
Puglie ne aveva diciassette, e tra le molte cose che non ha imparato in questo anno c'è
quella di staccare le parole l’una dall'altra e di dare del lei alla gente. La figlia grande, che
essendo la prima della classe quando può insegnare qualcosa a qualcuno è tutta nel suo,
tentò mesi or sono di insegnarle il lei, ma ne venne fuori un tale groviglio grammaticale
che mia moglie proibì severamente a chicchessia di occuparsi ancora dei pronomi della
Rosa. «A me il tu mi piace», disse decisa; fa la scrittrice ma parla così. «Il tu fa antico
romano», disse anche. Secondo me fa giovane pugliese, ma forse non ho fantasia. Anche
in tutto il resto, comunque, la Rosa è rimasta allo stato brado. Come il Bu.
«Signora-se-non-hai-bisogno-niente-io-eschirei,» dice adesso.
Mia moglie la guarda con occhi vacui, battendo due o tre X:
«Eh?», dice.
«Signora-se-non-hai-bisogno-niente-io-eschirei » dice.
«Ah », dice mia moglie, battendo velocemente sette X.
La Rosa non si scoraggia: «Signora-ae-non-hai-bisogno-niente-io».
«Eschi!» urlo.
La Rosa sparisce in una nuvoletta di polvere, e mia moglie trasferisce lo sguardo
dai suoi X a me. È uno sguardo pieno di muto, profondo rimprovero. «Non si spaventa
la domestica », dice. Non è democratico» Poi si stringe nelle spalle,
«Be', ormai è eschita ». Lentamente, lo sguardo si trasferisce da me ai fogli che ho
davanti, tutti scritti. Per fortuna è miope.

Miope, ma curiosa.
«Cosa stai facendo?» chiede. Copro i miei appunti con la mano.
«Statistiche» , rispondo.
Sgrana gli occhi. «Giorni celesti!» dice: è una delle sue esclamazioni abituali.
«Giorni celesti » ripete tra sè , ricominciando a battere X. «Vostro padre è
diventato lavoratore».
«Perché, credi di essere solo tu quella che lavora, qua dentro?»., chiedo con voce
acida.
«Avevo questa impressione», risponde «Comunque, se uno la domenica si porta su
le statistiche dall'ufficio, non vuol dire che è lavoratore, vuol dire che è rimbecillito».
«Perché invece scrivere X è un lavoro di alto livello intellettuale», dico.
Lei non raccoglie. Ha ricominciato a tirarsi i capelli ed è svanita, battendo X, nei meandri
dell'ispirazione. «Sssst», dice.
Sssst a me. « »
« Non tirarti i capelli! », dico. Ci siamo arrivati.
« Eh?» dice. Tutto come previsto.
« Non tirarti i capelli! »
« Ah », dice.
« NON TIRARTI I CAPELLI O SPARO! »
Lei si alza. «Non sono sorda » -, dice freddamente. «Non capisco perché gridi.
Siamo in un paese democratico » Prende la macchina e si ritira sull'Aventino, piena di
democrazia fino agli occhi.
La figlia grande e il figlio media mi guardano con riprovazione. Il Bu non ne
parliamo. Tengono tutti per lei, qua dentro, tranne la figlia piccola che è astenuta: a lei
interessano solo i peluches.
Dall'Aventino mi arriva un suono di XXXX freneticamente battuti. Mi alzo e
vado a scrollare ferocemente la maniglia della porta.
Ma è aperta. Lo è sempre. Lei è lì, con la gamba rannicchiata di sotto, che mi
aspetta.
«Dittatore!», dice.
« Democratica! », rispondo.
I suoi occhi ridono, e anche i miei. Mi avvicino, e ti saluto le cronache. Sentite,
comincerò un'altra volta. In ufficio, magari.
COME FU CHE NON ANDAMMO AL MARE

La vostra estate è finita? La nostra quasi. Il lago ha già colore di settembre. Anche
a voi sembrano così corte, le estati?
La nostra ebbe inizio un venerdì di giugno, alle nove di sera. Le scuole non erano
ancora finite. I figli erano pallidi e smunti, o così mi sembravano. La grande era in pieni
esami di quinta ginnasio, ragion per cui aveva temporaneamente sostituito l'abituale "che
barba" con un "che fifa" in cui nessuno credeva, a cominciare da lei stessa: è bravissima
a scuola. Ma avere fifa fa molto liceale. La figlia piccola stava per essere trionfalmente
promossa in seconda elementare, cosa che la lasciava del tutto indifferente. Il figlio
medio non sapeva ancora se sarebbe stato rimandato in matematica, oppure in
matematica e latino, oppure in matematica, latino, italiano, inglese, disegno, storia e
geografia; cosa che lo lasciava altrettanto indifferente. Al momento tutti e tre vagavano
pancia a terra sul pavimento insieme ai peluches. Io annaffiavo i fiori sul balconcino. Mia
moglie correggeva freneticamente non so cosa con una biro rossa. La Rosa rompeva un
po' di vasellame in cucina. Il televisore trasmetteva qualcosa tra il disinteresse generale.
Faceva caldo, ma non era ancora estate. Non per noi.
Improvvisamente mia moglie posò la biro, alzò la testa e disse, come a concludere
una lunga discussione che non c'era stata: « Allora, se dobbiamo andare al mare...»
«Come sarebbe, se?», la interruppi bruscamente, voltandomi. «Se un corno! È fin
da Natale che abbiamo deciso di passare almeno le mie ferie al mare .»
Era la verità. C'era solo un piccolo particolare che in quel momento mi rifiutavo di
prendere in considerazione: che tutti gli anni, fin da Natale, avevamo deciso di andare a
passare le mie ferie estive al mare o in montagna. E che non ci eravamo mai andati.
Tranne una volta: per due giorni; poi eravamo venuti via, per certe ridicole nostalgie
collettive che in quel momento mi rifiutavo di ammettere. Mi rifiutavo di ricordare
perfino l'esistenza di una casa rossa sul lago, di nome Darsena, dove mia moglie, con la
complicità di due o più figli, mi aveva proditoriamente indotto a passare tutte le mie ferie
e i miei week-ends estivi. In quel momento intendevo ignorare anche l'esistenza dei laghi
in genere e il significato della parola lago. Non so se rendo l'idea.
I figli continuavano a vagare tra i peluches ostentando di disinteressarsi alla
discussione, ma avevo l'impressione che le loro orecchie fossero diventate
improvvisamente grandissime.
Diventava una questione di prestigio.
«Al mare si deve andare e al mare si va», dissi con una voce che suonò molto
forte. Mia moglie trasalì ostentatamente. «E non cominciare a creare difficoltà », le
ingiunsi invelenito. Lei sgranò gli occhi. «Io?», disse. «Ma io voglio andare al mare!
Dicevo solo che, se dobbiamo andarci, bisogna andar su a prendere i costumi da bagno».
Voi pensate forse che "andar su" significhi andare in soffitta, o montare su una
scaletta davanti a un guardaroba, o qualcosa del genere. Nossignori. Per mia moglie
"andar su" significa prendere tutta la famiglia, Bu compreso, caricarla sulla Vecchia e
trasferirla in quella tale casa sul lago. La quale casa sul lago dista da Milano un centinaio
di chilometri. Il quale centinaio di chilometri, percorso con la Vecchia, significa un
viaggio quanto mai rischioso, irto di imprevisti, detonazioni e agguati. Con tutto questo,
mia moglie dice "andar su" come se si trattasse, appunto, di andare in soffitta o di aprire
un armadio. Infatti è solita lasciare "su" un numero incredibile di cose indispensabili, che
è indispensabile andare poi continuamente a prendere.
L'idea, comunque, non mi dispiacque: se era per prendere i costumi... E poi, il
sabato e la domenica bisogna pure prendere un po' d'aria: i figli mi sembravano più che
mai pallidi e smunti, a guardarli.
Mia moglie guardò me e si alzò. «Allora andiamo su domani », disse.
I figli, grande compresa, smisero di fare finta di niente per abbandonarsi a
scomposte dimostrazioni di giubilo, e lei li guardò severamente.
«Intendiamoci!» disse alzando con solennità un indice sporco di biro rossa. «Si va
su solo per prendere i costumi. E il canottino pneumatico. E le maschere e le pinne. E
gli accappatoi. E potare la siepe. E innaffiare le aiuole. E rastrellare i viali. E sistemare le
tegole. E salutare i cigni e i ghiri. E fare pat-pat alle cose. Poi si torna e basta: intesi? Non
sperate di farci cambiare idea anche stavolta! Le ferie di vostro padre le passeremo al mare»,
disse con enfasi. E cominciò a enumerare sulle dita: «La Tatti ha appena fatto le tonsille,
e il mare fa bene alle tonsille. A Pop fa bene lo iodio e gli piace la pizza, e al mare c'è
pieno di iodio e di pizze. La Bruna vuole conoscere un po' di tizi nuovi...».
«Io non voglio conoscere nessun tizio!», la interruppe la figlia grande, piena di
dispregio. «Che barba».
Sua madre, ignorandola, proseguì: «...e al mare c'è pieno di tizi, tizioni e tizietti».
(Così si dividono, nel linguaggio tra madre e figlia, i giovanotti, a seconda della statura e
dell'età). Arrivò al quarto dito: «Io ho bisogno di riposare, e al mare, in albergo, dovrò
riposare per forza. In quanto al papà... ». Si interruppe col quinto dito per aria, e mi
guardò. «Cosa farai, tu, al mare?» chiese con voce di rimorso. Ma subito eliminò rimorso
e dito concludendo spartanamente: «Oh, be', per una volta il papà si sacrificherà per voi
».
Lo disse in un modo che mi fece sentire sacrificato al completo. Aprii la bocca,
ma la richiusi. Tanto non mi avrebbe dato retta: era già in preparativi.
«Lascia fuori la Vecchia, domani mattina», mi disse per ultima cosa, prima di
addormentarsi. «Sarà meglio darle una pulita ». (A scanso di equivoci, vi ricordo che la
Vecchia è l'automobile).
Il giorno dopo, sabato, lasciai fuori la Vecchia. E al ritorno dall'ufficio, alla una, la
ritrovai nel cortile. Il cortile era allagato, e in mezzo c'era la Vecchia. Prima di lasciarsi
pulire, doveva essersi difesa con ogni mezzo. Trovai lividi e macchie d'olio su ogni
membro della mia famiglia.
Dopo colazione affidammo l'appartamento alla Rosa, la Rosa alla portinaia, e
quando fummo pronti per partire, scomparve il Bu: fa sempre così, quando capisce che è
giunto il momento di salire sulla Vecchia. In un certo senso, lo capisco. Era nascosto
sotto il bagno. Acconsentì a salire soltanto in braccio a mia moglie.
Alle due e tre quarti partimmo. E, quel che è più strano, arrivammo anche. La
Vecchia doveva avere sfogato i suoi umori durante le operazioni di pulizia, e appariva
relativamente mansueta. Si impuntò una volta sola: a metà dell'autostrada di Como,
bloccando tutta una fila di macchine del sabato dietro di noi (mia moglie segnava gli
improperi più originali sul suo taccuino), e sparò una sola volta: alla Dogana di Chiasso.
Il doganiere stava chiedendoci se avevamo merce da dichiarare, e io stavo staccando le
chiavi dal cruscotto quando la Vecchia, senza alcun preavviso, fece b-b-boom e ci
trovammo in Svizzera. Nello specchietto retrovisore guardai il doganiere: aveva i capelli
irti.
Proseguimmo verso la dogana di Oria. Perché, se non ve l'ho detto, per andare
"su" bisogna anche passare due dogane. Non una, due. Infatti la nostra Darsena sta in
Valsolda; e la Valsolda, paese ispiratore di tipi come Fogazzaro e mia moglie, sta
nell'ultimo pezzetto, italiano, del lago di Lugano, che è svizzero. Suona complicato? Non
ditelo a me.
Quel sabato di giugno, comunque, arrivammo senza colpo ferire alla dogana di
Oria, e fu lì che successe. Che cosa, dite voi? Dovevate esser lì a vedere.
C'era, tra i doganieri, un tipo nuovo coi gradi, molto compreso delle sue funzioni.
Fanno sempre così, appena arrivati. Non poteva sapere che, tempo una stagione al
massimo, sarebbe diventato un vecchio amico nostro: adesso era nuovo, e scelse proprio
noi per dare una pubblica dimostrazione delle sue capacità.
Forse fu l'aspetto di mia moglie coi calzoni rimboccati, i piedi nudi, il cappello di
rafia in testa e un cane vociferante tra le braccia, a destare i suoi sospetti. O forse fu
semplicemente perché avevamo fretta e lo dimostravamo troppo. Ma potevamo farne a
meno? Eravamo fermi dietro la sbarra, e al di là, dalla riva verde in fondo, la nostra
Darsena rossa rideva verso di noi con la sua allegra bocca nera spalancata sotto le
persiane verdi chiuse. Ogni volta che arriviamo lì e vediamo quella grande bocca
sdentata che ci chiama, è come se tornassimo, dopo un lungo esilio, verso l'infanzia e le
favole. Vecchie favole fatte di fruscii fondi di tigli, brontolii freschi di onde, gridi felici di
bambini, e siepi da potare, prati da falciare, pesci da pescare, persiane da aggiustare, e
corse sulla ghiaia e tuffi dal molo diroccato e rossi tramonti e neri temporali e lunghi pini
segreti sotto immobili pleniluni. Potevamo dar retta a un... dico, a un maresciallo o
capitano o generale che fosse, che ci parlava di merci da dichiarare?
«Non abbiamo niente», borbottai toccando irritato la chiavetta d'accensione. La
Vecchia fece g-g-grount a mezza voce, il Bu ululò, e il Capo disse freddamente:
«Favoriscano aprire il portabagagli »..
Quando lo aprii, la Vecchia diede un botto tale che il Capo dovette credere a un
ordigno atomico nascosto da qualche parte. E quando vide che il portabagagli era vuoto,
disse ancora più freddamente:
«Favoriscano scendere».
Neri, ubbidimmo. Tutti, tranne mia moglie.
Dovete sapere che mia moglie è, in genere, una cittadina abbastanza disciplinata.
Nonostante i piedi nudi e il resto, ha un carattere logico e accomodante, non litiga mai
con nessuno (all'infuori di me, beninteso) e non si arrabbia mai con nessuno. Però è
bravissima di fare arrabbiare gli altri, quando ci si mette. Quella volta ci si mise.
D'impegno. Io stesso finii per sentire compassione del povero Capo, che, grande, grosso
e graduato com'era, non riusciva a far spostare da un sedile spelacchiato una donna
piccolissima, del tutto priva di gradi e fornita, al momento, di una faccia da schiaffi.
D'altra parte non osava ricorrere alla forza, né avvicinarsi troppo, perché aveva paura
che la Vecchia sparasse.
Mi domandavo perché la pazzoide facesse la tiraschiaffi in quel modo. Infine, per
evitare il peggio, decisi di prenderla per un braccio e di tirarla giù io. Mi guardò
stringendosi nelle spalle: la faccia, tradotta, diceva: "Te la sei voluta, scemo".
Perché mia moglie avesse tentato di opporsi all'autorità costituita, mi apparve
chiaro quando il Capo, chiamati alcuni doganieri di rinforzo, iniziò a ispezionare, con
una certa cautela, l'interno della Vecchia, e di sotto il sedile comparve a un tratto
qualcosa che fece fare un balzo indietro al Capo, e anche a me. Si trattava di un
complicato aggeggio metallico, a me assolutamente sconosciuto, che il Capo additava
come se fosse veramente un ordigno atomico. Per conto mio poteva anche esserlo: con
la pazzoide non si sa mai.
«Io, ce l'ho messo», rispose mia moglie. E cominciò a spiegare, come si spiega la
lezione a un bambino deficiente, che il tagliaerba lei l'aveva comprato quella mattina a
Milano, Italia, e che adesso lo portava in Valsolda, Italia: quindi, praticamente era come
se non ci fosse.
Il Capo si schiarì la voce. « Che cos'è questo? », chiese.
«Un tagliaerba », disse mia moglie con voce salottiera.
«Un tagl... e chi ce l'ha messo? » chiesi io.
« Già, chissà chi » disse il Capo, ironico.
«Però c'è », disse il Capo.
«Doganalmente no», insisté mia moglie. «Non esiste »
Le cose si mettevano male. Cercando di mantenere il sangue freddo, cosa che fin
dalla nascita mi riesce difficile, tentai di spiegare il punto di vista di mia moglie. Il Capo,
sempre più ironico, non apprezzava i miei sforzi. Se tutto quanto fosse stato in regola,
perché mai la signora avrebbe nascosto la cosa sotto il sedile?
«Perché volevo fare una sorpresa a lui » disse mia moglie. Lui ero io.
«E invece la sorpresa l'ha fatta a me» disse il Capo, ironico triplo.
Al che la pazzoide riprese a fare la tiraschiaffi, strascicando la voce e dicendo
"nevvero?" ogni tre parole, e la discussione prese una brutta piega. Il Bu cominciò a
ululare. La figlia grande si vergognava come una ladra. Il figlio medio si teneva alle
costole della madre, certo che gliela mettessero in carcere all'istante. Invece chi rischiava
il carcere ero io, perché per difendere il tagliaerba (non già la pazzoide) stavo
cominciando a insolentire l'autorità costituita. La figlia piccola, che ha il senso delle
situazioni, pensò di salvarmi mettendosi a piangere in modo assolutamente improbabile,
fischiando pateticamente le esse fuori dagli incisivi mancanti:
«Fono ftanca! Voglio andare a Fan Mamete ».
«Siete diretti a San Mamete?», chiese il Capo, annotando non so cosa su non so
che libretto. «All'albergo»
«A casa noftra!» rispose la piccola smettendo istantaneamente di piangere. Tese un
indice piccolissimo e fiero: «Quella casa là roffa ».
«Quella casa rossa?», chiese il Capo con l'aria di dire: "A me non la si fa". « Ma
quella è la casa della Scrittrice »
Mia moglie mi diede un'occhiata, poi guardò con indifferenza il cielo. « Infatti »,
disse.
«Siete suoi amici?» chiese il Capo.
«No, fiamo proprio lei » disse la piccola.
«La Scrittrice sono io», spiegò mia moglie con voce modesta.
Fu come se la Vecchia avesse sparato dieci botti insieme.
Poco dopo eravamo in Valsolda, col tagliaerba, seguiti dalle scuse e dagli osanna
del Capo, al quale la Scrittrice aveva generosamente concesso un autografo: senza
neanche ridere. Quando vuole ci riesce.
Rise dopo, calcandosi il cappello di rafia sul naso. «Giorni celesti!» disse. «Se lo
sapesse Fogazzaro ».

«Per prima cosa» dissi appena la Vecchia ci ebbe permesso di scendere, «mettiamo
nel portabagagli i costumi, il cannottino pneumatico, le maschere e tutta la roba che ci
servirà al mare. Così siamo sicuri di non dimenticarci». Curioso, la mia voce mi faceva
l'effetto di un disco, molte volte sentito.
Non so che effetto facesse a loro. Comunque ubbidirono.
Dopo di che scaricammo il tagliaerba e lo usammo subito, tutti, su tutti i prati del
giardino, strappandocelo di mano l'uno con l'altro, litigando, cantando e schizzando erba
in ogni luogo. Avete mai usato un tagliaerba? E' un arnese meraviglioso.
E la sera, mentre i figli giocavano ancora nel giardino buio con quella sorta di
forsennata gioia che sempre li prende quando arrivano qui, io e mia moglie ci mettemmo
sul terrazzino a lago, e la nostra giovinezza ci venne incontro con tante e tante estati
piene di prati da tagliare e di rose da innaffiare e di persiane da verniciare e di vele da
rattoppare e di vecchia gente simpatica che parla con la zeta al posto della esse.
E lì, sotto quella vecchia luna, ascoltai a un tratto la mia voce, e di nuovo mi
sembrava un disco, tante e tante volte sentito:
« In fondo, sarebbe una bella economia... ».
Senza neanche lasciar finire il disco, mia moglie attaccò a enumerare sulle dita.
Mignolo: «La Tatti ormai le tonsille le ha tolte, e il mare cosa le fa? ».. Anulare: «Al Pop
lo iodio glielo diamo per bocca, e la pizza la fa benissimo anche il fornaio qui...». Medio:
«La Bruna ha quindici anni e mezzo, e meno tizi ha intorno meglio è... ». Indice: «E chi
ha detto che io devo riposare?» Pollice: «E tu potrai adoperare il tagliaerba finché vuoi.
Al mare non ci sono erbe: perché vuoi sacrificarti?».
Già, perché? Non c'era nessun mare e nessuna montagna, non c'era nessun posto
in tutto il mondo dove io intendessi e avessi mai inteso andare, fuorché questo.
Lo dissi, e il disco fu completo. Con la nota del tagliaerba in più.
Andammo subito a dare l'annuncio ai figli. I quali lo sapevano benissimo. Ma per
darci soddisfazione, fecero alte meraviglie e festeggiamenti. Tirammo fuori dalla Vecchia
i costumi, il canottino, le maschere, gli accappatoi e tutto; li rimettemmo nei cassetti e ci
sentimmo in pace con noi stessi, col mondo e con l'estate.
Così fu che non andammo al mare. E così sarà che non andremo al mare né in
montagna l'anno prossimo, né tra due, né tra vent'anni.
DRAMMA ALLA FOCE DEL FIUME

Fu proprio durante le mie ferie, in luglio. All'inizio non aveva le apparenze di un


dramma, piuttosto di una fissazione collettiva. Cominciò subito, il primo giorno.
Eravamo arrivati da poche ore, dopo un viaggio massacrante con la Vecchia. I figli
erano già fuori in canotto. Mia moglie, piedi nudi e maniche rimboccate, pascolava nel
caos che riesce a creare intorno a sé quando deve far ordine, e rispondeva con voce
affranta ma sempre democratica alle domande a catena della Rosa che vagava intorno
con una scopa pro-forma in mano e lo sbalordimento turistico negli occhi ("signora-hai-
visto-che-nel-lago-ci-stanno-i-pesci? Signora-perché-ci-stanno? Signora-dove-sta-la-Svizzera? Signora-
perchéci-sta?") e io, che stavo sul molo davanti alla darsena a pescare, non sapevo se ero
più nervoso per il viaggio o per i pesci che mi scappavano o per il brioso dialogo che si
svolgeva sopra la mia testa.
Stavo lanciando per la decima volta l'amo col decimo verme, quando alla mia
sinistra comparve il Domokos. Il Domokos è il nostro canotto (lo battezzò così il bisnonno
garibaldino di mia moglie) e nonostante l'età è ancora il più saldo e veloce canotto di
legno del nostro pezzo di lago. In quel momento conteneva un'agitazione di figli
superiore al normale.
«Seduti!», gridai. È tradizione del luogo che i padri dalla riva gridino "seduti" ai
figli in barca, e che i figli in barca continuino a stare in piedi.
Perfino la grande pareva un mulino a vento. Al di sopra dei latrati del Bu mi arrivò
un clamore di voci eccitate, nel quale captai a stento parole prive di nesso logico, quali:
cigni, foce, nido, tre, che santi, dài rema, dài scemo, uova, fiume, covata, isola, quaranta
giorni, dieci giorni, cuccia Bu, presto venite a vedere.
«Cosa dite?» gridai, sempre più nervoso.
«I cigni hanno fatto le uova sull'isoletta alla foce del fiume» tradusse senza un
attimo di esitazione la voce di mia moglie. Era uscita dal caos sul terrazzino e appariva
eccitata. « La covata dura quaranta giorni, trenta ne sono già passati, non hai sentito?Tra
dieci giorni verranno fuori i cignetti. Dài, muoviti, andiamo a vedere»
Non vedevo che fretta ci fosse, dato che mancavano ancora dieci giorni al lieto
evento e che io stavo pescando, ma non tentai nemmeno di opporre resistenza. Nella
mia famiglia, non so se ve l'ho detto, c'è la mania delle bestie. Non solo quelle di pezza,
ovvero peluches, ma anche quelle vere, di qualsiasi tipo, razza e carattere. Per darvi
un'idea: la frutta più ambita, in casa mia, non è la più bella, né la più grossa, né la più
matura: è quella col baco dentro. Il quale baco, se c'è, viene delicatamente estratto, e al
grido di "che santo!" viene deposto con ogni onore in giardino e seguito nel suo viaggio
verso la libertà dagli occhi commossi dell'intera famiglia carponi.
Non parliamo poi dei ghiri. Nelle nostre favole estive, i ghiri hanno una parte da
protagonisti. Ne abbiamo un'intera popolazione, alla Darsena: la loro casa è la soffitta, il
loro giardino sono i nostri nocciòli, i loro divertimenti: mangiarci le nocciole di modo
che a noi resti soltanto il guscio, spostarci le tegole del tetto in modo che al primo
temporale ci piova in testa, svegliarci di soprassalto con le capriole, le corse, le orge cui
s'abbandonano nelle notti di luna che pare d'avere un reggimento di granatieri sul tetto.
Voi credevate che i ghiri fossero delle povere bestiole che dormono sempre, eh' Posso
dirvi che, almeno d'estate, i ghiri non dormono mai, e soprattutto non lasciano dormire
gli altri. Ma, direte voi, perché non cercate di eliminarli? Per amor del cielo, non fatevi
sentire dai miei figli. Eliminare i ghiri... Ma voi lo sapete che cos'è un ghiro? è un piccolo
allegro animale con un musetto a triangolo e due grandi occhi fosforescenti e una
morbida coda veloce, che vi guarda dai rami con un'aria furba e dice: Squifik! Amico
uomo, Squiiik! I figli passano le ore, di sera, a scovarli con la pila tra i rami e a farci
lunghi discorsi. Noi, pure.
E subito dopo i ghiri, nelle nostre tradizioni valsoldesi vengono i Cigni. Sono due:
una lenta, candida, maestosa coppia di coniugi che da anni scivola silenziosa sulle acque
del nostro pezzo di lago e ogni giorno viene a chiamarci con un basso, roco frr frr,
accettando dignitosamente i pezzi di pane dalle nostre mani. Se la sera, a tavola, si scopre
che non c'è più una briciola di pane in casa, vuol dire che se lo sono pappato tutto,
dignitosamente, i Cigni.
E adesso i Cigni stavano per fare i cignetti. Mentre arrivavamo col Domokos in
vista del fiume, ebbi come un vago presentimento di quel che sarebbe accaduto, ma non
sapevo come e fino a che punto sarebbe accaduto,

Il fiume, come lo chiamano i megalomani valsoldesi, è un torrentello di umore


bisbetico che si chiama Soldo, dà il nome alla valle e viene a buttare le sue quattro gocce
in lago proprio dietro il muro di cinta del nostro giardino. Ha una voce fresca, molto
muschio verde, guizzi di pesci iridescenti tra i sassi. Proprio allo sbocco, in mezzo alla
cosiddetta foce, si forma al principio dell'estate una piccola secca ghiaiosa, che i figli
chiamano l'isola. Su quella i Cigni avevano fatto il nido.
Lo stavano perfezionando anche in quel momento. Il Cigno andava in giro a
raccogliere alghe, foglie, arbusti, li buttava sulla riva dell'isoletta e la Cigna senza smettere
di covare, tendeva il lungo collo bianco, li prendeva col becco e con un gesto
estremamente armonioso li disponeva intorno a sé e alle sue uova.
«Hai visto? Sono tre», disse mia moglie. Le brillavano gli occhi. «Tre come i nostri
».
Mi sentii furibondo. «Bestie idiote!», dissi. «Non lo sanno che quando piove il
fiume cresce?».
Vidi il terrore negli occhi della famiglia e mi pentii subito di aver parlato. Da quel
momento ebbe inizio la psicosi e finì la mia pace.
Per dieci giorni la mia famiglia non fece che scrutare il cielo, consultare
affannosamente tutti i barometri, umani e non, della valle, e pregare il santo Mamete
perché non facesse piovere. Ma il santo Mamete, che sentiva la mia presenza, si sentiva
in dovere di festeggiarla con almeno un acquazzone al giorno. E ad ogni acquazzone,
moglie, figli e Bu si precipitavano alla foce a vedere cos'era successo e a rendersi utili,
aiutando il Cigno a raccogliere nuovi arbusti e la Cigna a disporli intorno e sotto di sé.
Dopo una certa perplessità iniziale, i Cigni accettavano quell'aiuto con la stessa dignità
con la quale avevano accettato per anni il nostro pane. Ad ogni acquazzone l'isola
diminuiva di circonferenza e aumentava in altezza. In cima al loro piccolo grattacielo di
arbusti i Cigni covavano a turno, maestosamente, le loro tre uova. Se avesse potuto, la
mia famiglia li avrebbe aiutati anche a covare: ma quello era un aiuto che i Cigni
rifiutavano. Cortesemente, ma rifiutavano.
Era affar loro, dopo tutto. Ma dato il carattere della mia famiglia, diventava anche
affar mio. Uno ha venti miserrimi giorni di ferie, e dieci di quei miserrimi giorni gli tocca
passarli in un covo di invasati che parlano, si occupano, vivono solo di cigni. Anche la
figlia grande, che dopo l'eccitazione del primo giorno aveva assunto nei confronti dei
Cigni quella blanda, vissuta indifferenza che da alcuni mesi riservava alle cose del
mondo, si tradiva, come sempre, nei disegni: le longilinee indolenti fanciulle e gli atletici
belluini giovanotti che da circa un anno costellavano i suoi album da disegno erano stati
sostituiti in quei giorni da coppie di morbide Cigne e di aitanti Cigni che sorvegliavano
teneramente, collo contro collo, dei giulivi e spennacchiati cignetti appena sbucati
dall'uovo, come i pulcini sulle cartoline di Pasqua. La grande, bisogna dirlo, disegna
molto bene: ma in quei giorni non mi sarebbe dispiaciuto trovare nei suoi album anche
qualcosa che non fosse un cigno o un figlio di cigno o un uovo di cigno.
Il figlio medio, tipo di poche parole e di molti pensieri, generalmente sballati, in
quei giorni meditava più del consueto e parlava unicamente per dire all'improvviso, con
la lampadina dell'idea accesa in testa: «E se costruisco una diga di cemento per dirottare
le acque del fiume?». Detto, fatto. Tornava un'ora dopo pieno di calce dalla testa ai piedi
e immerso nella più nera mortificazione: dalla quale usciva di lì a poco, con la bocca fino
alle orecchie e un'altra lampadina accesa in testa, per dire: «E se gli porto il canottino di
gomma e li persuado a traslocare il nido?». e così, di ideona in ideona, fino a sera. Se per
distrarlo gli proponevo una gita, rispondeva inorridito: «E se nascono intanto che io
sono via?». Manco fosse la levatrice.
La figlia piccola viveva, si può dire, alla foce del fiume; e le sue preghiere serali,
dopo il consueto affrettato finalino: "... proteggi anche il mio papà, la mia mamma, la
Bruna, il Pop e il Bu", contenevano una energica postilla: "ma fa' nascere presto i
cignetti". Quel ma si prestava a diverse interpretazioni, non tutte lusinghiere.
In quanto a mia moglie, quando le davo il bacio della buonanotte si voltava con
un lungo voluttuoso sospiro mormorando: «Chissà se nascono stanotte». Soggetto
sottinteso, i cignetti.
Ma quel che era peggio, quello che era veramente sconsolante per una persona di
normale buonsenso, era che non solo la mia famiglia, ma l'intera popolazione di San
Mamete, forse per contagio, era stata presa dalla psicosi e seguiva gli avvenimenti col
cuore in gola e gli arbusti di rinforzo in mano. Nei negozi, all'osteria, per la strada, in
municipio non si sentiva parlare che di cigni e di cignetti. Il ponte del fiume era
costantemente gremito di gente che dava consigli, faceva pronostici, suggeriva migliorie
e dentro di sé, ne sono certo, pregava. L'Algeria era in fiamme, il Medio Oriente
traballava, l'O.N.U. aveva le mani nei capelli e il paese di San Mamete si preoccupava
unicamente della sorte di tre uova. Con tre futuri cignetti dentro.
Era una forma di rimbambimento collettivo, come ebbi spesso occasione di dire
In quei giorni. Mia moglie non replicava; si limitava a guardarmi in un modo che lasciava
chiaramente intendere come una sola penna di futuro cignetto valesse più di me tutto
intero.
E intanto i giorni passavano, sette, otto, nove, dieci, undici. Ogni giorno un
acquazzone e nessun cignetto. Il fiume incalzava e i sonni dei sammametesi erano
quanto mai agitati.
E a un tratto, il pomeriggio del dodicesimo giorno, si sentì venire dalla foce del
fiume una voce strozzata: «Nono sati! Soto nani! Vedete a venire! Sono ciati i nignetti!».
Era mio figlio: quando è emozionato si impapera sempre. Erano nati i cignetti, ed
era stato lui, nuotando con maschera e pinne verso il fiume, proprio lui Pop, a scoprirli
per primo: per tutto il giorno non gli riuscì di imbroccare una sola parola per il verso
giusto.
Mia moglie schizzò via dalla macchina da scrivere e si precipitò per la strada a
piedi nudi, raggiungendo il fiume via terra. Io fui catapultato dai rimanenti figli e Bu nel
canottino di gomma e trascinato sul posto via lago. Arrivammo alla foce tutti insieme.
Erano proprio nati. E sembrava proprio un disegno della figlia grande.
Mentre stavamo lì fermi a guardarli, e la Cigna abbassava dolcemente il lungo
collo verso quei tre spauriti mucchietti di piume cinerine, il Cigno si tirò maestosamente
dritto e agitò alte le ali verso di noi.
«Guarda le arie che si dà», borbottò mia moglie. «Crede di aver fatto tutto lui.
Proprio come un marito uomo». La sua voce era tenera, però. Tenera per il Cigno, si
capisce. Non per il Marito uomo.
Rinunciai alla discussione, perché nel frattempo la lieta novella si era sparsa per il
paese e un momento dopo la foce era piena di barche e di gente che camminava con
l'acqua al ginocchio per vedere i cignetti da vicino - quel tanto vicino che i Cigni e mia
moglie permettevano -, mentre il rimanente della popolazione faceva ressa sul ponte, a
stento contenuta dal Messo Comunale. C'era anche il Sindaco. Non aveva la bandiera,
ma era come se l'avesse. Mancavano solo le cannonate a salve. In compenso c'erano le
campane: il campanaro assicurò poi, in presenza del parroco, che aveva inteso festeggiare
non so che ricorrenza religiosa e che aveva semplicemente - "che stupid" - sbagliato
giorno. Ma in quel momento, quando la voce delle vecchie campane scese
improvvisamente nell'aria fresca fino alla foce del fiume e a quella piccola famiglia in
festa, nessuno dubitò che si trattasse di un inno di ringraziamento.
Fu certo una grande giornata per San Mamete. Il Sindaco, che è anche poeta,
scrisse un sonetto che poi fece correggere a mia moglie, e tra tutti e due non vi dico che
cosa venne fuori. La figlia grande continuò a disegnare cigni dal vero e a dire "che
santi!", il figlio medio continuò a impaperarsi, la figlia piccola andò a giocare con tutti e
quarantasette i peluches sul greto dì fronte all'isola per far divertire i cignetti; la Cigna
continuò a carezzare col becco i suoi piccoli, il Cigno ad agitare le ali in segno di trionfo
e mia moglie a fare osservazioni coniugalmente irrispettose.
La sera andarono a letto festanti e stanchi morti. Così stanchi, che nessuno sentì il
temporale.
Io, che non ero stanco, lo sentii subito. Al suo confronto gli acquazzoni dei giorni
precedenti erano innocui scherzetti del santo Mamete. Questo non era uno scherzo.
Mi svegliai che già il vento urlava in darsena sbatacchiando il Domokos da una parte
all'altra, i tigli gemevano e il tetto sembrava lì lì per volar via. Mi tirai a sedere sul letto.
Lei dormiva, si vedeva solo un ciuffo di capelli attorcigliati. Mi alzai e andai nella stanza
dei figli. Anche loro dormivano. I lampi sembravano incendiare le griglie, i tuoni
squarciavano la valle, il lago si avventava furiosamente contro le rive, e loro dormivano
ignari nei loro letti, come i tre cignetti nel loro nido d'arbusti. Be', e cosa c'entravo io,
dopo tutto? Tornai a letto. Ma non riuscivo a dormire. Sentivo qualcosa... Tra gli schianti
dei tuoni e gli urli del vento e gli scrosci del lago risentivo la voce di mia moglie quando
aveva visto per la prima volta le uova dei cigni: Sono tre, hai visto? Tre come i nostri.
E va bene, ci andai. Con l'impermeabile sul pigiama e gli zoccoli sui piedi nudi,
bucando il vento con la testa bassa e tirando moccoli come poche altre volte nella vita, ci
andai, accidenti a loro.
Bianchi e fieri in cima al loro piccolo castello di arbusti, i Cigni lottavano in
silenzio contro la bufera, il lungo collo abbassato, le ali tese a trattenere i loro
spennacchiati batuffoli. «Bestie idiote», dissi loro furibondo, «stupidissime bestie!». «Frr,
frr», mi risposero. Con l'acqua fino alla coscia, accecato dalla pioggia e dal vento,
cominciai a radunare bracciate di arbusti, di alghe, di sassi, di tutto quel che trovavo, per
costruire un argine intorno a loro: mi pareva di essere Pop con le ideone, ma non volevo
arrendermi. Sono tre come i nostri.
I lampi rivelavano a tratti uno scenario da favola, e pareva davvero tutto una
favola: la notte, i Cigni, il fiume, io. E favola mi sembrò, tra un tuono e l'altro, la voce
che disse alle mie spalle: «Prendi anche questa ».
E ancora favola mi parve, rivelata da un lampo, la sagoma piccoletta di mia moglie
intabarrata nel mantellone grigioverde di chissà quale antenato militare, che procedeva
verso di me con l'acqua fino alla vita e una fascina più grossa di lei in braccio. Un altro
lampo mi rivelò la sua faccia, minuscola e bagnata, e gli occhi.
Gli occhi più teneri e fieri e miei che io abbia mai visto. Vedete, forse mia moglie
non è molto bella, forse non è molto giovane, e certo sono quasi diciassette anni che
viviamo e litighiamo insieme, ma essere guardati così dalla propria moglie, per
disordinata e mingherlina e stramba che sia, è la cosa più bella che possa capitare a un
uomo.
«Cosa fai qui, pazzoide», dissi, afferrando la fascina e passandola ai Cigni.
Raccogliendo un'altra bracciata di terriccio e di sterpi, mi rispose: «Ti aiuto,
suonato ».
Poi non fu più possibile parlare. Vento e pioggia mozzavano il fiato. Lottammo
insieme, io, lei e i Cigni, nel buio pieno di schianti e di boati e di lividi lampi; una lotta
breve, furiosa. Poi non fu più possibile neanche lottare. Venne un boato più forte dalla
valle, il fiume si gonfiò all'improvviso, e il fragile faticato nido crollò sotto i nostri occhi,
in un attimo fu alla deriva sull'acqua nera del lago. Per un poco i due Cigni cercarono
affannosamente intorno - frr, frr - e noi cercammo affannosamente con loro. Infine,
mentre la pioggia scemava e il vento si placava, l'ultimo stracco lampo ci rivelò, tra gli
sterpi e le alghe morte, tre mucchietti di piume cinerine che la corrente riportava, inerti,
verso riva. Si fermarono sul greto, e i Cigni chinarono il lungo collo su di loro.
Erano tre, come i nostri.
Tornammo a casa fradici e silenziosi, tenendoci forte per mano. Non pioveva più.
Il temporale era durato poco più di mezz'ora.
Andammo nella stanza dei figli, accendemmo la luce schermata. Dormivano tutti
e tre, sicuri, al caldo. Mia moglie spense la luce senza dir niente. Sentii il suo respiro,
profondo.
Aveva preso freddo; a letto continuava a tirar su coi naso. Erano tre, come i nostri. La
sua mano era piccola e gelata. Mi ci volle quasi un'ora per scaldarla.

Il giorno dopo c'era un tempo splendido, terso e azzurro come gli occhi della
figlia grande quando è di buon umore. Fa sempre così, san Mamete, dopo un nubifragio.
Tira fuori il meglio per farsi perdonare il peggio. Ma quella volta pensavo che non
sarebbe stato perdonato tanto facilmente. Pensavo che i figli e la popolazione intera
sarebbero stati in lutto.
Mi sbagliavo. Ci furono, sì, i singhiozzi disperati della figlia piccola, e il magone
silenzioso di Pop, e le amare insinuazioni della grande circa il santo Mamete; ci fu un
mesto tentativo di sonetto del Sindaco e molte esclamazioni di cordoglio della
popolazione in genere, ma subito dopo tutti ricominciarono a lavorare, giocare, nuotare,
cantare, vivere come se niente fosse stato. Erano solo tre cignetti, dopo tutto.
Me ne andai a pescare solo sul molo e mi sentivo amareggiato nei confronti dei
miei simili. Tante storie prima che nascessero, e adesso che erano morti... Erano solo tre
cignetti, d'accordo. Ma erano sempre tre figli. Tre come i nostri. E io avevo preso il
raffreddore. Mi sentivo proprio molto triste. II vero amico si riconosce nella sventura.
E mentre stavo lì amareggiato a pescare, eccoti i due Cigni che arrivano verso di
me, maestosi e tranquilli, si fermano sotto il molo, e cominciano a fare frr frr. Chiedevano
da mangiare, quegli snaturati! Avevano perso i figli, e io avevo preso il raffreddore per
salvarglieli, e loro venivano a chiedermi da mangiare come se niente fosse! Mi sentii
ancora più amareggiato, e triste e solo. Presi il pane che mi serviva per i pesci e glielo
scaraventai giù. Non volevo più vederli.
Chinarono il collo a guardare il pane, poi lo rialzarono a guardare me, e con un
ultimo, roco Frr frr se ne andarono. Senza toccare il pane.
«Hai visto?», disse la voce di mia moglie. Era comparsa sul terrazzino e guardava
giù verso di me. I suoi occhi erano fieri, teneri e miei come la notte prima, e a me
capitava di nuovo la cosa più bella che possa capitare a un uomo.
«Hai visto?», disse. «Sono venuti a dirti grazie».
LA GIOVANE BRUCIATA

Il 21 luglio ricorre uno dei tre onomastici della figlia grande. Come mai tre, direte
voi? Si vede che non siete pratici di santi. E di figli nostri. Infatti, consultando con cura i
calendari e gli schedari appositi, ogni figlio nostro è in grado di trovare almeno un paio
di santi che portano, in date diverse, il suo nome o un nome strettamente imparentato.
Ora, su una media di tre santi per figlio, se calcolate che noi abbiamo tre figli, che mia
moglie ha cinque fratelli e che ogni fratello ha un minimo di due figli, ne risulta che la
nostra vita è un frenetico susseguirsi di onomastici.
Solo Pop, che è notoriamente il più scemo (il più onesto, dice mia moglie) della
famiglia, non è riuscito a trovarsi che un unico miserrimo san Maurizio, il 22 Settembre;
aveva fatto un debole tentativo di attribuirsi anche un san Maurilio, ma non gli è stato
fatto buono. La figlia piccola, che pur essendo universalmente nota come Tatti risponde,
anagraficamente parlando, al duplice nome di Nicoletta-Gabriella, si è trovata sette
onomastici. La figlia grande si è trovata un san Bruno il 6 ottobre, una santa Bruna il 14
marzo, e l’anno scorso un san Brunone il 21 luglio. Io non mi assumerei responsabilità in
merito; ma la figlia grande, sgranando due occhi perfettamente azzurri, affermò di aver
visto con le proprie pupille questo santo Brunone su non so che calendario
prematuramente scomparso, e che non si poteva trascurare un povero santo che forse si
chiamava così perché era molto grasso e veniva schernito dagli amici.
Non so proprio che cosa potesse venirne in tasca al santo, grasso o magro che
fosse, comunque anche quest'anno il 21 luglio festeggiammo in suo onore la figlia
grande. Ci fu la solita merendona sotto i tigli, la solita tavolata di figli e nipoti, i soliti
lanci di molliche e di olive, le solite sbruffate di coca-cola in faccia, i soliti "dài scemo,
dài scema" ripetuti da due, tre, quattro echi a rincorsa nella piccola baia verdazzurra del
nostro pezzetto di lago. E le risate. Non ho mai sentito nessuno ridere come loro. O
forse non me ne ricordo? Forse anch'io ridevo così. Forse anche lei, quando era piccola,
rideva sgangheratamente come Pop adesso, sbattendo braccia gambe e lacrime
tutt'intorno. Vorrei averla conosciuta piccola: è un pezzo di lei che ho perduto. I tigli, i
sassi, gli echi della baia hanno ricordi di lei che io non ho.
Forse anche lei diceva "dài scemo, dài scema". Quel pomeriggio, mentre potavo la
siepe fischiettando e ascoltandoli, pensavo comunque che, anche se non sono molto
variati negli epiteti, i ragazzi della nostra famiglia hanno una grande virtù: quella di
sapersi divertire con poco. Anzi, con pochissimo: un po' di bestie di pezza, un paio di
pinne, un giro per la valle, una merenda in giardino, un lancio di olive, uno sbruffo di
coca-cola in faccia, bastano a renderli clamorosamente felici. "È un grande dono, che noi
gli abbiamo trasmesso", pensavo col debito orgoglio. "Divertirsi con poco è indice di
ricchezza interna".
Molto soddisfatto di questo pensierino, degno della penna di mia moglie, mi voltai
a guardare la tavolata dei ricchi-interni. Apparivano ricchissimi. Molliche, olive e sbruffi
imperavano, il Bu correva a perdifiato intorno sperando invano di intercettare i lanci per
mangiarseli, gli echi della baia non sapevano più come fare a ripetere tutto, e io stavo per
riprendere a fischiettare e potare, quando l'occhio mi cadde sulla festeggiata. Mi si
strozzò il fischio in gola.
Mentre tutti gli altri erano regolarmente in piedi sulle sedie e sul tavolo, lei stava
mollemente seduta, le gambe abbandonate di fianco alla sedia, il gomito sul tavolo, il
mento sul dorso della mano, le dita ad arpeggio, il volto soffuso di aristocratica noia. Mi
fregai gli occhi. Com'è 'sta storia?
« Ehi, tu! » gridai. Mi stava già venendo su un nervoso maledetto.
Prima che mi venisse su del tutto, comunque, la statua del languore si alzò,
stirando con degnazione le lunghe gambe, mi passò davanti senza guardarmi e lasciò il
campo.
«Ehi», urlai di nuovo. «È così che festeggi la tua festa?» Quando ho il nervoso non
so esprimermi bene, e questo mi rende ancora più nervoso.
La figlia voltò la languida testa quel tanto che bastava per lasciar piovere verso di
me un sorriso amaro. «Che bella festa che bella festa», disse con voce lugubre. E si
allontanò, con passo da levriero stanco, verso la casa.
Non trovai le parole in tempo. A dissolvenza finita, mi rivolsi a mia moglie, che
stava scrivendo imperterrita, piedi nudi e cappello di paglia, dall'altra parte della siepe,
vicino alla tavolata. Quando le arrivava qualche oliva in testa, faceva il gesto di chi
scaccia una mosca.
«Ehi!», le dissi.
Lei scacciò un'altra mosca.
Mi misi a urlare: «Parlo a te! Si può sapere cos'ha tua figlia?» Quando ho il nervoso
sono sempre figli suoi.
«Si è ricordata che ha quindici anni», lei disse, senza smettere di scrivete. «E che
non c'è sugo a festeggiare san Brunone se non c'è neanche un tizio, tizione o tizietto di
sorta in giro»
«Con tutti i ragazzini che... »
«Sono cugini», mi interruppe, perentoria. «Sono bambini .. »
«E lei cosa sarebbe?», dissi. Marmocchia stupidissima. Levriera dei miei stivali.
Neonata. «Se un minuto fa giocava a tirare olive come... »
«Non potrà tirare olive fino alla fine dei secoli», mi interruppe di nuovo lei.
Sospirò: «Bisognerà invitarle qualche tizio» disse. «Stasera».
Non crediate che fosse una faccenda da niente.
In Valsolda la disponibilità di tizi - guardie di finanza a parte - è piuttosto scarsa.
Le famiglie dei villeggianti, sempre le stesse da secoli, si contano sulle dita di una mano
sola, e sono attualmente costituite nella stragrande maggioranza di nonni, genitori,
bambini.
Mia moglie sospirò di nuovo, guardando la tavolata dei figli e nipoti. «Era così
anche ai miei tempi», disse con la voce remota che usa per le reminiscenze. «Tutti fratelli.
Cugini. Di nuovo fratelli e di nuovo cugini. Certe volte disperavo della vita ».
Mi pareva di vederla, piccolissima e nera tra eserciti di fratelli e di cugini, disperare
della vita.
«E poi?», chiesi nervosamente. Non era il tipo che dispera a lungo, quella.
«Oh, poi capitarono dei tizi d'importazione», disse noncurante. «Qualcuno non era
male..» Mi guardò con un occhio solo. «Uno lo avevo importato personalmente. Un tipo
di spiritato con gli occhi gialli che diceva tre parole al mese e dipingeva quadri che mi
spaventavano le nonne.. »
Mi riconobbi e tirai il fiato.
«Comunque avevi già diciassette anni», dissi schiarendomi la voce. «Non mi
sembra affatto il caso che tu importi seduta stante dei tizi per la Bruna .. »
«Non c'è bisogno di importazioni», disse. «Lasciami fare».
«Ho mai fatto altro nella vita? », chiesi rivolto al cielo.
Lei non raccolse. Canticchiando tra i denti Tizi tizietti venite da me - che vi
darò la figliola del re, correva verso la casa per mettersi a rapporto dalla Levriera.
Fu un colloquio che a sentirlo dalla stanza vicina, come facevo io, c'era da farsi
drizzare i peli delle braccia per il nervoso. La sostanza era questa: a sentire la madre,
qualche tizietto da invitare (figlio o nipote o trisnipote di qualche pioniere della
villeggiatura valsoldese) sparso qua e là, c'era; ma a sentire la figlia, non ce n'era uno solo
che andasse bene. O erano troppo piccoli, o erano troppo grandi, o li conosceva troppo
poco, o li conosceva troppo, o avevano questo, o avevano quello: ad ogni nome
proposto dalla madre, la figlia sospirava o gemeva o sogghignava sardonicamente, e
diceva: «Quello lì? Ma va'!». «Quello là? Che barba!», «Il Giorgio? Ma dài!», «II Chicco?
Che morte!»; se le fosse stato proposto Tony Perkins travestito da valsoldese ci avrebbe
perlomeno sputato sopra. Continuò a fare la di-più finché la madre perse la pazienza e le
disse che si arrangiasse, che era una piaga, che sarebbe arrivata a trentacinque anni senza
uno sgorbio di corteggiatore.
Dopo di che, allarmatissima, la figlia la inseguì in giardino dicendo che andava
bene, che andavano tutti bene, il Giorgio il Paolo il Chicco i piccoli i grandi i questi e i
quelli, che li invitasse tutti.
La madre continuava a battere ferocemente a macchina e non si degnava di darle
ascolto. Cosicché alla figlia venne il magone e la conclusione fu che andai io a invitare i
tizi.
I tizioni (dai 21 in su) avevano veri o presunti impegni precedenti a Lugano, e non
vennero. Ma i tizi (dai 18 ai 20) e i tizietti (dai 15 ai 17) vennero. Erano cinque. Li
conoscevo da bambini, li avevo visti ogni estate, sempre un po' più alti, come i pioppi
del giardino pubblico che la prima volta che venni qui erano alti un palmo e adesso sono
sei metri; e come i pioppi li avevo sempre considerati una parte del paesaggio, simpatica,
innocua, così nota che non ci si fa neanche più caso.
Ma quella sera, quando li vidi entrare dal cancello, era come se li vedessi per la
prima volta.. Non erano pioppi. Erano tizi.
Vennero avanti per il viale, stretti nei blue-jeans, molleggiando gambe e voce, i
possibili insidiatori di mia figlia.
La figlia li aspettava in veranda con l'inseparabile cugino diciassettenne Emilio e
tre o quattro amichette racimolate qua e là che parlavano tutte insieme.
Lei non parlava. Si fermò sulla soglia illuminata, una ragazza con lunghe gambe e
lunghe ciglia, e anche lei mi pareva di vederla per la prima volta.
Andai di sopra col cuore in pezzi.

Salutai Pop e la Tatti che erano già a letto, offesi per essere stati esclusi.
«Pfui!», disse la piccola, che non vuole dare soddisfazione a nessuno. «Tanto a noi
ci fono molto più simpatici i ghiri di tutti i tizi. Pfui!».
Pop disse: «Grunt». Quando è arrabbiato ma poco, dice sempre grunt. Quando è
arrabbiato ma molto, fa gli occhi lunghi e sta zitto. Quando è arrabbiato ma moltissimo,
spacca tutto: sempre zitto. «Grunt e stragrunt», ripeté stavolta, tanto per stabilire un
principio.
Spensi la luce e raggiunsi mia moglie sul terrazzino della nostra stanza, mi stesi
sulla sdraio vicino a lei. Davanti a noi, sopra il lago tranquillo, si rinnovava l'incantesimo
dei pleniluni valsoldesi, ma non potevo godermelo.
Pensavo a quella specie di trottola bionda che al mio ritorno dalla guerra mi aveva
osservato gravemente da tutti i lati - ero sporco, malato, sfinito - e poi aveva alzato due
enormi, tersi occhi di maiolica azzurra dicendo festosamente: «Ciao, zio!»
Mi pareva di sentire ancora la sua mano tiepida e grassoccia nella mia scarna e
sudata, e quella gratitudine lancinante, e la preghiera nella mia gola chiusa: s
Aveva imparato. E adesso io, il suo papà, permettevo a dei tizi qualsiasi di venire
ad insidiarla sotto il mio tetto. Si sa bene come sono i giovani d'oggi. Sfrenati. Corrotti.
Bruciati.
Era tutta colpa di mia moglie.
«Che razza dì madre sei!», proruppi.
Lei sobbalzò sulla sdraio. «Chi?», disse, vacua. «Dove? Come?».
«Tu, qui, adesso! Se fossi una madre come si deve, saresti a sorvegliarli! A vedere
cosa fanno».
«Ma lo so, cosa fanno».
«Eh eh», dissi.
«C'è poco da fare eh eh. Sono dei bravi ragazzi, anzi ragazzini. Conosciamo le loro
madri.. »
«Eh eh», ridissi. «Sapessi cosa facevo io quando mia madre pensava che fossi un
bravo ragazzino .. »
« Ah sì? », disse interessatissima. « Non me lo avevi mai detto. Cosa facevi? ».
«Certe cose non si dicono, si fanno. Io le facevo.. »
Lei rifletté. «Perché tu eri un tipo focoso», concluse. «Sangue romagnolo eccetera».
«Fa pure la spiritosa, ma io... ».
«E chi fa la spiritosa?», mi interruppe. «Ce l'avevi o non ce l'avevi, il sangue
romagnolo? Questi non ce l'hanno. Solo sangue lombardo».
Certe volte discutere con mia moglie diventa un'impresa disperata E intanto giù in
veranda.. Tesi l’orecchio. Si sentiva, attutito, il gemere erotico di un sassofono. «Senti?»,
dissi
«E cosa volevi che si sentisse, il cannone?», rispose.
Ve l'ho detto che è un'impresa disperata. Rimasi lì coi tizzoni ardenti sotto la sedia
a sdraio, ad ascoltare quell'esasperato gnaulare di sotto, e nella luce madreperlacea del
plenilunio vedevo snodarsi, incalzare e contorcersi schiere di teddy boys, ragazze
perdute, James Dean, Elvis Presley, whisky, chewing gum, marijuana, tribunali minorili,
semi della violenza, negri, bianchi, romagnoli, lombardi, minorenni bruciati d'ogni specie
e natura, e la Bruna ci stava in mezzo: carbonizzata.
«Ma sta' un po' fermo», disse mia moglie. «Cosa t'è preso, il ballo di san Vito? Mi
rovini tutta la luna» Pensava alla luna, lei.
«Sei un'incosciente!», esplosi. «Sei un'illusa! Non lo sai com'è la gioventù moderna?
Non vai al cinema? Non leggi i giornali? .. »
«Se la pensi così» disse, «perché non vai giù tu a vedere che cosa fanno?»
Perché non ne ho il coraggio, pensai. «Sono cose che toccano alle madri!» risposi.
«Chi l'ha detto?», obiettò. «Tiriamo a sorte». Avevo l'impressione che volesse tirare
in lungo, distrarmi e menare, come si dice, il can per l'aia, per sottrarsi ai suoi doveri di
madre. Ma voltandomi per aggredirla meglio vidi la sua faccia piccola, un po' pallida
sotto la luna, e in quella faccia vidi che anche lei aveva paura.
La presi per mano. «Andiamo insieme», dissi.
Lei si alzò docilmente. «Tu e il tuo sangue romagnolo!» borbottò. «Mi hai fatto
venire i brutti pensieri anche a me»
Scendemmo le scale esterne come congiurati. «Piano, che non ci sentano», dissi.
«Guardiamo dalle persiane della finestra».
Ci avvicinammo, attenti a non far scricchiolare la ghiaia sotto i nastri passi. Ci
fermammo davanti alla finestra posteriore, che aveva le persiane chiuse.
«Su, avanti», dissi. «Guardiamo insieme. Uno, due tre!» Al tre accostammo le facce
alle persiane e guardammo.
Dal giradischi i Platters cantavano My prayer, e seduti tutti intorno, tra bottiglie di
coca-cola vuote e briciole di panini divorati, i giovani bruciati ascoltavano gravemente,
muovendo gravemente un piede o una spalla e leccando gravemente la loro porzione di
gelato.
«Mamma mia che scemi», sussurrò la voce soffocata di mia moglie.
Corremmo via sotto i noccioli per non farci sentire a ridere.
I ghiri tra i rami ridevano con noi - squiik, squiik -, la luna tra i rami disegnava dei
ghirigori sulle nostre facce, e noi stavamo lì distesi sulla ghiaia e non avevamo più di
quindici ami.
La luna piena fa certi scherzi, a volte. Ma non era uno scherzo. Era una cosa
magica e bella e un po' triste amarsi ancora così dopo quasi vent'anni.
Sentimmo cigolare la porta della veranda e ci tirammo a sedere di colpo. La soglia
luminosa inquadrava la figuretta lunga e smilza della Bruna e quella altrettanto lunga e un
po' meno smilza di un tizietto.
«È Paolo», sussurrò mia moglie. «Ma cosa fanno?»
I due si fermarono un momento in controluce davanti alla porta, poi vennero
avanti per il viale e noi ci buttammo indietro, nell'angolo più buio, per non farci
scorgere. Mi batteva forte il cuore e sentivo battere il suo.
Si fermarono a pochi passi da noi, sotto i noccioli. La Bruna alzò la faccia verso i
rami. «Squiik!», disse sottovoce.
Chiamava i ghiri. Inghiottii, e sentii che anche mia moglie inghiottiva. I ghiri,
insospettiti dalla presenza di un estraneo, non fiatarono.
«Squiik!»., disse il tizietto con un vocione.
«Ma dài, scemo» disse la Bruna. «Così li spaventi, no? Dammi la pila».
Umilmente, il tizietto esibì la pila. Lei la diresse tra i rami: «Squiik», ripeté piano,
teneramente. «Squiik?»
Finalmente un ghiro, rassicurato, rispose.«Eccolo lì!», bisbigliò la Bruna. «Lo vedi?
Lì attaccato a quel ramo. Che santo! Chiamalo anche tu: ma piano».
«Squiik», disse il tizietto.
II ghiro rispose anche a lui (squiik, va bene, sei dei nostri, squiik), altri fecero il coro e
loro risposero felici; la conversazione andò avanti per un pezzo e non so chi si divertisse
di più: se loro o i ghiri o noi. Alla luce della pila, gli occhi di nostra figlia erano tersi e
teneri come l'infanzia che non riusciva a lasciare.
Poi tornarono di corsa in veranda, e noi restammo lì a vergognarci dolcemente.
SPEDIZIONE NELLA GIUNGLA

Non c'è da stupirsi che le cose siano andate così, visto che l'organizzatrice era mia
moglie. Ma andiamo con ordine. Il 2 agosto, sabato, arrivai "su" verso le quattro del
pomeriggio, legittimamente esaurito da ben due giorni e mezzo di calura, di statistiche e
di solitudine (le mie ferie erano finite il mercoledì, 30 luglio), nonché da due ore e mezzo
di viaggio sulla Vecchia, che sfogava i malumori cittadini impuntandosi e sparando come
una indemoniata nei momenti meno opportuni.
Come Dio volle arrivammo, e non so chi dei due fosse più impolverato, accaldato
e inferocito. II cancello era chiuso. Dovetti scendere e aprirlo da me. Bella accoglienza,
non è vero? Uno lavora giorno e notte nell'inferno cittadino per sfamare i suoi figli...
«Grgrgroung!», sghignazzò alle mie spalle la Vecchia, che ha talvolta il dono di leggere nel
pensiero. Risalii sbattendo lo sportello con una certa violenza. «B-b-bboumb», fece la
Vecchia, e mi trovai in mezzo al viale. Uscii, prima che mi sparasse fuori come un
missile.
Da qualche angolo nascosto della Darsena venne un ululato straziante del Bu, che
aveva sentito l'odore e il fragore della sua Nemica. Poi da ogni parte del giardino si
levarono grida umane: «Il papà! Lo zio Dino! La Vecchia!», e il rumore di un reggimento
che corre in ordine sparso sulla ghiaia.
Mi scrollai di dosso grappoli di figli e di nipoti, guardandomi intorno. Lei non
c'era. Che, era sorda? O forse, rapita dall'ispirazione, stava scrivendo X e non aveva
tempo di venire incontro a un marito qualsiasi.
«La mamma è fuori», disse la figlia piccola con soddisfazione.
«Torna subito», disse Pop, paladino materno. «E poi la colpa è della Bruna, che ha
fatto la lagna per... ».
«Spia!», disse la figlia grande.
«Scema» disse Pop.
«Bamba!» disse la Bruna.
Ema! Amba!, ripetevano gli echi della baia. E altre sillabe che preferisco non
ripetere io. La piccola faceva da arbitro, i cugini da pubblico, e ognuno si disinteressava
di me. Me ne andai a vedere le mie rose rampicanti, nero come un carbone. Le
soddisfazioni della famiglia.
«Signore-hai-fatto-buon-viaggio?», chiese la Rosa apparendo sul pianerottolo della scala
esterna con una scopa da una parte e un giornale a fumetti dall'altra. Non ottenendo
risposta, ripeté in un fiato: «Signore-haifatto-buon...».
«No!», risposi.
La Rosa disparve.
Il Bu, in qualche parte della casa, piangeva sconsolatamente. Fa sempre così, in
assenza della sua Divina Signora. Cretino di un cane.
«Cuccia!», gli urlai. Sapessi come me ne importa, a me, se la tua padrona va o viene. Poh! Nel
pensare "poh" mi punsi anche un dito con una spina. L'eco ripeté quello che dissi. Alla
spina.
Ero a questo punto, quando si senti la voce stonata del cancello (pare la cassaforte
del Musichiere, ma più dolce e vecchia) e subito dopo sentii la corsa frenetica di due
piedi nudi sulla ghiaia. Non so quante volte le ho detto che una vera signora non corre
come un cavallo al Gran Premio. Intanto mi raggiunse il suo grido: «Giorni celesti!».
Non so quante volte le ho detto che una persona normale, signora o meno, non dice
giorni celesti.
Continuai a badare al mio rosaio, senza voltarmi.
«Giorni celesti!», ripeté, più vicina. «Sei già qui?».
«No, sono là», risposi. Però non resistetti e mi voltai, quel tanto che bastava per
vederla di striscio.
Eccola lì, la pazzoide, coi calzoni rimboccati, una faccia pseudo-ansiosa sotto il
cappello di rafia e il Bu che le saltava addosso uggiolando e dimenandosi come dieci cani
che uggiolano e si dimenano. Una parte di me desiderava fare lo stesso, l'altra parte la
guardava torvo e diceva: «Allora?»
«Ho fatto un po' tardi», ammise. Ansava ostentatamente.
Alzai le spalle e gliele voltai. Per quel che me ne importa. Poh. Ripresi a sforbiciare il
rosaio.
La sua mano si infilò sotto il mio braccio:
«Sei stanco?», disse. Cercava di ingraziarmi, cercava. Poh!
«Sto da papa!» risposi.
Sospirò e provò un'altra strada: «Hai visto com'è cresciuto bene?». Alludeva al
rosaio. Che invece era cresciuto malissimo. Perché nessuno l'aveva innaffiato. Hanno
troppo da fare, loro.
Lei sospirò di nuovo:
«Hai visto che tempo splendido?», tentò ancora.
«Ho solo sentito un caldo schifo, io!» chiarii. «Almeno piovesse!»
Lei guardò il cielo: «Non ascoltarlo», disse a qualcuno che stava lassù. «Ci ha solo
la luna per traverso»
«Per traverso sarai tu», esplosi, girandomi come un giaguaro. «E si può sapere
dove sei stata? ».
Lei raccolse il cappello di rafia che le era caduto per lo spavento. «Sono stata in
giro», disse. «A raccogliere i membri»!
«C'è stato forse un incidente stradale? Morti? Feriti?», chiesi con voce di
circostanza.
«Allora sarebbero state membra», rispose freddamente la scrittrice. Sfilò la mano
dal mio braccio e si calcò il cappello in testa. «Comunque, se hai deciso di prendere la
piega sarcastica io vado di sopra e ciao».
La trattenni per un braccio. «Prima favorisci spiegarmi cosa sono questi membri»,
ingiunsi.
«I membri della spedizione», rispose, paziente. «La grande voleva un po' di tizietti,
però si vergognava a dirlo, e ancora di più ad andarci, così ho dovuto andare io a
invitarli. Ne vengono quattro o sei, non so bene». Mi guardò: «Non sei contento? Ho
risparmiato a te di andarci».
«Sia chiaro», sillabai, «che io non ho e non voglio avere niente a che fare con
nessun tizio, nessun membro e nessuna spedizione. Quando, come, dove?».
«Domani. In canotto. Nella giungla», fu la docile risposta.
A questo punto qualcuno potrebbe pensare che mia moglie la domenica sia solita
recarsi per diporto da San Mamete nella giungla d'Africa su un canotto da lago. Date le
caratteristiche psichiche di mia moglie, non ci sarebbe da stupirsi gran che. Ma, nella mia
qualità di cronista, ritengo sia mio dovere precisare che qui l'Africa non c'entra.
La giungla, per noi, è la sponda opposta del lago, e la chiamiamo così perché è
selvaggia, disabitata, senza strade. Un morbido lussureggiante deserto verde cupo, visto
da lontano, che da vicino rivela anfratti misteriosi, cave di pietre cangianti, sentieri
scoscesi nascosti da. felci segrete. E vipere, se vogliamo. Mia moglie e i ragazzi adorano
la giungla.
Io pure. Solo al sentirla nominare, dopo un'intera settimana di afa, di civiltà e di
statistiche, mi veniva voglia - una vera voglia da gestante - di essere già là. Di fare la
pastasciutta sul fuoco di legna, di scovare pietre focaie e lucertole strane, di aprire scatole
di carne che non si aprono e di chiudere borracce che non chiudono e sentirmi una via
di mezzo tra Robinson Crusoe e un boy-scout.
Ma siccome avevo il nervoso, dissi:
«Favorisci non parlarmene neanche! Ho solo una domenica per settimana, io, e
figurarsi se voglio rovinarmela con sfacchinate senza senso».
«Non sono senza senso», lei disse «E non sono sfacchinate: mica devi remare tu.
Del resto, ormai è già tutto combinato e organizzato», aggiunse incauta
Già combinato e organizzato, eh? Se c'è qualcuno che deve combinare e
organizzare qualcosa, in casa mia, sono io. Io, il capo. Io e nessun altro. Perciò chiesi,
sarcastico: «E chi sarebbe il cervellone organizzativo?».
In tono di sfida (quando prendo il tono sarcastico lei prende istantaneamente il
tono di sfida), disse: «Io»
«Eh eh», dissi, rivolto al cielo. «Lei. Eh eh».
«Eh eh un accidente! Andrà tutto a meraviglia. E io voglio andarci!»
«E vacci! », urlai «Chi te lo impedisce?».
«Tu!» urlò a sua volta. Si calmò di colpo. «Senza di te», disse con dolcezza, «io non
vado in nessun posto».
Sapeva benissimo che bastava questo a mettermi. fuori combattimento. E io
sapevo benissimo che lei lo sapeva, e questo mi faceva uscire dai gangheri del tutto.
«E va bene!», dissi villanamente. «Tutto come vuoi tu! Va benone! Va strabene!»
Lei mi strofinò la guancia contro la spalla e corse via, piena di organizzazione.
Me l'avrebbe pagata, pensai. L'organizzazione. Il non essere stata lì ad aspettarmi.
Il farmi sempre fare quello che vuole: o che voglio io?
Insomma, me l'avrebbe pagata.

Il mattino dopo, alle dieci, la spedizione si presentava così:

Base di partenza: molo della Darsena.


Destinazione: giungla.
Mezzi: Il canotto nostro, di nome Domokos, con 4 remi e molta acqua sul fondo; il
canotto dei tizietti, di nome Liliana, con 2 remi e poca (per il momento) acqua sul fondo.
Partecipanti: 1 marito, 1 moglie, 3 figli, 7 nipoti dai quattro ai diciassette anni, 5
tra tizietti e tiziette intorno ai sedici, 1 Bu, 25 peluches (gli altri 22 rimasero, per
concessione straordinaria, a far compagnia alla Rosa, che ha un irriducibile terrore delle
barche in genere).
Distribuzione: la figlia grande prese posto sul Liliana con: 1 cugino Emilio, 5
tizietti maschi e femmine, 1 giradischi, 2 album di dischi, 3 mazzi di carte (i giovani
bruciati non possono fare un passo, né via terra né via acqua, senza il giradischi, senza le
carte e senza dire "che barba"). Tutti gli altri presero posto sul Domokos insieme con: 3
pentole (una per fare la pastasciutta e due per vuotare l'acqua imbarcata), 4 sacchi di
vettovaglie, 6 borracce, 3 termos, 5 bastoni (scacciavipere e issa-bandiera), 7 maschere,
14 paia di pinne, 2 salvagenti, 8 accappatoi, 1 macchina da scrivere (mia moglie non si
sposta senza), 1 cesto di lettere (idem c. s.).
Quando mia moglie organizza qualcosa, il meglio che ci si può aspettare è il caos.
Non c'è dunque da stupirsi se:
- Dopo cinquanta metri avevamo già l'acqua alla caviglia;
- dopo duecento metri, mentre a turno due della ciurma svuotavano, senza
affannarsi eccessivamente, l'acqua dal fondo, avevamo già seminato una pinna, due
bastoni e tre peluches e dovevamo tornare indietro a prenderli, per poi perdere di nuovo,
ritornare, riprendere, riperdere, e cosi via;
- dopo cinquecento metri il Bu, che non aveva smesso un istante di latrare come
dieci cani che latrano, fu preso improvvisamente dal panico e si buttò a lago, nuotando
istericamente in tutti i sensi con sommo divertimento della ciurma e bevendo come dieci
cani scemi che bevono, finché la sua Divina Signora lo ripescò, inzuppandosi l'orologio a
polso nuovo, e, una volta ripescato, il Bu diede di stomaco sui piedi di tutti, e due nipoti
piccoli si misero a piangere, non si sa bene se per lo stomaco del Bu o per i propri piedi
o per l'orologio della zia, o semplicemente per aumentare il baccano. Comunque
dovemmo fermarci a fare un asciugamento e una consolazione generale. Quando mia
moglie organizza qualcosa, questo è il meno che possa capitare.
Non c'è neanche da stupirsi se, quando fummo a metà lago, il Domokos (sempre in
testa a dispetto del carico, dell'acqua e dell'età) venne a battaglia col Liliana, con relativa
collisione e supplementare imbarco d'acqua; non c'è da stupirsi se, indi, sgominato
definitivamente il Liliana, fummo abbordati dal motoscafo della finanza che ci ingiunse
l'alt: al che sette dei passeggeri, sotto forma di clandestini, si gettarono istantaneamente
alla macchia, cioè al lago, anzi al sottolago, riemergendo fugacemente qua e là solo per
pronunciare parole di senso sospetto, almeno nei riguardi dei finanzieri; il più giovane
dei quali, non essendo ben certo se il regolamento dell'Arma gli permettesse di ridere in
casi di emergenza, tentava di ignorare i clandestini e si sforzava di chiederci con voce
professionale i documenti della barca, mentre l'altro, vecchia conoscenza nostra e padre
di famiglia in più, rendendosi conto della situazione generale e delle mie difficoltà
particolari, mi augurò con un sorrisetto buona traversata e si portò la mano al berretto.
Ripescati i clandestini, potemmo così riprendere, allagati, il viaggio.
Quando mia moglie organizza qualcosa, eccetera. Non c'è infine da stupirsi, ma
proprio per niente, se, una volta arrivati alla sponda di là:

1. I ragazzini, piccoli compresi, scesero immediatamente in lago, abbandonandosi


a ogni sorta di esplorazioni ed acrobazie subacquee, che non sapevi più a quale badare,
ne prendevi uno ne perdevi cinque, e rischiavano di annegare tutti, a parer mio. Non a
parere di mia moglie. La quale, fiduciosamente assisa (in costume bagnato e pinne) nel
suo mare di lettere, continuava a scrivere a macchina, limitandosi a dire ogni tanto, senza
alzare la testa: «Pop dove sei? Roberto vieni a riva, Tatti non annegare se puoi, Claudio
non hai freddo? Francesca non andare così a fondo, Sandro non è meglio che esci?
Sapete-che-il-bagno-in-acqua-dolce-dev'essere-corto, Pop dove sei?», e senza aspettare
risposte, né risalite, né uscite, andava avanti a scrivere, salvo poi ricominciare, ad
intervalli regolari di cinque minuti circa: «Pop dove sei? Roberto vieni a riva, Tatti non
hai freddo? Sapete-che-il-bagno-in-acqua-dolce, eccetera» ., e così per un'ora circa: visto
che il bagno in acqua dolce dev'essere corto. Quando saranno adulti, i nostri figli
avranno tutti i reumatismi. «Io li ho, forse?», dice mia moglie. No, i reumatismi non li ha.
Ha tutto, dal cardiopalma all'emicrania cronica, alla nevrosi gastrica, al cervello svitato,
tutto: ma i reumatismi no. Ragion per cui, i suoi figli possono stare in immersione vita
natural durante. E anche i suoi nipoti. Io mica posso pescarli tutti. Tanto più che poi
scappano e si immergono di nuovo, così uno ci fa pure la figura del fesso. Con grande
soddisfazione della moglie.
2. La legna era verde, il fuoco si spense tre volte, io consumai tutte le scatole di
fiammiferi e non potei più fumare, finché dopo un'ora che imprecavo mia moglie scoprì,
con piccole grida di stupore, un'altra scatola di fiammiferi, su cui stava seduta.
3. La pastasciutta si incollò, avevamo dimenticato il colabrodo e dovemmo scolare
la pasta, cioè la colla, in un fazzoletto a quadri; il Bu mangiò tutti i formaggini con la
stagnola, una scarpa da tennis di un tizietto e i miei calzoncini di ricambio, cosicché
dovetti portare per tutto il giorno il golf di mia moglie legato sul di dietro.
4. Uno dei due apriscatole si ruppe e il secondo fu nascosto dal furbissimo nipote
piccolo che poi si dimenticò dove l'aveva nascosto, cosicché dovetti aprire le scatole di
carne a colpi di pietre, di dita livide e di moccoli.
Ero al culmine delle escandescenze quando mi colpì, come una sciabolata, la
constatazione che durante tutta la gita non avevo fatto altro che tirar moccoli e dire
"quando organizzi tu qualcosa, eccetera", e che forse lei era offesa, o peggio triste e
stufa. Oppresso da atroci quanto subitanei rimorsi mi voltai, e la vidi là, seduta alla turca
nel suo oceano di fogli e di figli, che mi guardava con l'aria di divertirsi enormemente, e
di volermi enormemente bene.
E di colpo mi accorsi che anch'io mi stavo divertendo enormemente - ogni
minuto - e che le volevo enormemente bene: ogni minuto.
Be', finito di mangiare quel che ci aveva avanzato il Bu, andammo in esplorazione
all'interno della giungla, io lei e i ragazzini, e tornammo pieni di felci, di insetti strani, di
pietre luccicanti, di ginocchia sbucciate, di vipere evitate e di mistero: ogni fruscio della
giungla ci regala una particella di mistero da portarci attorno. Tornati che fummo sulla
costa, lasciammo un momento da parte il mistero per giocare a nobili ed intellettuali
giochi tipo "la pacca", "quattro cantoni", "mago-libero", "tre-buscioni", "scruscin scruscetta".
E durante tutto questo tempo la figlia grande, il nipote grande, i tizietti e le tiziette
rimasero seduti a giocare gravemente a canasta e ad ascoltare gravemente rauchi e
lamentevoli dischi. Ogni tanto lanciavano a noi due delle distratte, indulgenti occhiate.
Guarda come giocano, poveretti: e si divertono, pure. Quelli della generazione passata, che stupidi. Ma
poi, fosse l'aria della giungla o le loro giovani gambe impazienti o i loro giovani cervelli
snebbiati, che è che non è, anche i giovani bruciati attaccarono a giocare, a mollare
pacche, a correre e a capriolare sfrenatamente, proprio come poveri vecchi della passata
generazione: gli echi della giungla ci riportarono fedelmente voci e corse e risate, finché
fummo tutti senza fiato. Tutti tranne mia moglie: la quale, quando lavora o quando lo la
faccio arrabbiare, soffre di palpitazioni. Ma quando si tratta di "mago-libero", le passano.
Io, comunque, le avevo. O forse era una scusa per stare lì, steso con lei sui sassi
della riva, a guardare il cielo e le nuvole che trascoloravano tra le foglie dei castani, e la
giovinezza perduta e i ricordi che passavano come le nuvole: lontani, vicini, lontani.
Di colpo la giungla fu tutta in ombra, crebbero sopra di noi le cime scure delle
montagne e i fruscii e la sera.
«Giorni celesti!»,disse mia moglie balzando in piedi. «è calato il sole. Gente,
sbrighiamoci!» Aveva ripreso il bandolo dell'organizzazione.
Non c'è quindi da stupirsi se, a metà lago, ci prese il temporale. Quando mia
moglie organizza qualcosa, volete che non venga il temporale? Sicuro che viene. A metà
lago.
Dalla riva ci arrivavano, rimbalzando sull'acqua, grida, rumori, parole, voci note
come musiche note: "Ghè scià el temp!" (arriva il temporale), "Maria tira dent i puìn"
(pulcini), "Giancarlo ven scià a ligà la barca" (traduzione superflua), "Arturo sta atent al
rebatésim de l'onda" (che sarebbe, nella lingua personale di alcuni valsoldesi, il contraccolpo
dell'onda, o la risacca per parlar forbito: noi usiamo però il rebatésim per qualsiasi tipo di
contraccolpo, compreso il dar di stomaco del Bu. Succede sempre così, in casa nostra: le
accezioni e i significati di alcuni vocaboli si estendono e si deformano in modi
assolutamente inconsueti, cosicché il linguaggio della mia famiglia diventa spesso
incomprensibile ai non-iniziati. Per esempio... Ma non divaghiamo). Il temporale
avanzava, il vento fischiava, il lago ribolliva, e in mezzo, tra un rebatésim e l'altro,
c'eravamo noi. Con a bordo un sacco di ragazzini, nostri e altrui, con le membra
paludate in accappatoi fradici e le teste riparate con mezzi di fortuna tipo zaini, pentole e
piatti.
«Uh, che meraviglia!», gridava l'incosciente che ho sposato. E non crediate che sia
un tipo coraggioso: poh!
Mia moglie ha paura di tutto, anche di cose perfettamente innocue, come gli
scarafaggi e le motociclette, ma non ha paura del "suo" lago e dei "suoi" temporali. Anzi,
li vezzeggia e direi che li istiga. «Guarda che bello!», gridava. «Guarda che nero! Adesso
viene una tromba d'aria, dài che viene!»
La tromba d'aria non venne. Ma venne tutto il resto che poteva venire.
L'incosciente, col Bu tremante e urlante abbarbicato tra le braccia, era al settimo cielo. I
ragazzini pure. Io, per la cronaca, remavo.
Per fortuna il Domokos è robusto. E io anche. Il Liliana veniva a rimorchio. I
giovani bruciati si sciupano, a remare forte.
Quando, rebatésim permettendo, approdammo in darsena, stentavo a riconoscere i
membri della spedizione: sotto i paludamenti più strani, apparivano tutti mimetizzati:
tutti ugualmente zuppi, esagitati e sporchi. Dovetti fare la chiama.
Accendemmo il caminetto nella veranda e ci mettemmo tutti intorno ad
asciugarci, a scaldarci e a cantare canzoni adatte alla situazione. Al riflesso della fiamma,
le nostre facce avevano mille età e mille significati diversi, passati e futuri. Si stava bene.
Presi la mano di mia moglie e me la cacciai in tasca: i vestiti bagnati, i muscoli stanchi, i
calli sulle mani, i futuri reumatismi si dissolsero al calore del vecchio caminetto e del
vecchio gesto.
Dopo un po' vidi la mano del tizietto Paolo vagare incerta a mezz'aria, ritirarsi,
vagare di nuovo, scendere a singhiozzo e infine approdare, con una dolcezza che mi
strinse il cuore, sulla mano della figlia grande.
Il contagio delle generazioni passate, suppongo.

E così, con quattro mani unite e molti canti alpini e molti peluches schierati ad
asciugarsi con noi davanti al camino, e un cielo che si rischiarava a poco a poco in attesa
delle stelle, la spedizione fini in bellezza. Quando organizzo io qualcosa, riesce sempre
bene.
Noi, le stelle e qualcos'altro

Ero in ufficio. Da secoli, mi pareva. Il giornale l'avevo già letto da capo a piedi
due volte. Le parole incrociate e i rebus li avevo risolti tutti. L'orologio andava come una
lumaca. Faceva caldo. Sulla pratica che avevo davanti - sempre la stessa - c'erano delle
statistiche, e intorno alle statistiche il mio subcosciente disegnava con la biro folle di
pupazzetti: sparute donnine col cappello a cono che scrivevano a macchina, languide
ragazzine con la coda di cavallo e il mento appoggiato alla mano, scarmigliati ragazzini
con pinne ai piedi e opuscoli fantascientifici sotto il braccio, microscopiche ragazzine col
nasino, il sederino e il ciuffino indaffaratissime in un serraglio di peluches, e noccioli
pieni di ghiri, e rosai rampicanti e tigli e pini fruscianti: ma questi gatti? Mi fermai con la
biro a mezz'aria. Come mai il mio subcosciente disegnava gatti?
Già mi addentravo in labirinti psicoanalitici quando, mettendo a fuoco le orecchie
sul mio ufficio, mi resi conto della provenienza dei gatti. La psicoanalisi non c'entrava. Il
Capo stava raccontando, per la seconda volta, come qualmente non fosse riuscito a
dormire quella notte. II mio Capo non riesce mai a dormire la notte: e deve sempre
raccontarlo. Siccome è scapolo, sulla sessantina, figlio unico di madre vedova e defunta,
non può raccontarlo a nessuno fuorché a noi: due volte il mattino e due volte il
pomeriggio, di media. È uno dei suoi argomenti preferiti, suscettibile di infinite,
dilaganti, cosmiche variazioni. Talvolta la colpa è del motociclisti ("veri cannibali della
strada, bisognerebbe metterli al muro"), talvolta è colpa delle canne di scarico ("I padroni
di casa se ne infischiano delle canne di scarico degli inquilini, bisognerebbe dargli
l'ergastolo"), talvolta è colpa dei dirimpettai ("orgiastici e telemaniaci, bisognerebbe
rinchiuderli”); stavolta la colpa era dei gatti. Pareva che sulla città di Milano calassero
nottetempo famelici e gnaulanti eserciti di gatti (pronunciava la parola “gatti” con
estremo disgusto), e che si dessero tutti appuntamento sul suo tetto. Era molto
amareggiato. Il mio Capo è sempre amareggiato. Anch'io lo sono, in ufficio: seppure per
altri motivi.
Cancellai ferocemente i gatti intrusi e attaccai, biro e subcosciente in azione, il
margine sinistro della pratica. Donnine, ragazzini, barche, moli, piante... E io stavo li.
Ah, che caldo faceva. Che cosa bisogna fare per guadagnarsi la vita.
«Gamberini! Ma lei non mi ascolta», accusò la voce del Capo.
«Eh?», dissi trasalendo. Mi pareva di essere mia moglie. «Chi? Dove? Cosa?»
«Gatti», suggerì sottovoce la segretaria. Si chiama Marisa, è simpatica, da anni
sopportiamo insieme le dissertazioni metafisiche del Capo.
«Certo che l'ascolto, dottore», dissi. «Stava parlando dei gatti»..
Tranquillizzato, il Capo proseguì, e i miei pupazzetti pure.
«Gamberini!», adesso la voce del Capo era satanica. «Perché non dice niente? » ..
«Eh? », dissi.
«Motociclisti», suggerì Marisa.
«Cannibali della strada», dissi prontamente. «Bisognerebbe metterli al muro».
Soddisfatto, il Capo riprese il suo interminabile, querulo filo. Il tempo sembrava
assolutamente fermo. Una mosca odiosa sbatteva contro i vetri chiusi. I vetri del mio
ufficio sono sempre chiusi, perché il Capo soffre di raucedine e ha il terrore delle
correnti d'aria. Gli piace avere una voce melodiosa, per narrarci le sue notti insidiate dai
gatti.
Ah, si asfissiava proprio.
«Gamberini!», disse la voce melodiosa. «Ha forse mal di denti?».
«Eh?», sobbalzai.
«Denti», suggerì Marisa, facendo segno in bocca. Proprio come al ginnasio,
fraintesi il suggerimento: «Ha mai di denti, dottore?», dissi speranzoso, balzando in piedi.
«Vado fuori a prenderle un cachet.». Ne nacque un deplorevole equivoco, irto di denti,
miei denti, suoi denti, ma che denti?, io credevo, io dicevo, ma cosa diceva?, dopo di che
io e il Capo, usciti a fatica dal groviglio odontoiatrico, ci informammo con freddezza.
che i reciproci denti erano sanissimi.
Tornai a sedermi profondamente abbattuto.
«Però ha una brutta cera», insisté il Capo, inesorabile. «Se non ha mal di denti, che
cos'ha?»
Avevo che era solo mercoledì; e che il sabato e la Darsena e loro e lei mi
apparivano insopportabilmente lontani. Ma quel fissato lì, direttore e scapolo per giunta,
cosa volete che capisse. Dissi che non avevo niente.
In quel momento entrò il fattorino con la posta del pomeriggio e gli saltai addosso
come una pantera.
Le lettere per me erano quattro. Non fanno economia di francobolli, in casa mia.
Sanno che mi piace ricevere tante lettere, aprire tante buste, tirare fuori tanti fogli. Tenni
un momento le buste chiuse sul palmo e mi sentivo come mi sentivo da ragazzino,
quando mi portavano un regalo chiuso nel pacchetto e io tardavo ad aprirlo per
prolungare l'eccitazione e il mistero, e poi magari c'era dentro un paio di calzini. Ma con
le loro lettere non si corrono questi rischi. Sono magari, quattro righe sgrammaticate,
piene di sgorbi e di espressioni incomprensibili alle persone perbene, ma quelle righe e
quegli sgorbi sono tutto quello che io desidero leggere. Sono loro.
Aprii le buste, una per una, tirai fuori i fogli, uno per uno, li misi in fila, e
cominciai dalla piccola:
"Caro papà, c'osafai lì tutto solo? Noi domani habbiamo fatto una gita al passo stretto con i
cucini e anche con tizietti e sono stati tutti abastanza bravi. (Disegno di gitanti abbastanza bravi).
La bruna e il pop si sono pestati solo una v'olta. Oggi niente. La mamma sc’hrive e si tira i capelli. La
bruna disegna e suona i d’ischi che é uno spavento. Il pop fa la fantascienza coi razi superamici ma salo
che i rati supersonici non gli partono e allora fa l'afaccia lunga. (Disegno del Pop con la faccia
lunga). Io gioco coi peluches. Tu sabato c'osa mi porti.? lo direbbi un petuches. Pat pat dalla tua figlia
piccola tatti".

Se pensava al tempo che doveva averci messo, con la lingua tra i denti e quei
ditini, a scrivere tutta quella roba, mi si stringeva il cuore. Decisi che le avrei portato tre
peluches.
Il medio diceva:

"Caro papà, i razzi non mi partono perché ci deve essere un errore nella formula, e anche perché
la Tatti mi disturba sempre. (Disegno dei razzi che non partono e della Tatti che disturba).
Ieri siamo stati al Passo Stretta coi cugini e i tizietti. Io e la Bruna abbiamo litigato, ma non tanto. Lei
mi ha dato una botta in testa e io ci ho dato un calcio nel ginocchio, ma non tanto forte. Dunque credo
che puoi portarmi i libri di fantascienza che ti ho detto, e anche il nero animale, che non é il Bu, ma una
sostanza chimica che rende incolori i liquidi e mi serve per delle cose di fantascienza. Ne vorrei un ,etto.
Poi mi si è rotto il boccaglio della maschera, ma vedi tu. Certo che senza boccaglio si va male. (Disegno
di subacqueo senza boccaglio). I compiti delle vacanze li comincerò domani o dopo. Ti stringo la
mano. Pop".

Lui i compiti li fa sempre domani o dopo. Come l'abbiano promosso a luglio, è un


mistero. Lui e la sua fantascienza. Gli restituii con riserve la stretta di mano e passai
oltre.
La lettera della grande, come sempre, conteneva più disegni che parole: è
un'abitudine che ha dall'infanzia:
"Caro (disegno di papà), ieri siamo stati al (disegno di Passo Stretto). Se il (disegno di
Pop), ti dice che io gli ho dato una botta in (disegno di testa) sappi che lui mi ha dato un calcio in
un (disegno di ginocchio). Qui tutto normale. La (disegno di mamma) si comporta abbastanza
bene. Mi piacerebbe avere il (disegno di disco) That's my desire, cantata da (disegno di Armstrong).
È divino. Arrivederci sabato. Ciao papi".

Se c'è una cosa che aborro, è di essere chiamato papi. Mi fa legare i denti. Come
l'aggettivo divino. Con chi credeva di parlare? E poi si sciupava a scrivere qualcosa di
più? Mi veniva voglia di non portarle il disco, mi veniva. Però i disegni erano belli.
Specialmente Armstrong e la mamma, erano parlanti. Decisi che le avrei portato due
dischi.
E adesso c'era la lettera di mia moglie: la tengo sempre per ultima, come da
ragazzino tenevo per ultimo il pacco più grosso.
La lettera non ve la trascrivo. Il nostro è un linguaggio privato, non ci capireste.
Per me è come sentirla parlare, perciò leggendo la lettera ridevo, mi arrabbiavo, mi
veniva il nodo in gola, mi infuriavo, ridevo di nuovo, e cosi fino alla firma "Tuo Osso", e
al Post Scriptum,), che pareva messo lì per caso: "Domani a san Lorenzo, chiederò alle stelle
cadenti una cosetta per te".
Alzai gli occhi al calendario: 10 agosto, san Lorenzo. Forse lo dissi ad alta voce,
perché il Capo chiese: «C'è qualche san Lorenzo in famiglia?».
«No», dissi. «E la festa delle stelle cadenti».. E subito mi pentii di averlo detto, lì in
quell'aria viziata, tra le statistiche e le mosche appiccicate ai vetri e gli squallidi vaniloqui
del Capo.
San Lorenzo: le stelle cadenti, e loro distesi sul molo tiepido a guardarle - ogni
stella un desiderio - tra i profili neri delle montagne e il tremolio segreto dei pini e i
profumi e gli echi e quel magico cielo.
E io ero lì, con le mosche e il Capo. Rilessi la lettera di mia moglie, ma era peggio:
era come sentire la sua voce, le loro voci che mi chiamavano, e dover stare lì come un
prigioniero legato a un palo.
«Gamberini! », disse la voce del Capo.
«Va' all'inferno», pensai. «Vecchio deficiente. Crepa.»
«Gamberini, dico a lei! ».
«Uhm »dissi sgarbatamente. «Lasciami in pace».
«Eppure, Gamberini», disse il Capo con una voce strana, «io sono convinto che lei
ha proprio un gran mal di denti... un mal di denti da non resistere» ..
Alzai bruscamente la testa e vidi il Capo che mi guardava, e i suoi occhi erano
sorridenti, ma anche molto tristi e soprattutto molto vecchi. Erano gli occhi di un uomo
solo.
Ammiccò appena appena, poi frugò in un cassetto. «Le faccio dare un permesso»,
disse scribacchiando qualcosa su un modulo. «Per andare subito a farsi togliere il dente.
E domani stia in riposo: meglio essere prudenti, con certe estrazioni... ».. Firmò e mi tese
il modulo. «Capito? »
«Signorsì», dissi, come se fossi tornato militare. Il fatto è che mi vergognavo.
Lo guardavo, e pensavo che tra poche ore, grazie a lui, io sarei stato con mia
moglie e i miei figli sul molo della casetta rossa, e ogni pezzetto di cielo e ogni minuto
sarebbero stati intrisi di amore e di speranza e d'avvenire, e intanto lui sarebbe tornato in
una vecchia casa vuota, dove non c'era nessuno ad aspettarlo: solo le canne di scarico
che non funzionavano ed i gatti randagi che miagolavano e l'insonnia e la solitudine e il
ritratto a olio della sua mamma sul muro.
Inghiottii e presi il foglietto. Un giorno ti porterò con me in,Valsolda, pensai. Ma
sapevo che non glielo avrei mai detto. Mi vergognavo tanto che non gli dissi neanche
grazie.
Appena fuori fui travolto dalle commissioni e non ci pensai più. Comprai tre
peluches per la piccola (e così fummo a cinquanta peluches), due dischi per la grande,
una maschera con boccaglio e due libri di fantascienza per il medio, ma quello che mi
fece dannare fu il nero animale. Ogni volta che entravo a chiederlo in una farmacia o in
uno spaccio di prodotti chimici, mi dicevano:«Un etto di cosa?», e quando ripetevo
nervosamente: «Un etto di nero animale», sorridevano come di uno scherzo poco
intelligente oppure mi guardavano dietro come se fossi un paranoico. Infine trovai lo
stramaledetto nero animale da un fratello di mia moglie che fa il chimico e che, degno
membro della famiglia, e in possesso delle cose più strane, che a lui sembrano
normalissime: serafico in volto, mi diede un etto di nero animale come mi avrebbe dato
un etto di sale da cucina.
Infine salii sulla Vecchia, con tutte le commissioni fatte, tranne quelle di mia
moglie: primo perché me ne aveva date troppe e non facevo in tempo, secondo perché la
settimana dopo c'era il nostro anniversario di nozze, e dovevo tenermi i fondi per quello.
(La cassa, da noi, e in comune: quindi quello che può spendere più soldi è quello che
arriva prima a prenderseli). Lei si sarebbe dimenticata di sicuro dell'anniversario, e io,
zac-zac, avrei esibito un regalo sontuoso.
«Scr-scr-sorounc», disse la Vecchia scaraventandomi avanti. Per aver salva la vita
dovetti occuparmi di lei e non pensare più ad altro.
Ci ripensai la sera, sul molo.
In principio c'era un po' di nebbia, e di stelle cadenti se ne vedevano poche, anzi
pochissime, e quelle pochissime le vedevamo solo io e i figli, mentre mia moglie non
riusciva a vederne neanche una per sbaglio, e girava per tutto il molo come l'ebreo
errante, seguita dal Bu, brontolando e pestando i piedi a tutti, in cerca della posizione
buona. Ma continuava a non vederne neanche una, e metteva in dubbio le stelle altrui.
Poi, finalmente, dopo aver girato e brontolato e calpestato familiari per mezz'ora, riuscì
a vederne una. Ma disse che era brutta. Che era corta. Che non le piaceva. E cominciò a
denigrare le stelle cadenti d'adesso, che non hanno niente a che fare con quelle di prima
della guerra: «Quelle sì che erano stelle cadenti. Belle, lunghe, luccicanti, che stelle!
Queste d'adesso non valgono niente. Sono stelle bruciate».
Così dicendo pestò un piede alla figlia grande, la quale si offese a morte, non si sa
bene se per il pestone o per l'allusione, e minacciò di ritirarsi sull'Aventino. Non so se
succeda a tutte le ragazzine, a una certa età, di perdere il senso umoristico. La nostra a
volte ce n'ha troppo, a volte ne è assolutamente priva. Per conto mio l'avrei lasciata
andare sull'Aventino e anche a farsi friggere, ma ci andava di mezzo san Lorenzo, le
stelle cadenti e la nostra sera, così dovetti metter pace, promettendo un disco alla
smorfiosa e nel contempo afferrando la pazzoide per un braccio e tirandola vicino a me:
«Tu mettiti gli occhiali e sta' ferma», le ingiunsi. «E se non vedi stelle, arrangiati. Le
vediamo noi per te. Zitta e cuccia.».
Sospirò, si mise gli occhiali e assestò la testa nel cavo della mia spalla.
D'un tratto cacciò un grido che per poco non cascava in acqua per il rebatésim: ossia per
il contraccolpo o rincùlo:
«L'ho vista! Era bellissima! Lunghissima! Luccicantissima! La più bella stella
cadente della mia vita». Da quel momento le vide tutte, più di tutti noi, ed erano tutte
bellissime, lunghissime, luccicantissime, le più belle della sua vita. Mia moglie è fatta così.
Forse erano gli occhiali. O forse era che il cielo s'era snebbiato. O forse era che le si era
girata una rotellina: mia moglie è piena di rotelline che girano. Ma forse era perché
teneva la testa sulla mia spalla, come in tante e tante altre notti di san Lorenzo, alcune
liete, altre tristissime, ma tutte magiche e belle e nostre. Sì, era questo.
Ormai il cielo era limpidissimo. Le stelle cadenti si sprecavano, e i desideri anche.
Più che di desideri, si trattava in realtà di richieste: perentorie. Ad ogni minima stella
cadente si levava dal molo un disordinato e dispotico coro di voci, i ghiri dal tetto
squittivano per simpatia, e il Bu abbaiava a perdifiato senza capire un accidente.
Chiedemmo per Pop scoperte subacquee ed avventure fantascientifiche; per la
piccola peluches e ancora peluches; per la grande dischi e tizietti; per il Bu molti ossi
polputi e una bella piccola cana (la parola "cagna" è ritenuta in famiglia brutta e offensiva,
la parola "cagnolina" leziosa e spregevole), dunque una bella piccola cana per fare dei
belli piccoli canini; per la Rosa finanzieri e fumetti; per i Cigni altre tre uova e un nido
sicuro; per i ghiri molte nocciole e notti di luna; per mia moglie gloria, diritti d'autore e
chilogrammi; per me rosai, trofei sciistici e infine:
«Quella cosa là! », gridò la famiglia come un sol uomo.
«Quale cosa là? » ., chiesi.
«Una cosa», rispose mia moglie con una noncuranza intesa ad acuire al massimo la
mia curiosità. «Una cosetta per te».
« E un fegreto», disse la piccola. « Ma un fegreto groffo! ».
«Se mi dici cos'è... », cominciai a tentarla sottovoce.
«Sta zitta! », le urlarono gli altri due figli arrabbiatissimi.
«Io non ho detto niente», rispose la piccola senza scomporsi. «Ho detto tale che è
una cosa groffa». Tentai di corromperla offrendole un peluches, due peluches, tre
peluches, e tutti erano lì sulle spine, ma la piccola, eroica, non si lasciò espugnare.
«Però un peluchef me lo compri tu a Lugano», disse poi a sua madre con una
vocina angelica. « Fe no domani glielo dico».
«Ricattatrice, spia!», urlarono furibondi gli altri due, che vanno d'accordo solo
quando si tratta di insultare la terza. La quale se ne infischia nel modo più assoluto.
«E cofì fanno cinquantuno», disse soddisfatta. La piccola, in un modo o nell'altro, si
soddisfa sempre. «Quella farà fortuna», sussurrai compiaciuto a mia moglie.
«E noi andremo a chiedere la carità all'angolo della strada» rispose. «Uuuuuh! ..
L'uuuuh si riferiva a una stella cadente bellissima che traversava il cielo in quel momento.
«Quella cosa là», chiese di nuovo a gran voce.
Ma cosa sarà 'sta cosa, pensavo. Forse qualcosa per l'anniversario? Una cosa per
me... Una cosa grossa... Ebbene, io le regalerò una cosa ancora più grossa! Ma se non so
cos'è la sua...Insomma, non avevo pace.
«Ehi, Osso», le sussurrai passandole le dita tra i capelli arruffati, «me lo dici che
cos'è? ».
««Non lisciarmi! ., rispose. « Tanto non te lo dico lo stesso. Neanche se piangi».
Mi strofinò la guancia sulla spalla e sospirò. . « È una cosa grossa», disse.
Voleva farmi dannare, voleva. Una cosa grossa... Per l'anniversario, di sicuro. Ma
che cosa? Rimasi lì a friggere per un bel po' chiedendomi che cos'era, che cosa diavolo
poteva mai essere, che cosa accidentaccio fosse, finché la pace dell'ora e il profumo e
quel silenzio melodioso scesero dentro di me spegnendo tutto quel che friggeva. Ah, si
stava bene. Restammo lì a lungo zitti e impigriti, con le stelle cadenti e i nostri desideri
segreti. «Questa qui ronfa» disse Pop.
Abbracciata a una dozzina di peluches, la ricattatrice si era addormentata.
Bisognava rientrare. Salutammo san Lorenzo e le stelle e lasciammo il molo in fila
indiana, io in testa col carico tiepido della piccola tra le braccia.
Ma quando fui a letto, nella mia casa piena di respiri e di problemi e d'avvenire, mi
tornò in mente una cosa.
Mi alzai piano piano (lei dormiva profondamente, un ciuffo nero e un calzino
rosso sporgenti ai due estremi della coperta accartocciata) e andai fuori sul terrazzino.
«Squiìk», mi salutarono i ghiri dal tetto. «Squiik», risposi. Accesi una sigaretta,
aspettando. E quando vidi una stella cadente traversare il cielo, le chiesi ancora, in
silenzio, qualcosa. Qualcosa per un vecchio scapolo fissato che se ne stava solo sotto un
quadro a olio in una casa vuota. Non sapevo che cosa. Qualcosa.
Tornai a letto, piano piano.
«Per cominciare», disse dal buio la voce della dormiente, «appena a Milano lo
inviteremo a pranzo. Ci penso io. Gli piacciono i ravioli? ».
Dissi che glielo avrei chiesto.
Le presi una mano e mi addormentai. Sognai tante stelle cadenti che mi
turbinavano intorno come girandole, e tante cose grosse, informi, fantomatiche che
circolavano per il giardino come robot, e il Capo che puntava il dito chiedendo:
«Gamberini! Cosa sono queste cose grosse? ».
« Non lo so, rispondevo, ma la voce non mi usciva. «Non lo so, non lo so».
L'avrei saputo la settimana dopo.
ANNIVERSARIO A SORPRESA

La settimana che precedette il Grande Giorno fu per me psichicamente


inquietissima. Per fortuna il Capo era in ferie, e potevo così dedicarmi alle discussioni
con me stesso senza che nessuno mi rompesse l'anima. Avevo bisogno delle mie facoltà
mentali al completo.
Sapevo che lei aveva in serbo per me una sorpresa grossa, e dovevo superarla. Un
marito deve sempre superare la moglie, amici miei: anche nei regali di nozze. Ah, il suo
regalo era grosso? Ebbene, il mio sarebbe stato grossissimo. Spettacoloso, sarebbe stato.
E chi pagherà?, chiedeva dentro di me qualcuno che mia moglie definisce il
richiamo della coscienza e che io definisco il rompiscatole.
Come, chi pagherà?, rispondevo, urtato dalla prosa della questione: le coscienze sono
molto prosaiche, In genere. Che importanza ha? Si pagherà e basta. A rate, magari. O sulla
parola. Siamo persone stimate, noialtri.
Uhm, diceva la coscienza.
Quasi quasi era meglio aver lì il Capo. Mi avrebbe scocciato meno, mi avrebbe.
Irritatissimo, scacciando d'intorno mosche inesistenti, andavo avanti a meditare
nervosamente e a fare nervosi disegnini sui margini delle pratiche.
Strano, dal subcosciente mi veniva fuori sempre lo stesso disegno. Mi affrettavo a
cancellarlo perché la coscienza non lo vedesse, e ricominciavo a chiedermi pro-forma:
allora, vediamo, che cosa potrei comprarle...
Ipocrita, diceva la coscienza. È dal principio dell’estate che l'hai in mente, quello che vuoi
comprare. E inutile che lo cancelli: lo vedo benissimo, sotto le cancellature. E anche nel tuo cervello,
incosciente e megalomane.
Crepa, rispondevo.
E avanti così per tutto il giorno. Alle sei e mezzo uscivo d'ufficio, stremato dalle
lotte intestine, camminando per le strade afose di fine agosto, e le mie gambe - o meglio
le gambe del mio subcosciente - mi portavano sempre allo stesso posto. Che strano, no?
Certo era un bel negozio. E la cosa che c'era esposta (non la nominavo mai
nemmeno col pensiero) era bellissima. Agile, poderosa, luccicante. Davanti a quella
vetrina, le gambe del subcosciente si rifiutavano di portarmi oltre.
Ma l'hai visto bene il prezzo?, diceva la coscienza.
Certo che l'ho visto, rispondevo, non sono mica orbo.
Solo mentecatto, allora, diceva la coscienza.
La lotta intestina si faceva sanguinosa. Alla fine, con tattica astuta, tentavo di
commuovere la coscienza e conquistarmene i favori assumendo il tono elegiaco: Mia
moglie non é forse degna, dopo diciassette anni di matrimonio, di un bel regalo? Non è forse giusto che io
premi le sue fatiche con...
Amico, non bariamo, diceva la coscienza. Vuoi premiare lei o te stesso?
Questa era una bassa insinuazione della coscienza, e mi rifiutavo perfino di
prenderla in considerazione. Premiare me stesso! Io, l'altruismo personificato! Che faccia
tosta hanno certe coscienze, oggigiorno. Io non mi ero mai sognato di pensare a quella
cosa lì, finché mia moglie, sissignori, proprio mia moglie... A questo punto nella mia
testa succedeva quello che succede in certi film, quando il regista vuol portarvi a
conoscenza di alcuni ricordi essenziali dei protagonisti: una carrellata, una nebbiolina, e
vi trovate davanti a una scena avvenuta nel passato.
La mia scena avveniva in un mattino di luglio, limpido, caldo, splendente. San
Mamete era ancora mezzo vuoto. Eravamo sul molo davanti alla Darsena; io pescavo,
mia moglie prendeva il sole; i figli, a colpi di pinne e d'anche, scandagliavano il fondo del
lago davanti a noi. A un tratto gli sciacquii delle pinne, le voci limpide dei figli, il
gorgoglio sommesso del DOMOKOS in darsena, i guizzi dei pesci, i miei moccoli e i
tanti altri piccoli, freschi, consueti rumori del nostri mattini valsoldesi furono investiti
con violenza dal rombo di un motoscafo, al largo. Dovete sapere che i villeggianti
tradizionali della Valsolda hanno ormai tutti uno o più motoscafi. Tutti tranne noi: siamo
i parenti poveri della situazione. Quello, comunque, era il primo motoscafo da diporto
che scendeva in lago nella stagione. Era rosso, nuovo, veloce, con due grossi baffi di
spuma bianca dietro, e dietro i baffi bianchi c'era un tizio che faceva sci d'acqua.
I figli emersero e rialzarono le maschere per guardare meglio.
«Che divino», disse la grande, non si capiva se al motoscafo o allo sciatore.
«Piega troppo il sedere», disse Pop, il tecnico.
«A me non mi intereffa», stabilì la piccola scomparendo di nuovo verso il fondo.
Mia moglie si tirò a sedere, si mise gli occhiali, guardò.
«Ah, sono i Cosi», disse. I cognomi, nella lingua di mia moglie, diventano tutti
Cosi. Qualche volta Cosini. Seguì pensosamente con gli occhi il motoscafo che si
allontanava: «Come fila», disse. «Certo che deve essere bello». Sospirò, si tolse gli
occhiali, si ridistese. Fine della scena retrospettiva.
Ma nella settimana antecedente il Gran Giorno, ogni volta che mi fermavo davanti
a quella vetrina, la scena retrospettiva si moltiplicava per dieci, per cento, per mille,
finché con gli occhi della mente io vedevo mia moglie che passava l'intera estate protesa
sul molo, con gli occhi lucidi e il petto squassato dai sospiri, a basire dietro lo sci d'acqua
altrui.
Ma va', diceva la coscienza. Sei tu che basisci, buffone. Non sei un po' vecchio per basire?
Non si è mai troppo vecchi per migliorare il proprio tono di vita, rispondevo. Senza contare
l'educazione dei figli.
Ah ah, diceva la coscienza. L'educazione dei figli, ah ah, buona questa.
L'educazione fisica non è forse educazione? Mene sana non sta forse in corpore sano?
Sì, tira fuori il latino, adesso. Ma infine, devi fare un regalo a tua moglie o devi fare l’istruttore
ginnicosportivo?
A questo punto della discussione, anzi dell'alterco tra me e la coscienza, si
introduceva un terzo elemento, rappresentato dal motoscafiero - o motoscafiere, o come
diavolo lo chiamate - insomma dal proprietario del negozio, che si faceva sulla soglia e
diceva:
«E allora, signor Gamberini? Cosa facciamo? »
Su, rispondi, diceva la coscienza. Rispondi, se hai il coraggio...
«Niente, signor Sassoli, guardavo così...», rispondevo vagamente. «Bel motoscafo...
Buonasera, signor Sassoli». E via come un razzo.
Ma la sera della vigilia non andai via come un razzo. Entrai come un razzo. Il
signor Sassoli fece un salto indietro per non essere travolto.
Quando ne uscii, la testa mi ronzava.
«Arrivederci, Gamberini!»., mi disse dalla soglia il motoscafiere, agitando
amichevolmente la mano. «Domani mattina alle dieci siamo sul posto»
II plurale si riferiva al motoscafo e a lui, che me l'avrebbe portato personalmente
sul Luogo, alla Data e nell'Ora fatidica (San Mamete, 23 agosto, ore 10).
«Arrivederci, Sassoli!», dissi con la disinvoltura di uno che è uso dalla nascita a
comprare un paio di motoscafi al mese. E mi sentivo effettivamente così. Dentro di me
la coscienza diceva cose irripetibili, ma la testa mi ronzava troppo perché ci badassi.
«Chissà come sarà felice», pensavo, «Certo mai più si aspetta un regalo simile... Chissà
che faccia farà.» «Giorni celesti! ». dirà. «Proprio il motoscafo che sognavo da tanto
tempo!.. Con questi pensieri andai a comprare gli sci d'acqua con relativo armamentario,
li mimetizzai accuratamente nel portabagagli della Vecchia e partii per San Mamete. Per
tutto il tempo del viaggio la coscienza continuò a dirmene di tutti i colori, e la mia testa a
ronzare come dieci teste che ronzano.
Mi ronzava anche la sera, a letto. Invano lei aveva tentato di farmi dire che cosa
fosse il mio regalo, e invano io avevo tentato di farmi dire che cosa fosse il suo. «Lo
vedrai domani alle dieci», rispondeva sibillina. Neanche i figli si lasciarono corrompere.
Oltre che sibillini, apparivano molto eccitati.
Mai come me, ad ogni modo. Infatti, mentre io continuavo a rigirarmi senza
riuscire a prender sonno, lei si addormentò subito. Cosa che mi dà sempre molto ai
nervi. Non so a voi, ma a me non va giù che mia moglie si addormenti prima di me.
Quando succede, mi viene immediatamente voglia di svegliarla, e faccio di tutto per
raggiungere lo scopo: sfoglio giornali crocchianti, accendo sigarette con grandi sfrigolii di
fiammiferi, mi alzo, mi ridistendo, esco, rientro, accendo la luce, la spengo, la riaccendo.
Niente. Lei dorme. Una cosa oltremodo irritante. Ma quella sera, la cosa era addirittura
indecente. Ma come! Era la vigilia dell'anniversario di nozze, e questa dormiva come
dieci mogli che dormono: lusinghiero per un marito, non è vero? Infine, consumate
fragorosamente tutte le sigarette e tutti i giornali, mi addormentai, ma non riuscii a
dormire che poche ore, durante le quali feci sogni agitati, pieni di motoscafi urlanti, e di
coscienze ancora più urlanti, e mi svegliai di pessimo umore. Anche lei si svegliò di
pessimo umore: forse perché aveva dormito troppo. O sognato troppo? L'umore
comunque era perfido.
Non so se succeda anche a voi, ma a noi succede regolarmente: quando arrivano
delle ricorrenze particolarmente care, dei giorni particolarmente desiderati (Natali,
Capodanni, anniversari, eccetera) in cui si desidera andare particolarmente d'accordo,
volersi particolarmente bene, essere particolarmente teneri e gentili, si può stare sicuri
che noi siamo particolarmente sgarbati, pignoli, litigiosi, petulanti. Non siamo ancora
riusciti a spiegarcene il perché: forse e perché ognuno dei due si aspetta che l'altro sia
super-tenero e super-gentile, e gli pare che non lo sia abbastanza, perciò si sente deluso,
maltrattato e vilipeso, l'altro si sente deluso, maltrattato e vilipeso di riflesso, e così si va
avanti a valanga. In ogni fausto giorno il fenomeno si ripete: Inesorabilmente.
Si ripeté anche quella volta. Non avevamo ancora aperto gli occhi che stavamo già
litigando. E continuammo, tra grugniti, sarcasmi e porte sbattute, fine alle nove. La
prima colazione si svolse in un'atmosfera da tagliarsi col coltello. I figli, ormai abituati ai
nostri anniversari, Natali eccetera, non ci facevano nessun caso. Ma io, credetemi, mi
sentivo veramente amareggiato. Valeva la pena, pensavo guardando mia moglie, valeva
proprio la pena di farle un così bel regalo... Eccola lì, sparuta, spettinata e coi calzoni di
tutti i giorni, che mangiava pane e burro con un'aria tragica. Bel modo di festeggiare un
marito, no? Manco il disturbo di vestirsi da donna, s'era presa. Manco quello. Non ne
ero degno, si vede.
Mentre stavo per ridirle quello che pensavo di lei, dei suoi calzoni e del suo
atteggiamento, la porta della veranda si apri ed entrò la Barborin, la vecchietta lunatica
del paese, a portare il primo mazzolino di fiori.
«Oh, che belli!», disse mia moglie fingendo dì ignorare che si trattava di fiori colti
nottetempo nel nostro giardino; ed abbracciò teneramente la Barborin fingendo di
ignorare che era sporca come cento vecchiette sporche.
La Barborin piangeva. Piange sempre, quando ricorda il nostro matrimonio. Poh.
Sono io che dovrei piangere, se mai.
Uscita la Barborin in lacrime, arrivò il secondo mazzolino di fiori, e poi il terzo, e
poi il quarto... in mezz'ora la veranda ne fu piena: fiori di campo e fiori di giardino, fiori
freschi e fiori già mezzo appassiti, fiori ricchi e fiori poveri, tutti i fiori della Valsolda per
noi. Proprio come diciassette anni fa alla stessa ora: quando una ragazzetta di diciotto
anni, che ne dimostrava sì e no quindici, saliva seria e felice al braccio di suo padre la
scalinata verso la vecchia chiesa, e un sottotenente di complemento ventenne,
completamente rintontito, l'aspettava scalpitando sui sagrato tra una folla di prossimi
cognati e cugini e vecchi amici, quasi tutti in divisa, che gli battevano sulle spalle per
fargli coraggio. Mi pareva che lei non arrivasse mai. Ma poi era arrivata, e mai la voce
delle vecchie campane mi era sembrata più dolce e solenne.
Intanto giù la veranda si riempiva di fiori, come adesso.
Diciassette anni... Adesso suo padre, l'uomo più saggio e più buono che io abbia
mai conosciuto, é morto. Uno dei suoi fratelli, il più allegro, non è tornato dalla guerra.
Due di quegli amici, i più cari, sono morti in prigionia. E noi abbiamo tre figli, e sono
passati diciassette ami.
Ci guardammo, mia moglie ed io, al di sopra di tutti quel fiori e di tutti quegli anni,
al di sopra del dolore e della fatica e della morte e della speranza, e non mi importava più
niente che fosse spettinata e di malumore e coi calzoni, era lei e io l'amavo, molto più
adesso di allora.
Le tesi la mano. «A fanatica», dissi, a gola chiusa. «A bisbetico», rispose. Strofinò la
testa scarmigliata contro il mio braccio e io pensai che forse il motoscafo non era un
regalo abbastanza bello né abbastanza grande. Niente era abbastanza bello e abbastanza
grande per lei.
Il campanile aveva appena suonato le dieci che si sentì un clacson chiamare da
fuori.
«Andate a spalancare il cancello!», dissi ai figli con voce trionfale, trattenendo mia
moglie per un braccio. «È il mio regalo che arriva».
Lei diede un occhiata ansiosa verso il lago. «Anche il mio sta arrivando», disse con
una voce strana. «Non voltarti finché non te lo dico io».
Restammo lì frementi in mezzo al prato, senza voltarci e quando ci voltammo i
rispettivi regali - uno via terra, uno via lago - erano arrivati.
Eppure non ero ubriaco. Come mai vedevo doppio? Mi fregai gli occhi e
riguardai. I motoscafi erano sempre due. Uno in lago e uno in terra, identici: due! E due
erano, uno milanese e uno lacustre, i motoscafieri: che si guardavano con gli occhi fuori
dalle orbite.
Anche i figli avevano gli occhi fuori dalle orbite. Il Bu abbaiava come un disperato
contro i due nuovi nemici a motore. La Rosa, apparsa in giardino, era l'unica a non dar
segno di sorpresa. Si deve essere da tempo radicata in lei la convinzione di essere al
servizio di un manicomio, e non si meraviglia più di niente. Se un giorno uscendo in
giardino si trovasse davanti due dinosauri, non batterebbe ciglio.
Io però li battevo, i cigli. Due motoscafi! Mi ci vollero pochi secondi per passare
dallo sbalordimento al furore. Due motoscafi! Ecco che cosa succede a sposare una
pazzoide, una che gira a piedi nudi di giorno e porta calzini rossi in letto, una che
sperpera il denaro guadagnato col sudore della fronte! Come si era permessa, lei, di
regalarmi un motoscafo senza consultare me, il capo?
«E perché non avrei dovuto regalarti un motoscafo?», gridava lei misurando il
prato a gran passi: grandi per lei, dico. «Era tutta l'estate che facevi saliva dietro i
motoscafi., mi accusava, col dito teso, «e che io aspettavo l'anniversario per farti la
sorpresa... Cosa ne sapevo che ne compravi uno anche tu? Ma dovevo saperlo! Quando
si ha per marito un mentecatto, un incosciente, un megalomane... » Parlava tale e quale la
coscienza. Si interruppe di colpo, la faccia le si rimpicciolì. «Oh, accidenti», mormorò. Le
tremava il mento. «S'è rovinato tutto... ».
Be', intanto è difficile restare arrabbiati quando le trema il mento. Poi mi resi
conto, in quel momento, che anche lei doveva aver superato atroci lotte con la
coscienza, e che le aveva superate per me: e di colpo mi vergognai come un ladro di aver
preso un motoscafo e di averle rovinato la sorpresa.
«II mio è solo in prova» ., confessai umilmente.
«Anche il mio è solo in prova», lei disse. Guardò di striscio i due motoscafieri che
fingevano per discrezione di essere sordi e ciechi, poi guardò me con gli occhi luccicanti
e buttò in aria le braccia e il cappello di rafia:
«E allora?», disse «Cosa aspettiamo a provarli?». Li provammo tutta la mattina:
tutti e due i motoscafi, con tutte e due le paia di sci d'acqua, con tutti e due i giubbotti, e
con tutti e due i motoscafieri che ci facevano ("senza impegno, per carità") da istruttori.
Ho il sospetto che si divertissero parecchio. Si fermarono a colazione. Dopo di che, il
motoscafiere cittadino se ne tornò senza rancore alla base col suo motoscafo, un affare
perduto e degli amici trovati. «Ciao!», gli gridava dietro la piccola inseguendolo fino al
ponte. «Ciao, Saffoli, torna prefto!» .. Amici intimi. In quanto al motoscafiere lacustre,
vecchio conoscente di mia moglie e dei suoi antenati (suo nonno costruì il Domokos per il
nonno di mia moglie) ci lasciò il motoscafo in prova fino a fine stagione.
«Senza impegno, per carità», ripeté andandosene. «Ne parliamo a settembre».
Anche lui fu inseguito da evviva, arrivederci e “ciao Taroni" a non finire. Aveva quasi le
lacrime agli occhi.
«Gnaffe!», disse mia moglie appena fu scomparso. Gnaffe è un’altra delle sue
esclamazioni favorite. «Lo adoperiamo un po’ e poi gliela restiamo con tante grazie. Mica
siamo matti. Gnaffe! »
Dopo di che tornammo a motoscafare, a sciare (e litigare, si intende) fino al
tramonto. C'era mezzo paese raccolto sulla riva a ridere. Perché, se per il fatto che siete
provetti sciatori su neve, voi credete di poter essere all'istante provetti sciatori sull'acqua,
prendete un grosso abbaglio. Io ve lo posso dire. E posso inoltre dirvi che, se non avete
mai provato a fare sci d'acqua per la prima volta e per una intera giornata, non capirete
mai in che stato eravamo alla fine. «.
Camminavamo come marinai ubriachi, le gambe ci mancavano di sotto, non
potevamo muovere un dito senza dire ahi. Raggiungere il piano di sopra fu come
conquistare il K2. Crollammo sul letto come due pere mature.
«Giorni celesti!», disse mia moglie.
Io non avevo neanche più voce.
Allungai faticosamente una mano sulla sua testa zuppa. Siamo sempre gli stessi,
pensai. Non abbiamo mai mezze misure, io e te. ogni cosa che facciamo dobbiamo farla
tutta, dobbiamo farla subito e dobbiamo farla con tutto il nostro fiato. Litigi e sci
d'acqua e sorprese e tutto il resto. Sempre gli stessi. Nonostante i muscoli doloranti che a
ogni minimo movimento mi dicevano "sei vecchio", mi sentivo molto giovane.

Per finire l'anniversario in modo degno, avevamo invitato alcuni amici, pochi ma
veri, a cenare con noi allo Stella d'Italia, l'albergo-ristorante dì San Mamete. Per dopo
cena avevamo in programma di andare a folleggiare. Dovevamo farci belli. Ma alle sette
eravamo ancora lì bocconi sul letto, coi capelli fradici, gli occhi da pesce e la sensazione
che non ci saremmo alzati mai più.
«Bisognerà prepararsi », dissi senza aprire gli occhi.
«Uuuh», lei disse, la faccia contro il mio braccio. Nessuno si mosse.
Quello che ci fece muovere, anzi balzare su come razzi nonostante i muscoli
afflitti, fu un botto spaventevole sotto di noi, seguito dal latrare disperato del Bu e da un
crescendo impressionante di urli provenienti, sembrava, da un'intera folla radunata in
giardino.
Ci precipitammo fuori in preda a drammatici presentimenti. Quando ricorre il
nostro anniversario di nozze, non si sa mai che cosa possa succedere.
Era successo che Pop, per festeggiarci, aveva preparato dei razzi. E che mentre
stava mescolando la miscela per l'ultimo della serie, guardando ispirato l'orizzonte come
è solito fare in ogni circostanza della vita, la miscela aveva detonato: spargendo il panico
nel Bu, il fermento nella folla di minori che occupa in permanenza il giardino, e il più
profondo stupore nell'artificiere, che in vita sua, per quanti sforzi facesse, non era mai
riuscito a far detonare niente. Ci voleva il nostro anniversario, si vede.
Comunque, l'angelo protettore della nostra famiglia - un angelo che io immagino
sempre madido di sudore e vicino al collasso nervoso - aveva funzionato anche stavolta,
e l'esplosione, avvenuta proprio sotto il naso di Pop, l'aveva lasciato illeso. All'aspetto,
però, sembrava carbonizzato. Nero dalla testa ai piedi. Che non fosse carbonizzato si
poteva intuire dal fatto che in mezzo alla faccia nera c'era una bocca aperta fino alle
orecchie e che dalla bocca aperta uscivano acute papere di eccitazione e di trionfo:
«La funziela misciona! La miscela funziona!», gridava riempiendo freneticamente
l'involucro dell'ultimo razzo. «Attenzione che si parte! Tutti a terra!». Davanti a lui
stavano schierati, ognuno con la sua miccia, quattro oggetti di forma oblunga e
fisionomia sinistra; e dietro di lui il prato formicolava di spettatori dai quattro ai sedici
anni che strisciavano ventre a terra come bruchi, gridando confusi consigli tecnici.
«Titti zuzzi! » ., ordinò l'artificiere. « Tutti zitti! A terra, voialtri!», urlò agitando la
mano verso noi due.
Ci buttammo giù in mezzo ai bruchi.
Pop accese il fiammifero
«Giorni celesti!», esalò il bruco vicino a me, che era mia moglie. «Pop, sta attento!
Pop!»
«Ma sta un po' zitta!», le dissi. «Lascia che faccia le sue esperienze ».
«Glielo riattacchi tu, il naso?».
«Non fare la donnicciola», le risposi. « E tu non...».
«Ssst», sibilò Pop, giusto in tempo per fermare un altro litigio a valanga. «Zitti e
fermi!», ci ordinò con un'occhiataccia. « E mani sulla testa!».
Ci portammo le mani sulla testa. Mi pareva di essere in Croazia. Solo che là avevo
anche l'elmetto.
«Att-ten--zione!», urlò l'artificiere. Innescò, accese la miccia, e si buttò
spettacolarmente all'indietro.
Nel silenzio di tomba che seguì, si sentiva lo sfrigolio della miccia. Mia moglie
aveva chiuso gli occhi. Anch'io li chiusi. La miccia sfrigolava, sfrigolava, tra i gemiti del
Bu e i respiri sospesi: minuti, secoli? Vedevo sempre la Croazia. La guerriglia, gli agguati,
le attese, le esplosioni, le membra squarciate, e in mezzo c'ero io. Ma non ero io, era Pop.
Stavo balzando in piedi con un urlo, quando lo sfrigolìo cessò e il razzo, anziché alzarsi,
si sedette sulla ghiaia con un sommesso, timido pouf di sollievo.
Anche mia moglie disse pouf. Io non lo dissi, ma lo pensai. Ero tutto sudato.
Mia moglie mi guardò e piegò le labbra. «Donnicciola », disse tra sé.
I bruchi, ora in posizione verticale, parlavano concitatamente tutti insieme di
miscele, detonazioni, più clorato, meno zolfo, più zolfo, meno clorato, ma non dire
stupidate, ma cosa vuoi sapere tu, ma dài, ma scemo, su proviamo di nuovo.
L'artificiere, piombato dall'eccitazione nel più lugubre sconforto, taceva. La vita è
tenebra, dicevano i suoi occhi fissi nel vuoto. I razzi non partono. Non ci sarà mai luce per me.
Sua madre, figurarsi, lo raggiunse con le ali ai piedi, e cominciò a parlargli piano
con la voce dolce e protettiva che usa per Pop, per il Bu, per le bestie in genere, bachi
compresi; raramente per me. Non so cosa gli disse, ma la lampadina della speranza si
riaccese per incanto nelle tenebre di Pop. Il sorriso che le rivolse, candido nella faccia
nera, esprimeva una illimitata fiducia in lei prima e nella vita poi.
La madre si voltò verso di me: «Invece di star lì come un baccalà», disse, «perché
non lo aiuti a far partire i razzi?».
Ecco come è fatta. Un minuto prima malediceva i razzi in generale e quelli di Pop
in particolare, parlava di nasi mozzati e di altre cose raccapriccianti, chiudeva gli occhi e
invocava aiuti celesti, e adesso, di punto in bianco, pretendeva che io, come no?,
prendessi a cuore i meravigliosi razzi del suo meraviglioso figlio. Che se poi ci scappava
un naso mozzato, a lei che gliene importava? Tanto era il mio.
Espressi le mie opinioni, e lei mi guardò piegando la testa verso la spalla: «Non
avrai paura di quattro poveri piccoli razzi domestici», disse con voce stupefatta.
Raddrizzò la testa: «Eri o non eri un artigliere?», chiese, dubitativa. Cambiò di nuovo
tattica e prese la piega lirica: «E pensare che sono i razzi del nostro anniversario...».
Non mi pareva una buona ragione per farmi mozzare il naso.
Ma c'era in gioco la mia reputazione di artigliere. Fu per rendere onore all'Arma,
non già all'anniversario della malora, che nonostante l'ora tarda, i muscoli doloranti per
lo sci d'acqua, e gli invitati che ci aspettavano per la cena allo Stella d'Italia, mi impegnai
seduta stante a far partire i razzi. Avrebbe visto, lei, di che cosa è capace un artigliere.
Per più di mezz'ora, assistito dal dannato figlio e una mezza dozzina di dannati
nipoti, non feci che mescolare, rimescolare, riempire, innescare, accendere micce,
buttarmi a terra e aspettare, mani in testa, l'esplosione.
«Pouf», dicevano i razzi, e si sedevano.
«Pouf», diceva mia moglie, e si sedeva anche lei. Con aria profondamente critica.
Così per più di mezz'ora. Ad ogni pouf dei razzi il mio onore di artigliere subiva
una forte scossa, e ad ogni pouf di mia moglie era il mio sistema nervoso che subiva la
scossa. Se lo fa un'altra volta...

Quello che impedì un uxoricidio fu il gracchiare del cancello che si apriva, indi un
suono di passi sulla ghiaia e una voce insinuante che diceva: «Forse non abbiamo capito
bene: l'invito era per questa sera o per l'anno prossimo?».
Era l'Armen, nostro amico e invitato. Veramente il suo nome è un altro, ma ce lo
siamo dimenticato tutti. È nato in Italia ma è armeno e, come è d'uopo per un orientale,
si occupa di tappeti. Sono anni che speriamo che ce ne regali uno, ma niente. Gli
orientali, si sa... Ce li presta solo. Ha studiato legge come me, ma è un tipo molto colto,
con gli occhiali, stempiato, si interessa di letteratura, arte, politica, e siamo sempre di
parere contrario. Talvolta le rispettive mogli intervengono per metter pace. Talvolta
invece ci aizzano e poi stanno lì a riderci dietro. La sua si chiama Zita. Di moglie, dico.
Lei fa parte di una delle poche famiglie di villeggianti valsoldesi tradizionali (il motoscafo
però non ce l'hanno) e lui è stato importato una decina d'anni fa dalla (allora) futura
moglie, come io lo sono stato diciotto anni fa dalla mia. Lavorano tutti e due, e quella
sera erano arrivati su da Milano appositamente per cenare con noi.
Adesso erano lì, tutti vestiti di bello, lui cravatta, lei gioielli, e guardavano noi due,
fradici per lo sci d'aoqua e sporchi di polvere da sparo, senza mostrare stupore. Ci
conoscono da troppo tempo per stupirsi. Apparivano soltanto rassegnati.
«Andiamo, Armen», disse Zita prendendo il braccio del consorte. «Doveva essere
proprio per l'amo prossimo».
«Giorni celesti!», disse mia moglie portandosi le mani ai capelli zuppi «Ma che ore
sono?».
«Le otto e dieci», risposero due altre voci rassegnate dal cancello.
Questi erano i Polpettoni. Anche loro hanno un altro nome, ma ci siamo
dimenticati anche quello. Sono entrambi di corporatura forte, come direbbero i sarti.
Occupano molto spazio in altezza, larghezza e spessore. Di qui il nome. La Polpettona
(anche lei discendente di un pioniere della villeggiatura valsoldese) è un'amica d'infanzia
di mia moglie, e ne è fisicamente l'opposto: biondo-rossa, con una frangia alla ca c'est
Paris, vestiti fruscianti e scollature da fischio, chi non la conosce la crede una vamp, o
per meglio dire una vampona, chi la conosce sa che è la più ingenua, suonata e simpatica
Polpettona della madre terra. Tiene gli occhi socchiusi alla Marilina, perché è miope
come una talpa. Quasi più di mia moglie, che è tutto dire. Il Polpettone fa l'antiquario e
l'arredatore e racconta barzellette meglio di chiunque al mondo. Ne tiene l'indice in un
quadernetto apposito, per ricordarsele tutte (adesso è alla
tremilaquattrocentosettantaseiesima barzelletta), tutte virtuosamente suddivise in Pulite,
Non pulite, Medie, e quando non ha il quadernetto sotto mano c'è la Polpettona che
supplisce, suggerendo: «Conta quella del pazzo con l'orologio» «Ah sì», dice il
Polpettone. Atteggia la faccia, e prima ancora che abbia cominciato a parlare tutti si
buttano via dal ridere. Anche il Polpettone è stato importato in Valsolda, temporibus illis,
dalla (allora) futura consorte. Le ragazze valsoldesi, bisogna dirlo, come importatrici ci
sapevano fare.
Come avrete modo di constatare in seguito, i Polpettoni e gli Armen sono i
satelliti che più frequentemente girano intorno al nostro pianeta. E come gli Armen, i
Polpettoni erano venuti su apposta quella sera, dietro nostro invito, per festeggiare
l'anniversario. Adesso erano lì al cancello, giacca bianca lui, scollatura micidiale lei, tipo
gran mondo.
«Non per intrometterci», disse il Polpettone con voce nasale, «ma siccome noi
saremmo intenzionati a mangiare anche stasera, vorremmo sapere, così senza impegno,
tanto per regolarci, se anche voi sareste di questa intenzione, perché in caso contrario..».
«Mangiamo noi e ciao», concluse la Polpettone socchiudendo languidamente gli
occhi. Fece tintinnare i gioielli e annunciò con voce fatale: « Ci ho una fame che non ci
vedo».
«Meno del solito, intende», spiegò il Polpettone.
«Forse siamo un po' in ritardo», ammise mia moglie con disinvoltura. «Dài, entrate
un momento a bere un aperitivo, facciamo subito... Che giornata campale, cari miei...
Prima due motoscafi, questo incosciente qua ne aveva fatto venire uno da Milano,
figuratevi... Poi lo sci d'acqua, questo qui pretendeva di essere un campione all'istante e
non vi dico, siamo qui a pezzetti... Avanti, dài! ..»
L'avantídài era cortesemente rivolto ad altri due individui comparsi, in
atteggiamento perplesso, al cancello. Si trattava degli ultimi due invitati: maschi, senza
moglie, valsoldesi di nascita e non d'importazione. Uno era il Grigione, così detto per via
della canizie precoce, aiuto regista di professione, un tipo tranquillo che sembra sempre
triste e poi scopri che è allegro. L'altro era il Pinetto, finalmente uno col nome giusto,
pittore di professione, un tipo movimentato che pare sempre allegro e poi scopri che è
triste.
Come vedete, una compagnia sceltissima: arredamento, pittura, cinema, tappeti
orientali... Metteteci la letteratura di mia moglie e avrete un'idea.
«E infine», continuava la letterata guidando gli spiriti eletti verso la veranda irta di
bambini e di peluches, «abbiamo fatto tardi per via dei razzi. Pop aveva preparato dei
così bei razzi per festeggiare il nostro anniversario, e questo qui non è riuscito a farne
partire neanche uno. Non so proprio cosa sia stato in artiglieria a fare... Dài bevete
qualcosa intanto che io vado a cambiarmi, faccio in un minuto... Tatti togli un po' di
peluches dal tavolo, Bruna tira fuori i bicchieri, Rosa porta il ghiaccio, voialtri fuori
bambini, cuccia Bu non fare confusione... Tu prepara gli aperitivi, artigliere». Riprese
fiato, fece una smorfia e partì come un razzo: di quelli che partono, dico.
La vidi fermarsi un momento vicino a Pop, di nuovo sprofondato nelle tenebre
dello sconforto, e parlottargli dolcemente all'orecchio. Non più di venti secondi dopo lei
correva su per le scale seminando dietro di sé capi di vestiario per guadagnare tempo, e il
figlio vagava per il giardino con un sorriso beato e cento lampadine nuove accese in
testa. Razzi e letteratura a parte, madre e figlio si assomigliano molto: una metamorfosi
continua. Rimbalzano dalle nuvole agli abissi e dagli abissi .. alle nuvole come palle di
gomma.
Mentre preparavo gli aperitivi per gli ospiti, si sentiva sopra le nostre teste un
frenetico andirivieni di piedi scalzi, inframmezzato da tonfi.
« Ma cosa fa, si veste o si allena per i quattrocento a ostacoli?»,disse l'Armen.
Mi strinsi nelle spalle. Sono i misteri di mia moglie: Impossibile fare pronostici.
«Cin-cin», dissi alzando il bicchiere.
Non erano passati più di dieci minuti che la sposa ricomparve.
I satelliti ulularono. La Rosa lasciò cadere il portaghiaccio. II Grigione si strozzò col
bitter. Potevo capire: non ci sono ancora abituato io, alle repentine metamorfosi di mia
moglie, figuriamoci gli altri.
Al posto dell'istrice coi calzoni e gli occhiali che aveva salito di corsa quelle scale
pochi minuti prima, scendeva ora, appoggiandosi con grazia alla ringhiera, una giovane
signora dall'aria sofisticata e molto flou.
«Signora-come-stai-bella», recitò la Rosa. «Signora-non-sembri-più-quella».
La signora lasciò cadere su quella rima un'occhiata indefinibile. Poi fece scivolare
intorno lo sguardo: ci mise un po' a trovarmi, perché essendosi tolta gli occhiali non
distingueva me dal Bu, ma infine ci riuscì. Da vacui che erano, gli occhi si fecero lucidi e
ansiosi. Sto bene? Posso ancora andare?
Il mio responso non era cambiato. Asciutta o bagnata, con gli occhiali o senza, coi
calzoni o col vestito flou, era sempre la stessa. Quella che aveva camminato al mio fianco,
nei giorni belli e nei giorni brutti, per diciassette. anni: bisbetica e dolce e piena di
coraggio. Lei.
«Invece di stare lì a farvi gli occhi da pesce, sposi», disse il Polpettone, «non
sarebbe ora che ci portaste a mang... »
In quel preciso istante la casa, il giardino e la Valsolda intera tremarono per un
botto da fine del mondo. I razzi di Pop erano partiti. Tutti insieme, per conto loro, senza
preavviso né sollecitazione di sorta. Così. Solo grazie al pronto intervento del solito
angelo di famiglia non si lamentarono vittime.
E sempre così, in casa nostra: specialmente nelle ricorrenze importanti. Quando ci
si aspetta una cosa, o non succede, o ne succede un'altra, o ne succedono due (come i
motoscafi). Quando invece non ci si aspetta che succeda una cosa, o si smette di
aspettarla, allora bum!, succede: come i razzi.
«Mamma santissima», gemeva il Polpettone con la mano sul cuore, «giuro che in
questa casa non ci vengo più ».
È un giuramento che abbiamo sentito fare spesso: invano.

Cinque minuti dopo (il tempo di lavarmi e cambiarmi, sono anch'io al mondo,
no?) affidammo i figli all'angelo custode e ci avviammo, lasciandoci dietro scie di
profumo e di raccomandazioni, verso la Grande Serata. Il programma era il seguente:
Prima parte: cena allo Stella d'Italia, con manicaretti sopraffini, vini prelibati e
conversazioni scintillanti.
Seconda parte: puntata al Casinò di Campione con sosta al tavolo della roulette e
relativa vincita di somme ingenti.
Terza parte: danze e follie, con relativo sperpero delle somme ingenti, in uno o più
nights della costa ticinese, dove (lo si sente bisbigliare nell'aria) le ballerine fanno lo
spogliarello.
Questo il programma. Ed ecco lo svolgimento:

1. Stella d'Italia
Per darvi un'idea dell'ambiente: lo Stella d'Italia é un vecchio, glorioso, poetico
alberghetto, con un piccolo fiorito giardino e un grosso sapiente cuoco, dove da anni e
decine di anni ritornano puntualmente sempre gli stessi clienti: più qualcuno nuovo, che
poi ritornerà fedelmente ogni estate. I proprietari, gli Ortelli, sono vecchi conoscenti di
mia moglie e relativi antenati. Su ogni parete dello Stella d'Italia campeggiano uno o più
quadri del Pinetto; in ogni scaffale campeggiano uno o più libri di Fogazzaro e di mia
moglie, e fate a meno di inorridire per l'accostamento perché la maggioranza degli ospiti,
allo Stella d'Italia, sono stranieri e l'italiano non lo leggono, ragion per cui l'onore della
patria letteratura è salvo. I pochi ospiti italiani, poi, sono quasi tutti fanatici della pesca, e
i fanatici della pesca non leggono: pescano. Ad ogni modo, stranieri o italiani, sono tutti
gente tranquilla, riservata, che a tavola parla sussurrando.
E in questo ambiente tranquillo, riservato e sussurrante, in un angolo suggestivo
di giardino illuminato di verde, con la luna nascente alle spalle e un lago silenzioso
davanti, eccoti le nostre tre donne che, dopo un piatto di ravioli ed un bicchiere di vino
bianco, cominciano a tirar fuori i loro ricordi d'infanzia valsoldese e a ridere come trenta
mogli che ridono, lacrimando e ululando in modo assolutamente scorretto. La più
scorretta, naturalmente, era mia moglie: già é per natura portata a dare i numeri,
aggiungeteci un anniversario di nozze, un bicchiere di vino bianco e due amiche
d'infanzia, e siete fritti. Si potevano vedere, anche a occhio nudo, le rotelline che le
giravano vorticosamente nel cervello.
«Mamma santissima», gemeva il Polpettone sogguardandosi intorno, «giuro che in
società con questa io non ci vado più ».
Cos'avrei dovuto dire io, che l'ho sposata. Eccola lì, la sposa, col vestito di lusso e
gli orecchini e tutto, che faceva una cagnara d'inferno. Era quello il modo di ridere? Per
degli stupidissimi ricordi d'infanzia, poi. Una cosa veramente deplorevole. Tanto più che
in quei ricordi d'infanzia, io non c'ero. A un tratto la pazzoide mi guardò, piegando la
testa verso la spalla. «Uff che ridere», disse vagamente, asciugandosi gli occhi. Si soffiò il
naso e cambiò bruscamente direzione allo sguardo e al discorso: «Come sono venute
bene le vostre dalie», disse a Ortelli padre, che ci sorvegliava con occhio indulgente. «Ma
vedesse le nostre! Raccontagli le dalie, Dino».
Erano il mio orgoglio, le dalie nuove. Le descrissi, ed era come parlare di creature
vive - per me lo sono, i fiori - e lei mi guardava come se io e le dalie fossimo all'apice dei
suoi pensieri, il che non era vero affatto, ma lo sembrava, per cui dovetti perdonarle le
intemperanze di prima e la sua infanzia non mia.
Un minuto dopo le rotelline le si girarono di nuovo e le intemperanze
ricominciarono: ma quello che è peggio, è che anche noi uomini, normali e sensati
individui tra i trenta e i quaranta, fummo nostro malgrado contagiati, trascinati e
coinvolti nelle intemperanze, cosicché quella che avrebbe dovuto essere una raffinata e
poetica cenetta d'anniversario divenne una gazzarra che in confronto le merende dei figli
erano un servizio funebre.
Continuando a servire imperterriti i loro sbalorditi ospiti stranieri, Ortelli padre e
figlio si mordevano le guance in modo sospetto.
«Ma dài smettetela», disse mia moglie, come se lei fosse del tutto innocente. «Gli
rovinate il prestigio».
Forse per farsi perdonare, verso la fine della cena il Polpettone pensò bene, nella
sua qualità di arredatore, di lodare con Ortelli padre la nuova sistemazione delle vecchie
sale di soggiorno, con molte pareti abolite e sostituite da vetrate, proprio una buona idea.
Ortelli padre fece una faccia. Sollecitato, spiegò con poche frasi incisive gli inconvenienti
delle porte e pareti a tutto vetro in un albergo come il suo, dove il 75 % degli ospiti è
costituito da stranieri, e di questo 75 % il 50 %' è costituito da inglesi, e di questo 50 % il
35 % è costituito da anziane signorine: che leggono molto; che ci vedono poco; e che
vanno a sbattere il naso nel vetro credendolo aria. Ortelli padre appariva preoccupato:
non si capiva se per le sue vetrate o per i nasi delle sue inglesi. La cosa suscitò un
morboso interesse nelle nostre mogli, che ricominciarono a comportarsi
indecorosamente aspettando in modo oltremodo palese il cozzo delle vecchie carampane
inglesi nei vetri. Tengo a precisare che il termine "vecchia carampana" è loro, non mio:
io sono un gentiluomo. Ad ogni vecchia carampana che si alzava, dunque, queste
cominciavano a sporgersi in ansiosa attesa, e noialtri gentiluomini, nel tentativo di salvare
i rapporti internazionali minacciati dalle mogli, le prodigavamo inchini e sorrisi che
neanche a Sofia Loren. «Bye-bye!», garriva la carampana esibendo i lunghi denti.
Traversava il soggiorno dirigendosi, naso nel libro, verso le vetrate fatali, e le mogli si
protendevano dalle sedie facendo il tifo: «Dài, forza che sbatte, dài che ce la fa...».
Niente. A un centimetro dalla vetrata, con un abile scarto o una frenata poderosa, la
vecchia carampana evitava il cozzo. Le mogli sedevano amareggiate.
«Non riesco a capire», si scusò Ortelli figlio, servendoci il caffé nel soggiorno, e ci
sbattono tutte le sere, e proprio stasera no». Appariva mortificato.
«Fa niente, fa niente», disse mia moglie, magnanima. «Sarà per un'altra volta.
Andiamo?». Si avvolse con gesto mondano nello spugnoso scialle bianco e veleggiò
verso l'uscita con la Polpettona.
Non avevano fatto cinque passi che si senti un duplice botto seguito da un duplice
urlo. Avevano sbattuto il naso nel vetro: le due vecchie carampane valsoldesi.

2. Puntata a Campione

Le automobili a disposizione erano due: la nostra e quella dell'Armen. Le abbiamo


acquistate nello stesso periodo (questa è una delle storie che vi devo raccontare un
giorno), abbiamo preso la patente nello stesso periodo, e da allora ai preesistenti motivi
di litigio, tipo letteratura, cinema, politica, se n'è aggiunto un altro molto più scottante: le
reciproche automobili e la reciproca abilita di autisti.
«Ragazzi, non facciamo sciocchezze», cominciò a gemere il Polpettone appena
fummo in vista delle automobili. Lui l'automobile non ce l'ha, non perché non possa
permettersela, ma perché soffre di allergie. Uno strascico della guerra, dice. Una delle
allergie più spiccate è quella per le automobili: appena le vede cambia colore. Ammetto
che le nostre, di automobili, potrebbero far cambiare colore anche ai non allergici. Se la
Vecchia è vecchia, quella dell'Amen é perlomeno molto anziana: e ambedue, basta
guardarle, hanno carattere lunatico e istinti aggressivi. Comunque, in quel momento
l'allergia del Polpettone, più che alle macchine, si riferiva agli autisti.
«Ragazzi, mi raccomando», supplicava, asciugandosi già il sudore, «ragazzi, fate i
bravi, io ho famiglia».
«Allora vieni con me che vai più sicuro», disse l'Armen. Ne nacque una
discussione pericolosa, col Polpettone che veniva tirato in tutti i sensi e diceva che lui
aveva famiglia, finché le mogli decisero di fare a testa-o-croce. Venne croce: gli scapoli
furono assegnati alla Molto-Anziana, e il Polpettone con la Polpettona fu assegnato alla
Vecchia. Non era ancora seduto che aveva già il mal di mare.
La Molto-Anziana riuscì a partire per prima, ma come al solito l'Armen guidava
che era uno schifo e dovetti sorpassarlo prima ancora del confine; lui mi gridò dietro
qualcosa che non capii, ma si vede che capì la Vecchia perché s'impuntò come un mulo,
cosicché l'Armen mi sorpassò, dimostrando scarso senso sportivo, e stavolta fui io a
gridargli dietro qualcosa e fu la Molto-Anziana a impuntarsi, e quello che disse l’Armen
quando lo sorpassai lo capii molto bene, ma non posso ripeterlo. Certe persone, quando
sono al volante, mancano di controllo. Lo dico sempre.
Per tutto il tragitto il Polpettone continuò ad asciugarsi il sudore e a dire che lui
aveva famiglia. «Mamma santissima», gemeva quando scendemmo a Campione, «giuro
che in macchina con questi io non ci vado più»
Nell'atrio del Casinò un tipo imponente con gli occhiali e il naso sprezzante mi
squadrò da capo a piedi e disse che non potevo entrare. Perché, dissi. La cravatta, disse.
Tra lo sci d'acqua, i razzi e tutto il resto, mi ero dimenticato la cravatta. Faccia uno
strappo, dissi. Disse che lui di strappi non ne faceva. Uscimmo. Ero nervosissimo. Dopo
un conciliabolo generale, il Polpettone venne fuori a dire che lui aveva in tasca una
cravatta di riserva. Che me la dava solo se giuravo che al ritorno sarei andato piano, da
bravo ragazzo, perché lui aveva famiglia. Giurai, misi la cravatta e rientrammo. Il tipo
dell'atrio mi squadrò di nuovo, stortò il naso e disse che non potevo entrare. Perché,
dissi, che cosa accidentaccio c'è ancora. Disse che la mia giacca non andava bene. Che
era sportiva. Che giacche così lui non le faceva entrare. Ma si capiva che non era la mia
giacca, bensì la mia faccia che non gli andava. Gli dissi che cosa pensavo della sua: di
faccia. La cosa stava per finire alla gendameria, quando mia moglie, inforcati gli occhiali,
prese in mano la situazione. Assunto all'istante un piglio professionale, esibì il suo
tesserino da giornalista e disse che il signore lì presente (io) era un noto artista, e che lei
avrebbe scritto sui giornali che al Casinò di Campione c'era un tipo che vietava l'ingresso
agli artisti italiani. Qual era il suo nome, prego? II tipo non ci disse il suo nome, ma ci
lasciò entrare. Con lo sconto: visto che eravamo artisti. Entrammo. Al tavolo della
roulette io e mia moglie ci comportiamo di solito come con lo sci d'acqua e con tutto il
resto: senza mezze misure. Cominciammo a giocare alle 22,35. Alle 22,55 vincevamo una
somma ingente. Alle 23,05 avevamo perso la somma ingente, più quella che avevamo in
tasca, e ci accusavamo a vicenda, te l'avevo detto, sei testona, se puntavamo come volevo
io, ma se sei tu che meni gramo, eccetera. Dovettero intervenire gli amici. Uscimmo. Ci
erano rimasti due franchi (svizzeri) e trentacinque centesimi. Il Polpettone, che non ha
l'allergia della roulette e vince sempre, mi prestò cinquanta franchi: in cambio di un
secondo giuramento che adesso avrei guidato piano, da bravo ragazzo, che lui aveva
famiglia. Spergiurai per la seconda volta e intascai i franchi.
Infilato nel tergicristallo della Vecchia trovai un cartellino bianco. «E che cos'è
questo?», dissi. «Una multa», disse l'Amen. Sprizzava gioia da ogni poro. «Una multa a
me?», dissi. E che, mi avevano preso per fesso? Pensavano proprio che io venissi fino a
Campione d'Italia per farmi mettere una multa? Abusiva, poi «Permetti», disse l'Amen,
«tu hai parcheggiato fuori dal parcheggio» «Scherziamo?», dissi. «Se non c'è posto al
parcheggio io la macchina dove la metto, in tasca?» «No», disse, «la metti lì e prendi la
multa» «Vaneggiamo?», dissi.«E poi dov'è il divieto di sosta?» «Dietro di te», disse.«E che,
uno quando viene a Campione dovrà mettersi un paio d'occhi sul di dietro?» «Io gli occhi
li ho solo davanti», disse, «ma il divieto l'ho visto» «E perché non me l'hai detto?» « Ah,
dunque ammetti che posso darti lezione di...» «Tu non puoi darmi lezione di niente! Dico
solo che...» «Permetti, ma se tu avessi la minima nozione di...» «Permetti, ma se tu credi
di poter...». «Ah, perché secondo te io non potrei...», e avanti di questo passo, con le
mogli che fingevano di metter pace e invece ci aizzavano, finché, attirata dal baccano,
giunse sul posto la guardia responsabile della multa, e istantaneamente io e l'Armen
diventammo alleati contro il nemico comune. Ne nacque una discussione cosmica, con
noi due che sbattevamo portiere, salivamo e ridiscendevamo continuamente dalle
macchine gesticolando e dicendo che era una vergogna, che il divieto non si vedeva, e già
lo fate apposta, e già voi appena vedete un italiano gli appioppate una multa, bella carità
di patria, sappia che noi abbiamo studiato diritto, ma faccia il piacere, ma non faccia
ridere, ma vada a nascondersi! Cosicché alla fine le multe furono due, una per la sosta
vietata e una per oltraggio a pubblico ufficiale. Intorno si era formata una folla di
spettatori d'ogni nazionalità, la gente si affacciava alle finestre del Casinò, tutti avevano
qualcosa da dire, la confusione di lingue e di interpretazioni stava raggiungendo un
diapason impressionante, cosicché mentre il Polpettone, asciugandosi la fronte, pagava
con tante scuse le nostre due multe, le rispettive mogli ci infilarono come siluri dentro le
rispettive macchine, e via.

3. Orge e follie
Alle undici e mezzo eravamo nel night prescelto: luci velate, tavolini galeotti,
cantante uso negro. Le ballerine c'erano, lo spogliarello no. Pazienza. I due scapoli della
situazione si trovarono due biondone di nazionalità indefinibile e scomparvero in un
baleno dalla circolazione. Noialtri coniugati, decisi come eravamo a folleggiare, ci
buttammo pieni di zelo nelle danze e nei brindisi: però, non so come fosse, non si
folleggiava mica tanto. Verso mezzanotte il Polpettone, che a dispetto delle allergie è un
tipo di mondo e conosce i nights come le sue tasche, si assentò un momento per andare
a salutare il direttore d'orchestra, suo vecchio amico, disse. Tornò con un'aria furba. Si
sedette, e l'orchestra ricominciò a suonare. Ma che musica...?
«Spoooosi!», tuonarono i Polpettoni e gli Armen alzando le coppe
«Oggi si avvera il sogno e siamo spoooosi!» Dai tavoli intorno i cosmopoliti si voltavano a
guardarci ridendo e levando i bicchieri, e io mi vergognavo come un ladro. Poi guardai
mia moglie e non mi vergognai più.
«Spoooosi...».. Diciassette anni, pensavo. È possibile? «Diciassette.» E non so se
fossero tutti quegli anni o lo spumante o quella vecchia musica, o se fosse il pensiero dei
nostri tre figli che dormivano nella casetta rossa o le facce sorridenti dei nostri amici
vicini o il pensiero di quelli lontani e di quelli che non sarebbero tornati mai più, so che
mi sentii pungere gli occhi e vidi che anche i suoi pungevano, così la presi per un braccio
e me la tirai dietro sulla pista. Cominciammo a ballare, pigiati nella calca notturna, con le
luci schermate e il cantante uso negro e la musica che ci cullava e il bene che ci
volevamo, e a un tratto tutte le fatiche di quella giornata - o di quegli anni? - ci franarono
dolcemente sulle spalle.
«Aaao», disse lei sulla mia giacca. La sua frase d'amore: una sbadiglio.
«Aaaaaao», risposi con sentimento.
«Mamma santissima», gemette il Polpettone che ci passava vicino ballando con la
Polpettone, «questi bisogna portarli via se no ci cascano in letargo in mezzo alla pista».
Fuori, l'Armen trovò un cartellino bianco infilato nel tergicristallo della Molto-
Anziana. Una multa, gli spiegai gongolando. Eh eh. Stava per nascere un altro tumulto,
quando si scoprì che il cartellino era ancora quello della mia multa, e che era stata mia
moglie a infilarlo di soppiatto nel tergicristallo dell'Armen. Siccome non si può picchiare
una donna, specialmente quando casca dal sonno, l'Armen sali sulla Molto-Anziana
rinunciando alle rappresaglie. Io lo seguii con la Vecchia. La testa di mia moglie, con gli
orecchini e tutto, ciondolava di qua e di la come una campana, e io guidavo in trance, col
Polpettone di dietro che continuava a battermi le nocche nella schiena: «Sei sveglio»,
gemeva. «Io ho famiglia»
«Aaaaao », rispondeva mia moglie per me.
In trance arrivammo in giardino; in trance, gradino per gradino, salimmo in casa.
«Mamma santissima», disse di sotto la voce esausta del Polpettone mentre
chiudevamo la porta, giuro che a folleggiare con questi non ci vengo più».
Ci fermammo sulla soglia dei figli. Le tende veneziane striavano la luce della luna.
E in quelle strisce da fiaba i nostri tre dormivano, la piccola con tre peluches tra le
braccia, il medio accartocciato e ancora nero di polvere da sparo, la grande con tre
bigodini nei capelli e l'ombra delle lunghe ciglia sulla guancia infantile. Mi pareva di non
vederli da un secolo: così diversi, così uguali, così nostri.
Ci ritirammo in punta di piedi. Prima di franare sul letto, aprimmo le persiane per
lasciar entrare la luna, e la nostra giovinezza era lì, vicina e irraggiungibile, sospesa in
quella luce di madreperla. La salutammo in silenzio.
Ci prendemmo per mano e tirammo un duplice profondo sospiro. Aaaaao. Non
c'era nessun night-club e nessuna roulette e nessuna follia che valesse quella finestra
aperta sul plenilunio e i respiri dei figli nella stanza vicina e i ghiri che capriolavano sul
tetto e il Domokos che borbottava di sotto cullando il nostro dormiveglia e il passato e il
futuro. È bello, certe volte, esser vecchi.
LA SAGRA DEI SOSPIRI

Era o non era ora che tornassero a Milano? Settembre era finito: sì, insomma,
quasi. Le scuole stavano per ricominciare: sì, insomma, mancava poco. Le famiglie dei
miei colleghi erano rientrate tutte da settimane: solo la mia brillava per la sua assenza. E
poi, cosa stavano su a fare? Ormai faceva freddo...
Ma va là, diceva la voce della coscienza, se fa un tempo meraviglioso, su.
I villeggianti se ne sono andati quasi tutti, la informavo, e loro si annoiano, poveretti,
Annoiarsi loro a San Mamete? Non farmi ridere. Ma se è stata mia moglie, proprio mia moglie
in persona a dire che era ora di tornare...
Sfido: se non lo diceva le davi una botta in testa, le davi.
Io non... Oh, insomma basta! Sono stufo di stare qui solo come un cane, va bene?
Adesso l’hai detta giusta, concludeva la coscienza. Buon viaggio, capo.
Così presi due giorni di vacanza. Ma com'è, dite voi, questo è sempre in vacanza?
Be', faccio del mio meglio.
Comunque, uno avrà pure il diritto di andare a prendere la sua famiglia? E di
aiutare la moglie a fare i bagagli, ritirare le cose dal giardino, tirare su il canotto, chiudere
la casa e tutto il resto? Senza il mio aiuto, potete star certi che quella dimentica almeno
metà delle cose essenziali, e poi quando siamo a Chiasso - non prima - attacca: «Giorni
celesti! Ho lasciato la luce accesa in bagno»; a Como: «Giorni celesti! Non ho chiuso la
bombola del gas»; a Lainate: «Giorni celesti! Ho dimenticato su i golf dei bambini»; e così
il sabato dopo bisogna fare un'altra fortunosa spedizione con la Vecchia per andare su a
prendere la roba dimenticata, spegnere la roba accesa, chiudere la roba aperta. Tutti gli
anni così. Ma quest'anno no: eh, no! Ero stufo di fortunose spedizioni. Stavolta sarei
andato su io a supervisionare le operazioni di sgombero e chiusura. Voi capite che due
giorni di vacanza erano il minimo.
Il primo giorno la situazione si presentava così: mia moglie scriveva
vorticosamente a macchina in un caos di valigie semipiene, cassetti semivuoti, naftalina e
sospiri. Questi le uscivano, profondissimi, ogni volta che girava lo sguardo verso il
giardino o il lago, e pareva l'emigrante sul punto di lasciare la costa natia. Se poi, con un
vago senso di colpa, distoglievo occhi e orecchie dalla moglie, incocciavo nella figlia
grande, che suonava dischi in compagnia di un paio di tizietti superstiti, e anche lei si
guardava intorno e sospirava tipo emigrante: solo che la costa natia non si capiva bene se
fosse rappresentata da San Mamete o dal tizietto Paolo. Se scansavo la figlia grande, mi
trovavo tra i piedi la Rosa che diceva: «Si-stava-così-bello-qua» ed essendo la sua costa natia
rappresentata dai finanzieri, i sospiri le venivano addirittura dai precordi. Se fuggivo la
Rosa, mi imbattevo nel figlio medio e nella figlia piccola che, rispettivamente immersi
nella fantascienza e nei peluches, non mancavano di sospirare rumorosamente al mio
passaggio. «Poveri peluchef» diceva la piccola carezzandoli con gesti pietosi, «ci tocca andare
a Milano anche loro che non fono neanche figli fuoi». Avevo l'impressione che anche i peluches
mi guardassero male. Il Bu, dal canto suo, non capiva un accidente, ma per spirito di
solidarietà si faceva un dovere di circolare per il giardino a coda bassa e di guardarmi
male quando mi incontrava.
Ne avevo piene le tasche. Di lei e di loro e dei loro sospiri. Afferrai le forbici da
giardino e andai a intrattenermi col rosaio rampicante. Quello non sospirava. Però
pungeva: porc...!
«Sei venuto su per aiutarmi o per tirar moccoli?», mi apostrofò dall'alto mia
moglie. «Devo fare proprio tutto io, in questa casa?» ..
Tutto lei! Che cos'aveva fatto, in tutto il giorno, se non scrivere le sue schifezze a
macchina e soffiare come un mantice guasto? Glielo chiesi: molto forte. Mi rispose che,
se non lo sapevo, scrivere faceva parte dei suoi doveri. Le specificai, ancora più forte,
che anche fare le valige faceva parte dei suoi doveri: e non dei miei.
«Chi l'ha detto?», chiese. « Dove sta scritto che le valige le deve fare la moglie? E
che il marito deve invece darsi bel tempo con le rose?».
«Ringrazia il cielo che sono rose», dissi. «E che non sono belle ragazze».
«Almeno lo fossero!» disse. «Non ti pungerebbero: e non tireresti moccoli».
«Se ti dà noia la mia voce», urlai, «posso anche andarmene fuori dai piedi»
«E vacci!», urlò a sua volta. «Per quel che mi servi! Io lavoro come una b-bestia e
tu non f-fai che dire b-brutte parole e pensare alle b-belle ragazze! Va bene! D'accordo!
C-continua così!». E scomparve in casa sparando uno zoccolo a destra e uno a sinistra in
segno di dispregio.
Continuai a sforbiciare il rosaio che a momenti lo facevo calvo come Yul Brynner.
Porc...! Guarda che moglie mi doveva capitare.
Una moglie che lavora, disse puntualmente la voce della coscienza. E adesso è là che fa
le valige, triste e sola.
Me la immaginai, piccolissima e inerme di fronte a un esercito di valige con le
fauci spalancate. Buttai le forbici e andai di sopra. Mica per aiutarla. Poh! Andai di sopra
perché m'ero stufato di stare da basso, ecco tutto.
Lei era là proprio come me l'aveva descritta la coscienza, inginocchiata davanti alle
valige con un'aria affranta e sperduta. Bestia, dissi a me stesso, inqualificabile bruto. Dopo
aver riempito valige come dieci mariti che riempiono valige, tesi le braccia e lei ci venne
dentro. Non aveva l'aria sperduta. Aveva l'aria di chi sa benissimo dove si trova e ci si
trova bene. Strofinò la faccia contro il mio braccio e chiese:
«Allora ce lo portiamo il gatto?»
Gatto? Avevo sentito bene? Che gatto?
«Il nostro», disse. «Te l'ho scritto che avevamo un gatto ..
«Tu mi hai solo scritto che giovedì sera era entrato in giardino un gatto e che i
bambini gli avevano dato da mangiare».
«Poi l'hanno adottato», disse. «L'abbiamo chiamato Mister John perché assomiglia
tutto al Mister John dell'Intelligence Service che veniva qui subito dopo la guerra. Due
gocce d'acqua: occhi, baffi, sorrisetto, tutto quanto. Vieni che te lo faccio vedere».
La seguii senza parole. Andò in bagno e aprì la cesta della biancheria:
«Mister John, vieni fuori a salutare il nonno», disse. Dal fondo della cesta, placidamente
avvolto in una mia camicia, Mister John mi guardava con un'aria sorniona.
Assomigliava proprio a quello dell'Intelligence Service, solo che era molto più
piccolo e a righe. Saltò fuori e si mise a strofinarsi avanti e indietro contro le mie caviglie.
Mi è sempre stato difficile resistere alle creature di piccole dimensioni. Lo presi in
braccio. Mi disse miao con molta cortesia.
«Perché lo tenevi chiuso lì dentro, poveretto?», le chiesi. »
«Perché aspettavo a presentartelo che tu fossi dell'umore giusto. Pieno di rimorso
e di buona volontà verso i deboli». Mi sorrise, e Mister John entrò a far parte
ufficialmente della famiglia. Pure lui, va bene?
Non vorrei che a questo punto voi mi credeste un tipo di pastafrolla, uno che si fa
menare per il naso dalla moglie e dai figli. Io volevo quel gatto, ecco.
A parte il fatto della piccolezza, c'era il ricordo del vero Mister John, l'inglese con
la bocca ironica e gli occhi da vagabondo che sembrava portare con sé l'eco di voci
ignote e la polvere di strade lontane e la stanchezza di lunghi cammini e il dolore di una
solitudine senza scampo. «Io niente piccoli figli», aveva detto una volta, mentre giocava a
quattro gambe nel prato con la Bruna, che allora era piccolissima. «Io niente radici:
strappate tanto tempo fa, zac!, come un dente. Molto male». Era l'unica volta che aveva
parlato di sé. La gente lo considerava pazzo - come capita ai poeti e agli eroi - ma noi gli
avevamo voluto molto bene, e lui a noi. Era morto in Africa durante una missione:
trucidato dai Mao-mao.
Sapevo che, se mai poteva guardare giù da qualche parte, era contento di vedere in
casa nostra un piccolo gatto randagio che portava il suo nome. Lui non finirà tra i Mao-
mao, promisi carezzando il morbido pelo striato. Avrà una casa e una famiglia e nessuno gli
strapperà le radici.
«Ma cosa dirà il Bu?», chiesi preoccupato a questo punto.
Il Bu, potei constatarlo subito, non diceva niente di speciale. Osservava Mister
John da una prudenziale distanza, e sul suo muso scarmigliato si alternavano stupore,
curiosità, divertimento e una certa perplessa simpatia. Purché la Padrona non si
avvicinasse troppo al gatto: nel qual caso il Bu, trafitto dagli strali della gelosia, si metteva
in un angolo a piangere sconsolatamente, finchè la Padrona non accorreva a fargli pat-
pat e a dirgli che lui era il bravo bello santo stupido cane della padrona e che non c'era
nessun gatto al mondo che valesse il bravo bello stupido santo cane della padrona, e altre
intelligenti cose che mandavano in solluchero il Bu, il quale si rigirava immediatamente a
gambe all'aria per farsi grattare lo stomaco. Acciambellato a pochi passi da lui, Mister
John lo osservava con britannica indifferenza. Quel ridicolo bestione, sorrideva sotto i
baffi, manca completamente di self-control. Come la sua padrona.
Solo molto più tardi nella serata dovevo scoprire, del tutto casualmente, che
Mister John era in realtà una Miss John. La scoperta era delicata, e decisi di non farne
parola in famiglia per il momento. In seguito me ne dimenticai.

Per compensarmi della mia generosa accoglienza a Mister John, nessuno sospirò
più per quella sera, nessuno litigò, le valige e la serata si chiusero in un'atmosfera idilliaca.
Ma era soltanto una tregua. La sagra dei sospiri ricominciò il giorno dopo.
Mia moglie si svegliò con l'emicrania, quella che in famiglia si chiama la Brutta. La
Brutta è di tipo trimestrale; poi c'è la Media, di tipo quindicinale; poi c'è la Leggera, per
tutti i giorni.
Questa, fin dal mattino, prometteva di essere la Brutta. Il che non impedì a mia
moglie di fare il suo regolamentare giro d'onore mattutino: che consiste nell'inforcare la
bicicletta, col cesto della spesa infilato nel manubrio, e fare il giro del paese fermandosi
ogni dieci passi, col piede nudo a terra, per esclamare e salutare qualcuno o qualcosa:
villeggianti, indigeni, vecchi, bambini, cani, muli, cigni e via dicendo. All'inizio la seguono
nel giro, a piedi e in fila indiana, tutti i membri della famiglia. Ora della fine le rimane
solo il Bu.
Stavolta poi che si trattava dell’ultimo giro d’onore, il ritmo delle esclamazioni e la
durata dei saluti promettevano di battere ogni precedente record stagionale. II primo a
squagliarmela fui io, dopo che ebbi sentito per la seconda volta il seguente discorso: «Eh
sì, sarebbe bello fermarci ancora, a chi lo dite, quest'anno poi il tempo è così bello che a
partire c'è da piangere, sai che gusto tornare a Milano, solo a pensarci ho già l'emicrania,
ma cosa vuoi farci, Dino è fatto così...» . Sospiro. «Eh si, è stufo di stare solo, continua a
venire su la sera dopo l'ufficio, arriva col buio, nervoso da matti, insolentisce tutti per
un'ora e poi va a dormire, si sveglia alle sei, insolentisce tutti di nuovo e poi riparte, 'sta
settimana l'ha già fatto tre volte, non si può mica andare avanti così, consuma un sacco
di benzina, e poi non mi piace che viaggi al buio con la Vecchia e il nervoso, finisce che
si scentra, e allora è meglio scentrarsi tutti insieme, no?, insomma ho capito che bisogna
tornare, cosa volete, Dino è fatto così... ». Sospirò. «Certo è da piangere, con un tempo
così bello, sai che gusto tornare a Milano con le puzze e tutto, solo al pensiero m'è
venuta l'emicr.... ». Fu a questo punto che tagliai la corda, prima di sentirlo per la terza
volta.
Subito dopo fu la volta di Pop e della piccola, che se la squagliarono insieme verso
il greto del fiume, dove rimasero tutta la mattina, lei con mezza dozzina di peluches
sparsi intorno, lui con un razzo in tasca e Mister John legato a un guinzaglio di fortuna, a
conversare coi cigni e a esplorare per l'ultima volta la foce del Soldo, ricca di pesci morti,
di rebatésim e d'imprevisti. L'ultima a squagliarsela fu la figlia grande, dopo che ebbe
incontrato, vedi caso, il tizietto Paolo che vagabondava da quelle parti. «Oh, ciao», le
disse, molto sorpreso. «Ciaaaaao», mormorò con degnazione la figlia. «Cosa fai?», disse
lui. «Niente», disse lei. «Che barba», dissero in coro. Pochi minuti dopo potevate vederli,
seduti sul muricciolo del ponte, a dondolare indolentemente le gambe, senza guardarsi,
fischiettando My prayer con voci indifferenti e lo sgomento negli occhi. L’estate è finita,
finita, mi dimenticherai? Le loro mani si sfioravano e non si toccavano. Mi si stringeva il
cuore a pensare alla strada che avevano davanti, così lunga, piena di incroci e di semafori
rossi e di agguati. Ah, perché crescono i figli.
La madre continuava imperterrita il suo giro d'onore. Quando tornò, col cesto
gonfio davanti e il Bu sfiatato di dietro, io avevo già sistemato le aiuole, chiuse le valige
supplementari, oliate le biciclette, racimolati i figli sparsi, strapazzato la Rosa, tirato su il
Domokos con le carrucole, avevo le mani graffiate, la schiena dolorante e il nervoso.
Lei scese dalla bicicletta, sfilò il cesto, il contenuto si sparse in un raggio di cento
metri, il Bu rincorse le pere, Mister John bloccò al volo una bistecca, lei mollò tutto e
tirò avanti con un'aria da tragedia greca, un occhio chiuso e la faccia tutta spostata sul
versante sinistro.
«Ho la Brutta», mi informò con voce di tomba. L'informazione era superflua.
Ecco com'è fatta: dopo aver pedalato, esclamato, salutato, cianciato a destra e a
manca per tutta la mattina lasciandomi solo in balia dei bagagli e della Rosa veniva a
dirmi che aveva la Brutta come se io fossi il diretto responsabile della faccenda. Se la
tenesse, la sua Brutta! E ben le stava!
Lei mi guardò con l'unico occhio pieno di orrore; si portò una mano alla fronte e
scomparve in casa mugolando. Continuò a mugolare, in crescendo con l'emicrania,
durante le operazioni di carico e scarico, durante le rotture di vasellami, di serramenti e
d’anima, ininterrottamente fino al momento della partenza in un clima da tragedia greca.
Gli altri, proprio come nelle tragedie greche, fungevano da coro. La figlia grande
sospirava e diceva "che barba”, il figlio medio aveva la faccia dieci centimetri più lunga
del consueto e diceva "grunt", la figlia piccola andava avanti e indietro agitando
sdegnosamente il sederino e consolando i peluches che dovevano andare a Milano anche
loro, "poverini e non fono neppure figli fuoi”, la Rosa guardava verso la caserma e si asciugava
gli occhi col giornale a fumetti, i ghiri squittivano affannati sul tetto, il Bu guaiva
sconsolatamente alle calcagna della Padrona, e lei, coi piedi nudi e un fazzoletto verde
legato sull'occhio sinistro, continuava a circolare come un pirata in coma, a scendere,
salire, chiudere, riaprire, mettere, togliere, sempre mugolando: Dio che male, giorni
celesti che Brutta, Dio Dio che roba. A mio esclusivo beneficio. Non so come riuscii a
trattenere gli urlacci che mi salivano dai precordi. L'unico che non dava segni di dolore
era Mister John, che se ne stava acciambellato in un'aiuola crogiolandosi all'ultimo sole e
osservava le operazioni con un sorrisetto da Intelligence Service. Smise di crogiolarsi e di
sorridere solo quando, per esigenze di viaggio, venne rinchiuso in un tascapane.
Dimentico del self-control britannico, miagolava e si contorceva con esuberanza tutta
latina.
Era il tramonto quando ci conculcammo dentro la Vecchia: «Tu vieni davanti, no
davanti ci vado io, tu girati per così, tu mettiti in mezzo, no io in mezzo non ci sto, piano
che la mamma ha la Brutta, occhio ai miei piedi!, tu prendi il gatto che io tengo il Bu, sposta
la gamba se no non c'entro, ahi come graffia!, signora-hai-visto-come-ci-sto-stretta, tu mettiti di
traverso, occhio ai miei piedi!, ma di chi è 'sto braccio?», e quando parve che, più o meno
contusi, fossero tutti dentro, dovettero venir fuori a catafascio perché la Vecchia s'era
messa a fumare dal cofano che pareva un indiano sul piede di guerra; domato il quale
riprendemmo le operazioni di imbottigliamento e quando infine, tra guaiti, miagolii
occhio-ai-piedi, ma-dài-scemo, giorni-celesti-che-male fummo di nuovo accartocciati
dentro, mi girai a dar loro uno sguardo d'insieme. Non so perché, tutto a un atto sentii di
voler loro un gran bene. Eccoli lì, pigiati e rassegnati, pronti a riprendere i loro posti di
combattimento tra la polvere i tram le scuole i semafori le puzze la civiltà la fatica. Fuori,
San Mamete li salutava con un dolce, rosso tramonto, e loro non avevano il coraggio di
voltarsi a guardare. Neanche io avevo il coraggio di voltarmi. Mentre la Vecchia mi
portava sferragliando oltre il cancello pensai che avrei dato qualunque cosa,l’onore, il
motoscafo, lo stipendio, i miei sci austriaci, qualunque cosa perché potessimo fermarci
per sempre in quel vecchio sgangherato giardino sotto quel vecchio consapevole cielo,
coi cigni e i cigni, i ghiri, il Domokos e le favole del santo Mamete e l’infanzia del cuore..
Ah, perché non potevamo fermarci?
«Su su, coraggio» ., disse al mio fianco la voce di mia moglie. Aveva smesso di
gemere e mi guardava maternamente con l'unico occhio. «Io sono contenta di tornare»,
disse. Era la più spudorata bugia che potesse dire in quel momento, e la più tenera.
Subito dopo ripiombò, mugolando, nel coma. Dal quale uscì in quel di Chiasso,
per dire: «Giorni celesti! Ho dimenticato su i golf »>.
«E la luce accesa in bagno? », chiesi.
«E la bombola del gas aperta», rispose. Si assestò il fazzoletto verde intorno alla
Brutta, e richiuse con un sospiro l'occhio disponibile. «Bisognerà tornare su sabato
prossimo», disse.
Il santo Mamete doveva saperlo fin dal principio.
QUESTA DANNATA CASA

E cosi siamo di nuovo a Milano.


Le risate, i litigi e i giochi dei figli non vengono più raccolti dagli echi della baia
verdazzurra, ma dall'inquilino del piano di sotto che batte nel soffitto col manico della
scopa.
Mia moglie ha trasferito la sua macchina da scrivere e le sue esclamazioni dallo
stanzone aperto sul lago e sul profumo dei tigli alla stanzetta-talamo-studio aperta sul
frastuono e sulle puzze cittadine.
La Rosa ha trasferito i suoi aneliti dai finanzieri ai garzoni dei fornitori, il che non
le impedisce di avere in corso, per il finanziere più rimpianto, una lettera priva di sintassi
e ricca di voli lirici, sulla quale chiede ogni sera la consulenza di mia moglie: consulenza
sui voli lirici, beninteso, non sulla sintassi, che non le interessa minimamente. Riesce a
totalizzare una media di dieci righe per sera, che poi cancella la sera dopo, stile Penelope.
Quando la lettera sarà pronta, il finanziere sarà andato in congedo.
Il Bu e Mister John si vendicano del poco spazio disponibile trascinando giornali,
pantofole e bistecche in ogni angolo dell'appartamento. La loro non si può ancora
chiamare un'amicizia, ma piuttosto una società a delinquere. A vederli insieme, il Bu
grosso, vociferante e pasticcione, Mister John piccolo, silenzioso e furbissimo, mi fanno
venire in mente Stantio e Ollio: in gabbia.
Tutti quanti, con più o meno fatica, ci stiamo rassegnando a lavorare, studiare,
litigare, giocare e pestarci i piedi in questi angusti, superpopolati, supercolorati cinque
locali - o meglio cinque buchi - che costituiscono il nostro alloggio cittadino, in una
vecchia casa affacciata sul vecchio Naviglio. Dato il numero degli abitanti, voi capite che
cinque buchi sono già pochi; ma dato il tipo e la conformazione psichica degli abitanti
stessi, sono pochissimi.
E allora, dite voi, perché non cambiate casa? Eh eh. Semplice, vero? Ce la trovate
voi, un'altra casa con l'affitto bloccato? Finché non avremo i soldi per comprarcene una -
cioè mai - noialtri restiamo qui. Chi si muove? Però ogni volta che ritorniamo, dopo la
nostra luminosa, ariosa, melodiosa parentesi estiva, in questa caotica gabbia, succede la
stessa storia.
È successa, con poche varianti, anche quest'anno.
Sorvoliamo sul viaggio di ritorno: tre ore di Vecchia, di sobbalzi, di gemiti, di
miagolii, di guaiti, di moglie con l'Emicrania Brutta; il Bu vomitò tre volte, Mister John
una sola, la Rosa era sempre li lì e mi fece fermare dieci volte, ma non era mai quella
buona; mia moglie niente, disse che per il momento aveva da pensare alla testa; allo
stomaco se mai ci avrebbe pensato a casa.
Sorvoliamo sull'arrivo: con la Vecchia che non voleva più aprirsi (neanche a lei
piace la città) e si arrese solo al martello, con l'ascensore che era regolarmente guasto, e
dovemmo fare cinque piani a piedi con le valige i tascapane la macchina da scrivere il
giradischi il cane il gatto la piccola addormentata e la moglie che ci aveva le vertigini.
Pure quelle.
Sorvoliamo sull'entrata in casa: su quel momento di annichilito silenzio, subito
seguito dalla voce ammirata della Rosa ("signore-quanto-sporco-che-hai-fatto") e da quel che
disse mia moglie mentre si faceva strada tra le montagne di giornali, polvere, piatti
sporchi, lenzuola accartocciate, mozziconi di sigarette che caratterizzano le mie solitarie
permanenze estive in città.
Sorvoliamo su tutto, e arriviamo al primo giorno di scuola: di tutti e tre i figli,
intendo.
La sveglia suonò alle sette, ma la Rosa come sempre non la sentì e fui io che
svegliai lei, pestando come un ossesso nella porta, alle otto meno un quarto. Mentre la
Rosa usciva senza fretta dal mondo dei sogni - non già dal suo letto - ebbe luogo la solita
colluttazione di tre figli più un padre davanti alla porta del bagno, indi la solita caccia di
tre figli più un padre ai propri indumenti latitanti, ai propri libri scomparsi, alle proprie
colazioni di là da venire, mentre la madre scarmigliata e bieca (è sempre bieca prima di
bere il caffè) correva disordinatamente qua e là, seguita dal cane e irrisa dal gatto,
facendo trenta cose insieme di cui neanche una completa, e infilando trentamila parole
alla volta, di cui neanche una sensata.
Le dissi, com'era logico, che la piantasse: che se doveva rompere l'anima a tutti,
era meglio che restasse a letto. Fece una risata amara: ah ah, a letto! Il tono sottintendeva
che se lei fosse rimasta a letto, il marito i figli la domestica il cane il gatto e l'umanità
intera sarebbero andati istantaneamente in malora. Dissi che non facesse la vittima.
Disse che ero io che facevo la vittima, e che se avevo i nervi come sempre prima di
prendere il caffè, non era una buona ragione per sfogarmi su di lei. Lei che sgobbava da
giorni e giorni, trascurando l'Arte, per pulire le mie dannate sporcizie e riordinare la
dannata casa. Dissi che non me n'ero accorto: che avesse riordinato. Disse che sfido,
come si faceva a tenere in ordine una casa che è peggio d'un barile d'acciughe avariato?
Ma già, quando si ha un marito scialacquatore e incosciente, come si riuscirà mai a
comprarsi una casa decente? Eh eh, dissi: perché lei, con le mani strabucate che ha, ha
pure la faccia tosta di credersi economa: eh eh!
E di questo passo, tra sarcasmi, rinfacci, grugniti, domande senza risposta,
risposte senza domanda: «Tatti-ce-l'hai-la-merenda? Pop-non-incantarti, Bruna-via-da-
quello-specchio!, ma sta attento, ahi!, dov'è la grammatica?, tu fa' cuccia scemo, Mister
John esci dal mio cappello, tu finisci di mangiare, ti sei lavato i denti?», sempre correndo
avanti e indietro, frugando cassetti, sconvolgendo armadi, scontrandoci e sbattendo
porte, arrivammo all'urlo regolamentare delle otto e dieci: «In questa casa non ci si sta
più!»
Sul quale urlo mi trovai d'accordo con lei: in quella casa non ci si stava più. Perciò
uscii. E aspettai sul pianerottolo, battendo il piede, che i figli finissero di abbracciare
l'eroica madre e si degnassero di raggiungere il padre scialacquatore che doveva portarli a
scuola con la Vecchia.
Infine arrivarono, e dietro di loro arrivò lei. Ci guardammo attraverso quella ridda
di figli, di cartelle e di animali, sentendoci molto comici: le due vittime. Ma non eravamo
ancora in grado di ridere.
«Va' a prendere il caffè, va'», borbottammo insieme. «Che matti », disse la piccola.
Accompagnai la grande e il medio alla fermata del tram che li porta al Parini. Il
fatto di frequentare, sia pure una al liceo e l'altro alle medie, la stessa scuola, e di dover
quindi andare e tornare insieme, è un fatto che li riempie di profondo disgusto. Però se
un giorno, per una ragione qualsiasi, assenza, indisposizione, disparità d'orario, devono
andare a scuola l'uno senza l'altro, eccoli smarriti e infelici come se fossero stati privati di
una parte - fastidiosa ma indispensabile - del proprio corpo. Adesso comunque erano
insieme: ossia schifati.
Li lasciai alla fermata e mi diressi verso la scuola della piccola. Al semaforo
dell'incrocio, però, mi voltai a dare ancora un'occhiata ai due grandi: un ragazzino magro
e dinoccolato coi capelli alla porcospino e una ragazzetta lunga e languida con la coda di
cavallo, che si voltavano sdegnosamente le spalle come se non si conoscessero. Anche a
distanza, potevo leggere nei loro pensieri come in un fumetto: Che barba, diceva il
fumetto della grande, sempre 'sto moccioso tra i piedi. Grunt e stragrunt, diceva il fumetto di
Pop, sempre 'sta smorfiosa sul gobbo. Poi il tram arrivò:. il gesto con cui si voltarono, insieme,
ad afferrarsi per mano, mi fece sentire una fitta calda dentro. Sparirono nella calca
tranviaria, sempre saldamente ancorati, verso la loro giornata di lavoro. I miei due pulcini
grandi.
«Che ridicoli», disse il pulcino piccolo, indulgente. A lei la giornata di lavoro non
desta la minima preoccupazione. Scuola, casa, famiglia,. doveri vengono da lei trattati
con la stessa tenera, divertita condiscendenza con cui tratta i peluches.
«Chiffà fe la maeftra è ancora matta come l'anno fcorfo», disse.
«Non si dice matta alla maestra», la redarguii debolmente
Mi sorrise come a un peluches. «A me le perfone matte mi piacciono», mi informò.
«Allora sei contenta di andare a scuola?», chiesi.
Si strinse nelle spalle. «Certo è un po' una barba quando lei infegna le cofe», disse. «Ma
tanto quanti fono ftufa di fentirla io gioco coi peluchef fotto il banco: Oggi ce n'ho qua fei».
«Ma se la maestra ti vede?».
«Fono mica fcema», rispose. Mi porse il suo microscopico naso da baciare e scese.
«Ciao», mi disse. «Fa', il bravo». Fece pat-pat alla Vecchia e si avviò, col suo sederino
scodinzolante e la sua cartella piena di peluches clandestini, sul marciapiedi affollato della
scuola. Subito la pagnottella bionda scomparve tra i grembiuli bianchi (lei è un palmo più
piccola di tutte le altre) e io mi sentii stringere il cuore. Mi chiesi quanto tempo ci
sarebbe voluto perché anche lei imparasse che lo studio, il lavoro, i doveri, la vita, sono
una cosa diversa dai peluches. Sperai che ce ne volesse ancora molto.
Per allargarmi il cuore andai a prendere il caffè. Bevuto il quale fui travolto da
un'ondata di magnanimità, e appena arrivato in ufficio (col solito quarto d'ora di ritardo)
telefonai alla pazzoide per far la pace.
Mi rispose la Rosa:. «Pronto-chi-sei?».
«Sono il signore», dissi.
«Il-signore-non-ci-sta, pronto-chi-sei?».
«Sono il signore!», urlai «Mi mandi la signora»
«La-signora-mia-non-ci-sta», recitò soddisfatta. «Uscì-giù-a-fare-spesa, pronto-chi-sei? »
«Napoleone», dissi. Tolsi la comunicazione, lasciandola là a dire: «Napoleone-non-ci-
sta-pronto-chi-sei», fino alla consumazione dei secoli, e mi misi a fare disegnini sulle
pratiche, seguendo passo passo col subcosciente la mattinata di mia moglie. Era come se
la vedessi.
Eccola che esce di casa, col cesto della spesa infilato sul braccio, entra nel bar-
latteria a prendere il secondo caffè, poi fa un paio di partite al flipper, tra nugoli di
ragazzini che fanno il tifo offrendole consigli tecnici e spinte laterali, indi al grido di "Dio
Dio che tardi!", si precipita fuori e comincia il giro dei negozi, salutando tutti quelli che
incontra (la nostra strada è come un paese), a tutti chiedendo notizie della salute, degli
affari, dei bambini, e intanto dimenticando di prendere il resto, controllare i pesi,
rifiutare le pere col botto, per poi correre verso casa seguita dalle benedizioni degli
esercenti. Eccola che sale i cinque piani con la lingua fuori e le palpitazioni (l'ascensore
non può essere che rotto e lei non può fare le scale che di corsa), eccola che entra
ansante, rovescia il cesto sul tavolo, o Dio ho dimenticato il burro, che stupida non ho
preso il sale grosso, giù di nuovo, su di nuovo. Dio che tardi!, spiegazioni alla Rosa,
equivoci, controspiegazioni e controequivoci, ridda di elettrodomestici (i nostri tre metri
quadri di cucina sono così irti di elettrodomestici che l'uso dei medesimi risulta
problematico per una persona normale, figurarsi per lei e la Rosa); indi tuffo sulla
macchina da scrivere,XXXX, mano nei capelli, sigaretta, cachet contro il mal di testa (lo
prende così, per scaramanzia), altro caffè, via il foglio, su il foglio,XxXx, altra sigaretta,
altro caffè... Ah disgraziata, se ti avessi sotto mano!
Non avendola sotto mano, le telefonai.
«Pronto», disse con voce spenta. «Ah, sei tu», si riaccese.
«Cosa fai?» ..
«Cosa vuoi che faccia, scrivo», nervosissima. «Ho fatto la spesa, istruito la Rosa,
adesso sono le undici passate e son qua seduta da un'ora ma non.... ».
«Quante sigarette hai fumato?».
«ma non riesco a ingranarmi, sono indietro da matti e.... ».
« Quanti caffè hai bevuto?.
«...e quando sarò ingranata sarà ora di andare a prendere la Tatti, non so proprio
come ce la farò a finire questo pezzo e... »
«Quanti cachets hai preso?»
«...ciao, lasciami lavorare». E giù la cornetta.
Continuò a lavorare in quel modo anche nel pomeriggio: con tre figli in sovrappiù.
E io dall'ufficio continuai a seguirla col subcosciente e a disegnare sulle pratiche: una
casa angusta e pullulante, tre figli movimentati e altisonanti, una domestica piena di punti
interrogativi, di fumetti e di piatti rotti, un cane confusionario, un gatto mefistofelico, un
televisore imperversante, valanghe di dischi negri e di peluches, e in mezzo alla mischia
lei: una donnetta mingherlina e indomita, coi capelli irti e le dita vorticanti, che pretende
di scrivere, rispondere al telefono, tener d'occhio i figli, limitare le catastrofi culinarie
della Rosa, agire e pensare, tutto insieme: tra cachet, sigarette, caffè, Dio che tardi, Tatti
non interrompermi ogni minuto, Pop hai finito il latino?, Bruna basta con quella
lagna!,XxXx, cuccia Bu, John esci dal mio cappello, un po' di sileeeeenzio!, Rosa è la casa
che brucia o solo l'arrosto?,XxXx, o Dio la mia testa, abbassate il televisore!, chi è che
picchia qua sotto?, uf questa maledetta casa!, Xx x, caffè, sigarette, cachet...
AH, DISGRAZIATA! QUANDO TORNO A CASA MI SENTI!
Scrissi anche questo sulla pratica: a lettere cubitali. ....

Ma non lo mantenni.
Quando mi venne incontro, con la sua faccia tirata e gli occhi pronti a ridere, me
ne passò la voglia. La sgriderò domani, decisi.
Dopo cena ascoltammo i resoconti dettagliati dei figli sulla prima giornata
scolastica (la maestra della piccola era sempre matta, la professoressa di Pop sempre
crudele, il professore di filosofia della grande era celeste: ultima variante di divino);
passammo in rivista le malefatte del Bu, di Mister John e della Rosa (compresi i voli lirici
per il finanziere); e infine spedimmo tutti in camera loro, via, a letto, a cuccia, la pace sia
con voi!
E con noi. Restammo lì soli e in pace, sul magro balconcino ornato di fiori, di
segatura, di ossa spolpate e di pelli di salame avanzate dalle bestie di famiglia, a riposarci.
Sotto di noi il Naviglio nero scivolava via lento e rassegnato tra i vecchi ponti, e dietro di
noi sentivamo il respiro della dannata casa in riposo
«Credi che ce la faremo ad andarcene, un giorno?», lei chiese. La sua voce era
triste, e io sapeva il perché. Perché vedete, nonostante tutto, noi l'amiamo, la dannata
casa. Non come la nostra Darsena in Valsolda, certo: è un'altra cosa. Là c'è la poesia,
l'infanzia, le stelle cadenti, le favole. Qui c'è la realtà, la fatica, i giorni neri, il coraggio.
Ecco perché.
Non le risposi, e lei non ripeté la domanda. Certo, ce ne saremmo andati, un
giorno. Ma adesso preferivamo non pensarci. Domani avremmo ricominciato a maledire
il poco spazio, i pochi soldi, l'ascensore lunatico, avremmo ricominciato a scontrarci e a
inveire contro la dannata casa. Domani: ma adesso era bello ascoltarne il respiro e
credere che non fosse solo l'affitto bloccato né solo la penuria di soldi a trattenerci, ma
l'amore: l'amore per questo balconcino sporco e sgretolato, per questo Naviglio
puzzolente e triste, l'amore e la gratitudine per questa vecchia casa maltrattata e paziente
che ha visto nascere i nostri figli, che ha protetto i nostri anni più duri, la povertà la
fatica la paura le lacrime, che ha lottato con noi per costruire, giorno su giorno, la vita
nostra e loro.
Sì, forse un giorno ce ne andremo. Ma forse il meglio di noi rimarrà qui.
LA FIGLIA DIFFICILE

Aspettavamo i Polpettoni e gli Armen, dopo cena. La piccola e il medio erano già
a letto da un po', la grande non si muoveva. Stesa sullo sconquassato divanetto
multicolore del tinello-pranzo-gioco-soggiorno, con un pigiama di flanella a fiorellini e
Mister John acciambellato sulla pancia, era immersa in un libro di cui non voltava mai le
pagine. Aveva due bigodini in testa e l'aria scettica. Dall'inizio della scuola ha sempre
l'aria scettica: almeno in nostra presenza. Quando è al telefono con le sue compagne o
coi cugini diventa garrula e loquace, quando gioca coi suoi fratelli ride, litiga e
schiamazza come se fosse più piccola della piccola, ma quando è disoccupata o si sente
osservata da noi assume all'istante l'atteggiamento negativo proprio delle neo-liceali
fantasiose al primo contatto con la filosofia. Questa inutile vita, dice il fumetto che si
forma sopra la sua testa a nostro esclusivo beneficio, questa sporca vita, che senso c'è a viverla?
Quella sera il fumetto era particolarmente accentuato: tutto a maiuscole, e
sottolineato da sospiri che facevano andare su e giù Mister John.
«Allora», la interpellò improvvisamente mia moglie, «chi vuoi invitare, oltre ai
cugini, per il tuo compleanno?».
Il mare agitato si immobilizzò e Mister John anche. Il libro di filosofia si abbassò
impercettibilmente, scoprendo sotto i bigodini una faccia avida e scontrosa. Gli occhi
celesti girarono pensosamente intorno, e il mare dei sospiri si gonfiò così bruscamente
che Mister John rischiò di rotolare in terra.
«Nessuno» rispose infine la scettica con voce funerea.
«Tanto meglio», dissi: per conto mio, meno tizietti pascolano intorno, meglio è.
Ma mia moglie non la pensava allo stesso modo: «Invece devi invitare qualcuno»,
disse con quello che lei ritiene un tono autoritario. «Sedici anni sono sedici anni: non si
può festeggiarli senza tizietti e relativi balletti».
Alla parola "balletti" la faccia della scettica riemerse dal libro, più che mai avida e
più che mai scontrosa. Gli occhi fecero di nuovo il giro della stanza e il mare dei sospiri
divenne un oceano in tempesta. Mister John, svegliato dal rullio, si allontanò seccato
verso più placidi lidi, e la scettica si alzò: «Cosa vuoi ballare qua dentro!», disse
scrollando sdegnosamente i bigodini. «Se non c'è neanche spazio per camminare!
Neanche un posto decente per sedersi!». Si interruppe, aspettando che la madre parlasse:
ma la madre non parlava. Si guardava intorno con un'aria mortificata, e non parlava. Di
colpo la faccia della figlia si increspò: «Oh, mamma», disse con voce strozzata. E si
precipitò fuori dalla stanza gridando tra le lacrime: «Non voglio feste! Non voglio balli!
Non voglio avere sedici anni!».
«Cosa le prende, adesso? », chiesi. «Se la filosofia deve farla rincretinire a questo
punto...».
«La filosofia qua non c'entra», disse mia moglie. «È solo che si vergogna di questa
casa, e che si vergogna di vergognarsene».
Non sono mai stato all'altezza di certi meandri psicologici: «Se si vergogna di
vergognarsene, perché se ne vergogna? », chiesi.
Questa logica domanda rimase per il momento senza risposta, perché il
campanello d'ingresso squillò e la voce festante della Rosa chiamò dall'anticamera:
«Signora-vieni-che-ci-stanno-i-Polpettoni».
«Arrivate giusti», disse mia moglie tuffandosi loro incontro. Afferrò il Polpettone
per un braccio e senza neanche dargli il tempo di levarsi il soprabito lo trascinò nel
soggiorno-tinello-gioco-pranzo ordinandogli: «Dài, aiutaci ad aggiustare 'sta stanza».
Il Polpettone si guardò in giro: «Perché volete aggiustarla?», chiese stupito.
Sentimmo di volergli molto bene. Eccolo lì, l'arredatore alla moda, disputato dalle
signore del bel mondo, abituato alle case più fastose, eccolo lì che guardava la vecchia
caotica stanzetta, coi muri e i mobili dipinti da noi, i cuscini pugno-nell'occhio seminati a
caso, i peluches sparsi in ogni dove, le pazze tende sugli stipiti corrosi, le poltrone con le
molle cigolanti, il divanetto Avantindrée che quando uno ci si siede sopra si mette a
marciare in avanti da solo e bisogna rispingersi indietro a colpi di talloni prima di finire
in bocca al televisore: e lui, che come nostro ospite aveva per tanti anni personalmente
sperimentato quelle molle rotte e quell'Avantindrée e tutto, adesso chiedeva, in assoluta
sincerità: «Perché volete aggiustarla?».
Mia moglie gli spiegò la faccenda della Bruna, del compleanno e della vergogna.
Cinque minuti dopo eravamo in pieno trasloco. Io e il Polpettone, in maniche di camicia,
dirigevamo i lavori dando rapidi e precisi ordini alle mogli miopi e imprecisissime che
eseguivano correndo qua e là prive di scarpe e piene di zelo, spingendo, tirando,
spostando, rompendo, sotto il nostro sguardo panoramico: «Più a destra, non così, è
troppo, un po' più a sinistra, ma dài orbe non vedete che è storto?, via quel cesto, no
riportatelo dentro, mettetelo là, giù quel quadro, no rimettetelo su, Polpettona sposta un
po' il tavolo, Osso tira in qua il bar, no un po' più in là, dov'è finito il vaso? Mamma
santissima che vita con 'ste due talpe, mettetelo lì, piano incoscienti che spaccate tutto», e
dopo una mezz'oretta ci ritirammo sulla soglia, con le teste inclinate e gli occhi socchiusi,
a osservare l'effetto. Non che fosse molto diverso da prima. Però un po' più di spazio
c'era (in compenso non ce n'era più in camera nostra); e con un po' di buona volontà
potevano anche ballare: in compenso non potevano più sedersi.
«Vi mando io un divanetto adatto», disse il Polpettone. «Ho giusto un'occasione
per le mani che pare fatta apposta. Forza che adesso sistemiamo le tende».
Eravamo a questo punto quando il campanello squillò di nuovo, e introdotti dalla
Rosa gli Armen si fermarono sulla soglia.
«Cià che aiuto», disse la Zita, prima ancora di sapere di che cosa si trattasse.
L'Armen invece volle sapere tutto: per filo e per segno; disapprovò tutto: per filo e per
segno; e non mosse un dito: da bravo orientale. Mollemente assiso sul calorifero, si
limitò a emettere spirituali osservazioni, tra le quali:
«Se i poveretti si illudono che io poi gli presti un tappeto... »
Il tappeto arrivò il giorno dopo, insieme col divanetto procurato dal Polpettone.
E appena la figlia li vide, per tutto ringraziamento andò a buttarsi sul letto in
preda a una bufera di lacrime.
«Non dirmi che è ancora la filosofia», dissi a mia moglie.
«No, è il rimorso», spiegò la psicologa.
«Ah, ci ha pure i rimorsi!», dissi. «Come i coccodrilli .. »
« I coccodrilli piangono solo dopo», disse mia moglie. «Lei ha pianto anche prima»
Non mi pareva una bella giustificazione. Ma si sa, io non sono uno psicologo. Lei sì:
«E oltre al rimorso morale», continuava con voce didattica, «c'è il rimorso
materiale: è il suo senso d'economia che si torce e sanguina .. »
Perché, se volete saperlo, la figlia grande, tocca com'è, è anche l'economa di
famiglia. Ci permette di andare al cinema una sola volta la settimana, e guai se scopre che
siamo andati in un cinema di prima visione ("non so proprio che gusto ci sia a buttare
via i soldi' ). Ci raziona le sigarette, e siamo costretti a procurarci i supplementi di
nascosto ("ma dove avete la testa? spendere soldi solo per farsi venire il cancro al
polmone"). Deplora altamente che sua madre, alla sua età, butti via cinquanta lire al
giorno in flipper («Ehi piano con l'età», dice la madre, «questa crede che abbia già un
piede nella fossa», e per dimostrare a lei e a se stessa di essere invece un tenero virgulto,
flippa cento lire al giorno invece di cinquanta). Non parliamo degli occhiali: la figlia trova
che gli occhiali della madre sono troppi, sono una mania, sono uno spreco, "che cosa te
ne fai, hai più occhiali che vestiti" («Perché ho pochi vestiti», risponde la virtuosa madre;
e la prima volta che va in centro si precipita in galleria a comprare che cosa? Coro del
pubblico: un vestito. Nossignori: a comprare un paio di occhiali. Un ennesimo
coloratissimo strampalatissimo paio di occhiali dernier-cri che, dopo complessi conciliaboli
tecnico-estetici col suo occhialaio di fiducia, trionfalmente inforca e porta a casa, a
disperazione della figlia). I motivi di disperazione finanziaria sono infiniti, per questa
figlia degenere che passa metà della sua vita a farci i conti in tasca, che ci corre dietro
come l'ombra di Banco a spegnere tutte le luci che lasciamo accese, e sua madre dice che
le verrà il crampo dell'interruttore; che tiene un libretto dove annota le spese di tutta la
famiglia e grida che in casa nostra si consuma troppa frutta, troppo gas, troppi peluches,
troppi giornali di fantascienza, e che andremo in rovina. Quando poi si tratta di spese
per lei, allora è anche peggio: perché al senso di economia si aggiunge il rimorso di
coscienza, e la faccenda sfiora la psicanalisi.
Figuratevi quindi quel giorno. Rinunciai a intervenire: primo per non rischiare di
perdermi in quei tali meandri psicologici. Secondo perché le lacrime della figlia grande mi
fanno una soggezione maledetta. Mi limitai ad ascoltare il dialogo tra madre e figlia dalla
stanza vicina:
«Su, su», diceva la madre, «il tappeto è in prestito, caso mai è l'Armen che
dovrebbe piangere, no?»
«E il d-divano?», si disperava la figlia.
Oh quello costa poco, possiamo pagarlo quando vogliamo, e poi un divano ci
occorreva comunque, adesso che sono mezzo celebre non potevamo mica continuare a
mettere gli invitati sull'Avantindré».
«Io gli volevo bene, all'Avantindrée!», singhiozzò la figlia.
«E io no?», disse la madre sottovoce. Si riprese subito: «Non è mica morto», disse.
«Lo porteremo su a San Mamete, così si riposerà un po'. E poi magari il Celestino ce lo
aggiusta. E adesso smetti di piangere se no spargi il panico in tuo padre che sta lì dietro
la porta a origliare .. »
Di colpo la figlia difficile passò dai singhiozzi inconsulti a una ancor più
inconsulta ilarità.
«Suonate! », gridai loro.
«Te l'avevo detto che origliava?», disse la madre.
Si andò avanti così, tra singhiozzi è fou-rire, vaniloqui e tetri mutismi, per tutta la
settimana precedente il compleanno. Gli entusiasmi, le vanità, gli snobismi, le ingordigie
della sedicenne cozzavano contro le timidezze, le paure, le malinconie della medesima:
oltre che contro il suo senso d'economia. Insomma, una crisi continua. Crisi per la scelta
dei tizietti ("pochi per carità, il Mario no che mangia troppo, però è simpatico, il Guido
no che spacca tutto, però ha due spalle divine, il Giorgio no che si crede tanto il
Gassman, però fa tono, il fratello della Gabri no che ha i bruffoli, però se non lo
invitiamo si offende, il Paolo no che fa valsoldese e non c'entra, però lo voglio lo stesso,
no non lo voglio, però si, uffa basta, non voglio nessuuuno!"). Crisi per la scelta del
vestito ("non ce n'ho neanche uno decente, ma uno nuovo non lo voglio, sì lo voglio ma
che costi poco, no questo mi fa troppo magra, questo mi fa troppo lunga, questo è
troppo da vecchia, questo è troppo da giovane, faccio ridere, faccio piangere, basta non
voglio nessun vestiiiito!"). Crisi per la scelta della pettinatura ("meglio in su, no meglio in
giù, faccio la coda, no meglio lo chignon, più tirati, più arruffati, no così fa marziano, così
fa cretinetti, basta non mi pettino piùùù!"). Crisi e controcrisi per tutto e per niente. Non
so come riuscii a non farla volare dal quinto piano almeno una volta.
Comunque ci riuscii. E il giorno del compleanno (la festa era per il pomeriggio),
tornando a casa per la colazione alla una con due dischi in regalo, trovo una figlia
eccitata e svolazzante che mi butta le braccia al collo, "ciao papi, grazie papi", piroetta, si
guarda allo specchio, piroetta di nuovo sotto lo sguardo schifato dei fratelli piccoli,
sorride, canticchia, splende come una torcia: e poi durante la colazione, ecco che la torcia
man mano si spegne e finisce che scappa via. tirando su col naso
«E adesso che crisi sarebbe?»; chiesi a sua madre.
«La crisi dell'attesa», spiegò la psicologa senza un attimo di esitazione. «Ce l'hanno
anche gli attori prima dello spettacolo». Diede un'occhiata in direzione della crisi e
cominciò a parlare a voce alta e vibrata, come se discutesse con me: «È inutile che gridi»,
disse, sebbene io manco avessi fiatato. «Se una ha voglia di piangere, perché non
dovrebbe piangere? è una libera cittadina. Quello che mi dispiace è che quei poveri
tizietti troveranno una tizia con due uova al posto degli occhi .. »
I singhiozzi della libera cittadina cessarono di colpo. Quando, alle due e mezzo,
mi disposi a tornare in ufficio, la figlia difficile era in bagno, coi capelli sciolti e un'aria
fatale, che si faceva gli impacchi sugli occhi. Decisi che sarei tornato a casa il più tardi
possibile.
Però verso le sei telefonai.
«Pronto-chi-sei », disse la voce della Rosa.
«Voglio la signora», dissi
«La-signora-mia-sta-a-ballare-di-là-pronto-chi-sei».
«Voglio subito la signora! ».
Mi riconobbe all'urlo.
«Signora-vieni-che-ci-sta-lui-arrabbiato», la sentii chiamare a gran voce, «signora-mia-corri»
La signora sua corse. «Ciao, tutto bene », disse ansante.
«Ti sei data al rock and roll?», chiesi freddamente.
«Sì, col Pop in corridoio. Pare l'orso di Boemia, ci divertiamo da matti .»
Esatto. «E la Bruna?», chiesi.
«Spumeggia da matti. In principio era muta come un pesce, dritta come una scopa
e nata stanca al completo, ma adesso è là che schiocca le dita, balla con le giravolte e dice
le spiritosate. Dicono tutti le spiritosate», sospirò.
«Anche noi eravamo così scemi?», chiese dubbiosa.
«Sì», decise senza aspettare il mio parere. «Però sono così carini...», adesso era
nostalgica. «Lei specialmente, coi capelli su e il vestito impero e i laghetti degli occhi che
luccicano... ».
«Che, ti commuovi, adesso? », chiesi.
«No», mentì con voce tremula. «Sono tanto vecchia, Dino».
Mi precipitai a casa: ardevo di consolarla e di consolarmi. ...
Fu molto facile. Quando uscimmo nel corridoio, completamente ringiovaniti, o
rimbambiti se volete, erano le otto, e l'anticamera pullulava di tizietti che si congedavano,
tra atroci spiritosaggini e urletti alla Platters, schiocchi di dita e molleggi di gambe, dalla
festeggiata; la quale si lasciava salutare stendendo con degnazione il braccio sottile e
alzando l'altro ad aggiustarsi lo chignon, con un gesto così femminile, così innocente e
consapevole insieme, che io e mia moglie ridiventammo seduta stante vecchissimi.
Partiti i tizietti, lo stato di grazia disertò la sedicenne, e in men che non si dica la
dolce spiritosa fanciulla si trasformò in una ragazzetta imbronciata e ringhiante, che
insolentiva i fratelli, mugugnava sulle pietanze, fissava il vuoto e tirava sospiri
apocalittici.
«Che cos'è, stavolta?», chiesi a mia moglie.
«Psicosi post-balletto», diagnosticò la psicologa. «È già finito, tutto finisce, panta rei, a
che pro vivere? meglio bruciare, ahi come brucio».
Al che la sedicenne, offesa a morte, si alzò e si ritirò sull'Aventino col gatto in
braccio e la scritta questa sporca vita sulla fronte.
Non si fece rivedere per tutta la serata. Né desideravo rivederla. Ah, che gusto
aver figli. Andai a letto molto amareggiato.
Fui svegliato nel cuor della notte da una voce flebile che chiamava papà. Memore
di notti lontane, mali di pancia-orecchioni-tossi asinine, balzai a sedere sul letto
accendendo la luce. La figlia difficile era lì, col pigiama a fiorellini e tre bigodini in testa,
che mi guardava con due enormi occhi di maiolica celeste.
«Stai male?», chiesi.
Scosse la testa. «Non posso dormire», disse. «Io... », si interruppe e inghiottì a
fatica. «Vi voglio tanto bene», bisbigliò con voce rotta.
E scomparve, ratta com'era venuta
Restai sveglio un pezzo a pensarci. Che occhi aveva. Gli stessi occhi che si erano
levati su di me, così tersi. e fiduciosi, al mio ritorno dalla guerra. Sempre quelli.
Conservaglieli così, Signore.
«Giorni celesti, adesso è lui che sospira», sbadigliò la moglie accartocciata al mio
fianco. «Che padre difficile ».
VIETATO FUMARE

Adesso che il peggio è passato (e tocco ferro, se non vi dispiace), posso anche
riuscire a vedere i lati risibili della faccenda. Ma all'inizio vi assicuro che poche persone
avevano meno voglia di ridere di me. .
Come tutte le epopee di casa nostra, anche questa cominciò così, di punto in
bianco, senza preavviso di sorta. Forse la colpa fu del freddo (versione a posteriori di
mia moglie). Forse la colpa fu delle solite rotelline (versione mia a priori). O forse fu il
nostro angelo custode che decise di metterci lo zampino. Giudicate voi.
Ai primi di novembre approfittammo dei due giorni di vacanza per fare l'ultima
rituale incursione a San Mamete: poi fino a Pasqua non se ne sarebbe parlato più. La
prima giornata fu splendida. Il sole era tiepido e dolce, il verde dell'estate aveva lasciato il
posto ai gialli smorzati e ai morbidi rossi dell'autunno, il giardino era pieno di fiori e la
Valsolda di fascino. Mia moglie, che era molto indietro col lavoro (mai capitato che mia
moglie sia avanti col lavoro), si era portata la macchina da scrivere; i figli, che erano
molto indietro coi compiti (mai capitato che i figli siano avanti coi compiti), si erano
portati libri, quaderni e penne; l'unico che non s'era portato niente ero io: il solito
scioperato. Però, come sempre, fui io l'unico a lavorare (potare, concimare, oliare,
martellare), mentre madre e figli pascolavano immemori per il giardino il lago e la valle,
in uno stato di completa incoscienza. Ben conoscendo la conformazione psichica di mia
moglie, sapevo che avrebbe pagato quella temporanea incoscienza valsoldese con la ben
nota nevrosi del ricupero, fatta di patemi, incubi, affanni, palpitazioni, cachet,
tranquillanti caffè sigarette, o-Dio-non-ce-la-faccio, o-Dio-sto-male, giorni-celesti-che-
vita. Era come se la sentissi già, guardate. Ma non ebbi ugualmente il coraggio di
guastarle la festa, e tenni per me i miei pronostici.
Al tramonto - il glorioso, mistico tramonto autunnale di San Mamete - portammo
i fiori del giardino su fino al piccolo cimitero, dove i suoi vecchi dormono tra il fruscio
misterioso dei pini, ai piedi delle montagne che hanno scalato da ragazzi. Mentre
uscivamo dal cimitero, silenziosi e molto piccoli sotto quel gran cielo acceso, la sentii
rabbrividire, ma non ci feci caso. Poi, mentre scendevamo per la mulattiera, il cielo a
poco a poco si spense e allora vidi che lei era molto pallida, come se avesse freddo. Ma
non era solo il freddo. Era qualcosa che conosco ormai da tanti anni, ma che ha il potere
di mandarmi in bestia ogni volta. Un male che non è un male, ma la paura di star male:
una paura maledettissima, che lei chiama Presentimento, che i medici chiamano
Angoscia, e che io chiamo Pigne in Testa. Con tutti i suoi malanni, i suoi cachet, le sue
rotelline storte e i suoi quaranta chili scarsi, questa ci seppellirà tutti quanti: glielo dico
sempre. Lei non lo nega: quando le pigne sono passate. Ma quando ci sta in mezzo,
niente e nessuno può toglierle dalla testa che la Morte sia lì pronta con la falce per rapirla
anzitempo all'affetto dei figli e dei lettori. Niente e nessuno può guarirla: all'infuori dei
miei urlacci.
«Che cos'hai?», le chiesi dunque sgarbatamente.
«Niente», rispose con voce flebile ma eroica. Si portò una mano al cuore e tirò
fuori una tossettina stenta, tipo Margherita Gauthier.
«Capito», dissi. «T.b.c.».
Lei non apprezzò la facezia. Continuò a guardare davanti a sé con due occhi
molto grandi e la scritta MORENTE MA INCOMPRESA DAL MARITO sulla fronte.
Per tutta la sera aspettai, digrignando i denti, che cedesse alle pigne e mi chiedesse
aiuto. Ma lei teneva duro. Sempre evitando di guardarmi, andava su e giù indaffarata e
tossicchiante tra letti, coperte, naftalina, legna per la stufa, figli, Bu, parlando troppo
svelta e troppo forte, fumando come un camino asmatico e prendendo un cachet dietro
l'altro alle mie spalle. Ma se le chiedevo che cos'aveva, mi rispondeva: «Io??? Niente .. »
Indi tossicchiava ostentatamente.
Andammo a letto presto, perché faceva freddo. Non siamo molto attrezzati col
riscaldamento, su: abbiamo solo una vecchia stufa che fa un fumo dell'accidente e in
compenso non scalda perché attraverso le fessure del pavimento il lago caccia su aria
gelata che è un piacere. Ci svestimmo battendo i denti come dieci famiglie che battono
denti. Ma anche quando fummo tutti caldi come tordi nei nostri nidi di maglioni coperte
e naftalina, con la stufa che scoppiettava e il lago di sotto che ci cantava la ninna-nanna,
mia moglie continuò a battere i denti. Facendo tremare il letto come un treno in corsa.
«Ma piantala! », esplosi. «Non ti vergogni?».
«SÌ», bisbigliò. Ma continuò a tremare.
«Sentiamo», le chiesi, «di che cosa muori stavolta?»
«N-non lo so», disse. . « Sto m-male».
«Male dove?»
«N-non lo so. D-dappertutto». Quando ha le pigne, infatti, non c'è una sola
particella del suo corpo che sia esente dalle pigne
«Mi manca il f-fiato, esalò.
«Ci ho gusto», dissi ferocemente. «Così impari a fumare come un turco».
Sebbene moribonda, trovò la forza di dire: «Tu fumi come due turchi ».
«Io sono un uomo!», dissi. « E non peso quaranta chili. E non ho paura di morire»
Alla parola "morire" ebbe istantaneamente un accesso di tosse; si portò la mano al
cuore, ritossì, riportò la mano al cuore, e io cominciai a urlare. Che ero stufo. Che avevo
sonno. Che la piantasse. Che se credeva che io andassi a chiamare nottetempo il dottore,
se lo levasse di testa: io non andavo a svegliare un onest'uomo per causa di una fissata, di
una rompiscatole, di una che crede di essere li per morire e non muore mai, accidenti a
lei! Urlai tanto che a un certo punto mi sfiorò il dubbio che potessi essere io a morire, di
un colpo apoplettico, e allora smisi.
Silenzio. Lei non tossiva più. Non tremava più. Non aveva più il fiato corto. Non
fiatava per niente. A un tratto capii quello che intendono i romanzieri quando dicono: egli
sentì una mano di ghiaccio stringergli il cuore.
«Osso?», chiamai sottovoce
Silenzio. Balzai a sedere sul letto accendendo la luce. Sotto la montagna di coperte
al mio fianco, qualcosa si mosse con un lungo mmmm di fastidio. Dormiva: la
moribonda. I miei urli avevano avuto il solito effetto ipnotico.
Ma avevano avuto l'effetto contrario su di me. Il sonno mi aveva disertato,
lasciando al suo posto un'inquietudine balorda: cominciai a rigirarmi come venti mariti
che si rigirano. Sì, lei adesso dormiva... ma domani? Domani avrebbe ricominciato a
fumare, a tossire, a prendere cachet, a correre, a lavorare, ad amare senza risparmio,
consumandosi giorno su giorno. Fanatica dell'accidente, pensai rigirandomi per l'ennesima
volta. Nell'affannoso dormiveglia mi pareva di vederla assottigliarsi e impallidire come
una candelina che si scioglie al calore di una fiamma troppo forte. Tesi una mano nel
buio: no, non s'era ancora sciolta del tutto. Però mi pareva che respirasse a fatica. Le
tastai il polso: mi pareva debole. Le toccai la fronte: mi pareva sudata. Sta male, pensai
atterrito. Bisogna far qualcosa. Non chiusi occhio, mi parve, per tutta la notte. E alle prime
luci dell'alba - be', forse erano le seconde - mi vestii quatto quatto e andai a cercare il
dottore.
Prima però mi fermai in piazza a prendere un caffè, dopo di che la psicosi scemò
sensibilmente. Poi mi ci volle un bel po' a trovare il dottore, che era in giro nella valle per
visite. Quando infine lo trovai e me lo portai dietro, scettico ma rassegnato, fino a casa, i
figli scorrazzavano già in giardino sotto il pallido sole di novembre; non parvero stupiti
nel vedere il dottore, solo leggermente divertiti.
La moribonda stava di sopra, seduta alla sua scrivania, tra nuvole di fumo di
sigarette e di stufa, e scriveva a macchina come una mitragliatrice.
«Ah, questa è la malata», disse il dottore. Apprezzai il suo sforzo di rimanere serio.
La fanatica voltò verso di noi una faccia smorta, con le occhiaie e l'espressione
pugnace: «Malato sarà lui », disse additandomi. «Io ho avuto solo le pigne. Andate via
che ho da fare». Aspirò una boccata di fumo, e si mise a tossire come venti fanatiche che
tossiscono.
« Spogliarsi », ordinò laconicamente il dottore.
Mezz'ora dopo la visita era finita e la diagnosi fatta: bronchite e risentimento
pleurico. Non so chi dei tre fosse più meravigliato: se io o mia moglie o il dottore. Al
posto delle pigne, salta fuori un risentimento pleurico. Incredibile.
Anziché depressa, mia moglie appariva eccitata. Finalmente un malanno vero:
nella sua vita irta di visite mediche a vuoto, era un fatto senza precedenti, che la riempiva
di legittima soddisfazione. Non così me. Non ero soddisfatto per niente, io. Ero furioso:
come osava, quella, avere risentimenti pleurici senza il mio permesso?
Lei mi guardò piegando la testa verso la spalla: «Su su», disse come se il malato
fossi io, «cosa vuoi che sia un risentimento pleurico?»
« Se si cura bene, non è niente di grave», confermò il dottore; ma, conoscendo
dalla nascita l'augusta paziente, aggiunse con voce severa: «Però bisogna curarsi: intesi?
Non strapazzarsi. Non prendere freddo. Non scrivere troppo a macchina. Fare queste
iniezioni.». Scribacchiò qualcosa su una ricetta, me la porse e si alzò: «Ma la prima cosa
da fare», sillabò puntando un indice implacabile verso mia moglie, «è smettere di
fumare.».
Le fatali parole rimasero sospese nell'aria. Per rendervi conto della gravità dell'ora,
dovete sapere che mia moglie, essendo l'ultima di una numerosa prole, cominciò a
quindici anni a fumare i mozziconi dei fratelli grandi; a sedici a comprarsi le sigarette di
nascosto; a diciassette a comprarsele ufficialmente. E da allora non ha più smesso. Non
un solo giorno. Si può dire che ogni circostanza della sua vita, brutta o bella, difficile o
lieta, comica o drammatica, mia moglie l'ha affrontata con la sigaretta in bocca. Quando,
subito dopo la nascita di un figlio, io entravo in punta dei piedi nella camera della clinica
e mi chinavo su di lei balbettando le frasi sconnesse proprie di ogni neo-padre che si
rispetti, lei mi sorrideva sollevando a fatica le palpebre, accostava la faccina esausta alla
mia regolarmente innondata di lacrime e mi sussurrava amorosamente: «Dammi una
sigaretta senza farti vedere dalla suora ».
Penso di aver reso l'idea. Penso che abbiate capito perché, dopo le parole del
dottore, io trattenevo il fiato: mi aspettavo uno scoppio di dolore, di proteste, di
ribellioni e di "giorni celesti". E invece quella specie di scatola a sorpresa che è mia
moglie si alzò con gli occhi scintillanti e un'aria da Giovanna d'Arco:
«D'accordo», disse con voce solenne.
E presa dal sacro fuoco della Causa, arraffò tutte le sigarette che le rimanevano e
andò a lanciarle spettacolarmente in lago, gridando: «Muoia Sansone e tutti i Filistei», che
non so bene cosa c'entrasse ma quando mia moglie è eccitata non bisogna sottilizzare
sulla logica dei suoi discorsi.
L'eccitazione durò diverse ore, durante, le quali la fanatica recitò con grande
impegno e insospettate doti istrioniche la parte della Donna di Carattere, che se deve
smettere di fumare, zac, smette e basta. Chiaro esempio di forza d'animo e Volontà di
Ferro nei confronti del marito debole e vizioso.
Poi, gradatamente, la parte cominciò a divertirla meno, sempre meno, e quando
fummo a Milano la sera, la Donna di Carattere si era trasformata in una donnetta
inconsulta e spiritata che vagava per l'appartamento succhiando con disgusto caramelle
alla menta, si sedeva e si rialzava senza ragione, si metteva e si toglieva continuamente le
mani di tasca, suscitando la disapprovazione della Rosa ("signora-quanto-stai-nervosa"), la
perplessità del cane e l'ironia del gatto. In quanto ai figli, solidali come sempre,
cercavano di rendersi psicologicamente utili. Invano.
La figlia grande, dopo aver tentato di incoraggiarla con un: "pensa quanti soldi
risparmierai", venne tacitata con un: "ma piantala, Arpagona! Me ne infischio dei soldi,
io". Il figlio medio, che tentò di rallegrarla dicendole, col suo solito nitore d'eloquio: «Sai
chi mi pari? Mi pari il Walter Chiari in quel pezzo là che faceva alla televisione dove
faceva quello là che non doveva fumare e faceva tutti quei macelli là», venne
bruscamente redarguito: «Intanto impara a esprimerti meglio, poi favorisci non
ricordarmi quello sketch se no mi viene ancora più voglia di fumare, e i macelli li faccio
io qua dentro.». Al che la figlia piccola, sospirando, le avvicinò alla faccia due peluches,
esortandoli con voce angelica: «Fate pat-pat alla povera vecchia nonna che non può
fumare le figarette ». «Non nominarle!», disse la vecchia nonna mordendosi le dita.
Cosicché i figli si stufarono e andarono a letto, lasciandomi solo in balia della
disintossicazione. Per oltre mezz'ora, seduto con lei davanti al televisore spento (c'era un
film dove i protagonisti fumavano e lei non poteva guardarli), tentai di distrarla con
ameni conversari, ma ottenni solo di essere guardato come un essere particolarmente
scipito. Anzi insopportabile. La causa di tutti i suoi guai.
«Cosa t'è venuto in mente di andare a chiamare il dottore!», proruppe a un certo
punto.
«Perché, se non chiamavo il dottore, tu il risentimento pleurico non ce l'avevi? ».
«Ce l'avevo, ma non lo sapevo», fu la logica risposta. «E fumavo lo stesso».
«E finivi al sanatorio».
«Non fare il menagramo!», disse guardandomi con odio. «Sono già abbastanza giù
di morale senza che tu ti diverta a buttarmi a terra del tutto». E tossì.
Cercai di prenderla per un altro verso: «Invece questa malattia sarà la tua salvezza:
è il nostro angelo custode che te l'ha mandata apposta».
«Che caro» ghignò velenosamente mia moglie. «Si vede che lui non fuma».
Provai il tasto della vanità: «Vedrai che non fumando ingrasserai, ringiovanirai e
diventerai più bella».
«Ah, perché adesso sono vecchia e brutta», disse. «Lo so che cosa pensi. Lo so che
ti piacciono le ciccione, ma potresti anche fare a meno di dirmelo, no?».
E via di questo passo. Qualsiasi cosa le dicessi veniva ritorta contro di me come
un boomerang. Pareva che il tossico che doveva eliminare dall'organismo le si fosse
riversato tutto nel carattere. Per non cedere alla tentazione di strangolarla andai in
anticamera a tonificarmi con un'altra sigaretta, e quando tornai lei era sempre lì,
rannicchiata sul divano, con le occhiaie e i capelli irti, che succhiava tetramente le sue
caramelle fissando sul televisore spento due occhi ancora più spenti. Ogni tanto si
passava la mano davanti alla faccia come per scacciare una nuvola di fumo che non c'era.
Tutto a un tratto mi fece una gran compassione: era così piccola, e malata, e non poteva
fumare: e io non potevo aiutarla.
Sì che puoi, mi disse la coscienza. Non far finta di non saperlo, ipocrita, egoista,
uomo senza carattere. E va bene, va bene! Le avrei dimostrato di che cosa è capace un
marito. Stritolai nel pugno le mie ultime sigarette:
«Da questo momento», annunciai a mia moglie e al mondo, «non fumo più
neanch'io».
Sono passate due settimane da quello storico annuncio.
Stasera, passando nel corridoio, ho sentito mia moglie, al telefono con la Polpettona, fare
il punto della situazione in questi termini:
«Io? Io sono guarita. A parte il mal di testa la nevrosi cardiaca la nausea le vertigini
la nevrosi gastrica, sto benissimo. Niente tosse, niente risentimenti, mi sa che è stato il
dottor Bazzoli, messo su da Dino, che ha calcato la mano per spaventarmi e farmi
smettere di fumare. Eh? Si capisce che potrei ricominciare... Ma ormai che ho fatto 'sto
sforzo' mi conviene andare avanti, ti pare? Sai che la Gabriella, dopo che ha smesso di
fumare, è aumentata dodici chili in un anno e ancora adesso è là che ingrassa ingrassa e
non si ferma più? Io sono già aumentata tre etti ». Pausa trionfale. «E poi se ricomincio a
fumare, cosa dice quel povero angelo custode che ha penato tanto per farmi smettere?
Eh? Certo che ho ancora voglia, specialmente quando lavoro darei il mio regno per una
sigaretta, ma si resiste, no? È solo questione di volontà». Pausa eroica. «Chi, Dino? Oh,
lui ha ricominciato, si sa. Per fortuna: se no qua impazzivamo tutti. Non ti dico cos'era
diventato: non si sapeva più da che parte prenderlo. Mordeva da tutti i lati. Con una pipa
spenta in bocca che pareva il signor Hulot con l'esaurimento nervoso, girava per casa
ruggendo e spaventando donne e bambini. La Rosa appena sentiva il suo passo si
asserragliava in cucina e si rifiutava di uscirne. La Bruna era sull'Aventino in pianta
stabile, il Pop aveva gli occhi lunghi in permanenza, la Tatti insegnava ai peluches le
irriverenze da dire alle spalle del vecchio nonno "che fenza figarette pare un beftione feroce". Io
poi figurati: non ne potevo più. Così gli ho detto che ricominciasse, se no ricominciavo
io. Prima non voleva, ma alla fine si è sacrificato per il bene della famiglia e adesso è di là
che fuma come il Vesuvio per rifarsi dei giorni perduti. Gli uomini, cara mia: la forza di
volontà non sanno neanche dove stia di casa. Ben ciao, vado perché mi sa che il Vesuvio
è lì dietro la porta che origlia».
Schizzo via dalla porta e vado a sedermi in attesa sul divano del soggiorno. Eccola
che arriva, la Donna di Carattere. Si siede vicino a me, coi suoi tre etti in più e la sua
aureola bene in vista, e io fingo di non aver sentito niente. Tutto sommato mi conviene.
Ah, che bello fumare mentre la moglie succhia mentini. Mi pare di vedere l'angelo
custode che ammicca, asciugandosi la fronte dopo l'ultima fatica, e mi chiedo che cosa ci
riserberà l'avvenire. Forse anche lui se lo chiede.
STORIE DI ACQUISTI

Per un po' di tempo tutto andò via liscio. Liscio, intendiamoci, come può andare
in una famiglia come la mia: tutto è relativo, a questo mondo. Per rifarsi e consolarsi
della rinuncia alle sigarette, mia moglie si abbandonò a una serie di acquisti stravaganti,
tra i quali:
a) Un cappello nero di foggia allarmante, tipo brigante Musolino. La prima volta
che se lo mise, la Rosa lasciò cadere l'insalatiera ("signora-come-stai-brutta"); il Bu ululò;
l'Armen le chiese dove aveva lasciato il mitra; il Polpettone mise le mani in alto e la
pregò con voce tremante di prendersi la borsa ma lasciargli la vita, che lui aveva famiglia;
il figlio medio si buttò via dal ridere, la figlia piccola corse a prendere tutti i peluches
("guardate la voftra nonna che roba") e quello che dissi io è troppo lungo a ripetersi. Invece la
figlia grande, la Zita, la Polpettona, e naturalmente mia moglie, erano in estasi. Che
cappello. Che linea. Che spirito. Che sogno di cappello. «Certo, non è un cappello che
possa essere compreso dalle masse», disse mia moglie, guardandomi come se io fossi la
massa bruta in persona. «È un cappello che ha una personalità», disse la Zita.
«Comunque è l'ultimo grido», disse la Polpettona; le chiesi se alludeva al grido che usciva
dalle bocche di coloro che si trovavano faccia a faccia col cappello senza il necessario
preavviso. Poi però, non so come, mi ci abituai: al cappello. E adesso, non ditelo a
nessuno, trovo che le sta molto bene. Forse ho imparato a interpretarlo. O forse mi ci
sono affezionato come mi succede con tutte le cose di mia moglie, per balorde che siano.
b) Un paio di occhiali color turchese. Dice che il turchese è il suo colore, che le sta
benissimo, che non sa come abbia fatto a vivere fino all'età di trent'eccetera anni senza il
color turchese. Che è per di più il colore portafortuna per i nati in dicembre come lei.
Ora dovete sapere che mia moglie è l'essere meno superstizioso della madre terra; ma
per giustificare un acquisto strampalato o un'azione temeraria, sarebbe capace di tirar
fuori la cabala, l'astrologia e lo spiritismo. E poi, per accompagnare gli occhiali (o forse
per aumentare le probabilità di fortuna) fu moralmente costretta a comprare miriadi di
indumenti, accessori e perfino oggetti per la casa, tutti color turchese. Mia moglie
assomiglia per mentalità a quel tale che, avendo trovato un bottone, fu costretto. a farsi
un paltò. Infatti si è fatta anche quello: color turchese. Una notte ho sognato che per
accompagnare gli occhiali di mia moglie anche la mia faccia era diventata turchese.
c) Una lampada di quarzo. Motivi addotti per l'acquisto: «Salute e bellezza.
Quando si deve vivere per nove mesi all'anno in una città piena di nebbia e di puzze,
almeno avere i raggi ultravioletti in casa, no? Tonificano, rinforzano, risanano. E poi
fanno venire la bella pelle» .. Detto fatto: usci e rientrò con la lampada. Lesse ad alta
voce l'opuscolo illustrativo, estasiandosi sulle quantità di mali che la lampada di quarzo
elimina dalla faccia della terra (anzi mi meraviglio che dopo l'avvento della lampada ci
siano ancora dei malati in giro), e quando ebbe finito di leggere, si alzò con la fiaccola
salute-e-bellezza ardente in petto. «Avanti, irradiamoci!», disse. «Prima io e il papà: cosi
domani sera, che siamo a cena dai Mondaini, facciamo restare tutti di sasso per come
siamo belli»
Ci ungemmo la pelle, leggemmo attentamente le istruzioni per l'uso, misurammo
le distanze, calcolammo i tempi, mettemmo gli occhiali neri e iniziammo l'irradiazione,
beandoci al pensiero della meravigliosa pelle che il futuro e la lampada ci riservavano. E
l'indomani, a cena dai Mondaini, c'erano due aragoste spelacchiate e tumefatte che si
grattavano come dieci scottati che si grattano e lacrimavano come dieci scottati che
lacrimano. «Chi vuol comprare una lampada di quarzo?», chiedeva mia moglie al di sotto
della bistecca cruda gentilmente offerta dalla padrona di casa a mo' di balsamo. «La
cediamo a metà prezzo», dissi io tamponandomi gli occhi infiammati. Non la vollero
neanche per un quarto. Peggio per loro: perché quando avremo imparato a usarla con
parsimonia, diventeremo smaglianti, e loro niente
d) Un magnetofono. Anche per questo acquisto mia moglie addusse motivi di
salute: «Scrivere tanto a macchina mi fa male, l'ha detto il dottore. Così invece posso
dettare tutto senza scrivere niente, poi ascolto, modifico, ridetto, riascolto, rimodifico, e
così poi mi resta solo la stesura finale da battere a macchina. Vuoi mettere che risparmio
di fatica?». Convinto da questi sensati argomenti, fui io stesso a portarle a casa il
magnetofono. Ed ecco i risultati, brillantemente esposti dalla figlia piccola in un
componimento scolastico dall'originale titolo: Un giorno lieto nella mia famiglia: Un giorno
lieto nella mia famiglia è stato sabato che il papà ha portato ha casa un magnatofano per la mamma che
doveva dettarci le sue c’ose da scrivere. Essa è stata più di unora chiusa dentro a dettare ma non le
veniva la spirazione, essa dice che se detta la spirazione non ci viene, che a lei per venirci la spirazione ci
vuole che scrive, e c'osì adesso il magnatofano lo doperiamo noi per giocarci. Ieri o registrato il Pop che
studiava la poesia e diceva i cipressi che a bolgheri alti e schietti, em dunque, van da
sanguido in duplice filar, dunque em, e dopo si impaperava tutto da matti; poi habbiamo
registrato la Rosa che cantava volare e quando a sentito la sua voce venire fuori dal c'oso ci è venuto uno
spavento; poi habbiamo registrato il Bu che abbaiava dietro il John e dopo a sentirsi voleva saltare
dentro nel magnatofano perché credeva un altro cane, e invece il John piegava il suo testolino di qua e di
là come a dire c'osè sta storia, e c'osì è stato un giorno l’ieto nella mia famiglia.

Ma la l’etizia non finisce qui.


Dovete infatti sapere che per ogni cervellotico acquisto che fa, mia moglie è solita
invitare orde di parenti e di amici a vederlo. Ora, se calcolate il numero di acquisti di quel
periodo, e ci aggiungete l'euforia della disintossicazione, capirete che nel mese di novem-
bre la nostra vita fu un frenetico susseguirsi di inviti. Due o più per sera. Invitò tutti i
suoi fratelli, cognati, cugini (e non vi dico quanti sono se no vi viene male). Invitò, che
Dio l'abbia in gloria, anche il mio Capo (che adesso in ufficio non fa che parlarmi di mia
moglie e dei miei figli, come se non ne avessi abbastanza a casa). Gli Armen e i
Polpettoni poi, figurarsi: erano sempre lì. Invitati per il cappello, invitati per il turchese,
invitati per la lampada (così riuscii, dopo molte lusinghe, a far scottare il naso a qualcun
altro: leggi Armen); invitati infine per il magnetofono. Che durante la cena registrò il
seguente brano di conversazione:
ARMEN (noncurante): «A proposito, ho prenotato la macchina nuova ».
MIA MOGLIE (glaciale): «A proposito di che, se è lecito?».
ZITA (soave): «A proposito di acquisti, evidentemente».
POLPETTONE (giulivo): «Larga la foglia stretta la via, acquista tu che acquisto
anch'io»
MIA MOGLIE (sprezzante): «La rima è sbagliata».
POLPETTONA: «Il senso però è giusto».
MIA MOGLIE: «Niente affatto! Se l'Armen vuole sperperare il suo denaro
comprando una macchina nuova quando ne ha una anziana che va benissimo, padrone.
Ma noi no! Abbiamo tre figli, noi, e non possiamo permetterci di sperperare come quelli
che ne hanno uno solo. Ho il senso della responsabilità, io».
IL CORO: sghignazza.
MIA MOGLIE: «Ah, ma è una coalizione! Siete venuti a mangiare alla mia tavola solo
per mettermi su il marito! Come l'altra volta, eh?».

Qua bisogna fare la solita digressione all'indietro, e portare la scena a una sera di due
anni fa, quando, durante una cena come questa, fu messa sul tappeto la questione
dell'automobile.
Non che fosse la prima volta (erano anni che bramavo di avere un'automobile e che
mia moglie bramava di non averla), ma quella volta la discussione aveva maggior
mordente in quanto l'Armen, fino allora appiedato come me, aveva acquistato in quei
giorni la sua prima automobile (passata poi alla storia come la Molto Anziana). Era
logico che io continuassi ad andare a piedi quando lui andava in macchina? No, non lo
era. Ma mia moglie non si lasciava espugnare. I motivi che addusse quella sera contro
l'acquisto dell'automobile furono: primo, l'economia (è straordinario come in quella
scialacquatrice nata che è mia moglie si risveglino gli istinti della formica risparmiatrice
ogni volta che io voglio fare un acquisto che a lei non garba); secondo, la paura degli
incidenti; terzo, la sua irriducibile, medievale idiosincrasia per i motori in generale.
Ultimo motivo fu la mia presunta incapacità:
«Quello lì non sa neanche cosa voglia dire guidare», disse.
«Ma se ho guidato un sacco di volte».
Lei si rivolse agli amici, enumerando sulle dita: « Ha guidato, vent'anni fa, la Balilla
di un amico capitalista. Poi ha guidato un cavallo e un carro armato. Stop»
«Ci dici niente?», disse il Polpettone.
«Imparerà benissimo», disse l'Amen, che bramava di cimentarsi con me. «È o non
è uno sportivo?»
«Ha occhio», confermò il Polpettone. «E riflessi pronti».
«Troppo pronti! disse mia moglie. . «Non vedi che pare una pila elettrica anche
seduto a tavola? Figurati al volante ..
«Ma su, Osso, sii buona», intervenne la Polpettona. «Dino è già così sacrificato in
quell'ufficio... ha bisogno di avere almeno la macchina, per sfogarsi» ..
Aveva toccato il tasto giusto. Lo sguardo che mia moglie mi lanciò era così pieno
di rimorso e d'amore, che in quel momento avrei rinunciato senza alcuna fatica alla
macchina: mi sentivo molto fortunato anche a piedi. A buon conto però non dissi
niente, e gli amici continuarono a battere il ferro per me:
«Eh, povero Dino», concluse la perfida Zita, «gli verrà il complesso dello
smacchinato»
Mia moglie mi diede un'altra occhiata di traverso: la lotta tra l'avversione per
l'automobile e la simpatia per il marito doveva essere sanguinosa. Mi pareva di sentire
rumor di spade.
Nei giorni seguenti, con la complicità degli amici che si prestavano a fornirmi gli
alibi, frequentai clandestinamente la scuola guida e presi la patente. Zitto zitto. E il
giorno del compleanno di mia moglie - era un sabato, mi ricordo - nelle primissime ore
del pomeriggio squillò il campanello.
Era un fattorino che portava un pacchetto: elegante, civettuolo, legato con un
nastrino d'argento, e accompagnato da un biglietto: Tanti auguri da Armen e Zita. Con gli
occhi luccicanti di bramosia, mia moglie cominciò a svolgere l'affascinante pacchetto: e
ci trovò dentro un nécessaire per automobile: portacenere, portasigarette,
portadocumenti, tutto per automobile. «Ah, vigliacchi!» gridò precipitandosi verso il
telefono. Ma fu fermata da un altro campanello. Altro fattorino, altro pacco
(voluminoso, morbido, ammaliante), altro biglietto: Coi più affettuosi auguri dai Polpettoni.
Nel pacco c'era dentro un plaid: per automobile. Al grido di "ah, Giudi" (plurale di
Giuda), mia moglie si precipitò di nuovo verso il telefono, ma fu fermata da un terzo
campanello. E così per tutto il pomeriggio: fratelli, cugini, amici, parenti di primo e
secondo grado non erano mai stati così puntuali e solidali nell'inviarle regali. Per
l'automobile.
«E va bene, hai vinto», sospirò mia moglie allargando le braccia. «A furor di
popolo».
Il lunedì andammo da un parente in secondo grado di mia moglie, che vende
automobili. Enzo, si chiama. Quando seppe della somma di cui disponevamo, fece una
faccia.
«Be', vediamo», fece poi, conciliante, «certo non posso darvi un modello molto
recente, e neanche una macchina molto nuova... Ma credo di avere qualcosa che fa per
voi».
Il qualcosa era la Vecchia. Non ve la descrivo perché sarebbe impossibile. Vi dico
solo che dopo il giro di prova, fatto con Enzo, dovetti entrare in un bar a prendere un
cognac doppio.
«Questione d'abitudine», disse Enzo battendomi sulla spalla. «Un'automobile è
come un paio dl scarpe: la prima volta ti fanno male, poi ti calzano come guanti. La
macchina ha fatto tanti chilometri, d'accordo, ma l'ex-proprietario era un mio carissimo
cliente, l'avvocato De Paoli, un uomo scrupoloso come non ce n'è altri, preciso, delicato,
che tratta le auto come bambini»
Nei giorni che seguirono ebbi più volte l'occasione di pensare a quell'avvocato De
Paoli: doveva essere un bambinaio piuttosto energico. "Ma forse", pensavo anche, "sono
io che sono inesperto". Solo molto più tardi dovevo scoprire, sul libretto di circolazione,
che la Vecchia aveva sì avuto come proprietario il delicatissimo avvocato De Paoli, ma
che prima di lui ne aveva avuti altri cinque. Non tutti esattamente bambinai, si vede.
Non dimenticherò mai quei primi giorni di Vecchia. Spari, ringhi e botti si
succedevano con un ritmo e una fantasia encomiabili. Avevo i nervi a brandelli. Penso
che capiti a tutti i guidatori novellini, anche con automobili normali. Figuratevi com'ero
ridotto io con la Vecchia. E con mia moglie in più, che ad ogni botto sobbalzava come
dieci mogli che sobbalzano e mi chiedeva col terrore negli occhi: « C-che cos'è?».
«Niente niente», rispondevo con l'imperturbabilità che si addice a un asso del
volante. «Dev'essere il coso».
«Cos'è il coso?», chiedeva.
«E che ne so! Il coso!», urlavo. Faticavo già abbastanza a tenere a bada la Vecchia,
senza dover tenere a bada anche le domande della moglie.
Ma a poco a poco, sapete com'è, ci abituammo ai fragori e agli umori della
Vecchia come alla conversazione di un amico: un po' lunatico ma indispensabile. Mia
moglie, specialmente, passò da un'atterrita avversione a uno sviscerato affetto: quella che
prima era un'orrida macchina malintenzionata, divenne nel giro di pochi mesi una
simpatica vecchia persona, da trattarsi a pat-pat e tènere insolenze.
E adesso, dopo tre anni, le proponevano di cambiarla. La sua Vecchia! Avrebbe
opposto minor resistenza se le avessero proposto di cambiare il marito. Ma gli amici
proseguivano metodici:
«Andiamo, Osso», diceva il Polpettone, «renditi finalmente conto che vi ci vuole
un'automobile che cammina. Non un rudere che spara».
«La Vecchia non è un rudere», disse mia moglie. «è la Vecchia. E se spara, è
perché ha un carattere. Una personalità»
«Con la quale personalità», disse la perfida Zita, «il povero Dino finirà quanto
prima sfasciato contro un tram» ..
Mia moglie mi guardò ansiosa, aspettando il mia verdetto.
Pur sentendomi un po' Giuda, dissi: «Certo la Vecchia è diventata pericolosa. Ieri
a momenti metto sotto un ciclista. E se mi capita qualcosa mentre porto in giro i
bambini?», incalzai, Giuda al completo.
Mia moglie meditò in silenzio. Infine, senza rialzare la testa, si arrese: «Va bene»,
disse. La sua voce era triste. «Se è proprio necessario... Prendiamo un'altra macchina».
Sospirò di nuovo: «Ma che sia color turchese!».
La macchina color turchese c'era, da Enzo. Bella, lucida, nuova. Enzo ce ne
magnificò i pregi tecnici. Anche il prezzo era magnifico. «Be'... », dissi, «quanto ci dài
della Vecchia?»
«Di quella?», disse Enzo, guardando la Vecchia con supremo disprezzo. «Quella è
un pezzo da museo, non una macchina».
Mia moglie fece un passo indietro, appoggiando la mano sul cofano della Vecchia
come sulla spalla di un amico maltrattato. «A noi è stata fedele», mormorò. «A chi la
darai, adesso?».
«A chi vuoi che la dia!» ., disse Enzo. «Il suo posto è nei rottami»
«Nei rottami!», disse mia moglie. Lo guardava come si guarda un assassino sul
punto di fare a pezzi una vecchia signora. Poi guardò me.
Dieci minuti dopo stavamo tornando a casa. Con la Vecchia.
«Nei rottami, voleva metterla!», disse mia moglie, ancora indignata.
«B-b-b-boom», disse la Vecchia.
Mia moglie fece pat-pat sul cruscotto. «Buona, buona», disse. «Sei coi tuoi
padroni. Nessuno può farti niente»
«Gr-gr-groung » ringraziò la Vecchia.
«Tu però devi fare la brava», disse severamente mia moglie. «Ubbidire al padrone e
non fare gli scherzi ai ciclisti».
«Zouz», promise la Vecchia.
Mia moglie appoggiò la testa sullo schienale: «Non so come avremmo potuto
resistere con una mummia di macchina nuova che non fa mai neanche un rumorino»,
disse.
Già, non lo sapevo neanch'io. La Vecchia, se non altro, era un tipo di compagnia.
«Sai cosa facciamo?», disse a un tratto mia moglie raddrizzando la testa. «La
dipingiamo di color turchese»
STORIA DI BESTIE

Sembrava una domenica pomeriggio qualsiasi, all'inizio. Pioveva. La Vecchia era


in garage, tutta dipinta di turchese che pareva una nonna con su il paltò della nipote
diciottenne. La Rosa aveva portato la sua permanente nuova e il suo nuovo garzone di
lattaio in un cinema del rione. Noialtri eravamo tutti riuniti nel tinello-soggiorno-pranzo-
gioco-musica-televisione, intenti alle nostre normali occupazioni domenicali. La figlia
grande, seduta al tavolo, disegnava sul suo album con mano sicura ed espressione stanca:
sofisticate fanciulle che assomigliavano vagamente a lei tranne che per alcuni accentuati
promontori, che in lei sono piuttosto timide collinette, e atletici giovanotti che
assomigliavano vagamente al tizietto Paolo, tranne che per l'espressione ferina, che nel
tizietto Paolo è piuttosto ovina. II figlio medio, finiti i compiti di latino e di matematica,
stava partorendo la cronaca settimanale: Questa settimana la mia mamma il mio papà le mie
sorelle e io ...: qui il travaglio subiva un arresto e cominciavano i sospiri e gli occhi lunghi.
La figlia piccola era insediata sul divano nuovo con tutti i peluches, che al momento
erano sciatori: i giochi della piccola hanno sempre carattere stagionale o d'attualità. Io,
precariamente seduto nell'unico angolo di divano rimasto immune dai peluches,
guardavo il pomeriggio sportivo alla tele. Il Bu, stranamente tranquillo quel giorno (ma al
momento non ci facemmo caso) stava sdraiato in un angolo col muso appoggiato alle
zampe e gli occhi nascosti dai peli, e sembrava disinteressarsi del mondo, di noi, e
perfino del fatto che la Padrona, seduta sul tappeto con una mano nei capelli e lo
sguardo vacuo, tenesse Mister John sulle ginocchia. Molto soddisfatto delle posizioni
raggiunte, il gatto prrrava (voce del verbo prrrare = fare prrr = fare la fusa), e mia moglie,
perduta nei meandri della ispirazione, lo accarezzava distrattamente, quando i suoi occhi
divennero enormi e dalla sua bocca uscì un grido che pareva Cristoforo Colombo in
vista dell'America:
«Giorni celesti! Ma questo gatto è una gatta!»
C'era arrivata. Benché lo sapessi da mesi, ostentai uno stupore pari a quello dei
figli: «Come fai a dirlo? », chiesi con la voce dell'innocenza.
Lei mi diede un'occhiata indefinibile. Senza proferir parola prese delicatamente
Mister, pardon, Miss, pardon, Mistress, insomma la John (o Joan, se preferite), la depositò
nel mezzo del tappeto dell'Amen e con un gesto denso di significato me l’additò.
Obbedendo a quel muto comando, guardai. Vidi una gattina pigra e soddisfatta
che strizzava furbescamente gli occhioni gialli, stirando con impudenza il corpicino
striato e grassoccio. Grassoccio? Era...
«Acciderba!», dissi.
«Già», confermò mia moglie. «Sei contento di diventare bisnonno?»
No, accidenti, non lo ero. Ne avevo più che abbastanza della mia, di prole, senza
avere a che fare con la prole della gatta. Ma il tripudio della famiglia era tale che non ebbi
il coraggio di turbarlo con le mie egoistiche considerazioni. Sotto la guida e con la
collaborazione materna, i figli trascorsero un pomeriggio di progetti, di eccitazione e dì
intenso lavorio mentale. Il figlio medio allestì nel cesto da stiro una nuova cuccia,
morbida, calda e provvista d'ogni comfort, che la gestante, dopo un paio di
circonvallazioni esplorative, disertò definitivamente, trasferendo come di consueto i suoi
sonni nel cappello nuovo di mia moglie. La figlia piccola inseguiva la gestante per ogni
dove offrendole gattini di peluches da cullare per allenamento, ma la gestante li
respingeva con cortesia, preferendo continuare a cullare le pantofole del padrone. La
figlia grande, non senza difficoltà e preghiere, riuscì a legare al collo della gestante un
lucido e femminilissimo nastro color turchese, che l'interessata, dopo aver tentato invano
prima di farlo a brandelli, poi di usarlo come scopa e poi come aizza-Bu, finì per
accettare: e si mise a girare davanti a noi così infiocchettata, con aria languida e molto
futura mammina.
La famiglia era in estasi.
«Chiffà quando naferanno», disse la piccola.
«Non ci manca mica molto», sentenziò la grande con l'aria della espertissima in
parti felini.
«Capace che nascono domani?», chiese speranzoso il medio.
«Capace», disse la madre «Coi gatti non si può mai sapere: mica fanno tante storie
come gli uomini»
«Come le donne, vuoi dire », osservai.
Mi guardò freddamente: «Perché gli uomini non fanno bambini», rispose. «Se
toccasse a loro, apriti cielo ».
«Sentirà male?», chiese Pop preoccupato. «La John, dico»
«Oh, non credo», disse la madre. «Ad ogni modo chiameremo il pediatra..»
«Il pediatra?», dissi «Perché non l'ostetrico?»
«Ma sì, volevo dire il veterinario», disse irritata. «Possibile che non mi capisci mai »
«Chissà quanti gattini avrà»?, riattaccò il figlio.
«Io dico quattro o cinque», disse la piccola. «Forfe anche fei »..
E mentre madre e figli passavano la domenica a estasiarsi sul futuro evento, sui
quattro o cinque e forfe fei fiocchi che avrebbero messo sulla porta, e sui nomi da dare ai
quattro, cinque e forfe fei gattini nascituri, io passai la domenica a meditare sul modo di
disfarmi dei gattini stessi. Di sistemi, dai più brutali ai più raffinati, dai più logici ai più
romanzeschi, ce n'erano diversi. Il difficile era riuscire a farli accettare ai figli senza
tragedie. Non ci sarei riuscito mai, a meno che non mi assicurassi la collaborazione di
mia moglie: quella riesce a fargli digerire tutto. Se si fosse trattato di una donna di buon
senso, avrei potuto contare sulla sua alleanza. Il fatto era che mia moglie non è - come
ho avuto spesso occasione di farvi notare - una donna di buon senso. Ah, ero in un bel
pasticcio, cari miei.
Alle dieci passate i figli, raccolti intorno al cappello in cui la gestante prrrava, non si
decidevano ad andare a letto.
«Non fare mica i gattini ftanotte fenfa dircelo, neh», si raccomandava la piccola.
«Prrr», rispondeva la futura madre.
«Se stai male, chiamami», diceva la grande, autoelettasi levatrice. «Tu miagoli, e io
vengo subito»
«Prrr»
«Io però dico che se chiamavamo subito il veterinario era meglio», disse il medio.
«Prrr».
«Tutti a letto subito!», gridai. Ero stufo di quella solfa.
Guardandomi male ubbidirono.
E appena loro furono definitivamente a letto, e io e mia moglie fummo finalmente
soli e pronti a litigare sul divano del soggiorno, la gestante venne fuori dal cappello e
arrivò, ondulando il suo grasso impudico pancino, a sdraiarsi ai nostri piedi.
« Svergognata!», le dissi.
«Non essere così conformista», disse mia moglie. . «Di questi tempi bisogna essere
più tolleranti»
«E chissà chi è il padre, poi!» dissi.
Mia moglie alzò le spalle: «È la madre che conta», mi informò. «Il padre non ha
nessuna importanza» Stortò la testa e prese un'aria sognante. «Scommetto che è un bel
gattone randagio valsoldese. Chissà che gattini in gamba avremo».
«Avremo?», dissi. Era ora di chiarire alcuni punti. «Non penserai per caso che io
voglia tenermi in casa anche i gattini? ».
«E tu non penserai per caso che io ti permetta di eliminare anche i gattini!», disse,
come se in vita mia non avessi fatto altro che eliminare bestie innocenti. E magari
persone: da come mi guardava, lo si sarebbe detto. Tengo perciò a precisare che io non
ho mai eliminato chicchessia. Tranne uno scarafaggio una volta: per ordine suo.
Ma questi gattini li avrei eliminati. Con o senza il suo permesso. Non fosse altro
che per stabilire la mia autorità.
«Stammi bene a sentire!», dissi forte. Al suono della mia voce, la gattina tirò su la
testa e mi fissò coi suoi occhioni gialli. È a me che parli?
«Avanti, diglielo», mi sfidò mia moglie. «Diglielo quello che vuoi fare, se ne sei
capace».
Be', non lo fui. Nella mia testa sentivo, assurdamente, la voce del nostro vecchio
amico Mister John, quello vero: Io niente piccoli figli. Io niente radici: strappate tanto tempo fa,
zac, come un dente. Molto male. Non so proprio cosa c'entrasse. Anche se portava il suo
nome, questo era un gatto, anzi una gatta, e non c'entrava proprio niente. Eppure io
adesso vedevo quei gatti che sarebbero nati, tutti coi baffi e gli occhioni gialli e il sorriso
sornione, tanti piccolissimi e inermi misterjohns, e a un tratto i miei sistemi per eliminarli
mi apparivano tutti mostruosi. Ma sono bestie!, continuavo a dirmi. Bestie, solo bestie, figli
illegittimi di bestia. Non serviva.
La gattina continuava a guardarmi. Col suo nastrone turchese e il suo grasso
misterioso pancino, mi guardava e aspettava.
«Avanti, diglielo», disse mia moglie. Adesso la sua voce era dolce. «Diglielo,
bisnonno»
«Sta' a sentire!», dissi puntando un dito contro la gestante. «Che non siano più di
tre, capito?»
La svergognata si mise a rotolarsi sul tappeto, prrrando come una matta, e la festa
fu completa.
Ma durò poco. Molto poco.
Stavamo ancora giocando sul tappeto, io, mia moglie e la gatta, quando la Rosa.
apparve sulla soglia: «Signora-la-porta-sta-aprita», annunciò.
«Che porta, che aprita», chiese mia moglie distratta.
«La-porta-per-eschire», disse la Rosa. «Signore-l'hai-aprita-tu?»
«Io non ho aprito niente», dissi.
«Saranno stati i bambini», le disse mia moglie. «Chiudila e ciao»
«Lori-apriscono-e-io-devi-chiudere», si lamentò la Rosa allontanandosi verso
l'anticamera.
«Il suo nuovo garzone di lattaio dev'essere un tipo sovversivo», disse mia moglie.
Districò i capelli dalle zampe della John e la mise a terra: «E adesso è ora che te ne vai a
cuccia. E anche noi» Si alzò e si guardò intorno: «Dov'è il Bu?», disse.
Per tutto il giorno non ci eravamo occupati di lui. «Bu!», chiamò mia moglie.
Silenzio. «Dev'essere offeso», disse con rimorso. «Dimenticarmi di lui in questo modo...».
La sentii girare per la casa chiamandolo a mezza voce: «Bu... Bu....», poi più forte, in tono
imperioso: « Bu! Vieni subito qua!», poi teneramente: «Bu... caro stupido santo cane della
padrona, dove sei?»
Niente. I figli vennero fuori, assonnati e interrogativi nei loro pigiami a righe. La
John ci seguì nelle ricerche, e fu proprio lei a indicarci la strada, mettendosi a grattare e a
soffiare come un'indemoniata davanti alla porta d'ingresso.
«Sta a vedere», disse mia moglie, «che s'è ritirato sull'Aventino».
L'aveva fatto altre volte, quando era geloso, oppure offeso per motivi suoi privati,
di andare a ritirarsi sul'Aventino: che in Valsolda era la scaletta a lago, e a Milano il
pianerottolo.
Ma stavolta sul pianerottolo non c'era. Lo trovammo, guidati dalla John, due piani
più sotto: rannicchiato contro la porta chiusa di un appartamento vuoto, come se
dormisse. Ma non dormiva. Respirava affrettatamente, con un lieve patetico rantolo ogni
volta. Il suo sguardo mi ricordò quello del mio cavallo Bollo - il. più fedele compagno
che io abbia avuto in Croazia - quando si prese nei polmoni una pallottola destinata a
me. Anche il respiro era lo stesso.
«Bu! » chiamò mia moglie inginocchiandosi vicino a lui. «Bu, che cos'hai»?
Al suono della voce amata il Bu tentò di muovere la coda - e si vedeva quale
terribile sforzo dovesse costargli - ma non ci riuscì. I suoi occhi velati guardavano la
Padrona come se volessero chiederle scusa. Mia moglie appoggiò la guancia contro il
pelo arruffato. «Bu», mormorò con dolore, «caro vecchio Bu della padrona, cosa ti è
successo... »
Con un altro terribile sforzo, che gli costò un rantolo profondo, il Bu volle
leccarle la mano, ma ci riuscì a metà. I suoi occhi continuavano a chiedere scusa. Scusa di
essere malato; scusa di essere lì, scusa, di non riuscire a leccarle la mano. Stava male da
morire; lo vedevamo e lo sentivamo. Ecco perché se n'era andato così. Per non essere di
disturbo, per non rattristarci, per non guastarci la festa. E noi non ce n'eravamo accorti.
Con estrema delicatezza mia moglie lo prese tra le braccia - un grosso gomitolo
tremante e derelitto - e lo portò di sopra, gradino per gradino, mormorandogli parole
che lui solo poteva sentire: se ancora poteva. I figli la seguirono in silenzio: di nuovo
l'ombra del dolore si allungava davanti ai loro passi avvezzi alla gioia.
Ma era solo un cane, dopo tutto!, direte voi. Sì, era solo un cane. Lo dissi anch'io
molte volte nei giorni che seguirono. Solo un cane.
Ma se voi non sapete che cosa possa essere un cane, un caro fedele generoso
vecchio cane cresciuto coi vostri figli, fate a meno di leggere quel che segue. Grazie.
Il veterinario si rialzò e scosse la testa. « Povera bestia », disse. Nessuno di noi
parlò. Mia moglie continuò a carezzare il Bu senza alzare la testa. Il veterinario pensò che
non avessimo capito bene:
«Non c'è più niente da fare», spiegò. «Può durare un giorno o una settimana, ma è
spacciato».
La Bruna corse via dalla stanza. Pop si voltò verso il muro a guardare qualcosa che
non c'era. La piccola infilò la manina nella mia: «Cofa vuol dire fpacciato?» sussurrò. Le
strinsi la mano senza rispondere, e lei capì. Le lacrime le rotolarono giù per le guance e
caddero sul tappeto dell'Armen.
Mia moglie continuò a carezzare il Bu.
«Io voglio curarlo», disse con voce chiara.
«Spenderebbe un mucchio di soldi e di fatica» disse il veterinario, simpatizzante
ma pratico, «e solo per farlo campare qualche giorno in più».
Questa volta mia moglie alzò la testa. I suoi occhi erano asciutti e ostinati. «Io lo
curo», disse.
Il veterinario si strinse nelle spalle. «Come vuole». Mentre scriveva le ricette e
diceva quel che c'era da fare, mia moglie continuò a tenere la mano sulla schiena del Bu,
e lui sollevò con fatica le palpebre. Forse non la vedeva, ma la sentiva. Lo sforzo che gli
costò farglielo capire mi obbligò a voltarmi verso il muro come Pop. È solo un cane,
pensai. Ma non serviva.
Continuai a pensarlo, e continuò a non servire, nei giorni che seguirono. Mia
moglie combatteva la sua battaglia con quell'ostinazione e quel silenzioso accanimento
che sono le sue caratteristiche nei momenti brutti. Gli faceva lei l'iniezione quotidiana di
antibiotici, passava delle mezz'ore inginocchiata davanti a lui per cercare di fargli
inghiottire una pastiglia o versargli in bocca, goccia a goccia, un cucchiaio di medicina; il
più delle volte il Bu tossiva, rantolava e rimetteva fuori tutto, e bisognava ricominciare.
Scusami, Padrona, dicevano gli occhi appannati. Scusa il disturbo. Non so chi dei due
mi stringesse di più il cuore. Tante volte sperai che lei si mettesse a piangere, per potermi
sfogare sgridandola: "Non facciamo i bambini, non facciamo! Piangere per un cane!". Ma
lei non pianse mai; e io sono contento, adesso, di non averla sgridata.
Nessuno piangeva: ognuno di noi continuava a vivere la sua vita normale, mia
moglie scriveva, io andavo in ufficio, i bambini studiavano e giocavano, la Rosa lavava e
rompeva piatti, ma tutto era come in sordina, tutto come in penombra, come se sulle
nostre voci e i nostri passi e perfino sui giochi dei figli pesasse quella triste ombra scura.
Perfino la John, che in principio si avvicinava al Bu per invitarlo a giocare,
mordicchiandogli la coda e tentandolo con la zampina, visti inutili i suoi approcci aveva
preso l'abitudine di acciambellarsi sulla stuoia poco lontano dalla cuccia e passare li quasi
tutto il giorno, col suo pancino sempre più grasso e un'aria triste. Ma nessuno si curava
di lei.
Le prime parole che dicevano i figli appena aprivano gli occhi al mattino e appena
tornavano da scuola erano sempre le stesse: «Come sta il Bu?» Le stesse che avrei voluto
dire io ogni volta che telefonavo a casa dall'ufficio: ma non le dicevo. Non so se per
pudore virile o per vigliaccheria. «Pronto, sono io», dicevo soltanto. «È ancora vivo»,
rispondeva con dolcezza mia moglie. E cambiava discorso.
«Gamberini!», mi chiamava ogni tanto il Capo. «Ha forse mal di denti? O che
cos'altro? »
Il mio cane sta male, pensavo. Il nostro caro, fedele, buffo vecchio cane sta morendo. Ma non
mi sentivo di dirlo. "È solo un cane", mi avrebbe risposto. Non l'avrei sopportato.
«Non ho niente», rispondevo.
Passò così una settimana: o settima, come la chiamava il veterinario. «È già un
miracolo se supera la settima», diceva. E fu proprio allo scadere della settima, un sabato
sera, che la zia Carlotta ebbe la felice idea di autoinvitarsi a cena.
La zia Carlotta, non so se vi ricordate, è la zia nubile di mia moglie: grassa,
pessimista, fornita di un'età critica a prova di bomba, ha parecchi soldi e nessuna voglia
di spenderli; vive sola, ma è solita consumare almeno uno dei suoi pasti gratis, da
qualcuno dei suoi nipoti. Che per fortuna sono molti. Ma i preferiti siamo noi: non so
proprio perché, dato che a sentir lei io sono un bruto, un pericoloso maniaco, un
raffinato torturatore di zie, ma tant'è: forse si tratta di una forma di sadismo: se non la
invita mia moglie, si invita da sé. E le cose si svolgono sempre, dico sempre, nello stesso
modo. Arriva, si siede, si serve generosamente, e mangiando a quattro palmenti comincia
a lamentarsi della sua inappetenza, a illustrare con dovizia di particolari i suoi disturbi
digestivi, a zittire i bambini, a strapazzare la Rosa, a criticare gli acquisti, le idee, i
romanzi, i sistemi educativi di mia moglie, e in quanto a me evita di rivolgermi
direttamente la parola, ma lascia chiaramente intendere come la sua disapprovazione e il
suo disprezzo si estendano ai miei antenati fino alla terza generazione. Cosicché, persa la
pazienza e l'appetito, io aspetto che tiri il fiato per esternarle, con chiarezza e concisione,
le mie opinioni su di lei e sulle sue visite; lei si offende, si alza sdegnata (non prima di
aver finito di mangiare, comunque) e se ne va dicendo: «Non metterò mai più piede in
questa casa» infatti la settimana dopo è di nuovo lì. Mia moglie gliele dà tutte vinte.
«Poverina, mi fa tanta pietà», dice per rabbonirmi. «Pensa che brutto essere vecchie e
zitelle e grasse e bisbetiche e malsopportate da tutti». Sarà bruttissimo: ma io che colpa
ce n'ho? Annosa questione: sorvoliamo e veniamo a quella sera.
Col Bu in quello stato, avevamo fatto di tutto per impedirle di venire. Niente:
venne lo stesso. Ma le cose, stavolta, ebbero uno svolgimento inconsueto. Durante la
cena la zia Carlotta poté dedicarsi in lungo e in largo alla sua critica distruttiva, senza che
nessuno tentasse di interromperla. Il Bu quel giorno non era riuscito a prendere la
medicina. Con una vecchia coperta scozzese avvolta intorno al corpo magro e stremato,
se ne stava immobile nella cuccia sotto la scrivania di mia moglie, e pareva ormai del
tutto insensibile. Solo quando la Padrona si allontanava, la seguiva con gli occhi velati,
senza muovere il muso, e sembrava ogni volta che le dicesse addio. È già un miracolo se
supererà la settima: a questo pensavamo, tutti quanti, e l'acido vaniloquio della zia Carlotta
passava su di noi come un ronzio qualsiasi. Io non la contraddissi neanche una volta.
Anzi, credo di averle detto ogni tanto: «Eh già, sicuro, hai ragione». La zia Carlotta
appariva sempre più disorientata e inquieta: per la mia inusitata accondiscendenza, si
capisce, non già per la salute del Bu, che non le passava neanche per la testa. Per lei il Bu
era sempre stato un quadrupede fastidioso, che era stato preso in casa da noi al solo
scopo di farla inciampare e romperle le calze. Sapeva che era malato, ma si guardava
bene dal chiederne notizie. Il suo sguardo perplesso fece di nuovo il giro delle nostre
facce e si fermò su quella di mia moglie:
«Guarda come ti sei conciata a smettere di fumare!», blaterò. Per circa vent'anni
ho sentito la zia Carlotta bollare con parole di fuoco il Vizio di mia moglie, vaticinarle
morte prematura e sottintesa dannazione eterna se non avesse smesso di fumare. E
adesso: «Guarda lì che faccia che hai! Quando si fa un lavoro come il tuo, non si può
smettere di fumare di colpo, lo vuoi capire? Sarebbe meglio che smettesse quello lì, che
tanto il cervello non lo adopera. Ma mi senti o non mi senti? Si può sapere cosa diavolo
hai? »
Senza una parola, mia moglie si alzò e se ne andò da tavola. Sempre più perplessa,
e quindi più bellicosa, la zia Carlotta le andò dietro. Io pure.
Vidi mia moglie inginocchiarsi davanti al Bu e tentare per l'ennesima volta, con
quella sua patetica, irriducibile ostinazione, di fargli inghiottire la medicina.
La zia si fermò alle sue spalle, borbottando tra sé, poi proruppe:
«Ma guarda se devi fare questa vita da cani per un cane! Adesso capisco perché sei
così stralunata! Per il cane! Ma cosa vuoi, ammalarti tu per lui? E guarda le medicine,
chissà quanto avete speso! Roba da matti. È un cane, non un cristiano! E poi non vedi
che è andato?».
Mia moglie non alzò la testa. Sentii la sua voce, troppo calma:
«Va' via» ..
La zia Carlotta, che è un po' sorda, non la sentì. Io tentai di avvertirla del pericolo
toccandole il gomito, ma lei mi respinse come un insetto, continuando imperterrita: «Lo
vede anche un cieco che è già mezzo morto, non so che cosa aspetti a...».
Mia moglie girò la testa. «Vattene!», la sua voce, di solito così gaia e indulgente, era
quasi irriconoscibile. «Non voglio più vederti, capito?».
La zia Carlotta aprì la bocca, ma nessun suono ne uscì. Era abituata a litigare con
me, non con lei. Con un'aria più sbalordita che offesa arretrò verso la porta sbattendo le
palpebre. Senza più degnarla di uno sguardo, mia moglie tornò a occuparsi del Bu.
Mentre l'accompagnavo in anticamera, la zia Carlotta continuava a sbattere le palpebre.
«Io non ho mai avuto cani», disse a un tratto sottovoce. «Né bambini, né cani.
Io...». Si interruppe, e a un tratto io, io che vivevo in una casa dove tutti amavano senza
risparmio - le persone, le bestie e perfino le cose - sentii una brusca pietà per lei.
Dev'essere ben brutto non amare nessuno, pensai. Certo, si soffre meno. Ma dev'essere
bruttissimo.
«Mi dispiace di aver detto così», mormorò la zia Carlotta, e io sorpresi me stesso a
fare pat-pat su quella vecchia faccia bisbetica.
«Su, su». le dissi. Per la prima, e certo ultima volta nella vita, ero io che consolavo
la zia Carlotta.
«Mi ha fatto pena», dissi poi a mia moglie mentre ci disponevamo ad andare a
letto. «Dovresti telefonarle, poveretta»
Mia moglie finse di non sentire: o non sentì davvero. Continuò a camminare per la
stanza sistemando cose che non avevano nessun bisogno di essere sistemate, e non
rispose. Il Bu era sempre immobile nella sua cuccia sotto la scrivania: da ore, ormai. Non
aveva neppure più quel rantolo lieve che era da giorni il suo respiro; si capiva che era
ancora vivo solo perché la frangia della coperta in cui era avvolto tremolava
impercettibilmente.
«Non ha preso la medicina», disse mia moglie con una voce tutta uguale. «Aveva
ragione il veterinario. Dovevo lasciarlo morire subito, avrebbe sofferto meno»
«Sei stanca», le dissi: non trovavo altro. «Vieni a dormire».
«Sì», lei disse, docilmente. Si avvicinò ancora una volta alla cuccia, si inginocchiò
davanti al Bu. «Non ti tormenterò più, vecchio, disse sottovoce. Gli appoggiò la mano
sulla testa, e capii che gli stava dicendo addio. E in quel momento, mentre lei ritirava
adagio la mano da quel grosso gomitolo nero e insensibile che era stato il suo amico,
sentimmo un breve, sommesso grrrou. Sebbene debole e attutito, lo riconoscemmo: era il
verso di protesta del Bu quando qualcuno lo scocciava nel sonno. La mano di mia
moglie si immobilizzò. Poi, quasi con timore, scese a carezzargli il muso. Senza aprire gli
occhi, il Bu la annusò e le diede una debole leccata.
«Dino.. », chiamò piano mia moglie. Non osava quasi muoversi.
Dovetti intervenire io. Scostai decisamente la coperta dal corpo del Bu e cominciai
a tastarlo in lungo e in largo come avevo visto fare al veterinario.
«Grrrrou . », disse il Bu a mezza voce, senza muoversi. «Chi è che mi scoccia?»
«Mi venga un colpo!», dissi. «Questo dorme della grossa, altro che coma!».
Ancora incredula, mia moglie appoggiò la guancia sulla schiena di Bu,
chiamandolo ansiosamente per nome.
Il Bu apri un occhio, poi l'altro. La vide, la senti. Uggiolò piano, teneramente,
mentre il codino sbucava fuori dalle frange della coperta. Ciao Padrona. Sto bene. Ho sonno.
Ciao. Le leccò la faccia, sbadigliò da scardinarsi le mascelle e richiuse gli occhi. Scusarmi,
ho sonno. Non c'erano più dubbi. Con la faccia sulla sua schiena pelosa, mia moglie si
mise vergognosamente a piangere, e io potei finalmente sgridarla.
Sgridai lei e sgridai i figli, accorsi a mescolare le loro lacrime di tripudio a quelle
della fanatica:
«Ma finiamola! Piangere per un cane che guarisce! Tutti a letto! Non diventiamo
ridicoli!» Prima di ritirarsi coi fratelli, la figlia piccola mi venne vicino e mi porse
furtivamente il fazzoletto: «Afciugati gli occhi, ridicolo», disse.
La domenica mattina, uscito finalmente dal suo lungo sonno riparatore, il Bu
aveva un'aria arzilla, si guardava intorno, agitava con grande impegno lingua e codino, e
pretendeva pure di fare lo spiritoso, camminando con le gambe che gli si piegavano di
sotto come a un ubriaco e abbaiando con una voce chioccia. I figli si rotolavano dal
ridere e lui si sentiva molto intelligente.
«Fa cuccia, miracolato», gli disse infine mia moglie. «Non vedi che non hai
neanche la forza di fiatare?» Lo prese in braccio, con la coperta e tutto, e lo depositò al
posto d'onore sul tappeto dell'Armen. «Buono qui, intanto che noi facciamo colazione.
Aspetta che ti porto la John per compagnia». Sbarrò gli occhi, battendosi la mano sulla
fronte: «La John! Dov'è la John?» Nessuno lo sapeva, nessuno l'aveva vista da giorni. Ce
n'eravamo dimenticati.
«Sarà a dormire nel mio cappello, quella testona», disse mia moglie avviandosi di
corsa. «Giomi celesti!» la sentimmo invocare subito dopo.
La John dormiva proprio nel cappello. E sotto di lei dormivano, serafici, tre
gattini. Uno bianco, uno nero, uno a righe. Aveva fatto tutto da sola: senza chiedere
l'aiuto di nessuno. Senza neanche chiamarci a vedere: come se avesse capito di essere
molto poco importante, lei coi suoi gattini, di fronte alla malattia del Bu.
Era una gattina in gamba: io l'avevo sempre saputo. Alle grida d'estasi della
famiglia, la puerpera si svegliò, sollevò il musetto sornione a guardarci, diede una
leccatina ai suoi piccoli e tornò a guardarci. Cosa ne dite? Sono o non sono belli? Erano
bellissimi: lucidi, morbidi, coi baffi e gli occhioni, tre piccoli mister-johns assonnati e
gnaolanti.
«Fono mafchietti o bambine?», chiese la piccola. Lo chiedeva a me, ritenendomi
evidentemente il tecnico della faccenda. «Come li mettiamo i naftri fulla porta, azzurri o rofa?»
«Meglio metterli bianchi», dissi. «A scanso di equivoci».
Mentre, col permesso della puerpera, depositavamo i neonati sul nostro letto per
una più approfondita conoscenza reciproca, sulla soglia comparve il Bu traballante e
incerto, trascinandosi dietro la sua coperta scozzese come un fantasma trascina il
lenzuolo. Si fermò a guardare la scena da una certa distanza. II suo muso era un grosso
punto interrogativo. Per rispondere al quale, la neo-madre prese delicatamente per la
collottola i neofigli, e glieli allineò davanti, uno per uno. Gnaolavano tutti da matti. Il Bu
fece un passo indietro. Il punto interrogativo si era corredato di almeno tre punti
esclamativi.
«Buf », disse, senza compromettersi.
«Miao», disse la John, incoraggiante. Eh, quanto è duro di comprendonio 'sto bestione.
Con delle piccole tenere musate, gli spinse vicino i tre gattini che si dimenavano come
vermiciattoli. Il Bu li annusò con cautela, sternutì, li annusò di nuovo. Infine tese
goffamente verso di loro la zampona smagrita, e quelli cominciarono a dargli la scalata
che parevano lillipuziani intorno a Gulliver. «Buf, buf», borbottava lui, burbero e paziente.
La John, accucciata al suo fianco, prrrrava che pareva un elicottero.
Guardate, io non so come dirlo: ma era una cosa molto commovente. Voi direte
che sono tocco. Va bene, d'accordo, lo sono. Venite un giorno in casa mia e diventate
tocchi anche voi. Passai il pomeriggio sul tappeto in un miscuglio di bestie, di figli e di
moglie, sentendomi patriarca al completo.
«Guardate che faccia ha vostro padre», disse a un certo punto mia moglie « Pare
che li abbia fatti lui i gattini» Mi sorrise «Sei contento, bisnonno?»
Allargai le braccia. Un cane miracolato e tre gattini appena nati. Cosa potevo
essere se non contento? Tocco e contento.
«Allora», disse mia moglie, « va' a telefonare alla zia Carlotta. Che il Bu è guarito.
Che sono nati tre gattini. E che l'aspettiamo a pranzo stasera »
E così fu che, per la prima e certo ultima volta nella vita, invitai personalmente la
zia Carlotta: e volentieri, anche. Tocco proprio.
ARIA DI VIGILIA

Due parole alla svelta perché il tempo stringe. Sono in ufficio, il Capo blatera
senza tregua contro le insidie della stagione e dei programmi televisivi, mia moglie mi
aspetta all'uscita con un carosello di commissioni da fare, e io sono molto nervoso. Sì, lo
so, manca ancora una settimana a Natale, ma che cos'è una settimana?
Non so in casa vostra, ma in casa mia la vigilia di Natale, con relativa atmosfera,
comincia generalmente verso la metà di novembre. Quest'anno invece, con la malattia di
mia moglie, la rinuncia al fumo, il malanno del Bu, la nascita dei gattini, abbiamo perso la
nozione del tempo. E quando l'abbiamo ripresa, ci siamo trovati con Natale alle porte e
tutto ancora da fare. Tutto cosa? dite voi. Tutto! Progetti e contro-progetti. Prenotazioni
ed equipaggiamento per l'agognata parentesi sciistica che ci aspetta ogni anno a Bormio,
da Santo Stefano all'Epifania. Scelta, studio e composizione dei manicaretti da portare
come contributo-mangiatoria al fatidico pranzone (27 convitati di cui 15 bambini) che ci
aspetta a Natale in casa del fratello primogenito di mia moglie. E poi il presepio. L'albero
di Natale. Le decorazioni. I regali. Le sorprese (ognuno di noi deve fare almeno una
sorpresa a ognuno degli altri quattro). E le lettere al Gesù Bambino; l'unica in casa nostra
che creda ancora che i regali li porti Gesù Bambino è la piccola, ma le lettere le scriviamo
tutti: la piccola le raccoglie, le imbusta, le sigilla leccandole devotamente, e le consegna
con solennità alla madre, che è l'incaricata dei rapporti post-telegrafonici col Cielo. (E
che adesso, mentre viene ad aspettarmi all'uscita, le ha tutte raccolte nella borsetta, come
promemoria per i nostri acquisti).
A tutto questo aggiungete una serie di circostanze straordinarie che
contribuiscono a rendere particolarmente eccitata e camaleontica questa nostra vigilia:
1) La seconda giovinezza, anzi direi la seconda adolescenza, di mia moglie. La
quale, da quando ha smesso di fumare, è ingrassata un numero imprecisato di etti,
raggiungendo il favoloso peso di chilogrammi quarantaquattro. E se a voi sembrano
pochi, vuol dire che non conoscete mia moglie. Infatti tutti quanti la conoscono,
incontrandola, spalancano gli occhi e levano alte grida di meraviglia: «Oh! Come sei
ingrassata! Come stai bene! Sei ringiovanita! Sembri un'altra! ». A me, non so come sia,
sembra sempre la stessa. Ma forse io ho degli occhi speciali: potrebbe diventare obesa o
scheletrica, decrepita o neonata, per me sarebbe sempre quella: la ragazzetta con un
venerdì di meno che ho incontrato sulle scale dell'università. Sempre la stessa. Ma lei,
figurarsi, a sentirsi dire che è ringiovanita si ringalluzzisce tutta e chi la tiene più? Mangia
come un lupo, canta come un'allodola, dorme come una talpa, corre a pesarsi un giorno
sì e uno no, e a ogni etto conquistato si dà alla pazza gioia. In questi ultimi dieci giorni si
è comprata non so quanti calzoni e maglioncini (quelli comprati il mese scorso sono
diventati troppo stretti, dice, e poi tutti turchese, sempre turchese, che barba il turchese);
più un vestito da cocktail che non si metterà mai, perché chi ci va ai cocktail? Noi no.
Comunque il vestito c'è: caso mai. Poi ha adottato una nuova pettinatura, soffice
vaporosa e dernier-cri, che ha suscitato la sfrenata ilarità della Rosa ("signora-quanto-stai-
da-ridere"), l'ammirazione della figlia grande ("oh mamma che celeste che sei"), la
disapprovazione dei figli piccoli ("ma come stai maaaaaaale, non vedi come sembri
giovane?"), e da parte mia niente, perché se non me lo diceva lei che aveva cambiato
pettinatura, manco me ne accorgevo. Poi ha comprato: sette creme di bellezza, una cipria
miracolosa, due rossetti specialissimi, un paio di orecchini strampalati, una collana
balenga, salvo poi dimenticarsi il tutto subito dopo, rotolare col vestito bello sul tappeto
in mezzo alla polvere e alle unghie dei gatti, farsi strappare la collana dalla John, farsi
leccare via la cipria dal Bu, rompersi gli occhiali giocando coi figli, smagliarsi una calza al
secondo, tirarsi i capelli a foresta vergine quando lavora, e via dicendo. Tutto come
prima: come volevasi dimostrare.
2) Il pallino dell'hula-hoop: in virtù del quale, a qualsiasi ora entriate in casa mia in
questi giorni, potete essere certi di trovare un membro della famiglia che, spostati
opportunamente i mobili, si fa vorticare intorno ai fianchi, con movimenti ondulatori ed
espressione concentrata, un cerchio di plastica, mentre gli altri membri (Rosa compresa)
aspettando il proprio turno cronometrano i tempi. Il record lo detiene la figlia piccola.
Seconda viene la compagna della mia vita: la quale, pur non potendo competere con la
figlia piccola come tempo (il romanzo in corso e il terrore di perdere un grammo di peso
glielo impediscono), si esibisce in compenso in una serie di virtuosismi che manda in
estasi la Rosa ("signora-quanto-stai-crobatica"), riempie di orgoglio i figli piccoli (una madre
scrittrice è una cosa passabile, ma una madre virtuosa di hula-hoop è molto meglio) e fa
crepare d'invidia la figlia grande, la quale, pur essendo la responsabile dell'entrata in casa
del dannato cerchio (tutti i tizietti ce l'hanno), non è mai riuscita a tenerselo su per più di
venti secondi. «Perché sei pigra», le ha detto ieri l'attivissima madre. «Tu e la tua
stupidissima generazione di nati stanchi. Pretendete di avere tutto senza fatica. Eh, cara
mia, per ottenere le cose, nella vita, bisogna lottare» «Lottare per l'hula-hoop» ho detto.
«Che nobile traguardo» La pazzoide mi ha dato un'occhiata, poi ha guardato il soffitto:
«Quando non è capace di fare qualcosa», ha detto ondulando il cerchio in modo
provocatorio, «questo prende la piega sarcastica. Tutta invidia». Non mi sono degnato di
risponderle. Mi sono allenato nottetempo e stasera le faccio vedere io.
3) Il. rintontimento scolastico del figlio. Non voglio dire che durante il resto
dell'anno non sia tonto, voglio solo dire che sotto Natale si aggrava. Porta a casa un
brutto voto dietro l'altro; e quando dico brutto, intendo veramente brutto. Nell'ultimo
esperimento di latino ha preso Incredibile. Non Inclassificabile, come si usava ai miei tempi,
addirittura Incredibile: con due punti esclamativi. E credete che se ne dia per inteso? Mai
più. Che cos'è un Incredibile in confronto all'eternità e ai razzi che lui avrà in regalo a
Natale? Niente può scuotere la sua estasi prenatalizia. Se gli chiedete: «Che cos'avete
fatto a scuola oggi?», vi risponde per esempio: «Abbiamo fatto a chi sputa più lontano».
Per lui quello che conta, a scuola, non è quello che si fa durante le lezioni, ma quello che
si fa negli intervalli o all'uscita: quello solo è degno di attenzione e di ricordo. E se
insistete, come ho voluto fare io ieri: «Che cos'avete fatto nell'ora di latino?», «Latino?»,
dice, come se si trattasse di parola poco nota e comunque non pertinente. «Latino... Ah
si!», s'illumina stile lampadina: «Siccome la professoressa è un po' sorda e non sente mai
la campana, oggi quando è suonata ci siamo messi tutti a gridare: "Signora professoressa,
è suonata! è suonata!"», e si butta via dal ridere al ricordo di questo raffinatissimo doppio
senso da scuola media. Sua madre, essendo suonata più della professoressa e forse anche
della campana, gli fa il coro, e io col coraggio della disperazione insisto: «Voti non ne hai
presi?» «Voti?» dice lui: altra parola poco nota. «Ah sì, ho preso tre in matematica» Cosa
dovrei fare? Io urlo. Urlo per mezz'ora come dieci padri che urlano, e per mezz'ora lui fa
gli occhi lunghi e tira su col naso, triturando il cuore materno. E appena ho finito di
urlare, ricomincia a pensare ai razzi e al Natale. «Maturerà» dice sua madre. Del che
dubito: lei non è ancora maturata adesso.
4) Tre gattini neonati furbissimi e onnipresenti, di nome Miò, Miù, Mià, che fanno
le corride sul tavolo apparecchiato, prendono d'assalto i peluches e il Bu, si arrampicano
su per le tende e i calzoni, gnaolano e imperversano, ognuno con un enorme fiocco
frusciante al collo, al quale fiocco frusciante è attaccato un campanellino squillante,
cosicché la nostra casa, già echeggiante dei dischi negri della figlia grande, dei monologhi
in effe della piccola, dei razzi più o meno partenti del medio, degli scrosci di vasellame
della Rosa, degliXxXx di mia moglie, e dell'inquilino di sotto che batte nel soffitto con la
scopa, si è arricchita di un argenteo, ilare, perpetuo scampanio che fa molto vigilia di
Natale, ma fa anche testa a pallone del sottoscritto.
5) Partenza della Rosa, che è andata a passare feste e dintorni da "una-cugina-mia-
che-sta-signora-coi-conigli-e-il-figlio-semanfrista". Pensavamo che si trattasse di un addetto ai
semafori (le professioni dei parenti della Rosa sono infinite come le vie della
Provvidenza), ma dopo lunghi equivochi e circoli viziosi, abbiamo appreso trattarsi
invece di un seminarista. E i conigli cosa c'entrano? «Certi-entrano-e-certi-eschino», fu la
pronta risposta: «stanno signori». I cugini? I conigli? I semafristi? Non saprei dirvelo:
abbiamo rinunciato a indagare per non perderci in qualche vicolo cieco sintattico col
parentado della Rosa. È partita ieri, e che Dio l'abbia in gloria. Così mia moglie, oltre al
romanzo in corso, ai preparativi natalizi, ai figli, alle bestie e all'hula-hoop, ha anche tutte
le faccende di casa da fare al completo.
6) La Vecchia in riparazione: bisogna che sia in forma per portarci fino a Bormio,
e non è una faccenda semplice: pare che non esistano più pezzi di ricambio di tale
vetusta data. Così siamo appiedati da una settimana: proprio in questi giorni di spese.
Stasera poi, quando penso a tutte le cose che mia moglie vuole comprare, a tutti i pacchi
che dovrò portare e a tutti i taxi che non riusciremo a trovare...
«Gamberini!», dice la voce del Capo. Sono in ufficio, se vi ricordate. «Perché è cosi
nervoso? Per via del tempo, io credo». Per il mio Capo le condizioni atmosferiche sono
un fattore di importanza basilare nella vita di un uomo perbene. «Eh, il tempo...»,
sospira.. «Non si può star bene con questo tempo. Con questo clima micidiale». Guarda
fuori e sussulta: «Ma non sta mica nevicando? Proprio oggi che ho l'ombrello buono!» Il
Capo ha tre ombrelli: uno bello, da portarsi per ornamento quando il cielo è sicuramente
sereno; uno medio, da portarsi quando il tempo è incerto; uno brutto, da portarsi
quando piove o nevica. Oggi s'è portato imprudentemente quello bello, ed è tutto il
giorno che scruta in ansia l'orizzonte. «E non ho neanche le galoches!», geme. Il Capo deve
essere uno degli ultimi esemplari umani che portano ancora le galoches. Si alza e si
avvicina alla finestra, strizzando gli occhi miopi: «Ah no, è nebbia, solo nebbia... Neve
niente». Ma non è contento lo stesso: il Capo non è mai contento del tempo che fa, lo
sarebbe solo di quello che non fa. «Niente neve!», ripete amareggiato. «Che razza di
Natale è un Natale senza neve? Mi ricordo ai miei tempi... Neanche la neve a Natale,
abbiamo più». Scuote la testa, sospira. «Beati quelli che possono andare a cercarla in
montagna».
«Io ci vado, infatti», dico, cogliendo la palla al balzo. «Vado a Bormio».
«Quando?», dice. «Il giorno di Natale?
«No», dico «Il giorno di Santo Stefano: e ci resto fino all'Epifania»
«Erro», dice, «o lei ha già consumato tutte le sue ferie, più qualche giorno extra,
durante l'estate?».
«Non erra», dico. «Però me ne serve un altro pezzetto». Mi sembra di sentire un
disco, che si ripete tutti gli anni. «Mi bastano dieci giorni», dico. «Caso mai me li farò poi
detrarre dalle ferie dell'estate prossima»
«Uhm», dice il Capo. Anche questo fa parte del disco. «Ci vengono anche sua
moglie e i bambini in montagna?»
Che domande. «Si capisce», dico. «E anche il cane. Sono convalescenti, mia moglie
e il cane, e il dottore ha ordinato loro almeno dieci giorni filati di montagna e di sci»
Ve lo immaginate il Bu con la giacca a vento e gli sci austriaci? Forse anche il
Capo se lo immagina, perché sorride. Per contrasto, i suoi occhi diventano più tristi.
Torna a voltarsi verso la finestra, guardando fuori nella nebbia, e a un tratto io vedo -
come lui - la sua casa vuota, il ritratto della mamma sul muro, e i tre ombrelli e le galoches
e gli echi dell'allegria altrui sul suo Natale solitario: oh, accidenti! Vorrei sapere perché
devo prendermela. Mica ce n'ho colpa io se lui non ha trovato moglie e io sì.
Lui continua a guardare fuori dalla finestra. «C'è sua moglie là di fronte», dice a un
tratto. Con un mucchio di pacchetti in mano: sarà meglio che vada ad aiutarla».
«Non sono ancora le sei », dico timidamente.
«Gamberini!», dice con una voce irritata, senza voltarsi. «Ha sentito cos'ho detto?
Si tolga dai piedi» Dovrei dirgli grazie. O che cos'altro? Non gli dico niente.
Esco, e lei è là sul marciapiedi di fronte, con la sua aria svanita e i pacchetti che le
cascano da tutte le parti. Ne raccoglie uno ne perde tre. Suonata! Guarda che moglie mi
tocca avere. Mi chiedo se esista al mondo un'altra donna capace di intenerire tanto un
uomo proprio nello stesso momento in cui lo manda fuori dai gangheri. Doveva capitare
proprio a me. Tra noi c'è il fiume di macchine serali di piazza Scala: lo guado schizzando
tra un parafango e l'altro per raggiungerla più in fretta. È senza occhiali - certo li ha rotti
- e non si accorge di me se non quando la prendo per il braccio. Allora fa un balzo di un
metro.
« Eh!» ., protesta. «Potresti almeno avvertire, quando arrivi »
« Un'altra volta mi metterò il clacson», dico. La scarico energicamente di qualche
pacchetto, uno ne cade, ci chiniamo a raccoglierlo e incocciamo. Una zuccata d'inferno.
«Ma :sta' attenta, suonata!», dico furioso.
«Un'altra volta metto fuori la freccia», dice, soave. Ci guardiamo, soffregandoci la
fronte indolenzita, e mi tocca sorriderle. Con quel collo di pelliccia bianca e tutti quei
pacchetti, mi pare mamma Natale.
«Che cos'hai comprato?», le chiedo.
«Un po' di sorprese», dice. «Per tutti quanti. Ce n'è anche una per il tuo Capo. E
un paio per te ». Seminando altri tre pacchetti, che io raccolgo al volo, tira fuori dalla
borsa le lettere al Gesù Bambino: «Dunque... Facciamo un ruolino di marcia: da dove
cominciamo? ». «Da dove vuoi ». La prendo per il gomito, e penso che dopo tanti anni
lei è ancora, per me, come una sorpresa di Natale.
E così ce ne andiamo, tra le luci la gente le voci, per le allegre, magiche strade della
vigilia: un papà Natale e una mamma Natale con un grosso fagotto di sorprese passate e
future sulle spalle.
MA FORSE LO SAPETE

Cominciammo, com'era normale, litigando. Mi pare d'avervi già detto che tutte le
feste comandate io e mia moglie litighiamo. Figurarsi se non litigavamo a Natale.
Cominciammo, anche stavolta, appena aperti gli occhi. Non chiedetemi perché: non c'è
mai un perché, che io sappia. So solo che alle sei e mezzo, mentre i figli dormivano o
fingevano di dormire in attesa del grande momento, nel soggiorno-pranzo addobbato a
festa c'erano due tizi con la vestaglia e l'aria torva che circolavano tra il presepio l'albero
e i pacchetti, grugnendo e rinfacciandosi le rispettive malefatte. Quali malefatte, dite voi?
e che ne so.
Quando poi, sistemati i regali, pareva che i motivi di rinfaccio stessero nostro
malgrado esaurendosi, ci fu l'accensione delle candeline, con relative scottature di dita,
moccoli e principi di incendio, che ce ne fornì altri, particolarmente drammatici. Per non
parlare dell'operazione annuncio-e-ritirata. Non so in casa vostra, ma in casa nostra da
tempo immemorabile l'arrivo del Gesù Bambino si annuncia suonando una campana -
una vecchia campanella di bronzo dal suono fondo e chioccio - dopo di che io e mia
moglie ritorniamo a precipizio nella nostra. stanza, mentre la figlia grande trattiene con
astute scuse la piccola, e il figlio medio copre il rumore della nostra ritirata con tossi
cavernose e sbatacchiamenti vari. Dunque anche stavolta io e mia moglie, finito di
soffiarci sulle scottature e di domare gli incendi, piombammo come falchi sulla campana;
la suono io, no tocca a me, ma non tirare, dài molla, ma non fare il bambino, la campana
rotolò in terra con un rimbombo da svegliare i morti, e rinunciando alla colluttazione io
e mia moglie galoppammo via per il corridoio fino in camera nostra, appena in tempo
per schivare la piccola, la quale, invano trattenuta dalle astuzie fraterne, schizzava fuori
dal letto con il codino al vento e veniva a battere alla nostra porta.
«Dài prefto! Venite!», gridava pestando impaziente i piedini nudi sulle piastrelle.
«Correte! È arrivato» Soggetto sottinteso, il Gesù Bambino. Per tutto il mese di dicembre,
il soggetto sottinteso della piccola è il Gesù Bambino.
Io e mia moglie uscimmo in corridoio sbadigliando e strofinandoci gli occhi come
due che sono stati svegliati in quel momento da un sonno profondissimo. È una
commedia che ci diverte sempre molto:
«È arrivato???», chiedemmo in tono di accentuata sorpresa. «Ma sei proprio
sicura?»
Ci guardò alzando il nasino: «Farete mica fordi», disse. «Ha fatto un putiferio che pareva i
campanoni delle mucche quando vengono giù dal pafcolo a Fan Mamete. Dài muovetevi».
Ci precedette, col suo pigiamino a righe e la sua vocetta eccitata, fino alla porta
chiusa del soggiorno. Lì davanti ci fermammo, padre madre e figli, col codazzo delle
bestie dietro. Attraverso i vetri opachi si intravvedeva quel tremulo bagliore diffuso che
ogni anno ci riempie di emozione e quasi di sgomento: tutti, anche me e mia moglie,
come se non sapessimo che si tratta delle candeline che abbiamo accese noi, scottandoci
e grugnendo, cinque minuti prima.
«Poffo aprire?», bisbigliò la piccola.
Sua madre le diede il consenso con un tacito cenno della testa. La piccola girò con
reverenza la maniglia, con reverenza spinse la porta, e un minuto dopo eravamo tutti
dentro a catapulta, genitori figli e bestie, in quell'aria odorosa di cera, d'infanzia e di
magia. II momento di estatico silenzio fu rotto dalla voce ammirata e quasi scandalizzata
della piccola:
«Oh la Peppa, quanti regaaaaali! Che matto di un Gesù Bambino»
Io e mia moglie ci guardammo: non più in cagnesco. Matti: d'accordo. È bello
essere matti a Natale. Nei suoi occhi vedevo, alla luce delle candeline, il riflesso di tante
fatiche, di tante rinunce, di tante paure, di tante lacrime, vicino a tante piccole calde
follie. Non darle più lacrime, Signore, pensai. Solo follie. «Buon Natale», le dissi. Era
quasi un dolore il bene che le volevo.

Ma devo proprio raccontarvelo, il nostro Natale? Io penso che uno non possa
raccontare il Natale, solo sentirlo. Comunque, ecco qua; e quello che non so spiegare,
siete pregati di capirlo da voi.
A furia di far regali ai figli, per noi due non c'era rimasto molto. Succede così tutti
gli anni. Tutti i favolosi regali che avevamo avuto intenzione di farci reciprocamente si
erano ridotti, per esaurimento dei fondi, a due smilzi e timidi pacchettini. Nel mio trovai
un paio di guantoni da sci ultimo modello che mi andavano stretti; nel suo lei trovò un
colbacco di pelo bianco, tipo ussaro in alta uniforme, che la mandò in visibilio: se lo
mise subito in testa e non se lo tolse più se non in casi d'emergenza. La sua faccia ci
scompariva sotto e per vederci doveva tenere sollevato il pelo con la mano.
E mentre eravamo lì a guardarci e a ridere in quel groviglio di giocattoli figli bestie
esclamazioni campanellini e razzi, eccoti arrivare la figlia grande con un vassoio in mano
e un'aria compunta. Scansando fratelli e bestie a colpi di tallone e di dài-scemo, traversò
la mischia e posò il vassoio sul tavolo.
«Vi ho preparato il caffè», disse con voce stanca.
«Giorni celesti!», disse sua madre di sotto il colbacco. «La bruciata si è data al
lavoro donnesco»
La bruciata, per una volta, non se la prese. Anzi, le venne da ridere: potenza del
Natale. Alzò le spalle e versò il caffè nelle tazzine.
«Buon Natale», borbottò con voce scontrosa. Era il suo ringraziamento.
«Buon Natale», rispondemmo in coro, alzando le tazzine del caffè come coppe di
champagne. E brindammo a tutti i suoi e nostri Natali passati e futuri con la più
repellente e commovente brodaglia nerastra che mai fosse uscita dai pentolini di famiglia.
Che è tutto dire.
Questa fu la prima colazione. La seconda si svolse, come sempre, in casa del
fratello n. 1 di mia moglie, con la partecipazione di: tutti i fratelli al completo; tutti i
cognati al completo; tutti i figli e nipoti al completo, ognuno con tutti i suoi giocattoli al
completo; tre cani e sei gatti al completo, voglio dire con tutte le caratteristiche dei
quadrupedi di famiglia al completo; quattro uccelli, di cui due in gabbia e due fuori; orde
di zie, tutte fuori gabbia; nonni a profusione. Anche senza entrare nei dettagli, che
richiederebbero un volume, penso possiate capire come, dopo una colazione e un intero
pomeriggio passato lì in mezzo senza la protezione della forza pubblica, io sia tornato a
casa con le orecchie rintronate, la voce arrochita, i riflessi scombinati, il cervello
inebetito. Per non parlare dello stomaco. Chi non mangia in compagnia, è il motto natalizio
dei parenti di mia moglie (nonni compresi) è un ladro e una spia. Questo può spiegarvi, sia
pure con approssimazione, le condizioni del mio stomaco.
Eppure, incredibile ma vero, la sera a casa riuscii a mangiare di nuovo. II pranzo
l'aveva cucinato mia moglie, correndo avanti e indietro senza scarpe e col colbacco in
testa, assistita dalla figlia grande: il cui aiuto consisteva più che altro nel circolare con un
civettuolo grembiule legato sulla vita sottile e nel sorvegliare a distanza le pentole come
se fossero bombe a orologeria; la tavola la preparò la figlia piccola, con grande
abbondanza di bicchieri e controbicchieri, salini e controsalini, segnaposti sbilenchi,
rametti di vischio e peluches vestiti a festa, il tutto disposto con estro personale e
asimmetria assoluta; il figlio medio, al quale si affidano sempre i lavori di concetto,
grattugiò il formaggio; indi, preso da un accesso di buona volontà natalizia, insistette per
disporre personalmente sui piatti dell'antipasto i cetriolini, i carciofini e i sottaceti vari,
solo che a un certo punto, perdutosi nelle consuete metafisiche meditazioni, invece di
disporli cominciò distrattamente a mangiarli, mostrandosi poi estremamente sorpreso di
non trovarli più.
Be', non ci crederete; ma il pranzo era buono. Anzi, eccellente. Priva di mezze
misure com'è, mia moglie passa con disinvoltura dalla scelleratezza culinaria alla genialità
gastronomica. Abilissima nel rovinare anche le pietanze più semplici, tipo uova al tegame
o riso al burro, è poi altrettanto abile, se vuole, nel costruire spettacolosi grattacieli di
insalata russa, raffinatissimi paté al tartufo, suggestivi sgonfiotti al prosciutto, e via
dicendo. Questione di ispirazione, suppongo: come per i romanzi. La sera di Natale la
sua ispirazione gastronomica sfiorò le vette della poesia: o così mi parve. Fatto sta che
nonostante la conclamata saturazione, mangiai come un lupo. Lei no. Dice che cucinare
le fa passare l'appetito (buona scusa per non cucinare mai), e così se ne stava lì a fare
l'evanescente a capotavola, guardandomi dal di sotto del colbacco con un'aria languida
che pareva un fungo disappetente.
«Chi non mangia in compagnia è un ladro e una spia», le ricordai a bocca piena.
«Però chi mangia troppo, tosto finisce a Musocco», rispose con quel senso della
rima che ben si addice a una letterata.
Fu come una scintilla. Da quel momento non si parlò più che in versi. Rime tipo:
passami il panettone se no ti do un ceffone e la mamma col colbacco spaventa inoltre il gatto si
alternavano ad altre di diverso metro ma di uguale originalità e livello artistico. E se
mettete in conto le effe della piccola, lo stile concettuoso del medio, le tendenze
surrealistiche della grande, l'indefesso substrato goliardico della madre, più lo spumante,
l'euforia natalizia e le rotelline generali, capirete perché alla fine i figli piccoli si buttavano
giù dalle sedie per il ridere, la figlia grande aveva il singhiozzo, il Bu abbaiava come un
ossesso, i gatti zompavano elettrizzati tra il panettone il vischio e i peluches, la pazzoide si
asciugava le lacrime col colbacco, l'inquilino di sotto batteva nel soffitto col manico della
scopa, e io?
Io li guardavo e li ascoltavo, come se fosse la prima volta. Pensavo alla mia
infanzia di povertà, alla mia adolescenza di solitudine, alla mia giovinezza di guerra,
Natali e Natali tristi e senza rintocchi e passati: adesso ero con loro, e il mio cuore era
gonfio di sorpresa e di gratitudine. Ancora dopo tanti anni la mia sorpresa di Natale non
sono i regali, sono loro. Loro che sono miei, loro che mi ridanno, ogni Natale, l'infanzia
che non ho avuto.
«Facciamo poco i matti e andiamo a lavare i piatti», disse infine mia moglie
prendendo in mano la situazione.
E così, lavati i piatti, asciugate le posate, rotti un po' di bicchieri (tutto in comune
e tutto in rima), andammo a dormire.
Le presi una mano nel buio, e il sonno che scendeva su di me era pieno di
rintocchi. Se voi non sapete cosa sia, questo suono sommesso di campane nel cuore di
un uomo, è inutile che ve lo spieghi. Ma forse lo sapete.
SI VA SULLA MONTAGNA

Ci svegliammo alle sette e mezzo, accusandoci reciprocamente di non esserci


reciprocamente svegliati prima: il che ci permise di iniziare la giornata litigando com'era
d'uopo, dato che anche Santo Stefano è una festa comandata.
La partenza era fissata per le otto. E già: vi siete dimenticati che dovevamo andare
a Bormio? Era tutto pronto. Tutto tranne i bagagli, beninteso. Quelli noi li facciamo
all'ultimo momento. Farli prima, asserisce mia moglie, mena gramo: può ammalarsi
qualcuno, o scoppiare la guerra, e dopo le tocca disfare i bagagli. Sono rischi da non
correre. Quindi, dovendo partire il mattino di Santo Stefano alle otto, i bagagli si fanno il
mattino di Santo Stefano alle sette. Cioè alle sette e mezzo, perché chi mai si sveglia
all'ora prestabilita? Noi no.
Comunque, a furia di scontri, urli e grugniti, alle otto meno un quarto eravamo
tutti già lavati (si fa per dire), nutriti (o meglio ingozzati), e vestiti: la figlia grande, in tuta
elastica azzurra e tunica bianca a mezza coscia, passava e ripassava davanti allo specchio
con passo da levriera sportiva, invano incalzata e sospinta dagli anatemi dei familiari; il
figlio medio, che aveva avuto in dono a Natale un paio di occhialoni da sci ultimo
modello, se li era già messi (penso anzi che ci avesse dormito) e di conseguenza
incocciava ad ogni passo in qualcosa o in qualcuno; la figlia piccola, in tuta rossa e scarpe
di foca, pareva lo gnomo della montagna, con in più un peluches per tasca e una girandola
di effe in bocca; mia moglie, in tuta turchese, colbacco e niente scarpe, correva qua e là
senza tregua e senza costrutto, lamentandosi che ero io che la facevo confondere con la
mia vociaccia. Già perché quando uno, alle otto meno un quarto, si trova con un paio di
calzoni da sci che gli vanno stretti e con l'altro paio scucito di dietro, secondo lei deve
pure fare la voce angelica. Al tutto si aggiunga il Bu col paltoncino da dopo-sci scozzese
("è convalescente, il freddo gli fa male'), e i gatti che lo sbeffeggiavano balzellandogli
intorno con un giulivo scampanellio da festa di paese. Per fortuna alle otto arrivò
l'Amen.
Che cosa c'entra 1'Armen, dite voi? C'entra coi gatti. Mica potevamo lasciarli a
casa soli. Non per dieci giorni, ma neanche per dieci minuti mia moglie e i miei figli
lascerebbero sole le adorate bestie. Quando avevamo ancora la fu Evelina, tartaruga
acquatica buonanima (defunse l'anno scorso, d'indigestione credo, e fu un lutto grande),
dovunque andassimo dovevamo portarcela dietro, col relativo vaso pieno d'acqua.
Dunque figuriamoci i gatti. Interrogato ripetutamente per telefono una settimana or
sono, il Pierino, nostro albergatore di Bormio, ci permise di portarci il Bu, in via
eccezionale (ce l'ha permesso ogni anno: sempre in via eccezionale), ma nei confronti dei
gatti mantenne una cortese fermezza. Fosse stato uno, disse, avrebbe potuto lasciar
correre, in via eccezionale. Ma quattro no: che la me scusa. Costernazione generale. Dopo
rapida riflessione, mia moglie decise che la persona più adatta a ospitare per dieci giorni
quattro gatti altrui era l'Armen. Il quale non era affatto di questo parere, come ebbe più
volte occasione di confermarci per telefono e di presenza, ma tant'è: contro la forza la
ragion non vale. Per levarsi di torno mia moglie, non solo l'Armen si finse convinto, nel
giro di una settimana, che ospitare in casa propria quattro gatti altrui è una fortuna rara,
di quelle che càpitano solo una volta nella vita e guai a lasciarsela scappare, ma, conscio
del privilegio concessogli, venne lui stesso a prenderseli, alle otto del mattino, con un
cesto apposito e molte grazie.
«Ma figurati», diceva mia moglie, magnanima. «Non è niente. Bambini, raccogliete
i gatti per l'Armen». Erano le otto e due minuti.
Ore 8,03: caccia ai gatti. Ore 8,07: cattura dei gatti. Ore 8,10: incestamento dei
gatti. Graffi a profusione. Ore 8,12: saluti ai gatti, commozione generale. Ore 8,15:
dissolvenza dell'Amen coi gatti, ricommozione generale. Ore 8,16: operazione bagagli,
tira fuori, sbatti dentro, ritira fuori, questo non ci sta, proviamo così, dov'è il mio
maglione rosso, ma se l'avevi in mano adesso, dammi il tascapane verde, ecco s'è rotta la
cinghia, sei sempre lo stesso, ma di chi sono questi schifi qui, io ho uno scarpone solo,
chi ha visto il mio scarpone, ma tira via quegli schifi lì, dov'è finito il mio cosino, ma sì il
coso, chi ha visto il coso, ci vorrebbe un altro sacco, Bu non mangiare la sciolina che ti
fa male, eccolo qua il tuo scarpone, ma se l'avevi sotto il naso, mettilo dentro, no, per
così, oh meno male che c'è stato tutto, ah no son rimasti fuori tutti i calzoni da riposo, ci
vorrebbe proprio un altro sacco, eh eh, perché tanto la Vecchia è a fisarmonica vero? tu
fa poco il sarcastico e metti il ginocchio qua, dài che si chiude, ooooooh!, visto che c'è
stato tutto?, è solo questione di organizzarsi.
Quando, alle otto e ventisette, risultammo organizzati a sufficienza per iniziare le
operazioni di discesa a pianterreno, mia moglie attaccò la sua solfa:
«Io», cominciò col dire, «non so neanche se portarmi gli sci».
Lo dice tutti gli anni: e come tutti gli anni, io e i figli, dopo esserci furtivamente
scambiato uno sguardo d'intesa, uscimmo in accorate proteste, ma no, ma cosa dici, ma
perché, ma come mai non vuoi portarti gli sci.
«Ormai sono vecchia», disse lei con un tono che non convinceva nessuno e lei
meno di ognuno. «E poi devo riposare», continuò con lo stesso tono. «E poi sciare fa
dimagrire. E poi se mi rompo il braccio e non posso più scrivere il romanzo? E poi con
tutte le vertigini che soffro, chi me lo fa fare di andare su in funivia e seggiovia a farmi
schernire da tutti?». Effettivamente, una moglie in funivia, con le vertigini, il mal d'aria, i
giorni celesti e il plaid sulla testa per non vedere, è una delle attrazioni più apprezzate di
Bormio dopo lo sci e la piscina calda. Ma, come ogni anno, io e i figli spergiurammo
enfaticamente che non l'avremmo schernita, macché, che non le avremmo strappato via
il plaid senza preavviso, guai, che non l'avremmo additata al pubblico ludibrio, mai più,
che saremmo stati bravi e non le avremmo fatto scherzi di nessun genere e non
l'avremmo neanche fatta salire in funivia se non voleva: purché si portasse gli sci.
«E va bene, li porterò», concesse lei, col tono di chi è abituato dalla culla a
sacrificarsi per la famiglia. «Ma solo così, tanto per averne un paio di ricambio se se ne
rompe o se ne perde qualcuno dei vostri. Un paio in più può sempre far comodo, dopo
tutto. A voi, dico. Non a me. Io non li metterò, intesi? Mica sono una fanatica come certi
che conosco. Me ne starò tranquilla a pensare al mio romanzo e a guardare dal terrazzo
gli incoscienti che vanno su a rompersi gli arti principali. Vengo su per riposare, io. Chi
me lo fa fare di mettermi gli sci?»
Lo dice sempre, prima di partire. E poi, quando è su, bravo chi riesce a toglierglieli
dai piedi.
Per spiegarvi il fenomeno, dovete sapere che mia moglie è andata a sciare qualche
volta da ragazzina coi suoi fratelli: poi, per quasi vent'anni - la guerra, la povertà, i
bambini piccoli - più niente. Sono solo tre anni che ha ricominciato: ab ovo. E con tutti i
sette sentimenti: c'è da stupirsene? No, se conoscete mia moglie. Nelle rinunce come nei
ricuperi, nel lavoro come nelle vacanze, la pazzoide si butta a corpo morto, con tutto il
suo fiato e tutte le rotelline al vento
Fu il nostro maestro di sci e amico Veri, a sua volta sobillato da me, che la spronò
per la prima volta a rimettersi gli sci, tre anni fa. Lei prima non voleva, si schermiva, ma
va, ma cosa vuoi che ricominci, alla mia età, e se mi rompo il braccio?, ma alla fine, dàlli
e dàlli, concesse: «E va be', se è per darti una soddisfazione... proverò un momento, solo
un momento eh?, tanto per farti contento... così per curiosità... poi me li tolgo subito
eh?». Sì, ciao: era fatta. Sapevamo tutti come sarebbe andata a finire.
E così, amici miei, adesso durante le nostre vacanze invernali potete vedere la
compagna della mia vita che sale ogni mattina verso le piste in funivia, coi denti stretti, la
mano sul cuore, il plaid in testa e un gemito ad ogni pilone: «O Dio sto male, siamo quasi
arrivati?, giorni celesti, ma chi me l'ha fatto fare, già è tutta colpa tua, lo fai apposta, o
Dio Dio Signore giuro che è l'ultima volta che ci vengo»: e appena arriva, non è ancora
scesa che ha già gli sci ai piedi e chi la tiene più? Verso sera, quando io e i figli grandi,
reduci dalle piste degli esperti, siamo già rientrati in albergo da un pezzo, lei è ancora là
che imperversa sui campetti dei brocchi, cadendo come una valanga e rialzandosi come
una palla, investendo piante e persone, su e giù, avanti e indietro, invano rincorsa dalla
figlia piccola e dal maestro di turno con la lingua fuori. «Sua moglie è piccinina», mi ha
detto uno l'anno scorso, tra il rispetto e la protesta, «ma ci ha il fiato di un cavallo». Non
è questione di fiato, è questione di rotelline. Solo la prospettiva della nuotata aperitiva in
piscina riesce a distoglierla, al tramonto, dai suoi frenetici tentativi di cristiania: e solo per
tuffarla in altrettanto frenetici tentativi di crawl. E questa sarebbe la moglie fragile e
delicata, quella con la nevrosi cardiaca e tutto quanto? Sì, amici: sarebbe quella.
Eppure ogni anno, prima di partire, la suddetta moglie deve fare, forse per una
forma di scaramanzia sua privata, lo stesso discorso preventivo: che lei non sa neanche
se portarsi gli sci; che se li porta, ma non se li mette; che ormai è vecchia; che non è
incosciente; che deve pensare al romanzo; che non vuole rompersi il braccio; e chi glielo
fa fare, di mettersi gli sci?
«Nessuno», rispondemmo anche questa volta io e i figli in coro, facendoci le
smorfie alle sue spalle. «Non te li metterai, d'accordo».
Apparentemente soddisfatta della scaramanzia, mia moglie finì di allacciarsi le
scarpe col pelo. «E tu hai poco da ridere», disse a un tratto, sebbene non mi guardasse.
«Pochissimo da ridere. Se no quando ho finito il romanzo sai cosa scrivo? Le cronache di
una moglie. E poi vediamo chi ride»
Detto ciò si mise gli sci in spalla e iniziò la discesa: delle scale, per il momento.
L'ascensore era rotto, sempre rotto, quando noi abbiamo bagagli.
Già conoscete le caratteristiche dei nostri spostamenti estivi in Vecchia. Ma quelli
sono uno scherzo in confronto agli spostamenti invernali. Appena ci vide comparire così
combinati, con gli sci, il Bu col paltò e mia moglie col colbacco, la Vecchia decise che si
sarebbe difesa con ogni mezzo. Fu necessario accerchiarla. Tralasciando le fasi più
drammatiche della battaglia, dirò solo che alle 9,03 la Vecchia fu debellata. Per vendicarsi
cominciò a sparare appena in marcia e non smise più fino a Bormio. E si fosse
accontentata di sparare. Quello che fece durante quel viaggio è superiore alle mie forze
descriverlo. Sarebbe forse più semplice dire quello che non fece: non investì pullman,
per esempio, non divelse passaggi a livello, non ci scaraventò nei burroni. Bontà sua.
Così, dopo non so quante ore di incidenti, b-b-boum, cr-cr-cràunc, moccoli e canti alpini (la
mia famiglia non può andare in montagna senza cantare inni alpini), arrivammo a
Bormio. Eravamo stanchi, affamati, arrochiti, stralunati: ma appena fummo fuori dalla
Vecchia, con la neve sotto i piedi, il cielo terso sopra la testa e la nostra bianca vacanza
davanti, ci passò tutto. Ah che neve, ah che cielo, ah che vacanza.
«Dove sono i miei sci»?, disse mia moglie. «Una discesa prima che venga buio non
me la leva nessuno». Come volevasi dimostrare. Sono passati cinque giorni da quel
momento: metà della nostra vacanza. Se le chiedete: «E il romanzo come va?», mia
moglie prende la stessa espressione vacua del figlio quando gli chiedete come va il latino.
«Romanzo?», dice con voce remota. «E che ne so. Sta' a vedere come faccio il cristiania».
Cosa volete farci? è nata così, e così dobbiamo tenercela. E così, sia detto in
privato, l'amiamo.
ANNO DOPO ANNO

Ed eccoci qua, dopo un altro laborioso, accidentato, rapido anno, eccoci a un altro
San Silvestro. Mezzanotte è suonata da pochi. minuti. Fuori c'è l'immobile silenzio della
neve e del cielo e qui dentro c'è un putiferio di voci e di tappi che saltano. Buon anno,
buon anno. I figli piccoli dormono al piano di sopra, una con sette peluches nuovi sparsi
tra le coltri, l'altro con due razzi supersonici sotto il cuscino, e degli anni se ne
infischiano. La figlia grande, dopo averci baciato con degnazione la guancia - "buon
anno mammi, buon anno papi", che per poco non la strozzo - adesso sta ballando là in
fondo con un tizietto dai capelli alla Brutus e dal sorriso di sessantaquattro denti che, a
giudicare da come lo guarda quando lui non la guarda, deve apparire celeste. A me
appare del tutto terrestre, anzi pedestre, ma mia moglie dice che è questione di
prospettiva.
E noi? Nella saletta piena di fumo, affollata di facce amiche, di scarponi e di
brindisi, io e lei ci guardiamo al di sopra delle coppe di spumante. Vedo nei suoi occhi lo
stesso stupore e la stessa domanda che sento dentro di me. Ti ricordi il nostro primo San
Silvestro?
Sì, me lo ricordo: era ieri. Lei aveva una gonna rossa e la stessa età di quella
ragazzetta che balla in corridoio: e oggi, ecco, è sua madre.
Intorno a noi si incrociano le voci, i tintinnii dei bicchieri, gli schiocchi dei tappi,
qualcuno batte manate sulle nostre spalle-buon anno Dino, buon anno Osso ma nessuno
vede quello che vediamo noi: anno dopo anno, la nostra giovinezza che se ne va.
Ah, non restiamo qui. La prendo per mano, e un momento dopo siamo fuori, nel
solenne silenzio della montagna, due vecchi svitati che portano a spasso sulla neve la
loro fragile scia di anni e di ricordi. Lei mi cammina vicino, zitta sotto il suo colbacco
bianco, e non vedo i suoi occhi. Mi pare che da un momento all'altro debba mettersi a
correre, a correre, per inseguire la ragazzetta che è stata. Invece cammina adagio,
appoggiandosi forte al mio braccio. Vorrei dirle tante di quelle cose, ma non posso che
star zitto. La neve scricchiola piano sotto i nostri passi.
«Ho una sorpresa da farti», dice a un tratto, con un'aria di sfida: non so se a me o
agli anni o alla tristezza. «Una sorpresa grossa».
«Hai imparato il cortoraggio?», dico.
Lei scuote la testa. «Se ti dico cos'è, diventi allegro?», chiede senza guardarmi.
«Ma io sono allegro», rispondo.
Adesso mi guarda. I suoi occhi sono teneri e consapevoli. «Anche se sei
bugiardo», sospira, «te lo dirò lo stesso. Doveva essere una sorpresa per la Befana, ma
non riesco più a tenerla». Mi prende per mano e mi guida fino allo spiazzo dove tra altre
più aitanti colleghe, la Vecchia. se ne sta seccatissima sotto un informe drappo di
plastica. «Questo è l'ultimo viaggio che fa la Vecchia», annuncia, facendo pat-pat sul
cofano. «Abbiamo la Giovane».
«La cosa?», dico, non sono certo di aver capito bene.
«La Gio-va-ne!», sillaba bellicosamente a gran voce. «L'automobile nuova! Quella
che volevi tu! Coi sedili ribaltabili e le pinnette di dietro e i cosini davanti e le faccendine
di fianco e tutto! Ce la danno tra dieci giorni. E se adesso non sei contento, sparo!»
«Chi la paga?», chiedo soltanto, stordito.
Mia moglie piega le labbra in un modo che lascia chiaramente intendere come lei
sia superiore a questioni di vile denaro. «L'abbiamo già pagata», dice con distacco.
«Con cosa?», chiedo, sempre stordito.
Sospira. «Si dà il caso», risponde, «che a una scrittrice di successo spettino dei
diritti d'autore, di tanto in tanto. Te ne dimentichi sempre. Anch'io, del resto. Comunque
li ho presi. E spesi. Chissà cosa dice la zia Carlotta» Si mette gli occhiali per vedermi
meglio. «Ehi», dice ansiosamente, «sei contento, vero»?.
Non sono contento, sono... Non lo so. Le voglio bene.
«E la Vecchia?», dico.
«La Vecchia è stanca», risponde con dolcezza. «Non potevamo mica continuare a
farla correre su e giù per le città e le montagne, alla sua età. La porteremo a San Mamete.
Così si riposerà, povera Vecchia».
Anche noi, quando saremo vecchi, ci faremo portare a San Mamete a riposare,
come la Vecchia e il Domokos e l'Avantindrée e tante altre vecchie cose brutte e care che
non vanno d'accordo con la civiltà e col progresso, ma vanno d'accordo col nostro
cuore. È bello pensarci: e sapere che anche lei ci pensa.
Lei fa di nuovo pat-pat sul cofano: «E poi magari il De Maria pian pianino ce
l'aggiusta, tanto che possa camminare un pochino ogni tanto, così d'estate quando tu sei
a Milano con la Giovane, noi su abbiamo la Vecchia»
«E chi la guida?», chiedo.
«Io», annuncia con voce eroica. «Prenderò la patente»
La patente! Mia moglie! Con le sue rotelline e i suoi riflessi a catapulta e la sua
idiosincrasia per i motori e tutto quanto! Solo l'amore per la Vecchia poteva spingerla a
tanto sacrificio. La patente! Ah, ne vedremo delle belle, amici. Comincio già a ridere
adesso, guardate.
Anche lei ride, là sotto il suo colbacco. Chi ha detto che eravamo tristi?
Rientrano nel nostro cuore, calde come termosifoni, le nostre certezze. L'allegria e
la fatica e i figli e noi. Corriamo via sulla neve tenendoci per mano, e con noi corrono le
ombre dei ragazzi che siamo stati. O forse sono quelle dei nostri figli: è lo stesso.
Lo so: domani saremo vecchi. Domani. C'è ancora tanto tempo.
BRUNELLA GASPERINI

LUI E NOI

Cronache di una moglie


LUI E NOI

È tutt'oggi che ha quel fumetto. Mio marito, dico. Non so il vostro, ma il mio ha
sempre sopra la testa un fumetto, che io sola vedo e nel quale posso leggere come voi
leggete questo libro. Avere un marito coi fumetti qualche volta è comodo, qualche volta
no.
Lui naturalmente nega di avere fumetti e dice che io sono una visionaria. Sapete
come voltano le cose i mariti. Ma quel che sta scritto adesso nel fumetto potrei
leggervelo ad alta voce, se fossero cose che una signora può ripetere. Non lo sono.
Ammetto che ha le sue giustificazioni, oggi. È in ferie, e piove: come ogni anno.
Questo poi, ne converrete, è stato un anno scombiccheratissimo. Veramente, non so se
l'avete notato, ma l'anno in corso è sempre il più scombiccherato di tutti. La gente
guarda i giornali, legge i fatti di cronaca, scuote la testa e dice: «Che anno. Dove andremo
a finire?». Dimenticando di averlo già detto l'anno prima. Anche a mio marito succede
qualcosa di simile: non quando guarda i giornali, ma quando guarda noi. Moglie e figli.
Per lui siamo sempre dei fatti di cronaca, più o meno nera.
Dice che con gente come noi, ma con me in particolare, non si sa mai dove si va a
finire. A leggere il suo fumetto, pare che ogni cosa che io dico, faccio o anche penso
(evidentemente ho anch'io un fumetto, per lui) abbia il potere di procurare uno choc ai
benpensanti. O meglio al Benpensante. Che sarebbe lui. Altri benpensanti in famiglia
non ce ne sono. Tutti squilibrati. Tutti fatti di cronaca.
Questo, secondo il D.C. (sigla che sta per Diletto Consorte e che lo irrita molto a
causa di certi riferimenti politici che non sto a illustrarvi; per ritorsione lui mi chiama
P.iacevole C.onsorte, o anche M.oglie S.quinternata I.rrimediabile. Io, ignara di
riferimenti politici, non mi irrito affatto). In realtà, dicevo, noi siamo persone
normalissime. Se quest'anno è stato così movimentato, la colpa non è nostra, e tanto
meno mia, come sosterrebbero i fumetti del mio sposo, bensì di quello che gli antichi
chiamavano il Fato. Lui dice che lui non è un antico. E che il Fato, per lui, sono io.
Giudicherete voi. È infatti mia intenzione raccontarvi le cose con scrupolosa
obiettività. Come è mio solito, del resto: e come, secondo il mio sposo, io non perdo
occasione di far noto ai miei due milioni di lettrici. «Quando una ha due milioni di
lettrici...», è la frase, detta in tono ossequioso, che usa quando gli faccio venire i nervi e
decide di farli venire a me. Infatti mi vengono. E va bene, che cosa c'è da dire dei miei
due milioni di lettrici? Mica li ho inventati io!
«No», dice. «Sono loro che hanno inventato te. Se ti vedessero al naturale.. »
«Io SONO al naturale!», dico. « Quello che scrivo, lo penso. Come sono nel
lavoro, sono nella vita »
« Allora va' a guardarti nello specchio », dice. « Al naturale ».
Nello specchio vedo una faccia smunta e spiritata, dei capelli esagitati di sopra,
due braccia filiformi di fianco, due piedi nudi sotto, tracce d'inchiostro e d'esaurimento
nervoso in ogni dove. Oh, Dio. La madre dei miei figli, la moglie di mio marito, la
beniamina delle mie lettrici: al naturale. Sono io, quella lì? Oh, Dio. Prima che mi venga
da piangere, l'impulso è sempre quello di levarmi gli occhiali; non so se per non
appannarli o se per non vedermi più. Ma prima che me li levi, dietro quel forsennato
groviglio di capelli, ossa, inchiostro e magone, faccio sempre in tempo a vedere i suoi
occhi gialli che ridono, e io sono di nuovo giovane, allegra, fortunata, spaventosamente
forte. E carina. Forse perché lui mi ha tolto gli occhiali. Sono circa vent'anni che mi
succede.
Ma come ho divagato! Ho perso completamente il filo. Questo mi succede dalla
nascita: ho il filo fragile. Ma da un po' di tempo è diventato fragilissimo. Il dottore diceva
che era la primavera, ma adesso la primavera è passata, com'è che il filo mi si rompe
sempre? Dovrò fare una cura. Mio marito dice che è da quando mi conosce che devo
fare una cura. Ma dunque, dov'ero rimasta? Ah, dicevo che avrei raccontato le cose con
obiettività: come un bravo cronista, anche se femmina, dovrebbe fare. Sono successe,
stanno succedendo e hanno tutta l'aria. di succedere ancora tante di quelle cose, in
questo scombiccheratissimo anno, che penso valga la pena di lasciarne una traccia ai
posteri. Se poi i posteri, come non è del tutto improbabile, non sapranno che cosa
farsene, vuol dire che queste mie obiettive cronache resteranno nella storia di famiglia,
insieme agli album di fotografie che eternano - secondo il D. C. - intere generazioni di
squilibrati, dal bisnonno esploratore (aveva i baffoni, il cappellaccio, ma non risulta che
abbia mai esplorato niente all'infuori delle sue celebri cantine), fino ai suoi più recenti
bisnipoti, privi di baffoni, di cappellacci e purtroppo anche di cantine, ma, a sentire il.
mio sposo, ancora più allarmanti di quel loro avo. Quello infatti, dice, era uno solo,
mentre questi sono come le termiti. Inutile fargli notare che tre delle termiti le ha messe
al mondo lui, sia pure con la mia volonterosa collaborazione. Anzi, sarebbero quattro,
se...
Ma non fatemi divagare di nuovo. Se qualcuno vuole essere così cortese da
ridarmi il filo... Ah si, grazie. Dicevo di queste cronache. È un pezzo che ho deciso di
scriverle: fin da quando il mio sposo, del tutto inaspettatamente, diede alle stampe le sue,
di cronache. Sebbene tendenziose nella sostanza, lacunose nella forma e redatte in uno
stile che non esito a definire imparaticcio, quelle cronache ebbero - evidentemente per
merito dei personaggi - un insospettato quanto immeritato successo: facendo ridere alle
mie spalle quegli stessi due milioni di lettrici use invece a piangere sui miei romanzi e le
mie corrispondenze. Così decisi - ride bene chi ride ultimo - che alle Cronache di un
marito sarebbero seguite le Cronache di una moglie. Ma poi cominciarono a
succedere un tal sacco di cose che non ne ebbi più il tempo. Ne persi addirittura la
nozione, del tempo. Non so tuttora dire quanti mesi, secoli, settimane o minuti secondi
siano passati. So solo che è di nuovo estate, che siamo a San Mamete, che piove, e che
stamattina la figlia piccola è venuta da me con un'aria misteriosa e furba e ha cominciato
a parlare.
Dico cominciato, perché subito è stata interrotta dai consueti "dài, dài" emessi a
gran voce dall'intera famiglia. Questi unanimi "dài, dài", che da mesi risuonano in casa
nostra con sorprendente frequenza, dipendono dal fatto che la figlia piccola, da quando
ha ricuperato gli incisivi inferiori, non parla più in effe, ma ha preso la snervante
abitudine di parlare col rallentatore: con trascinamenti di sillabe e salmodianti saliscendi
di vocali inframmezzati di pause apparentemente dense di significato, ma in realtà prive
di qualsiasi effetto che non sia quello di far logorare i nervi della famiglia. Non sappiamo
da chi, come e perché abbia preso questo vizio, e quel che è peggio non sappiamo
neanche come curarlo: sappiamo solo che se non lo perde alla svelta perderemo noi le
corde vocali.
Lei ci ascolta urlare, gentilmente incuriosita, guardandoci col suo nasino in su e le
sue cinque lentiggini, finché noi cominciamo a sentirci a disagio e cessiamo, un po'
vergognosi e completamente afoni, le nostre escandescenze. Allora lei, con la sua vocina
sottile, riprende il discorso dal principio: all'identica velocità, con gli identici
trascinamenti e saliscendi e pause. E noi non abbiamo più voce per dire "dài, dài". Una
studia per anni psicologia infantile, sa tutto sulle coazioni e anche su cose più difficili,
elargisce soavi consigli in proposito alle sue lettrici, e poi si trova davanti una figlia sua,
con otto anni, un nasino e l'aria di essere uscita da una favola se non fosse per i blue-
jeans e per una macchia d'olio di bicicletta in faccia, che parla come un giradischi
difettoso. Hai Voglia a ricordarti la psicologia infantile; tutto quello che puoi fare è
urlare.
E urlato ho. Coadiuvata dai familiari; marito escluso, che era latitante. Lo
immaginavo fuori sul molo, con l'impermeabile e gli zoccoli, a non pescare pesci.
La figlia piccola. ha atteso, pazientemente, che i nostri "dài, dài" si esaurissero per
mancanza di fiato. Indi ha sorriso dolcemente e ha ricominciato:
«S-e nooOn ti s-b-riigh-i a f-aAare l-e c-r-oOon-acche, qua-Eell-o l'-à a-r-riliva p-
r-ilim-a d-i t-ee».
Il che, se ricaricate il tutto, significa: "Se non ti sbrighi a fare le cronache quello là
arriva prima di te".
«Quello là chi?» chiesi, benché lo sapessi. «Il p-apaAà, n-no?».
«M-a s-eE..», m'interruppi bruscamente. Il vizio della piccola è contagioso. «Ma se
sta pescando?».
La figlia piccola sorrise, disponendosi a un altro salmo.
Per evitarlo, mi rivolsi al figlio medio: «Non sta pescando?», chiesi.
«Eh?», disse il medio. Più di una sillaba per volta raramente dice. Steso supino sul
pavimento, le ginocchia aguzze puntate al soffitto, le mani sporche incrociate sotto la
magra nuca quattordicenne, inseguiva con occhi assorti non so che formula chimico-
fisico-astrale che avrebbe poi messo in pratica nel suo laboratorio. Il suo laboratorio è
uno sgabuzzino nel sottoscala, con un finestrino a grata dal quale ogni tanto zompa
fuori, tra puzze atroci e fragori spaventevoli, una fumata biancastra. Qualche volta
nerastra. Il padre, dice che un giorno insieme alla fumata vedremo uscire l'anima del
figlio nostro, con le alucce e tutto. Io non credo. Sono ottimista, di carattere.
Però quando non ottengo risposta da un figlio mi vengono i nervi. Come stavolta,
a parte che li avevo già.
« Pop! Sto parlando con te ».
Lui gira su di me gli occhi neri, vellutati, pieni di formule:
«Non esaltarti », consiglia. "Esaltata, esaltato, non esaltarti, perché ti esalti?" sono
le sue espressioni predilette. Mi sorride, vago: « Cosa dicevi? ».
Scoraggiata, mi rivolgo alla figlia grande. « Non sta pescando, il papà? ».
La Grande emerge dai suoi disegni e dai suoi cronici dispiaceri d'amore per fissare
su di me i suoi occhi celesti di diciassettenne provata dalla vita, come lei ritiene di essere
per il fatto che durante l'anno non ha saputo decidersi fra i tre tizietti che le stavano
dietro a Milano. Io so perché, ma non posso dirglielo. C'è un quarto tizietto, diciottenne,
estivo, sempre quello, che lei non nomina mai: è come se lo vedessi, coi suoi capelli
rossi, la sua timidezza e l'infanzia comune, lì disegnato nei suoi occhi celesti. Lo vedo
proprio, come vedo le esclamazioni nei fumetti paterni, ma lei non lo sa e io non posso
dirglielo. Sono soltanto sua madre. Verrà il giorno in cui lo saprà da sola; non so se
augurarmelo o temerlo. Aver figli è difficile.
Adesso la figlia grande mi guarda, dondolando pigramente le lunghissime gambe
di cui si lagna (i tizietti sono sempre troppo piccoli per lei), ma di cui è segretamente
fiera.
«Non senti che diluvia?», chiede.
«E allora?», chiedo, battendo velocemente X X X sulla macchina, come sempre
quando sono nervosa e ho fretta. Questi figli sono dei tiratardi incredibili.
«E allora, se tu stessi un po' più su questa terra», risponde con una voce
equamente divisa tra la riprovazione, la complicità e il compatimento, «ti accorgeresti che
uno non può pescare durante il diluvio universale. Sarà un'ora che ha smesso di pescare,
poveretto. È giù di sotto in veranda, con dei giornali e un sacco di sigarette e di
nervoso».
È come se lo vedessi. Bagnato, aggrottato, disertato da tutti: dai pesci, dal bel
tempo, dalla famiglia. Anche i fumetti, vedo: pieni di parolacce. Gli voglio molto bene.
«Perché l'avete lasciato solo?», dico. Da almeno un'ora! Non si può proprio mai
contare sui figli. E sulle mogli? «Io ho da lavorare», dico, con l'aureola in testa.
«AaaAaan-che l -uUui », dice la figlia piccola.
Lavorare lui! Figurarsi. C'è chi nasce lavoratore e chi no. Io, non faccio per dire,
sono nata lavoratrice. Mio marito, meno. Mi dispiace dirlo, ma la cronaca è cronaca.
«E che cosa fa?», chiedo. Se non sta pescando, o non sta curando i suoi fiori, non
vedo proprio che cosa possa fare senza di me o di noi.
«S-c-r-iIiive-ve», annuncia la piccola tra i "dài, dài" generali. Trascrivo il resto senza
salmi, a guadagno di tempo: «Ci ho dato un'occhiata per di dietro e mi pare che sta
proprio scrivendo le cronache come l'altra volta, solo che cominciano un po' diverso. In
cima ci sono due o tre parole sghimbesciate che saranno il titolo ma non si capisce, poi
ci sono dei ghirigori per così e per cosa, che è poi come sarebbe tu coi tuoi x, e poi due
righe con scritto così: Tutto ha avuto inizio dal fatto che mia moglie ne voleva un
altro ».
Giorni celesti! Chi sa che cosa pensano i posteri. È vero, in un certo senso, che
tutto è cominciato perché io ne volevo un altro, ma bisogna spiegare, prima che i posteri
equivochino; e voglio essere io a spiegarlo, non lui.
È così che ho deciso di cominciare le cronache seduta stante. Vediamo chi arriva
prima. Io parto.
Ossia, sarei partita se non fosse entrata la Rosa. Domando e dico come fa una
disgraziata a non perdere il filo, in una casa dove ogni cinque minuti entra qualcuna a
romperglielo. La Rosa poi è una specialista in materia. In ogni mio articolo, racconto,
cronaca o corrispondenza c'è un minimo di tre e un massimo di ventisette rotture di filo
dovute a comunicati urgenti della Rosa.
Questa volta il comunicato dice: «Signora-quando-hai-finito»
La Rosa ha quasi vent'anni, da quasi tre ha lasciato il suo paesello nel Meridione
per venire a prestare servizio, se servizio vogliamo chiamarlo, in casa nostra ma tra le
molte cose che sono rimaste e sempre rimarranno superiori alle sue capacità, le più
evidenti sono queste: dare del lei alle persone, staccare le parole le une dalle altre e dare
l'intonazione interrogativa alle domande. La Rosa non domanda. Afferma. Con tono
perentorio, voce squillante e l’espressione compiaciuta di chi rompe le tasche alla gente
per una giusta causa. Le cause della Rosa, pare, sono sempre giuste. Ogni suo
comunicato assume un vago sapore di rivendicazione sociale.
«Signora-quando-hai-finito», ripete per la terza volta, sempre con lo stesso tono.
«Non ho finito!», dico, cercando di non urlare. «Non ho ancora cominciato»
Continuo a scrivere, conscia del fatto che lei è sempre lì, appoggiata con una spalla allo
stipite, rubiconda e inesorabile. I miei nervi si fanno tutti su come cavaturaccioli.
Quando sono completamente attorcigliati, la Rosa riprende: «Signora-è-giunta-l'ora»
Tocco ferro: sono superstiziosa: «Che ora? Che giunta?».
«Stanno-le-quattro», annuncia. «Al-giovedì-mi-pertocca-ci-sta-scritto-sulla-carta»
«Che carta?», chiedo battendo debolmente x x, senza connettere. Sfido chiunque
a connettere con la Rosa. «Cosa ci sta scritto?».
«Che-mi-pertocca», dice in tono stizzoso. «Due-giorni-di-eschita-signora-e-quando-hai-finito-
io-eschirei»
Celestissimi giorni: tanta strada per arrivare qui! Se parlassi non userei un tono
sindacale, perciò le indico semplicemente la porta. Che eschi!
«Signora-stai-molto-nervosa», commenta con degnazione, prima di eschire.
Effettivamente, credo di essere molto nervosa. Voi non lo sareste?
Calma. Vediamo. Raccogliamo le idee.

Mi sembra - ma potrei anche sbagliarmi - di averle raccolte. Per chi non ha letto le
precedenti CRONACHE del marito, comincerò a fare, tanto perché anche voi possiate
raccogliere le idee, l’elenco dei personaggi principali. Non solo perché anche lui ha fatto
così e gli è andata bene, ma anche perché ci sono alcune modifiche e aggiunte
IO - La moglie, detta anche Osso.
LUI - Il marito, detto anche D.C.
BRUNA - La figlia grande, detta anche Levriera.
POP - Il figlio medio, detto anche Fumata Bianca.
TATTI - La figlia piccola, detta anche Dài Dài.
LA ROSA - Domestica senza interpunzioni.
IL BU - Cane adulto con problemi di pelo.
IL BAO - Cane bambino con problemi di coda.
LA JOHN - Già erroneamente ritenuta il John, gatta fatale.
IL MIO - Piccolo gatto acrobata di pelo biondo.
IL RIFIFI - Piccolo teddy-gatto di pelo nero.
LA VECCHIA - Ex-automobile à riposo.
LA BESTIA - Veicolo della razza dei plantigradi.

Ora qualcuno potrebbe chiedermi spiegazioni di questo subentro di cani, dì gatti e


dì veicoli. Credetemi, non ne sono responsabile: è avvenuto in modo miracoloso e
irresistibile, tipo moltiplicazione dei pani e dei pesci. Non date retta al D. C. quando
scrive: Tutto ha avuto inizio dal fatto che mia moglie ne voleva un altro. Non è vero niente. Cioè:
che ne volevo un altro è vero, ma...
XrtrfgxCruitYzvxr&thbVnpk
Niente: questi segni significano solo che il mio sposo è entrato urlando, come è
suo solito, e che io ho sobbalzato, come è mio solito. Dopo di che, come è nostro solito,
abbiamo avuto una lapidaria discussione: sui suoi urli e sui miei sobbalzi. Sono vent'anni
che ne discutiamo, e siamo sempre a quel punto.
Adesso è lì, arruffato e bieco, coi vecchi shorts e la barba mal rasata, che mi guarda
coi suoi occhi gialli..
«Ti sei dimenticata di avere dei figli?», dice.
«Io no», dico. Mi viene da ridere perché gli leggo nel fumetto, ma resto seria.
«Perché?».
«Ti disturberebbe venire a occupartene?», il tono è ringhioso.
«Li ho mandati giù poco fa a tenerti compagnia», dico.
«Compagnia! Poco fa! Saranno due ore che sono giù a farmi una testa a pallone, i
tuoi figli, i tuoi cani e i tuoi gatti».
«Il Bu è qui con me», osservo.
Lui guarda con astio il Bu accovacciato ai miei piedi. Non dice niente. Nel
fumetto sta scritto: Lui sì e io no. Se fosse un cane, adesso forse si accovaccerebbe ai
miei piedi. Ma non è un cane, è un vecchio marito con gli occhi da gatto, che strapazza la
moglie e non sa farne senza neanche un'ora. Continuerò un'altra volta.
UN DESTINO CHE SI CHIAMA BAO

Piove ancora, e lui se la prende con me. E va bene che le mogli sono fatte per
questo, ma vi assicuro che lavorare con un marito bagnato attorno non è cosa salutare.
Ma dunque, riprendendo il filo. Eravamo rimasti al subentro dei cani e dei gatti,
mi pare, ed ero entrata nella determinazione di darne un obbiettivo e documentato
resoconto ai posteri. Citando anche altre fonti. La fonte Dino Gamberini, altrimenti
detto marito, è in questo caso rappresentata dal diario segreto dello stesso, da me
consultato con la complicità di alcuni figli. In detta fonte, capitolo 1, paragrafo 1, pagina
1, è detto:
Tutto ha avuto inizio dal fatto che mia moglie ne voleva un altro. Un altro
figlio, intendo dire. Sospiro di sollievo dei posteri. Ma lui, posso dirvelo, non era
sollevato affatto. Quando gli feci presente, del tutto incidentalmente e senza impegno,
che mi sarebbe piaciuto avere un quarto bambino, per poco non andammo a sbattere
contro un muro (stavamo tornando da Bormio dopo le nostre annuali vacanze sulla
neve). Evitato per un pelo il sinistro, disse:
«Un altro cosa?».
«Figlio», risposi, carezzando distrattamente il pelo del Bu che mi stava in braccio.
«Bambino»
Si rivolse ai tre figli accatastati dietro: «Che cosa ha detto?»
«Bambino», confermarono i tre. Imparziali, come tono.
Il padre li guardava nello specchietto retrovisore, come un naufrago cui manca la
voce per chiedere soccorso. Non gliene davano.
«FacciaAa-mo un maschi-eEe-tto», disse la Piccola, che ha spirito collettivo. Proseguì
tutto in un fiato onde evitare i "dài, dài": «Lo facciamo nero come il Pop con gli occhi celesti come
la Bruna e che giochi ai peluches con me e lo chiamiamo Cesare come lo zio Cesare e gli facciamo i
vestitini a quadretti...»
«Taci, esaltata»., disse Pop, cavernoso. «Io non faccio proprio niente», precisò,
per la cronaca. «Né coi quadretti né senza».
Incontrai nello specchietto retrovisore i suoi occhi neri, gravi, pronti a raccogliere
la mia voglia di ridere; poi gli occhi celesti e perplessi della Grande che diceva, scettica:
«Se non ci stiamo neanche adesso con le spese», lei è l'economa di famiglia,
poveretta. «Dovremmo cambiar casa.», aggiunse, speranzosa. Indi, ricordandosi la
tragedia dell'umana esistenza: «Dar vita a un altro infelice.».
«Infelice?», chiese il padre smarrito. Lui prende tutto alla lettera.
«È un modo di dire», lo rassicurai con dolcezza.
«Ah. Perché, per felice, sarebbe felice anche lui... Ehi!», si riprese, col panico negli
occhi. «Cosa diavolo stiamo dicendo? Bambini, maschietti, quadretti... non distraetemi
dalla guida con discorsi da pazzi. Con questi scherzi scemi»
«Che scherzi!», dissi. Fino a quel momento avevo scherzato, credo; ma se la
prendeva così... Scherzi scemi un corno! Mi credeva così decrepita da non saper più
mettere al mondo un figlio? Gli avrei fatto vedere io, se ero decrepita. «Non scherzo»,
dissi, con voce mesta e suadente. «È tanto strano che una donna, vedendo i propri figli
diventare grandi, senta la nostalgia di averne uno piccolo?».
«Perché, quello non cresce?», chiese.
«Non subito», dissi. «Prima che cresca ci vuole un po' di tempo». Così poco, così
poco... Adesso mi sentivo triste davvero. I figli... Guardavo nello specchietto gli occhi
celesti, neri, nocciola dei miei tre: così piccoli ieri, così grandi oggi, così lontani domani.
O cari, per piacere, andate piano. Mi sentivo più triste.
Lui mi guardava e appariva sempre più allarmato. «E poi, quando è ben ben
cresciuto», disse, seguendo il filo del suo discorso, «ti ha rovinato del tutto la salute e le
tasche. Ah no! Basta! Piuttosto che un altro figlio, guarda, è meglio un altro cane», disse
sconsideratamente.
Lui, lo disse. Mica io. Ne tengano nota i posteri. Citerò di nuovo, comunque, la
fonte del Gamberini, che a questo punto dice:
C'ero cascato. Al momento non me ne resi conto. Non calcolai le funeste
conseguenze che quelle parole avrebbero potuto avere. L'idea di un quarto figlio,
con tutto quel che avrebbe comportato per lei di sacrifici, patemi, antinevralgici,
gare col tempo e chili perduti, mi obnubilò la mente, e così mi venne fuori, a mo'
di paravento, quel cane. Solo molto più tardi, a cane avvenuto, capii che si
trattava di un altro degli infernali inghippi di mia moglie.
Mi credano i posteri: non era un inghippo. Il mio cuore - se non proprio il mio
cervello - era innocente. Se dicevo bambino, pensavo bambino: non cane. Ma certo, se
uno viene a offrirti un'occasione su un piatto d'argento, sarebbe da scemi farsela
scappare. Così acchiappai il cane intanto che c'era. Poi si sarebbe visto.
Da quel momento, riferisce l'inesatto diario del Gamberini, fui fritto. Non
passava giorno che non sentissi mia moglie dire che un altro cane ci voleva: vuoi
per confortare la vecchiaia del Bu, vuoi per tener compagnia al Bu quando lo
lasciavamo solo in albergo per andare a sciare o solo in casa per andare al
cinema, vuoi perché "un cane giovane per voi ragazzi ci vuole, il Bu sta sempre
con me e con voi ragazzi non gioca più", vuoi perché "il cane unico è come il
figlio unico, cresce scorbutico e strambo, guardate vostro padre", eccetera. Tutti
i giorni. E se non era la madre, erano i figli che mi ricordavano, vuoi con atti vuoi
con parole, che io gliel'avevo promesso. Il secondo cane. E quando tentavo di
chiarire, magari a voce un po' alta, che io non avevo promesso un accidente di
niente e che loro erano tutti squilibrati, mia moglie assumeva subito un'aria
sognante e cominciava a parlare, così per caso, di bambini piccoli, di poppatoi e
di parti indolori, e a guardarsi intorno in camera nostra con occhio vago
mormorando tra sé cose senza senso ("una culla per così ci starebbe, basterebbe
spostare qui il mio scrittoio, tanto io potrei scrivere anche seduta sul letto"), e a
dire che in fondo un bambino in più rappresenta un'economia in una famiglia,
dato che, come tutti sanno, ogni bambino nasce col suo cestellino.
Io non nego di aver detto e fatto tutto questo. E non escludo - a prescindere dai
cani - di poterlo dire e fare ancora. Una non può divertirsi a sognare? Non mi risulta che
sia proibito dalla legge. Ciò stabilito, ammetto che avrei gradito anche un altro cane. E
allora? È forse un delitto amare le bestie?
Inesatta appare dunque la fonte del Gamberini dove dice (cap. 1, parag. 2, pag. 3):
E così, a furia di ricatti, vessato e frastornato com'ero da tutti quei bambini,
cestellini, figli unici, cani unici, poppatoi e culle che mi sentivo volteggiare
intorno nei momenti meno opportuni, è finita che un giorno mi son trovato in
casa un cane in più. Grande come una mucca. E lo strano è che sono stato io, io
in persona, che l'ho scelto e che ho voluto portarmelo a casa subito. Non so
come sia successo.
Io sì. Lo so benissimo.
Il destino, è stato: sentite se non è vero. Era una domenica di febbraio, tornavamo
da Bormio, dove il Bu, chiuso solo per ore in una camera d'albergo mentre noi sciavamo,
si era tanto offeso da toglierci il saluto e rifiutare il cibo. Ma io non avevo affatto insistito
sulla necessità di dargli un compagno. Manco aperto bocca, avevo. Comunque non fu
certo per macchinazione mia se, a una ventina di chilometri da Milano, trovammo un
ingorgo spaventevole di traffico (due macchine avevano incocciato, e non su istigazione
mia) e noi ci fummo bloccati in mezzo, con la prospettiva di restarci un pezzo. Ora, se
c'è una cosa che il mio consorte non sopporta, dopo la pioggia, l'odore di naftalina, le
persone tirchie, le cipolle fritte e innumerevoli altre cose, è lo stare fermo. Proprio non
può. Gli prende il nervoso nelle gambe, comincia a scalciare come un cavallo e
insolentisce tutti per futili motivi. Quel giorno aveva esaurito la sua scorta normale di
moccoli e stava iniziando la scorta di riserva, quando la figlia piccola, come sempre
avulsa dai problemi contingenti, si illuminò angelicamente in faccia e cominciò a
srotolare nella macchina un esile e salmodiante filo di voce:
«Uuu! Ooo!», massima espressione di gaudio. «CaaAani. All-evameEento», si
interruppe, aspettando gentilmente che la famiglia esaurisse i "dài, dài"; indi, a guadagno
di tempo, tese un braccino vestito di lana norvegese e terminante in un dito tanto
piccolo quanto ieratico:
«L-aAà», riassunse.
Guardammo. Proprio sulla nostra destra si apriva un viottolo. In fondo al viottolo
c'era un cartello. Sul cartello c'era una testa di cane. Sotto la testa di cane c'era scritto:
CANI. Allevamento e addestramento. Cuccioli di ogni razza.
Era o non era la mano del destino? La colonna di macchine, dietro e davanti a noi,
si perdeva all'orizzonte, il marito aveva i crampi nelle gambe e nel cervello, e lì, proprio
di fianco a noi, invitante e liberatore, c'era quel viottolo. Non è colpa mia se in fondo a
quel viottolo c'erano i cani.
Anzi, "il" cane. Il Bao. Messo lì dal destino apposta per noi. State a sentire.
Addentrandoci nel viottolo, dicevamo che andavamo solo a dare un'occhiata,
naturalmente, tanto per non stare lì fermi, tanto per far sgranchire le gambe al papà,
poveretto, tanto per passare cinque minuti intanto che si disingorgava la strada.
Dicevamo anche, ma così in teoria, tanto per fare un po' di conversazione, che se mai,
un giorno, chissà, il futuro è cosa imperscrutabile, fossimo entrati nell'ordine di idee di
prendere un altro cane, avremmo scelto un bastardo (sono molto più robusti), di almeno
sei mesi (così si vede già la forma e il carattere), di taglia piccola (siamo già tanto stipati,
in casa e in automobile), di pelo raso (meno traffico a lavarlo) e di muso corto (sono più
intelligenti). Un quarto d'ora dopo uscivamo dal canile con un cucciolo di due mesi
scarsi, di razza purissima, di taglia gigante, di pelo folto e di muso lunghissimo. Vanno
sempre così le nostre cose.
Il fatto è che mentre ci aggiravamo, con occhio puramente turistico e orecchie
completamente sorde, tra decine di cani ingabbiati e vociferanti d'ogni tipo, razza e
colore, piccoli, grandi, pelosi, rasi, puri, impuri e così così, comunque tutti ben provvisti
di polmoni e di corde vocali, tutto a un tratto scomparve il Bu. Pensando che fosse
scappato in preda al terrore (non è che sia un eroe di cane, il Bu) stavamo per uscire a
riacchiapparlo, quando lo vedemmo acquattato nell'angolo più remoto del canile, il muso
nero appoggiato a una grata, perfettamente immobile in tutto il corpo se si eccettua il
suo mozzicone di coda, che si dimenava velocissimo. Ebbi un confuso presentimento.
«Bu», chiamò il suo padrone, che di presentimenti non ne ha. . «Qua, Bu!».
Non si voltò neanche. Pareva colpito dal fulmine.
«Quando si ha un cane scemo... », si scusò il padrone, rivolto all'allevatore.
«Scemo e male educato...» aggiunse rivolto a me. Col piglio dell'individuo che ben sa
come vanno trattati i cani, raggiunse decisamente il Bu, decisamente si chinò a prenderlo
per il collare, e rimase immobile, colpito dal fulmine anche lui. Proprio uguale al Bu, a
parte la coda.
Cauti, ci avvicinammo.
Dietro quel pezzetto di. grata, separato da tutti gli altri da un traliccio di legno,
stava nascosto un cane. Guardandolo capii il colpo di fulmine del Bu e del suo padrone.
Era un piccolo (cinque mesi fa) cane. Un piccolo piccolo cane nero con delle grosse
zampotte dorate e un lungo lungo muso nero e dorato e un largo sparato bianco che lo
faceva assomigliare a un goffo pinguino neonato, e una grossa coda (una coda di cui non
misurammo, al momento, le conseguenze) che scopava lentamente il terreno dietro di
lui. Non abbaiava: stava lì seduto, tutto solo, e guardava il padrone (perché già lo era)
con due dolci supplichevoli occhi da cane orfanello. Il padrone ricambiava lo sguardo.
Era fritto. Nel silenzio improvviso (perfino gli altri cani s'erano azzittiti) mi parve
di sentir frusciare l'ala del destino.
Infine, schiarendosi la voce, il padrone di due cani disse con voce casuale, rivolto
all'allevatore: «Di che razza è?».
«È un pastore scozzese», rispondemmo in coro. «Detto anche collie». Noi
sappiamo tutto sui cani. Abbiamo un sacco di libri che ne parlano. Negli ultimi tempi ne
avevamo comprato un altro, Trecento razze di cani, che consultavamo sottobanco, quando
lui non c'era. Tanto per documentarci.
«Una razza magnifica», confermò l'allevatore. «Molto tranquilla, anche. Questo ha
quarantotto giorni. È appena slattato».
«Perché l'avete messo lì solo?», chiese il padrone.
«Perché gli altri lo mordevano e gli portavano via la pappa. Lui è buono e restava
sempre a bocca asciutta .. »
Il padrone inghiottì. Fritto doppio, pensai.
«Quanto costerebbe, un cane così?», chiese, sempre casuale.
«Ottantamila lire», disse l'allevatore.
«Ottanta cosa? Per un cane solo?».
«Questo diventerà un campione», disse l'allevatore. «Un cane da mostre».
Un brivido passò per la famiglia. Se c'è una cosa che ci fa pena, sono le mostre
canine. Quei poveri cani azzimati e infelici, costretti a sfilare in passerella come divette,
tenuti al guinzaglio da padrone fanatiche armate di pettine e di pedigree... E questa sarebbe
stata la sorte di quel povero buffo cagnetto con lo sparato e gli occhi da orfanello?
Anche il Bu, col muso tutto nero alzato verso il padrone, sembrava aspettare il
responso.
«Quanto ha detto che costa?», mormorò il capo famiglia, come in trance.
«Ottanta», disse l'allevatore, inesorabile.
Lui si voltò a guardarci tutti, uno per uno, compreso il Bu, poi allargò le braccia,
mentre gli occhi gialli gli si riempivano di scintille:
«Non mi farò vestiti quest'anno», brontolò. Anche il Bu rideva, con una riga
bianca di denti attraverso il muso nero.
Lui si chinò, prese il cagnolino per la collottola, lo tirò fuori dal recinto e lo posò
vicino al Bu. Fece subito la pipi.
La fa tuttora: anche in casa, se gli capita. Mangia tutte le pantofole che trova.
Rovescia suppellettili. Ruba indumenti intimi. Travolge cose e persone a colpi di coda.
Allora gli si dice: «Brutto cane! Seduto! Da' la zampa! Chiedi scusa!». Lui si siede, dà la
zampa, chiede scusa; indi ricomincia a divorare, rovesciare, allagare e travolgere. Sempre
con occhi patetici ed espressione innocente.
«Che bel cane!», dicono tutti per la strada. «Assomiglia tutto a Lassie». A noi non
importa niente che assomigli a Lassie e che sia bello. È buono, è balordo, è nostro. Il
nostro grosso cane bambino.
E così, conclude il diario segreto del Gamberini, abbiamo il secondo cane,
come mia moglie voleva fin dal principio e come io fin dal principio non volevo.
Un marcantonio di cane che quando avrà finito di crescere dovremo uscire di
casa noi per far posto alla sua coda. E quel che è più incredibile, è che ho
pagato, per averlo. Ottantamila lire. E quel che è ancora più incredibile, è che gli
voglio bene. Sono fregato, se mi passate l'espressione. Mi succede sempre così.
Già. Gli è successo anche per i due gattini. Ah, non ve l'avevo detto dei due
gattini? Be', gli è successo. Abbiamo due gattini, oltre alla gatta John. Ma ne avrò mica
colpa io, no? È la John che ha tendenze libertine; basta che io volti via un momento gli
occhi, e zac, arrivano i gattini. Finora abbiamo sempre trovato qualche amico o parente
di carattere debole a cui rifilarli. Ma adesso, alla parola "gatti", si verifica intorno a noi
una rapida e totale dissolvenza di amici. Così il Mio è rimasto: piccolo, giallo, con
tendenza all'arte acrobatica. Così è rimasto anche il Rififi: piccolissimo, nero, con
tendenza al furto con scasso. Un teddy-gatto neonato,
E poi, adesso che abbiamo due cani, era giusto avere un gatto solo, anzi una sola
gatta? Quando ho fatto questa semplice e molto logica domanda a mio marito, ho visto
di nuovo comparire il panico nei suoi occhi. E adesso che abbiamo tre gatti?... si leggeva, a
lettere tremolanti, nel suo fumetto. Non ha detto niente. Neanch'io ho detto niente. Le
vie del destino sono imperscrutabili, no? Non si può mai dire che cosa...
CgrteycrWkus%bg&zie! è entrato. Ho sobbalzato. Ha urlato:
«Prepara i bagagli! Ba-ga-gli! Partiamo subito». «Per dove?», chiedo spaesata.
«Per dovunque!», dice. «Sono stufo di questa pioggia!» Se piove, la colpa è sempre
mia. «Sono stufo del TUO paese! ». Lo dicevo, che era colpa mia. «Sono stufo della tua
macchina da scrivere! Sono stufo di tutto! Basta! Partiamo! »
Dal suo fumetto vedo che non mi conviene fare discussioni. Una moglie deve
sapere quando è il caso e quando non è il caso di discutere. No? Mi limito a dire: «E i
gatti?»
I cani è sottinteso che ce li portiamo, dovunque andiamo. Ma i gatti non amano i
viaggi, non apprezzano i paesaggi nuovi è ricambiano sentitamente la diffidenza degli
albergatori.
«I gatti li lasciamo qui con la Rosa», risponde secco il capo famiglia. «Se però
preferisci annegarli, fai pure».

Se c'è una cosa che odio, è il Gamberini che fa il cinico.


Ma mi trattengo: capisco che è meglio non litigare adesso. Sto solo pensando:
prima di tutto al mio lavoro buttato di nuovo per aria; poi ai miei gatti lasciati in balia
della Rosa; poi alla Rosa lasciata in balia dei gatti. Tra le rivendicazioni sociali della Rosa
c'è anche quella di disdegnare, per principio, le bestie dei datori di lavoro("signora-a-me-i-
tuoi-gatti-non-mi-pertoccano","signora-digli-al-tuocaneche-eschi-dalla-cucina"), e va bene che si tratta
di un disdegno puramente formale che nasconde un sincero, anche se mal riposto,
affetto sia per le bestie sia per i padroni; ma insomma, se per esempio si dimenticasse di
dare il latte al Rififi, e di cambiare la segatura, e di chiudere la porta della Darsena, e se... e
se... e se...
Non mi pareva di aver pensato forte, ma evidentemente ho un fumetto, e lui lo
legge, perché improvvisamente lo sento urlare: «BASTA! Non voglio sapere niente di
lavori e non lavori, gatti e non gatti, darsene, catenacci, Rose e altre fesserie del genere.
Non cercare inghippi! Se non vuoi partire dillo, e parto senza di te»
Ah. Naturalmente non lo farebbe... Non lo farebbe di sicuro... Dice così per dire...
Comunque è meglio assecondarlo. La brava moglie sa sempre quando è il momento,
eccetera.
Chiudo la macchina da scrivere, chiamo a raccolta i figli le bestie la Rosa e il
cervellino mio, e mi dispongo a partire per dovunque. A lasciare la mia casa, il mio paese,
il mio lago, il mio lavoro, i miei gatti e le mie cronache per seguire, col sorriso sulle
labbra e l'aureola bene in vista, un marito che non sa stare fermo. Che vita.
E poi mi chiedono com'è che perdo sempre il filo. Com'è che ho le turbe. Com'è
che peso quaranta chili. Adesso lo sapete, com'è.
Riprenderò il filo al mio ritorno da dovunque. Il cuore mi dice che sarà
prestissimo.
SE IO FOSSI UNA AUTOMOBILE
Rieccomi: anche prima del previsto. Se non sbaglio i calcoli, cosa peraltro facile,
sono passate meno di ventiquattr'ore dal momento in cui il capo famiglia, pieno di
umidità e di fumetti, é entrato in questa stanza a dirmi di fare i bagagli che partivamo
subito. È sera, piove, e sono di nuovo qui. Non è che siamo già tornati (per quanto in
ventiquattr'ore noi siamo capaci di partire e di tornare da un'infinità di posti per
un'infinità di motivi). Non siamo partiti. La Bestia non ha voluto.
Lui dice che sono stata io a sabotare la partenza. Ma non è assolutamente esatto.
Prova ne sia che avevo già fatto i bagagli: ed erano tanti, perché non sapendo dove
saremmo andati né per quanto, avevo ritenuto prudente portare tutto, dagli sci alle
pinne, dalle giacche a vento ai bikini. I figli erano già a bordo, accatastati con aria lugubre
sui sedili posteriori insieme a tutti i loro peluches, i loro alambicchi, i loro cavalletti e il
loro sdegno: sono sempre sdegnati quando devono allontanarsi da questo paese. Sul
sedile anteriore, il Bao tentava invano di trovare un posto dove mettere la coda e un
posto dove mettere la saliva, mentre il Bu cercava di nascondersi correndo da un
cespuglio all'altro, come sempre fa quando sente avvicinarsi il momento di salire
sull'odiato veicolo. Attraverso i vetri della veranda, dove stava asserragliata coi gatti, la
Rosa ci mostrava una faccia tra esacerbata e nostalgica("loro-partiscono-e-a-me-non-mi-
curano"), mentre dietro di lei si vedeva un feroce roteare di gatti per niente nostalgici ma
molto esacerbati.
Intanto il Gamberini girava intorno alla macchina dando gli ultimi tocchi al
caricamento bagagli e sfoggiando il suo miglior repertorio di moccoli da viaggio.
Insomma, vi pare o no che fossimo sul piede di partenza? Restava solo da acchiappare il
Bu e me stessa. E quando, dopo molti inseguimenti, finte e retrofront, fummo entrambi
presi in un'imboscata e ficcati dentro la macchina da un Gamberini più inferocito dei
gatti, non restava che metterci in marcia. Ma fu proprio questa che venne a mancare: la
marcia. Per quanto sollecitato, ispezionato, pregato, minacciato e maledetto nei più
pittoreschi e convincenti dei modi, il motore rimase muto e fermo come una sfinge.
Vi pare che io sia il tipo che va in giro a sabotare i motori? Lui dice di si. Sapete
come sono i mariti quando una cosa gli va per storto. Capisco che è stato un brutto
colpo per lui, ma io che c'entro? È stata la Bestia che non ha voluto partire. Mica io.
La Bestia, penso sia il caso di ricordarvelo, è la nostra nuova automobile. Nuova
per dire che non è vecchia come la Vecchia, la quale appartiene alla preistoria. Questa, a
giudicare dagli strati, dovrebbe appartenere a un'età più recente. Quando l'abbiamo
comprata, l'età non si vedeva. Non è che fosse proprio una ragazzina, come asserivano il
tipo che voleva vendercela e il diletto consorte che ardeva di comprarla, ma insomma,
opportunamente restaurata e agghindata com'era, aveva un'aria giovanile: come si dice di
certe mature signore tenute su con gli spilli. Al contrario di queste, però, aveva
un'espressione simpatica. Dopo poche settimane, o forse giorni, che era con noi, tutti gli
spilli che la tenevano su - forse per lei erano bulloni - andarono a farsi benedire, l'aria
giovanile pure, e l'appartenenza all'èra neozoica apparve palese. Ma simpatica rimase. Del
resto, noi con le macchine nuove non ci andiamo d'accordo.
Ne abbiamo avuta una, nell'intermezzo tra la Vecchia e la Bestia. La Giovane, si
chiamava. Ma non è durata molto. Mi stava antipatica. Così lustra, tronfia e con tutte le
rotelline a posto com'era, mi metteva soggezione ogni volta che ci salivo sopra. Mai e poi
mai mi sarebbe venuto in mente di farle pat-pat sul cofano o sul didietro, come avevamo
fatto sempre e per tanti anni alla Vecchia, anche quando era bisbetica e dispettosa, anche
quando s'impuntava e fumava e sparacchiava a tradimento, spaventando il Bu e la milizia
della strada. La Giovane non faceva spaventare nessuno, non era bisbetica, non era
vendicativa, non aveva un briciolo di iniziativa e di fantasia. Era seria, conformista e
credeva di potersi dare le arie solo perché aveva i bulloni in ordine. Abituati ai fantasiosi
grouggr, scr-scrouc, zz-ouz della Vecchia, lì dentro era come stare in un mortorio a
motore. Mai un rumorino. Mai una sorpresa. Una malinconia che non vi dico. Ma sapete,
quando uno ha avuto per tanto tempo una Vecchia, e le ha voluto tanto bene, tanto da
non volerla vendere (a parte che nessuno l'avrebbe comprata) e da trainarla da Milano fin
qua a San Mamete, nella vecchia lavanderia travestita da garage-ripostiglio, così da poter
andare ogni tanto a farle pat-pat e chiacchierare con lei come con una vecchia nonna
paralitica che si ricorda di tante cose... Voglio dire che è difficile, quando si amano tanto
le cose, sostituirle. Non so se capite.
Lui dice di no. Che non capisce. Che sono tutte scemenze. Che un'automobile è
solo un mezzo di trasporto. Lo dice. Ma io vedo il suo fumetto, e nel fumetto leggo il
bene che vuole alla Vecchia, e a tante altre vecchie cose che non servono più ma che
fanno parte del nostro cuore. E gli sono tanto riconoscente di essere così, proprio come
noi ormai, anche se non lo dice.
Stavo dicendo che anche a lui la Giovane era antipatica. Solo che non voleva dirlo
(era costata un occhio, tra l'altro) e non voleva neanche pensarlo: immaginate quindi il
pasticcio che gli succedeva nei fumetti, la lotta forsennata tra i pensieri dettati dal
cosiddetto buon senso, o senso pratico, e i pensieri dettati da quello che lui chiama le
fesserie di famiglia: un groviglio che non riuscivo neanche più a leggerci, tanti erano i
refusi. Io lo lasciavo aggrovigliarsi per conto suo. Almeno per quanto riguarda le
automobili: è lui che le guida, dopo tutto. Ma certo che quella Giovane era una
sofferenza per tutti. Specialmente quando la portammo la prima volta qui a San Mamete,
e la mettemmo nella lavanderia di fianco alla Vecchia, che vicino a quella lì tutta nuova e
pimpante pareva ancora più vecchia e paralitica e sola, là nel suo umido angolino. Alla
figlia piccola venne il magone. Nessuno le chiese perché. Ma forse la Vecchia se ne
accorse, e questo risvegliò il suo antico spirito battagliero. Nessuno sa che cosa accadde
quella notte nel garage-lavanderia. Si sa solo che il mattino dopo i figli ci chiamarono dal
giardino: dalle loro voci, piacevolmente eccitate, si sarebbe detto che stava accadendo
qualcosa di molto divertente.
Uscimmo a vedere. I figli erano fermi davanti alla porta del garage-lavanderia,
chiusa a catenaccio. E di sotto la porta si vedeva uscire, lento e inesorabile, un viscido
fiumiciattolo nero.
«Olio», mormorò il capofamiglia.
«Olio», confermarono i figli, voltando le facce raggianti.
II padre spalancò fragorosamente la porta. Dentro non si vedeva niente di
speciale. La Vecchia sembrava profondamente addormentata nel suo angolino, tra i
rastrelli e le biciclette. In quanto alla Giovane, a parte l'olio che le colava copioso di
sotto, sembrava ancora quella di prima: solo un attento conoscitore ed esperto di
psicologia avrebbe potuto cogliere, tra le sue lucenti nichelature, un'espressione
frastornata.
«Cosa diavolo...», borbottò il capofamiglia tra i denti. Dopo una rapida furtiva
occhiata alla Vecchia, si avvicinò alla Giovane. Noi assistemmo - dal di fuori, per
prudenza - a qualcosa cui avevamo assistito centinaia di volte con la Vecchia e avremmo
assistito altrettante centinaia con la Bestia. Ma adesso si trattava della Giovane, la
nuovissima, l'infallibile, la perfetta: e questo dava tutta un'altra suspense alla faccenda.
Dopo innumeri tentativi di messa in moto, vaghe ispezioni al motore e nitide diagnosi
tecniche ("dev'essere il cosino che s'è scosato, ah no che va bene, allora sarà l'affare, ma
no, cosa gli ha preso, non funzionano più neanche i cosi"), il tutto ampiamente
corredato dalle impubblicabili esclamazioni che nei momenti di emergenza gli scappano
fuori dal fumetto per rimbombare a tutto tono in un raggio di due chilometri, il
capofamiglia dovette entrare nell'ordine di idee di far trainare la Giovane -
ignominiosamente legata al vetusto tassì indigeno - fino alla più vicina autorimessa per le
necessarie indagini e riparazioni.
La Vecchia conservava un'aria svagata e innocente.
«Pfu! Pfu», diceva la figlia piccola. «Con tutte le arie che ci ha la Giovane si fa tirare dietro
da una corda. Pfu, pfu».
Nero d'olio e d'umore, il padrone borbottava tra sé, come al solito, di sabotaggio e
di famiglie squilibrate. Nei casi d'emergenza la colpa è sempre nostra. Mia, di solito.
Anche quella volta, immagino, mi sospettava di essere andata notte tempo nel garage a
sabotargli la Giovane. O a sobillare la Vecchia, non so bene. Da quel giorno, però, la
latente antipatia per la Giovane cominciò a uscire dal suo subcosciente e a prendere il
sopravvento sul cosiddetto buon senso. Nei suoi fumetti cominciai a leggere sempre più
chiaramente e sempre più spesso: Questa automobile va male (andava benissimo). Consuma
troppo (consumava pochissimo). Poi è pericolosa: uno che ha famiglia non può andare in giro can
una macchina che da un momento all'altro si mette a perdere olio come un fiasco rotto (la Vecchia
aveva perso olio tutte le ore e tutti i giorni della sua avventurosa esistenza e nessuno di
noi aveva mai pensato che fosse pericolosa). Questa macchina non mi piace. E qui eravamo,
sia pure tacitamente, tutti d'accordo.
Ma la coscienza? Potevamo, onestamente, cambiare automobile dopo neanche sei
mesi che l'avevamo comprata? No, diceva la coscienza, non potevamo. I parenti ci
avrebbero denigrato. La zia Carlotta ci avrebbe mandato una raccomandata per dirci che,
dato che cambiavamo automobili come calzini, non contassimo sulla sua eredità. Sulla
quale comunque non contiamo: anche perché non esiste. Ma insomma non ci sentivamo
di affrontare gli urli delle nostre coscienze cambiando un'automobile che, a parte quel
misterioso incidente, si comportava tecnicamente benissimo. Ci voleva uno spunto: una
parvenza di motivo da presentare ai parenti e alle coscienze, oltre che al nostro bilancio
fallimentare. Un'occasione, ci voleva.
Lo spunto ci fu offerto, direi quasi nostro malgrado, dall'irresistibile moltiplicarsi
dei cani e dei gatti. Un giorno avevamo solo il Bu e la John, e a un tratto,
inesplicabilmente, ci trovammo ad avere il Bu, la John, il Bao, il Mio e il Rififi. E se
calcolate che il Bao, sebbene ragazzino, occupa con la sola coda più spazio dell'intera
padrona senza coda, capirete che nella Giovane proprio non ci si stava più. Ogni volta
che guardo il Bao mi avviene di pensare quanto sia falso il proverbio: "Poco posto si
tiene quando ci si vuol bene". Il Bao è un cane che vuole montagne di bene a tutti, ma
occupa anche montagne di posto. Specialmente con la coda. Specialmente se i gatti ci
fanno il nido dentro. Nella coda.
Stavo dicendo - per un filo non mi è scappato il filo - che nella Giovane non ci
stavamo proprio più. Non era questione di capriccio. Era questione dell'impenetrabilità
dei corpi. II motivo del cambio c'era, dunque. Mancava solo l'occasione. L'occasione fu
appunto la Bestia.
Un giorno ci telefonò l'amico venditore di automobili che ci aveva fornito ai suoi
tempi la Vecchia e in tempi più recenti la Giovane. Andò al telefono mio marito, disse:
«Pronto», poi ascoltò, dicendo ogni tanto: «Ah sì?», con un'aria esageratamente sorpresa
e lanciandomi occhiate sbieche. Io, che leggevo comodamente nel suo fumetto,
aspettavo senza batter ciglio. Infine posò la mano sul microfono e mi disse quel che
sapevo già:
«È Fracchiroli. Dice che ha lì un qualcosa da farci vedere. Dice che se vogliamo
vederla ce la manda qui subito dal meccanico. La cosa. Dico che la mandi o no?».
Dissi di sì. Che ero curiosa. Di vedere la cosa del Fracchiroli. Chissà che cosa mai
era? Passammo i dieci minuti seguenti a fingere di non sapere che cosa fosse la "cosa"
che un venditore di automobili ci mandava col meccanico. Forse un piccione a motore.
Forse il Duomo di Milano con le ruote. Invece, che strano, era un'automobile. Chi
l'avrebbe mai detto?
Ma non era un'automobile qualunque. Era la Bestia. Vederla e amarla fu tutt'uno.
In più, cambiandola con la Giovane, ce la offrivano per niente: insomma, per poco, a
paragone di quello che era, così grassona, bofonchiante e filosofa, una via di mezzo tra
una foca e una mucca, più un'ideuzza di balena. Non si poteva non prenderla in
simpatia. E poi si vedeva che era già temprata dalle avversità della vita e che sarebbe
andata d'accordo anche con la Vecchia.
«E poi», diceva il meccanico che ardeva di appiopparcela, «ci dice niente il
servofreno? E il servosterzo? E il servononsochecos'altro? Fa tutto da sola. La può
guidare anche un bambino. Anche la signora, la può guidare».
«Questo», disse mio marito, «è un argomento su cui la sconsiglio di insistere. Per
imparare a guidare, mia moglie non avrebbe bisogno di un servofreno o di un
servosterzo, ma di un servocervello. Che sfortunatamente non ha .. »
«Il dottore vuole scherzare», disse il tipo con un sorriso pieno di denti d'oro e di
savoir faire. «Con l'attività intellettuale della signora...».
«Appunto », disse il D. C.
«E poi il molleggio!», si estasiò il meccanico. «Della macchina, dico», precisò in
fretta. «E la comodità! E la capacità! Con una famiglia grossa come la loro... Questa è
proprio la classica macchina per famiglia».
«E per cani e gatti?», chiesi.
Il tipo sorrise debolmente. «Eh eh», disse. «La signora vuole scherzare.».
Non so se a voi càpita di trovare gente che fa eh eh per ogni normale cosa che
dite. A me succede sempre.
Guardai meglio l'automobile:
«La faccia mi piace», dissi. «Non so di che razza sia, ma ha un'aria simpatica.»
«Eh eh», disse il meccanico.
Pazienza. «Mi fa sentire la voce?», dissi.
Il tipo sbatté le palpebre. «Io?», balbettò.
La gente è proprio buffa. La sua voce! Sta a vedere che adesso si mette a fare i vocalizzi,
pensai. Mi venne da ridere.
«Mia moglie intende la voce del motore», disse nervosamente il Gamberini. Anche
a lui scappava da ridere, e come sempre quando gli scappa da ridere in faccia alla gente
gli vengono i nervi, dice che è colpa mia e che gli faccio fare le figure.
Mentre il meccanico ci faceva sentire la voce della Bestia (anche quella era
simpatica), lui mi guardava con astio.
«Ti ha presa per pazza», disse. «Ci trovi gusto a renderti ridicola? A fare il
personaggio dei tuoi racconti?».
Personaggio... Di colpo mi sentii davvero ridicola, una ridicola vecchia pazza che
crede all'anima delle cose e parla a vanvera e si fa dire eh eh dai meccanici.
Personaggio..., pensavo. Io non voglio essere un personaggio.! Ma è che sono proprio così, ci
sono nata, e ormai sono troppo vecchia per cambiare. Guardai per terra, sentendomi
improvvisamente infelice e sola.
«Ehi», lui disse.
Già dalla voce si capiva che non era più arrabbiato. Ognuno ha la moglie che si merita,
pensai. Mi venne di nuovo da ridere, e anche a lui, e un altro dei piccoli abissi che ogni
tanto si scavano tra due persone che si amano fu, come tanti e tanti altri in vent'anni,
felicemente superato.
Per festeggiarlo, comprammo la Bestia. E - a parte i moccoli e i fumetti del D. C.
prima che imparasse a servirsi del servosterzo, del servofreno, del servoqui e del servolà
- non ce ne siamo pentiti. I parenti ci hanno denigrato lo stesso, ma ormai l'abbiamo e ce
la teniamo. E le vogliamo un bene dell'anima. Così grassa, goffa e gioviale, con quei
tondi occhi mansueti e quel buffo modo di sgranchirsi bofonchiando - sciuuf , sciuuf - non
è come andare su un'automobile con motore, spinterogeni, differenziali e altre schifezze
del genere, ma è come stare in groppa a una brava bestia di famiglia, piena di buona
volontà e di pazienza.
E poi è grossa. E mi sembra fuori discussione che quando si hanno tre figli, due
cani, tre gatti e una Rosa, la bestia ci vuole grossa. Voglio dire l'automobile. Bisogna che
sia un bel bestione, perché ci stiamo tutti. In questa ci stiamo benissimo: insomma, ci
stiamo. Che poi quando siamo dentro tutti non riesca più a muoversi, come è successo
ieri, è cosa di secondaria importanza. L'essenziale è che sia simpatica. E lo è. A noi, ai
figli, ai cani, ai gatti, alla Rosa. E alla Vecchia. Sono sicura che la Vecchia non può essere
gelosa di un'automobile così grassa e pasticciona; proprio come il Bu non può essere
geloso del Bao. La notte, nella lavanderia-garage, quelle due si fanno compagnia. La
Bestia racconta delle strade che ha fatto con noi, e la Vecchia racconta di quelle che non
farà più: ma non è triste, anzi sono sicura che è contenta, adesso, del ruolo di vecchia
pensionata.
Se fossi un'automobile, vorrei finire così: nella fresca lavanderia di una vecchia
casa sul lago, coi sedili carichi di badili e di vecchi giocattoli e i ragazzini che mi si
arrampicano sopra a giocare nei pomeriggi d'estate. Ma non sono un'automobile. E forse
quando sarò vecchia non servirò più neanche ai badili.
Ci risiamo: ho perso il filo. Ma ce l'ho mai avuto, un filo? Ho l'impressione di no.
Volevo solo raccontare perché non siamo partiti, e non so come m'è venuta fuori invece
tutta questa storia di automobili. Devo proprio fare una cura ricostituente.
Dicevo dunque che non siamo partiti perché la Bestia si è rotta, e il Gamberini ha
dovuto portarla a Lugano a riparare, e... XgrtifSciumTgrtfeben. È tornato.
Viene dentro, con un fumetto dell'altro mondo sopra la testa.
Dice: «Fino a domani non me la ridanno».
Va be'. Che ci posso fare? Continuo a scrivere.
Dice: «Quando hai finito di fracassare quella macchina da scrivere per seviziare
due milioni di lettrici, vuoi avere la compiacenza di venire fuori sul terrazzino?»
La moglie deve seguire il marito. Lo seguo.
La luna, fuori, è un regalo improvviso, smagliante. «La luna?», dico, quando riesco
a riprendermi da quella perlacea meraviglia. «La luna! E chi lo sapeva? Se stava piovendo
due minuti fa».
«Due ore fa», dice. «Sbagli sempre i calcoli». La sua voce è tenera, il suo fumetto
molto di più.
«Io lo conto, il tempo», dice. Il tempo senza di te, dice il fumetto.
Penso, come milioni di volte, che da domani lavorerò meno.
Si sta bene, lunghi e pigri sulle sedie a sdraio, senza più fretta né fatica, col lago
sotto che scivola intorno al molo e la luna che intenerisce le nostre vecchie carcasse.
Dal giardino vengono le voci dei figli, sommesse. Stanno sotto i noccioli coi cani e
coi gatti e con le pile, a giocare a nascondarella coi ghiri tra i rami.
Il bello di questo paese è che si fanno sempre le stesse vecchie cose, e che
sembrano sempre diverse e nuove: giocare e sognare e ridere e litigare e correre e amare
- bestie persone alberi cose - e starcene qui io e lui sotto la luna, con tanti anni e tanta
fatica e tanti figli e tanti dolori, e tanti saluti al filo. Vedrò di riacchiapparlo domani.
SIGNORE, NON LITIGHERÒ PIÙ
Oh, finalmente libera. Il D. C. é andato a Lugano a ritirare la Bestia riparata.
Posso lavorare in pace per un paio d'ore. Credetemi, col marito sempre tra i piedi una
non ce la fa.
Fortuna che non siamo partiti. È un mattino bellissimo. Terso e tenero come solo
sanno esserlo i mattini di San Mamete dopo i nubifragi. I figli sono qua sotto sul molo
coi cani, sento le loro voci, chiare nell'aria chiara, ripetute lontano dagli echi. Signore,
come amo questo posto, queste voci, questi mattini.
Se mi affaccio dal mio terrazzino, posso vederli; e anche se non mi affaccio. La
figlia piccola, accampata sull'ala destra del molo col suo sterminato esercito di peluches
(siamo a quota centotrentasette) parla continuamente, non si sa bene se con loro o con
se stessa perché muove le labbra senza far udire alcun suono, onde evitare i "dài, dài" dei
fratelli. Solo quando il Bao, smettendo di abbaiare alle onde, viene a rubarle una mezza
dozzina d'orsi in un boccone o a spazzarle una trentina di scimmie con una codata, la
voce le vien fuori, acuta e decisa, senza traccia di salmodie:
«Bao, lascia giù subito! Brutto! Via!». Il Bao, mortificato, sputa gli orsi e sposta la
coda, rovesciando una quarantina di leoni. «Brutto! Seduto! Da' la zampa! Chiedi scusa!»,
ordina la Piccola inferocita. «Se non fossi che sei tu, ti avrei dato una botta che vedi!» Il Bao la
ascolta, conscio delle sue colpe, con le orecchie abbassate e gli occhi lucidi, finché lei si
commuove: «Sù sù, non fare quella faccia lì», dice con voce dolce, e lo abbraccia
scomparendo totalmente nei meandri del Bao. Il quale, per esternare la sua gratitudine e
felicità, falcia a colpi di coda l'esercito intero, e tutto ricomincia da capo.
Accucciato qualche metro più in là, gli occhi invisibili sotto i peli neri, il Bu
sembra non interessarsi troppo di quel che lo circonda. Il suo vecchio corpo di vecchio
cane gode del sole e dell'aria del mattino e delle voci dei ragazzi, ma il suo vecchio cuore
di cane è qui con me, sotto la mia sedia, accovacciato ai miei piedi. Se un giorno morirà e
metteremo sotto terra il suo groviglio di vecchi peli mai pettinati e il suo mozzicone di
coda ormai immobile, sono sicura che il suo cuore resterà qui, sotto la mia sedia, e mi
basterà tendere il piede per sentirlo battere. È vero, Bu? Alza il muso, come se mi
sentisse. Mi vede, e nel muso tutto nero compare una fila di denti tutti bianchi poi torna
a dormire, tutto nero di nuovo, contento.
La figlia grande, in calzoncini bianchi cortissimi e maglietta provocatoria (lei
provoca solo quando non c'è in giro nessuno da provocare) disegna, anzi dipinge: con
cavalletto, tavolozza e occhio pittorico perduto all'orizzonte. Però, contrariamente a quel
che uno potrebbe pensare, disegna un cavallo. Che all'orizzonte assolutamente non c'è.
Comunque è un bel cavallo, fiero e caracollante, tipo ippogrifo, ma senza ali, Le riescono
sempre bene i cavalli: anche se per disegnarli ha bisogno di aver davanti un paesaggio. Se
volesse disegnare un paesaggio, le servirebbe un cavallo. La Grande è così. Personale,
per intenderci.
Vedete, è soltanto una ragazzetta: con l'aria sofisticata e un sacco di buffe pose,
ma una ragazzetta: timida, impaurita, con un punto interrogativo negli occhi celesti. Era
cosi piccola, ieri... Procedeva sul molo a quattro gambe, grassoccia e sospettosa, gli
occhioni sgranati sugli spruzzi delle onde, e se le arrivava una goccia addosso strillava di
paura e poi rideva, con le lacrime sospese sulle ciglia bionde.
Ieri, soltanto ieri. E oggi è lì che guarda l'orizzonte e disegna cavalli, con le lettere
dei suoi tre spasimanti milanesi che le escono dalla tasca e l'attesa del non-spasimante (o
sì?) che le esce da ogni dove. Come si ripetono le cose... Come si tramandano, direi. Io
non dipingevo cavalli, però. Scrivevo poesie, che era peggio. Certe me le ricordo ancora,
tutte diverse da quel che pensavo: proprio come i suoi cavalli.
Ha finito il cavallo, ne comincia un altro. E va be'. Ogni tanto, girando un profilo
altero e sognante, dice: «Piantala di spruzzarmi, cretino!», al Pop. Il quale Pop non batte
ciglio. Come se non parlasse a lui. Finché può, il Pop si comporta sempre come se non si
parlasse a lui. Cosa che manda in bestia suo padre. «Tuo figlio è deficiente o sordo?», mi
chiede. Non è deficiente e non è sordo. È un filosofo, il Pop.
In questo momento, aderente al molo con la parte inferiore del corpo e tutto
pencolato in fuori con la superiore, sta eseguendo non so che esperimenti subacquei con
dei vuoti (tutti i recipienti lui li chiama "vuoti") che scaglia in acqua, legati a una corda
legata a sua volta intorno al suo collo, con bella regolarità di movimenti, tonfi e spruzzi,
innaffiando copiosamente la Grande, la sua pettinatura, il suo cavalletto e i suoi cavalli.
«Piantala, scemo!», ripete la Grande, stridula.
Il Pop sta facendo riemergere il suo vuoto.
«Eh?», dice senza voltarsi, mentre la Grande annaspa tra gli spruzzi..
«Oh, è venuto su vuoto!», annuncia compiaciuto.
«Chiii?», s'informa la Piccola. «Chi è venuto su vuoto?»,
«Toh, il vuoto», dice Pop. È tanto chiaro. E lo lancia di nuovo: il vuoto vuoto.
Gli echi della baia ripetono gli urlacci imbestialiti della Grande. Cose che una
raffinata fanciulla di tipo levrieroide non dovrebbe mai dire. Mi fa molto piacere che le
dica: rossa in faccia, con gli occhi celesti in fiamme, pronta a menare sberle.
Seduto alla turca sul molo, magro e abbronzato come un giovane fachiro, Pop la
osserva con espressione pensosa. Indi, stringendosi nelle spalle, si rivolge a uno dei vuoti
che gli pende dal collo:
«È un'esaltata», gli confida. E torna a pencolarsi in fuori, col vuoto pronto per il
lancio.
È una sfida. Dimenticandosi di essere raffinata, la Grande balza su, decisa a
passare a vie di fatto. Dimenticandosi di essere filosofo, il Pop scatta in piedi, cioè cerca
di scattare in piedi, perché la Grande gli fa lo sgambetto e lui precipita a catafascio in
lago, con tutti i suoi vuoti appesi al collo. I cani urlano. La Piccola si butta via dal ridere.
La Grande assapora il suo trionfo. Non sembra un gran sapore, dalla faccia che fa.
Pop riaffiora, coi capelli appiccicati sulla faccia, e due vuoti in mano: gli altri,
divenuti pieni, si sono inabissati. Si tira via i capelli dagli occhi, sputacchia, e si avvia
verso la Darsena zoppicando.
La Grande lo segue con gli occhi azzurri perplessi.
«Ti sei fatto male?», chiede, scontrosa.
«No », dice Pop con voce cavernosa, continuando a zoppicare.
«Non ho mica fatto apposta», borbotta la Grande. Poi, ansiosamente: «Dove vai?».
Pop si volta. Con voce d'oltretomba risponde: «A prendere un altro vuoto».
Di colpo scappa da ridere a tutti e due e si assomigliano in maniera
impressionante.
«Bamba!», dice la Grande, sollevata. Sorride con le gocce d'acqua sulle ciglia
bionde, come quando era piccola.
«Stolta», dice il Pop. È così nero che quando sorride, con i denti bianchi in fila,
sembra il Bu. La Piccola sorride di riflesso, col suo nasino alzato, piena di indulgenza.
Di colpo, guardandoli, mi sento pungere gli occhi. Così diversi e così uguali. Tre
fratelli. Tre rami della stessa pianta. Signore, aiutali.
Poi mi passa. Vedete, è che io ho perso due fratelli: due rami della pianta su cui
son cresciuta. Era una grossa pianta, verde e generosa, e adesso non è che una povera
vecchia pianta mutilata. E io ho paura. Paura per tutte le piante, paura per tutti i rami,
paura per tutti i figli. Scusatemi. Poi mi passa.
Adesso ho bisogno urgente di essere lì, vicino a loro, sul vecchio molo di tante
infanzie.
Scendendo a piedi nudi la scala ricoperta d'edera che porta alla Darsena e al molo,
col blocco in una mano, l'olio antisolare nell'altra e il cesto della corrispondenza infilato
sulle spalle come una gerla, mi imbatto in:
- una girandola di pelo rosso che è il gattino Mio impegnato in un vertiginoso
corpo a corpo con la scopa della Rosa;
- un grembiule a quadretti ripieno che è la Rosa stessa che finge di scopare la scala
per poter tener d'occhio la Finanza a monte e la Finanza a lago;
- un fachiro con le pinne che è Pop emergente dal sottoscala-laboratorio con un
congruo rifornimento di vuoti al collo e un groviglio di formule negli occhi;
- una sogliola di velluto nero che è il gattino Rifili appiattito nel tentativo di
penetrare dolosamente in cucina attraverso una crepa del muro;
- un nasetto salmodiante che è la figlia piccola venuta a prendere il paaane e
trifoooglio per i Ciigni in arrivo;
- una sfinge grigio-argentea che è la gatta John sdraiata sull'ultimo gradino della
popolosa scala a osservare il via-vai con britannico distacco;
Quando arrivo al molo, ho:
Il Mio sulla spalla destra, il Rififi sulla spalla sinistra, la John dentro il cesto della
corrispondenza, la Piccola carica di pane e trifoglio alle calcagna, il Pop pieno di vuoti
alle calcagna della Piccola, la Rosa piena di istanze sociali alle calcagna del Pop.
Mi succede sempre così, dove passo mi si appiccica dietro qualcosa o qualcuno;
fortuna che non c'è il Gamberini a vedermi e a chiamarmi carta moschicida. Come se lui
non s'appiccicasse, quando c'è.
Ma adesso non c'è.
«Non so quanto diavolo di tempo ci metta», dico, posando cesto blocco e gatti,
mentre i cani mi divorano per festeggiarmi. « Lugano è a dieci chilometri, dopo tutto, e
doveva solo ritirare la Bestia. A quest'ora io ne avevo ritirate trenta, di Bestie ».
«Sì, ma di quelle coi peli e la coda, mica di quelle col motore», sogghigna la
Grande.
È l'unica che non si è neanche mossa al mio arrivo, e mi dispiace: manco si volta a
sorridermi, manco si sogna di distogliere gli occhi da quell'insulso e sproporzionatissimo
cavallo. Ma quando il Bu ha finito di lavarmi a colpi di lingua e il Bao di abbattermi a
colpi di coda, vedo che c'è di fianco a lei, vuoto, un cuscino che prima stava sotto di lei.
L'ha messo lì per me.
Probabilmente è molto stupido sentirsi così piene di gratitudine per un cuscino,
per di più rotto, ma dai figli devi prendere quel che ti danno. E i miei, a modo loro, mi
danno tanto. «E quel che ti prendono?», dice lui. Oh, quel che prendono... Quello è già
scontato.
Mi siedo sul cuscino della Grande e guardo il suo cavallo. È un bellissimo cavallo.
Se avesse anche i capelli rossi e le lentiggini sarebbe più somigliante. Ma non si può
chiedere troppo a un disegno. Speriamo che il mai nominato tizietto arrivi presto a San
Mamete, o ci riempiremo di cavalli con la faccia da liceali.
Pop ha ripreso a lanciare i suoi vuoti, ma un po' più lontano, di modo che gli
spruzzi non arrivano fin qua: li vedo brillare, a intervalli, intorno alla sua testa nera, tra
freschi tonfi e musicali gorgoglii.
All'altra estremità del molo, la Piccola chiama i Cigni con un dolce suono gutturale
che solo lei sa fare e che i Cigni conoscono benissimo. Non vi stupisca l'iniziale
maiuscola: non si tratta di cigni qualunque. Si tratta del Cigno e della Cigna, che da anni
solcano le acque del nostro lago, e hanno una storia triste.
Tutti a San Mamete amano i Cigni, ma noi di più: sono gente di casa, vecchi amici
come i ghiri, i profili delle montagne, le vecchie barche, i vecchi alberi. Ecco che
arrivano, salutati festosamente dai cani e sorvegliati dalle larghe iridi ipnotiche dei gatti.
Quali siano i reali sentimenti che corrono tra i nostri Cigni e i nostri gatti, non ci è dato
sapere. Ci basta lo stato di non-belligeranza che da entrambe le parti (finora) si rispetta. I
Cigni non si avvicinano mai ai gatti e neanche li guardano, sebbene da diversi sintomi sia
chiaro che ogni minima particella dei nostri felini è da loro scrupolosamente registrata. I
gatti, invece, guardano moltissimo i Cigni. Li guardano tanto, con tale costanza e fissità,
che non mi meraviglierei di vedere un giorno le candide piume dei Cigni decorarsi, tipo
pois, di sei paia di occhi felini fosforescenti.
Ora sono fermi a un metro dal molo, i Cigni, e chinano il lungo collo in un
dignitoso saluto. Calmi e armoniosi, sorvegliati dai sei occhi ipnotici, mangiano senza
fretta il nostro pane, il nostro trifoglio, poi la seconda razione di pane e trifoglio, poi la
terza, la quarta e la quinta, poi, dopo un altro inchino pieno di stile, scivolano via
affiancati verso il fiume e i gatti possono finalmente guardare da un'altra parte. Devono
avere il bulbo oculare indolenzito.
La Piccola ricomincia a giocare coi peluches, a sgridare e perdonare il Bao. Il Bu si
accovaccia ai miei piedi, calando la saracinesca dei peli sugli occhi; adesso è felice del
tutto. E anch'io - quasi. C'è sempre un quasi. È un così bel mattino - troppo, fa male al
cuore.
Sul molo c'è un caldo, una luce, un nitore... E le voci dei figli, e il borbottio del
vecchio canotto Domokos che dondola nell'ombra della Darsena, e questi odori sapori
suoni, riflessi di estati vicine e lontane, e lui non c'è.
Accidenti a lui. Potrebbe essere qui sul molo, coi vecchi shorts e i suoi abbronzati
reumatismi intercostali a prendere il sole, a non prendere i pesci, a digrignare i denti alla
figlia grande, a dire "dài, dài" alla piccola, deficiente al medio, squilibrata a me, e godersi i
profumi e le voci e i ricordi e i colori, e invece va a sprecare ore così preziose, tra i
meccanici e i servosterzi e l'odore di benzina.
E poi non capisco perché tarda tanto. Non gli sarà capitato qualcosa?
«Gli sarà capitata una bionda», dice la Grande.
«Puah», dice Pop, non si capisce se alla sorella o alle bionde.
«È pieno di bionde, Lugano», insiste la Grande, per distrarmi.
Infatti a me le bionde non mi preoccupano per niente. Lui non lo sa, ma quando
fa tardi io non penso mai alle bionde, non mi passano neanche per la testa. Penso agli
incidenti, agli infarti, agli scontri, agli "improvvisi malori" di cui la cronaca è piena, a lui
che va fuori strada, a lui che sta male, a lui che vuole chiamarmi e non può, e altre
orribili cose del genere, finché mi trovo in uno stato pietoso e prego freneticamente il
Signore che lui sia con una bionda, con due bionde, con venticinque bionde. Purché stia
bene. Purché torni.
Così faccio regolarmente anche stavolta, mentre il terso mattino diventa un meno
terso mezzogiorno, e lui non è tornato. È l'ora del bagno, è l'ora del pasto, l'ora di
ricominciar a lavorare, ma non posso nuotare, non posso mangiare, non posso lavorare.
Sento la manina della Piccola, fresca e indulgente, infilarsi nella mia, sento la sua voce,
divertita ma protettiva:
«Fai così tuuutte le voolte...».
È vero. Le rivedo, tutte quelle volte, e mi sento ridicola, ma non posso farci
niente.
«Non capisco», dice la Grande, tra la commiserazione e l'impazienza, «quando c'è,
dici che non puoi lavorare perché c'è; quando non c'è, non puoi lavorare perché non c'è.
Quando siete insieme non fate altro che litigare e quando non siete insieme smaniate di
esserlo. Bel gusto il matrimonio».
«Esaltati», diagnostica flemmaticamente Pop.
È vero, è tutto vero. Quando c'è lui, non posso lavorare; ma quando non c'è non
posso fare niente. Quando c'è mi dà ai nervi, m'impiccia e litighiamo; ma quando non
c'è...
Signore, non litigherò più.

Ho appena finito di pensarlo che la Bestia scende bofonchiando per il viale e lui
scende bofonchiando dalla Bestia. È lì, con la blusa azzurra macchiata d'olio e non di
sangue, è lì, vivo, sano e senza bionde, e un minuto dopo stiamo litigando come pazzi.
Non so neanche cosa diciamo. Mi sembra, vagamente, di sentirlo blaterare di meccanici
che non c'erano, di Bestie che non erano pronte e di pasti che lui ha saltato, solo per
correre più in fretta da una moglie squilibrata e senza scarpe che invece di ringraziarlo lo
aggredisce; mi pare, ancora più vagamente; di sentire me che blatero di bionde che lui ha
incontrato, di telefoni che non ha usato, di lavoro che io non ho fatto per aspettare il
ritorno di un marito nevrastenico, sporco d'olio e adultero, e "comunque non me ne
importa niente". Questo lo diciamo tutti e due. Che non ce ne importa. Non è chiaro che
cosa non c'importi, ma continuiamo a ripeterlo. Che non ce ne importa niente. Proprio
un accidentaccio di niente. È anche poco chiaro per quale ragione, visto che non ce ne
importa niente, stiamo gridando come ossessi.
I cani abbaiano. I gatti scappano. I figli, profondamente intenti ai loro disegni,
vuoti e peluches, evitano accuratamente di voltarsi dalla nostra parte, non si sa bene se per
non essere coinvolti (cosa che càpita spesso, specialmente quando sono del tutto
innocenti), oppure per non farsi veder a ridere.
Solo la Rosa, ferma sulla porta della veranda con la sua scopa pro-forma, ci
osserva compiaciuta:
«Signora-gli-scaldo-il-rosto? », chiede con bella regolarità tra un urlo e l'altro.
Sento - ed è un momento drammatico - che di colpo, del tutto contro la mia
volontà, mi sta venendo da ridere. Ho l'impressione che anche a lui stia succedendo
qualcosa del genere, e che come me stia strenuamente lottando perché non succeda.
Offesi siamo e offesi dobbiamo restare.
«Scalda il rosto al signore», dico alla Rosa con voce glaciale. «Io devo andar a
lavorare».
Salgo le scale senza fretta, conscia di rappresentare una dignitosa dissolvenza di
signora offesa, e quando sono in cima sento nascere sulle foglie del giardino, fresco e
improvviso, un fruscio familiare. Ripiove! Per forza: è tornato lui, no?
Mi volto e lo vedo là, fermo in mezzo al viale, col naso in su, assolutamente
costernato. Di colpo l'arrabbiatura e la voglia di ridere si trasformano in pietà, una pietà
calda e struggente, come per un bambino ingiustamente castigato. Lo è. Un bambino che
ha sprecato un radioso mattino d'estate in una stupida officina per poi correre da una
stupida moglie che lavora sempre in uno stupido paese che si mette a piovere appena lo
vede.
Gatto, penso, come vent'anni fa, quando il ragazzo più solo e più scorbutico del
mondo mi guardò la prima volta con quei dolci occhi gialli, povero gatto...
Corro giù per le scale proprio mentre lui corre in sù: incocciamo e ridiamo.
Mentre dalla cucina sale un acuto odore di "rosto" bruciato, ci sediamo su un gradino a
bagnarci e a ripagarci a vicenda.
«Sai cosa facciamo?», dico. «Partiamo».
Si illumina. Le partenze, specialmente se improvvise, gli piacciono sempre: forse
gli danno la sensazione di potermi portare dove vuole e quando vuole, anche se per
poco. Credo che sia questo.
«Per dovunque», dico.
Avrò tempo di pentirmi cento volte di queste avventate parole. Ma adesso sono
contenta. La sua faccia, nonostante qualche ruga, è quella di un bambino premiato.
Stavolta, giuro, partiremo sul serio.
E il lavoro? Be'... Senti, coscienza, mi porterò dietro la macchina da scrivere, va
bene? Dice che va bene. O cielo, che vita. Avanti e indietro, fa' e disfà, litiga e ridi, trova
e perdi, pensa e dimentica... Che vita. Ma è la mia, e così l'amo, con tutto quello che di
bello e di brutto, di triste e di allegro c'è dentro, e così mi tocca viverla. Va be'.
«Intanto che il rosto brucia», dico alzandomi, «vado a preparare i bagagli ».
SEGUIRE IL MARITO
Pare incredibile, ma siamo partiti. Previa la messinscena che sembra indispensabile
alle nostre partenze. Urli del padre, musi dei figli, fughe dei cani, rivolte dei gatti, scioperi
della Rosa. E completa perdita di memoria mia: mi succede sempre, quando devo fare i
bagagli. Non solo quando devo fare i bagagli, dice il D. C. Dice che l'ho perduta nel
nascere. Ma non divaghiamo, per carità, se no perdo il filo e chissà cosa diavolo vien
fuori. A proposito di memoria.
Dunque. Secondo i piani iniziali del Gamberini, dovevamo partire quello stesso
pomeriggio, subito dopo la decisione presa di comune accordo sul gradino della scala
coperta d'edera, mentre la pioggia ci rinfrescava le energie e i buoni propositi. Erano le
due e mezzo.
«Che cosa ci vuole a preparare i bagagli?», disse, alle due e trentacinque, il D. C.
«Si prende la roba, si mette dentro e ciao. Un'ora è anche troppo. Un'ora e mezzo, va'».
Guardò l'orologio. «Alle quattro dobbiamo essere in viaggio, per non farci sorprendere
dal buio».
"Farsi sorprendere dal buio", è una frase che gli piace molto. Viaggiare al buio con
la Bestia è invece una cosa che gli piace meno, specialmente quando ha in mente (perché
l'aveva già in mente, lo si leggeva benissimo nel fumetto) di andare allo Stelvio.
«Ma si, portiamoci pure gli sci», disse, come per fare una concessione a me, che
non avevo aperto bocca. «Sarà difficile, ma chissà, metti che ci venga voglia tutt'a un
tratto di andar a fare una sciatina da qualche parte... Ma sì, prendiamoli, va'; tanto,
portarli non mi costa niente», disse con voce gaiamente remissiva e servizievole. Nel
fumetto stava scritto: Si va allo Stelvio, e sparo a vista su chiunque si opponga.
Questo alle due e quaranta. Alle due e quarantacinque gli sci erano già caricati sul
tetto della Bestia. Alle quattro e quarantacinque continuavano a essere l'unica cosa
caricata. Non per cattiva volontà mia, credetemi. Ammetto che l'idea di andare fino a
tremila metri, con quel tempo, coi figli le bestie la Bestia e le vertigini, non era proprio
all'apice dei miei sogni: ma la moglie deve seguire il marito, nella buona come
nell'avversa fortuna e anche nelle valanghe se càpita, quindi m'ero alzata dal gradino delle
decisioni tutta fresca di entusiasmo e di coniugali virtù, oltre che di pioggia. Alle due e
quarantacinque. Il fatto è che due ore dopo, come spesso accade, l'entusiasmo e le
coniugali virtù non erano più tanto freschi, anzi piuttosto sudaticci e smunti, e le valigie
assomigliavano più a crateri in eruzione che a valigie. Lui naturalmente diceva che lo
facevo apposta. Che m'ero messa d'accordo coi figli per tirare in lungo e farci
sorprendere dal buio. Eccetera eccetera.
Io non voglio negare - notate l'obiettività - di aver contribuito a ritardare la
partenza. Ma nego di averlo fatto di proposito. L'ho fatto perché ero moralmente e
tecnicamente impossibilitata a fare altrimenti. Ditemi voi come fa una donna di esile
corporatura, esile memoria ed esilissimo sistema nervoso, a portare a termine in due ore i
bagagli per cinque persone (per non parlar dei cani), delle quali tre (i figli) provviste di
ingombranti quanto inseparabili hobbies, una (io) provvista di un ingombrante quanto
inseparabile lavoro, e la quinta (lui) provvista di una inesauribile capacità di disfare quello
che gli altri fanno. In questo caso, quello che l'altra fa: visto che c'ero solo io a fare. In
una spaventevole confusione di oggetti bestie e persone.
Ma, direte voi, non ti aiutava nessuno? Permettetemi di ridere. Aiutare, eh? Chi,
secondo voi, avrebbe potuto aiutarmi?
La Rosa, dite voi. Eh no. Era giovedì pomeriggio, e il giovedì pomeriggio la Rosa
non lavora. Non le pertocca, se ben ricordate. Non già che fosse uscita: per niente al
mondo, neanche per la Guardia di Finanza, perderebbe lo spettacolo delle nostre
partenze, quindi era lì, appoggiata ora a questo ora a quello stipite, a guardare me che
naufragavo nei bagagli e a farmi oggetto delle sue oculate critiche ("Signora-quanta-
scrittura-che-ti-porti". "Signora-pure-la-niezione-ti-porti". La niezione, ovvero le mie fiale per
l'emicrania, simboleggia per lei la decadenza fisica dei datori di lavoro; mentre la
scrittura, ovvero il mio mestiere, ne simboleggia la decadenza intellettuale).
Ma il marito, dite voi, non aiutava? Come no. Aiutava, quello, altroché. Girando
intorno con gli occhi torvi e la barba lunga (lui dice di no, ma quando ha il nervoso la
barba gli cresce molto più in fretta), calpestando peluches ("se me li trovo in macchina li
sbatto tutti dal finestrino"), polverizzando alambicchi ("portati i libri di latino, invece!"),
ribaltando cavalletti ("ma impara a cucinare, Picassa dell'accidenti!"), aprendo la roba
chiusa, chiudendo la roba aperta, seminando ovunque mozziconi accesi e accusando tutti
di complottare contro di lui.
In quanto ai figli, costretti dai cattivi genitori a partire controvoglia, e per di più
esacerbati dalle insolenze paterne, manifestavano il loro dissenso con una esasperante
resistenza passiva e con un silenzioso sistematico boicottaggio: della partenza, dei
bagagli, dei genitori. I cani, avviliti e inquieti, continuavano a scappare fuori a
nascondersi sotto i cespugli martellati dalla pioggia, bagnandosi fino alle ossa, con le
conseguenze anche olfattive immaginabili; i gatti, presaghi del vicino tradimento,
miagolavano come anime del Purgatorio; e io avevo l'impressione di star facendo da ore
molti più movimenti di quanto fosse necessario, per motivi oscuri e con oscuri risultati.
La mia testa era una specie di poltiglia elettrica, da cui uscivano di tanto in tanto
rapide scintille, subito spente, di cose che avrei dovuto fare, di cose che non avrei
dovuto fare, di cose che non sapevo se avevo già fatto o no. I pigiami! Gli spazzolini da
denti! La mia corrispondenza! Le pastiglie per l'emicrania.? Le pastiglie per dormire! Le
pastiglie per svegliarmi! Il rasoio elettrico? Le pinne! Le gocce per il cuore? La mia testa!
Oh, la mia testa.
«Ecco, ci ha sorpresi il buio», disse la voce del Gamberini. «Sei contenta, adesso?».
Non ero contenta. Ero rincretinita. Pur di finirla coi bagagli sarei partita anche col
buio, anche per lo Stelvio, anche per l'Imalaia. Ma il diletto sposo disse che aveva la testa
sulle spalle, lui; che con quel tempo non viaggiava di notte, lui; che non esponeva a rischi
la famiglia, lui; e che per amor nostro doveva rimandare la partenza al mattino dopo. Lui.
«Ci sei riuscita», disse, tossico. «Ma non ricominciare la solfa domani mattina».
Non so di che solfa parlasse. «Alle otto dobbiamo essere già in viaggio. Sveglia generale
alle sette Udito il mio gemito, si voltò come un giaguaro: «Che cos'hai da far versi? Non
mi dirai che sei stanca? Se ho fatto tutto io!».
Certe volte una moglie si trova davanti a un'alternativa: o uccidere o tacere. Io
tacqui. Continuai a tacere mentre tiravo fuori dalle valigie i pigiami, gli spazzolini da
denti, i dentifrici, le pastiglie che con tanta fatica e dispersione di materia grigia ero
riuscita a mettere dentro, e intanto il Gamberini continuava a dire: «Ci sei riuscita», e
«Perché hai quell'aria lì adesso?», e «Su di te non si può mai contare»; il tutto peggiorato
dall'idea di alzarmi presto, cosa che particolarmente odio. Mi sentivo una vittima, ma di
quelle grosse. La vita mi appariva una lunga catena di sacrifici di bagagli e di mariti,
assolutamente indegna di essere vissuta.
«Signora-quanto-stai-moscia», disse la Rosa, mentre mi guardava preparare la cena.
«Domani-te-ne-vai-con-la-macchina-e-stai-moscia» deplorò, col tono da obiettore di coscienza
che sempre assume nei miei riguardi. «Ci-stanno-quelli-che-la-macchina-non-ce-l'hanno-signora.
«Ci-stanno-quelli-che-ci-pertocca-lavorare». Mi sfidò con lo sguardo. «Signora-perché-non-parli»
«Non mi pertocca», dissi con voce lugubre. «Chi non lavora non parla».
E lugubre rimasi per tutta la sera, mentre il D. C., che s'era pentito, per
rabbonirmi tentava di fare lo spiritoso, chiedendo ai figli se pareva loro il caso di andar a
chiamare Gassman, dato che lui non era all'altezza della tragedia. I figli ridevano. Io no.
Lugubre ero e lugubre mi ripromettevo di rimanere per molto tempo. Forse per due
giorni interi. Forse per tutta la vita. Cosi avrebbero imparato. A riconoscere i miei
sacrifici. A rispettare le mie tragedie.
Andai a letto con questi propositi e con l'emicrania. Il giorno dopo, però, me li
ero dimenticati. Mi rivengono in mente adesso, ma ormai è tardi, come si fa? Lasciamo
Gassman per un'altra volta. Mi succede sempre così.
La Rosa aveva l'incarico di svegliarci alle sette, naturalmente fummo noi a
svegliare lei alle otto e un quarto, e tutto ricominciò da capo: Gamberini di nuovo fuori
dai gangheri, figli di nuovo col muso, Rosa di nuovo critica ("loro-partiscono-e-a-me-mi-tocca-
alzarmi"), cani di nuovo in fuga, gatti di nuovo in rivolta, testa mia di nuovo in poltiglia,
valigie di nuovo in eruzione. E pioggia a torrenti. Comunque, una volta che ogni cosa
persa fu o parve ritrovata, e che tutto - me compresa - fu caricato, e che la Rosa ci ebbe
salutato dalla veranda con nostalgica mano tra il vorticare dei gatti rinchiusi, non
rimaneva che aspettare che la Bestia si inceppasse e non partisse. Invece, chissà come,
parti. Erano le dieci.
Al momento della partenza, la meta del viaggio, almeno ufficialmente, era ignota:
avvolta nel più profondo mistero. C'erano, è vero, gli sci sul tetto, ma cosi, perché, tanto,
portarli non costa niente. Dunque: destinazione a stabilirsi.
In quanto alla disposizione e alle condizioni di spirito dei viaggiatori, erano le
seguenti:
Davanti: il Gamberini col nervoso e la blusa scozzese al volante; di fianco io con
l'emicrania e il relativo fazzoletto in testa; in braccio a me il Bu col mal d'auto e il relativo
sacchetto di plastica legato al collo per raccogliere le eventuali conseguenze.
Dietro: a sinistra la Grande col cavalletto, la scatola dei colori, la bottiglia
dell'acquaragia, alcune tele con cavalli da dipingere, e due occhi celesti con dipinto
dentro un tizietto dai capelli rossi e la scritta: Addio, addio. Da notare che il tizietto in
questione, alle prese con gli esami di maturità, a San Mamete non era ancora arrivato; ma
poteva arrivare, forse domani, forse dopodomani, e lei non ci sarebbe stata. Inutile dirle:
"Ma stiamo via pochi giorni"; pochi giorni possono essere una voragine, a diciassette
anni: una voragine spalancata sotto le attese, sotto le occasioni, sotto le cose che ancora
non si sanno e forse non si sapranno più. Inutile dirle: "Ma lui ti aspetterà, starà con te
tutta l'estate". "Lui chi?", avrebbe risposto guardandomi con gli occhi azzurri ostili.
Sono stata anch'io una ragazzetta cosi, con un tizietto dagli occhi gialli disegnato dentro,
e orgoglio e paura e diciassette anni. Adesso sono sua madre, una signora della passata
generazione, che non può dirle niente, non ancora.
Al centro stava Pop, del tutto privo (fino a quando?) di problemi d'amore, carico
invece di formule e alambicchi, con un berretto da marine (da marine deficiente, dice suo
padre) che lui ama moltissimo e noi meno. Non parlava, perché parlare non gli è
congeniale, ma la sua magra faccia di adolescente troppa cresciuto lasciava chiaramente
intendere come le formule meditate a San Mamete fossero assai più piacevoli, intelligenti
e necessarie all'umanità che non le formule meditate in qualsiasi altro schifoso posto.
Nell'angolo destro stava la Piccola, anche lei con un sacchetto di plastica legato
al collo (soffre dello stesso disturbo del Bu), e con tutti i centotrentasette peluches che il
padre aveva giurato di far volare dal finestrino; parlava tra sé, con un querulo filo di
voce, di gatti abbandonati, di Cigni senza trifoglio, di ghiri con nessuno che ci giocava
insieme, e altri ignominiosi fatti del genere. Su tutto imperversava, enorme e apologetico,
il Bao, con la coda che non sapeva dove mettere e con la saliva che metteva in ogni
dove.
Pioveva sempre. II capofamiglia guardava la strada davanti a sé, immerso in
pensieri apparentemente reconditi. Fu dopo una ventina di chilometri che disse
improvvisamente, come folgorato da un'idea da cui non era mai stato neanche sfiorato
prima: «Sapete dove mi è venuto in mente che potremmo andare?».
«Allo Stelvio», risposero in coro i figli, tetri.
Ci rimase male. Di colpo mi fece tanta tenerezza che passai armi e bagagli dalla
sua parte, mettendomi a esaltare le virtù dello Stelvio, che non avevo mai visto, e dello
sci estivo, che non avevo mai fatto.
I figli, scettici e bastian contrari, dicevano invece che se proprio si doveva andare
in qualche posto era meglio andare al mare. Al mare, almeno, c'era bel tempo.
«Bel tempo?!», disse il padre, come se non avesse mai sentito una così grossa e
pericolosa fesseria. «Ah, ah. Bel tempo al mare! Ma non leggete i giornali? Diluvi,
uragani, nubifragi dappertutto, al mare. Spiagge deserte. Gente che scappa via... ».
«Fine del mondo», disse il Pop, cavernoso.
«Si salvano solo gli eletti residenti oltre i tremila metri d'altezza», disse la Grande.
«Duemilasettecentottanta, sorella Ennam», precisò con rispetto il Pop.
«Aaanche le beeestie?», s'informò la Piccola. «Aaaanche le beeestie si saaaalvano?».
«Forse», disse Pop, dubbioso. «Se non muoiono prima di arrivarci».
La Piccola si inoltrò nei meandri del Bao. «Perché muoiono?», chiese la sua vocina
dall'interno.
«Perché cadono in un burrone» vaticinò cavernosamente Pop. «Insieme a tutti i
padroni. È vero, sorella Ennam?».
«È vero», disse la Grande, biblica.
Capii che cominciavano a divertirsi. Anche perché cominciavano a capire che io
cominciavo ad avere paura. Non della fine del mondo, per intenderci: solo dei burroni.
Soffro di vertigini, io. Oltre che di paura. Mi disposi comunque a mostrarne anche di più
di quanta ne sentissi, che è tutto dire. Così la destinazione del viaggio, fin dal principio
sottintesa, divenne, tra l'unanime consenso, ufficiale. Con grande gaudio del capo
spedizione, che cominciò subito ad essere magniloquente nei confronti dell'alta
montagna, dei ghiacciai, delle rocce "dove salta il camoscio".
Beato lui che salta, pensai. Senza sci, poi.
«E se piove?» disse Pop.
«Piovere a tremila metri? Ah, ah! Senti questa», disse il capo spedizione. «Questi
credono che possa piovere a tremila metri! Ah, ah».
«E se nevica?», chiese la Grande.
Disse, dopo un attimo d'esitazione, che a tremila metri non nevica mai. Ah, ah.
«E com'è che ci si scia?», si informò salmodiando la Piccola.
Perché ci cade la neve d'inverno, fu la didattica risposta. Molta, molta neve.
D'inverno. D'estate no. Mai. C'è sempre il sole. Le nuvole, il grigio, la pioggia restano
giù, sulla volgare pianura, sulle montagne da poco, sulle mezze calze del rilievo, mentre
su, a tremila metri, nell'aria limpida e rarefatta, il sole splende sui picchi rocciosi e sui
ghiacciai.
«La Peppa », disse Pop.

Per la verità storica: a Bormio, dove ci fermammo a far colazione all'albergo del
nostro amico Pierino, il sole c'era proprio. C'erano anche delle nuvole, ma di scarsa
importanza, assicurava il Gamberini: nuvole di mezza montagna; ce le saremmo lasciate
dietro. Avremmo perfino dimenticato, a tremila metri, com'era fatta una nuvola.
Ripartimmo alla una del pomeriggio: sempre col sole, più quelle nuvole di scarsa
importanza.
«Cosa vi avevo detto?», trionfava il capo spedizione, mentre imboccavamo il terzo
tunnel della carrozzabile più alta d'Europa, e io cominciavo ad avere i capogiri. «Solo qui
c'è il vero bel tempo diceva. «Sole, sempre sole sul...».
«Le ultime parole famose D, disse Pop.
Al di là del tunnel non c'era il sole. Una nuvolaglia densa e nera ci veniva incontro
con sibili di vento. La Bestia, bofonchiante e gemente, sembrò sul punto di soccombere.
«Chiudete i finestrini», disse il capo spedizione, moscio.
Avevo le vertigini, avevo freddo, avevo paura; poi m'ero ricordata che l'alta
montagna può far venire il cardiopalma, perciò avevo il cardiopalma. Ma la faccia del
Gamberini, davanti a quella nera, minacciosa smentita alle sue smaglianti previsioni
meteorologiche, era così avvilita, che trovai la voce per dire: «Sarà una nuvola di
passaggio, vedrai»
«Non belare!», ringhiò, invece di ringraziarmi. «Certo che è una nuvola di
passaggio!».
«All'anima del passaggio», disse la Grande. Sprizzava allegria.
«Taci, sorella Ennam», disse Pop. Anche lui sprizzava.
«Uh, che nero là sopra! Uh, che precipizio là sotto!», salmodiava deliziata la
Piccola, tra un conato di vomito e l'altro. Al contrario del Bu, che ne fa una specie di
epopea, la Piccola vomita con estrema naturalezza, buonumore e organizzazione; porta il
sacchetto alla bocca, fa quel che deve fare, lo butta dal finestrino, tira fuori un altro
sacchetto, tutto senza smettere di partecipare alla conversazione, ai litigi o al
divertimento generali.
Questa volta si trattava di divertimento. Non per tutti, beninteso: non per la
Bestia che arrancava, non per me che avevo le turbe, non per il D. C. che ce l'aveva con
le mie turbe, non per il Bu che era in piena epopea, non per il Bao che ululava per
l'epopea del Bu; ma per i figli sì. Divertimento puro. Le loro tre facce eccitate e ridenti
nello specchietto retrovisore furono l'ultima cosa che vidi.
Non che dopo precipitassimo. Dopo, semplicemente, chiusi gli occhi. Con grande
ira del Gamberini, che non vuole che io chiuda gli occhi. E mi fa lunghi e vibrati discorsi
per spiegarmi le ragioni fisiche, logiche e tecniche per cui io non devo avere le vertigini
quando sono con lui. Come se alle vertigini si potesse comandare col sentimento. Come
se si potesse chiudere la paura, tac, con l'interruttore della logica. Chi non ha paura non
sa come sia brutto e triste aver paura. È una tale solitudine.
Non so quanto durò quel viaggio. Non riaprii mai gli occhi, nonostante gli urli.
Quando li riaprii, eravamo arrivati.
Non c'erano più nuvole, non c'erano più svolte, solo l'azzurro carico del cielo e il
bianco violento del ghiacciaio e l'oro scabro della roccia. Misi i piedi a terra e dimenticai
tutti i mali, tutte le paure, tutte le fatiche davanti a quel brullo, nitido splendore.
«Andiamo a sciare», dissi.
Lui si mise a ridere con gli occhi. «Osso della malora», disse. Mi passò la mano
aperta sulla faccia, in un gesto che fa di rado, breve, ruvido, pieno di gratitudine. Chissà
perché, poi. Mica era merito mio se c'era il sole.
Per trovare quello che ci occorreva per sciare fu necessario disfare interamente
tutti i bagagli, ma lo feci volentieri. Insomma, abbastanza.
Quando fummo pronti, il cielo si era coperto, tirava un'arietta fredda, ma il
Gamberini disse che era meglio. «Così non si suda», disse.
Sciammo per più di un'ora. Io continuai a cadere: questo è il mio modo normale
di sciare, e non mi secca. Ma anche il Gamberini continuava a cadere: e questo non è, di
solito, il suo modo di sciare. Lui è stato un mezzo campione; ha un sacco di medaglie e
di coppe, a casa. Di un po' di anni fa, ma in buono stato. Perciò cadere gli secca.
Specialmente se ci sono io a vedere.
«La neve è marcia», diceva, scuro in faccia. «Non si può sciare con una nevaccia
simile».
I figli sciavano benissimo, ma non lo dissi. "Loro sono giovani", avrebbe dovuto
rispondere. Non gli farò mai dire una cosa simile. Tanto meno quando siamo a sciare.
Sarebbe una tale cattiveria.
Mentre ci riposavamo dopo gli ultimi ruzzoloni, Pop ci passò di fianco pattinando
armoniosamente sugli sci come gli ha insegnato un tempo suo padre. «Serve niente?»,
chiese, e senz'aspettare risposta guizzò via per l'ultima discesa. Gli avrei dato una
racchettata in testa. Suo padre lo seguiva con gli occhi lucidi. Fiero e triste insieme.
Gatto, volevo dirgli, che cosa importa invecchiare, se invecchiamo insieme? Ma importava...
Non dissi niente.
Ci avviammo zoppi e indolenziti verso l'albergo, mentre il cielo sopra di noi
diventava color piombo e l'aria si faceva tagliente.
«Che razza di tempo», brontolava il Gamberini. «Come si fa a sciare con un tempo
simile, non ci si vede di qui a lì».
Quando arrivammo in albergo - i figli c'erano già da un pezzo - veniva giù un
nevischio fitto e gelido da tormenta.
« È neve di passaggio», disse la Grande, caustica.
«Sole congelato in falde», disse Pop.
«Pfu, pfu», disse la Piccola.
Il padre non era in grado di raccogliere le ironie. Aveva da fare a raccogliere se
stesso.
Siccome eravamo arrivati all'improvviso, senza prenotazioni, avevamo dovuto
accontentarci di una specie di soffitta larga circa quanto il Bao e lunga circa come la sua
coda, con cinque cuccette e niente caloriferi. All'arrivo, nell'euforia del sole,
dell'altitudine, dello scampato pericolo e della prossima sciata, m'era sembrata quel che ci
voleva per dei pionieri come noi.
«Così è bella la montagna!», aveva esclamato il Gamberini. «Quando ero ragazzo
io, per lavarmi la mattina dovevo spaccare il ghiaccio nel catino».
Anche mio padre mi diceva qualcosa di simile: tutti i padri, pare, hanno spaccato il
ghiaccio nei catini. Sono persuasa che anche Pop lo racconterà ai propri figli, e che i suoi
figli lo ascolteranno con la stessa aria scettica per poi raccontarlo un giorno ai figli loro, e
così... Ma non divaghiamo. Dicevo che, all'arrivo, la stanzetta mi era sembrata eccitante e
pittoresca. Ma quando si trattò di andarci a dormire, aprendosi il varco tra i cavalletti, gli
alambicchi, i peluches, la coda inquieta del Bao, i peli spaesati del Bu, gli arti aguzzi dei
figli e le costole ammaccate nostre, fino ai giacigli sepolti sotto le eruzioni delle valigie
sconvolte, mi sentivo assai meno pioniera. Lui pure, credo: a giudicare dalla faccia.
Comunque, non so come, ai letti ci arrivammo.
I figli - Grande compresa - erano allegrissimi, le facce colorite, gli occhi lucidi di
divertimento. Anche dopo che la luce fu spenta, continuarono per un pezzo a ridere, a
dire scemenze, a scagliarsi nel buio indumenti e peluches, che il Bao tentava invano di
prendere al volo, travolgendo piramidi di oggetti e di corpi umani. Noi due, infreddoliti e
depressi tra le lenzuola diacce, non parlavamo. Anche nel buio vedevo il suo fumetto
(Sono vecchio, ormai) e sentivo uno per uno i suoi dolori reumatici. Ai miei sono
avvezza.
«Osso, stai bene? », chiese dopo un po' la sua voce nel buio.
In verità, nonostante i capitomboli e il freddo, mi sentivo stranamente bene, adesso. Ma
non ebbi cuore di dirglielo, era come lasciarlo solo col suo avvilito fumetto.
«No», risposi, «mi fa male tutto».
Come immaginavo, sembrò un pochino consolato. «È il tempo», disse, non si
capiva se a me o a se stesso. «La neve così brutta, e il freddo...».
«Su, su», dissero dalle cuccette superiori le voci protettive dei figli, «vedrete che
domani ci sarà il sole». Non c'era il sole. Alle sette del mattino, svegliandomi da un
sonno di piombo, vidi per prima cosa i ghiaccioli sul vetro del finestrino; poi il cielo
livido fuori, i figli e i cani addormentati dentro, e la cuccetta del capo vuota. In preda a
presentimenti, mi alzai e aprii il finestrino. Nevicava. Guardai giù, sapendo già quello che
avrei visto: il Gamberini in giacca a vento e cappello tirolese, che camminava a gran passi
intorno alla Bestia bardata da viaggio. Sul tetto c'erano già caricati gli sci.
Stavo per richiudere il finestrino quando mi vide.
«Oh, era ora!», disse alzando la testa. Tutto allegro e pieno di giovanili energie.
Forse aveva spaccato il ghiaccio nel catino. «Su, alzatevi! Ho già caricato gli sci, voi
portate giù i bagagli. Mica dovrò far sempre tutto io, spero! Muovetevi, che si parte
subito».
Dove andiamo?», chiesi debolmente.
«Al mare, no?», rispose, come se lui l'avesse sempre detto. La neve danzava
gaiamente intorno alla sua faccia alzata. «Al mare almeno c'è il sole».
Richiusi il finestrino e cominciai a muovermi tra le piramidi di oggetti e di
membra. I figli sedettero sulle cuccette.
«Cosa stai facendo?», chiesero.
«I bagagli» dissi, amara.
La Grande si buttò indietro a ridere.
«Dove andiamo?», chiese la Piccola.
«Al mare», risposi. «Vostro padre dice che al mare c'è il sole».
«Esaltato», disse Pop.
VIAGGIANDO S'IMPARA

E così siamo partiti di nuovo. Verso il mare, adesso. Trascurando del tutto spiagge
topograficamente più abbordabili, puntammo diritti su Santa Marinella, perché là ci sono
due persone che amiamo molto e che vediamo troppo di rado; due pezzettini di famiglia
lontani. All'idea di Santa Marinella (solo settecento chilometri in più, dopo tutto) m'era
passata di colpo la stanchezza, ero riuscita a rifare i bagagli in meno di mezz'ora (l'elenco
delle cose dimenticate si sarebbe poi ingrossato di chilometro in chilometro) e mi sentivo
pronta a qualsiasi fatica, qualsiasi imprevisto, qualsiasi incidente: purché senza
spargimento di sangue. È l'unica cosa che chiedo alla Bestia quando ci mettiamo in
viaggio: niente spargimenti di sangue. Finora mi ha sempre accontentata. Si ammacca un
po' lei, magari, si accartoccia qua e là assumendo espressioni buffissime, ma noi dentro
siamo al sicuro. È tanto grassa.
Ma non cominciamo a divagare. Dicevo che ero contenta di andare a Santa
Marinella. Anche il Gamberini lo era (l'idea, così lui credeva, era stata sua). La Piccola
poi era contentissima: l'idea di vomitare per settecento chilometri non la turbava
minimamente, primo perché vomitare è per lei una specie di sport, secondo perché
quando ha i centotrentasette peluches intorno è difficile che qualcosa possa turbarla,
terzo perché dalla sera prima aveva scoperto una nuova affascinante attività, buona
anche per viaggio: quella delle rime, che scodellava a getto continuo, con voce querula e
fertilità allarmante.
«Matrizza», diceva il padre. «L'attitudine a poetare è una tara ereditaria»
«Ereditaria, luminaria, malaria», disse prontamente la Piccola. «Canna fumaria»,
aggiunse dubbiosa. . «Straordinaria, funeraria, orticaria» .
«Fermàtela», disse Pop con voce rauca. «Se ne dice un'altra la strozzo».
«Predicozzo», disse la Piccola. «Maritozzo, gozzo».
Venne imbavagliata con un golf rosso e al di sotto continuarono a uscire,
soffocate, rime in ozzo. Rime a parte, era elettrizzata: Santa Marinella (con le relative zia
Luccia e cugina Francesca, che adora) era l'unica meta che potesse consolarla del
distacco da San Mamete, dai gatti, dai Cigni e dai ghiri. Anche i due grandi erano
contenti: ma naturalmente, tanto per non venir meno al principio insito in ogni buona
famiglia democratica, discutevano.
Discutono sempre, in viaggio: democrazia a parte, bisogna pur passare il tempo in
qualche modo. Il padre, che non ha molto spirito democratico, nelle discussioni si
innervosisce, perde il filo circa come me quando scrivo, oppure lo ingarbuglia in modo
tale che ci resta tutto impigliato dentro, e dà in escandescenze per uscirne; poi vuole
sempre aver ragione, i figli pure, e siccome parlano due linguaggi diversi non si
capiscono, ne nascono domande sballate, risposte a pera, equivoci a catena, a valanga, a
marea, e devo intervenire io a fare da interprete, col risultato che la marea dilaga a un
punto tale che ci troviamo tutti immersi fino al collo, boccheggianti tra naufragi di
discorsi e relitti di proposizioni, "ma, come, ma se avevi detto, ma non capisci, come? chi
l'ha detto? ma io dicevo, eh, cosa? parlate uno alla volta, chi? quale?", finché ci mancano
le forze e la discussione finisce per asfissia. Subito dopo ne comincia un'altra, e la
democrazia familiare è salva. L'umore paterno meno, magari. Ma non si può avere tutto
a questo mondo.
Stavolta la stura alle discussioni la diede la Grande. La quale, rientrata dopo la
parentesi sciatoria nel cliché della giovane tediata, obiettava che farsi settecento
chilometri per fermarsi due giorni (le ferie del padre scadevano) e poi rifarsi altri
settecento chilometri di ritorno, era cosa faticosa e scomoda.
«Che, li fai a piedi?», chiese il padre.
Lei non rispose. A piedi o in automobile, pensava, sono sempre chilometri. Settecento. Da
San Mamete. Il tizietto coi capelli rossi fece capolino nei suoi occhi celesti, che
incontrarono i miei nello specchietto della macchina e subito si nascosero dietro le ciglia
bionde. Cara, pensai, fino a quando sarai così trasparente per me? Fino a quando vedrò i tizietti nei
tuoi occhi come vedo gli accidenti nei fumetti di tuo padre? Fino a quando sarai lo specchio, tenero buffo
e crudele, della mia stessa adolescenza? Vorrei risparmiartene gli spasimi, vorrei risparmiartene gli
errori, almeno qualcuno. Ma forse non potrò. E nemmeno dovrò. Ognuno deve avere la sua parte di
spasimi per avere la sua parte di incanti. Spero di ricordarmene.
Anche suo padre le diede un'occhiata rapida e scontrosa, nello specchietto. Poi si
rivolse a me:
«Vuoi dirmi che cosa desidererebbe la tua augusta figlia? Lo Stelvio non le va
bene, Santa Marinella non le va bene, a San Mamete sospira; vuole forse andare su
Marte? A disegnare quei suoi cavalli senza senso?».
«Senso, incenso, melenso», disse la Piccola. «I cavalli della Bruna sono bellissimi»
protestò poi, ignara e convinta. «Certo a San Mamete le riescono meglio», ammise.
Le orecchie della Grande diventarono rosse, appena appena. Diede alla Piccola
un'occhiata molto tenera, mentre la voce diceva, molto brusca:
«Sta' zitta, tu ». E al padre: «Io ho detto solo che da qui a Santa Marinella ci sono
settecento chilometri. Ho fatto, mi spiego? un semplice calcolo: di tempo e di benzina ».
Subito il padre ritorse con un altro calcolo: dal quale, attraverso enigmatiche
addizioni, sottrazioni e moltipliche (più le radici quadrate che Pop metteva dentro per
movimentare le operazioni), risultava che il viaggio fino a Santa Marinella e ritorno
sarebbe venuto a costare pochissimo. Quasi niente.
«Anzi, è un affare», disse Pop. «È noto che le popolazioni del Lazio usano regalare
bidoni pieni ai turisti ».
«Turisti? Che bidoni?» disse il padre. Cominciavano a non capirsi. «Ah», disse
rivolto a me, «ho capito. Tuo figlio crede di essere spiritoso. Uà, uà. Ma infine»,
proruppe rivolto ai due democratici di dietro, «la benzina chi la paga, voi forse? Invece
di ringraziarmi...».
«Grazie della benzina », dissero i due grandi in coro.
Il padre mi guardò spaesato, e io cominciai il mio lavoro da interprete:
«Il papà vuol dire che è lui che guida, e di questo dovreste ringraziarlo, perché è
una bella fatica che fa per voi e...».
«Ma che fatica!», mi interruppe, niente affatto grato della mia solidarietà. «Io posso
guidare per tre giorni di seguito senza stancarmi. Cosa vuoi che siano settecento
chilometri?».
«Chiedilo alla Bestia», disse Pop.
«Cosa?», chiese il padre.
«Che cosa sono settecento chilometri. Lei lo sa».
«Lei?», annaspò il padre additandomi. «Tu sai i chilometri...?».
«Non io, la Bestia », dissi scoraggiata.
«Quale? », chiese. « Il Bao? ».
Mentre la Piccola cercava affannosamente rime in ao, io lo guardai incuriosita e
vidi, da come gli scintillavano gli occhi gialli, che era lui che stava prendendo in giro noi.
Subito gli diedi corda, e andammo avanti per un pezzo a fare i dialoghi tra sordi,
divertendoci un mondo, noi alle spalle dei figli e i figli alle spalle nostre, finché a me
scappò un risolino, e un secondo dopo la discussione era colata a picco nell'ilarità
generale. Ci eravamo molto simpatici.
Subito dopo ne cominciò un'altra. Di discussione, dico: quella sulla rotta da
seguire, facciamo la Cisa, no facciamo la Futa, facciamo la Cassia, no facciamo l'Aurelia,
nuove consultazioni di carte, nuovi conteggi, nuove freddure dei due grandi, nuove rime
della Piccola, nuovi equivoci e annaspamenti, il tutto complicato dal fatto che
cominciavamo ad avere una fame d'inferno. Tutti, tranne il D. C., il quale è superiore agli
stimoli dello stomaco. Uno che da ragazzo rompeva il ghiaccio nei catini, figurarsi se non
sa resistere ai morsi della fame.
«Perché farci pelare o avvelenare nella prima trattoria che càpita?», diceva. «Mica
abbiamo fretta. Siamo in viaggio di piacere, no?».
«Tirare la cinghia, che piacere», disse la Grande.
«La cinghia si addice al pioniere», disse Pop.
«Pioniere, carabiniere, penne a sfere», disse la Piccola.
«Deficiente», disse il padre, punto sul vivo, «io so viaggiare e voi no, ecco tutto.
Lasciatevi guidare da chi ha più esperienza di voi. Prima di tutto, consultiamo la guida
gastronomica».
Consultammo la guida, o per meglio dire ce la strappammo l'un l'altro di mano per
un bel pezzo, ma nessuna delle trattorie elencate faceva al caso nostro, ovvero del
Gamberini. «Queste guide son fatte coi piedi», diceva, non c'è da fidarsi». E allora di
che cosa ci si poteva fidare? Del suo fiuto di viaggiatore esperto. Seguendo il quale
annusammo tutte le trattorie che incontrammo per decine e ventine di chilometri, ma
nessuna andava bene: una era piccola, l'altra era grande, una stava sulla sinistra, l'altra
stava sulla destra ma non c'era posto per mettere la Bestia, alla fine eravamo tutti
pestiferi, ma davvero, stavolta: appena uno apriva bocca tutti gli altri lo aggredivano, il
Bu latrava (latra sempre quando noi gridiamo); poi il Bao, che non può stare tanto
tempo rinchiuso in macchina, decise, sia pure con le orecchie basse e lo sguardo
apologetico, che per lui era ora di fare la pipì e la fece, e infine il Gamberini, preso dalla
disperazione (non già dalla fame), cacciò improvvisamente la Bestia in una qualsiasi
piazzetta di un qualsiasi paesino toscano, e al grido di «Ecco, sfamatevi!», ci indicò
irosamente a braccio teso una specie di orrida bettola di fronte.
Nella quale mangiammo benissimo (merito suo, beninteso), spendemmo
pochissimo (sempre merito suo) e imparammo un nuovo bellissimo verbo quando l'oste
che ci serviva le lasagne ci spiegò, con un eloquio che avrebbe fatto invidia a Dante,
come la Bestia fuori corresse grave pericolo, visto che la piazzetta dove l'avevamo
infilata non era una piazzetta bensì un cantiere edile.
«Non vorrei che gli operai gliela sfregacciassero», disse.
Il Gamberini diede un'occhiata alla Bestia circondata da operai armati di pale e
un'altra occhiata al proprio piatto colmo di lasagne.
«Che la sfregaccino», disse. E attaccò le lasagne. Quello che sa resistere ai morsi
della fame.
Da quel momento il verbo è entrato a far parte del nostro idioma quotidiano, e
frasi come: "Non me ne sfregaccia niente"; "Taci, sfregacciata"; "Guarda che ti
sfregaccio un occhio"; "Ma a te, scusa, cosa te ne sfregaccia?" sono all'ordine del giorno.
Viaggiando si impara.
Quando, dopo un'ora, risalimmo sulla Bestia (non molto più sfregacciata di prima)
toscaneggiavamo tutti. «O com'è bello, sembriamo il Tognazzi e Vianello», poetò la
Piccola tra gli applausi. Gli umori erano alle stelle. Ci eravamo di nuovo molto simpatici.
Il che naturalmente non ci impedì di discutere. Anzi. Discutevamo tanto che non
ci accorgemmo dei sospiri, dei rantoli, dei singhiozzi, delle disperate implorazioni della
Bestia, finché non fummo fermi del tutto - plof f - in aperta campagna.
«Be'?», disse il Gamberini, riinnestando interrogativamente la marcia. La Bestia
fece di nuovo plof.
«Ch'accade?», chiese Pop, con le c molto aspirate.
«Chiedilo al tu' babbo'», disse la Grande. «Il tu' babbo sa viaggiare».
«O deficienti», disse il babbo, «che c'entra il saper viaggiare con l'automobile
sfregacciata?».
«Sei sicuro», chiesi, « che la sfregacciata sia l'automobile?».
«Cosa vuoi dire?», chiese.
«Che lo sfregacciato, con licenza parlando, potrebbe essere il padrone
dell'automobile», dissi guardando una lucina rossa sul cruscotto.
Lui seguì il mio sguardo e il mento gli cadde di mezzo metro.
«La benzina», disse tra sé annichilito. «Sono rimasto senza benzina».
«Chi va senza benzina, con i piedi assai cammina» declamò la Piccola.
«O 'vvìa», disse Pop.
Da avvilito che era, il Gamberini divenne furibondo. Disse che c'era poco da
ridere. Che la colpa era nostra. Che gli avevamo fatto la testa a pallone con tutte le nostre
fesserie. Che doveva sempre pensare a tutto lui, che a viaggiare con gente che non sa
viaggiare uno ci rimette sempre, e adesso come la peschiamo la benzina?
«Potremmo chiedere soccorso alle macchine di passaggio», proposi, per vedere le
reazioni. «La Grande si mette in posa davanti al cofano, con l'occhio languido e le gambe
bene in vista, e subito si fermano decine di automobili cariche di giovanotti servizievoli ».
«Puah», disse la Grande. Però si capiva che le sarebbe piaciuto fare la prova. Pur essendo
estremamente timida e ritrosa, dentro, la Grande è in quella fase in cui si è sempre
ansiose di sperimentare le proprie attrattive sull'altro sesso, a titolo di collaudo. Salvo
scappare a gambe levate al momento buono. Io facevo così.
«Ma sì, mettile queste belle idee in testa, adesso», disse il padre scandalizzato. È un
padre all'antica, lui. «Non ti vergogni, tu che sei sua madre?».
«No», ammisi. «Non molto, credo».
«Ah, mi congratulo! Di' addirittura che l'avresti fatto anche tu, ai tuoi tempi!»
Ci pensai su. «Non c'erano tante automobili, allora», dissi. «E io non avevo delle
gran gambe. Non si sarebbe fermata neanche una bicicletta»..
Comunque adesso non passava neanche quella.
«Ci faremo sorprendere dal buio», citò Pop con voce cupa.
«Buio... Non trovo rime in uio», disse la Piccola, come se questo fosse il lato più
grave della situazione. Il Gamberini scese e spalancò il cofano con fragore esagerato.
Intanto in fondo alla strada deserta era comparsa una macchina. Gli occhi celesti della
Grande la guardarono avvicinarsi, apparentemente schifati.
«Targata Viterbo», disse con una smorfia. «Fa troppo pecora».
Pecora o no, passò oltre senza che nessuno pensasse di fare segnalazioni.
Eravamo troppo occupati: la Grande a non spostare le sue preziose gambe dall'interno
della Bestia, io e la Piccola a far pascolare i cani nella prateria circostante, il D. C. (tuffato
dentro il cofano dalla cintola in giù tanto per far scena) a insolentire il Pop che gli girava
intorno coi suoi vuoti al collo e il suo berretto da marine e la sua aria stratosferica,
apposta per farsi insolentire e dargli modo di scaricarsi i nervi. Quando mi parve che se li
fosse scaricati abbastanza, e che i cani avessero abbastanza pascolato e che io mi fossi
abbastanza sgranchita le gambe, mi avvicinai alla Bestia, aprii con mosse esperte il
portabagagli e ne tirai fuori una lattina, che presentai con degnazione alla famiglia.
«Che cos'è?», abbaiò il D. C.
«È un vuoto», osservò Pop.
«Sì, è un vuoto pieno» dissi. «Di benzina».
«E da dove esce?», chiese il Gamberini scombussolato. «Chi ce l'ha messo?».
«Io», dissi modestamente. «Si dà il caso che abbia una certa esperienza di viaggi ».
Lui mi strappò di mano la lattina. «Perché diavolo non lo hai detto subito?»,
ringhiò. «Perdere mezz'ora così da deficienti. Sei proprio squinternata del tutto».
Ecco come vi ringraziano i mariti. Voi li tirate fuori, con la vostra previdenza, il
vostro tempismo, la vostra esperienza di viaggi e d'altro, dalle situazioni idiote in cui
vanno continuamente a cacciarsi, e loro vi ringhiano e vi danno della squinternata.
Risalii in macchina molto amareggiata. Rimasi zitta per dieci minuti buoni, gli
occhi fissi davanti a me, la testa dolorosamente appoggiata ai peli del Bu. Lui sì mi
voleva bene. Lui solo. Cominciai a rimuginare su tutti i torti subiti dal marito e dalla vita
- non so se succeda anche a voi -, a rivangarli tutti con una specie di perverso sadismo,
finché non mi sentii del tutto venefica.
«E allora, com'è questa storia che non avevi delle gran gambe?», mi tentò il
Gamberini. La sua voce era ridiventata tenera, ma io niente. Eh, no. Troppo comodo.
Non mi degnai di rispondergli.
«Chi era senza gambe?», chiese la Piccola. Rieccoci con gli equivoci.
«La tu' mamma >, disse Pop.
«Adesso invece è senza favella», disse il D. C. «Quando ti serve Gassman me lo
dici»
Non fu necessario, perché proprio in quel momento, in fondo alla strada, apparve
il mare.
Il mare! Sporsi braccia e faccia dal finestrino a bere quel colore e quell'odore,
quell'aspra ventata di salmastro e di ricordi. Oh, il mare!
«Non esaltarti», disse Pop, indulgente.
Non ero esaltata. Loro non possono capire. Per un ragazzo il mare è soltanto il
mare. Per me ogni volta che lo rivedo - così di rado, e sempre per poco - il mare è un
incontro inebriante e solenne, un ritorno inatteso, un balenare improvviso di tutte le
cose grandi, libere e splendenti che ho sognato e inseguito e che non ho raggiunto. Io
sono qui, piccola e nevrastenica, col mio breve tempo e la mia breve strada e le mie
implacabili radici, e il mare è sempre là, libero e sconfinato, con la sua grande voce e il
cielo vicino e un tempo eterno.
Ma queste cose non si possono dire ai figli. E al marito men che meno, pensai.
Figurarsi che cosa ci capisce, di queste cose, un marito. Lui conta i chilometri, dimentica
la benzina, consulta le carte... Mi girai a guardarlo con astio.
Non contava i chilometri. Non consultava le carte. Non guardava la strada.
Guardava, al di là della strada, il mare. E c'era gioia nei suoi occhi, e c'era rassegnazione e
dolore, proprio come nei miei. Anche lui da ragazzo aveva sognato la libertà, la
grandezza, i lunghi cammini, e aveva trovato me - figli povertà litigi orari fissi nervi
scossi fallimenti lacrime legami - e a un tratto non m'importava più niente delle mie
rinunce, ma sentivo dolere dentro di me tutte le sue. Perdonami, pensai. Questa breve strada,
così dura da percorrere, questo breve tempo così difficile da vivere. Caro, perdonami.
Anche lui si voltò a guardarmi, e mi sorrise con gli occhi gialli, mentre il pomo
d'Adamo gli andava lentamente su e giù. Perdonami, diceva il fumetto.
Sì, certe cose non si possono proprio dire. Ma capire sì: qualche volta. A noi
succede. E a voi?
I figli parevano perplessi del nostro silenzio.
«Ch'accade?», si informò cautamente Pop.
«Niente», disse il padre «La tu' mamma ha rimandato il Gassman e la tragedia»..
«Tragedia, sedia», declamò la Piccola. «Morto d'inedia».
«O 'vvia», disse Pop.
«Ma piantala», disse la Grande. «Cambia eloquio, che siamo nel Lazio».
«Va' a morì ammazzata», disse Pop per compiacerla.

Arrivammo a Santa Marinella al tramonto. Stanchi, sporchi, pesti e quasi afoni a


furia di discutere, di fraintenderci, di litigare e di ridere.
Ci accolse un cielo infuocato e drammatico sopra un mare turchese cupo, striato
qua e là teneramente di verde, e una strada sabbiosa spazzata dal vento salato. In fondo
alla strada camminavano senza vederci quei due pezzettini di famiglia staccati dal ramo:
una piccola donna e una piccola ragazza, sole. Mi pareva impossibile non veder
camminare accanto a loro un uomo ragazzo dagli occhi celesti e dal cuore ribelle, che era
un padre, che era un marito, che era mio fratello. II primo ramo di quella grossa pianta,
spezzato. Mi pareva impossibile, lì ferma sotto quel drammatico cielo, di poter sentire
insieme tanta gratitudine e tanto dolore. Un enorme dolore per tutte le cose perdute,
lacerate via, morte, un'enorme gratitudine per tutte le cose che non ho perduto, l'amore, i
figli, la speranza, la fatica: le mie care, vive radici. Grazie per le radici. Grazie per questo
tempo e per questa strada, anche se brevi.
Lui mi stava vicino, zitto. Anche i figli tacevano, guardando Luccia e Francesca
che camminavano sole in fondo alla strada. Fu la Piccola a rompere quello strano, gonfio
silenzio.
«Ehi voi, siamo noi!» gridò la sua vocetta acuta.
Luccia e Francesca girarono di scatto la testa - una bruna appena spruzzata di
grigio, l'altra lucida e bionda - e buttarono per aria le braccia.
Subito ci mettemmo a correre disordinatamente, gridando, e un momento dopo
eravamo un unico caldo viluppo di zii nipoti cani braccia gambe code risate e guance
umide sotto quel cielo rosso.
I rami spezzati facevano un po' male.
«A' deficienti», ci apostrofò con malfermo accento romanesco il Gamberini,
«valeva o no la pena di fare quei settecento chilometri?».
Sperai che la mia voce fosse abbastanza dolce quando gli dissi di sì.
«Però se portavamo anche i gatti era meglio», disse la Piccola. «Gatti, misfatti,
piedi piatti, matti».
E LORO BALLANO IL CHA-CHA-CHA

Furono tre giorni bellissimi. Forse perché così improvvisi; non li avremmo goduti
tanto, se li avessimo già avuti in programma. Nuotate tra gli scogli, corse sulla spiaggia,
vento salato, e sole, finalmente. Sole sui nostri reumatismi, sulle rime baciate della
Piccola, sui cavernosi monosillabi del Pop, sui discontinui umori della Grande.
La sera, nel giardino della villetta sul mare, noi tre grandi (quattro col Bu
accovacciato ai miei piedi) stavamo a chiacchierare per ore. Non so se succeda anche a
voi con le vostre cognate, ma Luccia e io ci vediamo talmente di rado che quando ci
incontriamo il sacco delle cose che abbiamo da dirci non finisce mai. Questa volta poi
sul fondo del sacco pesavano come pietre il dolore e la morte e gli assurdi, grotteschi
problemi pratici che sempre si accompagnano al dolore e alla morte. Lui cercava di
aiutarci, nel suo brusco, goffo, patetico modo da uomo. Ci aiutava a tirar fuori anche le
cose gaie, i ricordi più giovani, le conquiste, i figli, finché a poco a poco tutto sembrava
meno assurdo e più facile: anche il dolore. Parlavamo e parlavamo fino a ore impossibili,
mentre di sopra la Piccola dormiva abbracciata ai suoi peluches sognando nuove rime e i
suoi gatti lontani, e il Bao disteso ai suoi piedi faceva la guardia, ovvero dormiva come
venti cani che dormono, e forse sognava il giardino di San Mamete e i ghiri che
capriolavano sui rami dei noccioli sotto la luna piena.
Nel portico della villetta, brulicante di ragazzini dai quattordici ai diciotto anni, la
Grande ballava il chacha-cha e falciava cuori maschili come mosche (sempre a titolo di
auto-collaudo, immagino), mentre Pop, col berretto da marine spinto indietro sulla nuca e
l'espressione sofferente, ciondolava sulla soglia della sua difficile età, troppo cresciuto
per starsene al di là con la Piccola e la chimica astrale e l'infanzia, e non abbastanza
cresciuto per passare al di qua con le Ragazze, i Ragazzi, il cha-cha-cha e la birra a go-go.
«Cug!», lo chiamava invano Francesca, la cuginetta romana. Nella nostra famiglia i
cugini si chiamano tutti Cug, tra loro. Quella dei Cug è una specie di massoneria. Anche
Francesca, pur vivendo così lontana, ne è parte attiva. «A' Cug, te movi?», diceva
tirandolo per il braccio magro e recalcitrante. «E fàmose sto cha-cha-cha».
Francesca ha la stessa età di Pop, ma ha già passato la soglia, senza tante storie. È
morbida, gaia, estroversa e rumorosa quanto Pop è angoloso, chiuso, laconico e serio.
Ma vanno molto d'accordo. Sono Cug.
«E dàje!», lo incitava lei, camminandogli attorno a passo di danza. «Mica è difficile,
guarda: cha, cha, cha..».
«Sparisci, esaltata», diceva Pop, cavernoso. Non voleva ballare, per paura di
sembrare ridicolo. Ma neanche voleva andar a dormire, per paura di sembrare piccolo.
«Muoviti, deficiente!», gli gridò a un certo punto il padre, col tatto da elefante
caratteristico della categoria. «Cosa fai lì come un mortinpiedi! Io alla tua età... »
«Spaccavi il ghiaccio nei catini», disse Pop, lugubre.
«Catini?», disse il padre. Cominciavano a non capirsi. «Ghiaccio? Io ballavo, altro
che! E mi divertivo! Sta' su dritto! E fa' qualcosa! Altrimenti va' a dormire».
Pop girò su di lui gli occhi neri, vellutati, ostili. Lasciami in pace. Non disse niente.
Continuò a stare lì, sbadigliando di nascosto, a ciondolare sulla soglia del portico e
dell'adolescenza.
«Se stesse qui ancora una settimana si sveglierebbe di sicuro» diceva suo padre.
«Te lo ritroveresti lanciato»
Pop lanciato... «Non so perché hai tanta fretta che si lanci», dissi, «quando invece
ti scoccia tanto che si lanci la Grande».
«Che discorsi!», fu la prevista, scontata risposta paterna. «Lei è una ragazza, no?».
Già. Una ragazza di diciassette anni: lo specchio della mia adolescenza. Ma Pop...
Chi ci capirà niente? Là fermo sulla soglia illuminata, chiuso nel suo difficile guscio, mi
sembrava così segreto, a un tratto. Credi di conoscere i tuoi bambini come te stessa, ne
potresti mettere in parole ogni pensiero, desiderio, paura e fantasia, e a un tratto non
sono più bambini, non li conosci più, non puoi più aiutarli. Pop, chiamavo dentro di me,
o Pop, aspetta ancora un po'.
Forse la metto un po' troppo tragica, pensai. Ha solo quattordici anni, dopo tutto.
«Tu com'eri a quattordici anni?», chiesi a suo padre.
Lui sembrò pescare dentro una distanza infinita.
«Io... Boh», disse poi.
Il mare respirava davanti a noi sotto la luna e c'erano di nuovo nell'aria tutte le
cose che avevamo sognato e non raggiunto. A un tratto fummo molto vecchi, io, lui, la
Luccia, il Bu. Molto molto vecchi.
«E dàje!», gridava Francesca nel portico. «Cha, cha, cha».

Di giorno tutto cambiava. Correvamo da una spiaggia all'altra con la Bestia carica
di ragazzi fin sul cofano e nel portabagagli, tra latrati di cani, pestoni negli stinchi,
accartocciamenti di membra e insolenze in romanesco. Sole, mare, sabbia calda, panini
imbottiti livellavano tutto: anni, ricordi e problemi, e avevamo tutti la stessa età della
Piccola.
Tutti tranne la Bestia: la quale, dopo aver ansato e sospirato e bofonchiato per due
giorni, la mattina del terzo, durante una gita a Sant'Agostino (eravamo in diciassette a
bordo), cominciò a dare i numeri. Faceva strani versi, che non aveva mai fatto, e trasaliva
ogni tanto come se le stesse salendo un febbrone.
«A Santa Marinella le farò dare una guardata», disse il Gamberini, noncurante.
Dalla guardata non risultò niente. C'erano quei versi, c'erano quei trasalimenti, e
c'era una perdita d'olio, ma in quanto alle cause, i meccanici ne sapevano circa quanto il
Gamberini.
«Ma io domani mattina devo partire per Milano», diceva lui. «Posso fidarmi?». I
meccanici si strinsero nelle spalle. È il comportamento normale dei meccanici di fronte
alla Bestia.
Il Gamberini decise allora di portare la Bestia all'officina specializzata in Bestie, a
Roma.
«Così rivediamo Roma, dopo tanto tempo, io e te», disse. Guardò l'orologio. «Se
partiamo subito possiamo tornare per cena». Alzò una mano a prevenire un'obiezione.
«Figli e cani li lasciamo qua con la Luccia», disse con energia. «Vèstiti come si deve e vedi
se ti riesce di pettinarti qualche capello, non pretendo tutti ».
Ci riuscii: circa. Partimmo alle tre del pomeriggio, soli come sposini, tutti
pimpanti. M'ero messa un vestito, anzi il vestito francese, e lui la blusa azzurra col bordo
bianco che fa tanto yachtman. Dal cancello i figli ci facevano ciao con la mano, frettolosi e
distratti, ansiosi di tornare a giocare, ballare, ciondolare. Appena la Bestia si mosse,
sparirono. Rimasero solo il Bu e il Bao a piangere contro il cancello.
Nel viaggio d'andata il Gamberini cominciò a magnificare i vantaggi di Roma, il
clima, le strade, gli orari delle banche, i pini, il Foro, la gente che non s'affanna a correre,
a lavorare, a pigiarsi come quei deficienti là di Milano. No?
Dissi che sì, effettivamente, in fondo... Trascinata dalla sua dialettica, dai pini della
via Aurelia, da quell'aria stimolante e pigra, e dal suo buonumore, così raro, e dal fatto
ancor più raro di essere noi due soli, arrivai a dire, e forse anche a pensare, che sì,
davvero, sarebbe stato meglio vivere a Roma, quel clima meraviglioso, l'Appia antica, lui
avrebbe avuto i pomeriggi liberi, il Foro, io avrei lavorato più tranquilla, divertirci, forse
sarei anche ingrassata, e chissà quanti spunti nuovi, e anzi, come mai non ci eravamo
ancora trasferiti?
Arrivammo a Roma alle quattro.
«Ah, che città», disse subito il Gamberini, guardandosi intorno con occhio lirico.
«Che luce, che strade... ma cosa fa questo deficiente?». Il deficiente era un autista che gli
veniva addosso - diceva lui - da sinistra. Trattandosi di un romano, il Gamberini si limitò
a rivolgergli un sorriso di amabile rimprovero.
«A' morto de sonno», disse l'autista.
Il Gamberini inghiottì. Inghiottì molte altre volte, durante le due ore che
impiegammo - tra sensi unici, sensi vietati, deficienti a sinistra, deficienti a destra, giri
viziosi, indicazioni contraddittorie e morti de sonno in ogni dove - a trovare la famosa
officina specializzata. Quando ci arrivammo, il Gamberini mi faceva pensare a un barile
di dinamite in incognito. Sorrideva ancora, comunque. Era a Roma, nevvero, e non a
Milano, dove la gente si arrabbia per qualsiasi sciocchezza.
Erano le sei. Alle sette eravamo ancora lì: a guardare due meccanici specializzati in
Bestie che guardavano la Bestia come se fosse un dinosauro capitato in isbaglio in casa
loro. Ogni tanto si scambiavano sottovoce qualche pigra espressione in romanesco che,
dalla faccia che facevano, doveva essere divertente. Per loro. In confidenza: anche per
me. Li trovavo spiritosi, saggi, e talmente invidiabili... Ma non ditelo al Gamberini.
Lui aveva da fare a comprimere la dinamite per non saltare in aria.
«Sono le sette», disse. «Non si potrebbe accelerare l'operazione?».
«Acceleriamo sì», dissero i meccanici cominciando a slacciarsi le tute. «Sono le
sette, no? Noialtri andiamo a casa ».
«E la mia Bestia, voglio dire la mia automobile?». « La lasci qua », dissero. « Se ci
abbiamo tempo uno di questi giorni le diamo una guardata ».
«Ma io devo tornare a Milano! Devo partire domani mattina! ».
Si strinsero nelle spalle.
«E allora parta, no?».
«Ma la macchina perde olio!».
«E che je fa? La lasci perdere».
«Ma tutti quei versi che fa’? ».
Sporsero le labbra. «Se ne sente tanti de versi», dissero. «Anche alla radio, se ci fa
caso. Se facesse la cortesia de spostarsi, noi dobbiamo chiudere».
Era troppo sbalordito per esplodere. L'indignazione gli aveva bloccato i riflessi.
Portò fuori la Bestia come in trance. La saracinesca dell'officina si abbassò dietro di noi, e
solo allora il barile di dinamite prese fuoco. A mie spese, si capisce. Non so come, ma la
colpa di tutto era mia anche questa volta. Ero io che gli avevo fatto perdere tempo. Che
gli avevo fatto fare un sacco di chilometri per niente. Che gli avevo fatto traversare
un'intera città abitata da minorati della circolazione per portare la macchina in un'officina
abitata da minorati della meccanica. Io con le mie idee balorde. Io con la mia smania di
Roma e dei romani, bella roba, ero contenta adesso?
Io zitta, è inutile parlare, quando è in quelle condizioni. Bisogna lasciarlo scaricare.
«E adesso», disse con una voce già diversa, più scoraggiata che furente, «bisogna
ritraversare Roma». Era l'ora di punta. Macchine e strade ci correvano vertiginosamente
intorno in tutti i sensi, e il Gamberini non mi pareva più un barile di dinamite ma un
bambino perduto nel bosco.
«Non si potrebbe evitare di traversare il centro?», dissi timidamente. «Forse ci sarà
un modo di raggiungere l'Aurelia dall'esterno».
Fece una smorfia (mai accettare per buoni i consigli della moglie), però tirò fuori
la carta. La osservò per qualche minuto a ciglia aggrottate, mormorando tra sé: «Santa
Marinella, Roma, Civitavecchia, via Cassia, ma dov'è 'sta Aurelia?», infine disse che la
carta era fatta male e che era meglio chiedere a qualcuno del luogo.
Ci rivolgemmo a passanti dall'aria esperta, ma si vede che erano esperti in qualche
cosa d'altro. Santa Marinella? Civitavecchia? Evitare il centro di Roma?
Ci guardavano come ridicoli marziani. Chissà perché vogliono evitare Roma, si leggeva
chiaramente nei loro fumetti. È così bella Roma. Caput mundi. Che deficienti, questi milanesi.
Sollecitati, comunque, ci davano vaghe e complesse indicazioni nelle quali le parole via
Aurelia, via Cassia, Civitavecchia, settimo chilometro si mescolavano continuamente alle
parole Grande Raccordo Anulare: di queste ultime sembravano molto soddisfatti. « Il
Grande Raccordo Anulare», ripetevano guardandoci come se si aspettassero un
applauso. «Sa, quello nuovo. L'hanno fatto per le Olimpiadi. Se prende il Grande
Raccordo Anulare non sbaglia più ». Su questo punto, strano, parevano tutti d'accordo.
Partimmo quindi alla ricerca del Grande Raccordo Anulare, sebbene il solo nome fosse
per me fonte di diffidenza e di oscuri presentimenti. Seguendo le indicazioni ricevute
girammo per mezz'ora nel caos del traffico, finché ci ritrovammo davanti alla porta
dell'officina da cui eravamo partiti.
«Visto che da queste parti sono tutti deficienti», disse il Gamberini, «sarà meglio
chiedere a un vigile». Dopo un'altra mezz'ora di ricerca lo trovammo. All'inizio sembrò
scarsamente interessato ai nostri problemi: ma quando sentì nominare il Grande
Raccordo Anulare si scosse; e poco mancò che si mettesse sull'attenti:
«Sissignore. Il Grande Raccordo Anulare. È quello nuovo, sa. L'hanno fatto per le
Olimpiadi. Lei va dritto così, sempre dritto fino al settimo chilometro, gira a destra ed
ecco a lei il Grande Raccordo Anulare. Di lì partono tutte le strade».
Una volta si diceva che tutte le strade portano a Roma. È un detto scaduto. Oggi
tutte le strade portano al Grande Raccordo Anulare. Infatti, seguendo le indicazioni del
vigile, stavolta lo trovammo. E lo percorremmo: all'infinito, credo. Ho l'impressione di
chilometri e chilometri percorsi a vuoto, decine di bivi e quadrivi avvistati con grida di
"Oh, un bivio!", cartelli che indicavano ogni sorta di posti, direzioni, vie e paesi, fuorché
quelli che ci servivano. Intanto veniva buio, avevo fame, pensavo ai miei ragazzi e ai miei
cani abbandonati e cominciavo a sentirmi molto nervosa. I miei neri presentimenti si
avveravano: lo sapevo che quel G.R.A. (non lo nominavo più neanche col pensiero, per
scaramanzia e disgusto) non ci avrebbe riservato niente di buono. Ma tacevo. Vedevo
che il deposito di dinamite del D.C. si era rapidamente ricaricato e bastava qualsiasi
parola, sillaba o consonante per farlo esplodere. Zitta, mi dicevo, zitta e buona, o la colpa di
tutto sarà di nuovo tua. Ma era inutile. Era colpa mia comunque.
«A dar retta alla moglie uno diventa matto», disse tra i denti senza guardarmi: la
mia sola presenza fisica, anche se silenziosa, gli era nociva. Frenò bruscamente e si
rivolse a un ciclista di passaggio:
«Scusi, questo è il Grande Raccordo Anulare del cavolo?», gli chiese.
«Ce sta scritto», rispose il ciclista masticando gomma
«E l'Aurelia dove sta?».
Spostò il bolo di gomma da una guancia all'altra. «Dritto de qua», disse di
malavoglia. «A due chilometri trova un paese. Nel paese ce sta una stradina a destra e
una a sinistra. Lei prende quella de sinistra e arriva alla Cassia».
«Ma io devo andare all'Aurelia», digrignò il Gamberini.
«E dopo la Cassia ce sta l'Aurelia, no?», cantilenò il ciclista. Non disse morto de
sonno, ma lo pensò.
«Ah », disse il Gamberini. «Grazie».
Il ciclista rimase fermo a guardarci dietro, col bolo di gomma tutto spinto da una
parte.
«Sei sicuro di aver capito bene?», chiesi, timida.
«Non sono scemo! Cosa c'è da capire? Due chilometri, il paese, la stradina, la
Cassia, l'Aurelia. Ti pare difficile? L'importante è uscir fuori da questo Gr...».
«Non nominarlo», dissi.
Dopo una dozzina di chilometri comparve un paese. «Eccolo, hai visto?», disse il
Gamberini trionfante
«Eccola la stradina a sinistra! Cosa ti avevo detto? Basta avere un po' di pazienza...
Per fortuna ho il senso dell'orientamento, io. Se dovessi dar retta a te mi ci vorrebbe la
bussola»
Imboccando la stradina, ci lasciammo alle spalle il G.R.A., ma non i suoi malefici
effetti, che ci seguirono per ore attraverso l'Agro Romano in una specie di interminabile
incubo. Ancora adesso se mi dite Agro Romano mi vengono i sudori. Sono un tipo
nervoso.
La stradina era molto stretta, ma in compenso molto lunga. Il cielo era ormai tutto
nero, alla fame erano subentrati i crampi allo stomaco, erano le otto e mezzo, erano le
nove, erano le nove e mezzo, poi non osavo più guardare l'orologio, e la stradina
continuava, sempre uguale, stretta, deserta, inesorabile, tra case cantoniere chiuse e buie,
cupole di prati tondeggianti, salite e discese e svolte una dietro l'altra, sempre uguali,
all'infinito, e io cominciavo a pensare davvero che non sarebbe finita mai, che tra un
anno e due anni e cento anni saremmo stati ancora lì a girare nell'A.R. (non nominavo
più neanche quello), condannati a percorrere in eterno una stradina senza uscita, invocati
invano dai figli e dai cani e dai gatti e da tutte le cose che amiamo.
Adesso sembra da ridere, ma al momento non era da ridere affatto. Sono un tipo
nervoso, ve l'ho detto.
M'era presa l'angoscia. O, per dirla col Gamberini, mi s'era girata la rotellina. E
come sempre quando mi si gira, mi era venuto un affare in gola, una specie di strangolo
per cui ogni volta che inghiottisco faccio un versetto ridicolo, tra il singhiozzo e lo
squittio, che ha effetti deleteri sul consorte
«Piantala di squittire!», mi ingiunse. «Si può sapere che cos'hai? Non siamo nella
giungla! Non ci sono leoni! Siamo in Italia, nell'Agro Romano...».
«Non nominarlo», squittii. Mi sentivo male sul serio. «Voglio i miei bambini»,
dissi, avevo perso la testa. «Voglio il mio paese, voglio la mia casa...».
Mi aspettavo un'esplosione e invece no. Si fermò e mi prese le braccia.
«Sei con me», disse, la sua voce era tenera e triste. «Non ti basta essere con me?».
Chiusi gli occhi e girai la faccia contro la sua blusa da yachtman. Non avevo più
paura. Ero solo spaventosamente triste, e anche lui, e non sapevamo neanche bene
perché. Forse era quel cielo stellato, quella campagna muta, e quel nostro essere lì soli -
noi due soli - e sapere che non bastava più. Un giorno avevamo chiesto alla vita solo di
poter stare insieme, dovunque e comunque, ma insieme; invece la guerra ci aveva
separati subito, la paura, la fame, la morte erano passate sulla nostra lontananza, sul
nostro tremendo silenzio: e adesso che eravamo insieme, senza più fame senza più paura
senza più morte, non bastava più. Manca sempre qualcosa. Sempre, sempre qualcosa
Quando rialzai la faccia; la sua blusa azzurra era umida e io mi sentivo meglio.
Non squittivo neanche più: non molto, insomma. «Devo proprio fare una cura
ricostituente», dissi soffiandomi il naso.
«Squilibrata», lui disse, ma con dolcezza.
Rimise in moto, e proprio dietro la prima svolta apparve ai nostri occhi increduli
una camionale. Grande, grossa, illuminata, con le macchine che ci correvano sopra.
«Forse è un miraggio», dissi.
Forse era un miraggio anche il motociclista fermo all'incrocio, al quale ci
rivolgemmo.
«Per Santa Marinella?», disse. «Devono tornare a Roma, prendere il Grande
Raccordo Anulare e... ».
Vi risparmio il séguito.
Vi dico solo che arrivammo a Santa Marinella a mezzanotte. Parenti e amici non
sanno ancora spiegarsi come due persone sane di mente o quasi, come noi siamo,
abbiano impiegato cinque ore a percorrere una distanza che gli altri percorrono in
cinquanta minuti. Neanche noi sappiamo spiegarcelo. E fortuna che la Bestia,
nonostante i versi e le perdite d'olio, non si fermò mai, se no diventavano cinque giorni.
Arrivammo in uno stato pietoso. Non tanto per la stanchezza, il nervoso, la fame
e la rabbia, quanto per il pensiero dei figli, di quel che dovevano aver patito non
vedendoci tornare. Dovevano essersi sentiti soli al mondo, così lontani da casa e con
genitori dispersi. La visione della Piccola in lacrime ci aveva letteralmente seviziati per le
ultime due ore. La Piccola che piangeva, la Grande che la consolava con la voce rotta e
gli occhi quasi verdi che ha quando sta male. Pop che andava a rintanarsi da solo in
qualche angolo come sempre fa quando ha paura di tradire un sentimento troppo forte.
E tutto per causa nostra. Cari, state tranquilli, stiamo arrivando, gridavamo loro in silenzio da
lontano. Se avete figli, potete capire come ci sentivamo.
Non piangeva, la Piccola. Stava seduta sul gradino davanti al cancello coi suoi
peluches e con tre bambine della sua età alle quali parlava fitto fitto in rima, eccitata. col
codino che le guizzava di qua e di là sul cocuzzolo. Il Bao disteso ai suoi piedi dormiva
come un macigno e non alzò neanche la testa al nostro arrivo. Lei sì la alzò, un
momento solo. Era rossa in faccia, con gli occhioni nocciola luccicanti.
«Ah, ciao», disse, dopo averci guardato di sfuggita.
E ricominciò a parlottare con le sue nuove amichette, ridendo con voce acuta.
«Com'è che non sei ancora, a letto?», chiese il padre con una voce che doveva
essere severa ed era soltanto ferita.
«Letto?» disse la Piccola. «II letto è un angolo retto. Sorbetto. Gigetto» E giù a
ridere con le amichette in modo molto sciocco.
Procedendo verso il portico incontrammo, seduta su un tavolo, la Grande che
tubava con cinque o sei tizietti, dondolando le lunghe gambe, la testa rovesciata indietro,
ridendo in un modo che non le conoscevo. Cercai nei suoi occhi celesti l'immagine del
tizietto coi capelli rossi, ma non ce la trovai.
«Salve», disse distratta. Anche la voce era diversa. Arrivammo sotto il portico. La
prima cosa che vedemmo fu Pop che ballava il cha-cha-cha. Come un orso col mal di
mare. Rideva forte con la sua dama, gli occhi neri brillanti, e sembrava che avesse
passato la famosa soglia: che si fosse addirittura catapultato al di là.
«Ciao, defunti», disse vedendoci, e passò oltre. «Cha, cha, cha».
Entrammo in casa, zitti. Potevamo essere defunti sul serio... e loro ballavano il
cha-cha-cha. Be', meglio così, no? Avremmo dovuto essere contenti che non si fossero
preoccupati per noi. Solo che non lo eravamo.
«Finalmente!», disse la Luccia venendoci incontro dal soggiorno. «Ero in
pensiero... Cosa è successo? Avete certe facce. Volete mangiare qualcosa?».
Rispondemmo di no. C'era passata la fame.
Dalle scale si precipitò giù uggiolando il Bu, venne a rotolare ai miei piedi con
rochi latrati di gioia. Andai di sopra tenendolo in braccio. Almeno lui.
Mezz'ora dopo eravamo tutti a letto, i ragazzi nelle loro brande di fortuna, noi due
nella bella stanza sul terrazzo. Dalla porta socchiusa la luna disegnava sul muro un filo di
luce perlacea vibrante, e noi non riuscivamo a dormire. È la stanchezza, pensavo. Anche il
nodo che avevo in gola doveva essere la stanchezza. La sua mano si sporse a prendere la
mia, e restammo lì aggrappati l'uno all'altro nel buio, più soli che nell'Agro Romano, a
guardare quel filo di luce perlacea. Poi la porta del terrazzo cigolò piano e la luna fu
cancellata da un'ombra lunga e sottile; restò ferma un poco, sentivo il suo respiro leggero
e il battito del mio cuore. Poi la sua voce:
«Siete lì?», sussurrò.
«No, siamo là», rispose rudemente il padre.
L'ombra fece un passo avanti.
«Non fatelo più» pregò la sua voce soffocata. Non vedevo i suoi occhi ma era
come se li vedessi, teneri, azzurri, trasparenti, gli occhi della mia bambina grande.
Sedette sul bordo del mio letto.
«La Piccola ha pianto tanto», disse.
Per questo aveva la faccina così rossa, e gli occhi lustri... la mia Piccola.
«Ho cercato di consolarla, ma non ci riuscivo», disse. «Abbiamo chiamato quelle
ragazzine per distrarla. Per questo è rimasta alzata: se andava a letto ricominciava a
piangere. Non ditele che ve l'ho detto».
«E Pop?», sussurrai.
Fece una risatina. «Pop ha bevuto un sacco di birra. Non avete visto che era
mezzo sbronzo?».
Per questo rideva tanto e sembrava tanto lanciato. Non era lanciato, era sborniato.
Per dimenticare. Per dimenticare i genitori.
Inghiottii.
«E tu?», chiesi timidamente alla Grande. Non rispose. Voltò la faccia verso la luna
e vidi il suo profilo nitido, ancora infantile. «Torniamo presto a San Mamete, mamma»,
mormorò.
Scappò fuori sul terrazzo a cercare il suo tizietto lontano nella luce della luna e noi
restammo li zitti nel buio: il nodo in gola era dolce, adesso. Senza dir niente ci alzammo
e andammo a vedere la Piccola e Pop che dormivano: la Piccola a naso in su, col codino
sciolto e due peluches stretti al cuore. Pop a naso in giù, col lenzuolo in testa e il
quadernetto delle formule che sporgeva dal guanciale.
Tirammo un profondo sospiro. Adesso potevamo dormire anche noi.
LE SORPRESE DEL SANTO MAMETE

Così ci siamo lasciati alle spalle il mare: il sapore di libertà, d'infinito e di evasioni
soltanto sognate, e siamo di nuovo qua. Sul nostro piccolo lago, chiuso tra le montagne e
il profumo dei tigli, tanto più simile alle nostre vite. Qui sono i nostri confini. Qui le
nostre radici. Oltre ai nostri gatti, ai nostri Cigni, ai nostri ghiri. E agli innumerevoli Cug,
volgarmente detti cugini (quando arriveranno); e alla Paola e al Giaci: quelli sono già
arrivati. Vanno e vengono come piccioni viaggiatori. Hanno messo la roulotte nel
campeggio vicino a... Un momento, dice il lettore pignolo, questa Paola e questo Giaci io
non so chi siano.
Possibile? Possibile che non ve ne abbia ancora parlato? Una cosa per noi così
importante, quotidiana, mescolata alle nostre giornate come il prezzemolo si mescola a...
a che cosa si può mescolare il prezzemolo? Non me ne intendo molto. Poi il prezzemolo
non mi piace. Non perdiamo il filo e torniamo alla Paola e al Giaci, che mi piacciono di
più. Non sono amici di vecchia data come sono i Polpettoni e gli Armen; ci conosciamo
solo da tre anni, ma quando lo diciamo non ci sembra possibile, perché è come se
fossimo nati e cresciuti insieme.
La Paola ha circa la mia età, gli occhi azzurri, un profilo nordico e fiero, solo che
non è né nordica né fiera; è gaia, bella, svanita e così dolcemente balorda che solo a
vederla mi si allarga il cuore. Oltre alla balordaggine, ci affratellano le emicranie
intensive, che ci raccontiamo con voluttà e dovizia di particolari agghiaccianti ("come un
martello in testa, pum, pum! Tu hai vomitato? A me lacrimava l'occhio"), e ci affratella il
lavoro, eccitante e affannoso.
La Paola lavora per gli stessi giornali per cui lavoro io. Disegna: fa vignette,
disegni di moda, eccetera. Quest'estate, per ragioni misteriose, deve anche disegnare
contesse. Un tanto di contesse la settimana. "Sono indietro di due contesse"; "Se non ho
più contesse sabato veniamo su", sono frasi che ricorrono continuamente nei suoi
discorsi di quest'estate. Alla parola "contessa" i baffi del Giaci assumono una piega
malinconica.
Il Giaci è un tipo che non parla: quando, in via eccezionale, è costretto a farlo,
non parla con la bocca, ma con i baffi. È un pittore, il Giaci; però io non l'ho mai visto
dipingere, se non in rari ritagli di tempo e con gli stessi baffi malinconici che assume di
fronte alle contesse della Paola. Per il resto del tempo l'ho sempre visto occuparsi di
barche. Leggere libri di barche, costruire modelli di barche, disegnare progetti di barche,
fare calcoli per progetti di barche. Anche la sua presenza a San Mamete è connessa con
le barche, oltre che con noi. Infatti sulla riva opposta del lago c'è un piccolo glorioso
cantiere, il quale cantiere gli sta costruendo una barca, la quale barca e stata oggetto di
suoi disegni, calcoli, meditazioni e fruscii di baffi per circa tre anni. Adesso è in cantiere.
Vicino al cantiere c'è un camping, nel camping la Paola e il Giaci hanno messo la loro
roulotte, e adesso vanno e vengono ogni fine settimana e ogni volta che la Paola non
rimane indietro con le contesse.
Stavolta si vede che era avanti, perché era lì. Erano lì tutti e due, quando
arrivammo da Santa Marinella al tramonto. Seduti sulle nostre sdraio, coi nostri gatti
sulle ginocchia e la nostra Rosa che li intratteneva con amabili conversari. La Paola
disegnava una contessa ritardataria e il Giaci beveva tè. Se non disegna barche, il Giaci
beve te. "Tè" è anche una delle poche parole di cui non sia avaro.
Era bello rivederli: i gatti, la Rosa, e loro.
Ma ci eravamo appena salutati, e io e la Paola avevamo appena cominciato il
nostro vorticoso vaniloquio a base di giornali, direttori, settimane, cronache, contesse,
Giaci dice, Dino dice, tutto mescolato insieme, che il Giaci posò a terra la tazza del tè e
mosse i baffi.
«Dobbiamo andare», tradusse la Paola. «C'è Orsina chiusa sola in roulotte».
«Perché non l'avete portata?», dissi. Orsina è la loro cagnolino, una samoieda di
nove anni, bianca, pelosa e ipersensibile, tipo zitella inibita, con due grossi drammatici
occhi marrone e una voce querula. Non conosce ancora le nostre bestie, Orsina: sono
troppe, e abbiamo paura che tutte insieme possano costituire uno choc troppo forte per i
suoi nervi delicati. «Bisogna pure che ci decidiamo», dissi. «Potremmo presentargliele una
alla volta. Magari da lontano».
Il Giaci mosse i baffi.
«Un'altra volta», disse la Paola. «Adesso dobbiamo andare perché domani mattina
partiamo presto e... Eh, Giaci?... Vi abbiamo aspettato solo per salutarvi perché... Eh? Tu
quante emicranie hai avuto? Io una Brutta e una Bruttina, e adesso mi pare che... Sì,
Giaci, vengo... Eh? Tu hai vomitato? Io solo una volta, e a che punto stai con le
cronache, io le contesse le ho quasi... Sì, Giaci... Ciao Dino, Osso, Bruna, Pop, Tatti, Bu,
Bao, John, Mio, Rififi, eh? Ma sì; Giaci, sto venendo!... Ciao a tutti, torniamo su appena
ho finito di illustrare la punt... A proposito, sai che il dirett...».
Continuò a parlare, e io continuai a parlare, tutte e due con le teste voltate
indietro, mentre il Giaci la trascinava fuori dal cancello e il Gamberini trascinava me in
cucina. Le parole "settim..... ..Annab..... ..emicr..." "contess..." si dispersero nell'aria della
sera.
Le ritroveremo. Oramai anche la Paola e il Giaci fanno parte di San Mamete, e
San Mamete di loro. Sono capitati qui per caso a trovarci un giorno di tre anni fa, e
adesso anche se volessero non potrebbero fare a meno di tornarci. È un accaparratore, il
santo Mamete. Una specie di vecchio mago sornione, che fa gli incantesimi alla gente per
farla tornare.
Lo pensavamo io e il Gamberini un paio d'ore dopo, mentre stavamo distesi come
sempre sul terrazzino, col lago davanti e tutti i bagagli da disfare di dietro, a guardare la
luna frugare le cime dei vecchi alberi, a sentire le voci dei figli svegliare gli echi del
giardino e la Rosa rompere stoviglie in cucina e i ghiri capriolare sul tetto per farci festa.
«Che vigliacco d'un paese», brontolò il Gamberini, tanto per tener fede a una
tradizione. «Vedrai che farà bel tempo, adesso che parto io».
Oh, me n'ero dimenticata... Per consolarmi e per consolarlo, dissi:
«Hai ancora domani».
«Sssst», fece. «Non farti sentire, se no domani quello fa piovere». "Quello" è il
santo Mamete, che lui accusa di essere sempre lì con le orecchie tese a sentire i suoi
progetti per buttarglieli all'aria e combinargli un sacco di scherzi che un santo perbene
non dovrebbe permettersi: far piovere quando lui arriva e far smettere di piovere quando
lui parte; far calare il vento appena lui ha alzato la vela del Domokos, e far alzare il vento
appena lui l'ha calata; inviare convogli di pesci creduloni a tutti i più sprovveduti
pescatori del luogo, e disperdere all'istante tutta la fauna lacustre non appena lui arriva
sul molo completo di lenza e di vermi; e altre consimili nefandezze. A volte, anche se
non lo dice, è chiaro che sospetta il santo Mamete di fare lega con me ai suoi danni. "Il
tuo amico santo", dice allora con voce amara. O anche: "Quel tuo Mamete",
disconoscendogli perfino la beatificazione
Ma non divaghiamo. Dunque, il giorno seguente era il suo ultimo giorno di ferie:
o meglio della prima sessione estiva di ferie, perché il Gamberini le ferie le prende a rate,
anzi a ondate successive, e deve avere un suo speciale sistema segreto perché ne fa
sempre molte di più di quanto ufficialmente non gli spetti; uno ha un sistema per la
roulette, un altro ha un sistema per le ferie. È una mia impressione o stiamo divagando di
nuovo? Be', l'ultimo giorno della prima rata delle ferie estive il santo Mamete, che forse
era distratto, non fece piovere. Anzi ci regalò una tersa, dolce, radiosa giornata di fine
giugno. Io non lavorai. Primo perché vi sembra logico lavorare quando è l'ultimo giorno
che c'è il marito in vacanza? Secondo perché vi sembra logico lavorare quando siete stati
lontani sei giorni e avete un sacco di cose da ritrovare, salutare, fare, scoprire?
Pare incredibile quante cose possano succedere in sei giorni in un paese dove per
generale opinione non succede mai niente. Persiane rotte dai nubifragi, tegole spostate
dai ghiri, nasturzi divelti dai gatti, vasellame polverizzato dalla Rosa, rubinetti che non si
chiudono, cassetti che non si aprono, vetri scheggiati, fili elettrici carbonizzati, pareti
alluvionate, pavimenti squinternati; ma queste sono piccolezze. Le normali quisquilie del
santo Mamete.
La notizia più importante, inaspettata e fulminante ce la diede il mattino presto la
Rosa, non senza i giri viziosi e i grovigli linguistici che le sono indispensabili. I figli
stavano alzandosi, il Gamberini era in giardino a ripiantare i nasturzi divelti, e io ero in
cucina con la Rosa a preparare le prime colazioni per le bestie e per noi, quando lei disse:
«Così signora hai visto che è strapirato».
«Stra... chi?», chiesi.
«Il fiume signora. È strapirato. Eschito di fuori' signora. Così lori stanno dentro. E venuto pure
lui a vederli».
«Un momento», dissi. Cominciavo a sudare. «Chi è venuto a vedere chi?»
«Lui. Quello di Lugano. Dice che ci vuole solo più trenta giorni signora»
Calma, mi dissi, soprattutto calma. «Per piacere, Rosa», dissi con voce dolce, «puoi
spiegarmi meglio chi è questo lui di Lugano?».
«Che ne so», disse risentita. «Mica gli chiedo il nome. Mica sono curiosa io
signora».
«Cosa sta dicendo?», mi chiese il Gamberini, che si era fatto sulla soglia con le
forbici da giardino in mano. Non si rivolge mai direttamente alla Rosa, né la Rosa a lui.
Se hanno qualcosa da comunicarsi se lo comunicano attraverso me. «Se ho ben capito»,
disse facendo scattare minacciosamente le forbici, «questa fa entrare in casa, mentre noi
siamo via, dei tipi che non si sa neanche chi siano e cosa facciano»
«Io lo so cosa fa quello», disse la Rosa in tono stizzato. «Fa il torinostrogo», annunciò.
Non senza un'occhiata di trionfo verso l'incomprensivo signore.
Il quale cominciava ad avere l'aria atterrita che sempre assume di fronte ai
vocaboli della Rosa. «Il... che cosa ha detto?», mi chiese debolmente.
«To-ri-no-stro-go», squillò la Rosa spietata. In preda al panico, il Gamberini
scomparve.
Cominciavo a sentirmi smarrita anch'io. Vediamo, mi dissi con la forza della
disperazione, cosa può essere un torinostrogo? Un torinese, per esempio? «Quello sta a
Torino signora», disse ragionevolmente la Rosa, «mica viene qua». Un astrologo, allora? Un
nostromo? Un toreador? Un otorinolaringoiatra? La Rosa mi guardava come se fossi
pazza, e tale ormai mi sentivo. Mi succede sempre così con la Rosa. Ma quando siamo
tutte e due sull'orlo del collasso nervoso, interviene qualcosa a squarciare le tenebre e a
ricondurci alla normalità psichica. O quasi. Anche questa volta accadde lo stesso.
Arretrando impaurita davanti alle mie incalzanti domande a base di nostromi e
otorinolaringoiatri, la Rosa disse con voce lamentosa:
«Mica ce n'ho colpa io del torinostrogo signora, io sono una povera ragazza che non sa niente ma
sta sicura che lori stanno bene signora con tutto il pane e trifoglio che ci abbiamo dato».
Tirai un respiro profondo. La scintilla era scoccata. Pane e trifoglio. Santo cielo,
era così semplice. Si trattava dei Cigni, naturalmente; nessun altro, ch'io sapessi,
mangiava pane e trifoglio in casa nostra. E il torinostrogo era evidentemente l'ornitologo
di Lugano. Come avevo fatto a non capirlo prima? «Vuoi dire il dottore dei Cigni, vero
Rosa? dissi con voce sedativa. L'ornitologo?»
«Ma te l'ho detto subito signora», disse con un paziente sorriso, «che era il torinostrogo».
«E che cosa è venuto a fare?».
«Te l'ho già detto signora. A vedere le uova». Stavo per smarrire di nuovo la
ragione, poi capii: fu come una folgore. «Le uova!», gridai balzando in piedi. I Cigni, i
Cigni avevano fatto le uova! Proprio mentre noi non c'eravamo. «Dino! Ragazzi!», gridai
correndo fuori, seguita dalla Rosa. «Dove le hanno fatte?», le chiesi. «Ancora al fiume»?.
«Ma te l'ho detto che il fiume è strapirato signora», si lamentò la Rosa. «Che è eschito di fuori
e lori le hanno fatte dentro. Le hanno fatte in Darsena le hanno fatte»..
In Darsena! Nella nostra Darsena? La Rosa non si rendeva conto dell'importanza,
del significato, della carica emozionale contenuta in quella piccola notizia. Forse neanche
voi ve ne rendete conto. Per darvene un'idea, bisogna che vi accenni l'antefatto. Già una
volta, vedete, i Cigni hanno fatto le uova: tre preziosissime uova covate da un intero
paese, oltre che da noi e dai Cigni. Si erano fatti il nido alla foce del fiume, lo
rafforzavano e lo perfezionavano ogni giorno, finché, dopo quaranta giorni, in un terso
mattino di sole, scoprimmo nel nido, al posto delle uova, tre spauriti mucchietti di piume
grigioline. Chiamati dalle nostre grida, i paesani accorsero e accorsero i turisti. Fermi in
sentinella vicino ai loro piccoli, il Cigno e la Cigna li difendevano dagli estranei con
un'aggressività e una ferocia impressionanti, e li mostravano dolcemente agli amici
piegando verso di loro i lunghi colli con una grazia e una fierezza che ci scioglieva il
cuore. Dopo tanti anni di solitudine, i nostri Cigni avevano finalmente i loro tre figli: tre
come i nostri. Poi venne la notte, e con la notte un nubifragio spaventoso: quando
sentimmo gli alberi del giardino piangere sotto il vento e il fiume ruggire come una belva
nella notte, lui e io ci alzammo e andammo fino alla foce, sotto quell'uragano, ad aiutare i
Cigni. Matti, voi dite? Sì... Altri l'hanno detto. Tutti quelli che non hanno mai visto San
Mamete e i Cigni. Tutti quelli che non capiscono come si possano amare gli animali
come amici, vecchi amici con cui dividere la buona e la cattiva sorte. Matti, va bene.
Fu tutto inutile. Il fiume impazzito spazzò via sotto i nostri occhi il faticato nido,
e l'acqua nera vorticosa ci ributtò ai piedi, alla fine del temporale, tre inerti mucchietti di
piume grigioline.
Tre come i nostri.
Il Cigno e la Cigna si chinarono verso di loro, toccandoli teneramente, inutilmente
col becco.
Be', andò così quella volta. E per tanto tempo, ogni volta che vedevamo i Cigni
fermarsi al largo del fiume, come in attesa di qualcosa, ci si stringeva il cuore. Adesso
capite perché la notizia difficoltosamente ottenuta dalla Rosa mi mettesse in un tale stato
di eccitazione, e perché un momento dopo ci affollassimo alla porta della Darsena,
facendo a gomitate per entrare per primi.
Era proprio vero. Sulla discesa di cemento coperta d'alghe e di muschio, vicino al
vecchio Domokos che si dondolava brontolando all'ormeggio, c'era proprio il nido. Sopra
il nido c'era la Cigna che covava, mentre il Cigno girava tranquillo per la Darsena
raccogliendo qua e là alghe e ramoscelli galleggianti, che portava senza fretta alla
consorte. Senza smettere di covare, la Cigna li raccoglieva e li disponeva abilmente
attorno al nido, per rinforzo e miglioria.
«Come sempre, la moglie ha lavoro doppio».
«Ma il marito ha il lavoro di concetto», lui disse. «Di covare son capaci tutti».
«Sì, provaci», dissi.
Al suono delle nostre voci, la Cigna si voltò. Chinò il lungo collo in segno di
saluto, poi si alzò e si spostò cortesemente di fianco al nido, per permetterci la visuale. Il
Cigno si mise all'altro lato, fiero. Guardate, dicevano con un roco, sommesso frr frr.
Guardate che belle uova che abbiamo.
«Sono quattro, stavolta», dissero i figli dopo aver osservato bene.
«Quattro?», dissi pensosamente. «Che sia un segno del destino?».
«Ah no!», disse il Gamberini tenendo le mani avanti a parare un colpo
immaginario. «No, eh? ».
«Stavo solo scherzando», dissi.
« Sì sì, lo so, come no. Tu scherzi, e io mi ritrovo pieno di figli o di cani ».
«O di gatti», disse la Grande.
«Ma questi sono cignetti», disse la Piccola.
«Per adesso sono soltanto uova», tagliò corto il padre con sano senso pratico e
virile raziocinio. «Normalissime uova di pennuto. Non cominciamo a perdere la bussola
come l'altra volta, che se andava avanti ancora un po' la covata diventavamo tutti pennuti
anche noi».
«Pennuti, astuti. A piè venuti», poetò la Piccola. «Non facciamoci prendere dalla
psicosi del lieto evento», disse il Gamberini. «Manca ancora un mese, non ha detto così
l'ornitologo o nostrocomio che sia?».
«Puah», dissero in coro con me i figli, all'indirizzo dell'ornitologo. Cosa c'entrava
lui? Chi lo voleva? Era forse servito a qualcosa, l'altra volta? Aveva forse aiutato i Cigni a
raccogliere ramoscelli di rinforzo per il nido? Aveva forse sfidato l'uragano e le tenebre e
il fiume per andare a difendere i cignetti? Puah. Cosa ne sapeva lui dei nostri Cigni? Lui
aveva studiato ornitologia, ma non aveva diviso con loro per anni pane e trifoglio e
attesa. Noi, noi soli li avremmo aiutati, difesi e protetti. Non avevano forse scelto la
nostra Darsena, i Cigni?
«Stavolta potete stare tranquilli», dissi loro. «Ci pensiamo noi. Qui siete al riparo
dalla pioggia, dal vento, dai nubifragi, dagli ornitologhi, da tutto».
«Non dai gatti», disse il Gamberini, che non perde occasione di denigrare i miei
gatti, specialmente quando gli hanno divelto i nasturzi.
«Cosa vuoi che gli facciano i gatti?», dissi. «Degli innocui gattini come i nostri ».
Seguendo il suo sguardo mi girai. Accucciati in fila sulla soglia della Darsena,
assolutamente immobili, i tre innocui gattini fissavano sui Cigni sei ingordi occhi
fosforescenti.
Lievemente innervosita, dissi: «John! Mio! Rififi! Via di lì!».
Come sempre sensibili al mio richiamo (è la voce che dà loro da mangiare) i tre
girarono lo sguardo su di me e si alzarono, di malavoglia. Bastò quel piccolo movimento
perché si scatenasse l'inferno. Il Cigno e la Cigna cominciarono a svolazzare per la
Darsena come pazzi, sbattendo minacciosamente le ali contro le pareti con un frastuono
da squadriglia di bombardieri in picchiata ed emettendo dal becco suoni tali che al
confronto il ruggito del leone infuriato è una canzonetta all'italiana.
In una frazione di secondo i gatti erano scomparsi. Volatilizzati. Subito il Cigno e
la Cigna si acquietarono, ridiventando due candidi armoniosi pennuti: come non fossero
stati loro a fare tutta quella cagnara prima.
«Che diavolo gli era preso?», dissero i figli perplessi. « Non hanno mai avuto paura
dei gatti prima ».
«Prima erano soli», disse il padre. «Non avevano figli... Voglio dire uova ».
«È per loro che hanno paura», dissi. «Non per sé».
Neanche noi avevamo paura un tempo, così lontano e breve, quando eravamo
soli. La povertà, gli anni, il dolore, la vita, niente poteva farci paura. Adesso che non
siamo più soli, abbiamo paura di tutto. Per loro. E domani sarà il loro turno. Non so se
questo sia molto bello o molto triste. Dipende dai momenti. In quel momento mi pareva
bello.
TEMPI DURI PER I TIZIETTI

Tutto sembrava così tranquillo. Ce ne stavamo fuori sul molo a goderci il sole
generosamente offertoci, per l'ultimo giorno di ferie del capo, dal santo Mamete in un
momento di buonumore. A torso nudo, gambe divaricate e lenza in agitazione, il
Gamberini litigava in silenzio coi pesci che non abboccavano. Deficienti, diceva il fumetto.
Crumiri. Venduti al santo Mamete. Io, bocconi sulla pietra calda del molo, con un cappello
di paglia in testa e il Bu sulla schiena nuda, leggevo lettere: come di consueto. Come di
consueto la figlia piccola schierava peluches e infilava rime; il Bao abbaiava alle onde e
divorava zoccoli; il Pop faceva esperienze fisiche su se stesso immergendosi e
riemergendo in continuazione, con le formule che gli uscivano dal bocchettone della
maschera insieme al respiro; i gatti nascosti dietro il muro della Darsena tentavano di
guardare i Cigni senza esserne guardati; e la figlia grande, con le spalle voltate e la testa
inclinata, dipingeva... Ohi, ma che pasticcio di cavallo è quello? mi chiesi.
Spostai il cappello di paglia e inforcai gli occhiali per veder meglio. Non era un
cavallo, era proprio soltanto un pasticcio. Un'accozzaglia di linee e macchie senz'alcun
nesso apparente. Dico, mi chiesi, non starà mica diventando astrattista? Così tutto d'un colpo? Mi
sembrava strano. Doveva esserci un'altra spiegazione. Mi sedetti, osservando
pensosamente la schiena di mia figlia, lunga, snella, abbronzata, la solita schiena, la nuca
sottile sotto i capelli quasi biondi tagliati audacemente alla garçonne, le orecchie... rosse!
Ci siamo.
A colpo sicuro guardai verso il lago e trovai la spiegazione delle orecchie rosse e
del dipinto astrattista. A una cinquantina di metri da noi, sul lago assoluta mente piatto,
incrociava una barca a vela. Incrociava stando ferma. Al timone, il profilo proteso a
ricevere le sferzate del vento inesistente, stava un tizietto. Di che colore erano i suoi
capelli? Coro dei lettori: rossi! Come avete fatto a indovinare? Erano proprio rossi.
Sospirai. Si conoscevano dall'infanzia: ci voleva poco a voltarsi, chiamarsi,
salutarsi, no? No. Eh no. Questo potevano farlo due o tre anni fa. Adesso uno sta là di
profilo a sfidare il vento che non c'è, e l'altra sta qua a testa bassa a disegnare cose che
non vede. Oh, poveri... Dalla nuca della Grande, così esile e infantile, vedevo trasparire
le delizie e gli spasimi. Sospirai di nuovo. Capaci di andare avanti così fino a sera, quelli.
Vediamo se riesco ad accelerare un po' i tempi, pensai. Sbadigliai rumorosamente,
come una che riemerge alla vita da un profondo sonno o da una profonda meditazione,
e mi guardai ostentatamente in giro.
«Oh, una vela!», dissi, come se non ne avessi mai vista una prima. «Di chi è quella
vela?».
Silenzio. Pop era dedito alle sue immersioni, il padre ai suoi pesci, la Piccola ai
suoi peluches, e la nuca della Grande era così intenta a restare ferma com'era, che pensai
che le sarebbe venuto il torcicollo.
«Mi metterò gli occhiali», dissi, sebbene li avessi già su. «Ah, ma è il Paolo!»,
esclamai. «Bruna; tu che ci vedi bene, non è il Paolo quello?».
Finalmente dovette alzare la testa: pareva che le costasse un grande sforzo di
tendini. Con una voce innaturale, una voce di vetro fragile e trasparente, disse: «Paolo?
Quale Paolo?», come se nella sua vita valsoldese esistessero dozzine di Paoli. Diede una
fugace, impaurita occhiata verso la barca a vela. «Ah, sì», borbottò. «Mi sembra il Paolo
Vivaldi».
E tornò a piegare la testa sul suo dipinto, come se volesse nascondercisi dentro.
«Paolo... », meditò la vocetta della Piccola. «C'è una rima in aolo?».
«Cavolo», rispose la voce cavernosa del Pop sotto la maschera. «Però è
un'assonanza. Ti va bene lo stesso un'assonanza?».
«Boh», disse la Piccola.
Assonanze, cavoli e Paoli sembravano destinati a naufragare nel nulla, quando per
il levarsi improvviso del vento (lo zampino del santo Mamete, immagino) la vela si
gonfiò, del tutto contro la volontà e le intenzioni del suo ispirato pilota, e la barca
schizzò in là. «Paolo!», gridò la voce incontrollata della Grande.
Signore che cotta, pensai.
Un momento dopo la barca a vela, con una virata contraria a tutti i canoni della
buona navigazione, veniva a sbattere la prua contro il nostro molo. Il tizietto Paolo ci si
aggrappò con le mani per tenersi fermo.
«Buonasera, cioè buongiorno, signora», disse a me. «Buongiorno, dottore», disse al
Gamberini. «Salve», disse al Pop e alla Piccola. «Ciao», disse finalmente alla Grande, con
distacco. Come se non avesse quasi sfasciato il molo per raggiungerla.
«Ciao», disse la Grande. Cominciò a riporre meticolosamente la sua roba,
cavalletto, tavolozza, pennelli. Come se non avesse appena urlato "Paolo!" in quel modo.
Lui la guardava cercando di non guardarla: lungo, smilzo, sofferente, coi suoi
capelli rossi e le sue lentiggini: così giovane. Che guaio, pensai.
«Hai già finito gli esami?», gli chiesi per alleggerire il silenzio.
«No», disse. «Domani comincio gli orali. Sono venuto su oggi solo per... Per
distrarmi un po'». Continuava a guardarla senza guardarla. E a non rivolgerle la parola.
Lei continuava a riporre la sua roba. Quando non ebbe più niente da raccogliere si
alzò.
«Ciao», disse con quella voce di vetro, e si condusse via con le sue lunghe gambe
riluttanti e orgogliose.
«Bruna!», gridò il tizietto. Proprio come lei aveva gridato "Paolo!", prima.
Lei si voltò. Caro, dicevano gli. occhi celesti splendenti. Testa rossa. Tizietto mio. La
voce disse: «Sì?».
Il tizietto inghiottì. Cara, supplicavano gli occhi nocciola. Tizietta mia. La voce
disse: «Io... Vuoi venire a vela, oggi?».
Le ciglia bionde le velarono gli occhi. Era un momento fragile e definitivo. La
risposta tardava a venire. Oh, non crediate adesso che la Grande sia sempre così
titubante e delicata, con i tizietti normali. Domandate a suo padre, che ne è sempre
scandalizzato, con che disinvoltura, linguaggio spregiudicato e direi quasi aggressività
tratta i tizietti qualsiasi, anche molto più sexy di questo. Come se li amministra, come
smista appuntamenti e cha-cha-cha: sempre a titolo di collaudo. Ma questo non era più
un collaudo. Questo era il Paolo, e tutto doveva apparirle terribilmente difficile.
Spaventato dal silenzio, il Paolo aggiunse a precipizio: «Dico... anche il Pop. Può venire
anche il Pop, a vela ».
Dall'interno della sua maschera il Pop gli diede un'occhiata indefinibile. Dal
bocchettone uscirono alcune indecifrabili goccioline.
«Vela?», disse la Piccola soprappensiero. «Vela, ragnatela, agnello che bela».
«Io... oggi no», disse infine la Grande, quasi ansando. «Ho... qualcosa da fare».
«Da fare, figuriamoci!», intervenne il padre, ignaro come un elefante in una
cristalliera. «Sfaticata come sei, proprio oggi ti sei trovata il da fare?». Non avendo la più
pallida idea della situazione interna, il Gamberini ha molta simpatia del tizietto Paolo,
che considera innocuo alla stregua dei giovani pioppi che ha visto crescere di anno in
anno lungo il fiume. Con un compagno d'infanzia, pensa, non c'è pericolo. Per questo era
intervenuto in suo favore, adesso. Mi veniva da ridere. La Grande invece sembrava sul
letto dei martirii, mentre il padre incalzava: «Cosa sono queste storie? Cos'è che avresti
da fare oggi, sentiamo!».
«Devo dipingere», disse la Grande torturata.
«Dipingere!», sghignazzò il padre. «Cavalli, immagino. è una mania! Qualche
cavallo passi, ma dipingere cavalli dalla mattina alla sera tutti i santi giorni che il santo
Mamete ha creato, è roba da alienati! E siccome il Paolo sta qui solo oggi, tu mi fai il
santo piacere di lasciar stare i dipinti e..».
«Papà!», lo interruppe la Grande con voce stridula. Era rossa fino ai capelli, con gli
occhi lucidi come se stesse per piangere. Fece uno sforzo enorme per riprendersi,
inghiottì a fatica e disse: « Devo anche mettere in ordine la mia camera ».
Figurarsi. Proprio il tipo che passa il pomeriggio a mettere in ordine la sua camera,
quella. Il padre mi guardò come a chiedere: Ci capisci qualcosa tu? Sì, qualcosa ci capivo.
Non è ancora pronta, pensavo. Ha bisogno di pensarci, distesa nella sua stanza dietro l'ombra rigata
delle persiane, prepararsi moralmente e fisicamente all'incontro, pregustarlo, carezzarlo, immaginarlo a
goccia a goccia, e senza tutti noi che la guardiamo, le facciamo frastuono intorno: tu specialmente. Ma
questo come glielo dicevo, al padre?
«È vero che deve mettere in ordine», dissi spudoratamente. «Ma verso sera avrà
finito, credo... no?».
«Sss...ì, credo», sussurrò.
Di colpo sorrise, facendo moltiplicare vertiginosamente le lentiggini sulla faccia
del Paolo, e scomparve verso la Darsena lasciandosi dietro un "Ciao!", quasi squillante.
Quando è fuori campo diventa subito audace.

Il padre appariva schifato. « Tua figlia non ha mica le rotelline in ordine», disse.
«È mia figlia», dissi, in tono apologetico.
Il Paolo non ci sentiva, credo. Stava lì, sospeso a guardare la bocca della Darsena
che aveva inghiottito la Bruna, e non sentiva niente.
«Ehi, tu!», disse il Gamberini.
Sobbalzò. «Sì, dottore?».
«Con chi sei venuto su?».
«Sono... venuto su per conto mio. Solo così per... così. In vespa».
«E come torni giù? In vespa?».
«La mamma non vuole che faccia il viaggio in vespa col buio», disse il tizietto
Paolo, avvilito da quella puerile confessione. «Lascio qui la vespa e torno giù col treno
delle sei da Lugano».
«Ma puoi venire con me, invece!», disse subito il Gamberini, che non chiedeva
altro: è sempre alla ricerca di compagni di viaggio.
«Oh, non si disturbi», disse il Paolo.
«Ma che disturbo! Mi fai compagnia». All'idea di far compagnia al padre della
Bruna le lentiggini del tizietto rabbrividirono dallo spavento, ma il Gamberini incalzava:
«Anzi, vieni addirittura qui a cena, ti fermi un paio d'ore coi ragazzi e poi ripartiamo».
Avidità e terrore lottavano tra le lentiggini del Paolo. Vinse l'avidità: non già per la
cena, ma per quel "paio d'ore coi ragazzi" che dovevano mettergli dentro struggenti
visioni di occhi azzurri e lunghe gambe e chiaro di luna e forse... forse...
«Va bene», disse, come uno che si butta in mare senza essere certo di saper
nuotare: ma il mare è così azzurro...
«Grazie, dottore». Un momento dopo era lontano.
«Mi sembra un po' balengo anche lui», disse il Gamberini perplesso. «E sì che non
ha una madre scrittrice. Dev'essere un fenomeno della generazione. Questo però, oltre
che balengo, mi sembra un po' indietro di cottura»
Dipende dal genere di cottura che uno intende, ridacchiai tra me. Non dissi niente.
Queste cose, ai padri, è meglio dirle dopo.
Nel pomeriggio la Grande non ci fece mai dono di sé. Sparita. La immaginavo
stesa sul suo letto nella penombra striata di sole, ad ascoltare il gorgoglio familiare del
lago sotto il pavimento di legno e i suoi sogni: così vicini, adesso. Doveva essere
estenuata.
Il Paolo venne a esibirsi con la vela davanti al giardino, e immagino che lei lo
guardasse attraverso le persiane, ma lo immagino soltanto, perché non si fece vedere.
Non era ancora pronta.
«Cosa fa quell'esaltato?», disse Pop osservando con occhio critico le giravolte del
tizietto. «Imbarca da matti ».
«Ehi, Pop!», gridò lui accostando. Nonostante il tono e il piglio sportivo, appariva
estenuato anche lui. «Vuoi venire? C'è un bel vento».
Il Pop guardò i piedi del tizietto che sguazzavano sul fondo allagato.
«Che, fai il semicupio?», disse. «Be', se vuoi vengo. Però tengo io la randa».
Il tizietto Paolo esitò appena un attimo. Se fosse stato uno dei suoi fratellini (ne ha
tre) gliel'avrebbe data in testa, la randa. Ma era il fratello della Bruna. «Va bene», disse.
«Tu puoi stare al fiocco», concesse Pop, magnanimo.
«Fiocco, scirocco, allocco», rimò la Piccola, a titolo di cronaca.
«E il timone lo tiene lei », decretò il Pop additando con gravità la sorellina. Solo
chi lo conosceva molto bene poteva capire che si stava malvagiamente divertendo alle
spalle del tizietto Paolo e dei suoi ridicoli (per lui) sentimenti. Anche i miei fratelli
facevano così. I miei poveri corteggiatori facevano una vita d'inferno.
Il tizietto inghiotti. Poi disse di nuovo: «Va bene».
«Io ci vengo», si degnò la Piccola. «Però mi porto il Bao».
Il Paolo la guardò con una strana espressione negli occhi. Ma era la sorellina della
Bruna, non si poteva strozzarla. « D'accordo », disse. Cosa non si fa per amore. «Pòrtati
anche il Bao».
Tornarono a riva a nuoto: trascinandosi dietro la barca capovolta. La Piccola e il
Pop erano davvero allegrissimi. Meno allegro era il Bao, che non ama molto gli sport
acquatici: ma insomma, piuttosto che stare su quell'orrido pezzo di legno traballante, era
meglio nuotare. Il meno allegro era il tizietto Paolo, sia perché era vestito, sia perché chi
trascinava la barca era lui.
«Aiutatelo, deficienti!», gridava dalla riva il Gamberini impietosito.
«La barca è sua», disse ragionevolmente il Pop. «E poi noi dobbiamo aiutare il
Bao». Aiutare il Bao significava farsi portare a rimorchio dal medesimo, attaccati alla
coda.
«Com'è che vi siete rovesciati?», chiesi, quando furono tutti a terra.
Il Paolo non aveva fiato per rispondere. Seduto sull'orlo del prato, boccheggiava e
basta. Rispose il Pop:
«C'era il Bao che timonava benissimo con la coda, ma lui» (lui era il tizietto),
«chissà perché, ha voluto tenergliela ferma con le mani, così il Bao si è scocciato, ha
cominciato a esaltarsi, e siamo finiti tutti a bagno».
« Bagno, taccagno, Alessandro Magno», disse la Piccola.
Al di sotto dei capelli rossi zuppi, il tizietto li guardava. Improvvisamente le sue
lentiggini cominciarono a fremere, e un istante dopo era buttato bocconi sul prato a
torcersi dal ridere insieme a Pop e alla Piccola, col Bao che gli addentava il sedere in
segno di amicizia e i gatti che gli si arrampicavano sulle gambe a scopo di indagine.
Aveva superato la prova. Sperai che la Grande lo stesse guardando attraverso le persiane.
Se lo meritava, povero tizietto.
Ma altre prove lo aspettavano.
Quando lo vidi ricomparire in giardino poco prima di cena, con la stessa maglietta
e gli stessi calzoni (doveva esserseli stirati da sé e si vedeva), con un pacchetto di
cioccolatini in mano e gli occhi inquieti, mi si strinse il cuore per lui. Mi tese il pacchetto
come uno offre la testa al boia. Gli ficcai in mano un bicchiere di bitter per facilitargli le
cose, ma gliele peggiorai. Prese un'aria vacua e stordita.
«Bel compagno di viaggio che mi son scelto», borbottava tra i denti il Gamberini.
«Scemo completo».
«È solo timido», dissi. E innamorato, pensavo. Tu non crederai di essere stato
tanto più sveglio? Mia nonna, la prima volta che ti vide, mi chiese se eri sordomuto. Ma
preferii non ricordarglielo.
In quel momento la Grande scese la scala ricoperta d'edera. Si era messa una
maglietta qualsiasi e un qualsiasi paio di calzoncini: ma non erano qualsiasi. Erano stati
scelti dopo lunghe meditazioni e incertezze e prove e ripensamenti, io lo sapevo; e i
capelli, così negligentemente spazzolati con le punte verso le guance, quanto tempo le
avevano richiesto davanti allo specchio? E la bocca e l'andatura indolente e l'aria di
gentile indifferenza, tutto nascondeva una cura appassionata e piena di punti
interrogativi.
«Ciao», disse, guardando appena il tizietto Paolo.
«Ciao», lui disse.
Mi chiesi come facesse il Gamberini, che pure li guardava come me, a non vedere
con che selvaggia gioia e sofferenza i loro occhi si chiamavano e si sfuggivano. Che orbi,
i padri.
Per un po' tutto andò di male in peggio. Tra il Gamberini ingrugnato e bisbetico,
Pop e la Piccola placidamente intenti agli affari loro e me astutamente intenta a non far
capire che capivo, il tizietto appariva sempre più stordito e depresso, la Grande sempre
più sofisticata e glaciale, non si sapeva più come prenderli. Gli odori poco rassicuranti
che uscivano dalla cucina mi dicevano che la Rosa aveva urgente bisogno di me, ma
come facevo a lasciarli lì così male avviati? Cominciavano a darmi ai nervi, oltretutto. Ma
guarda che mammalucchi, pensavo. Non siete capaci di trovare una scusa e andarvene
dieci minuti per i fatti vostri? Bella generazione bruciata che siete. Bulli e pupe, eh?
Guardali lì, il bullo e la pupa. Ma andate a nascondervi!
Feci un ultimo tentativo. «Hai visto i Cigni?», dissi al tizietto. «Hanno fatto il nido
nella nostra Darsena». Il tizietto riacquistò di colpo favella e comprendonio. «I nostri
Cigni?», disse illuminandosi tutto. «Davvero? Ma quando?». Non era più un bulletto
rintontito, era un ragazzo dei nostri, con tante estati valsoldesi dentro e la stessa fresca
capacità di commuoversi per le stesse piccole cose. «E nel nido ci sono le uova?»,
chiedeva concitato. «Posso vederle?».
«Certo. Sono quattro!», rispose la Grande, come se le avesse fatte lei. «E stavolta
sono al sicuro, perché il nido sta proprio dietro il Domokos e... ».
Si avviarono insieme, parlando animatamente di cigni, di nidi, di uova, di covate e
di ornitologhi, come i due compagni d'infanzia che erano stati.
Solo quando furono sulla soglia scura e fresca della Darsena, la Grande si voltò, gli
occhi azzurri sgranati: «Pop! Tatti!», chiamò ansiosamente. «Venite anche voi».
L'infanzia era proprio finita.
Il Pop e la Tatti non risposero al richiamo, e nessuno saprà mai che cosa accadde,
nei cinque minuti che seguirono, nell'ombra fresca e gorgogliante della Darsena, vicino al
nido dei Cigni. Posso comunque immaginarlo, pressappoco, dalle facce che avevano
quando ne uscirono, e dalla segreta, incantata allegria che li tenne come accesi dal di
dentro per tutto il tempo della cena. Né l'uno né l'altro avevano appetito. Ma non ci
rimisero un gran che: gli strani odori e rumori che si erano sentiti provenire dalla cucina
prima di cena avevano trovato la naturale conclusione in ancora più strani sapori.
Ma il mio Diletto Consorte, smentendo ogni tradizione, non si arrabbiò.
Sembrava soprappensiero.
Più tardi, mentre stavamo sul terrazzino lunare e c'era già nell'aria il sapore
speciale di ogni nostra separazione, disse improvvisamente:
«Tutto sommato, non è proprio scemo, questo ragazzo Paolo. È solo un po'
deficiente, come i nostri».
«È un ragazzo», dissi. Troppo ragazzo, pensai. Tutti e due, troppo ragazzi. O delusioni
crudeli, o inesorabili binari li aspettavano: troppo presto. Guardavo il vecchio cielo della
mia infanzia e ascoltavo le voci che sussurravano sotto i noccioli. Pop cavernoso, la
Piccola salmodiante, gli altri due non si sentivano. Ma era come se li vedessi, fermi
nell'ombra fragrante; con la luna tra i rami che disegnava ghirigori sulle loro facce e sulle
loro illusioni. Ne avevo una terribile pietà.
«Osso», mi chiamò lui sottovoce.
«Sì».
«Pensi che finiranno come noi?». Non era poi tanto orbo.
«Non lo so», dissi.
La mia voce tremava in modo sciocco, ma lui non mi sgridò. Si alzò, tirandomi in
piedi con lui. «Non siamo poi finiti tanto male», disse. Sorrise e mi passò la mano sulla
faccia, con quel gesto ruvido e breve che ha il potere di tirarmi fuori da qualsiasi pozzo.
«Poteva finir peggio», disse. «Eh? ».
Dissi di sì.
Pochi minuti dopo la Bestia usciva bofonchiando dal cancello, si avviava per la
salita; i fari illuminarono brevemente i muri, le foglie, il parapetto, poi sparirono giù per
la discesa e io sentii la piccola lacerazione che sento da vent'anni ogni volta che lui se ne
va. Poi mi voltai, vidi la Grande accanto a me, la sua faccia indifesa. Gli occhi celesti
incontrarono i miei senza più nascondersi, brillanti, estatici. Mamma sono felice. Mamma
sono disperata. Mamma sono innamorata. Poi fece una piccola giravolta, piena di felicità e di
pudore, e non vidi più la sua faccia.
«Non so immaginare di che cosa parleranno, in due ore di viaggio», dissi. Li
immaginavo intenti a girare cautamente intorno all'unico argomento cui tutti e due
pensassero. Chissà che fatica. «Oh, be'», dissi. «In caso disperato possono intrattenersi
sui Cigni»
Di colpo si mise a ridere e corse via coi fratelli coi cani e coi gatti, piroettando
leggera sul prato lucido di luna. Ritornandomi vicina si fermò di colpo, sollevando ghiaia
nella frenata.
«Mamma» disse sfregando la faccia contro la mia. «Ciao, mamma».
Era umida, la faccia.
ROTOLA ROTOLA ROTOLA

Così il capofamiglia è tornato a leggere il giornale in ufficio, quel martire,


lasciando qui me a darmi bel tempo con tre figli, due cani, tre gatti, due cigni, quattro
uova di cigno, una Rosa, più un numero incalcolabile di nipoti dai cinque ai venti anni,
pressoché autonomi, ma anche loro affidati alla mia supervisione (ammesso che io possa
supervisionare qualcosa); più una Paola e un Giaci con Orsina aggiunta, anche loro
pressoché autonomi, ma anche loro affidati alla mia supervisione; più, piccolo
particolare, il mio lavoro. Adorato, maledetto, sempre arretrato.
La notte sogno valanghe di carta stampata e da stampare che marciano su di me, e
mi sveglio col cardiopalma e i sudori. Di giorno, mentre affannosamente tento di ridurre
la montagna di arretrati aiutandomi con montagne di antinevralgici e di tranquillanti,
intorno a me il giardino, il molo, la veranda e ogni centimetro di terreno nelle mie strette
adiacenze brulicano di: ragazzi che ballano, giocano, chiamano, litigano, vanno in
bicicletta, girano dischi. Pittrici che disegnano o parlano velocemente con me di
consegne, settimane, giornali, emicran, redaz, puntat, contess. Pittori con baffi stanchi
che bevono instancabilmente te. Rose che sottopongono a getto continuo urgenti
quanto oscuri quesiti di carattere domestico, psicologico, sindacale. Bestie che abbaiano,
miagolano, soffiano, fanno le feste, mordono, corrono, sfasciano. Adesso anche bestie
che fischiano: infatti Orsina, la diletta samoieda della Paola e del Giaci, quando qualcosa
la turba, non abbaia, non guaisce, non latra: fischia. Qui da noi fischia ininterrottamente.
La presentazione ufficiale tra le nostre bestie è ormai avvenuta, con le dovute cautele, già
da diverse settimane, ma Orsina non si è ancora rimessa dallo choc. Appena vede, anche
solo da lontano, anche un solo pelo dei nostri gatti, si rintana sotto la sedia della Paola e
fischia. Come un merlo nevrotico. I cani degli artisti, sapete come sono. Sensibili.
Quando poi, come in questo momento, si avvicina il Bao, i fischi di Orsina
diventano addirittura strazianti, tipo zitella con inibizioni insidiata da un bullo
minorenne; il Bao, che a tutto pensa fuorché a insidiare questa anziana signorina pelosa e
strana, davanti ai fischi arretra spaventato, le orecchie basse e la coda a terra, indi se la dà
a gambe, sgroppando come un cavallo al rodeo e uggiolando spaurito tra sè. I fischi di
Orsina sfiorano l'isterismo.
Il Giaci muove i baffi.
«Orsinasmettila», traduce meccanicamente la Paola, continuando a disegnare.
«Orsinatacisubito»
Orsina stride. Il Giaci chiude gli occhi. Piega i baffi. Posa a terra la tazza vuota.
«Tè» sospirano i baffi. La Paola mette giù le contesse e va a fargli un altro tè. Orsina
piange. Il Giaci muove i piedi. Orsina schizza via, completamente piatta, fischiando
come una locomotiva. Indi ritorna, sempre locomotiva e sempre piatta, al seguito della
Paola e del tè. Nascosto dietro un cespuglio, il Bao la guarda con un occhio solo, tutto di
sbieco, cercando di venirne a capo.
Intanto nei dintorni di Orsina si avventura il Bu. Ma col Bu, forse perchè è un
vecchio scapolo come lei è una vecchia zitella, Orsina ormai ha familiarizzato. Fin
troppo. Gli mette le zampe sulla schiena, ergendosi in posa dominatrice, si guarda
intorno con due grossi occhi marrone (Finalmente anch'io ho un uomo), fischiando con voce
melodiosa. Il Bu va in brodo di giuggiole. Debolezze senili.
Dopo averli osservati un po' con espressione pensosa, la Piccola dice:
«Se l'Orsina e il Bu si sposano cosa viene fuori?».
«Gli Orsù» frusciano i baffi del Giaci.
La Paola smette di disegnare una contessa per disegnare un Orsù: mezzo bianco e
mezzo nero, mezzo liscio e mezzo ricciolino, mezzo barbone e mezzo samoiedo, manda
in estasi la Piccola, che da questo momento aspetterà ansiosamente la nascita degli Orsi,
con relative rime in ù. Data l'età dei due innamorati, aspetterà invano. Deve trattarsi di
un amore platonico. Almeno, speriamo. E se poi invece...? Ah, sentite, non ho tempo di
preoccuparmi anche di questo! Devo lavorare, io. Devo finire la puntata. Smettetela di
distrarmi, voi e i vostri Orsù. Ci mancano pure quelli. Chissà dov'ero rimasta, adesso. Ho
perso di nuovo il filo, si capisce. Oh, il mio filo. Oh, la mia puntata. Oh, la mia testa.
Antinevralgico. Tranquillante. Da capo.
Ricomincio a pestare sui tasti, scarsamente tranquillata e col cervello latitante,
mentre i fili si rompono, si stracciano, si perdono nell'aria echeggiante di insulti, risate,
jazz caldo, jazz freddo, Beethoven, Ornella Vanoni, Strawinski, gli hanno sparato dal
tram che va all'Ortica, palline da ping-pong, mamma! zia! signora! biciclette, cha-cha-cha,
fruscii di baffi, nessuno al mondo t'amerà di più, fischi, latrati, Orsina! Bu! Orsù! vieni
qua, lascia giù, zia! mamma! signora! rotola rotola rotola... Anche la mia testa rotola.
Poi arriva lui al sabato e dice: «Ma come, non hai finito la puntata? E perchè non
hai innaffiato il prato? E com'è che questo cane mangia nella mia insalatiera? possibile
che non mi attacchi mai un bottone? Ma si può sapere cos'hai fatto in tutta la
settimana?» Passa il week-end a rimproverarmi le cose che non ho fatto, a rinfacciarmi il
disservizio, i figli deficienti, i nipoti mentecatti, gli amici balordi, le bestie abominevoli,
l'anarchia, così non si va avanti, eccetera eccetera, poi gli passa, ma intanto mi sono
arrabbiata io e dico che sono stufa, che lui non capisce niente, che è un egoista, un
ingrato, un incosciente, che se viene su solo per rovinarmi la domenica a meglio che stia
giù, eccetera eccetera, poi passa anche a me, ma quando mi è passata è passata anche la
domenica, è sera, lui deve ripartire; ci salutiamo sul cancello, trattenendo le ultime
briciole di tempo e chiedendoci perchè diavolo abbiamo sprecato tutto il resto a litigare,
e ripromettendoci di non farlo più. E rifacendolo regolarmente la settimana dopo.
E intanto il tempo passa. Una settimana, due settimane, tre settimane... Ne ho
perso il conto. («E che cos'è che non perdi?», dice il Diletto Consorte). Tutto mi rotola
via così in fretta. Non riesco a tener dietro alle cose.
C'è stata la nascita dei cignetti: che ora già navigano sicuri per il lago col Cigno e la
Cigna, tra la commozione e l'orgoglio di tutti, senza contare il pane e trifoglio. C’è stato il
compleanno della Piccola (nove anni, una bicicletta nuova, otto nuovi peluches che
fanno centoquarantacinque, più un libro di quiz che le ha aperto nuovi orizzonti e ha
inferto nuovi colpi al sistema nervoso della famiglia, costretta a risolvere quiz dalla
mattina alla sera). Poi c’è stata la notte di san Lorenzo (pioveva, non abbiamo potuto
guardare le stelle cadenti, il D. C. ha litigato col santo Mamete, ma i desideri li abbiamo
espressi lo stesso, e speriamo che al di là del diluvio le stelle li abbiano sentiti, almeno
qualcuno delle centinaia di desideri perentoriamente espressi da ciascuno di noi). Sono
arrivati gli Armen e i Polpettoni, i nostri amici di sempre, ma possiamo vederci poco e
solo di sera perchè loro sono in vacanza e io no, e non ho mai tempo per niente, uffa e
uffa.
C’è stato il nostro anniversario di nozze (al mattino un sacco di regali e di litigi,
com'è tradizione di ogni nostra ricorrenza, e la sera vecchio champagne e vecchi amici e
vecchi ricordi: vecchi di diciannove anni. Beviamoci sopra. Cin cin). Poi c’è stato il varo
della famosa barca del Giaci, che tutti si aspettavano che andasse a fondo e invece no,
stava proprio a galla, e la Piccola che faceva la madrina era così minuscola e gentile,
dritta sulla prua con la bottiglia di spumante in mano e un cappellone fiorito in testa, e
l'aria era così azzurra e le voci degli amici così allegre e il mio cesto della corrispondenza
così pieno. Lo è tuttora.
Il giardino è sempre al gran completo: a parte i ragazzi di famiglia, o Cug che dir si
voglia, tutti i tizietti e le tiziette villeggianti nella valle si riversano qui: e una tradizione
che dura dal tempo dei miei avi. La Valsolda è un paese dove le tradizioni resistono,
magicamente, alla fretta e al progresso. Il giardino è sempre quel vecchio giardino, le
abitudini son sempre quelle vecchie abitudini, e i ragazzi, nonostante il jazz freddo, non
sono molto diversi dai ragazzi che eravamo noi. Ogni giorno vedo ripetersi sotto gli
alberi la mia giovinezza, e sembra che basti stendere un dito per toccarla e riaverla. Ma
sembra soltanto. Se stendo un dito sento soltanto un gran dolore. Comunque non ho
molto tempo per stendere dita: se non sulla macchina da scrivere.
Il tizietto Paolo ha passato gli esami di maturità e adesso è sempre qui nel nostro
giardino, dalla mattina alla sera, con tutti gli altri. Ma forse proprio perchè ci sono tutti
gli altri, non si è più ripetuto l'incanto di quella sera, quando la Grande aveva quella
faccia estatica e pudica e faceva le giravolte sul prato lucido di luna.
Non sono più così timidi, così spaventati e felici. Sono disinvolti, fin troppo,
parlano, ridono, ballano: raramente tra loro. Anche in questo momento lui sta
scherzando, tutto degagè, con altre due tiziette, e lei si è appartata vicino al giradischi con
un tizione (ventitre anni, atletico, coi baffi) di cui mi sembra chiaro che non le importa
niente. Lui la guarda con occhio languido e concupiscente e lei guarda il disco che gira,
seguendone meccanicamente il motivo con un sommesso, nervoso canticchiare.
Qualcosa non va, o va troppo adagio, o troppo in fretta? Non ci capisco. Non ho tempo.
Forse un giorno me lo dirà lei; quando non farà più male, o quando ne farà troppo.
Il Pop si è stancato di fare esperienze fisiche e chimiche. Erano cose puerili.
Adesso si dedica alla teoria. Se non gioca a ping-pong, se non nuota, se non va a vela o
in bicicletta o non ciondola a vuoto intorno ai grandi (col cha-cha-cha non si è più
cimentato, lo disprezza come cosa futile e sciocca), lo potete vedere disteso sul molo o
sul prato o sul pavimento a leggere la Storia della matematica o la Relatività di Einstein,
con la stessa avidità e concentrazione con cui fino all'anno scorso leggeva Topolino.
Questo potrebbe farvi pensare che a scuola sia bravissimo in matematica. Invece no. La
matematica che studiano a scuola è troppo facile perchè lui possa capirla. Per lui ci vuole
Einstein o niente.
Ogni tanto interrompe la lettura per segnare qualcosa su un suo misterioso
quadernetto, con gli occhi luccicanti di uno che ha scoperto in quel momento la quarta
dimensione.
«E se la scoprisse davvero?», mi ha chiesto sabato scorso suo padre.
Mamma mia. L'idea di avere un genio in famiglia mi spaventa assai più che
inorgoglirmi. Un genio matematico, poi. Mamma mia. In preda all'angoscia, ho aspettato
che Pop si allontanasse un momento e sono andata a guardare il misterioso quadernetto.
Non che m'immaginassi di capirci qualcosa: la matematica per me è sempre stata
un'opinione, e un'opinione molto diversa dalla mia. Ma forse, con l'aiuto del padre, avrei
potuto farmi un'idea.
Mi feci coraggio e aprii il quadernetto. Nella prima pagina, in nitidi caratteri
stampatelli, mi trovai di fronte la seguente epigrafe:

IL PROPRIETARIO DI QUESTO QUADERNO


FU
MAURIZIO GAMBERINI
OVVERO
POP, O MEGLIO
IO
GENIO INCOMMENSURABILE
NONCHÈ
CERVELLONE IMMENSO
E INOLTRE .
POZZO DI SAPIENZA E SAGGIO
GRANDE E MAGNIFICENTISSIMO
COMPILATORE
DI QUESTE ONORABILISSIME
NONCHÈ ADORATE
FISICHE E MATEMATICHE
SCHIFENZIE

«L'ho sempre detto che è deficiente», disse suo padre. Ma nel suo fumetto leggevo
lo stesso sollievo che sentivo io.
Non c’è stato bisogno di guardare altre pagine: qualsiasi cosa contengano,
l'epigrafe basta a dimostrare che l'autore non è un genio. E solo un ragazzino. È Pop:
grande e magnificentissimo suonato della sua mamma. E del suo papà, va be'.
In quanto alla Piccola, non ha cambiato abitudini: è una conservatrice. L'arrivo in
forze dei Cug e la perpetua baraonda del giardino l'hanno bensì costretta ad accelerare
un po' l'eloquio (con tutti i ragazzini che le vorticano intorno, se non strilla alla svelta
soccombe), ma non le hanno impedito di seguitar a giocare coi peluches, sgridare il Bao,
tenere la conta dei gatti, nutrire i Cigni e i cignetti, inseguire rime, sognare, inventare e
risolvere quiz e, nei ritagli di tempo, scrivere a suo padre. Scrivere le piace moltissimo,
anche se le sue composizioni sono grammaticalmente singolari e talvolta ermetiche. A
sentir suo padre le lettere della Piccola sono comprensibili solo a chi abbia dimestichezza
coi giochi enigmistici o a chi non abbia tutte le rotelle in ordine. Non si spiega però
come mai lui, che non ha mai risolto un enigma in vita sua e che ha tutte le rotelle così a
posto, le capisca benissimo. Sono i misteri della paternità. E non solo le capisce, quelle
lettere, ma le conserva gelosamente, e nel suo fumetto si legge che gli piacerebbe darle
alla stampa: a edificazione e diletto, suppongo, dei posteri amanti di quiz o privi di
rotelle, i quali soli potrebbero gustare, nell'epistolario estivo della Piccola a suo padre, le
cronache di una famiglia vista da un cervello (ermetico) di nove anni. Lei, beninteso, non
pensa niente di tutto questo. Lei scrive al suo papà e basta.
Anche adesso sta scrivendogli. Seduta alla turca nel prato tra i peluches e il Bao, col
blocco per terra, la lingua tra i denti e macchie di biro in ogni parte del corpo, mi ricorda
me quando scrivevo per diletto. Fogli e fogli, senza obblighi né limiti né crisi di
coscienza. Ah, che bello scrivere così.
«Questa tua figlia», dice la Paola che la sta guardando al di sopra delle sue contesse
non finite, «diventerà come te».
Oh, no. Non come me. Salvatela dalle necessità e dai dubbi, almeno un poco.
Datele la fantasia e la gioia senza fargliele pagare con la fretta e l'angoscia. Lasciatela così
libera, e sicura, una bambina che scrive al suo papà con la lingua tra i denti e gli occhi
che ridono.
Ha finito. Ritira la lingua, si sfrega le mani sporche di biro sulla maglietta, piega i
fogli senza rileggerli e viene a portarmeli.
«Gli ho fatto un po' di quiz» dice. «La busta fagliela tu, io non ci ho tempo» E se
ne va di corsa, col Bao che le morde affettuosamente il sederino, a dar da mangiare ai
Cigni e ai cignetti.
Va be'. Prima di fare la busta (io ce n'ho tanto, di tempo) leggo la lettera. C’è
sempre qualcosa da imparare, dalle lettere della Piccola.
Caro papà,
questa settimana è andata abbastanza bene, è piovuto abbastanza poco. Ieri sono venuti a pranzo
indovina chi? 1, i pompieri; 2, la Paola e il Giaci; 3, i negri del Congo. (Sottolineare la risposta che si
ritiene esatta). Siccome pioveva abbiamo mangiato con tutte le bestie dentro, sotto e sopra il tavolo e
l'0rsina per la paura sai cos'ha fatto? 1, ha scritto una lettera at sindaco; 2, ha fatto pipì dappertutto.
(Sottolineare la risposta eccetera). Allora la Paola l'ha chiusa di sopra in stanza del Pop ma lei stava
con le zampe sul davanzale della finestra e sai cosa faceva? 1, cantava Fratelli d'Italia; 2, mitragliava
la folla; 3, fischiava. (Sottolineare la risposta eccetera).). Il Bao dal di sotto le abbaiava e il Bu latrava e
i gatti soffiavano e noi ridevamo da matti, ma il baccano pù grosso lo facevano la mamma e la Paola che
continuavano a gridare Orsinataci e Zittobù, e invece il Giaci sai cosa faceva? 1, trapanava il muro; 2,
faceva le capriole; 3, muoveva i baffi. (Sottolineare ecc.). Adesso invece sta bevendo indovina cosa?1, sugo
di balena; 2, tè.
Le altre bestie stanno bene. Stamattina i gatti hanno rubato tutta la fesa, e la mamma sai
cos'ha fatto? 1, li ha picchiati a sangue; 2, ha acceso un falò; 3, ha detto: "Oh, la mia fesa".
(Sottolineare ecc.). Poi a andata dal macellaio e ne ha comprata dell'altra. La Bruna non dipinge più
cavalli nè niente e si diverte tutto il giorno coi Cug grandi e coi tizietti, però mi pare che era più contenta
prima ma sai com'e quella lì che non è mai contenta di niente, deve essere l'età ma spero che a me non
mi viene. Io faccio i quiz e gioco col Bao coi gatti coi ghiri coi peluches e coi Cug piccoli e sto bene. Invece
il Pop non vuole giocare nè coi Cug piccoli nè coi Cug grandi e legge sempre Ainstain e anche lui sara
l’età ma spero che non mi viene neanche quella. Di compiti non ne facciamo perchè un mio proverbio
dice:
"In Valsolda solo giochi - e di compiti niente". Per la rima il secondo verso era: "e di compiti pochi",
ma è meglio niente.
Oggi la Paola e il Giaci sono andati sulla barca a vela nuova ma il santo Mamete ha fatto
subito calare il vento, così adesso sono in giardino e il Giaci beve il te, e intanto sai cosa fa? 1, cavalca
un purosangue; 2, dà la zampa; 3, si tira i baf i. (Sottolineare ecc.). Invece la Paola parla di giornali
con la mamma e intanto disegna sai cosa? Non te lo dico. La mamma scrive un sacco di x, butta via un
sacco di fogli e dice che non fa in tempo. Per il resto si comporta abbastanza bene, solo che l'altro ieri sai
cos'ha fatto? 1, ha fatto chicchirichi; 2, ha imbavagliato il droghiere; 3, ha avuto l'Emicrania Brutta.
(Sottolineare ecc.). Dunque quando vieni sabato cerca di non sgridarla se non ha attaccato il bottone.
Anche tutte le altre bestie stanno bene. I cignetti sono diventati grossi come gattini abbastanza
grossi: la Cigna ci insegna a lavarsi ma a loro non ci piace e fanno le storie come me e il Pop, solo che la
loro mamma e più severa. Invece hanno imparato benissimo a nuotare, anche quando c’è il temporale e
vanno tutti attaccati in fila indiana col papà davanti la mamma dietro e loro in mezzo e sono proprio
una famiglia, solo che. i figli sono quattro invece di tre e di bestie non ne hanno perchè ci sono già loro. lo
gli do sempre un sacco di pane e trifoglio anzi mi viene in mente che adesso devo andare a darcelo e così ti
saluto e ti mando: 1, un chilo di soda; 2, un bacio grosso. (Sottolineare ecc.). Tua figlia piccola,
Nicoletta.
Poscrittum: ricordati che tra dieci giorni c’è l'onomastico del Pop, cioè san Maurizio, puoi
cominciare a pensarci, se fossi in te gli porterei: 1, la statua della libertà; 2, un baobab; 3, un disco del
Mulligan. (Sottolineare ecc.). Ciao.
L'onomastico di Pop? mi chiedo incredula, posando la lettera. Ma san Maurizio è il 22
settembre! Possibile che il tempo sia rotolato via così? È un furto! Non ho fatto neanche in tempo a
goderla ,l’estate, che già finisce. Possibile?
Tutto, intorno, mi risponde di sì. Sì, è settembre. Lo si vede nel colore dell'aria, lo
si sente nel profumo dell'olea fragrans, nei giorni brevi e sfumati, nei rapidi accesi
tramonti. Settembre. Tra poco sarà ora di partire e un'altra estate se ne sarà andata e io
non potrò fermarla e non potrò fermarmi. Oh, le mie estati. Quante, quante, passate.
Be', adesso e inutile che mi faccia venire le malinconie. Con tutto il da fare che ho.
Che poi lui arriva e dice che non ho fatto niente. Avanti, march, rotola rotola rotola...
Adesso spedisco la lettera e poi vado sapete a far cosa? l, a suonare la batteria; 2, a finire
la puntata; 3, a mangiare il sapone. Sottolineate la risposta che ritenete esatta.
DATEMI TANTE EMICRANIE
Eh, sì. Un minuto fa era giugno e stavamo là sul molo a respirare profumo di
tiglio e di lago, e adesso è ottobre e siamo qui a respirare le puzze di Milano. Siamo
arrivati domenica scorsa.
Sul muro della Darsena la vite canadese era già rossa, quando siamo partiti. Vi
risparmio le descrizioni dei bagagli e dei preparativi, perchè è la solita. Anche gli amici,
venuti su appositamente da Milano per assistere alla nostra partenza come a uno
spettacolo del circo, erano i soliti: gli Armen, i Polpettoni, la Paola e il Giaci. I soliti sei.
Mentre il Gamberini, irascibile e con la blusa a quadrettoni, finiva di caricare i bagagli,
scarsamente coadiuvato dai figli immusoniti e restii, e mentre la sottoscritta, affranta e
col fazzoletto da emicrania in testa, finiva di chiudere la casa e le cose, scarsamente
coadiuvata dalla Rosa dissenziente e supercritica, i sei amici stavano seduti in fila sul
bordo del prato scambiandosi impressioni e attendendo ulteriori sviluppi. Accucciata ai
piedi della Paola, Orsina fischiava su una tonalità inconsueta.
«Sono i suoi fischi da viaggio» spiegava la Paola al popolo. I baffi del Giaci
frusciavano cose incomprensibili. «Orsinasmettila», diceva la Paola sveltissima.
«Orsinatacisubito» I fischi da viaggio andavano alle stelle.
Intanto per i viali si aggiravano negletti e incerti alcuni tizietti, i pochi che gli esami
di riparazione non avevano già richiamato definitivamente in città; tra questi pochi c’era
il tizietto Paolo, ed era il più negletto e il più incerto di tutti. La Grande pareva che non
lo vedesse. Quando riuscivano a guardarsi, uno all'insaputa dell'altra, parevano due che
cercano a tentoni, con avidità e senza speranza, qualcosa di appena intravisto e subito
perduto: perchè? Non capivo. Forse se avessi avuto più tempo di osservarli, di parlare
con loro... Ma non avevo tempo. Non ne ho avuto per tutta l’estate, pensai con rimorso.
Subito scacciato: la partenza urgeva. C’è sempre qualcosa che urge.
Alle tre del pomeriggio la casa era chiusa e i bagagli caricati. Altri spettatori,
giovani e vecchi, indigeni o no, si fermavano al cancello o indugiavano con la barca
davanti al molo per assistere alle scene culminanti, ossia al caricamento cani e gatti: due
cani e quattro gatti. Ah, sì, non ve l'ho detto? i gatti sono diventati quattro. No, il quarto
non è un altro figlio illegittimo della John, la quale attraversa un periodo ascetico; è un
orfanello, figlio di ignoti, bianco, piumoso, molliccio, leggermente scemo, che il
Gamberini si è trovato sotto la macchina a Milano, davanti al ristorante dove consuma i
suoi solitari pasti estivi, e che si è portato a casa: quel cuor duro. «Mi sentivo solo» è
stata la giustificazione.
Per quattro giorni e quattro notti, dal martedì al sabato, il cuor duro ha tenuto il
gatto neonato nel cestino del pane, imbottito col suo miglior pullover di casimir,
portandoselo di giorno in ufficio a costo di farsi licenziare per scarso rendimento e
discutibile serietà, tenendoselo sul letto la notte e nutrendolo ogni tre ore con una
siringa, perchè non era ancora in grado di bere il latte dal piattino e neanche dal biberon;
e il sabato lo portò su a San Mamete, facendomene generoso omaggio.
Dopo aver colto ogni occasione per inveire contro l'eccessivo, criminale numero
di cani e di gatti che secondo lui io gli ho imposto con le male arti, me ne porta su lui un
altro. Questo poi, siccome l'ha trovato lui, a un gatto di qualità eccezionali. Infatti è
strabico; è scemo; è senza voce; si chiama Giacinto, non chiedetemi perchè; e da più da
fare lui che tutti gli altri messi insieme.
La prima cosa che ha fatto, appena arrivato a San Mamete, è stata cadere in lago; e
se non c’era Pop a buttarsi dentro vestito, addio Giacinto. Naturalmente l'abbiamo
adorato subito. E talmente indifeso, tenero e goffo. Gli altri gatti si fanno beffe di lui, ma
lui non capisce, perchè non ha senso umoristico. Tutto quello che sa fare a camminare
seduto, fare pipi e stupirsi di tutto. Se lo sgridate vi guarda sbattendo le palpebre sugli
occhietti strabici e fa ron-ron.
Ma non perdiamoci in chiacchiere. Dicevo dunque che le bestie da caricare erano
sei. I due cani sono abituati ai viaggi, a modo loro, e non presentavano problemi
particolari, se non quelli logistici: complicati dalla presenza della Rosa, la quale, una volta
che è in macchina, col vestito della festa e molta cipria in faccia, non vuole avere
contatto veruno con veruna bestia. Ora, dato il numero delle persone e delle bestie
costrette a coabitare nella Bestia, e tenendo presenti le dimensioni nonché le abitudini
del Bao, vi renderete conto di come fosse difficile evitare che la sua coda, la sua saliva o
qualsiasi altra sua particella (posto che il Bao abbia particelle) venisse a contatto con la
lavoratrice suddetta. Si poteva sperare di evitarlo solo mettendo il Bao davanti e la Rosa
dietro, o viceversa. Ma se mettevamo la Rosa dietro, come il Gamberini avrebbe
vivamente desiderato (la vicinanza della Rosa e dei suoi grovigli linguistici gli è cagione di
uno stato depressivo acuto), bisognava mettere tutte le bestie davanti: il che, oltre che
difficoltoso da un punto di vista volumetrico, diventava rischioso dal punto di vista
dell'incolumità generale; sei bestie più un Gamberini al volante danno scarso
affidamento. Quindi decidemmo di mettere la Rosa davanti e tutte le bestie dietro con
noi. Ma il Gamberini, col panico in fronte, disse che lui solo davanti con la Rosa non ci
stava. O uno di noi si metteva in mezzo, o ci mandava tutti a Milano a piedi. La Rosa
intanto, col vestito della festa ben aggiustato intorno e un'espressione di meritata
beatitudine, si disinteressava della faccenda. Apres moi le deluge. Che nel linguaggio della
Rosa potrebbe tradursi: Faccino quello che voglino io di qua non mi sposto.
«Allora, decidiamoci», tuonò il Gamberini. «Uno di voi davanti».
E già: ma quale? Gli amici sul bordo del prato facevano da arbitri. Per semplificare
le cose, il Polpettone propose di tirare a sorte; l'Armen preparò con la consueta
efficienza i bigliettini; il Giaci posò la tazza del tè per estrarne uno. «Pop», lessero i suoi
baffi.
«Non vale», disse subito Pop. «Arbitro venduto».
Ma un boato del padre lo persuase ad accettare, sia pure con profonda amarezza,
il verdetto. Salì in macchina da sinistra, onde non disturbare la Rosa e il suo vestito, si
appoggiò allo schienale e si calò sulla faccia il berretto da marine; al di sotto del quale la
sua voce, roca e vendicativa, disse: «Sotto coi gatti, ragazzi»
I gatti rappresentavano infatti la parte più delicata della faccenda.
«Li mettete tutti in un solo cesto o in quattro cesti separati? si informò
malignamente l'Armen.
L'incompetente! «I nostri gatti», gli resi noto, «sono bestie libere ed evolute. Nei
cesti non ci stanno».
«Ma quattro gatti liberi in automobile costituiscono un pericolo», disse il
Polpettone, che appariva seriamente preoccupato per noi.
«A chi lo dici», disse il Gamberini. «Abbiamo provato anche questo, una volta. E a
quel tempo i gatti erano solo due».
«Ma allora come li tenete?»
«Li tiene lei», disse il Gamberini girando su di me uno sguardo indefinibile. «Al
guinzaglio, li tiene»
Non so cosa ci fosse di tanto strano. Con quattro nastri di diverso colore, che non
stonasse col colore dei relativi gatti, io e la Piccola avevamo preparato quattro bei
guinzaglini; a una estremità di ogni singolo nastro avevamo praticato un occhiello
scorrevole per infilarci la testa del singolo gatto, mentre le altre estremità le avevamo
riunite in un solo multiplo occhiello nel quale infilare la mia singola mano. Un sistema
semplice ed efficace: specialmente in teoria. In pratica, l'operazione di infilare nei singoli
occhielli le singole teste di gatto si rivelò leggermente più difficoltosa del previsto e
richiese l'intervento di ogni membro della famiglia (escluso beninteso il Pop,
inaccessibile sotto il suo berretto e il suo sdegno, e la Rosa, inaccessibile sotto la sua
dignità sindacale), più il rinforzo di alcuni tizietti volontari ma incompetenti, che
complicarono maledettamente le cose, talché i gatti invece di quattro sembravano
diventati quaranta. Quando infine, tra grida, miagolii, preghiere, maledizioni, graffi e
incoercibili contorcimenti di membra umane e feline, le quattro singole teste di gatto
furono infilate nei quattro singoli occhielli, io non ebbi che infilare la mia singola mano
nell'occhiello multiplo ed ebbi il pieno controllo della situazione.
«Non capisco cosa avesse la folla da ridere tanto.
«O la bella burattinaia», dissero i baffi del Giaci.
Effettivamente, un po' burattinaia mi sentivo. Specialmente quando fummo in
macchina e, dopo qualche secondo di perplessa immobilità, i gatti cominciarono a
zompare di qua e di la come satanassi, e io dovevo manovrare i fili con estrema abilita e
prontezza, attenta a non sbagliare colore e direzione se non volevo trovarmi
completamente aggrovigliata, stile Laocoonte, o favorire, involontariamente, attentati al
guidatore o alla Rosa. Miagolii e latrati andavano alle stelle.
«Silenzio!», tuonava il Gamberini aumentando del doppio il baccano. «A cuccia
tutti!». Ma guardava me.
«Sta' un po' zitto tu, invece» dissi con voce sofferente. «Lo sai che ho l'emicrania»
«Ah sì? » ghignò. « Chi l'avrebbe mai detto».
Non so cosa ci sia da ghignare sull'emicrania.
La Bestia salì bofonchiando per il viale, seguita da un corteo di amici adulti e di
amici ragazzi, uscì in istrada e si fermò, col motore acceso, mentre il capofamiglia
ridiscendeva a chiudere il cancello sulla nostra estate. Chini sui finestrini, gli amici
osservavano la situazione interna. Tra il vorticare dei gatti vidi il tizietto Paolo che
guardava la Grande, con una sorta di caparbia sofferenza tra le lentiggini.
«Ciao», disse.
Le ciglia della Grande non si sollevarono sugli occhi celesti.
«Ciao», disse.
Nient'altro. Che ne è stato di quelle giravolte sul prato lucido di luna? pensai. Forse niente.
Forse si sono stufati, ecco tutto, mi dissi, e non sapevo se ne ero contenta o molto triste. I
ragazzi d'oggi... Probabilmente è stato un flirt qualsiasi, e sono io che gli ho dato troppa
importanza. O troppo poca, disse il rimorso. Lo scacciai di nuovo. Avevo troppo mal di
testa. E troppi gatti a cui badare.
Il Gamberini aveva finito di chiudere il cancello. Attraverso le sbarre verdi
arrugginite ci salutavano i vecchi alberi. La Darsena rossa sembrava una casina di fiaba,
con le persiane chiuse per un lungo letargo, e soltanto i ghiri per abitanti, in letargo
anche loro. Arrivederci: il nostro cuore era al di là del cancello e stentava a venirne fuori.
Perfino la Bestia sembrava riluttante a muoversi; poi si decise, con un sospiro da
pachiderma mal trattato, e il vecchio cancello fu alle nostre spalle. I tizietti ci inseguirono
correndo fino al ponte, la gente del paese si voltava a salutarci con la mano, arrivederci,
arrivederci. Sul lago sfumato dalla nebbia di settembre il Cigno e la Cigna portavano a
spasso i cignetti. Arrivederci... Chi vi darà il pane e trifoglio?
La Paola e il Giaci, gli Armen e i Polpettoni ci seguivano con le loro macchine: per
prestarci soccorso in caso di bisogno, dicevano; in realtà per godere delle nostre
vicissitudini, che si auguravano spettacolari.
In un certo senso lo furono. Per oltre metà del viaggio i gatti continuarono a
zompare e gnaolare, e di conseguenza i cani continuarono a latrare. Io continuai a fare la
burattinaia con la destra, a tenermi la fronte con la sinistra e a dire: «Oh, la mia testa».
La Grande canticchiava meccanicamente tra sè, come se fosse mille miglia lontana
da lì e da tutto, povera Grande senza più giravolte.
Il Pop, al di sotto del berretto che gli copriva la faccia, emetteva di tanto in tanto
scientifiche osservazioni, che suscitavano lo spirito di contraddizione paterno, con le
conseguenti tipiche discussioni da viaggio in cui nessuno dei due capisce niente e tutti e
due si arrabbiano moltissimo, richiedendo il mio intervento, finche il dialogo tra due
sordi diventava un dialogo tra una folla di assordati, con accompagnamento di guaiti,
gnaolamenti, quiz della Piccola, e "oh, la mia testa". L'unica che non batteva ciglio era la
Rosa.
Questo fino a Como. Fu proprio mentre traversavamo il centro di quella ridente e
popolosa cittadina che la situazione, che pareva in fase di miglioramento,
inaspettatamente precipitò: quando il gattino Giacinto, che si era appisolato su un
ginocchio della Grande, senza alcun preavviso si sentì male: con una violenza incredibile
in un essere così grazioso e piccino. La Grande, investita a tradimento da questo inatteso
malore di gatto, ne afferra d'istinto la fonte e la scaglia lontano da sè, lontano cioè
quanto permetteva la lunghezza del nastro-guinzaglio: descritta infatti una rapida quanto
rovinosa parabola in avanti, il gatto a spruzzo invase la Rosa e dintorni, donde,
richiamato da uno strattone della burattinaia, ripercorse la parabola in senso inverso:
sempre sentendosi male.
Fummo costretti a scendere tutti. La carrozzeria interna della Bestia era conciata
quasi quanto le nostre carrozzerie esterne. Gli amici sopraggiunti si buttavano via dal
ridere: non avevano sperato tanto. Mentre procedevamo, con giornali, stracci e intere
bottiglie d'acqua di colonia, a una sommaria ripulitura generale, la Rosa continuava a dire
che mi dava i quindici giorni; i cani urlavano; il Pop insultava la Grande che aveva
lanciato il gatto; la Grande insultava il gatto; la Piccola insultava la Grande che insultava
il gatto; io insultavo i figli che si insultavano. Il Gamberini insultava indiscriminatamente
tutti. Seduto per terra col musino alzato, il gattino Giacinto ci guardava sbattendo le
palpebre. Ma che sarà successo?
Intorno si erano formati capannelli di gente che ci osservavano con interesse.
«Vengono da un circo?» chiese uno. «No, vengono da Mombello» rispose il Gamberini,
guardando me. Figurarsi se non ero io la colpevole di tutto. Ma non avevo la forza di
reagire. E neanche di ridere: non al momento.
Arrivammo a Milano che era già sera. Entrando in casa, accolti come ogni anno
dalle montagne di polvere, giornali sfogliati, mozziconi di sigarette, calzini scompagnati,
vasellame rotto, lenzuola accartocciate che rappresentano la solitudine estiva del mio
diletto consorte, eravamo tutti stanchi e di cattivo umore. Lo siamo sempre, quando
torniamo in città. Ma questa volta lo eravamo di più. Almeno io.
Mai il piccolo appartamento sul Naviglio mi era apparso più angusto, scomodo,
ingombro, brutto, soffocante. Non si poteva fare un passo senza calpestare un gatto, con
giustificate strazianti proteste del medesimo; il Bao non poteva girarsi senza rovesciare
un mobile o un soprammobile, con anche più giustificate proteste del proprietario del
medesimo. E non un terrazzino dove prendere un po' d'aria, non un armadio che non
fosse stipato, non un cassetto che non fosse straripante, e non un pavimento, di
conseguenza, che non fosse pieno di peluches, libri, album di dischi, oggetti di prima
seconda e terza necessità, nonché di piedi di persone e di bestie. E i figli crescevano, e le
bestie anche. Fu in quel momento, appena entrata, lì ferma in mezzo allo stretto
rigurgitante corridoio, che si delineò nella mia testa il folle proposito: dobbiamo cambiar
casa. S'era delineato altre volte, in passato, ma questa, lo sentivo chiaramente, era la volta
decisiva. Comunque non dissi niente, ero troppo stanca. Avevo troppo mal di testa. E
troppe cose da fare, subito.
Le feci, mica tutte beninteso, ma insomma le più urgenti, dal disfacimento bagagli
all'eliminazione detriti maritali estivi. Quando andai a letto, a mezzanotte passata, ero
troppo stanca perfino per dormire. Stavo lì distesa nel buio a pensare che non mi sarei
alzata mai più quando senti qualcosa venire dalla stanza della Grande: forse era stato un
rumore, forse l'immaginazione, forse il rimorso, so che un momento dopo ero in piedi
— quella che non doveva alzarsi mai più — camminavo scalza nel corridoio verso la
stanza delle bambine. Socchiusi la porta. Buio e silenzio. Distinsi prima il respiro da
passerotto della Piccola addormentata, poi quello della Grande: era sveglia. Immobile e
sveglia. Risentii la piccola remota voce di vetro che canticchiava meccanicamente, in
automobile, rividi le ciglia bionde calate come un sipario sugli occhi celesti. Adesso la sua
faccia era una macchia pallida nel buio, io sapevo che era bagnata. Con mille spilli nel
cuore sapete cos'è il primo dolore di un figlio — la chiamai sottovoce. Ma non mi
rispose.
Aveva ragione. Non l'avevo aiutata. Non avevo tempo: avevo dato tante e tante
ore alle pene d'amore delle mie lettrici, di gente che non conosco, e non avevo avuto
tempo, per il primo amore della mia bambina. Mi sentii miserabile e fallita.
Mi avvicinai al letto, rimasi lì con le braccia penzoloni, senza dir niente. Non ne
avevo il coraggio, né il diritto. Ma lei alzò subito le sue lunghe braccia di bambina
cresciuta, me le sentii strette intorno al collo, sentii le sue lacrime sulla gola, la sua voce
rotta: «Mamma, o mamma...»
La strinsi contro di me, pregando il Signore di darmi tante emicranie, tutta una
vita di emicranie, ma non farla più piangere così, neanche un minuto. Non dissi niente.
Parlò lei, dopo, a pezzi, in un modo buffo e puerile che mi torceva il cuore:
«Io... ho rovinato tutto... Era sempre così timido, il Paolo, e... e non capivo mai di
sicuro se mi voleva proprio bene, proprio tanto bene o no... e così per svegliarlo mi sono
fatta fare il filo dal tizione... ma invece di svegliarsi, lui s-si è a-addormentato del tutto»,
disse con un breve sorriso dolorante. Le labbra ricominciarono a tremarle forte. «Non
mi ha voluto più!» singhiozzò schiacciando la faccia nel cuscino.
Una piccola, sciocca storia come ne leggo a decine tutti i giorni. Solo che adesso
era la sua. Sarebbe bastata una parola al momento giusto per aiutarla... Ma non l'avevo
detta, quella parola. Non avevo tempo. Ne dico tante, tutti i giorni, ma a lei no.
Lei continuava a singhiozzare, la bocca schiacciata sul guanciale per non svegliare
la Piccola, la nuca esile scoperta dai capelli brevi, e io continuavo a pregare stupidamente
il Signore di darmi tante emicranie. Tante, Signore.
«Mamma... o mamma, gli voglio tanto bene, ancora più di prima», singhiozzava.
«Non vorrò mai più bene a nessuno così».
Anche questo lo sento dire tutti i giorni. Solo che adesso era lei che lo diceva,
proprio come l'avevo detto anch'io un giorno, e forse era vero. I ragazzi d'oggi non sono
tanto diversi da quelli di ieri... Di colpo, sentii quel che dovevo dire.
«È successo anche a me e al papà, una volta», dissi. La rivedevo, la nostra prima
rottura, risentivo il male, lo smarrimento, il freddo delle lacrime sul cuscino. "Non vorrò
mai più bene a nessuno". Quant'acqua era passata sotto i ponti. «Faticavamo da matti a
capirci, in principio», dissi. «Dopo quella volta ci siamo lasciati un sacco di altre volte;
solo che le altre volte sapevamo che ci saremmo ripresi. La prima volta no».
Dall'immobilità delle sue spalle capivo che stava ascoltando, e continuai a parlare, un po'
sorridendo e un po' no, un po' per lei e un po' per me stessa, e lei aveva sollevato la
faccia e mi pareva di veder riaccendersi nei suoi occhi, a una a una, timide candeline di
speranza.
«Che stupidi eravate», mormorò alla fine, teneramente.
«Molto stupidi» dissi. «Molto giovani».
«Anche noi» sussurrò.
Mi prese una mano e se la mise aperta sulla faccia, con un gesto pieno di fiducia, e
io non mi sentivo più una misera donnetta nevrotica e incapace, ma una mamma come
tante, piena di errori e di gratitudine.
Quando si addormentò e sentii le sue ciglia ferme sotto il mio palmo, ritirai piano
la mano e andai a letto.
«Che fai, la sonnambula?», chiese la voce assonnata e burbera del Gamberini.
«No» dissi. «Adesso dormo»
Ma non dormiva lui. Si voltava e scalciava come se avesse gli scorpioni tra le
lenzuola, e io aspettavo. Finalmente si decise:
«Che cos'aveva?» chiese con malgarbo.
Glielo dissi.
«Quel deficiente!», commentò furioso (e smemorato). «Quel mammalucco! Mia
figlia ne trova cento meglio di lui, se vuole!».
«Il fatto è che non vuole» dissi. «Lei vuole quello: il mammalucco. Succede».
Ci pensò sopra. «Bisogna fare qualcosa!» disse angosciato.
«Bisogna lasciarli crescere» dissi. «Adesso dormi».
«Non posso dormire!» si lamentò dopo due minuti di scalciamenti.
«Pensa a qualche altra cosa», dissi. «Pensa, per esempio, che dobbiamo cambiar
casa».
UNA DONNA EMANCIPATA

«Che cosa hai detto? » chiese dunque il Gamberini tirandosi a sedere.


«Che dobbiamo cambiar casa» , dissi.
L'avevamo detto moltissime altre volte, ma senza convinzione: sapete com'e,
quando si ha l'affitto bloccato. Ma stavolta ero convinta, e lo sapevo, e anche lui lo
sapeva; per questo, seduto sul letto, mi guardava con occhio tanto allarmato.
«Ti rendi conto di quel che significa? »disse.
«Circa », risposi. Erano le due di notte e avevo sonno. « Comunque ormai ho
deciso».
Di solito evito di prendere decisioni: preferisco lasciarle, da mite e umile moglie
qual sono, al capofamiglia. Ma quella volta che ne prendo una la prendo, e neanche il
terremoto può spostarmi di un millimetro. Non so se abbiate già avuto occasione di
notarlo. Lui si.
«Posso sapere», chiese, « da quale contorto processo mentale è scaturito questo
insensato proposito?»
Secondo lui i miei propositi sono sempre insensati e i miei processi mentali
sempre contorti: Niente di più lineare e sensato, invece: giudicate voi.
«Il Pop non può continuare a dormire dietro una tenda smontabile», dissi
ragionevolmente, «anche adesso che va al liceo scientifico e avrà tanto da studiare, e...».
«È permessa un'obiezione?» mi interruppe. «Anche avesse un appartamento di
settantadue vani a sua intera disposizione, tuo figlio non farebbe che portare a spasso di
vano in vano la sua metafisica, il suo jazz freddo e la sua voglia di far niente».
«È una tua illazione», dissi; con una certa spudoratezza, lo ammetto, ma con molta
fermezza. «Prima diamogli i settantadue vani, poi vediamo. Inoltre ci sono le bambine da
considerare. Mica possono continuare a dividersi i cassetti così, a tenere i libri in terra o
sul letto per far posto ai peluches, e viceversa. E poi la Grande ha diritto di invitare
qualche volta i suoi amici, e mica si può ballare il cha-cha-cha in un soggiorno dove è già
problematico stare in piedi o sedersi senza rovesciare qualcosa o qualcuno».
«Obiezione», disse di nuovo, alzando una mano. «Come è andata avanti fino
adesso, potrebbe andare avanti ancora».
«Obiezione respinta» dissi. «Adesso ha diciotto anni. Gli esami di maturità. E un
dispiacere d'amore».
«Posso sapere» chiese, «cosa c’entra il dispiacere d'amore col numero dei vani? »

«C’entra, affermai perentoriamente. «Se avesse una stanza sua, con spazio
sufficiente per dipingere, studiare, pensare in santa pace e fare la ginnastica per
sviluppare il busto, si sentirebbe già un po' consolata. Se poi avesse un soggiorno dove
ricevere degnamente gli amici...» continuerebbe a rimpiangere il tizietto Paolo, pensai; ma non
lo dissi. «Bisogna aiutarli, i figli» predicai. «Un padre e una madre hanno il dovere...»
«Dillo alle tue lettrici» mi interruppe. « Non a me». Battuto sul terreno dei figli,
scese sul terreno dei quattrini. «Hai una pallida idea delle spese che il tuo progetto
comporta? »
«Pallida», dissi. «Ma ce l'ho».
«Se adesso che abbiamo l'affitto bloccato arriviamo a fine mese pelati, mi sapresti
dire come ci arriveremo quando avremo l'affitto sbloccato?».
«Pelati lo stesso», dissi. «Solo che sperpereremo di meno, ecco tutto».
Infatti, siccome alla nostra inesauribile capacità di sperperare fa riscontro
l'incapacità fisica e psichica di sopportare un debito, ne derivava che, per far fronte
all'affitto (sbloccato) di un appartamento tanto grande da contenerci tutti, bestie
comprese, saremmo stati costretti a sperperare un po' meno. Era ben questo che gli
seccava: sperperare gli piace. Anche a me, del resto. Ma insomma, le necessità sono
necessità, non è vero? E la coda del Bao necessitava di spazio.
Questo non lo dissi, almeno non mi pare, ma si vede che lui me lo lesse nel
fumetto perchè cominciò a dire cose sgradevoli nei riguardi del mio cervello e molto
offensive nei riguardi di Bao, che non c’entrava per niente: mica aveva chiesto lui dei
padroni con una casa così piccola e così piena e così senza terrazzo. Mica era
responsabile lui della propria taglia e della propria coda: ognuno ha la taglia e la coda che
madre natura gli dà. Responsabile, se mai, era chi l'aveva scelto. E chi l'aveva scelto?
Proprio quello tra cento cani? Chi?
«Io, io, io! Va bene!» gridò il Gamberini fuori di sè. Sapete come si eccitano i
mariti quando hanno torto. «Va bene! Sono io il responsabile del Bao! E di tutti i gatti
che sono venuti dopo?»
«Di quelli è responsabile la John», dissi. «È lei che li ha fatti. Mica io. Il quarto poi,
non so se ricordo bene, chi l'ha portato in casa? Chi, di grazia? »
«Io, io anche quello! Si capisce! Va bene! Sono io il responsabile di tutto! Dei cani,
dei gatti, dei figli, della casa, della moglie pazza! Mea culpa! Va bene! D'accordo! Basta!
Non voglio più sentire niente!», sbraitò ficcandosi sotto le coperte. «Voglio solo
dormire!».
«Anch'io voglio dormire», dissi, ragionevolmente. «Se smetti di gridare forse ci
riusciamo»
Con un barrito si tirò il lenzuolo in testa. Non parlò più, ma continuò a rivoltarsi e
a scalciare per un pezzo, e se avessi dovuto badare ai fumetti che uscivano dalle lenzuola
avrei dovuto far domanda di annullamento alla Sacra Rota. Ma non ci badavo. I mariti,
una volta che si son presi, bisogna tenerseli come sono. Pazienza, ecco cosa ci vuole.
Una gran pazienza.
Nei giorni che seguirono, il Gamberini si rifiutò caparbiamente di ritornare
sull'argomento.
«Io non c’entro» diceva. «Parlane col Bao».
Una cosa veramente irritante. Quando poi erano gli amici o i parenti,
generalmente sobillati da me, a chiedergli i nostri progetti circa il cambiamento di casa,
rispondeva: «Non chiedete a me. Rivolgetevi alla signora».
Quando, ha la piega ironica dice sempre "la signora"; quando ha la piega
furibonda dice "lei" o "quella", disconoscendomi nome, qualifiche e parentele; quando è
in vena di indulgenza dice "la squinternata".
In quei giorni ero sempre la signora. «È la signora che fa i progetti», diceva. «Che
decide tutto. Se un giorno finiremo sul lastrico, completi di cani di gatti e di affitti non
pagati, sapete a chi rivolgervi per spiegazioni: alla signora qui presente. Lei vi dirà tutto.
Vi dirà che abbiamo cambiato casa, come già abbiamo cambiato macchina, per via del
cane. La signora ha la mentalità di quel tale che avendo comprato un bottone fu
costretto a farci intorno un paltò. Lei, avendo comprato un grosso cane, ha bisogno di
fargli intorno una grossa casa. Con un grosso terrazzo. O forse con un grosso giardino.
O forse con un grosso parco. Sempre per il cane».
«E per i gatti» dicevo io. «Siete tutti testimoni che l'ultimo gatto l'ha preso lui».
«È vero» dicevano amici e parenti. «Siamo testimoni».
Al che lui diceva che erano tutti venduti, tutti partigiani della signora qui presente,
che era uno schifo, che a questo mondo non c’è più un vero amico, che andassero tutti
in malora e non gli rompessero più l'anima coi traslochi e le case. «Capito?
Consideratemi in sciopero. Se la signora vuol traslocare traslochi! Se vuol finire sul
lastrico ci finisca! Ma non chieda il mio parere o il mio aiuto! Io non c’entro. Non voglio
saperne niente. Si arrangi! Dovrà fare tutto da sè: cercare, trovare, contrattare, traslocare.
Pagare. Io starò seduto in poltrona. Capito? Seduto in poltrona!
A parte il fatto che neanche un mitra potrebbe indurlo a star seduto in poltrona
per più di quattro minuti di seguito, per il resto mantenne la promessa. Scese davvero in
sciopero; si disinteressò davvero della faccenda; lasciò davvero che mi arrangiasi da sola.
Sebbene disorientata, in principio ne fui contentissima. Ho avuto così poche
occasioni di arrangiarmi da sola, in vita mia. Prima il papà, la mamma, i fratelli, i Cug; poi
il marito, i figli, le bestie, la Rosa, e le necessità e la bolletta e il lavoro e tante altre cose
hanno sempre influito sulle mie deboli (e per lo più balorde) iniziative, a volte
bloccandole sul nascere, a volte deviandone il corso originario. Non che me ne lamenti.
Constato, semplicemente. E solo certe volte, non so se a voi succeda, sento un po' di
nostalgia per quelle balorde iniziative rientrate. Certe mi fanno ancora un po' male. Ma
forse è solo curiosità: chissà come sarebbero andate a finire. Forse è meglio non saperne
niente. Ma sto perdendo il filo, tanto per cambiare.
Dicevo che in principio fui molto contenta di avere mano libera nella ricerca della
nuova casa. più che contenta, ero eccitata. Inebriata, è la parola. Cercare, trovare, fare e
disfare senza chiedere nè ascoltare il parere di nessuno: finalmente! Avrei fatto tutto da
sola, avrei dimostrato che non ero una mezza scrittrice balorda, ma una donna completa,
emancipata, piena di iniziativa e di senso pratico. Avrebbero visto!
In ogni ritaglio di tempo lasciatomi libero dalle puntate, dalla posta, dalla casa
(vecchia), dai figli, dalle bestie (non dico dal marito perchè non ci si frequentava molto in
quei giorni), mi buttavo a corpo morto, senza remissione, nella ricerca della casa.
Consultando freneticamente tutte le inserzioni, spendendo patrimoni in telefonate,
francobolli, energie nervose e tassì (la Bestia la guida solo il marito e il marito era in
sciopero) scrissi a un sacco di imprese, telefonai a un sacco di persone, andai a parlare
con un sacco di altre; feci un sacco di strade, sbuffai per un sacco di scale, sudai freddo
in un sacco di ascensori (claustrofobia, ma non vi dico come la chiama il Gamberini),
visitai un sacco di appartamenti, presi in esame un sacco di piante, feci un sacco di
calcoli e progetti, tutta irta di efficienza e di emancipazione.
Il fatto è, vedete, che io non so fare le cose con calma, con moderazione: quando
mi ci butto, mi ci butto fino all'ultimo fiato e all'ultimo grammo di materia grigia, senza
economia ne pazienza. «Alla signora le scoppia sempre tutto» dice il Gamberini. Questa
volta mi erano scoppiati gli appartamenti. Navigavo tra gli appartamenti come un
fuscello su una corrente in piena.
A casa, mentre avrei dovuto essere curva sulla macchina da scrivere a ricuperare
senza un attimo di sosta il tempo perduto, mi capitava di trovarmi ferma in mezzo a una
stanza qualsiasi a fissare intensamente un mobile qualsiasi, mormorando a fior di labbra:
«Cinque più doppi servizi con terrazzo, sei più doppi servizi senza terrazzo», finche Pop,
uscendo un momento dalla metafisica, mi avvertiva al di sopra del libro: «Mamma, hai
l'occhio vacuo» Riscuotendomi, lo ringraziavo e mi riprecipitavo alla macchina da
scrivere; ma di lì a poco ero da capo: magari in cucina, a fissare ferocemente il fornello
pensando: Settecentottantamila più le spese, che al trimestre farebbe... Il quattro in sette ci sta una
volta con l'avanzo di tre e il tre dove lo metto, boh, facciamo a mese, il dodici in settantotto..., finche mi
risvegliava la voce della Rosa: «Signora, possiamo toglierlo il burro, adesso che è bruciato?»;
oppure a tavola, col cucchiaio sospeso e lo sguardo fisso nel bicchiere, a ripassare
mentalmente l'ultima piantina, finchè la voce della Piccola annunciava: «Quiz. A che sta
pensando la mamma? 1, all'Africa misteriosa; 2, a Romolo e Remo; 3, a un
appartamento. Scegliere la risposta esatta».
Nessuno sembrava condividere i miei problemi e i miei entusiasmi. La Piccola era
troppo impegnata con le sue rime e i suoi giochi ("e di compiti pochi"), il Pop con Einstein
e il jazz freddo; e la Grande, quella che da anni si lagnava della casa brutta, della casa
piccola, del Naviglio puzzolente, degli armadi zeppi, e come si fa a invitare degli amici in
una catapecchia simile eccetera eccetera, adesso era troppo impegnata nella difficile
digestione del suo primo dolore per interessarsi d'altro.
Il capofamiglia, poi, pareva che manco sapesse di che si trattava. Case?
Appartamenti? Che cos'erano? Mai sentiti. Lo sciopero continuava: a oltranza.
E io continuavo caoticamente le mie ricerche, stancandomi di maledetto, restando
maledettamente indietro nel lavoro e nel menage, e sentendomi giorno per giorno
sempre meno emancipata e sempre meno desiderosa d'esserlo, ma rifiutando di
confessarlo a me stessa. In capo a due settimane avevo accumulato un numero
impressionante di telefonate, visite, annotazioni, piantine, e la mia testa era un tale
bailamme di cifre, planimetrie, vani, servizi, divisioni e moltipliche, che a un certo punto
mi resi conto che dovevo raccogliere le idee per vedere di uscirne viva, se non proprio
vegeta.
Ci misi una serata intera, e col mal di testa pure, a fare lo spoglio. E quando l'ebbi
fatto, e ingoiato non so quanti antinevralgici, risulto che di quell'impressionante numero
di appartamenti non ce n'era uno, dico uno, che andasse bene. O non c’era il terrazzo
(giardini neanche parlarne), o l'affitto era troppo alto, o c’erano troppo pochi locali, o la
strada era brutta, o la casa era orrenda, o non erano ammessi i cani, insomma niente.
Zero. E io avevo buttato via due settimane e un sacco di lavoro e avevo trascurato i figli
e la casa, e il marito mi teneva il muso... Mi venne una gran malinconia. Non solo per la
casa che non avevo trovato. Per tutto. Mi sentivo così goffa e suonata e pasticciona e
incapace di fare una cosa una sola volta fino in fondo, da sola. Ma io non voglio fare da sola,
pensai. Non voglio neanche cambiar casa! Voglio solo fare quello che vuole lui. Ecco!
Voi direte che non c’era da piangere. E va be', io piangevo, l'ho detto che sono
balorda.
Poi avevo mal di testa: una scusa che funziona sempre. Comunque ce l'avevo
davvero, anche se non era per quello che piangevo, ma per un sacco di altre cose che mi
piombano addosso tutte insieme nei momenti di crisi. Non so se a voi succeda. Si parte
magari da una sciocchezza, da un contrattempo qualsiasi, un dispiacerino da niente: ma è
come un sasso buttato nell'acqua ferma della malinconia, tutto quel che sta sul fondo si
smuove e viene a galla, e i cerchi si allargano si allargano, portandosi via la speranza,
l'entusiasmo, la fiducia, finche vi sentite del tutto soli e balordi e inutili in un gran lago
grigio. Non so se a voi succeda. A certe mie lettrici sì: ed a in quei momenti lì che mi
scrivono, di solito. Ma io mica potevo scrivere a me stessa. E poi che diavolo mi sarei
dovuta rispondere? La vita val la pena di essere vissuta, mia cara, anche quando si è nati balordi.
Smetti dunque di piangere e recati tosto a: 1, intrecciare carole; 2, beneficare le vecchie; 3, dormire. La
risposta più confacente al momento mi sembrava la terza. Mi soffiai il naso e andai a
letto.
Il Gamberini era ancora sveglio. Appoggiato ai cuscini, leggeva il giornale e
fumava, vera immagine del marito sibarita. Al mio apparire grugnì distrattamente e
continuò a leggere, fingendo di non vedere i miei sconsolati fumetti. Che li vedesse lo si
capiva da come voltava continuamente le pagine del giornale, con esagerati
dispiegamenti di braccia e crepitii di fogli. Ma forse non capiva che avevo bisogno di lui
come un bambino della mamma.
Tesi umilmente una mano dalla sua parte.
«Per piacere» dissi con voce flebile, «consola la signora qui presente».
Lui mise giù il giornale; girando su di me gli occhi gialli:
«Che ti succede?» disse. «Ti sono crollati tutti gli appartamenti?».
«Come se lo fossero», dissi affranta. «Crollati sulla mia testa».
Gli occhi gialli cominciarono a ridere.
«Avanti, raccontami tutto», disse.
Mi sembravano non venti giorni ma vent'anni che non appoggiavo la testa sulla
sua spalla: una spalla magra, larga, cocciuta, assolutamente sicura. Ah, che riposo. Che
delizioso scaricamento di tutto; è una vecchia sensazione, che non cambierei con
nessun'altra.
Gli raccontai tutto. Gli andirivieni, gli ascensori, le cifre, le piantine, i maledetti
vani. A raccontarlo sembrava divertente. Rideva tanto che la mia testa sussultava sulla
sua spalla come se fossimo in treno.
«La donna emancipata! Quella che fa tutto da se. Squinternata della miseria».
Nessun sei vani con doppi servizi e terrazzo valeva la ruvida tenerezza delle ultime
tre parole. Al diavolo i vani, chi li voleva? I vani, puah.
«Non me ne importa più niente dissi con sollievo. «Degli appartamenti», dico.
«Peccato», disse. «Perchè io ne ho trovato uno».
«Tu... trovato cosa? Dove? Quando?».
«Un appartamento. A dieci minuti da qui. Due settimane fa. Ho già firmato il
contratto».
«Ma p... perchè non me l'hai detto?», chiesi.
«Ci tenevi tanto a fare da te. Mica volevo rovinarti l'emancipazione».
«E se trovavo anch'io un appartamento? E se firmavo anch'io un contratto?».
«Tu?». Si mise a ridere come di una barzelletta. Be', forse lo era. «Traslochiamo
alla fine del mese», disse. «Aspetta che vado a prendere la pianta».
Un minuto dopo eravamo tutti e due bocconi a guardare la pianta, gli indici
puntati e gli occhi scintillanti.
«Uh, quanti vani! pronunciai la parola vani senza più disgusto. « Ma quanti sono?»
«Sei», disse, come se li avesse fatti lui. «Più un'anticamera grande. più doppi
servizi. Spero che la coda del Bao ci starà comoda».
«A che piano è?», chiesi, pensando all'ascensore.
«A pianterreno» disse, con una voce particolare.
«Pianterreno... Allora naturalmente non c’è il terrazzo mormorai. Sarebbe stato
troppo bello: non si poteva aver tutto dalla vita e dagli appartamenti in affitto, ormai lo
sapevo. «Ma non importa, l'appartamento è cosi grande e ben disposto che anche se non
c’è il terrazzo... ».
«Il terrazzo non c’è, infatti», disse con quella voce particolare. «C’è il giardino»
«Il giard... nostro?».
«Non saltare così che spacchi il letto» disse. «Nostro, sì. È una villetta a due piani,
naturalmente in periferia, e il pianterreno ha il giardino. Tutto nostro, in affitto,
insomma. Volta il foglio che ti mostro la pianta del giardino».
«Uh, che grande!» dissi.
«Be', proprio grande no», disse modestamente. Ma insomma, per Milano è
grandino. Ci puoi tenere anche sei cani, se vuoi» Accortosi dell'imprudenza, si affrettò a
ripararla: Dico, «ce li potresti tenere se l'amministratore permettesse. Ma non permette,
più di due cani no, ha detto»
«E gatti?».
«Non si è parlato di gatti. Penso comunque che quattro sia il limite massimo»
«Ha messo un limite anche ai figli?» chiesi.
«Non fare la spiritosa e torniamo al giardino. Dieci metri per venticinque: non è
male. C’è anche un ciliegio», disse per inciso.
«Oh... », dissi estatica. «Ma costerà un patrimonio d'affitto», gridai angosciata.
«Be'... ».
«Non dirmelo!», gemetti mettendomi le mani sulle orecchie. Ma sentii lo stesso.
Poiché il galateo dice che non è distinto che una signora rovesci le tasche in pubblico,
non vi dico la cifra annuale; vi dirò solo che quella mensile, difficoltosamente ottenuta
con l'aiuto delle dita e del Gamberini, mi lascio piuttosto scossa.
«Cosa volevi, che te lo dessero gratis?», disse lui.
«No, no certo... E poi un appartamento così grande, e col giardino...». Certo, era
un cifra giusta. Il guaio era metterla insieme.
«Sapendo di dover pagare tanto di affitto, sperpererai di meno» disse severamente.
«L'hai detto tu»
Ci mettemmo a ridere; gli incoscienti. Ma sì. Invece di buttare i soldi dalla finestra,
li avremmo buttati al padrone di casa. Era tanto semplice. Tornammo a voltare la pianta
dalla parte dell'appartamento e cominciammo a distribuire la famiglia e le bestie nelle
relative zone.
Questo è il soggiorno-pranzo, questa è la nostra stanza, questa è la stanza della
Grande...».
A un tratto, confusamente, mi parve che qualcuno ci ascoltasse, e alzai la testa.
Era la vecchia casa che ascoltava: le piastrelle macchiate d'inchiostro, i soffitti screpolati,
i muri che hanno ascoltato i vagiti dei nostri figli, la vecchia casa che aveva protetto i
nostri anni più duri, che aveva diviso con noi la povertà la fatica la paura le lacrime, e che
adesso non ci serviva più.
Ascoltava, la vecchia casa, e taceva.
Riabbassai la testa.
«Qui la stanza del Pop» continuava lui ignaro, «qui quella della Piccola...».
«Parla piano», dissi. «Non svegliare i bambini».
E TRASLOCO SIA

La sveglia suona sempre troppo presto per me, che sono eternamente in arretrato
col sonno: dalla nascita, dice il D. C. Ma quel mattino non vedevo l'ora che suonasse,
tanta era la smania di alzarmi e andar a vedere la casa nuova. Finalmente suonò, i figli
andarono a scuola, e il Gamberini chiese un permesso in ufficio per accompagnarmi
personalmente con la Bestia a vedere la casa.
«Mica che sia tanto fuori mano» diceva, guidando nervosamente in un labirinto di
viuzze stile paesano. «Ci potresti venire anche a piedi da sola. Ma col senso
dell'orientamento che hai, invece che in via Dario Papa mi finisci magari in Finlandia».
In Finlandia non ci arrivammo. Ma quasi. Via Dario Papa, sede della nostra nuova
casa, non è esattamente in una zona centrale. Ma la Finlandia, voglio dire la periferia, a
me piace, perciò non feci obiezioni.
In quanto alla casa, doveva essere pronta per la fine d'ottobre, cioè di lì a due
settimane. A vederla non si sarebbe detto. Più che una casa, a me pareva un groviglio di
travi, impalcature, mattoni, operai e calcinacci in testa, ma il Gamberini diceva che era
una mia impressione, sbagliata come sempre, che impalcature e calcinacci non
significavano niente, che si trattava solo delle ultime rifiniture, e che in due settimane,
volendo anche in due giorni, sarebbe stato tutto a posto. Nel dir questo, bianco di calce
dalla testa ai piedi, camminava a gran passi da un vano all'altro, o meglio da un mucchio
di mattoni all'altro, trascinandomi dietro come un pacchetto e zittendomi anche quando
stavo zitta.
«Non scocciare!», diceva continuamente, nervosissimo. «Non cominciare a piantar
grane».
Io non piantavo grane. Solo mi pareva...
Non voleva sapere quello che mi pareva. Erano tutte fesserie da incompetente.
Stessi zitta e lasciassi fare a lui, che di costruzioni edili se ne intendeva.
Non so il vostro, ma il mio, di marito, ha la prerogativa di essere esperto proprio
della cosa che si sta facendo, dicendo, trattando al momento. Se si viaggia e un esperto di
viaggi; se si scia è un esperto di sci; se si sente jazz è un esperto di jazz; se si comprano
cappellini è un esperto di cappellini. Se si visita una casa in costruzione, e ovviamente un
esperto di costruzioni edili. Io invece non sono esperta di niente. I miei pareri hanno
tutt'al più valore di barzellette: o di grane, a seconda dei casi.
Fu perciò con timidezza ed esitazione che chiesi: «E il giardino? Dov'e il
giardino?».
«Che, sei anche orba?» disse additandomi, oltre alle impalcature esterne, una
enorme buca nerastra sovrastata da un enorme cumulo di terra e di immondizie. «Eccolo
lì, il giardino! Ti sembra abbastanza grande per le tue amabili bestioline?».
Per grande, era grande. Un grande immondezzaio. Ma forse non mi intendevo di
giardini. Era lui l'esperto, anche di quelli.
«Non... non doveva esserci un ciliegio?», osai chiedere, sempre con la dovuta
circospezione.
«Sì, sì, c’è anche il ciliegio!», disse villanamente. Ogni mia domanda era un'offesa
personale. « Eccolo la,non ci vedi?».
Oltre le montagne di immondizie c’era una baracca di legno, di quelle dove gli
operai tengono gli attrezzi, e oltre la baracca di legno si vedevano sporgere due o tre
rami rinsecchiti e decrepiti. Era il ciliegio. Quelli di San Mamete mi sembravano diversi.
Ma forse non mi intendevo neanche di ciliegi.
«Che, lo volevi anche fiorito?», mi accusò.
«N... no, no», dissi. «È un bel ciliegio. O che bel ciliegio».
Mi diede un'occhiata priva di simpatia. «Andiamo, va'», disse uscendo.« Hai detto
anche troppe scemenze per oggi».
Fui lì lì per offendermi, ma ci rinunciai. Ero troppo depressa per offendermi.
Risalendo sulla Bestia, diedi un'ultima occhiata alla casa sepolta sotto le impalcature e il
frastuono degli attrezzi. E tra due settimane avremmo dovuto abitarci.
«Hai proprio detto la fine di ottobre?», chiesi debolmente.
«Non l'ho detto io!», esplose. «L'ha detto il costruttore! A lui concederai, nevvero,
di intendersene più di te? O no?».
Risposi di sì. Come no. Dicevo solo...
Non mi lasciò dire niente. Mi riportò a casa come una scolara in castigo,
continuando a sgridarmi, a dire che ero una piantagrane, una guastafeste, una
rompitasche. Oltre che una inesperta in costruzioni edili. Prima di lasciarmi per andare in
ufficio, comunque, mi disse che proprio a voler essere ultraprudenti, proprio a voler fare
le cose con ultracomodo, si poteva fissare il trasloco, anziché alla fine di ottobre, ai primi
di novembre, là. Tanto per farmi una concessione, per farmi stare tranquilla (queste mogli
bisogna prenderle come sono, si leggeva nel fumetto). «Ai primi di novembre ti va bene? chiese in
tono di sopportazione. »
Dissi di sì: con tanti ringraziamenti.
Solo che la casa non fu pronta ai primi di novembre e neanche alla metà di
novembre e neanche alla fine di novembre e neanche alla metà di dicembre. Tutto quello
che poteva succedere in una casa in costruzione, successe. Litigi dell'ingegnere col
geometra, litigi del geometra col capomastro, litigi del capomastro con gli operai,
sciopero delle maestranze, materiale che non arrivava, materiale che arrivava difettato e
andava rimandato indietro, permessi del Comune che non venivano concessi, lavori
interrotti, lavori malfatti che andavano sfasciati, quando proprio parve che non potesse
più succedere niente perchè era successo tutto, il capomastro cadde dalla motocicletta e
si ruppe tutt'e due le gambe.
«O che disastro, il capomastro», declamò in questa occasione la Piccola, e il padre
era così nervoso che le mollò una sberla; sberla che era moralmente destinata a me,
responsabile come sempre d'ogni guaio, comprese le fratture del capomastro. I vostri
figli non prendono mai sberle moralmente destinate alla madre, o al padre? I miei si.
Però mica si offendono. Ci sono abituati. Ma non divaghiamo. Dicevo che ogni volta,
ma proprio ogni volta che andavamo a vedere i progressi della casa nuova, cioè ogni
giorno e spesso due volte al giorno, c’era qualche nuovo e assolutamente imprevisto e
imprevedibile inconveniente che ritardava i lavori e di conseguenza il trasloco; e ogni
volta, ma proprio ogni volta, il Gamberini dava la colpa a me, che ero una piantagrane.
In quanto al costruttore, dava la colpa alla forza maggiore e stava a posto.
Ma noi no. Noi avevamo fretta. Nella casa vecchia non si resisteva più. Voi direte
che, come ci avevamo resistito per vent'anni, potevamo ben resisterci ancora qualche
mese. Ma vedete, a parte l'aumentato numero di bestie che rendevano la circolazione
domestica pressoché impraticabile, a parte che avevamo già dato la disdetta al vecchio
padrone di casa, c’era un importante fattore psicologico da tenere in considerazione; e
cioè che prima, sapendo di doverci comunque restare, aguzzavamo continuamente
l'ingegno per cercare di rendere meno brutta, meno piccola e meno scomoda la vecchia
casa, ovviando alla mancanza di spazio e di comfort con molta fantasia e molto amore;
mentre adesso, sapendo ormai di dovercene andare, tutto il nostro ingegno e le nostre
energie erano tesi alla casa nuova, passavamo tutto il tempo libero e anche quello non
libero a studiare la pianta, a disegnarci dentro i mobili, a cancellare, spostare, ridisegnare,
discutere, sognare, e nella casa vecchia, a parte che la Rosa manco scopava più,
lasciavamo che tutto andasse a catafascio.
A questo si aggiunga il fatto che, poiché il trasloco pareva sempre imminente, io,
da saggia e previdente massaia qual sono, fin dalla meta di ottobre mi ero premurata di
mettere via la roba, imballare i piatti, preparare le casse, cosicché erano praticamente due
mesi che si mangiava con vasellame di fortuna, ci si vestiva con indumenti d'emergenza,
si cucinava con pentole in prestito, essendo tutto il resto accuratamente riposto nelle
casse (e va a sapere quali), casse che occupavano tutta la già limitata area disponibile,
lasciando appena posto per appoggiare un piede per volta qua e là; mentre gli armadi, le
librerie, i cassettoni eccetera erano completamente vuoti, pronti per il trasporto. Vedete i
vantaggi di essere previdenti.
A questo aggiungete ancora il fatto che, visti appunto i continui ritardi e rimandi,
cercavamo di guadagnare il tempo perduto facendo in anticipo buona parte degli acquisti
per la casa nuova: in tutti i momenti liberi io e il Gamberini giravamo come lupi affamati
per i negozi, con un illimitato sacco di idee e un limitatissimo sacchetto di soldi, a
guardare, a discutere, a scegliere, per fortuna a litigare. Dico per fortuna; perchè se ci
fossimo trovati sempre d'accordo avremmo acquistato molta più roba di quanta la casa
nuova potesse, contenerne e soprattutto di quanto il nuovo affitto potesse permetterci. I
litigi, in certi casi, sono la provvidenza dei coniugi incoscienti.
Esempio. «Uh, che bella lampada!», dicevo io frenando davanti a una vetrina.
«Quale? Quello schifo lì blu messo all'angolo? Ma sei matta? Che vuoi fare, le
veglie funebri? Quella là sì che è una bella lampada», diceva lui additandomi uno schifo
giallo.
Per una questione di principio, tutte le cose che sceglie prima lui sono bellissime
anche se sono schifi; tutte le cose che scelgo prima io sono schifi anche se sono
bellissime. Una volta assimilato questo principio, voi capite che non ci vorrebbe molto a
indurlo a comprare la lampada blu, ad esempio, semplicemente dicendo:
«Uh, che schifo quella lampada blu. Invece a bellissima quella lampada gialla». Ma voi
capite che per un cosi sottile gioco psicologico ci vuole molto controllo, una continua
attenzione e una innata tendenza alle bugie. Tre cose che non ho. Quando vedo una cosa
bella io mi entusiasmo, anzi mi esalto, per dirla col Pop, e il grido di giubilo prorompe
irrefrenabilmente dal mio seno. E magari anche lui l'aveva adocchiata, quella cosa bella,
ma dopo il mio grido a costretto dalla prassi coniugale a dire che è brutta, e quindi a non
comprarla. Questa complicata psicologia coniugale, o del bastian contrario, a stata
appunto, come dicevo, la nostra salvezza dalla rovina e dal lastrico.
Comunque, psicologia e lastrico a parte, sapete com'e quando si cambia casa: gli
acquisti necessari sono molti, c’è poco da fare. Specialmente quando gran parte dei
mobili vecchi è ormai in stato comatoso e bisogna mandarli a San Mamete (rifugio di
tutte le nostre vecchie cose: eliminarle sarebbe come eliminare delle vecchie persone); e
specialmente quando la casa nuova e grande circa il doppio della vecchia.
Perciò, nonostante il freno automatico della discordia, di acquisti ne facemmo un
sacco. E poiché, oltre che discordi e prodighi, siamo anche poco tempisti, successe che
per giorni e giorni ci trovammo ad avere in casa: due tavoli da pranzo, uno sopra l'altro
(la proposta di Pop di mangiare su quello nuovo di sopra, servendoci delle sedie nuove
in bilico sopra le vecchie, fu bocciata dalla maggioranza, perciò mangiavamo su quello
vecchio di sotto, rotondo, mentre quello nuovo di sopra, quadrato, ci faceva da
baldacchino, tutto incartato come una mummia); dodici letti, parte in piedi, parte distesi,
parte col gattino Giacinto seduto sopra a far pipì; tre soli materassi, perchè gli altri li
aveva il tappezziere per adattarne le misure ai letti nuovi; due televisori, uno di fronte
all'altro; quattro librerie, in fila indiana; sei scrivanie, perpendicolari tra loro; per non
parlare delle sedie, che erano incalcolabili.
Al tutto aggiungete:
1, la coda inesorabile del Bao e le paure isteriche del Bu davanti a ogni mobile
nuovo;
2, la tendenza di tutti e quattro i gatti, non solo del Giacinto, a fare pipì su
qualsivoglia oggetto incartato e a farsi le unghie su qualsiasi superficie nuova, levigata o
imbottita che fosse;
3, le mie forsennate misurazioni (passavo i giorni col metro in mano, notando le
misure su un foglietto e perdendo immediatamente il foglietto);
4, i forsennati e spesso altisonanti studi della Grande (lei studia, come uno beve,
per dimenticare; e guai a chi la disturba o la distrae);
5, le lagnanze psicosindacali della Rosa ("signora se arriva un altro letto io me ne
andassi");
6, i quiz sadico-serafici della Piccola: "Se non traslochiamo neanche sabato la
mamma sapete che fa? a) trasmigra nei paesi caldi; b) si veste da indù; c) misura di nuovo
il tavolo". Sebbene la risposta esatta fosse inequivocabilmente la terza, pensavo che mi
sarebbe piaciuto tanto trasmigrare nei paesi caldi e magari anche vestirmi da indù;
7, sassofono (in prestito per il momento) del Pop; ultima mania, il sassofono, assai
più impegnativa della fisica, almeno da un punto di vista acustico. Le lezioni le prendeva
fuori di casa; ma a casa doveva esercitarsi: vuoi in solfeggio (u-no, du-e, tre-e, quattro),
vuoi in tu-tu. Tu-tu, per chi non lo sapesse, e il suono che uno deve emettere dalle labbra
per suonare il sassofono. Tu-tu, oppure du-du. Guai se uno facesse co-co: non
imparerebbe mai. Questo ci spiegò con tono didattico il diletto figlio dopo la prima
lezione. Dopo tre o quattro lezioni, grazie alle sue naturali doti, aveva già imparato a fare
tu-tu; dopo quattro o cinque lezioni aveva imparato perfino a suonare una nota. In ogni
ritaglio di tempo tra i doveri scolastici (lui di ritagli ne ha molti) si metteva seduto su una
cassa, la testa appoggiata al muro, e suonava, con espressione di profonda beatitudine, la
sua nota.
«Sembra il battello in partenza da San Mamete», disse la Piccola la prima volta.
«Sembra il battello quando ci ha una barca sulla rotta» disse dopo un paio di giorni.
«Sembra il battello quando è sabato e il comandante ha bevuto il vino», disse dopo due
settimane.
Come vedete, i progressi erano notevoli. Solo che, in una casa normale, un
battello sarebbe forse apparso meno ingombrante; in una casa di tre locali più cento
casse, la navigazione era oltremodo difficoltosa. Senza contare li fatto che i cani,
evidentemente sprovvisti di senso musicale, appena sentivano il battello, voglio dire la
nota, latravano come se fosse la tromba del Giudizio; e senza contare che la vicina di
casa, signora dai nervi delicati, rispondeva a ogni nota con una scarica di pugni nella
parete divisoria. Per fortuna nella casa nuova non avremmo diviso pareti con alcuno.
Tutt'al più soffitti... ma non era il caso di pensarci adesso. Adesso eravamo li; e li, tra la
confusione, il sassofono e i pugni nel muro, la situazione si andava facendo di giorno in
giorno insostenibile.
Al tutto aggiungete l'irrequietezza fisica del Gamberini, enormemente aggravata
dalla irrequietezza psichica del momento, che lo portava a vertiginosi andirivieni da una
casa all'altra, da una stanza all'altra, da una cassa imballata all'altra, con relative rotture di
vasellame, di stinchi e di tasche — sempre per colpa mia, beninteso - e conseguenti
sberle a tutti i figli a portata di mano.
Fate la somma di tutto questo, e avrete un'idea, sia pur pallida, delle mie ultime
settimane nella casa vecchia.
Cielo, non vedevo l’ora di esser fuori di lì. Fuori, fuori da quella vecchia, brutta,
sporca, impossibile catapecchia. Non ne potevo più. E più il tempo passava e più mi
pareva che la casa nuova non sarebbe mai stata pronta, che avrei vissuto in eterno tra le
casse, i letti verticali e le librerie in fila indiana, e il giorno del trasloco non sarebbe
arrivato mai.
E invece arrivò: il 22 dicembre. Mica che la casa fosse finita, intendiamoci. Non è
finita neanche adesso. Ma ormai, dicevano l'ingegnere, il geometra, il capomastro e
naturalmente il Gamberini, ormai mancavano solo le rifiniture. Sempre quelle ultime
rifiniture, avete presente? Comunque ormai ero troppo stufa per fare obiezioni. Trasloco
ha da essere e trasloco sia.
Se dovessi dire, come la maggior parte delle mogli in questi casi: "Ho fatto tutto
da sola", direi una grossa bugia. Chi fece tutto, o quasi tutto, fu mio marito. Sia detto,
una volta tanto, senza ironia. In questi frangenti il Gamberini si rivela instancabile,
eclettico e onnipresente, e non so come farei senza di lui.
I ragazzi erano a scuola (ultimo giorno prima delle vacanze natalizie) e avevano
ordine di recarsi direttamente di là alla casa nuova, dove ci saremmo ritrovati tutti per
l’ora del pasto. Dunque, sull'aiuto dei ragazzi, almeno nella prima fase, non si poteva
contare. In quanto alla Rosa, era troppo impegnata nella contemplazione dei muscolosi
addetti al trasporto per essere di qualche sia pur minima e provvisoria utilità.
Ma il Gamberini si fece in quattro, anzi direi in dodici e fors'anche trentasei. Un
razzo: ma un razzo costruttivo. Anche se un tantino confusionario, a voler proprio
essere ipercritici. Andava avanti e indietro con la Bestia, caricava, scaricava, decideva,
guidava gli operai, dava spiegazioni e direttive, insomma faceva di tutto, e tutto a tempo
di record. Non si riusciva a tenergli minimamente dietro. Faceva solo rapide apparizioni
al mio cospetto, con le braccia cariche della roba preziosa, tipo peluches, corrispondenza
mia, sassofono del Pop, disegni della Grande, e subito scompariva lasciandosi dietro una
scia di ordini e di efficienza.
Io, devo dirlo, efficiente non ero affatto. Ero vaga, con tutte le bestie al
guinzaglio, e parecchio scoordinata. Forse era la stanchezza accumulata nelle settimane
precedenti; forse era l'andirivieni di tutti quegli uomini dall'eloquio robusto come le
braccia, che mi confondevano le idee: seppure in modo leggermente diverso dalla Rosa.
Ma più che altro era lo smarrimento, l'incredulità. Traslochiamo. Traslochiamo proprio:
noi. Questi sono i nostri mobili che se ne vanno, queste sono le casse che ho riempito
io...
Metro dopo metro, le vecchie stanze si svuotarono. Restavano le macchie
d'inchiostro sulle piastrelle, i pupazzi disegnati sui muri, la finestra ribelle del soggiorno
che si apriva a ogni soffio di vento, le crepe nel soffitto della nostra stanza, così note alle
nostre discussioni notturne che avrei potuto farne il disegno a occhi chiusi, le
bruciacchiature di sigarette sul parquet dalla parte del Gamberini, la testata del mio
primo racconto incollata sul muro, i vasi rotti sul balconcino sopra il Naviglio, restavano
tante e tante piccole tracce di noi, note soltanto a noi: restavano vent'anni della nostra
vita.
Signore non voglio andarmene, pensai chiudendo gli occhi. Il meglio di noi rimane qua.
Dai muri vuoti, attraverso la polvere e il triste silenzio dei traslochi, la vecchia casa
mi guardava, e io non avevo il coraggio di dirle addio. Brutta, scomoda, maltrattata
vecchia casa, addio.
Era stupido piangere così, con la fronte contro uno stipite e sei bestie al
guinzaglio, davanti a un balconcino vuoto.
Mi accorsi che lui mi era vicino solo quando sentii la sua mano infilarsi nella mia.
Vide che stavo piangendo, ma non mi sgridò.
«Adesso mi passa», dissi senza voltarmi.
«Sì», lui disse, con dolcezza. Forse anche lui sentiva la vecchia casa che ci diceva
addio. «Sono soltanto dei muri», disse sottovoce, come se volesse convincere se stesso.
«Andiamo, Osso»
Mi soffiai il naso e mi affacciai per l'ultima volta al vecchio balconcino. Mai il
Naviglio, sporco e maltrattato anche lui, mi era parso così triste e paziente, crudelmente
caro al mio cuore. Anche lui sapeva tante cose di noi che non avrebbe mai detto a
nessuno, e forse anche lui ci diceva addio.
«Tanto, adesso lo coprono», disse la voce brusca del Gamberini al mio fianco.
«Non lo avremmo più visto lo stesso».
Sì, copriranno il Naviglio, forse demoliranno la casa: ma la loro anima resterà viva
da qualche parte, vero? Non pensate anche voi che sia così?
Mi soffiai di nuovo il naso. «Andiamo», dissi.
La vecchia casa ci guardò uscire insieme, ben stretti per mano, senza mai voltarci
indietro.
PANINI E CALCINACCI

Era quasi la una quando io e il D.C. arrivammo definitivamente nella casa nuova.
Il camion carico della nostra mobilia sostava, chiuso e negletto, davanti all'ingresso del
cosiddetto giardino. Gli uomini del trasporto erano andati a mangiare. Anche i muratori,
i manovali, gli imbianchini, i falegnami, tutti erano andati a mangiare. Dall'esterno la casa
si presentava come un ammasso di impalcature e calcinacci abbandonati a se stessi.
Il Gamberini sbatte forte lo sportello della Bestia e mi puntò in faccia due occhi
giallissimi.
«Cosa t'importa il di fuori? » disse, sebbene io manco avessi fiatato.«È il di dentro
che conta! ».
«Si, certo, ma... Da dove si entra?».
«Non fare domande idiote! Da dove si entra! Dall'entrata!».
Questo lo sospettavo. Il fatto era che non la vedevo, l'entrata.
Il Gamberini mi afferrò per un braccio. «Avanti, muoviti!», disse, e mi trascinò,
recalcitrante e completa di cani e gatti zompanti al guinzaglio, su per un'esile passerella di
legno traballante, che costituiva evidentemente l'entrata. «E cammina!» diceva, dandomi
strattoni al braccio. «Di cos'hai paura! Anche se cadi, e sbatti pure la capoccia, mica
muori! Purtroppo». L'ultima parola la disse tra i denti, ma abbastanza forte per farsi
sentire da me. E va bene che quando uno ha i nervi deve sfogarli sulla moglie, ma c’è un
limite, non è vero?
Decisi di offendermi. «Lasciami andare!», dissi appena ebbi i piedi sul sicuro,
strappando via il braccio dalla sua mano. «So camminare da sola! Dov'e la porta?»
Digrignò i denti. «La porta! Non c’è, la porta! Non l'hanno ancora messa, non
vedi?».
Vedevo. Non so se anche a voi facciano quell'effetto, gli stipiti senza porta. A me
sembrano occhi senza palpebre, o bocche senza denti, o qualcosa di simile; mi danno un
fastidio fisico. Comunque, io mica avevo detto niente. Mi ero limitata a chiedere dov'era
la porta. È proibito dalla legge, chiedere dov'e una porta?
«Ce l'avrò in tasca io», disse con voce amara. «O forse mi sarà scappata fuori da
una scucitura: guarda un po' per terra se la trovi».
Mi guardava con vero odio. E anch'io lo guardavo con vero odio, anzi con vera
ferocia: certe volte, non so se succeda anche a voi con vostro marito, mi vengono su dai
precordi degli istinti belluini. Per evitare di azzannargli la gola, varcai a gran passi la
soglia senza porta, in un confuso groviglio di guinzagli e di nervi.
Bell'inizio, no? Eppure, vedete, era di buon augurio. Non c’è stata una cosa bella,
una cosa gaia, una cosa buona della nostra vita che non sia cominciata tra le arrabbiature
e le ansietà e i litigi. Una cosa che cominciasse subito bene, che marciasse subito via
facile e piana tra l'unanime consenso, non sarebbe una cosa vera, non sarebbe una cosa
nostra. Non prometterebbe niente di buono. Quando invece ci sono subito patemi,
faticacce, discordie e pare che tutto vada per traverso, allora c’è da sperare in bene. Solo
che al momento uno mica se ne ricorda, no? Se tutto va per traverso, uno mica va a
pensare ai buoni auspici. Uno si arrabbia e basta.
Questa volta, poi, le arrabbiature erano un naturale coronamento alla fatica e alla
confusione delle settimane precedenti. Tenete presente che si era al 22 dicembre; e che,
appunto per evitare di passare il Natale nella confusione, avevamo anticipato l'annuale
partenza per la montagna (di solito fissata per santo Stefano) al giorno 23: cioè
all'indomani del trasloco. Il che significa che agli acquisti riguardanti li trasloco si erano
aggiunti tutti gli acquisti inerenti al Natale, più tutti i bagagli necessari per un soggiorno
sciistico di dieci giorni in montagna: bagagli da fare a parte e da non confondersi, per
carità, coi bagagli normali del trasloco, i quali dovevano restare quaggiù, mentre gli altri
dovevano andare lassù, e la notte io mi svegliavo di soprassalto con l'agghiacciante
certezza che avrei lasciato gli scarponi nell'armadio di cucina e avrei dovuto sciare con
delle pentole di alluminio ai piedi.
Questo per darvi un'idea del clima distensivo in cui si erano svolti i preparativi.
Aggiungete le preoccupazioni finanziarie, aggiungete i traumi che ogni cambiamento di
vita comporta, e il magone, sotto sotto, per la vecchia casa rimasta vuota a guardare
l'ultimo pezzo di Naviglio; completate il tutto con quell'entrata sull’asse d'equilibrio, e
forse capirete perchè varcassimo la nuova soglia della nostra vita in così precarie e
tumultuose condizioni di spirito.
Dentro, nell'appartamento vuoto, enorme e gelato, si aggiravano come fantasmi i
figli e la Rosa: con cappotti, berretti, guanti, sciarpe e fiati fumanti sopra i baveri alzati,
vagavano senza meta e senza pace tra gli stipiti senza porta e i fili elettrici pendenti e le
grosse S di gesso sui vetri sporchi, battendo i piedi intirizziti sul pavimento, dal quale
nascevano, sparsi qua e la come le isole in un oceano infido, rari informi mucchi di
indumenti e di oggetti considerati preziosi, tra cui la mia roba di lavoro, che il Gamberini
aveva trasportato personalmente per sicurezza e scodellato dove gli capitava (c’erano,
tanto per dire, quattro puntate sul pavimento di cucina, due inchieste nel corridoio di
servizio e alcune centinaia di lettere nella vasca da bagno: vuota, incidentalmente). Ma
dei particolari mi resi conto, per fortuna, molto più tardi. Al momento ebbi solo una
visione di insieme. La mia casa, pensai trattenendo il fiato. Casa?
Appena ci videro, i figli, ma soprattutto la Rosa, cominciarono a lamentarsi. Che
avevano freddo, che avevano fame, che erano stufi, signora che partimento brutto che hai preso,
mamma dov'è il mio sassofono, papà dove hai messo i miei libri, chi ha preso i miei
peluches, signora dove sta la scopa mia, ma che sporco, ma che freddo.
«Siete i soliti piantagrane», disse il Gamberini, ma guardava me. Tale la madre,
sottintendeva lo sguardo, tali i figli. Tale la donna di servizio.
«Non vorrai negare», disse la Grande, «che faccia freddo»
«Freddo?» m, disse il padre stupitissimo, cacciando fuori fumate di vapore con le
parole. «Ah ah, freddo! Ma quando! Ma se si sta benissimo!», e si tolse il cappotto per far
vedere come si stava bene. «Siete voi che siete delle lagne. Che siete una generazione di
stoppa», e si levò anche la giacca per far vedere come fosse di ferro la sua, di
generazione.
«E la mamma», si informò Pop, «la mamma, se non sono curioso, di che
generazione sarebbe?»
Il Gamberini girò gli occhi gialli sulle mie membra attorcigliate dai guinzagli e
rabbrividenti per il freddo, e li ritrasse con visibile disgusto. Vostra madre a un caso a
parte», disse freddamente. «Lì non si tratta di generazione. Si tratta di pallini
dell'individuo»
A parte i pallini, non mi piace essere chiamata individuo.
«Comunque io non ho detto di aver freddo», precisai con dignità. Se credeva di
essere solo lui lo spartano. «Non ho f-f-freddo affatto», dissi battendo i denti.
Di colpo si mise a ridere. Ma di gusto: come se fosse proprio molto allegro: o io
molto ridicola. Comunque divenne di punto in bianco indulgente e servizievole. Poi
dicono che le donne hanno l’umore mutevole. E i mariti no?
Questo ardeva tutt'a un tratto di rendersi gradito. Dopo aver cercato, e quel che è
più strano trovato, gli oggetti che io ritenevo più necessari alla comunità, sassofono del
Pop, libri della Grande, peluches della Piccola, scopa della Rosa, tornò premurosamente
verso di me. «Aspetta che ti dipano fuori dai guinzagli»
disse, pieno di zelo.
«Ma no, lascia stare, mi dipano da sola», mi schermivo, piena di zelo anch'io.»
L'idillio, come a destino di ogni idillio in casa nostra, ebbe breve durata. Appena
liberati dal guinzaglio, i diletti cani si precipitarono nel sedicente giardino, donde
tornarono di lì a poco trasformati in due anonimi ammassi di fango vociferante, e solo
dopo aver faticosamente tolto loro di dosso, a beneficio dei pavimenti, dei vestiti e delle
pareti appena imbiancate, un primo strato di lordura, fu di nuovo possibile, sia pure con
qualche incertezza, distinguere il Bu dal Bao.
Mentre io e il Gamberini, neri di fango e d'umore, ci addossavamo
reciprocamente a gran voce le responsabilità dell'incidente, i diletti gatti, rinchiusi per
precauzione nell'unica stanza provvista di porta, gnaolavano con le voci rauche e
cavernose dei momenti d'emergenza, conferendo un'atmosfera allucinata, da girone
dantesco, a tutta la situazione.
Della quale situazione approfittò la diletta Rosa per darci i quindici giorni. Non
una sola volta, ma a getto continuo, com'è nel suo diletto carattere.
A questo punto uno potrebbe dire: ma si può sapere perchè non la mandate via
davvero una buona volta, questa Rosa? Vi dirò. Intanto la Rosa ormai è un personaggio,
e se va via le lettrici protestano. Cosa di cui lei a fierissima. «Signora mi metti nella scrittura
oggi?», mi chiede sempre. « Signora dicci alla Paola se mi mette nella pittura» La sua vanità non
ha limiti. «Signora quanta scrittura mi hai fatto stavolta» si bea. «Signora hai visto come sono venuta
bene in questa pittura però dicci alla Paola che mi fa meno scollata un'altra volta». Vanitosa, ma
pudica. E credete che si offenda per le prese in giro? Neanche per sogno. Ha più spirito
di tanta gente che conosco, in questo. «So bene che fai per ridere signora» dice con tono
indulgente. «Anch'io con le mie amiche ti rido tanto dietro a te… » Valla a trovare un'altra
domestica così.
Ma la ragione vera per cui la teniamo è molto più semplice: è che le vogliamo
bene. E lei a noi. Dovreste sentire come parla di me nei negozi, e come si infurentisce se
qualcuno non dimostra, secondo lei, la dovuta ammirazione per me e la mia scrittura. È
che non ha nessuno all'infuori di certi parenti sparsi qua e là, che si ricordano di lei solo
per chiederle soldi che non le restituiscono mai. Noi siamo, in un certo senso, la prima
famiglia che ha; quando va in vacanza, invece di essere contenta, ha il magone. E
nonostante i guai che combina e la pigrizia e il tono deprecatorio che le piace usare nei
miei confronti, anch'io non vedo l’ora di vederla tornare: con la sua faccia tonda
incipriata e i suoi labirinti linguistici e la sua fedeltà. Tanti mi dicono che sono
un'ingenua, un'illusa: anche voi me lo dite? Va be', mi piace esserlo. E poi dove la trovo
un'altra che ci sopporta così come siamo, noi e il nostro disordine e le nostre bestie e le
nostre rotelline varie? Ecco perchè quando mi dà i quindici giorni di media un paio di
volte la settimana — faccio finta di non sentire. Ma quel giorno era un po' difficile. Mi
inseguiva da una stanza all'altra per riuscire a darmeli una volta di più. E se io cercavo di
essere sordomuta, non lo era il Gamberini.
«Dille che hai capito!» mi gridava dall'altra parte della casa. «Dille che può anche
andare via subito se vuole».
«E no signora a me mi pertoccano i quindici giorni come dice la carta diglielo pure al signore che
mi pertoccano».
«Dille che glieli pago! Glieli pago doppi, purchè stia zitta e si tolga dai piedi».
«E no signora io dai piedi non mi toglio no, sono una povera ragazza dove vuoi che vada? Ci
abbi un po' di cuore».
«Rosa», dicevo raccogliendo i lembi della mia falsa calma intorno al groviglio dei
miei nervi. «Rosa, non sono io che ti mando via, sei tu che vuoi andartene. Se invece
vuoi stare qui, tanto meglio».
«E no signora è inutile che insisti io i quindici giorni te li do lo stesso diglielo pure al signore
che...».
«Ho capito!», gridava il signore dall'altra stanza. « Dille che…» Eccetera etcetera.
Intanto i diletti figli, al solito, si erano ritirati a vita privata. Seduto sull'unica valigia
momentaneamente disponibile, il diletto figlio, col sassofono al collo e gli occhi al
soffitto, suonava inesorabilmente la sua nota-battello. Le due dilette figlie, sedute sulla
stessa valigia e del tutto incuranti del fatto di avere un battello a un millimetro dalle
orecchie, leggevano e giocavano coi peluches, battendo i piedi per scaldarli. Il D. C., in
maniche di camicia, girava intorno occhiate corrusche. Di colpo interruppe le
telecomunicazioni con la Rosa per cacciare fuori un urlo tipo fanfara:
«È l'una e mezzo! Si mangia! Sbrigarsi che alle due tornano gli uomini a scaricare!
Muoversi! Scattare! Al rancio, ragazzi!». Il tono era quello dei sergenti cattivi-buoni dei
film americani.
Seduti tutti in fila sul bordo della vasca padronale, col cappotto, i guanti e quei
terribili S sui vetri che ci guardavano, mangiammo panini imbottiti freddissimi, che
sapevano di calce. Indomito nella sua camicia di lino, il Gamberini distribuiva fette di
salame e facezie goliardo-militaresche. Poi cominciò a distribuire starnuti. Uno dietro
l'altro.
«Hai preso il raffreddore», dissi compunta. «Mettiti la giacca».
«Non ho freddo!», ringhiò l'emblema della generazione di ferro. «Non ho bisogno
di nessuna giacca! Non ho preso nessun raffreddore. Es-cium!».
«Aiuto aiuto, il papà ci ha lo starnuto», poetò la Piccola a bocca piena.
Nonostante le proteste formali ("questo formaggio sa di vernice, questo panino è
un calcinaccio travestito") i figli mangiavano a quattro palmenti. La Rosa, nonostante i
quindici giorni dipinti in fronte, pure. Io no. Non avevo fame.
Come sempre quando mi trovo a una svolta della vita, anche se l'ho voluta io, mi
sentivo triste. Corro e fatico e mi affanno per arrivarci, e quando finalmente ci arrivo e
sto per svoltare nella strada nuova, sento quella vecchia che mi si snoda tutta dentro, con
tutte le cose godute, patite, dimenticate... Signore, non voglio dimenticare. Non voglio
svoltare. Ho paura.
Naturalmente svolto lo stesso. Ma la tristezza, cos] pungente, sotto sotto rimane.
Forse avevo soltanto freddo: una scusa c’è sempre. Poi ero stanca, no? Due scuse.
Il mal di testa non ce l'avevo: strano. Comunque non ebbi tempo di stare tanto a pensare
alle svolte e alle strade e a quelle faccende lì, perchè non avevamo ancora finito di
mangiare che arrivarono gli operai del cantiere edile, tutti quanti, ognuno con una
mansione diversa ma tutte rumorose. Contemporaneamente, sapete come vanno i
meccanismi di queste cose, ritornarono anche gli uomini del trasporto, e da un momento
all'altro cominciarono a piovere in casa mobili su mobili, casse su casse, ogni sorta di
involucri dalle forme più strane e allarmanti (li avevo confezionati io, ma chi se ne
ricordava più il contenuto?); il Gamberini moltiplicato per dodici, per ventiquattro, per
trentasei, raffreddato e vociferante, con gli occhi sempre più gialli e la faccia sempre più
sporca, imperversava sparando intorno mozziconi accesi, starnuti e urlacci alla famiglia
in generale, con particolare riguardo alla moglie; i cani tenuti al guinzaglio tentavano di
avventarsi ai polpacci della mano d'opera; i gatti rinchiusi gnaolavano senza tregua
graffiando indelebilmente la vernice dell'unica porta esistente; la Rosa appoggiata alla
scopa rivolgeva civettuoli sorrisi alla mano d'opera e proteste sindacali a me; il Pop
insediato nel bagno di servizio ("bisogna pure far compagnia ai gatti, no?") suonava
appassionatamente la sua nota, con notevole allarme della mano d'opera.
La Piccola, seduta su una cassa in anticamera, col Bao al guinzaglio da una parte e
un po' di peluches dall'altra, sottoponeva quiz surrealistici a tutti, con anche più grave
allarme della mano d'opera. (Esempio. Piccola: Indovinate che c’è dentro in quella cassa:
a) gli Stati Uniti d'America; b) due leoni tagliati a fette; c) un servizio di bicchieri rotti».
Operaio [posando la cassa]: «Non li ho mica rotti io». Piccola: «Chi, i leoni?». Operaio
[arretrando]: «No, gli Stati Uniti d'Am... volevo dire i bicch... oh, porca martina!» Piccola:
«Boh: è scappato. Che matto. Deve aver avuto paura dei leoni. E sì che erano tagliati a
fette»).
La Grande, seduta su un'altra cassa, non so se di leoni o cosa, con un libro di
filosofia in una mano (scusa per non aiutare) e il Bu al guinzaglio nell'altra (scusa di
rinforzo) pensava a chissà cosa o chi. E rumore, polvere, calce, mobili vagabondi,
smarrimenti e ritrovamenti continui di oggetti, persone e animali, e in mezzo a tutto io:
io con la tristezza della svolta dentro e un sacco di sporcizia di fuori, più la stanchezza e
il freddo e la latente coscienza che i miei istinti ferini si stavano stiracchiando nel fondo e
da un momento all'altro potevano saltar fuori e fare una strage.
Come infatti avvenne. Ma di questo parleremo la prossima volta.
I MIEI TRENTECCETERA ANNI

Se è vero, come dicevo prima, che le difficoltà e le arrabbiature sono per noi di
buon auspicio, bisogna ammettere che il nostro ingresso nella nuova casa è avvenuto
sotto auspici addirittura eccellenti. Non c’era una cosa, dico una, che funzionasse.
I mobili vagabondavano da una parete all'altra in cerca di una sistemazione che
non trovavano: o erano troppo grandi, o erano troppo piccoli, o erano sbagliati, o
comunque diversi da quel che risultava dai nostri calcoli sulla pianta. Ecco cosa vuol dire
fare gli acquisti prima del trasloco. Il Gamberini naturalmente diceva che era colpa mia,
della mia dannata fretta, e già a te ti scoppia sempre tutto, e uno a dar retta alla moglie
resta sempre fregato: scusate l'espressione, che comunque è sua, non mia. Come è sua,
non mia, la colpa degli acquisti sbagliati. Ma sapete come voltano le cose i mariti.
Pazienza. Essendo, come avrete forse già avuto occasione di notare, una moglie docile e
indulgente, oltre che sottilmente psicologa, so che quando un marito dice scemenze, la
miglior cosa a lasciargliele dire, così c’è speranza che le esaurisca prima. Perciò tacevo,
col sorriso sulle labbra e gli istinti belluini nel cuore.
Le porte, come ho già accennato, non c’erano: forse sarebbero arrivate prima di
sera, ma forse no, e partendo per Bormio l'indomani avremmo lasciato tutto aperto e in
balia dei malintenzionati. Le finestre, verniciate di fresco, non erano asciutte, quindi non
si potevano chiudere, se no si rovinava lo smalto. La caldaia del riscaldamento centrale,
inaugurata in nostro onore quel mattino, s'era già rotta (abitudine che non ha perduto) e
c’era in tutta Milano un solo operaio, pareva, che fosse in grado di ripararla, ma era
andato a trovare sua nonna e non sarebbe tornato che dopo Natale. Il gas non era stato
erogato, mi pare che si dica così, perchè i tecnici erano troppo impegnati, sapete com'è
sotto Natale, sarebbero venuti dopo santo Stefano. Invece la corrente elettrica era stata
allacciata, non so se si dice così, comunque non ha molta importanza perchè, se la
corrente era allacciata, l'impianto non era allacciato per niente e l'elettricista mancava
all'appello: pare che fosse andato a passare le feste natalizie da una sua zia di Mantova.
L'acqua invece c’era, come no, ce n'era tanta che veniva fuori dalle parti più
impensate, e non bastavano stracci e pentole a contenere le alluvioni. «O che portento
'sto allagamento» poetava la Piccola pilotando i peluches su mezzi anfibi. Gli operai
assicuravano che si trattava di guasti da poco, solo che ci voleva l'idraulico responsabile
dell'impianto per ripararli, e l'idraulico responsabile doveva essere andato anche lui a
trovare qualche cara parente, perchè non ci sarebbe stato fino al giorno 27.
Il telefono non funzionava, ovviamente: l'impianto interno era pronto,
prontissimo, con la derivazione e tutto, però mancava non so che aggancio esterno,
bisognava rivolgersi alla direzione, ma naturalmente dopo Natale; così eravamo tagliati
fuori, e oltre ad aver cambiato casa, mi sembrava. di aver cambiato città, continente e
addirittura pianeta; sul quale nuovo pianeta mi pareva che avrei vagato in eterno,
impossibilitata a comunicare col mondo che era sempre stato il mio. Non che io nutra
un amore sviscerato per il telefono, anzi è molto più frequente il caso in cui
svisceratamente lo maledico; il fatto è che da quando son nata ne ho sempre avuto uno a
disposizione, e solo adesso che ne ero priva mi rendevo conto del valore anche
psicologico di questo nero violatore di domicili. La sola idea di non potere, neanche
volendo, fare un numero e sentire la voce dei miei fratelli, o della Paola, o magari del mio
direttore, mi appariva assolutamente spaventosa.
«Sono le schiavitù della civilizzazione» mi disse la Grande, che ogni tanto mi
degna di una pensata filosofica.
«E già», disse la Piccola, colpita. «Gli uomini delle caverne non avevano il
telefono; e neanche la luce elettrica il gas il riscaldamento e i rubinetti, eppure stavano
benone nelle loro caverne»
«Sì» dissi, «però loro avevano la clava e la pelle di tigre intorno ai fianchi, e io no».
«Civile!», mi disse il Pop con rimprovero.
E sì, ero civile: il rendermene conto contribuì ad aumentare il mio avvilimento.
Ero spaventosamente civile, abitudinaria, meccanizzata e schiava del progresso. Che
tristezza. Non l'avrei mai creduto.
«Pensa a Robinson Crusoe», mi rincuorò la Piccola, visto che gli uomini delle
caverne non erano serviti. «Cosa avresti fatto se fossi stata Robinson Crusoe?».
«Sarei stata abbastanza furba da non andar a finire su un'isola deserta», risposi
astiosamente. Ma ero stata abbastanza pazza da andar a finire su un maledetto pianeta
pieno di casse, di freddo e di impianti rotti; e non ero Robinson Crusoe, ma una donna
molto stanca, molto avvilita e molto sporca.
Il Gamberini, naturalmente, diceva che piantavo grane. Starnutendo come un
pazzo, diceva che non potevo aver freddo: che freddo? Comprimendosi la schiena,
diceva che non potevo essere stanca: stanca di cosa? Ero una piaga, ecco cos'ero! Non
avevo spirito di adattamento. Facevo tutto difficile per principio. piantavo grane per il
gusto di piantarle. Ma se andava tutto benissimo! C’era solo qualche contrattempo privo
di importanza, cose da niente, rimediabilissime. Bastavano un po' di secchi. Un po' di
stracci. Un po' di candele. Un po' di armadi davanti all'ingresso per sostituire la porta.
Un po' di cappotti sciarpe guanti calzerotti per i rammolliti. E un po' di buona volontà,
per la miseria! Un po' di spirito sportivo! Cosa mi aspettavo, di trovare tutto pronto,
pulito, funzionante e con la minestra in tavola? Volevo anche lo schiavo negro che mi
scaldasse i piedini? E la piantassi di battere i denti, per la miseria!
Ogni volta che ci incontravamo per le difficoltose strade del nuovo pianeta, ci
guardavamo con odio al di sopra di una pila di casse o attraverso uno scaffale errabondo,
e se lui digrignava i denti a me, io li digrignavo moralmente a lui.
Eppure lo so com'è: quando mi vede in cattive condizioni, avvilita stanca
infreddolita nervosa o che altro, e sente di esserne in qualche modo il responsabile,
invece di consolarmi mi strapazza. E più si sente colpevole e più, in base alla ferrea
logica dei mariti, mi strapazza. Io queste cose le capisco: ma dopo. Sempre dopo. A voi
non succede?
Al momento ero troppo nera, in tutti i sensi, per dare dimostrazioni pratiche di
psicologia coniugale. La psicologia mi era franata all'altezza dei piedi, o tutt'al più delle
caviglie. Ogni volta che lo vedevo, sporco raffreddato e ringhioso com'era, sentivo gli
istinti ferini fremere minacciosamente in fondo al mio essere, sempre un po' meno in
fondo, sempre un po' meno... Col calar della sera erano arrivati sotto pelle. Solo per la
presenza degli operai la mia vernice umana resisteva ancora.
Resistette anche quando, al momento di andarsene, la squadra dei trasportatori si
presentò al mio cospetto e mi chiese, per bocca del caposquadra, qualcosa che al
momento pensai di non aver afferrato bene.
Posai la cassa che avevo in braccio, abbassai il bavero dalle orecchie e chiesi: «Un
cosa?».
Autografo disse il caposquadra. «La signorina ci ha detto che lei a una scrittrice
celebre...».
«Che signorina?».
«La sua cameriera».
Adesso si spiegava tutto. La vanità della Rosa non ha confini. «Grazie », dissi, « ma
non mi sembra il ca-so...».
Mi guardarono con rimprovero. La signorina ce l'ha fatto », disse il caposquadra.
« Che cosa? chiesi.
«L'autografo», disse. Per essere una scrittrice, si leggeva nel suo fumetto, non ci ha mica
l'aria troppo intelligente. Dev'essere una raccomandata.
Questo fumetto, più l'idea della Rosa che firmava autografi, mi diedero la
parvenza di buon umore necessaria per affrontare la delicata situazione. Sedetti su una
cassa da imballaggio, mi pulii le mani sporche in un fazzoletto sporco e feci sei autografi
sul retro di sei bollette di consegna, osservata con rispetto dalle maestranze.
I miei istinti belluini si erano momentaneamente assopiti, ma si risvegliarono con
inaudita violenza all'apparire del Gamberini, il quale, dopo aver osservato un momento
la scena con occhi giallissimi, disse con un tono assolutamente sgradevole:
«Ci manca una fotografia ricordo. Da tramandare ai posteri: La scrittrice
Gamberini, in una elegante tenuta da facchina esquimese, caratteristica dell'epoca, firma
autografi a un gruppo di ammiratori nel suo elegante appartamento milanese,
originalmente arredato con casse d'imballaggio e librerie alla rovescia». Il ghigno si
trasformò in un ringhio:«Non ti vergogni?!».
«No!» risposi. Dissi anche: «Vergognati tu, essere odioso», o qualcosa di simile,
non mi ricordo bene perchè avevo tutti gli istinti ferini in sussulto. Buoni, dissi loro
chiudendo gli occhi. Zitti e buoni che ci sono le maestranze. È questione di minuti. Ma alle
cinque e mezzo (era già notte, c’era un nebbione che non si vedeva niente al di là dei
vetri), le maestranze se n'erano andate. Restavamo noi soli, ombre vaganti in un buio irto
di spigoli, isolati dalla nebbia e dal disservizio su quel pianeta infido. Fu in
quell'improvviso, tetro silenzio da fine del mondo che la vernice umana cadde del tutto e
i precordi belluini ebbero libero sfogo.
Sì, lo confesso: per un paio d'ore fui, con cosciente e selvaggia soddisfazione,
assolutamente pestifera. Avevo unghie, artigli e denti acuminati in ogni particella di
cervello e di voce. Non so se a voi succede. A me di rado, ma quando mi succede a
meglio girarmi alla larga.
Infatti, dopo essersi presi ognuno una nutrita razione di graffi e morsi vocali, mi
girarono alla larga tutti. Perfino il Bu. A un certo punto mi accorsi di essere rimasta sola,
del tutto sola in una spelonca buia, tra forme indefinibili in agguato, senza più nessuno in
giro da graffiare e da mordere.
«Ehi!», gridai. «Dove siete tutti?».
Mi rispose solo il miagolio dei gatti rinchiusi. Non una voce umana, non un passo,
non un tuuuu di sassofono, niente.
Corsi a cercarli e trovai solo fili pendenti che mi sferzavano la faccia, forme
gigantesche di mobili che mi sbarravano il passo, casse che mi acciaccavano
proditoriamente gli stinchi, spigoli inattesi che mi entravano nelle costole. Accidenti,
dannazione, morte!
«Dove siete?», gridai pestando selvaggiamente i pugni sull'ultima cassa incocciata.
«Dove accidentaccio siete finiti tutti?».
Silenzio.
Ero sola. Stavo per scoppiar a piangere e andare a chiudermi in bagno coi gatti, e
nel caso lasciarmi morire lì, quando da quel gran buio e da quel gran silenzio nacque
all'improvviso un chiarore tremolante e un coro di voci squillanti che cantavano: «Happy
birth-day». Quella baritonale del Gamberini dominava le altre a mo' di tromba: «Tanti
auguri - a te...».
A me? Perchè?
«Per i tuoi trenteccetera anni»,, dissero in coro.
Trentecc...? O cielo, cielissimo, il mio compleanno! Chi se ne ricordava più?
Loro: loro se n'erano ricordati. Il chiarore tremolante che illuminava le loro facce
sporche e allegre proveniva dalle candeline infilzate sulla torta che tenevano in mano: tre
candele più grosse che rappresentavano gli anni, e una irrispettosa moltitudine di candele
più piccole che rappresentavano gli eccetera.
«Non perder tempo a contarle», mi consiglia il D. C. «È il vantaggio degli eccetera,
no? Anche quando avrai, faccio per dire, novantotto anni, saranno sempre trenta
eccetera. Chi potrebbe chiederti di specificare gli eccetera? Solo un pignolo. Noi non
siamo pignoli». Gli occhi gialli mi canzonavano carezzevolmente. «Non contarle.
Spegnile e basta».
Seduta su una cassa, in una stanza fredda e caotica, col cappotto, i guanti e la
sciarpa, col groppo in gola, calce dappertutto e la famiglia ai piedi che mi reggeva la
torta, sentendomi molto ridicola e un po' triste, soffiai sulle candeline tutto il fiato che
mi rimaneva, e non era molto, ma bastò, a rate, per spegnerle.
Grandi battimani e buio pesto.
«Rosa, sbrigati!» gridavano voci irate nelle tenebre. «Cosa diavolo stai facendo di
la?».
«Sto cosando il coso no signore?», disse da distanze infinite una voce stizzosa.
«Che coso?».
«Il petromastro signore. M'hai detto di scosarlo adesso non si cosa più, cosa ti devo dire. Ah ecco
si ricosato, signore, arrivo subito col petromastro».
Dilaniata dalla curiosity di sapere cosa fosse un petromastro (capomastro? Metro a
nastro? Mastroianni?), guardavo ansiosamente in direzione della voce, quando nella
stanza irruppe un chiarore folgorante, che in un primo tempo mi parve emanato dalla
persona stessa della Rosa, poi da qualcosa che la Rosa brandiva.
«Ecco il petromastro» annunciò il Pop.
Era un petromax, un lume a petrolio, di quelli che si usavano in tempo di guerra.
Lo riconoscevo, anche così arrugginito. Vederlo, risentire quell'odore sottile e penetrante
di petrolio, era come risentire gli urli delle sirene, il muro freddo della cantina, il tenero
odore di latte della Grande piccola addormentata sotto il mio scialle, e quel terribile
senso di impotenza. I miei trenteccetera anni divennero trenteccetera secoli.
«È andato apposta il papà a cercarlo, il lume», disse la Piccola. «Era nella cantina
della casa vecchia».
Sì... Chissà se erano rimaste anche le mie lacrime, in quella vecchia cantina, e la
ribellione e le furiose preghiere.
«Ehi!» mi richiamò la voce del Gamberini. Smettila di guardare quel petromastro
della miseria». Aveva sempre avuto una sorda avversione per quel vecchio petromax, che
simboleggiava per lui la "mia" guerra, le fatiche le paure le privazioni che avevo patito
senza di lui. Sembrava che lo odiasse. Però per illuminare il mio compleanno ,era andato
fin là a prenderlo. «Guarda noi, adesso», mi ordinò.
Li guardai. Avevano ognuno un pacchettino in mano, anche la Rosa. Nonostante
il trasloco, la confusione, i patemi, la frenesia di quel giorno, nonostante che fossi stata
cattiva e belluina e li avessi ingiustamente maltrattati tutti, loro mi facevano i regali.
No, no, non mi misi a piangere; però ne avevo voglia. Voi direte che ho le lacrime
in tasca. Ma vedete, erano successe troppe cose in quel giorno: l'addio alla vecchia casa, i
disastri di quella nuova, i trenteccetera anni e il vecchio petromax e adesso i regali... Era
troppo. Troppo per me. Ho sopportato, senza piangere cose enormi, dolori atroci e
irrimediabili, ma sulle piccole cose mi capita di piangere come una fontana. A voi no?
«Scusatemi i nervi di prima», dissi soltanto. «Sapete com'e quando mi prendono i
cinque minuti di ferocia. Nel mio albero genealogico ci dev'essere una tigre».
Non so cosa ci fosse da ridere tanto.
«Uh, la tigre! La pantera nera! Uh! Augh!», dissero i figli facendomi smorfie
belluine.
«Nel tuo albero genealogico», opinò il D. C., «ci sarà tutt'al più un topo
nervosetto».
Ci rimasi un po' male. L'idea di un'antenata tigre mi piaceva tanto. Mi dava un
tono. Bah. Decisi di contentarmi del topo nervosetto (ognuno ha l'albero genealogico
che può e mi distesi sul materasso nudo, a riposarmi. La casa nuova gravitò sopra di me
con tutti i suoi problemi. Ah, che me ne importa, pensai. Domani andiamo a sciare. Ne
riparliamo tra dieci giorni.
Le vacanze di Natale ci aspettavano, tutte bianche di neve e luccicanti di regali, in
cima a una montagna amica e del tutto priva di calcinacci, e ogni altro pensiero poteva
essere accantonato.
«In dieci giorni possono succedere tante cose», dissi. Sempre distesa sul materasso
nudo, elencai pigramente sulle dita: «Possono aggiustare la caldaia. Finire l'impianto
elettrico. Erogare il gas. Sistemare il telefono...».
«Svaligiare la casa», disse Pop con lo stesso tono. «Visto che è senza porta».
«Noi ci fidiamo», dissi convinta. La fiamma del vecchio petromax si rifletteva sul
soffitto con tutti i ricordi, e la casa nuova non era più un pianeta infido, era già la nostra
casa, con la nostra vita dentro.
«Sono sicura», dissi guardando quella luce sul soffitto, che andrà tutto benissimo»
«Oltre che nervosetto» disse il Gamberini, «quel topo era un ottimista».
CHE QUIZ I FIGLI

Per dieci giorni abbiamo dimenticato il lavoro, la scuola, l'ufficio, la città, la casa
nuova con tutti i mobili per traverso, le incombenti preoccupazioni finanziarie. Sci e
spensieratezza — se non proprio sregolatezza — nostro motto natalizio. Poi le vacanze
finiscono, la spensieratezza pure, dello sci ci rimangono le contusioni. Tutto si paga, a
questo mondo.
Sono già due settimane che siamo tornati, e non è che tutto funzioni, della nuova
casa, anzi, salta fuori una nuova disfunzione al giorno, ma insomma il gas si accende, la
luce pure, la caldaia qualche volta, le casse sono sparite quasi tutte, quasi tutti i mobili
hanno trovato una sistemazione, più o meno fantasiosa; i calcinacci, la polvere, la vernice
fresca e le impalcature hanno lasciato il posto a tante macchie di umidità sui muri e a una
bolletta spaventevole.
Decisamente, non possiamo più sperperare. Siamo qui con la casa mezza arredata
e mezza no, e una fatica nera per tirare insieme i soldi del prossimo trimestre d'affitto, e i
nervi scopertissimi. Sapete com'è quando si è al verde. Ma com'è che vi siete ridotti così,
voi direte, non potevate fare i conti prima? Li abbiamo fatti, i conti. Ma si vede che
erano sbagliati, cosa volete che vi dica. In vita nostra non abbiamo mai fatto un conto
giusto. Lui dice che sono io che li sbaglio, io dico che è lui, i figli dicono che siamo tutti
e due, allora noi ci arrabbiamo e diciamo che a tutta colpa loro, dei dannati figli, che
hanno un sacco di esigenze e sono una generazione di rompitasche: in tutti i sensi.
Se non c’era la spesa delle vacanze in montagna, per esempio...
«Mica abbiamo voluto andarci noi in montagna», dicono.
Guarda che discorso. Lo so che non hanno voluto andarci loro. Ma tre ragazzi che
studiano tutto l'anno, che sono pallidi, che hanno avuto dispiaceri vari, chi d'amore, chi
di maestra, chi di strumenti a fiato, e che sono abituati da anni a quei dieci giorni di
montagna (e che, sia detto per inciso, hanno un padre che per lo sci stravede), dico, dei
ragazzi così potevamo tenerli sacrificati in città; in una casa non finita e umidissima, solo
perchè noi avevamo sbagliato i calcoli?
«Dunque vedete che è colpa vostra», ci dicono. «Mica nostra»
«E i regali di Natale?», li accusiamo. «Se non c’erano le spese di tutti i vostri regali
di Natale…»
«Mica li abbiamo voluti noi», dicono.
Guarda che gratitudine. Lo so anch'io che non li hanno voluti loro. Loro non
vogliono mai niente: a parole. Ma quando si ha una figlia grande che ha una allure da
giovane intellettuale spregiudicata sopra un animo da pulcino malinconico, e che pur
covando con gli occhi i vestiti delle riviste si accontenta, senza lagnarsi mai, di vecchi
golfini e vecchie gonne a pieghe, quando si ha una figlia così si può fare a meno di
regalarle, anche a costo di robustissime rinunce personali, un vestito all'ultimissimo
grido, che la fa ancora più spregiudicata di fuori e più pulcino di dentro? Erano così
azzurri i suoi occhi quando se lo è messo la prima volta, la notte di Capodanno. E
lucidi... C’erano due o tre tizietti che cercavano di riflettercisi dentro, ma il posto era già
occupato. Lei aveva un po' voglia di piangere, e anch'io, però dopo si è divertita e
insomma siamo stati contenti di averle regalato il vestito. Del resto se lo meritava: è la
prima della classe, fra l'altro.
Quando poi si ha un figlio che a scuola non è il primo ma neanche l'ultimo,
giacché sta sempre nel mezzo come la virtù, e ha i primi brufoletti e un vocione e
ciondola sempre e sembra sempre schifato di se stesso, ma si trasfigura se sente la
Patetica e può ascoltare ore e ore di jazz puro senza stancarsi, anzi apparendo felice,
placato, dimentico dei brufoletti e della sua difficile età, quando si ha un figlio di questo
genere, che per di più vuole studiare il sassofono, che è disposto a saltare la paga
settimanale e il panino quotidiano per pagarsi le lezioni e a fare chilometri per andarsi a
prendere lo strumento in prestito, dico, a un figlio così si può fare a meno di regalare
almeno un sassofono che sia tutto suo?
Noi non abbiamo potuto farne a meno. E vorrei che aveste visto la sua faccia, a
Bormio, quando ha trovato il sassofono sotto l'albero. Sembrava ritornato un bambino:
un bambino com'era fino a pochi anni fa, piccolo, estatico e muto davanti a un regalo del
Gesa Bambino. Pareva proprio, da come lo guardava, da come ne sfiorava i tasti con le
dita, che il sassofono gli fosse sceso in linea diretta dal cielo.
«Mamma», disse con voce strozzata, «mamma, è un sassofono»
Non ci disse grazie: in casa nostra i ringraziamenti non si usano molto. Ma si mise
subito a illustrarci, lui così taciturno, le meraviglie tecniche ed estetiche del suo celeste
strumento, di cui divenne da quel momento il fratello siamese. Fin dal mattino potevate
vederlo salire in funivia con gli sci, gli occhialoni, i guantoni, il casco da discesista, e il
sassofono al collo. Tra una discesa e l'altra si appartava a suonare, col sedere sulla neve e
gli occhi al cielo, la sua nota. Una volta, a guadagno di tempo, la suonò in funivia, ma la
gente, che non ne era preavvertita, credette a un segnale d'allarme e si ebbero scene di
panico. Dopo di che, per non provocare altri incidenti, si isolava col sassofono su
qualche altura fuori mano o in qualche riposto boschetto: dal quale si sentiva uscire,
diretto alle stelle, un tuuut tecnicamente perfetto. Tuut, rispondevano gli echi per le
bianche vallate. Tuuut.
La gente sulle piste si guardava intorno perplessa.
«Che strano» diceva forte la Piccola alla Grande, «c’è un battello sulla pista dello
ski-lift».
«Speriamo che non rovini la neve», diceva la Grande.
La gente le guardava stranita. I nostri figli, dice il Gamberini, hanno la specialità di
far stranire la gente. O col sassofono, o coi quiz, o con qualsiasi mezzo abbiano a
disposizione. Sono nati così, dice. Tale la madre, eccetera.
Tornando ai regali e alle spese, dovete poi sapere che un sassofono non costa solo
a comprarlo, ma anche a mantenerlo, specialmente in principio, quando uno rompe tante
ance. Come, non sapete che cos’è un'ancia? Eh, ma allora non sapete proprio niente.
L'ancia è un affarino di legno sottile che si infila sotto il cosìno che si tiene in bocca, e
serve a fare il suono. L'ancia. Capito? Solo che se uno emette male il suono l'ancia si può
rompere, anzi per quel che ne so si rompe di sicuro. So tutto sulle ance; anche perchè
devo pagarle: centoquaranta lire l’una.
Fate il conto di una rottura di ancia ogni tre tuuut, moltiplicate per centoquaranta,
sommate le spese per i libri di solfeggio, il leggio, le lezioni, i tram per andare a lezione, e
vedrete che un sassofono viene a costare di manutenzione circa come una piccola
utilitaria. E fortuna che non va a benzina, il sassofono. Solo a fiato e arte. Il fiato, il Pop
ce l'ha. Ma quando viene a dirmi, con voce avvilita, che ha rotto un'altra ancia, mi basta
ripensare alla sua faccia mentre diceva: "Mamma, è un sassofono!", per sentirmi
immolata sull'altare delle ance. «Cosa vuoi che sia! lo rincuoro». «Ancia più ancia meno.
Nessuno impara niente senza rompere qualche ancia» (Personalmente ne ho rotte
parecchie, seppure d'altro genere). «Hai fatto un bel progresso in questi giorni».
«Davvero?», dice ansiosamente.
No: per il momento non è assolutamente vero. Ma pagherei non so quante ance
perchè lo fosse. A ogni modo, nonostante tutto, non siamo pentiti di avergli regalato il
sassofono.
In quanto alla Piccola, di esigenze non ne ha. Ha avuto sì bisogno di un
paltoncino, ma questo non si può considerare un regalo di Natale, bensì normale
amministrazione di normali genitori. Come regali veri e propri, ci è costata pochissimo.
Se aveste una figlia che pare il nanetto delle favole (il più piccolo dei sette, ve lo
ricordate?) travestito da ragazzina, che vive tra le bestie i quiz i sogni e tratta le persone
con la stessa tenera condiscendenza con cui tratta i peluches, che cosa le regalereste? Coro
dei lettori: peluches. Che bravi: infatti le abbiamo regalato due peluches. Poi il primo e; il
secondo libro della giungla di Kipling. Poi un servizio da toilette per il Bao; e se voi
obiettate che questo è un regalo per il Bao e non per la Piccola, commettete un errore di
psicologia, perchè al Bao della toilette non gliene importa un accidente, la sopporta
unicamente per fare un piacere alla Piccola, che si è autoeletta sua estetista personale,
con grande dispiego di energie, entusiasmo e borotalco. E il Bu? Oh, lui non ha mai
avuto bisogno di spazzole e borotalchi: gli date un osso e la sua padrona, e lui è a posto.
È vero, Bu? Alla mia domanda, il groviglio di peli che sta accovacciato ai miei piedi
si muove, alza un muso tutto nero, scopre una riga di denti bianchi, ridiventa tutto nero.
Ha detto di si.
Oh, dimenticavo: alla Piccola abbiamo anche regalato un nuovo cesto per i gatti,
una raffinatezza del cestaio di Montenapoleone, con le tendine e tutto, proprio una
cosina indovinata, che sarebbe ancora più indovinata se i gatti fossero disposti a entrarci.
Invece no. Non so i vostri, ma i nostri gatti sono dei bastian contrari; non proprio come
i mariti, ma quasi. Però sono molto affettuosi, quando vogliono: appunto come i mariti.
E sono anche molto intelligenti. I gatti, dico.
Ma non divaghiamo. Stavo parlando dei regali della Piccola. Basta, ho finito, sono
tutti lì. Ma lei è stata felice così: felice come quando, nella vecchia casa, entrando nella
stanza odorosa di cera, d'infanzia e di magia, guardava i regali allineati sotto il piccolo
albero luminoso e diceva: «Uh, quanti! Che matto di un Gesù Bambino». Adesso sa che
non è il Gesù Bambino che le porta i regali. Un po' di magia se n'e andata; ma la sua
voce è ancora la stessa, sottile, festosa a tenera, quando dice: «Uh, quanti!». Sono sempre
tanti, per lei.
E io prego sempre perchè le sia conservato questo dono, così raro nei ragazzi
d'adesso, di essere felice con poco, e che non le sia tolta questa cristallina confidenza del
mondo, questa integra certezza di capire e di essere capita dalla gente come capisce ed è
capita dalle bestie, attraverso il semplice magico linguaggio dell'amore e dell'innocenza.
Mi è insopportabile pensare che un giorno anche lei, povero Mawgli in gonnella, anche
lei dovrà imparare che gli uomini non sono come le bestie.
Per ora ha solo imparato di sicuro che la sua maestra — una brava maestra di
stampo antico — come una bestia sicuramente non è. Infatti non si capiscono: una
specie di incompatibilità psichica, direi.
«Poverina» dice la Piccola con affettuosa indulgenza, «dev'essere un po' matta.
Pensa che non capisce neanche i quiz». Proprio un caso clinico, questa maestra. «Pensa
che tutte le volte che scrivo tizio lo cancella e ci scrive sopra fanciullo».
Alla parola fanciullo la Piccola si butta via dal ridere, come alle parole monello,
figliola, birichino, bimbo, babbo, speme, grullo e altre di questo genere che la sua
maestra predilige e che lei categoricamente rifiuta. La Piccola non fa concessioni, per
ora. Neanche alla maestra, che comunque è sempre meno importante di un peluche. «E
poi non vuole che nei temi parlo di bestie» dice scandalizzata.
Bisogna dire, a parziale giustificazione della maestra, che non c’è un tema in cui la
Piccola non parli di bestie. Anche nel tema commemorative L'unità d'Italia è riuscita a
infilarci il Bao: non mi ricordo in che modo, ma mi ricordo lo stato di agitazione in cui
era la maestra quando mi mandò a chiamare.
In principio mi mandava a chiamare continuamente: o perchè la Piccola era
distratta e non l'ascoltava, o perchè disegnava bestie invece di fare le addizioni, o perchè
quando era stufa tirava fuori i peluches dalla cartella e si metteva a giocarci sotto il suo
naso. «È la disciplina, capisce...», si lamentava la maestra. «I compiti li fa, e anche
benino. Ma non capisce la scuola. Non ha il senso della disciplina». Non essendo
appunto una bestia, la maestra non poteva capire che la Piccola aveva semplicemente
una disciplina diversa dalla sua. Ma i veri guai sono cominciati quando sono cominciati i
temi. Ogni tema era uno choc per la maestra. Che ogni volta mi mandava a chiamare.
Senza neanche parlare, mi tendeva con un gesto sobrio e drammatico il corpo del delitto.
Io guardavo quei temi, così cari per me, tutti pieni di fregacci rossi, di punti interrogativi
blu, di tizi trasformati in fanciulli, di quiz cancellati, di Bao censurati, di interi periodi
tagliati, e non sapevo come spiegarle che quei temi, così astrusi e allarmanti per lei,
piacevano tanto a me proprio perchè erano nati dalla fantasia e dalla fiducia, anziché
dagli insegnamenti e dalle inibizioni. E sarebbero durati poco, ancora così poco... Presto
la Piccola avrebbe avuto le briglie, come tutti. Ma non sarei stata io a mettergliele: oh,
questo poi no. Solo che non potevo dirlo alla maestra.
«Ha ragione, signorina», le dicevo. «Ci sono troppi errori di grammatica. Ha
ragione, ci sono troppe bestie. Ha ragione, è andata fuori tema. Ha ragione, signorina»
«Ma lei, signora», mi disse una volta, «non fa la scrittrice?».
«Pressappoco», dissi malinconicamente.
Sebbene sconcertata dalla risposta, non disarmò. «E allora come mai non la aiuta a
correggersi, a...».
«Signorina», dissi, «anch'io scrivo tizio, qualche volta. Fanciullo mai. E metto
anch'io le bestie dappertutto. Anche dove non c’entrano»
Da quella volta non mi mando più a chiamare. Doveva essersi formata in lei la
convinzione che si trattasse di una tara di famiglia e che ogni lotta fosse vana. Però non
smise mai di fare i suoi segni rossi e blu — il dovere è dovere — e di darle voti molto
bassi in italiano. La Piccola continuava per la sua strada, senza fare una piega.
Quello che faceva pieghe, moltissime, era suo padre. Proprio lui, quello che si
compiace di ostentare una virile sufficienza, non disgiunta dal biasimo delle persone
sensate, nei confronti delle stravaganti composizioni letterarie della Piccola, ogni volta
che questa portava a casa un cinque in tema, perdeva il lume degli occhi.
«Quella deficiente!» gridava. La maestra, non la Piccola. «Quella vecchia beghina!».
(Da notare che non l'ha mai vista). «Un tema che meriterebbe la lode e la pubblicazione,
e lei le dà Cinque! È una povera di spirito, una incapace indegna della sua missione!».
«Ma no», cercavo di calmarlo. È solo anziana, tradizionalista, e non molto portata
per i quiz, ecco».
«È una minorata!», insisteva lui, firmando il cinque con feroci svolazzi di biro. «E
adesso glielo scrivo qua sotto, che è una minorata». Dovevo trattenergli la biro con tutte
e due le mani, e solo dopo molte suppliche e divincolamenti rinunciava, gridando: «Ma
sai cosa faccio? Le cambio scuola, ecco cosa faccio!».
L'ha detto, a ogni tema, per circa tre anni. Invano, si capisce. Non mi sarei mai
sentita di fare un affronto simile a una brava vecchia maestra che faceva — un po'
rigidamente — il suo dovere.
Ma adesso, col cambiamento di casa, il cambiamento di scuola a diventato non
solo conveniente, ma addirittura necessario. Ce ne siamo resi conto appena tornati dalle
vacanze di Natale: specialmente nei giorni di pioggia, il tragitto tra la scuola vecchia e la
casa nuova è una lunga e perigliosa navigazione nel fango. Prima di iniziare le pratiche di
trasferimento, però, ho interpellato, secondo il costume democratico, la Piccola:
«Vedi da te che è necessario», le ho detto. «Ma non ti dispiace troppo cambiare
scuola?».
Ha continuato a giocare coi peluches, senza neanche alzare la testa.
« Per me fa lo stesso», ha detto con la sua vocina sottile.
Ci sono rimasta male. Che quiz, i figli! Dopo più di tre anni, una indifferenza
simile mi sgomentava. Io da bambina ci avrei pianto sopra vasche di lacrime. Ma ho
sempre quel vizio di fare i paragoni con me stessa. Loro sono loro, non sono me. Ogni
figlio un quiz diverso.
Ho fatto le pratiche, ho ottenuto il trasferimento alla scuola qui vicina, e ieri l'ho
accompagnata personalmente a dare l'addio alle sue vecchie compagne e alla sua vecchia
maestra.
«Sarà un bel sollievo per lei, signorina», ho detto salutandola. «Un po' meno quiz
da risolvere».
Inaspettatamente, la faccia severa sotto i capelli bianchi si è raggrinzita tutta.
«Io... io ne sentirò la mancanza», ha detto con la voce soffocata. Di colpo si è
chinata sulla Piccola e l'ha abbracciata stretta, stretta, senza dir niente, e io ho sentito
tanto dolore per lei, e rimorso. Una scena da Cuore, come è un po' da Cuore lei stessa: lei
che ha lavorato con passione tanti anni e adesso è vecchia e l'anno prossimo va in
pensione, e non ha mai avuto niente e nessuno fuorché i figli degli altri, che un giorno se
ne vanno, tutti, e si ricordano di lei come di una vecchia fissata che faceva dei segni rossi
e blu.
Avrei voluto dirle... ma non c’era niente da dire. Era una valorosa vecchia maestra,
che non voleva pietà.
La Piccola si lasciava abbracciare, zitta, il nasino mezzo scomparso tra i capelli
bianchi, gli occhi nocciola vaganti altrove, forse distratti, certo asciutti. Appena la
maestra l'ha lasciata andare, si è rimessa in sesto il paltoncino.
«Buongiorno» ha detto la vocina sottile. Nient'altro.
Tornando a casa avevo un nodo in gola. Stupido, va bene: ognuno ha i nodi in
gola che può. Ha solo nove anni, mi dicevo per giustificarla. Sì, ma io a nove anni... E
dalli coi paragoni.
La Piccola mi camminava di fianco, tranquilla, col suo nasino in su e la sua aria
svagata, e io non avevo voglia di rivolgerle la parola. Piccolo antipatico quiz che non sei altro.
Appena a casa sono andata dritta in cucina, e lei dritta nella sua stanza; ci è
entrata e ci si è chiusa dentro. A chiave. Quando ho sentito la chiave girare nella toppa
ho capito: un po' tardi, al solito.
Non è un quiz, a la mia Piccola. Vulnerabile e fiera.
È restata chiusa dentro un pezzo - sapevo che non dovevo chiamarla — e quando
è uscita aveva la faccina gonfia e gli occhi rossi, ma neanche con le torture avrebbe
confessato di aver pianto.
Mi ha consegnato un grosso plico: «Facci tu la busta che io non ci ho tempo», ha
detto scontrosa. «È una lettera per la maestra; le ho fatto un po' di quiz e di storie del
Bao col fumetto, così si diverte a farci i segni rossi e blu».
Grazie, avrei voluto dirle. Grazie per la maestra, ma soprattutto per me.
E così oggi è andata per la prima volta alla scuola nuova: tranquilla e svagata come
sempre, con due peluches in fondo alla cartella. Speriamo bene. È l’una, dovrebbe essere
di ritorno... Eccola che arriva, la vedo dalla finestra: con la sua cartella a zaino e la sua
aria da nanetto, le guance rosse per il freddo di gennaio. Sembra contenta. Ma è meglio
non farle domande finché non ha mangiato almeno la pastasciutta. A stomaco vuoto i
miei figli sono poco discorsivi.
Quando ha finito gli spaghetti, le chiediamo:
«E allora, com'è la nuova maestra?».
«Assomiglia a un amster», dice.
L'amster, se non lo sapete, è una bestia: una specie di scoiattolo. Respiro: se una
persona le ricorda una bestia, va tutto bene.
«Cosa avete fatto?» le chiedo.
«Un tema», dice.
«La maestra l'ha letto?» chiede il padre, che è vanitoso.
«Sì», risponde, distratta. «Ha detto che vuole parlare con uno dei miei genitori ».
O cielo: ci risiamo. La somiglianza con l’amster non è risolutiva, si vede.
Rassegnata, chiedo:
«Com'era il tema?»
«Una giornata in casa mia»
«Siamo disonorati», dice il padre. «Vacci tu a parlare con l’amster».
Si sa, quando c’è qualche brutta figura da fare, tocca sempre alla moglie. Va bene,
va bene, andrò a parlare con l’amster. Domani poi vi dico com'è andata.
CHE MENAGRAMO LE MADRI

Dunque mi feci coraggio e andai a parlare con la nuova maestra. Non mi parve,
così a prima vista, che assomigliasse a un amster; forse la mia fantasia zoologica s'e
sbiadita con la maturità. Vedevo davanti a me una normale signora sui trenteccetera, con
un vestito grigio e dei registri sotto il braccio, che mi guardava incuriosita.
«Mi chiedevo se il tema di sua figlia fosse invenzione o realtà», disse. «Adesso che
vedo lei, penso che sia piuttosto realtà».
Non sapevo se dovessi ringraziare o scusarmi. Per non sbagliare rimasi zitta. Cosa
avrà raccontato questa sciagurata. figlia? pensavo. Dai temi della Piccola c’è da aspettarsi di
tutto. Quando poi il titolo è Una giornata in casa mia, ti saluto. Preparandomi al peggio,
presi in silenzio i fogli che la maestra mi tendeva. Non vedevo correzioni, né rosse né
blu.
«Per correggerlo», disse la maestra, «bisognerebbe cancellare tutto e rifarlo.
Sarebbe un peccato».
Alzai gli occhi. «Vuol dire» chiesi con un filo di voce, «che le è piaciuto?».
Sorrise, e mi accorsi che assomigliava proprio a un amster. Tale e quale. «Certo
non è un tema molto ortodosso», ammise, stringendosi nelle spalle. «Ma penso che sia
inutile spiegarlo a una bambina così... Imparerà da sola. Lei non ha imparato?»
«Non del tutto», dissi. «Ma abbastanza, credo». Mi ci son voluti molti segni rossi e
blu, e molti anni, e molte lacrime, per imparare che per farsi capire dalla gente bisogna
faticare: e come. E poi, dopo che hai faticato tanto, magari non ti capiscono lo stesso.
Oggi lo so. Ma quando avevo l'età della Piccola, l'idea che qualcuno potesse non capirmi
non mi sfiorava nemmeno. Il mio primo romanzo, scritto a dieci anni sui ricettari vecchi
di mio padre, era una babilonia completa. Ma come m'ero divertita a scriverlo. Chissà
che fine ha fatto. I miei fratelli ne citano ancora dei brani a memoria. Io no. Mi fa troppa
malinconia.
«Lo porti pure a casa, è già classificato». mi disse la maestra. Sorrise di nuovo, e la
somiglianza con l'amster divenne impressionante. «Non so se il signor direttore sarebbe
d'accordo sulla votazione... Ma dato che è il primo tema, ho pensato di incoraggiarla. Le
ho dato nove».
Figurarsi il Gamberini quando vide quel nove. Fumetti di tripudio gli uscivano da
ogni parte, mentre si sforzava di mostrare un virile scetticismo nei confronti della
capacità di giudizio della maestra (seppure somigliante a un amster, era pur sempre una
donna, non è vero?) e una virile indifferenza nei confronti del tema (un padre ha altro da
fare che occuparsi dei temi di quarta elementare, non è vero?). Però lo lesse tutto. Con
una smorfia di sufficienza sulle labbra e un ciclone d'orgoglio nel cuore.

Tema: Una giornata in casa mia.


Svolgimento:
Una giornata in casa mia comincia che mi viene il Bao sul letto a leccarmi la faccia e siccome che
è grosso. e non guarda mai dove mette i piedi schiaccia tutti i gatti che stanno sotto le coperte con me e
loro cominciano a miagolare da matti così mi sveglio e sento il papà che dice svegliati deficiente. Il
deficiente di solito è il Pop che è mio fratello, però possono essere anche degli altri. Poi comincia (il papà)
a girare per la casa come il leone della prateria che fa spaventare tutti quelli che incontra solo che da noi
non si spaventa nessuno tranne un po' la Rosa quando proprio grida molto forte e la mamma dice non
gridare che disturbi quelli di sopra, e lui dice meglio, così imparano a svegliarmi all'alba con le loro
dannate trombe. Le trombe sono le canne dell'acqua e il naso del signore di sopra che quando se lo soffia
fa un verso che la mamma i primi tempi diceva sta a vedere che abbiamo un altro sassofono in casa e
invece era il naso di sopra, che siccome che va a lavorare presto se lo soffia alle sei della mattina, e il
papà e la mamma si svegliano tutti intraversati. Poi nella casa vecchia siccome che era vecchia le canne
dell'acqua non si sentivano, invece qui alla mattina quando gli inquilini vanno a lavarsi c’è un putiferio
che pare le cascate del Niagara e il papà che è già intraversato per il naso si intraversa ancora di più e
litiga subito con la mamma.
Alla mattina litigano sempre. Mica solo alla mattina, ma alla mattina di più. Intanto io mi
vesto con un sonno da matta e mi manca sempre una scarpa perchè me la ruba il Bao e va a nasconderla
chissà dove e poi torna tutto scodante e con un'aria furba a dirmi di cercarla e mentre che la cerco mi
scompare una calza perchè l'hanno rubata i gatti, intanto il papà pesta da matti nella porta del bagno
per fare uscire la Bruna che è la mia sorella grande e ci mette un sacco di tempo a fare tualet mentre il
Pop ce ne mette pochissimo perchè non si lava oppure si lava quando è già vestito col paltò e la cravatta.
Adesso che fa il liceo scientifico vuole la cravatta e le scarpe lucide che le ruba al papà perchè ci hanno i
piedi uguali e lo stesso le calze e le camicie che se le litigano sempre e la mamma dice sempre: bisogna che
ci faccia le sigle ma non gliele fa mai perchè non cia tempo e quando cia tempo non si ricorda. Pero
lavarsi al Pop ci piace sempre poco, e così il papà tutte le mattine deve gridare lavati il collo via quella
camicia te lo do io il sassofono con le orecchie sporche e così a furia di gridare al Pop si dimentica di me
che passo via liscia. La mamma non conta perchè alla mattina cia sonno e non capisce niente e dice solo
eh, cosa, perchè, ma non gridare. Dopo prende il caffé e si sveglia ma ormai noi siamo andati e ciao.
La mia scuola nuova è vicina così ci vado a piedi da sola, invece la Bruna e il Pop li porta il
papà con la Bestia che è la nostra automobile, è vecchia e grassa grassa e sbuffa sempre perchè è francese
e la mamma dice che i francesi fanno sempre così, bof bof, anche il suo nonno che era francese faceva bof
bof, e ogni tanto perde l’olio, la Bestia non il nonno, come quest'estate che ci siamo andati sopra in
diciannove tra dentro e fuori che la gente non ci credeva e invece lei ce l'ha fatta perchè è una brava
bestiona e anche se perde un po' d'olio non si rompe mai. Dunque noi andiamo a scuola e il papà in
ufficio e invece la mamma va a fare la spesa col Bao e il Bu che la tirano da matti al guinzaglio e i
quattro gatti che le vanno dietro tutti in fila e la aspettano accucciati fuori dai negozi, solo che il
Giacinto siccome che è un po' strabichino delle volte perde la strada e si ferma tutto disperato a fare uì uì
e la mamma deve tornare indietro a prenderlo, così ci mette un'ora a fare la spesa e dopo dice che sono i
negozianti che le fanno perdere tempo.
I primi giorni quando passava con i cani davanti e i gatti di dietro la gente si voltava a guardare
con degli occhi così e il papà si intraversava da matto e diceva ecco, così sei proprio completa, proprio la
vecchia pazza del quartiere, e lei diceva che colpa ne ho io se i gatti mi vengono dietro, escono dal
giardino e se anche li sgrido mi vengono dietro lo stesso. Però non li sgrida mai, anzi li chiama con una
vocina dolce dolce che ai gatti ci piace molto.
Adesso ormai la gente del rione si a abituata, non cacciano più fuori gli occhi, anzi la salutano
come niente e salutano come niente anche i gatti e lei è tutta contenta. Solo una volta uno che non era del
rione l'ha fermata e le ha detto scusi signora i suoi gatti sono ammaestrati? e lei a venuta a casa tutta
intraversata a brontolare ma guarda un po' che domande, ciò proprio il tempo di ammaestrare i gatti io,
ho forse l'aria della domatrice? E il papà ha detto della domatrice no ma della squinternata si. Invece io
credo che la gente ha capito che non è una squinternata ma solo una mamma un po' suonatina che a noi
ci va bene così.
Quello che succede a casa durante la mattina non lo so perchè sono a scuola e se c’è il tema mi
diverto se no mi stufo e la maestra di prima certe volte mi faceva la nota sul quaderno perchè ero
distratta ma speriamo che questa no. Quella che arriva per prima a casa da scuola sono io. I cani e la
mamma mi corrono incontro a farmi festa invece i gatti no perchè sono in giro ma la mamma comincia a
chiamarli gattiiini, con quella vocina che ci piace e loro arrivano subito, tranne il Giacinto che non è
capace di saltare il muretto e sta là a fare uì uìi e bisogna andare a prenderlo,e intanto di solito il burro
brucia e allora la mamma dice che non ha più testa, che è proprio una squinternata come dice il papà, e
mentre che lo dice ciàa gli occhi tristi e io vado di là per non vederla. Però delle volte il burro non brucia
e allora ridiamo da matte in cucina, con tutti i cani e i gatti e la Rosa. Poi arrivano la Bruna e il Pop,
anzi il Pop e la Bruna, perchè lei cià sempre qualche tizietto in giro che le fa fare tardi invece lui corre a
casa da matto a suonare subito il sassofono. La mamma gli chiede com'e andata a scuola e lui
tuuuut bene
ti hanno interrogato?
tuuuut no
com'e che non ti interrogano mai?
tuuuut non so
ma insomma cos'avete fatto?
tuuuut un sacco di russie
Al liceo del Pop si fanno sempre un sacco di russie, invece a quello della Bruna si studia sempre
oppure si parla di tizietti, a me mi sa che andrò a quello del Pop. Per ultimo arriva a casa il papà tutto
intraversato per l'ufficio il traffico ingorgato e la fame, e appena entrato annusa l'aria e dice ci risiamo
col bruciato, poi dice anche giù le zampe, porca miseria, com'è che questi cani sono tutti inzaccherati,
porco giuda, te lo devo dire in turco di non mandarli in giardino, e lei dice se non si possono mandare i
cani in giardino è inutile avere un giardino, e lui grida quello non è un giardino è la palude ex-pontina,
e lei dice sta a vedere che a colpa mia, l'ho mica scelta io la palude ex-pontina, e poi tirano fuori un
sacco di altre storie che non c’entrano niente e sembrano proprio inferociti e invece appena mangiano gli
passa, così vorrebbero riparare ma ormai non fanno più in tempo perchè il papà deve andare via subito
se no non trova il posteggio e così va via intraversato sbatacchiando tutti gli sportelli della Bestia.
La mamma sospira e si distende sul letto perchè il dottore dice che per ingrassare deve distendersi
almeno mezz'ora dopo i pasti, solo che appena è distesa col Bu ai piedi e tutti i gatti addosso col motore
acceso, cominciano le telefonate delle zie e degli zii che ce n'abbiamo un putiferio, così invece di stare
distesa continua a correre dal letto al telefono e dal telefono al letto e quando si pesa a calata tre etti.
Poi comincia il pomeriggio in casa mia. La mamma scrive, la Rosa lava i piatti, la Bruna
studia oppure dipinge, il Pop sente il giazz freddo oppure va a suonare il sassofono in cantina per non
disturbare quelli di sopra, i gatti e i cani continuano a correre come matti dentro e fuori a portare fango e
pantofole rosicchiate e poi si fa buio e di colpo arriva la mamma tutta intraversata a dire insomma cosa
fate, tutto un pomeriggio per lavare i piatti, e questa non ha ancora fatto il problema e il latino Pop se lo
sogna e tu che sei la più grande non puoi badarci un po', sono stufa devo sempre pensare io a tutto,
guarda che roba, muovetevi che poi arriva il papà e se la prende con me, su la pentola, giù le tapparelle,
asciuga il pavimento, chiama tuo fratello, metti la tavola, gattiiiiini! finisci li latino, fa entrare i cani,
manca un gatto, asciuga i bicchieri, Rififi dove sei, gratta il formaggio, presto che è tardi, o Dio il
citofono va a sentire chi è.
Il citofono a una cosa della casa nuova che siccome non c’è portineria il citofono serve per parlare
con di fuori, c’è un tasto per parlare, un tasto per sentire, un tasto per aprire, ma siccome che non siamo
ancora abituati ci sbagliamo sempre e succedono un sacco di macelli, si continua a gridare chi è chi è e
non risponde nessuno, e poi quando nessuno più se l'aspetta viene fuori un

IO

che la mamma la prima volta dallo spavento le è venuto il singhiozzo, e intanto arriva dentro il papà
intraversato da matto a gridare cosa ti viene in mente di urlare in quel modo che a momenti mi prende
un colpo, ma se eri tu che urlavi, no eri tu, possibile che non sei neanche capace di schiacciare un tasto, e
così la mamma per non sbagliare i tasti adesso ci manda sempre noi a sentire chi è. Certe volte poi sono
solo tizi di passaggio che fanno gli scherzi e a chiedere chi è rispondono Fidel Castro o se no fanno dei
versacci con la bocca e la mamma dice basta, adesso se suonano ancora non rispondete più, così quando
arriva il papà suona e risuona e nessuno gli risponde, così deve passare dal giardino e si sente uno che
attraversa la palude pontina gridando deficienti e arriva dentro pieno di fango che pare il Bao, e la
mamma dice ma perchè sei entrato dal giardino, e lui indovinate cosa dice? 1) mia adorata moglie; 2)
figlioli miei carissimi; 3) censura (censura si dice per dire brutte parole). Sottolineare la riposta ritenuta
esatta. Poi mangia e gli passa.
Così viene la sera in casa mia e stiamo tutti insieme nel soggiorno col televisore che va ma
nessuno lo guarda perchè abbiamo tutti da fare le nostre cose e stiamo molto bene, la Bruna con l'album
da disegno, io coi peluches, il Pop con un berretto da sci sulla bocca del sassofono così quando gli viene da
fare qualche tuuuut pare sempre un battello ma naufragato e non disturba i vicini, la mamma col cesto
della corrispondenza, il papà coi giornali e un mucchio di cicche accese dappertutto, i gatti che si
arrampicano sulle tende, i cani che mangiano le pantofole e stiamo molto bene, anche se gli inquilini
fanno il putiferio con le canne e la mamma non ha finito la puntata e il papà ha litigato di nuovo col
direttore e si vede che sono tutti e due stanchi morti e preoccupati per i soldi eccetera, ma stiamo bene lo
stesso.
Parliamo di quando il giardino non sarà più una palude ma ci saranno l'erba e i fiori se non li
mangeranno i cani, di quando avremo i soldi per finire di comprare i mobili e un sacco di altre cose, e di
quando la Bruna farà una mostra di quadri, il Pop suonerà il sassofono come quel Gerri nonsocosa, io
diventerò una scrittrice come la mamma anche se lei dice che non vuole, la mamma prenderà un putiferio
di diritti d'autore, il papà andrà via dalla banca e farà il giardiniere, e anche se non sarà tutto vero a
noi ci piace parlarne, i gatti ci ascoltano col motore acceso, il Bu ride con la riga bianca nel muso nero, il
Bao non capisce niente ma fa andare la coda tutto contento, e io anche se ho sonno mi dispiace andare a
letto. Nella preghiera ci dico a Gesù che mi metta dentro nei sogni San Mamete, i cigni coi cignetti, i
ghiri con la luna piena, poi dormo e così finisce la giornata in casa mia.
Il padre posò il tema. Ci passò sopra la mano aperta, come la passa qualche volta
sulla nostra faccia. Poi lo firmò con un noncurante svolazzo.
«Bah», disse. Era la massima lode. «Una sfilza di errori, come al solito, ma
insomma... ». Ma insomma, si leggeva nel fumetto, giacché c’era non poteva darle dieci,
quell'amster della malora?
Che megalomania i padri. Mi chiesi che cosa le avrei dato io se fossi stata la
maestra. Ma non ero la maestra, ero la sua mamma suonatina: non potevo darle voti.
Potevo solo pregare che le rimanesse, delle nostre giornate così piene di fatica e di errori,
questo fresco sapore di fiducia e d'infanzia. E che non fosse troppo sconsolata, un
giorno, la nostalgia.
Che menagramo, le madri. Mi sentivo dolere il cuore, e non sapevo neanche se
fosse per la sua infanzia o per la mia: nitida e piccina in fondo a un tunnel di anni.
Menagramo proprio.
E L' ERBA CRESCE

A voi non sembra che il tempo vada sempre più in fretta? Se l'anno scorso
rotolava, adesso precipita addirittura. Prima della guerra mica faceva così. Il Gamberini
dice che è una mia impressione. Che il tempo va sempre alla stessa maniera e che è il
mio cervello che rotola e precipita. Può anche darsi.
Comunque vi pare possibile che sia già primavera? A me no. È una cosa che ogni
mattino mi prende di sorpresa. Sembra ieri che eravamo qui a lottare con l'umidità e la
caldaia rotta e la palude ex-pontina, e adesso guardate un po': vi sembra la stessa casa, lo
stesso giardino, lo stesso mondo? Dal fango è nata l'erba; è così commovente l'erba, a
Milano, continuerei a passare le dita su quei timidi, coraggiosi filini verdi. Il vecchio
ciliegio è diventato tutto bianco-rosa, è la prima cosa che vedo quando apro la mia
finestra al mattino, e anche se ho sonno e i nervi e sono indietro col lavoro e ho litigato
col Gamberini, quando lo vedo mi sento felice, e triste anche, come è giusto che si senta
una signora di trenteccetera anni in aprile. La vite americana stenta un po' a crescere sulla
cancellata, i rosai lottano ancora per liberarsi della fuliggine, l'erba è un po' striminzita,
ma insomma è un giardino: piccolo, verde, vero, col suo bravo odore di terra e di
primavera. Cento metri più in la, oltre il ponte, si vedono i grattacieli e le ciminiere e le
fabbriche grigie, e questo rende ancora più prezioso e patetico il nostro pezzetto di
prato, così pieno di buona volontà.
Certo di buona volontà ce ne abbiamo messa tanta anche noi. Il Gamberini, che
come sapete per l'erba e i fiori stravede, si può dire che non si occupi d'altro: il giardino
gli ha dato alla testa. Come se non avessimo già abbastanza conti da pagare per la casa,
ha speso non so (mi rifiuto di saperlo) quanti soldi in sementi, piante, erbe perenni
rivelatesi per via dei cani estremamente caduche, fiori e rampicanti vari, più un
ombrellone quadrato, enorme, rosso, che non serve a niente ma fa macchia di colore, più
un'amaca messicana bellissima che però non possiamo attaccare perchè abbiamo un
albero solo, più una poltrona di vimini che si appende al ciliegio con una catena, come
vedete nella vignetta, e che è la mia passione, così sospesa a mezz'aria a ruotare
pigramente su se stessa come i miei pensieri d'aprile. Su questa poltrona passo buona
parte delle mie giornate: a oziare, secondo il Gamberini; a meditare, secondo me. Se una
scrittrice non medita, scusate, che scrittrice è?
Lui, si capisce, di meditare non sente il bisogno. Al mattino presto, appena le
canne dell'acqua o il naso dell'inquilino di sopra lo svegliano, si precipita fuori a
innaffiare, concimare, zappettare, blaterare (contro i cani che gli hanno pestato l'erba,
contro i gatti che gli hanno fatto pipi sull'acero giapponese, contro di me che non ho
sorvegliato abbastanza i cani e i gatti, contro i figli che non hanno sorvegliato abbastanza
me); alle otto, strappandosi all'adorato pezzetto di verde, va in ufficio, donde ritorna
all'una e mezzo per precipitarsi fuori di nuovo, senza quasi neanche dire ciao, a contare i
tulipani che sono germogliati, misurare l'erba col centimetro per vedere se cresce
regolarmente, a rastrellare, potare, carezzare, e bisogna corrergli dietro per tutto il
giardino con le pietanze altrimenti salta il pasto; alle due, con un altro doloroso strappo,
va di nuovo in ufficio e alle sette eccolo di ritorno, irascibile e fischiettante (quando ha
fretta o i nervi fischietta sempre), borbotta un saluto, si toglie la giacca e ricomincia a
zappettare, innaffiare, potare etcetera, e noi tutti ai suoi ordini, ma sbagliamo sempre
perchè il pollice verde in famiglia ce l'ha solo lui, noi siamo anche botanicamente
deficienti e prendiamo solo delle gran sgridate, ma ci divertiamo lo stesso e anche lui:
infatti a poco a poco non fischietta più e gli vengono le pagliuzze allegre negli occhi.
Non crediate poi che quando non c’è lui li giardino non mi dia da fare. Se piove (e
fino a due settimane fa è piovuto sempre) mi dà da fare in quanto i diletti cani, uscendo e
rientrando cinquanta volte al giorno come è loro diletta abitudine, portano in casa. ogni
volta cascate di fango che distribuiscono equamente, zampa dopo zampa, per 250 metri
quadrati di pavimenti ex-lucidi. Chiuderli fuori, dite voi? Bravi: così cominciano a fare
una cagnara d'inferno per venire dentro, disturbando il vicinato. Chiuderli dentro? Già:
così fanno una cagnara d'inferno per andare fuori, disturbando i protagonisti del mio
romanzo in torso, che invece di dirsi parole d'amore dicono stranamente: «Brutti cani!
Cuccia! Cattive bestie!», e mi tocca buttare via il foglio. Senza contare la vernice della
porta tutta graffiata. Se questi vi sembrano rimedi saggi... No, cari miei, c’è una sola cosa
saggia da fare e cioè asciugar loro le zampe ogni volta che rientrano. E quello che faccio,
appunto. Ora, ogni cane ha quattro zampe, quattro più quattro fanno otto zampe, che, a
una media ottimistica di trenta uscite al giorno per cane, fanno duecentoquaranta zampe
da asciugare al giorno. Rendo l'idea?
Fatti aiutare dai figli, dite voi. Buoni quelli! Coi figli svagati e pacifici che mi
ritrovo (da chi avranno preso non so), mi trovo la casa sommersa nel fango prima che
abbiano alzato un dito. I miei figli amano molto le bestie, le capiscono, giocano, ridono,
discutono con loro; ma quando si tratta di curarle, asciugare zampe, spulciare, fare
pappe, allora, o sono a scuola, o hanno qualcosa di molto assorbente, importante e
urgente da fare per scuola, oppure vanno col rallentatore: non so i vostri, ma i miei figli,
quando si tratta di aiutare, vanno sempre col rallentatore. Allora fatti aiutare dalla Rosa,
dite voi. Scusate, ma siete proprio degli incompetenti. A parte che il rallentatore la Rosa
ce l'ha congenito, devo ricordarvi che le bestie a lei non le pertoccano. È una lavoratrice di
casa privata: non di bestie private.
Ma non divaghiamo. Stavo dicendo del giardino. Quando piove, dicevo, il
giardino mi dà da fare perchè devo difendere la casa dal fango. Quando c’è il sole, devo
difendere il giardino dalle bestie, che l'euforia primaverile porta a pascersi d'erbe e di
fiori con la stessa voracità con cui d'inverno si pascono di calze e pantofole. Perciò devo
sorvegliarle. L'ha detto lui che devo sorvegliarle, no? Quindi al mattino, dopo la spesa,
prendo su tutta la mia roba, lettere, fogli, puntate, blocchi, macchina da scrivere, cervello
latitante, e mi trasferisco in giardino. Così, mentre lavoro, sorveglio le bestie; o se
preferite, mentre sorveglio le bestie, lavoro.
Lui dice che non faccio né una cosa né l'altra. Che le bestie non le sorveglio, ma
anzi le eccito per poi giocarci insieme. Figuratevi un po'. Ho giusto il tempo di giocare
con le bestie, io. Se una mattina, tornando dall'ufficio prima del lecito, mi ha trovata in
cima al ciliegio che miagolavo a un gatto, questo non significa che io trascorra i miei
giorni di primavera a miagolare sugli alberi, come lui vorrebbe far credere agli amici, ma
solo che quel mattino, per puro caso, il gattino Giacinto aveva voluto salire sul ciliegio
dietro gli altri tre poi, essendo strabico, goffo e fifone, non riusciva più a scenderne.
Cosa dovevo fare, lasciarlo là a fare uì uì per l'eternità? Se poi, una volta che son stata in
cima al ciliegio, mi sono fermata un po' a sedere su un ramo, be', intanto dovevo
rincuorare il Giacinto, e poi dovevo riposarmi, no? Una a trenteccetera anni mica può
salire e scendere dai ciliegi come niente. Ma quando uno non vuol capire. A sentirlo,
pare che io passi la mattinata a saltare di ramo in ramo coi gatti, come Tarzan con le
scimmie. Figurarsi. Ho proprio il tempo di fare Tarzan, io. Con tutto il lavoro arretrato
che ho.
Lui fa insinuazioni anche su questo. Dice che se ho lavoro arretrato è perchè in
sua assenza, invece di scrivere il romanzo, me ne sto a dondolarmi sulla poltrona appesa
al ciliegio, a guardare le nuvolette, ascoltare gli uccellini e attaccare discorso con la gente
che passa. Figurarsi. Proprio il tipo, io Certo che se qualcuno passando mi saluta, mica
posso dire crepa, vero? E se tutti quelli che passano mi salutano, cosa posso farci?
Questo rione, vedete, è come un paese, un villaggio di piccole case e piccoli
giardini a ridosso dei grattacieli e delle grandi fabbriche: un paese dove tutti conoscono
tutti, quindi è naturale che passando mi salutino e mi chiedano notizie dei ragazzi, delle
bestie, delle piante, dei fiori.
Specialmente i barboni hanno un sacco di particolari da chiedere e da dare. Ce ne
sono molti, qui in giro. Vivono in un incredibile agglomerato di baracche di miseria che
sembra uscito da un film neorealista, sono veri: loro, le loro baracche di latta arrugginita
sullo sfondo dei grattacieli di cristallo, i loro lucidi, sorprendenti discorsi: possono
parlare di qualsiasi cosa, dal giardinaggio alla politica, con la stessa pittoresca filosofia.
Argomento preferito: i più ingegnosi sistemi per non lavorare. Loro sono artisti in
materia. Un'arte che mi affascina, forse perchè non l'apprenderò mai.
Ma non divaghiamo di nuovo, o voi potreste pensare che l'ho appresa benissimo e
che il Gamberini ha ragione di dire che invece di lavorare me ne resto a chiacchierare e a
guardare le nuvolette. Be'... sapete com'è in primavera. Anche a non volere, uno si
distrae. Come si fa a stare ore e ore col naso sulla macchina da scrivere quando intorno
l'aria sa d'aprile e anche il cuore, dentro, sa d'aprile: un aprile fuori stagione, così
struggente.
Il fatto è che ho faticato troppo, in questi mesi. Tutti quei conti da pagare che mi
frustavano il subcosciente... e il romanzo da finire, la posta da leggere, il tempo da
inseguire, le rate, l'angoscia, i figli, le bestie, il burro che brucia, il marito coi nervi, e il
cervello sempre più labile. Forse ho esagerato, e adesso c’è la reazione. Sono stanca,
ecco. Mettiamola così.
Stamattina poi sono uno straccio. E già: abbiamo fatto un'orgia, ieri. E adesso la
pago: io pago tutto. Non è che mi senta proprio male: solo strana, pigra, vagamente
incorporea. Questa poltrona che dondola e gira mi mette le vertigini, se appoggio
indietro la testa vedo tutto che gira, i fiori del ciliegio, la cancellata, i cani i gatti i tulipani
le nuvole... Gira e rigira. Se mi vedesse il Gamberini... Che ridere.
Dunque dovete sapere che ieri abbiamo dato un cocktail-party. Eh? Vi sembra
strano? Anche a noi. Ma sentite com'e andata. In origine dovevano venire solo i Cug a
festeggiare non so che cosa. I Cug, volgarmente detti cugini, hanno sempre qualcosa o
qualcuno da festeggiare: portandosi dietro il maggior numero di amici possibile. Da
quando abbiamo la casa grande, poi, ricorrenze, onomastici, eventi straordinari, pagelle,
fasti e nefasti da commemorare si susseguono con un ritmo impressionante.
Io non faccio resistenza: primo perchè a difficile resistere alla dialettica dei Cug, e in
particolare del Cug numero 1, grande organizzatore e trascinatore di masse; secondo
perchè desidero che la Grande si distragga un po' dalla psicosi degli esami di maturità e
dal pensiero del tizietto coi capelli rossi, unico fra tutti che non si è fatto più vedere;
terzo perchè c’è speranza che il Pop, a furia di fasti e nefasti, cominci a "tirarsi fuori",
come suo padre ardentemente desidera. Qualche sintomo di evoluzione, effettivamente,
c’è; ma per il momento si tratta di evoluzioni negative.
È diventato vanitosissimo, vuole le camicie lilla, si lamenta perchè la Rosa non gli
stira bene i colletti, si lima le unghie, si lava le orecchie quasi tutte le mattine. Non balla il
cha-cha-cha in pubblico perchè non è ancora abbastanza bravo per ballarlo (il feroce
orgoglio dei timidi, come lo conosco, con tutti i patimenti che ha dato a me), ma si fa
dare lezioni private da sua sorella, pagandole cento lire l’una (immutabile perfidia delle
sorelle grandi) e litigandoci a morte ogni volta. Poi è stufo di essere chiamato Pop, esige
di essere chiamato Maurizio, e non vi dico la faticaccia, oltre alla malinconia. Parla
sempre meno e bisogna cavargli le parole con l'uncino. E diventa sempre più alto, più
dinoccolato e flemmatico, a vederlo di dietro è un giovanotto; davanti è ancora un
bambino, ma sempre meno mio. Chi ci capisce più niente? Neanche il jazz e Beethoven
lo consolano. Pare che non possa più vivere senza "gli amici": in mezzo ai quali se ne sta
poi muto, immusonito e spinoso, col suo sassofono al collo e una cotta terribile, credo,
per una sedicenne stile perverso che gira con la fiaschetta del whisky, si crede una
vampira e non lo guarda neanche.
Mi sta antipatica. «Ma perchè? È carina», dice il Gamberini. Carina! Si trucca gli
occhi e cammina come una papera coi languori: se vi sembra carina una così... Lui ride:
«Le solite madri», dice. Va be', sarò una solita madre, che altro ho da essere? So bene che
la prima cotta non ha importanza, che è sempre a vuoto, che è solo un passo al di là della
soglia. Ma Pop... voglio dire Maurizio, è così diverso, così inerme, così Pop. O sono solo
io che lo vedo diverso? Non so. So solo che questa Monique (guarda che nome da avere,
non poteva almeno chiamarsi Monica?), questa Monique mi sta sullo stomaco. Sara
l'esaurimento, va bene. Anche le riunioni dei ragazzi, che di solito mi piacciono, da un
po' di tempo mi vanno tutte per traverso.
Dunque, tornando a bomba: dovevano venire i Cug e gli amici dei ragazzi,
Monique dell'accidente compresa. E io ero stanca morta, con questo romanzo appena
finito che mi ha spremuta come un limone, e una crisi di vittimismo acuto in vista ("loro
pensano solo a divertirsi, della mia fatica se ne infischiano, eccetera eccetera") mista a un
rabbioso bisogno di reagire, di sentirmi gaia e primaverile e quasi giovane. Così pensai di
invitare anche i nostri, di amici: i Polpettoni, gli Armen, la Paola e il Giaci...
«Ma sì» disse con insolita socievolezza il Gamberini, «invita tutti quanti. Falli
venire all'ora dell'aperitivo, così ci sono anch'io. Facciamo un cocktail di inaugurazione».
Ma sicuro! Come mai non ci avevo pensato io? L'inaugurazione! C’erano un sacco
di cose che meritavano una inaugurazione ufficiale: la casa finita (quasi), l'erba cresciuta
(abbastanza), il ciliegio fiorito...
«E i debiti pagati», concluse lui.
Trattenni i respiro. Con la labilità di cervello che mi distingue, vedete, io non so
mai a che punto stiamo coi conti. Non voglio saperlo, ho paura di angosciarmi di più e
diventare conseguentemente ancora più labile: una specie di circolo vizioso. Così in
questi ultimi durissimi mesi ho rovesciato amministrazione e debiti sulle spalle del
Gamberini e sono andata avanti come un cavallo coi paraocchi. Me li levai per chiedere,
con un filo di voce:
«Vuoi dire... che li abbiamo pagati?».
«Fino all'ultimo centesimo», disse. Mi sorrise, e a me venne immediatamente da
piangere. Mi sentii piombare nelle ossa, tutta in una volta, la fatica di quei mesi, insieme a
una gioia e a una leggerezza infantili. Ce l'abbiamo fatta! Insieme, un'altra volta, ce
l'abbiamo fatta.
Per cacciare indietro le lacrime (va bene l'esaurimento, ma c’è un limite) mi
abbandonai, come spesso mi succede, a una smodata euforia. Il Gamberini, strano a
dirsi, mi lasciò fare: andò a finire che invitai, tra pomeriggio e cocktail, una cinquantina
di persone, ragazzi, adulti, parenti, amici, parenti di amici, gente della redazione, e non vi
dico la frenesia dei preparativi.
Chiamai in aiuto la Paola: ma potete immaginare che aiuto può essere, per una
scrittrice labile e balorda, una pittrice quasi altrettanto labile e balorda. Quando alle
cinque del pomeriggio ci accorgemmo che metà delle tartine le avevano già fatte fuori i
ragazzi, l'altra meta era di là da venire, i bicchieri erano tutti da lavare, la Rosa aveva
messo il sale nella macedonia, il Bao aveva mangiato un plum-cake intero, il Giacinto
aveva fatto pipi sui tovagliolini, e di altre drammatiche cose del genere, che adesso non
mi vengono in mente, fummo prese dal panico e chiamammo in aiuto la Casalinga.
La Casalinga, detta anche Lidia, è la nostra ancora di salvezza nei casi di
emergenza, e anche in quelli normali. Quando si verifica un qualsiasi incidente, o dubbio
(noi ne abbiamo molti) di carattere domestico, io e la Paola ci consultiamo per telefono,
e dopo un lungo e poco pertinente colloquio, una delle due immancabilmente conclude:
«Aspetta che chiedo alla Casalinga». La Casalinga sa tutto. Per di più, al contrario di
molte persone che sanno tutto, è intelligente, allegra, simpatica e coi nervi a posto.
Vederla e sentirsi riposate è tutt'uno. Non so cosa faremmo senza di lei. Chiamata alle
cinque, per le sei e mezzo aveva già sistemato tutto, riuscendo a organizzare perfino la
Rosa: non già me e la Paola, che siamo irrecuperabili. Tutto quello che facevamo era
bighellonare di qua e di là, annusare i fiori, ridere per futili motivi e dire: « O come
spalma bene il burro la Casalinga «O com'è brava la Casalinga di lavare i bicchieri».
Invece di tirarceli dietro, come sarebbe stato suo diritto, lei rideva. È un portento, la
nostra Casalinga.
Alle sei e mezzo cominciarono ad arrivare gli invitati adulti, e alle sette, quando
arrivò il Gamberini dall'ufficio, eravamo al gran completo. Casa e giardino pullulavano di
persone col bicchiere in mano, debitamente rifocillate di tartine varie dalla Casalinga,
dalla Rosa e dalla Piccola, rivelatasi in questa occasione inaspettatamente attiva ed
efficiente. Senza parlare, col suo nasino per aria e il suo sorriso da nanetto, sgusciava
sicura tra le gambe della gente coi vassoi in equilibrio e i gatti speranzosi al seguito, e
non perdeva d'occhio nessuno. E gli altri due? Mentre il padre si faceva lentamente
strada tra la gente verso di me, li cercai con gli occhi, gli altri due.
Eccola, una. Era in piedi nel vano di una finestra: con un ragazzo, naturalmente.
Figurarsi se quella non ha uno o più ragazzi alle costole. Stavolta era uno solo. Non
avevo gli occhiali (vanità mondana) e così controluce non riuscivo a distinguere chi
fosse. Un surrogato, probabilmente. Ma a furia di surrogati... L'ho di nuovo abbandonata
troppo a se stessa, pensai con il solito, pungente, eterno rimorso. Il ragazzo piegò la testa
per accendersi una sigaretta e io vidi li colore dei capelli. Rossi. O cielo... E da dove esce?
pensai. E da quest'estate che non si fa vedere. O forse si vedono fuori e io non ne so niente? Due
ragazzi stagliati contro il cielo d'aprile, così lontani da me... Parlavano? Tacevano? Erano
tristi? Erano felici? Attizzavo gli occhi ma non riuscivo a vedere niente. Forse era meglio.
E il P-Maurizio dove era? Mi spostai verso il giardino per cercarlo. Eccolo la,
l'avrei giurato: seduto sull'erba di suo padre, col sassofono al collo, l'aria infelice la
camicia dernier cri, guardava senza speranza un punto imprecisato intorno al ciliegio:
appesa al quale si dondolava, con un bicchiere di whisky in mano e l'ombretto d'oro sugli
occhi, la Monique dell'accidente. Sulla mia poltrona. Brutta smorfiosa.
«P-Maurizio!», chiamai, senza sapere perchè.
Girò verso di me gli occhi neri, ostili. «Eh», disse col suo vocione sgraziato. «Cosa
vuoi?».
«Niente», dissi, arretrando. «Niente»
Mi restava la Piccola... Andai a cercarla, ma aveva da fare coi vassoi.
«Vuoi una tartina?» mi chiese frettolosamente. Scossi la testa. «Allora lasciami
passare», disse, e andò a fermarsi davanti a un gruppo di persone di riguardo, offrendo
tartine con la disinvoltura e la grazia di una donna di mondo consumata. Era soltanto un
gioco nuovo, lo so... Ma mi parve diventata grande anche lei, cambiata, lontana...
Nanetto, chiamai sconsolatamente dentro di me. Di colpo, senza preavviso mi prese una
tristezza feroce. Mi succede spesso, quando c’è molta gente: e sempre reagisco nei modi
sbagliati. Ma così forte non m'era presa mai. Caddi come un sasso nello stagno della
malinconia, con tutti quei cerchi senza senso che mi si allargavano intorno: Dove vado, e
fino a quando, e perchè... Stavo per colare a picco quando lui mi raggiunse, aprendosi li
varco a spallate da perfetto padrone di casa.
«Ma cosa diavolo fai, scappi? » disse irritato, ripescandomi in extremis senza
saperlo. «È mezz'ora che ti corro dietro. Chi stavi cercando?».
«Non so», dissi.
Ridiede un'occhiata.
«Vuoi bere qualcosa?» chiese, dopo un momento.
Dino, voglio un altro figlio! pensai disperata. Non lo dissi. "Che, quello non cresce?",
mi avrebbe risposto. Sì, tutto cresce, tutto cambia, tutto passa: l'erba, i figli, noi. E allora?
mi dissi con ira. Lo sai solo adesso che l'erba cresce?
Lui mi guardava. «Vieni», disse, infilando la mano sotto il mio braccio. «Andiamo
a fare il brindisi».
«Il brindisi a che cosa?» chiesi, amaramente. Alla vecchiaia? pensavo. Alla solitudine?
All'esaurimento nervoso?
«Alla casa nuova», disse, serio. «A tutto quello che abbiamo fatto insieme, io e te.
Non vuoi brindarci sopra?».
Gli occhi gialli aspettavano, ansiosi.
«Sì» dissi. «Sì, Dino»
Fu dopo il brindisi che le cose precipitarono.
La stanchezza, l'eccitazione, l'esaurimento, la malinconia e lo spumante si
sommarono, e sapete cosa ne venne fuori? a) una rissa sanguinosa; b) una trombosi alle
coronarie; c) una sbornia.
Indovinata la risposta esatta? Bravi..
UN MOMENTO D' APRILE

Eh sì: proprio una sbornia. Mai successo di prendere una sbornia per due bicchieri
di spumante? Be', a me a successo, cosa volete che vi dica. Mica una sbornia da
canzonacce, per intenderci. Ma una sbornia da vaniloquio sì. E fortuna che le persone di
riguardo, tipo mio direttore eccetera, se n'erano già andate quando toccai le vette della
vaniloquenza. C’erano solo gli intimi: almeno così mi pare, perchè mica mi ricordo bene.
Dal secondo brindisi in su i miei ricordi sono piuttosto confusi. So solo che parlavo
come un mulino a vento, che gli amici si divertivano moltissimo e il Gamberini
pochissimo. In quanto a me, avevo la sensazione di parlare e di muovermi con la voce e
le membra di qualcuno che non sapevo bene chi fosse. E ogni tanto mi veniva da ridere,
da ridere... Ma ero io che ridevo?
Poi ricordo la Casalinga che mi faceva bere non so cosa, forse bicarbonato o
sedativo o cardiotonico o tutto quanto, e io stavo distesa sul letto, con una borsa d'acqua
calda sui piedi e un carosello di facce intorno, e continuavo a parlare.
«Lasciamola stare» diceva la faccia della Paola, girando tutta per traverso e con un
sacco di occhi. « Ha bisogno di dormire».
«Non voglio dormire!», diceva una voce ridicolissima che doveva essere la mia.
Voglio parlare! Voglio vivere! Voglio fare le orge! E sapete cosa vi dico? Voglio
quattordici cani, venticinque gatti, e... ».
«Ecco, adesso le viene da piangere» disse la voce schifata del Gamberini.
«Piangere?» diceva quella mia voce ridicolissima. «Chi piange? C’è qualcuno che
piange? Mandatelo da me che lo consolo. Io consolo tutti. C’è ancora un po' di
spumante?».
«C’è una bottiglia» disse la voce minacciosa del Gamberini. «Quella che adesso ti
darò sulla testa se non la pianti di parlare».
«Non vale. C’è la democrazia. Se una vuole parlare parla, e chi le dà la bottiglia in
testa è un reazionario».
«La vedi questa bottiglia?» disse la voce implacabile del Gamberini. O forse la vedi
doppia? Be', te la prendi in testa tutta e doppia, se non ti metti subito a dormire».
«Non voglio dormire! Voglio parlare! Voglio vivere! Voglio...».
«Dai, ma', stai buona» disse una voce.
Ma'... È la Grande che mi chiama ma', di solito. O Dio, c’erano anche i figli
dentro quel carosello di facce e di voci? Erano lì anche loro a vedere questo... questo
scempio?
«Mandateli a letto» borbottai voltando la faccia contro il guanciale.
«Su, bevi questo» disse la Casalinga.
Bevvi quello e subito dopo mi venne un gran sonno. Ma anche nel sonno
continuavo a parlare. E a sentire, vagamente, delle voci intorno a me.
«Vuol fare troppe cose» diceva una voce che conoscevo benissimo, ma non
sapevo di chi fosse. «È sempre stata così, fin da ragazzina»
«Così come? Sbronza?» disse la voce aggressiva del Gamberini: lui lo riconosco
sempre.
«Macchè sbronza» diceva quella di prima che apparteneva alla mia infanzia, una
voce di Cug invecchiato. Questa non è una sbronza, è un collasso. Deve avere i nervi a
pezzi».
«E quando mai li ha avuti giusti?», disse il Gamberini.
«Dovrebbe riposare almeno sei mesi», disse la voce del Cug invecchiato. Te lo
dico da medico».
«E da medico cosa fai, la leghi alla sedia? Le imbavagli il cervello? O conosci
qualche altro sistema per farla riposare, questa squinternata?».
«No», ammise il vecchio Cug. «È fatta così... Ha una carica troppo forte per i suoi
mezzi fisici, lo diceva sempre suo padre: un motore d'autotreno su un'automobilina di
latta, diceva».
Di colpo fu come se ci fosse mio padre, lì vicino al letto, che mi teneva il polso.
Era la sua voce, vecchia voce di vecchio medico e di vecchio papà, che ridiceva quelle
parole. Vacci piano, diceva anche. Dagli un po' meno giri, a 'sto motore.
Papà, pregai nel guanciale molle di lacrime, papà, gli ho dato troppi giri, e adesso
come faccio? Sono stanca, sono malata, sono matta. L'automobilina di latta è andata in
pezzi.
E invece, vedete, proprio a pezzi non è andata. È un po' scassata: ma bene o male
sta insieme.
Stamattina, quando figli e marito sono andati a scuola e in ufficio, io ero ancora a
letto: cosa mai successa. E non dormivo proprio, ma quasi. Poi avevo un mal di stomaco
d'inferno, e un trapano nel cervello. Attraverso quel trapano, sentivo la famiglia che
bisbigliava fitto, di là: come se stessero complottando qualcosa. Ma non avevo proprio la
forza di alzarmi e neanche la voglia, e neanche la curiosità. Devo proprio essere malata,
pensai. Forse sto per morire. Ehi, ma io non posso morire! Se muoio come facciamo a pagare
l'affitto?. È meglio che vada a prendere un cachet.
Ma passarono non so quante ore o minuti prima che trovassi la forza di alzarmi.
Mi tremavano molto le gambe. E la testa, trapano a parte, mi girava come una trottola.
Cani e gatti erano appostati in attesa dietro la porta, così appena la aprii mi trovai
riversa sul pavimento con un sacco di lingue e di zampe bagnate addosso e dovetti
chiamare la Rosa. La quale accorse, con insolito zelo e un'aria efficiente che non le si
addiceva affatto, a portarmi l'acqua e i cachet. Mentre ne inghiottivo avidamente un paio,
sempre per terra e con le bestie addosso, la Rosa mi comunico quanto segue:
«Signora ha detto il signore che tu stai a letto. La spesa l'hanno fatta già lori e i mistieri li faccio
io».
Adesso non esageriamo, pensai. Mica sono moribonda. Sono solo stanca e mi ha fatto male lo
spumante, ecco. Capita a tutti, no? Mi alzai, con tutti, i muri e i pavimenti e i soffitti che mi
ondeggiavano intorno, e andai al telefono per dire al Gamberini che non era ancora
vedovo. Per il momento.
«Suo marito non è in ufficio, signora», mi risposero. «Ha chiesto due ore di
permesso».
«E perchè?» chiesi.
«Se non lo sa lei» dissero con voce furba.
«Ah, grazie», dissi stupidamente, e riattaccai.
Due ore di permesso: boh! «Il signore ti ha detto niente?» chiesi alla Rosa. «Se
torna a casa prima del solito o...»
«No signora, il signore ha detto che forse tornasse più tardi. Doveva andare in un posto
signora». Si dava l'incredibile caso che anche la Rosa avesse l'aria furba.
«Che posto?» chiesi.
«Mica sono curiosa io signora», rispose.
Forse un'altra moglie avrebbe pensato a una bionda. Io, essendo refrattaria alle
bionde, non sapevo cosa pensare. Poi non avevo nessuna voglia di pensare: costava
troppa fatica.
«Portami un caffè, per piacere» dissi con voce flebile.
Bevuto il caffè, non ho più avuto voglia di tornare a letto. Ho aperto le griglie e
ho visto il ciliegio che mi salutava muovendo le foglie contro il cielo d'aprile, così mi
sono vestita ed eccomi qua. I cachet hanno fatto effetto, non ho più mal di testa. Mi è
anche passato il mal di stomaco. Sto bene... troppo. Mi sento leggera leggera —
un'automobilina di latta — e pigra, ma pigra... Come se il motore non girasse più. Gira la
testa, in compenso. Ho corso troppo, e adesso... Be', adesso mi riposo, no? Chi me l'avrà
fatto fare, poi, di correre tanto... Non voglio più correre.
È bello riposare così, vuota di energie e di affanni, con la poltrona che gira appesa
al ciliegio, i rami, i tulipani, le nuvole che girano... I cani abbaiano, i gatti si arrampicano
sulle piante e sono molto felici e forse anch'io: però è strano non sentirsi battere dentro
il motore. Sento solo il motorino acceso del Giacinto che mi sta in grembo, col musino
alzato verso di me a chiedere spiegazioni. Come farà fta- ftoria? (Nei racconti a fumetti che
disegna la Piccola, il Giacinto ha pure un difetto di pronuncia e parla in effe). Che ti è
fucceffo? Com'è che non fcrivi? Com'è che non giochi con noi? Com'è che hai la faccia da fema? Senti,
gattino Giacinto, a parte il fatto che neanche tu hai l'aria molto intelligente, occupati
degli affari tuoi, va bene? Sta' lì buono a fare ron ron e non pensare di arrampicarti sul
ciliegio perchè non avrei voglia di venirti a prendere. Ron ron, dice. Però la pappa farai
capace di farcela? No. Niente. Sono a riposo. La pappa d'ora in poi ve la faranno i bambini.
Ron-ron, dice. Ftiamo frefchi.
A proposito di bambini, a quasi l’una: ecco la Piccola che arriva, grembiulino
bianco, cartella a zaino, nasino per aria, ma perchè corre tanto? Forse è in pensiero per
me, penso con una fitta di rimorso, acuta, la prima sensazione precisa in tutto questo
torpido mattino. Nanetto, penso, nanetto caro. Lei si ferma al di là
della cancellata, le manine sulle sbarre, ansante, accaldata.
«È arrivato il papà?» chiede.
Ah, com'era in pensiero per me, vero?
«No rispondo. Perchè?»
«Così» risponde. Entra in casa e ne riesce dopo un po', senza più cartella, senza
più grembiulino bianco, senza più fretta, tranquilla e svagata come sempre tra un
mucchio di bestie che le saltano intorno. Mi dà appena un'occhiata:
«Ti è passata la stupidera?» chiede, così en passant.
La stupidera... «Sì, mi è passata» dico, sostenuta. «Però devo riposare: l'ha detto anche lo
zio Giampiero. Quindi va' a fare la pappa alle bestie»
«Of», dice. Però ci va subito, senza neanche cercare di tirar fuori scuse di cose
essenziali che deve assolutamente fare in quel preciso istante. Strano. C’è qualcosa
nell'aria... Sarà l'aprile.
Toh, ecco gli altri due: a tre passi di distanza l'uno dall'altra (camminare vicini li
schiferebbe), e, tutt'e due di corsa. Anche loro? Di solito, specialmente negli ultimi
tempi, Pop arriva lentamente, come la sua dignità di neo-Maurizio comporta,
dondolando le gambe e il sacco dei libri, gli angoli della bocca piegati in giù secondo il
clichè del giovane jazzman incompreso, che vuol dimostrare diciotto anni invece di
quattordici. In quanto alla Grande, di solito il suo arrivo è ritardato dal tizietti che
sempre le gravitano intorno, parlando rassegnati d'arte, politica e problemi sociali, unici
argomenti che lei si degni di trattare coi tizietti-surrogato. Ma oggi di tizietti non c’è
traccia. Nè c’è traccia di ciondolamenti in P-Maurizio. Arrivano al galoppo contro la
cancellata e chiedono in coro, ansanti:
«È tornato il papà?»
E dalli.
«Non ancora», dico. «Perchè?».
«Così»
Entrano in casa, riescono in giardino privi di libri e di ansia, scendono verso il
ciliegio, lunghi e smilzi tutti e due, lui col sassofono al collo, lei con la cipria color miele,
così grandi...
«Ma', ti è passata la sbronza?» chiede lei.
La sbronza... E già, come dovrebbero chiamarla? Mi hanno vista la sul letto con la
boule sui piedi, a farneticare... Sento, attraverso il torpore, un'altra fitta: di vergogna,
stavolta.
«Ero molto ridicola?» chiedo con falsa disinvoltura?
« Be', abbastanza» dice la Grande, con dolcezza.
«Ma va'», dice P-Maurizio, che deve sempre contraddirla. «Era più sbronzo il papà
di lei».
«Eh?», dico. Questa poi! «Il papà?»
«Certo, non te ne sei accorta?» dice Pop. «Naturalmente è un uomo e la porta
meglio»
Sì, lui porta meglio tutto, penso, con una terza fitta: di gratitudine questa, e punge
più forte di tutte. Anche lui è stanco, anche lui corre, anche lui ha i nervi scossi e i figli
che crescono e la moglie che farnetica: ma porta meglio tutto. È un uomo. Un po'
sbalestrato, magari... Ma un uomo: il mio.
«La tua non è stata una sbronza», continua P-Maurizio, tecnico delle sbronze: non
per niente ha la cotta per una che gira con la fiaschetta del whisky. «È stato un collasso,
l'ha detto anche lo zio Giampiero».
«Non Monique», dice la Grande con un'aria casuale, senza guardare dalla parte di
suo fratello.
Pop diventa tutto rosso, dal colletto della camicia dernier cri fino ai capelli spioventi
alla beatnik. Per darsi un contegno soffia nel sassofono un tremendo tuuut.
«Cosa diceva Monique? » mi informo distrattamente, girando su me stessa con la
poltrona.
«Che non sapevi portare l'alcool», risponde la Grande con un'aria perfida. «Che si
vedeva che non eri abituata ai ricevimenti. Che non eri una donna di mondo. E che non
avevi self control»-.
Ma è vero, penso. La pura verità.
Pop si toglie il sassofono di bocca. «Monique non capisce un tubo» , dice con
flemmatico realismo. «una cretinetti. Tuuut». Nel tuuut è contenuto un profondo e
definitivo disprezzo.
Povera Monique, penso dall'alto della mia dolce, inattesa vittoria. E solo una
ragazzetta. Io, invece, sono la mamma di Pop.
Se ne va per il giardino facendo tuuuut, e cosa m'importa se cresce? È ancora mio.
Anche se ha le lune e ruba cravatte a suo padre e risponde male e certe volte non ci si
capisce niente, è ancora Pop. Lasciamelo un altro po', Signore.
La Grande si siede sull'erba ai miei piedi. «Ma'», dice. «Il Paolo è tornato, hai
visto?».
Respiro fondo. Anche lei è ancora mia: sia pure per poco. «Ho visto», dico. Lei
tiene gli occhi abbassati, con quel suo pudore pieno di felicità e di grazia. «Di cosa avete
parlato?», chiedo. «Pittura astratta? Marxismo? Cigni e cignetti?».
Lei ride e alza gli occhi perfettamente azzurri.
«Tu di che cosa parlavi col papà, i primi tempi?».
«Chi se ne ricorda. So solo che litigavamo sempre. Ma non di politica»
«Neanche noi di politica», dice. E sorride, un piccolo sorriso innocente e segreto.
«Ma', a quanti anni vi siete sposati voi?».
O cielo, siamo già a questo punto? «Diciotto e mezzo io, venti e mezzo tuo padre.
Pazzi completi. Ma c’era la guerra»
Sospira. Forse si augura che venga una guerra per avere la scusa di sposarsi presto:
a diciotto anni si è capaci di questo. Mia giovane deficiente... tu avrai un sacco di tempo.
Per goderti la tua stagione d'attesa, per litigare, per conoscere, per riflettere; per
cambiare, forse. E per restare ancora un po' con la tua mamma.
«Dovrei uscire con lui, oggi», dice timidamente. «Posso?»
Le dico di sì.
Sbuca fuori dalla casa la Piccola con un codazzo di bestie eccitate: «Arriva il papà!
L'ho visto dalla finestra della cucina!» grida ai fratelli, che le si precipitano dietro verso la
cancellata. Boh... Cosa diavolo gli sarà preso, a 'sti figli pacifici, per essere tanto agitati?
Se non mi sentissi così aprile-dolce-dormire sarei già in piedi, col motore acceso, a cercar
di scoprire il mistero. Invece resto a dondolare nella poltrona coi miei blandi
interrogativi.
La Bestia scivola bofonchiando lungo la cancellata, si ferma davanti all'ingresso. Il
Gamberini scende, con l'aria spiritata e uno scatolone enorme sotto un braccio.
Scompare in casa. Anche i ragazzi, passandomi davanti come saette, scompaiono in casa.
Anche i cani e i gatti. Resta solo il Giacinto che mi guarda sbattendo le palpebre. Che
fuccede? Boh, gli dico tirandomelo in grembo per la collottola. Ne so quanto te. Stiamo a
vedere, noialtri due minorati.
Passa un bel po' di tempo, in casa si sentono grida e abbaiamenti, mentre io e il
Giacinto continuiamo a ruotare interrogativamente sulla poltrona. Finalmente compare il
Gamberini, senza giacca nè scatolone. Lo scatolone l'hanno i figli. Cani e gatti appaiono
esaltati.
Lui scende verso il ciliegio, mi si ferma di fronte, mi guarda. Senza parlare, senza
sorridere.
«Sei ancora arrabbiato?» chiedo intimidita.
« No», dice sgarbatamente. «Stai bene?».
«Mi gira solo la testa», dico. E mi si è fermato il motore, ma questo lo penso
soltanto.
«Ti sei resa conto che sei scassata?» chiede.
Mi stringo nelle spalle. Meglio non compromettersi.
«Se non te ne sei resa conto tu, ce ne siamo resi conto anche troppo noi»
Con un gesto imperioso chiama i figli, che posano lo scatolone e si schierano al
suo fianco in atto d'accusa. « Devi riposare almeno sei mesi! » è l'ordine. «Hai lavorato
troppo»
« Ma come, se dicevi che non faccio mai niente e passo le giornate a saltare di
ramo in ramo».
Ignora lo strale. « Per almeno sei mesi, niente romanzi. Prima di cominciarne un
altro dovrai avere il permesso scritto, con tutt'e quattro le nostre firme, più quella della
Rosa. Niente racconti. Niente cronache...
«Se proprio al tuo direttore ci servono le cronache gliele scrivo io» , dice la
Piccola, magnanima. Cronache di una figlia, gliene faccio giù un putiferio».
«E niente cachet», prosegue il Gamberini. «Non sperare di farla franca in mia
assenza, perchè i figli ti sorvegliano. Niente tranquillanti o stimolanti, niente schifenzie di
nessun genere»
«E niente brindisi, immagino» dico compunta.
Mi sorride un momento con gli occhi, poi torna severo. «In quanto alla casa, ti
concediamo di andar a fare la spesa con le bestie, se no ci fai una malattia e le bestie
pure, ma per il resto la Rosa deve cominciare ad arrangiarsi. E i figli a rendersi utili».
«Io gratto il formaggio», dice Pop.
Insomma, sto a posto.
«D'accordo» dico umilmente. «D'accordo, riposerò. Mica ci credo, si capisce. So
benissimo che tra due giorni, forse anche due ore, tutto sarà esattamente come prima,
ma perchè dirglielo? Sono così pieni di buone intenzioni. E io di riconoscenza.
«Per rallegrare il tuo ozio», dice il Gamberini, «ti abbiamo portato una cosa».
Lo scatolone: i figli lo mettono ai miei piedi. Lo aprono. Mi guardano. Io guardo
nello scatolone. Oh NO! Non può essere, sto sognando. Mi stropiccio gli occhi e
riguardo. E ancora lì: piccolo, assonnato, con la coda che va.
«Ma... ma è un altro Bao» bisbiglio storditamente.
«No, è una Baina», dice teneramente la Piccola. «Così gli facciamo fare la
famiglia».
Pure la famiglia,
Mi mettono la Baina sulle ginocchia, vicino al Giacinto che già ci stava. Il Giacinto la
guarda sbattendo le palpebre. E che è quefto? Un cane piccoliffimo, un peluche groffiffimo o un
bambino coi peli? La tocca con la zampina, la assaggia con la lingua, starnutisce. Non capifco.
La Baina si mette a guaire: ha paura del Giacinto. I figli si buttano via dal ridere. I cani
abbaiano. Io accarezzo piano la Baina, stento ancora a credere che sia vera. E uguale al
Bao quando era piccolo, ma ancora più piccola, e color miele. Con gli stessi dolci occhi a
mandorla e le stesse morbide zampotte e lo stesso modo di farmi subito pipi addosso.
Qualcuno in più da amare e da curare, e per cui trepidare e correre. Oh, Dio.
Con un sospiro metto per terra la Baina, che comincia subito a razzolare goffamente
di qua e di la, scodinzolando e rosicchiando voracemente tutto quello che trova, rosai
scarpe sassi gatti vestiti tulipani muri. Una specie di piccola, grassa, indefessa
perforatrice. Il giardino si riempie di grida e di risate. La riacchiappano, me la mettono in
grembo:
«Ti piace?» chiedono esultanti. « Sei contenta»?.
Sì, sicuro, tra poco sarò contentissima... Adesso sto solo cercando di rendermi
conto.
«Pensa quando farà i baini», dice la Piccola.
Ci penso.
«Ti lamentavi tanto, ieri, che i figli sono troppo grandi» dice il Gamberini. «Così
avrai tanti cuccioli, piccoli finche vuoi, per esercitare la tua vocazione da balia».
«Poi quando sono svezzati li vendiamo e diventiamo ricchi», dice Pop, l'umorista.
Sì, me l'immagino. Lo so già come andrà a finire.
«Certe volte ne fanno anche dodici», dice la Piccola.
Dodici per quattro uguale quarantotto, zampe, più le quattro della Baina fanno
cinquantadue, più le otto preesistenti fanno sessanta, che a una media di trenta uscite e
rientrate quotidiane fanno milleottocento zampe quotidiane da asciugare. Tanto per
riposare meglio. Di colpo mi butto indietro nella poltrona a ridere, a ridere, con le
nuvole e le foglie che girano intorno e qualcosa che mi ronza dentro. È il motore. Il
motore che si è riacceso.
«Ehi! » le foglie e il cielo si fermano e gli occhi gialli mi guardano. «Sei di nuovo
sbronza?».

No, non sono sbronza. Sono matta: sono felice. Felice di asciugare milleottocento
zampe di cane, di fare la spesa con quattro (per ora) gatti, di amare tre figli e un marito
solo, di curarli e inseguirli e litigarci, di faticare e scrivere e sbagliare conti e ridere, e
patire anche. Felice di correre, correre per il mio pezzetto di strada, con questo motore
troppo grosso per me.
Lui mi passa la mano aperta sulla faccia, piano.
«Non stare più male» dice.
Sono parole d'amore; ruvide, calde, piene di rabbia e di paura. Deve essersi
spaventato sul serio, ieri sera... È smorto, tirato, con le occhiaie e l'aria di non aver
chiuso occhi. Lui è un uomo e sopporta meglio tutto... Oh, non tutto. E non da solo.
«Ma io sto bene!», dico, col motore che va a mille.
«Non vedi come sto bene?». Ruoto velocissima con la poltrona, e lo sento ridere
tra un carosello di occhi gialli che mi guardano.
Che bellezza che ho il motore acceso. Che posso ancora aiutarlo, e amarlo, e
dividere con lui il dolore dei figli che crescono e dei ricordi che rimpiccioliscono in
fondo al tunnel degli anni.
Correrà via nel tunnel anche questo momento d'aprile, così dolce e pieno.
Correranno via i figli e gli anni e i mattini: ma dovremo viverli, prima. Viverli! Presto
verrà l'estate: San Mamete, la Darsena, i ghiri, i disegni della luna tra i noccioli... L'estate!
Ma è qui a un passo, l’estate! E io ho un sacco di roba da fare, prima. Altro che star qui a
discorrere di tunnel e di cose che corrono via. Sono io che corro via, col motore acceso e
la famiglia alle calcagna, fuori da questo momento d'aprile e da queste cronache.
BRUNELLA GASPERINI

NOI E LORO

CRONACHE DI UNA FIGLIA


NOI E LORO

L'ultima pensata dei grandi è che vogliono portarmi dallo psicanalista. Me. Hanno
fatto un sacco di discussioni, detto un sacco di cose strane, fatto un sacco di confusione,
e hanno concluso che mi ci vuole lo psicanalista. A me.
Non che sia molto preoccupata. Lo psicanalista amico della mamma è un signore
coi baffi piuttosto simpatico che parla molto, bla bla bla, con voce morbida e suadente,
così non avrò bisogno di parlare io, e neanche di ascoltare suppongo, basterà che dica
ogni tanto be', bah, bob, come faccio sempre quando parlo coi grandi. Cioè quando i
grandi vogliono parlare con me.
Non sono preoccupata, solo non mi va di buttar via un pomeriggio in bla bla bla
solo perchè i grandi hanno letto dei libri sull'adolescenza. Anzi, sulla "età dello
sviluppo", frase che odio e che i grandi usano sempre nei miei riguardi da un paio d'anni
in qua. Qualsiasi cosa faccia o dica o mi capiti, se piango se rido se parlo se non parlo se
dico boh se scrivo poesie se il reggiseno mi dà fastidio se sono cotta dell'Antonio se
sono stufa dell'Antonio, se qualsiasi cosa, i grandi si guardano tra loro con aria esperta e
dicono: "È l'età dello sviluppo". Qualche volta dicono anche: "Sono fenomeni della
pubertà". La pubertà la odio ancora più dello sviluppo.
Ho quasi quattordici anni, e non mi piace averli. Certe volte mi sembro carina ma
più spesso orrenda. Ancora più spesso, una che non sa di niente. Certe volte sono allegra
ma più spesso triste. Crescere, trovo che è uno schifo. Portare il reggicalze e avere dubbi
su tutto. Quando ero piccola, una cosa bella era bella, una cosa brutta era brutta, io ero
io. Adesso non c’è più niente di sicuro. Una cosa brutta mi sembra bella un minuto
dopo, una cosa bella diventa brutta in men che non si dica, e in quanto a me, è come se
mi corressi dietro nella nebbia. Anche l'Antonio, quando non lo vedo, mi pare tutto fatto
di nebbia: un fantasma su una lambretta. Quando poi lo vedo, è peggio.
Comunque, nebbia o non nebbia, Antonio o no, ecco che i grandi tutto d'un tratto
scoprono che mi ci vuole la psicanalisi. Forse dopo tutto pensano che sia matta. Magari
lo sono, non lo so.
I miei fratelli non hanno l'aria di pensarlo. Che sia matta. Forse perché non sono
ancora del tutto grandi, o forse perché sono matti anche loro, non so. Comunque non
hanno l'aria di pensarlo.
"L'hai proprio beccata brutta" si limita a dire mia sorella, pizzicando la sua
chitarra.
"Beccata brutta cosa?" chiedo con la biro sospesa.
Alza gli occhi celesti: "L'età cretina" dice. "Passare la vita a scrivere poesie e cose
del genere. "
Lei alla mia età passava la vita a disegnare cavalli con le lentiggini. Adesso ha
ventun anni, fa l'università, vince un sacco di borse di studio, e passa la vita a litigare
sempre con lo stesso ragazzo. Per motivi politici. Quando ci son state le elezioni,
giravano insieme per la città a distribuire volantini, uno a destra l'altra a sinistra, senza
rivolgersi la parola e lanciandosi occhiate d'odio. Poi le elezioni sono finite, lui in segno
di pace le ha regalato una chitarra, ma la prima cosa che lei ci ha cantato sopra è stata
una canzone marxista, così hanno ricominciato a odiarsi. Si odiano per telefono, si
odiano per lettera, si odiano di presenza, si odiano sempre, e stanno sempre insieme. Poi
dice che l'età cretina ce l’ho io. Comunque credo di sapere quello che vuol dire. Non che
sono matta. Con mia sorella mi capisco abbastanza, anche se ci parliamo pochissimo, si
e no due parole in tre giorni. È anche la ragazza più bella che conosco, la Bruna. È
bellissima, credo. Ma non è quasi mai odiosa come sono a volte le ragazze belle.
Ricomincia a pizzicare la sua chitarra e io ricomincio a scrivere. Non è che intenda
diventare una specie di scrittrice come mia madre. È che l’estate è ancora lontana, siamo
a Milano, e quando siamo a Milano, scrivere è una delle poche cose che mi piace fare,
oltre sognare la Valsolda e ascoltare La battaglia di Alamo.
"Madonna" dice mio fratello. "Ancora questo frin frin. Quando ti decidi a
raffinare il tuo gusto musicale?"
Lui non parla mai di età, sviluppo, adolescenza, pubertà, credo che odi queste
cose quanto me (anche lui ha avuto una pubertà difficile, dicono i grandi). Se mi rivolge
la parola, di solito è per questioni musicali: visto che di questioni sociali, filosofiche e
letterarie non mi ritiene ancora all'altezza. Però non ha l'aria di credermi scema, anche se
lo dice: "Scema, sei scema, mia sorella è scema. Madonna che scema" lo dice sempre, ma
non credo che lo pensi davvero.
Mio fratello, lui, è il ragazzo più intelligente che conosco. È intelligentissimo,
credo. Anche se ai grandi sembra scemo pure lui certe volte, anzi il più delle volte, credo.
Ha diciassette anni. Fa l'ultimo anno di liceo e si lamenta sempre perché dovendo
studiare per la scuola non gli rimane il tempo di farsi una cultura. Tutti ridono quando
dice cosi, e lui li guarda serio dal fondo dei suoi occhi neri.
È un tipo molto serio, mio fratello, quando non fa cagnara. Quando non fa
cagnara legge, quando non legge suona, quando non suona telefona alla Tessa che è la
sua ragazza. Quando non fa nessuna di queste cose si rotola sul pavimento insieme ai
cani e ai gatti dicendo Usc, Usc, oppure, ma più di rado, si siede di fronte a me, lisciandosi
il mento come se ci avesse sotto una barbetta a punta, e cerca di farmi una cultura
musicale seria. Io ascolto, con la biro sospesa, dico sì e torno a suonare La battaglia di
Alamo. Lui non se la prende. Dice: "O Madonna" e torna di là coi suoi strumenti a fiato.
Il Bao e la Baina abbaiano. Abbaiano sempre, quando il Maurizio suona.
Fino all'anno scorso c’era anche il Bu che abbaiava, ma adesso è morto. Voglio
bene al Bao e alla Baina, ma non come al Bu. Aveva la mia età, che per un cane è tanto;
era vecchio, sordo e quasi cieco, ma stava ancora bene, rubava ancora le pantofole e
rideva con due righe bianche nel muso tutto nero, e adesso è morto. È andato sotto
un'automobile, davanti a casa, per correre incontro alla mamma. Non devo pensarci.
Il Bao e la Baina sua moglie sono due pastori scozzesi, cioè cani da gregge: non
avendo pecore a disposizione, credono che il loro gregge siamo noi e che il loro dovere
sia di tenerci in ordine. Di non lasciarci fare cose irregolari. Quando il Maurizio suona,
per esempio, gli sembra una cosa irregolare. A molti sembra una cosa irregolare. Ma gli
altri non possono abbaiare.
Così quando il papà rientra la sera, tutto intraversato per il traffico schifoso e per
la schifosa banca dove lavora e per moltissime altre cose tutte schifose che sempre gli
capitano, comincia subito a dire, cioè a urlare:
"Che cos'e tutto questo putiferio?" solo che non dice putiferio, dice un'altra parola
ma mi hanno detto che non sta bene scriverla, così scrivo putiferio: è proprio vero, come
dice mio fratello, che si vive nell'ipocrisia.
"Che cos'e tutto questo putiferio?" direbbe dunque mio padre rientrando. "Dischi,
sassofoni, chitarre, cani, ma non senti che razza di putiferio?" grida a mia madre. "Si può
sapere come fai a scrivere con un putiferio simile?"
Mia madre smette di pestare sulla macchina da scrivere e si afferra un ciuffo di
capelli in mezzo alla testa:
"Come?" dice. "È già sera?"
Mio padre, per lei, è una specie di meridiana: sulle sue entrate e uscite lei si regola
per stabilire che ora è.
Mio padre la guarda male: "Non tirarti il capello!" dice. Dice sempre così, al
singolare: "Non tirarti il capello" o: "Lascia stare quel capello" oppure, abbreviato e
tonante: "Capello!"
Mia madre sobbalza, smette di tirarsi i capelli per tre minuti o tre secondi, poi
ricomincia: è come un tic che ha quando è molto stanca o molto assorta. Cioè sempre.
"Guarda come ti sei conciata!" grida mio padre. "Guardati! Guarda lì che roba!"
Con aria vaga lei si alza e va a guardarsi vagamente nello specchio: "E pensare che
una volta ero così carina" dice. Anche la voce è vaga e anche la faccia, ma dentro si
capisce che è triste e stufa e tra poco litigheranno. Litigano sempre. Pare che li cerchino,
i motivi per litigare. E li trovano sempre. E sempre quelli. Lo so che non è veramente
importante. Che in fondo si vogliono bene e tutto quanto. Ma se ne ricordano così di
rado.
Non dovrebbe importarmene. Quando ero piccola non me ne importava, credo,
era come sentire un disco noto. Adesso è ancora un disco noto, ma così noto che viene
voglia di romperlo e basta.
Forse è vero che non sono tanto giusta nella testa. Se no non starei così male
perché due litigano come hanno sempre litigato. però non credo che c’èntri lo sviluppo o
la pubertà o simili schifi. Non so quel che credo.
"Nicolettttta!" dice mio padre affacciandosi. Dice sempre il mio nome cosi. "Tira
giù le tapparelle!" Mi dice sempre di tirar giù le tapparelle. Odio le tapparelle.
"Ti pare bello" dice mio padre "che tutta la gente della casa di fronte ci guardi
dentro? In questo putiferio di casa?"
"Boh" dico.
"Non dire boh! Sai dire solo boh! E smettila di scribacchiare!" grida strappandomi
la biro di mano e scagliandola in terra. "Cos'hai sempre da scribacchiare? Impara a
parlare, invece!"
"Maurizio!" grida. Adesso tocca a mio fratello, posso riprendere la biro.
"Maurizzzzzio! La segatura!"
In casa nostra, per via dei gatti, si fa un gran consumo di segatura; e quello che
deve andare a prendere la scorta in cantina è mio fratello, che fa finta di non saperlo e
continua a suonare Bag's groove. Dice che quando suona non ci sente.
"Metti un po' via quel trombone!" urla mio padre. Chiama "tromboni" tutti gli
strumenti a fiato di mio fratello: sassofono, flauto, clarino, per lui sono tutti tromboni.
Qualche volta, più di rado, pifferi. "Te li butto dalla finestra quei pifferi! Te li spacco in
testa quei tromboni!"
Mio fratello niente.
"Bruna!" grida mio padre. "Bruna, e tu cosa aspetti, l'Aga Khan?" Secondo lui mia
sorella, non essendo capace di far niente in casa, potrebbe sposare solo un miliardario.
"Lo scia di Persia è già sposato!" le grida. "L'Aga Khan è fidanzato! E Marx è morto! "
aggiunge ricordandosi le teorie della Bruna.
"Marx non era poi un gran buon partito" riflette mia madre dubbiosa. La Bruna
continua a suonare la chitarra.
"Rosa!" chiama mio padre, sapendo benissimo che la Rosa non c'è. "Dov'e Rosa?
Dov'è quella debilitata della Rosa?"
Da quando si è sposata, l'anno scorso, con un giovane. veneto (lei è meridionale)
immigrato a Cinisello, la Rosa non l'abbiamo più fissa, viene a giornata e finisce, il suo
disservizio alle sei e mezzo. In tempo per non incontrarsi con mio padre, del quale ha
terrore quasi quanto mio padre ne ha di lei. Quando la Rosa è in casa, mio padre non le
rivolge mai la parola, se non a distanza e a mezzo interprete. Dice che il linguaggio afro-
veneto della Rosa debilita il suo sistema nervoso. Come se non fosse già debilitato. Solo
quando è ben sicuro che la Rosa non c'è, si sfoga a chiamarla e a dirle quel che pensa di
lei e dei suoi disservizi.
"È questo il modo di piegare una camicia? È questo il modo di stirare un
colletto?"
"Signore, se non sda gondendo ga de sdirarseli lu" dice mia madre imitando il
linguaggio afro-veneto della Rosa.
"Non fare la pagliaccia!" dice mio padre. "La casa va a rotoli e lei cosa fa? La
pagliaccia!" Amareggiato, riprende a percorrere l'appartamento a passi di lupo,
impartendo ordini inascoltati. Se la voce gli si addolcisce, vuol dire che sta parlando coi
gatti. Povero gattino lui, Bella gattina lei, e via dicendo. Mio padre va matto per i gatti.
Ne abbiamo tre, adesso. Altri tre. Fino a due anni fa avevamo quattro bellissimi soriani:
la Gion, pigra e sdegnosa, tutta a righe nere e argento, il Miu e il Rififì, suoi figli
matterelloni, e il Giacinto, trovatello sporchino strabichino stupidino prediletto della mia
mamma. Sono morti tutti. I tre maschi di una malattia infettiva, e la Gion di dolore.
"Mai più gatti" ha detto quella volta la mamma. "Non parlatemi più di gatti, mai
più"
Sei mesi dopo avevamo il Pluto e la Giovanna: ovvero, Black Diamond Pluto of
Beautyland e Joanna Dominique de Richmond Bleu; goffi, tonti e pelosi da matti,
due piccoli mammut col pedigree. "I persiani non sono gatti come gli altri" diceva la
mamma, per salvare la faccia. "Non sono neanche veri gatti. Sono tipi casalinghi, non c’è
pericolo che vadano in giro a prendersi bacilli." I due nobilgatti la guardavano di sotto il
pelo, ronfando meditabondi, e poi via in cerca di bacilli. E allora, bacillo più bacillo
meno, l'anno scorso abbiamo raccolto in giardino una gattina plebea neonata e dispersa,
con due bande nere sul musino bianco, piccola come una pulce, furba come la morte,
con un'aria da angel-gattina e una voce da carrettiere ubriaco. "Euh, la Peppa! " diceva il
papà quando la sentiva miagolare; il nome le è rimasto, ed è rimasta anche lei. Sono
abbastanza simpatici, questi nostri gatti. Tutti i gatti sono gente simpatica. Però i miei
gatti sono quelli che stanno sepolti sotto il larice a San Mamete, e non saranno mai altri
che quelli.
I grandi, loro, dimenticano prima.
Dunque, dicevo, il papà va matto per i gatti. E si arrabbia perché invece i gatti
vanno matti per la mamma. Come del resto i cani, i figli, la Rosa, gli amici ed i parenti
tutti, secondo lui. Tutti stravedono per mia madre e tengono in non cale lui. Credo che
pensi cosi. Credo che sia per questo che urla tanto.
Io non lo tengo in non cale. Vorrei solo che parlasse con noi non dico con la voce
flautata che usa per i gatti, ma con una voce normale. Senza tutti quei t dentro il mio
nome. La mamma dice che non è colpa sua. Che ha fatto nove anni di servizio militare, e
gli è rimasto il complesso della caserma. Sebbene odi le caserme e tutto ciò che le
concerne. Boh.
Mi piacerebbe avere un padre come il nonno Emilio, che non alzava mai la voce e
tutti ubbidivano prima che parlasse. Ero molto piccola quando è morto, ma la mamma
ne parla spesso e credo che non conosco nessuna persona viva come conosco il nonno.
Stava su una poltrona a ruote e aveva le mani bellissime e gli occhi che sapevano tutto.
Era un uomo straordinario, mio nonno. Un po' come Atticus Finch nel Buio oltre la
siepe. Mite, ironico e giusto. È il mio migliore amico, il nonno.
Mio padre è mio padre.
Di là vengono i soliti rumori serali di casa mia, acciottolii, scrosci, musica, latrati,
grida, acqua corrente, miagolii, porte sbattute, di nuovo grida. Maurizio-segatura, Bruna-
Agakan, giù le zampe maledizione, oh povero gattino lui, dov'è quella debilitata della
Rosa?, capello!
Mia madre per la casa peregrinando va, col ciuffo in mano, pensando cose tutte
diverse da quelle che fa. Mia madre pensa sempre cose diverse da quelle che fa. Mio
padre dice che un giorno si troverà sul fondo del mare in un sottomarino e vedendo i
pesci fuori dall'oblò dirà sorpresa: "O bella, ma allora non ho preso il tassi! "
Lei dice che di sottomarini al posteggio non se ne trovano, quindi non c'è
pericolo. E poi i sottomarini non hanno oblò. Vero Maurizio?
"Cosa vuoi che sappia il Maurizio" dice mio padre. Per lui il Maurizio non sa mai
niente. E troppo colto per sapere qualcosa.
"Mettete in ordine" dice mia madre spostando un po' di oggetti per far vedere che
a una donna di casa. "Cosa vi ci vuole a mettere in ordine le vostre stanze?"
Come se lei mettesse in ordine la sua.
In casa mia nessuno mette in ordine niente e tutti accusano gli altri di non mettere
in ordine. L'altro giorno, quando si è trovato il sassofono nella lavatrice, la Rosa
accusava il Maurizio di avercelo messo per sabotare i suoi bucati, il Maurizio accusava la
Rosa di avercelo messo per sabotare i suoi assolo, mentre poi si è scoperto che ce l'aveva
messo mia madre in uno dei suoi momenti di trance.
"Credevo di aver messo i calzini nella testa," ha spiegato "e invece ho messo il
sassofono nella lavatrice. "
Mio padre dice che un giorno mia madre crederà di mettere il sale nella minestra e
invece metterà il tritolo sotto il letto.
"Voi non lasciate in giro tritolo,'' dice la mamma "e non succederà niente."
Mio padre non sembra persuaso, da come la guarda. "Non tirarti il capello" dice
macchinalmente, ma si vede che pensa ad altro. Al tritolo, forse. E a me dice:
"Allora, queste tapparelle? Parlo arabo? Tappa-rel-le!"
Le tiro giù e mi sento molto infelice. Per le tapparelle e per mio padre e per mia
madre e per tutto. Siamo tutti così soli. O forse sembra a me, non so. Tutti parlano,
parlano, ma non si ascoltano mica. A me non sembra che la gente ascolti la gente.
Loro dicono che sono io che non ascolto. Che non parlo, che sono astratta, che
non sto mai su questo mondo, e bla bla bla. Dicono che ho le inibizioni e le coazioni e le
nevrosi della pubertà. Bla bla e bla.
Certo che questo mondo non mi piace molto, e se posso non ci sto. Ma non è che
sono astratta. Non so cosa sono. Non mi piace esserlo. però non mi piace neanche
andare dallo psicanalista. Cosa vuoi che sappia lui di me. I grandi non sanno mai niente.
Forse mia madre saprebbe, ma non ha tempo, si distrae e si dimentica di lei e di me.
Forse per capire che cosa sono dovrei psicanalizzarmi da me. Risalire al principio
e così via, ma dov'è il principio? Quando ero piccola, ero libera e felice. Quand'è che ho
smesso di essere piccola? Quand'è che mi sono trovata così, tutta legata e piena di storie?
Reggicalze, reggiseno, reggipensieri, storie su storie? Certe volte le mie storie mi
piacciono, certe volte no. Più spesso no.
Avrei dovuto scrivere questo quaderno tanto tempo fa, quando ero sgrammaticata
e sicura di tutto quel che dicevo e che gli altri lo capissero. Libera. Non sarò mai più
libera. Quando ci penso, è terribile.
Le cinghie delle tapparelle sono dure, a meta si incantano sempre, e anch'io. Fuori
piove. Dalla mia finestra si vedono tante altre finestre. Non è la mia casa, questa. È solo
la casa in cui abito aspettando l’estate. La mia vera casa è piccola, rossa, coi piedi in lago
e i ghiri sul tetto e un vecchio giardino dietro coi tigli il larice i noccioli e un oleandro
bianco. Basta chiudere gli occhi e la vedo. Ricordare. Ricordare mi piace. Molto più che
vivere.
Vivere, trovo che non ha mica molto senso. Ha senso, la vita di mio padre, andare
in ufficio al mattino e tornare a casa la sera a urlare? Ha senso la vita di mia madre, fatica
trance antinevralgici e mucchi di allegria compressi o sprecati?
Forse ci sarà, un senso, ma quando lo capirò sarò vecchia. Non voglio diventare
vecchia.
Meglio tornare indietro. Basta chiudere gli occhi. La darsena, il lago, la valle verde,
il fiume, le montagne su cui volano i nibbi. La voce della Rosella che mi chiama dal molo
e l'Antonio che gonfia il canotto di gomma e dice...
"Nicoletttta!" non è l'Antonio, è mio padre. Le tapparelle, le tapparelle, va bene.
La casa rossa a scomparsa, scomparso il molo, l'Antonio, l’estate. Aspettatemi,
torno.
Giù le tap-pa-rel-le.
CIAO, PRINCIPESSA

"Dai, muovetevi, deficienti, forza, dai! " grida una voce nel corridoio, e questo è il
mio risveglio mattutino.
Svegliarsi, trovo che è uno schifo.
A San Mamete no. E bello svegliarsi, là. La prima cosa che sento sono gli uccelli,
poi il lago che gorgoglia di sotto, e quando apro gli occhi c'è un colore verde nell'aria
rigata dalle vecchie persiane. Poi si sentono le voci. Voci estive, senza fretta, tutte
giovani. Anche la mamma ha una voce giovane, a San Mamete. Qualche volta anche il
papà, quando c'è. Io ascolto le voci, il lago, gli uccelli, e mi sveglio a poco a poco in quel
colore verde.
Poi apro le persiane verso il giardino, e lì sul prato c’è l'Antonio che aggiusta la
lambretta. L'Antonio aggiusta sempre qualcosa. Se non è la lambretta, è il canotto di
gomma, o il ping pong, o qualsiasi cosa gli capiti, e poi tutto risulta più rotto di prima.
"C’è l'hai un cacciavite?" dice pulendosi le mani nella maglietta a righe rosse e blu.
"Se hai un cacciavite, dopo ti porto in lambretta."
Ma non ho il cacciavite. E non voglio andare in lambretta con lui. Tutto è
diventato molto difficile. Fino all'estate scorsa non lo era. Andavamo insieme su per i
sassi del fiume e in barca e sentivamo gli stessi dischi e lui era gentile con me (zulù con
tutti gli altri) e io credevo che bastasse. Poi l’estate è finita e l'ho visto con delle ragazze
più grandi e ho capito che non bastava. È stato brutto, capirlo. Niente è più stato come
prima. Non voglio pensarci.
Preferisco pensarlo lì sul prato che aggiusta la lambretta con la maglietta sporca
d'olio e le cicale che cantano sopra la sua testa, in un'estate immaginaria, sospesa tra il
passato e il futuro.
Comunque non ho tempo di pensare un bel niente, devo alzarmi. Alzarsi, trovo
che è uno schifo.
"lo sono in piedi da un'ora!" grida la voce nel corridoio "e questo deficiente a
ancora lì con una calza in mano.''
Quello che è in piedi da un'ora è mio padre. Quello che ha una calza in mano è
mio fratello. Tutte le mattine.
"Qui finisce a sberle" grida mio padre, che non ha mai preso a sberle nessuno.
"Schiaffoni, schiaffoni!" ribadisce tra un colpo di tosse e l'altro. Siccome fuma
moltissimo, al mattino ha sempre la tosse, e più tossisce e più grida.
"Mgnr nu go nu" risponde mio fratello mentre si infila la calza. Cioè mentre cerca
di infilarsela, a tentoni, con gli occhi chiusi e quei suoni che gli vengono su come da una
caverna.
"Parla chiaro!" grida mio padre. "Non garufare!" Garufare è un verbo che gli
piace molto." Guarda che stamattina non ti aspetto! Non sono il tuo autista! Parto e ti
lascio a piedi!"
Glielo dice tutte le mattine. E tutte le mattine lo aspetta. Mio fratello lo sa.
"Gr no un pgnu" risponde mentre cerca di infilarsi l'altra calza.
"Bruna!" urla mio padre risalendo il corridoio. "E tu cosa aspetti a tirarti fuori?
Carlo Marx?" Quando parla con mia sorella, nomina Marx ogni due frasi.
"Sto studiando" risponde dal chiuso la voce martirizzata della Bruna.
Le lezioni all'università cominciano tardi, la Bruna potrebbe andare avanti a
dormire altre ore, ma mio padre non sopporta che i figli dormano mentre lui è sveglio.
Mia sorella lo sa. Perciò sta seduta sul letto con un libro in mano, probabilmente
capovolto, aspettando che mio padre sia uscito per lasciar cadere il libro e risprofondare
nel letto e nel sonno. Mio padre credo che lo sospetti, ma non ne ha le prove e non sa
come procurarsele, visto che non osa più entrare all'improvviso nella stanza di una figlia
così grande. Si limita a guardare con diffidenza e furore la porta chiusa. Poi viene a
spalancare la mia.
Orc! " dice richiudendola subito: vedendomi alle prese col reggicalze si è ricordato
che sono diventata grande anch'io.
"Com'e che ti stai già alzando?" dice arrabbiatissimo dietro la porta. "Non potevi
stare a letto ancora un po'?"
Stare a letto mi piace. Ma al primo urlo mattutino di mio padre mi alzo subito,
non perché abbia paura di mio padre, ma perché ho paura che mi facciano fretta. I miei
genitori hanno sempre fretta: dai, forza, su, muoviti, avanti, presto. Odio far presto.
Odio la fretta e il forza dai. Deve essere una nevrosi anche quella lì.
I miei fratelli di nevrosi non ne hanno. Hanno sonno e basta.
Mia madre, anche lei ha sonno. Però anche lei al primo urlo si alza, non si capisce
bene perché, dato che non connette e non fa altro che vagare sbadigliando qua e là col
ciuffo in mano e sciami di cani e gatti attorno, dicendo vagamente: non gridare che ho
mal di testa, fate presto, parla piano, su muovetevi, ahi la mia testa. Cosa che manda in
bestia mio padre, e dopo oltre vent'anni di matrimonio lei dovrebbe essersene accorta,
invece no. O forse se n'è accorta, ma si alza proprio per questo, per sviare gli urli paterni
dai figli offrendo se stessa come bersaglio. L'aria eroica ce l'ha.
Il risultato è che mio padre urla anche con lei.
Uscendo di camera la trovo appiattita contro il muro, con la sua vestaglia a puntini
e l'aria da sonnambula, mentre mio padre passa rombando avanti e indietro come una
palla da cannone con la tosse. Il Bao e la Baina, stretti alle gambe di mia madre,
uggiolano perplessi. Fanno sempre così quando mio padre grida. Vorrebbero mettergli
ordine, ma non osano.
Con un terribile GNAU GRRAU AU AU la Peppa gli zompa in spalla dandogli
rapide musate di simpatia. Mio padre le piace molto, alla Peppa: tra urlatori ci si capisce.
Il Pluto invece fugge via per il corridoio, slittando paurosamente, le orecchie indietro, gli
occhi arancione sbarrati, il pelo tutto irto. Grosso e truce com'e, con quell'aria da pantera
nera cotonata, è il gatto più goffo, affettuoso e fifone che abbiamo: eccolo che rotola tra
i miei piedi facendo ih ih, che e il suo modo di miagolare. Grosso gattonero con piccola
voce bianca. "E questo sarebbe il nostro stallone" dice teneramente mia madre. "Con
quella voce lì, come vuoi che faccia a far gattini." Come se i gattini si facessero con la
voce. Sbattendo gravemente gli occhi gialli sotto il pelo grigio, la Giovanna siede come
un mammut in mezzo al corridoio, meditando sulle cose umane. Non fa altro, la
Giovanna. Come la gatta Gumbie Cat di Thomas Eliot "ella siede e siede e siede e
siede - ecco quello che fa". È la gatta più scema che abbiamo. "Cosi scema," dice
amorosamente mia madre "come vuoi che faccia a far gattini." Come se i gattini... boh.
Sulla porta del bagno piccolo mi incontro con mio fratello. Ha tutte e due le calze,
ma gli occhi circa chiusi.
"Usc" dice con gentilezza. Significa che io devo aspettare e lui entrare. Infatti
entra.
Potrei andare intanto nel bagno grande, che è libero, ma tutte le mie robine,
spazzole spazzoline, spugne spugnette, saponi saponcini, pomici pomicine, le ho nel
bagno piccolo, e senza robine come faccio? Mia madre dice che ho la nevrosi delle
robine.
Mi appoggio allo stipite del bagno piccolo, prendo in braccio il Pluto col motore
acceso, e aspetto. Aspettare non mi dispiace. Si può pensare, intanto.
San Mamete, l’estate. Un mattino di luglio qualsiasi. Nell'aria verde della mia
soffitta (la mia stanza è in soffitta) si disegna la voce della Rosella che mi chiama dal
molo. La Rosella ha quattordici anni, gli occhi azzurri, quando ride assomiglia a un
castoro, e passa tutte le estati nel giardino dei suoi nonni, che è quello di fianco al nostro,
al di là del molo.
"Nicoletta!" chiama la sua voce nell'aria verde. " Vieni in barcotto?"
Il barcotto è una vecchia barca corta e grassa che usano la Rosella e i suoi fratelli e
prima di loro usavano i loro genitori, i nonni, i bisnonni e così via. Proprio come noi col
canotto Domokos, prima che l'uragano lo sfasciasse, l'anno scorso, una notte che s'era
slegata la corda e noi non c’eravamo. Aveva cento anni, è stata come la morte di una
persona che si ama. La sua prua sta nel verandone a lago, piena di fiori.
Così noi siamo rimasti senza barca, tranne quelle di gomma che non contano, non
cigolano neanche, non hanno ricordi. Non sono barche.
"Un'altra barca?" dice la mamma quando il papà arrivava a San Mamete pieno di
prospetti e di prezzi di barche. Lei non li guarda nemmeno. Guarda, di sfuggita, la prua
del Domokos piena di fiori e di infanzie lontane. "Noi non vogliamo nessun'altra barca"
dice.
In fondo neanche il papà la vuole, credo. Solo che gli piace parlare di acquisti, di
prezzi e di soldi da spendere. Che non abbiamo. Quando li abbiamo gli piace meno. Li
spende e basta.
Dunque la Rosella mi chiama dal molo per andare in barcotto, e...
"Dudududaa duda dududaaa", non è la Rosella, è mio fratello che esce dal bagno;
con gli occhi aperti, sebbene non molto svegli, e l'astratto canticchiare che gli è proprio e
che mio padre chiama, con disprezzo, duduare. "Smettila di duduare, deficiente! Sei
ancora lì a duduare?''
"Comoda comoda" dice mio fratello indicandomi il bagno, e se ne va duduando.
"Comodi comodi" è una frase che dice sempre il suo preside quando entra in classe, per
dire che si siedano pure. Adesso tutti gli studenti del suo liceo la usano per un sacco di
cose, e anche le famiglie degli studenti.
Io metto giù il Pluto ("comodo comodo") e mi addentro nell'alluvione tra isole di
segatura. La segatura dipende dal fatto che il bagno piccolo è riservato, oltre che a me e
mio fratello, anche ai gatti. L'alluvione dipende dal fatto che ci si è appena lavato mio
fratello. Comunque le mie robine sono a posto, perché se me le toccano ci patisco e mio
fratello lo sa. Non le tocca mai. Nello specchio appannato dal vapore la mia faccia sotto
la fascetta di nailon solito mistero. Faccina tonda, naso all'insu, occhi marrone, un sacco
di capelli nocciola. I pezzi li conosco, ma l'insieme? Cerco di guardarmi come mi
guarderebbe un estraneo ma non ci riesco. Boh. Ha inizio la cerimonia robine.
Fuori sono ricominciati i boati paterni:
"E lui dudua! Sono le otto meno tre e lui cosa fa? Dudiza! Gliene importa assai, a
tuo figlio, se io perdo il posteggio! E digli qualcosa! Sgridalo anche tu, invece di star lì a
dire non gridare. Come si fa a non gridare, in questa casa di lavativi!" Lavativo (lavativa,
lavativi, lavative) è un vocabolo che mio padre usa spesso, la mamma dice che è un
residuato bellico. "Tu tieni sempre per loro!" grida mio padre. "Loro" sono i figli. Per
noi, "loro" sono i genitori. "Tu non li sgridi mai! Per forza va tutto a ramengo! Non c’è
disciplina in questa casa!"
Immagino la faccia sofferente di mia madre alla parola disciplina.
"E già, sei democratica, tu!" interpreta mio padre con voce sardonica. Quando è
sardonico è tremendo. "Sei anticonformista! Qui a furia di anticonformismo democrazia
e altre balle" lui dice così "si finisce nell'anarchia."
"Io sono anarchica" dice la voce di mia madre, flebile ma convinta. "Ahi, la mia
testa."
Adesso sono capaci di andare avanti mezz'ora. Con tutta la fretta che hanno
sempre, perdono tre quarti del tempo a dire e fare sempre quelle cose. Intanto si
dimenticano di far fretta a noi, e questo dovrebbe essere un vantaggio. Lo sarebbe se
fossi sorda. Ma non lo sono. Tutte le mattine la stessa storia, c'è senso? C’è senso anche
a guardare quella mia faccia lì nello specchio, tutte le mattine? Boh.
Lo specchio appannato diventa un lago, la mia faccia una piccola vecchia barca
che cigola via sull'acqua verde.
"Non potete andare in barcotto!" grida dalla riva la voce del Federico, fratello
della Rosella. "Non potete andarci! Fa acqua!"
Da quando sono nata sento dire che il barcotto fa acqua, che non ci si può andare,
e da quando sono nata tutti ci vanno. Era lo stesso col Domokos. Certo anche ai nostri
nonni e bisnonni qualche fratello o cugino avrà gridato dalla riva: "Non potete andarci!
Fa acqua!" e loro saranno sguazzati via tranquilli, come me e la Rosella adesso, una
remando e l'altra vuotando acqua col pentolino, verso la riva opposta, deserta e
frusciante, dove in giugno si trovano le fragole e in agosto le more e in settembre il
profumo dell'olea fragrans e sempre si chiama l'eco della conca (Nicoletta! Etta! Rosella!
Ella! Scemo! Emo!) e si esplorano sentieri selvaggi e si scalano dirupi e si casca in acqua
vestiti e si perdono i sandali, e la nonna della Rosella dice: "Non avrete perso di nuovo i
sandali!", ma certo anche lei cento anni fa ha perso i sandali nella conca della riva
opposta. E certo anche lei ha giocato e inventato storie nella Casa dell'Inglese.
"E mi raccomando, non andate alla Casa dell'Inglese!" ci dice ogni volta.
"Potrebbe crollare la scala! Potrebbe cadervi una trave addosso! Potrebbe mordervi una
vipera! " e non dice la sola cosa che pensa: potrebbe tornare l'Inglese. "Non andateci, vi
raccomando!" ci grida dietro per un po', ma fiaccamente, perchè sa che ci andremo lo
stesso; non per disubbidienza, ma perché quando arriviamo alla conca dell'eco e la Casa
compare dietro gli scogli, antica e segreta, col cielo attraverso i buchi delle finestre, e
impossibile non andarci. È come una voce. La voce dell'Inglese, che era un poeta o un
pazzo e aveva ucciso un uomo.
Noi non l'abbiamo mai conosciuto. Forse è morto, certo non è più tornato. La
mamma sì l'ha conosciuto, e quando ne parla ha una voce strana, giovane e remota,
come una fiaba, ma non è una fiaba, e quando noi corriamo su per le scale diroccate,
tutte coperte d'edera e di felci, ci aspettiamo quasi di trovarlo lì seduto nell'arco della
finestra grande, la pipa tra i denti, il fucile sulle ginocchia, il cane ai piedi, a guardarci coi
suoi chiari occhi di vagabondo, e non abbiamo paura: è un vecchio amico, l'Inglese.
Speriamo sempre che un giorno tornerà. Forse sarà quest'estate. Amava la Valsolda
come noi, se è vivo non può non tornare.
Anche la mamma spera che torni, credo. Lei non ha smesso di credere alle favole,
anche se non ha più tempo di pensarci.
Così, mentre leghiamo il barcotto, la Rosella dice: "In fondo, non abbiamo mica detto:
sta' tranquilla, nonna, non andiamo alla Casa dell'Inglese" e qui fa la voce in falsetto, come
sempre quando riproduce un dialogo, vero o inventato che sia. "Non abbiamo detto niente.
Zitte e basta. Dunque non è reato. Ti pare reato?"
"No" dico. È quasi sempre lei che parla, io dico lo stretto necessario.
"Allora ci andiamo?" dice. "Sì" dico. E ci andiamo.
Le felci frusciano sotto i sandali che non abbiamo ancora perso, e l'eco della conca ci
restituisce la voce del vento.
"Allora, ti sbrighi?", non è la voce del vento, è la voce di mio padre dietro la porta
del bagno. Lo sapevo che finiva così. Nello specchio il lago è scomparso, scomparsa la
Casa dell'Inglese, le felci, la Rosella, l’estate. C'è la mia faccia di tutti i giorni, tondina e
senza sugo. La faccia di una che sta per andare a scuola.
"Cosa ci fai lì dentro" grida mio padre. "Gli esercizi spirituali?" È una frase che
dice sempre quando uno tarda a uscire dal bagno.
A me viene il rallentatore. È una cosa che mi succede sempre quando mi fanno
fretta. Più mi fanno fretta e più rallento e non c'è niente da fare. Col rallentatore apro la
porta, col rallentatore esco, e mio padre mi accoglie con una serie di urli, sempre quelli.
Incantata, lavativa, esercizi spirituali, e così via. Sento che mia madre si intrometterà.
Infatti si intromette: "Non aggredirla sempre!" dice. "Lo sai che Olivieri ha detto
che..."
"Me ne frego di Olivieri!" dice mio padre.
Olivieri è lo psicanalista coi baffi, amico di mia madre. Non di mio padre, che
riversa su di lui il più acuto disprezzo. Cacciaballe, lo chiama. Quel cacciaballe del tuo
Olivieri. La psicanalisi son tutte balle. E per confermare queste sue opinioni mi
aggredisce ancora di più.
"E tu non metterci becco!" grida a mia madre che mi difende. "Sei tu che la rovini!
Tu che le riempi la testa di balle! E poi chi aggredisce nessuno? Io voglio solo salutarla.
Neanche questo vuole, il tuo Olivieri? Non è permesso salutare i figli prima di uscire?"
Lui li chiama saluti, questi.
Vorrei sorridergli, dirgli ciao papà, non prendertela, ciao. Ma non so farlo. Le ho
dentro di me, le cose, ma non mi riesce di liberarle. Mi sembra di essere tutta fatta su nel
fil di ferro.
"Ciao" dico.
"Ciao, principessa" dice. Quando si sforza di essere gentile, ecco che mi parla
come se avessi tre anni e mi chiama principessa. Qualche volta duchessa o contessa.
Preferisco quando urla.
"Ciao" ridico, dalla mia gabbia di fil di ferro.
Sento la sua guancia ispida, il suo odore di sigarette e i suoi nervi logori, poi
marcia di nuovo su mia madre, questa volta per dirle:
"Ciao, Osso". Siccome è magra, la chiama sempre Osso, e adesso la chiamano
Osso anche i parenti, gli amici, i conoscenti e tutti quanti. "C’è la signora Osso?" ci
chiedono qualche volta al telefono. Forse lo credono un nome d'arte.
"Ciao, Osso" e le prende una mano e se l'appoggia su una guancia, che è il suo
modo di salutarla e certe volte mi fa rabbia. Perchè litigano tanto, allora?
La mano ricade e mio padre se ne va, in una nuova ondata di urli. Il Maurizio lo
segue, galleggiando sugli urli come un turacciolo sulla scia, col suo pacco dei libri e il suo
remoto duduare. Passando davanti alla mamma le ammicca rapido dal fondo dei suoi
occhi neri. Mio fratello e mia madre si sono molto simpatici.
Poi il cancello di fuori sbatte fragorosamente sul padre, sulla scia degli urli e sul
figlio turacciolo.
Sploc, si sente dalla stanza della Bruna: è il libro che è caduto per terra.
Buonanotte. Il Bao e la Baina, liberi dalla soggezione del Padrone, si scatenano in urli
frenetici e frenetici caroselli intorno al gregge formato da mia madre, dai gatti e da me.
Mi infilo il soprabito di pelle nera che amo molto e il berretto nero alla fantina che
amavo molto in principio, adesso un po' meno. "Dov'è il cavallo?" mi chiedono per la
strada. Oppure nitriscono.
" Stai bene? " chiede mia madre. D'umore, intende.
Me lo chiede sempre, con voce leggera ma con l'ansia dentro; e io le rispondo
sempre "bene", anche se in realtà non sto bene affatto. Lei lo sa, ma non può fare a
meno di chiedermelo, e poi di farsi venire il nervoso per avermelo chiesto.
Il guaio di mia madre è che capisce troppo, specialmente i suoi sbagli, e non sa
metterci rimedio. Certe volte vorrei che non capisse niente, come quasi tutte le altre
madri.
Che pasticcio, le famiglie. Le madri, i padri, i figli. O forse sono solo io che sono
un pasticcio? E quel che vorrei riuscire a capire. Da me. Senza psicanalisi e altre balle,
come direbbe mio padre.
Ma se non sono balle? Sì che lo sono. Boh.
"È un'età maledetta" sospira mia madre. "La tua, dico." Di colpo sorride: "Anche
la mia non scherza". Quando sorride, è come una tonnellata di allegria che si fa strada
attraverso un passaggio molto stretto. Mamma, ti sono un po' simpatica? Che mi vuoi
bene lo so.
"Ciao" dico.
"Poi passa" lei dice, credo che parli ancora dell'età. "Dovresti solo sforzarti di
stare un po' di più su questa terra."
Come se lei ci stesse.
Le ridico ciao e la lascio lì tra il carosello dei cani, col suo mal di testa e la sua
allegria compressa, e un'altra giornata è in cammino: scuola, lavoro, strade, tutti che
parlano, nessuno che ascolta, fate presto, mettete in ordine, bisogna vivere su questa
terra. Sarà. Per me, è ancora da dimostrare.
QUELLI DELLA MIA ETÀ

Quando esco, le strade sono piene di ragazzi e ragazzini che vanno a scuola. Il
che, secondo la gente, dovrebbe mettere allegria. Non a me. Andare a scuola, trovo che
è un po' uno schifo. I ragazzi che ci vanno, pure. Me compresa, intendo. Da qualche
parte della città anche l'Antonio e la Rosella, ognuno per proprio conto, stanno andando
a scuola; ma non è un pensiero che mi consoli. Anzi. Due pezzi di San Mamete che
vanno a scuola, uno con la cravatta, l'altro con le calze di nailon, che tristezza! Tornerà
mai l’estate?
Devi imparare a vivere nella realtà, dice mia madre. Ma dovrei proprio?
"Salve, Gamberini" dice una voce di naso dietro di me.
Ecco la realtà. La Gamberini sarei io e la voce di naso appartiene a un mollusco
che viene alla mia scuola, coi foruncoletti e la frangia alla Beatles. E pazienza i
foruncoletti, ce li ha anche l'Antonio, e delle volte anch'io, ma odio le frange alla Beatles.
Questo poi si chiama Rodolfo, che sarebbe ancora niente, ma si fa chiamare Rudi, anzi
Rudy con la ipsilon. Odio la ipsilon. E poi non ha mento. Odio la gente senza mento. E
poi è scemo. Non scemo per modo di dire, proprio scemo. Non che l'Antonio sia un
intellettuale. Ma intanto ha il mento. Poi non si fa chiamare Tony e nemmeno Toni. Poi
non ha frange. E poi è l'Antonio.
L'Antonio, le stelle sul molo, le cicale dei giorni di sole. "Cicala, felice te... "
Rieccomi .con le poesie.
Devi imparare a vivere nel presente. E va bene, andiamo avanti con questo
Rodolfo.
"Ciao" gli dico.
"Dove ce l'hai il cavallo" dice. Ecco cosa dice.
Sono sei mesi che porto il berretto alla fantina e sono sei mesi che tutte le mattine
mi chiede dove ce l'ho il cavallo. Lo chiede anche a tutte le altre ragazze col berretto alla
fantina. I molluschi fanno cosi.
I molluschi, per mia sorella e per me che abbiamo letto Charlotte. Bingham,
sarebbero tizietti senza sugo. I tizietti sono i ragazzi dai quattordici ai diciotto anni; dopo
i diciotto diventano tizi e non mi riguardano dopo i venticinque diventano tizioni e non
riguardano piu neanche mia sorella. Tutti comunque, tizi tizietti e tizioni, possono essere
molluschi: se non hanno sugo. Quelli della mia scuola non ne hanno. Questo Rodolfo
poi, neanche una goccia.
Il fatto è che non ha niente da dirmi, nè io a lui. Facciamo la strada insieme tutte
le mattine e tutte le mattine stiamo zittini zittini finchè non incontriamo la Sandra con la
sua aria allegra, la sua voce pronta e i suoi patasgulp. ("Patasgulp!" è il grido che emette
quando inciampa o sbatte o cade, cioè continuamente. "Mio Zio!" è invece il grido di
quando si arrabbia e non vuol nominare il nome di Dio invano). La Sandra è la mia
compagna più simpatica. Le altre parlano solo di scuola e di professori carogne (tutti i
professori sono carogne, per loro), oppure di reggiseni, tacchi, calze di nailon, filarini
loro e altrui, e io mi stufo. Anche loro si stufano con me, credo. I ragazzi lo stesso. Tutto
quello che interessa a me, le poesie, l'antico Egitto, far cagnara, Van Gogh, le bestie, Il
giovane Holden, scrivere, la storia del cinema, essere triste, Il Gattopardo, lo yoga, niente gli
piace. Neanche giocare gli piace, sono troppo vissuti per giocare. Sono dei morti di
sonno, secondo me. Si interessano solo di canzonette, di calcio, di filare o far finta di
filare, con chi gli capita, e farlo sapere a tutti. Boh.
Mia madre dice che sono io che sono intollerante. Che non gli dò spago. Che i
ragazzini non sono così scemi come sembrano.
"È vero" dice mio fratello con la sua voce grave. " Sono più scemi di come
sembrano.''
Anche mio fratello, dicono i grandi, "fa fatica a inserirsi". Inserirsi, se ho ben
capito, significa accettare la gente scema e la vita scema dicendo: oh che bella vita, oh
che brava gente, farò anch'io cosi. Allora, io non voglio inserirmi. Preferisco restare sola.
Non che sia bello esser soli. Vorrei avere degli amici. Ma non dei molluschi.
Veramente, un amico ce l'ho. Non l'Antonio, dico; l'Antonio è un'altra cosa. Il
mio amico si chiama Nicola, ha diciotto anni, è il ragazzo più simpatico, più matto e più
serio che conosco, e lo conosco da quando son nata; passiamo insieme tutte le estati.
Durante l'anno sta in un collegio svizzero dove gli allievi portano il saio e nelle ore libere
vanno a sciare; mi scrive lettere bellissime (certi pezzi li so a memoria), si interessa di
tutto quello che mi interessa, ci scambiamo poesie, parliamo di cinema, di religione e di
tutto. Mi assomiglia anche di fuori, il Nicola, ha il naso in su come me, e gli occhiali a
rettangolo, che mette un po' sì e un po' no, come me. Anche lui non fa che sognare
l’estate e San Manete. Tutte le sue lettere sono piene di ricordi uguali ai miei.
Per esempio scrive: "Ti ricordi il quadrivacco?" e subito io vedo una sera di
fine settembre, tersa e fredda, il fuoco acceso sul molo, e noi quattro (io, i miei fratelli e
lui) seduti intorno a fare il bivacco, e siccome eravamo in quattro (tutti gli altri erano già
tornati a Milano) il Nicola diceva il quadrivacco. Cantavamo "Avevamo vent'anni" e la
chitarra della Bruna era triste e il fuoco rosso crepitava e l’estate moriva, e questo è stato
il quadrivacco.
Un'altra volta ha scritto: "Ti ricordi di là dal lago, la faccia di tua mamma
quando si a rotto il manico del Paiolo?" Il paiolo, anzi il Paiolo, ce l'aveva prestato,
con molte raccomandazioni e dietro molte insistenze, la nonna della Rosella, di cui mia
madre ha una paura terribile, dall'infanzia credo. Ne erano successe di tutte quel giorno,
come sempre quando mia madre organizza o partecipa a una gita: era crollata la tenda,
s'erano rotte le bottiglie per l'acqua (così tutti bevevano vino), i cani avevano mangiato
tutto il burro, erano annegate le scatolette di carne, il fratello della Rosella s'era
sbronzato, nella farina gialla c’erano i bachi, era venuto un acquazzone e il fuoco s'era
spento, mio fratello e il Nicola avevano fatto il bagno sotto la pioggia con l'ombrello il
cappello la pipa e il Nicola aveva pure gli occhiali, diceva che gli tenevano caldo, poi per
asciugarsi s'erano rotolati nel fieno e così c’era fieno dappertutto, nel vino, nei cani, nella
polenta, negli occhi dappertutto, e mia madre niente, anzi, più disastri succedono più lei
se la gode, ma mentre rimestava la polenta sotto l'ombrello canticchiando serafica tra un
vorticare di cani urlanti, salsicce deformi, fieno bruciacchiato, ragazzi alticci, poc!, le si
rompe il manico del Paiolo. A momenti sveniva.
"Che cosa dico alla signora Carla" continuava a gemere mentre riattraversavamo il
lago al ritorno. "Era un paiolo di famiglia! Dovevano ereditarlo i suoi figli! Non avrò più
il coraggio di guardarla in faccia!"
Poi il fabbro Giacomo, in nome dell'antica amicizia (e della comune paura della
signora Carla) ha clandestinamente aggiustato e rilucidato il Paiolo in un'ora, coi ragazzi
che facevano il palo davanti alla bottega, e quando glielo abbiamo riportato la nonna
della Rosella continuava a dire:
"Ma guarda come mi hanno pulito bene il paiolo questi ragazzi. Sono proprio dei
bravi ragazzi. Un po' vivaci, ma bravi".
Era così soddisfatta del paiolo che non s'è neanche accorta che suo nipote
Federico era sbronzo morto e le ciondolava intorno canticchiando con voce sciocca
tiritere come: "Paiolino paiolone m'hai rubato il corazone", "Paioletto paiolotto ci puoi
fare lo stracotto".
Ecco, basta una frase del Nicola per far tornare vivo tutto questo, insieme
all'odore del lago, di polenta bruciata, di cani bagnati, di legna, e il cigolio delle vecchie
barche cariche di ragazzi, e le voci consuete dalla riva: "Non potete andarci! Fanno
acqua!" e l'eco beffardo della conca: "Arci! Acqua".
Sono sicura che il Nicola ricorda tutto quello che ricordo io, uguale. E questo,
credo, a esser amici.
Un'altra volta scrive: "Ti ricordi la faccia della Cuginona la sera del
campanello del farmacista?" ed ecco è una sera di luna, a mezzanotte, i ragazzi sono
tutti in giro, io no perché sono troppo piccola (avevo dodici anni: comunque c’era già
l'Antonio in ballo) e sto con mia madre sulla scaletta a lago a guardare la luna (quando
c’è la luna non andremmo mai a letto), poi si sente la voce stonata del cancello, un gran
parlottare e correre di sandali sulla ghiaia, ed ecco l'orda dei ragazzi, molto eccitati, con la
Cuginona in testa.
La Cuginona è la nostra cugina più grande, ha venticinque anni ma non è
assolutamente una tiziona non è neanche una tizietta, è una bambina, solo molto
cresciuta in lunghezza, larghezza e spessore. Non finisce mai, la Cuginona: tutta grande,
tutta soffice, tutta bionda, con tutti che le fischiano dietro per la strada, le capitano un
sacco di guai, e certi sono stati guai terribili, ha pianto tanto e noi abbiamo pianto per lei,
ma non è cambiata, è sempre la Cuginona pasticciona dai dolci occhi stupiti, che fa
ridere tutti. "È una svitata" dice mio padre. "È una balorda, una cercagrane." Però guai
se lo dice qualcun altro. Una volta che la signora Vailati, anziana villeggiante di San
Mamete, è andata in giro per il paese a dire che la Cuginona, "be' insomma, mi dispiace
per sua zia, ma non ha un comportamento molto serio", mio padre ha detto che la
signora Vailati era una vecchia sgualdrina (lui però ha detto un'altra parola) e che se se la
trovava tra i piedi in paese glielo diceva. E noi tutti lì a sperare che la trovasse, invece
niente. Poi gli è passata. A noi no.
Ma torniamo alla sera del farmacista. Dunque ecco che arrivano i ragazzi, i soliti
quindici o venti, con in testa la Cuginona. Si fermano tutti insieme davanti a mia madre,
e non dicono niente.
"Oh no" geme mia madre, che li conosce. "Cos'è successo stavolta?"
Parla la Cuginona: "Quel fetente di farmacista" dice.
"Oh no" geme mia madre, che conosce il farmacista. (Era uno nuovo,
provvisorio, un tipo di zitello che non gli andava bene niente.) "Cosa gli avete fatto? "
" Mi ha detto un sacco di parolacce!" dice la Cuginona indignata. "Ci è corso
dietro in macchina e voleva picchiarci."
"Oh no" geme mia madre, monotona. "Ma voi, cosa gli avete fatto prima?"
Quando smettono di parlare tutti insieme si riesce a ricostruire, tra gli "oh no" di
mia madre, quanto segue: poco prima di mezzanotte, mentre andavano innocentemente
a spasso, divisi in due scaglioni, su per la salita della farmacia, "qualcuno" del primo
scaglione, per fare uno scherzo a quelli del secondo scaglione, con Cuginona annessa,
senza farsi vedere da nessuno aveva suonato passando il campanello notturno del
farmacista, quello per le chiamate d'emergenza, e aveva proseguito come se niente fosse.
Così quando il farmacista, svegliato nel cuor della notte, e arrivato giù col pigiama e l'aria
eroica a salvare l'umanità, si è trovato davanti la Cuginona che passava ignara, bionda
ridente e pacioccona, e s'è infuriato di maledetto. La Cuginona, che non ne sapeva
niente, trovandosi davanti a questo ometto terribile e ossesso, se l'è data a gambe con
tutta la sua ciccia e il secondo scaglione dietro, fino ai cespugli della galleria fuori del
paese, pressoché inaccessibili a chi non ci abbia giocato da bambino: e lì si sono buttati
alla macchia, trovandoci il primo scaglione già nascosto e morto dal ridere, mentre il
farmacista passava avanti e indietro con la sua seicento frugando invano coi fari i
cespugli e continuando a gridare: "Vi ho riconosciuti, figli di puntini puntini!" (puntini
puntini sta per parola vietata). "Venite fuori, che vi faccio questo e quello! " finché è
rimasto senza voce e forse senza benzina e se ne è andato; così loro sono potuti venire a
casa.
"Oh no" geme mia madre disfatta. Il fatto è che sempre, per tutta l’estate, lei deve
usare tutte le sue arti magiche per rabbonire la gente del paese disturbata, svegliata,
scandalizzata dalle gesta collettive dei "suoi" ragazzi: infatti ci considerano tutti come
suoi; quando passiamo per il paese, quindici o venti che siamo, ci additano ai forestieri
dicendo: "Sono i ragazzi della signora Osso". Lei non rinnega questa sua
sovrabbondante maternità estiva, e se ne accolla anzi tutte le responsabilità. Ma stavolta,
sembrava molto scossa.
"Siete sicuri che non vi ha riconosciuti?"
"Mah, veniva dalla luce e noi eravamo al buio. Quando ha cominciato a
distinguerci stavamo già correndo. Ci ha visti solo per di dietro."
"Il didietro della Cuginona, chi non lo riconosce" dice mia madre affranta.
"Domani andrò dal farmacista a fare le mie scuse. "
"Sei arrabbiata, zia Osso?" dice la Cuginona, inquieta.
"Sono delusa" dice severamente mia madre. "Mi vergogno di voi. Sono cose che
non si fanno" lo dice convinta, e restano tutti secchi: non li sgrida mai, di solito.
" Io sono innocente!" dice la Cuginona con voce di pianto.
"Oh, sicuro, siete tutti innocenti" dice mia madre ironica. "E allora perché siete
scappati?"
"Ma urlava come una sirena!" dice la Cuginona atterrita. "Agitava i pugni! Ho
creduto che fosse diventato matto! Zia Osso, era terribile! Tu cos'avresti fatto? "
"Non sarei scappata" dice mia madre con dignità.
Si alza e sembra, lei così minuscola, molto più grande dell' enorme Cuginona.
"Scappare è indice di viltà. Di povertà di spirito" afferma, e se ne va in casa senza più
voltarsi. I poveri di spirito si sparpagliano avviliti.
"E ti ricordi" scrive il Nicola "la faccia di tua madre la sera dopo?"
Non la dimenticheremo mai, quella faccia e quella sera. E andata così: al mattino
mia madre ci aveva messo un'ora a rabbonire il farmacista, tornando a casa sbuffava e
diceva: "Uffa! La prima volta che scappate davanti alle vostre responsabilità, vi rinnego"
e tutti a giurare che mai più sarebbero scappati, che mai si sarebbero fatti rinnegare,
finche mia madre li ha perdonati e per festeggiare la pace li ha fatti restare tutti a cena
(capita una sera sì e una no, quando non c'è mio padre). Abbiamo mangiato, bevuto,
cantato e lavato i piatti tutti insieme, e poi mia madre ha detto:
"E adesso, per far vedere che siamo dei bravi ragazzi" (si dimentica sempre che lei
non è più una ragazza) "andiamo a fare una passeggiata fino alla farmacia, zittini e
bravini".
Davanti uno scaglione di otto o dieci con la Cuginona, dietro uno scaglione di altri
otto o dieci con mia madre. Arriviamo all'altezza della farmacia.
Passa il primo scaglione, zittino e bravino, e prosegue. Arriva il secondo scaglione,
zittino e bravino, ed eccoti schizzar fuori in controluce un ometto che pare un mulino a
vento e una vocetta stridula che urla: "Di nuovo! Di nuovo voi, figli di puntini puntini!
Ma stavolta vi becco, razza di questo e quello!"
Mia madre, per un momento a rimasta paralizzata. Poi si è ripresa, e sapete cos'ha
fatto?
È scappata.
Via di volata col golf in testa per non farsi riconoscere e noi tutti dietro, a
catafascio nei cespugli della galleria, dove ci aspettava acquattato il primo scaglione in
convulsioni.
"Hai visto che sei scappata?" diceva la Cuginona esultante: era stata lei a suonare il
campanello del farmacista per mettere alla prova mia madre. E tutti in coro: "scappata!
Sei scappata! Che figuuura! La Zia Osso è una vileee! È una povera di spiritooo!"
"Sccc" bisbigliava mia madre, senza fiato per lo spavento e per il ridere, e intanto
il nemico arrivava in ricognizione con gli abbaglianti accesi e la vocetta frenetica, e noi
tutti lì abbarbicati ai cespugli a picco sul lago, in quel fresco odore di mentuccia e di
avventura, a soffocare risate e bisbigli finchè il farmacista se n'e andato continuando a
gridare fiocamente: "Figli di, razza di", e noi siamo tornati a casa quatti quatti via lago
per non farci vedere in paese se no mia madre perdeva del tutto la reputazione, ed e
stato bellissimo. Tutti in fila indiana a sguazzare cauti lungo le rive coi sandali in mano
bisbigliando sccc sccc, zitti che il nemico ci ascolta, sccc sccc, e la luna allungava le
nostre ombre nere sull'acqua, l'Antonio mi teneva per mano e io credevo ancora che
bastasse, e il cielo era così puro e l'estate così dolce da sentirne un dolore.
E basta una frase, anzi una parola del Nicola, quadrivacco, Paiolo, farmacista
perché tutto torni a vivere, intatto, per lui e per me. E tutte le nostre lettere finiscono:
arrivederci quest'estate a San Mamete.
Viene l’estate, ci rivediamo a San Mamete, e non ci diciamo più niente. E che lui è
grande, è quasi un tizione. E io ho solo quattordici anni. Non voglio scocciarlo. Anche
l'Antonio è grande, sebbene certe volte non sembri. Ha diciassette anni, è troppo gran-
de. Per questo forse va con delle altre ragazze intanto che io cresco. Ma non sono mica
sicura di voler crescere, io.
Vorrei avere degli amici della mia età. Ma con quelli della mia età non mi ingrano.
Loro si stufano e io mi stufo, che cosa dovrei fare?
Cercare il loro lato in fiore, dice mia madre. È una parola. Se cerchi il lato in fiore
di questo Rodolfo, ci trovi come massimo Rita Pavone. Che cosa può interessargli di
me?
Una volta ho letto un tema di questo Rodolfo, un tema sul cinema. Cominciava
cosi: "ll cinema non è solo un divertimento, ma anche un'arte molto istruttiva che viene
detta settima arte. I film che io preferisco sono quelli con l'attore Gerry Luis e quelli di
guerre tra popoli antichi". Ho fatto tanto ridere. Lui non capiva perché, aveva l'aria di
credermi tocca. Lo crede tuttora. Tutti i molluschi mi credono tocca, penso.
Un'altra volta, tanto per cercare il lato in fiore, gli ho chiesto se gli piaceva
Neruda, che è il poeta preferito di mio fratello.
"Neruda?" ha detto. "Ah, quella ballerina negra? E molto sexy." Così ha detto:
giuro. I molluschi non ammettono mai di non sapere una cosa.
Quando poi ha letto una poesia bellissima di Neruda che ho trascritto sul mio
quadernino, ha fatto una faccia di spregio:
"Senza rime" ha detto. "Son buoni tutti di far poesie senza rime."
Ecco come sono i molluschi.
O forse sono io che sono una scocciatrice. Che sono tocca e ho bisogno dello
psicanalista. Forse anche il Nicola, se non fosse in collegio, si stuferebbe con me.
La mia età, che strazio. Poi passa, dice mia madre. Ma io non voglio che passi.
Allora? Allora, non so cosa voglio. Boh.
PER PIACERE, NON ROMPETE I CAVALLI

"O deficienti," chiama ogni sera mio padre "venite qua anche voi a guardare la
radio."
La radio, in questo caso, è la televisione; ma potrebbe essere molte altre cose.
Non si sa se per distrazione o per comodità, con l'avanzar degli anni il vocabolario di
mio padre si restringe sempre più: una sola parola gli serve per indicare un'intera
categoria di cose. "Radio", per esempio, non significa solo radio e televisione, ma spesso
anche frigorifero, aspirapolvere, lavatrice e ogni altro possibile elettrodomestico; qualche
volta, per estensione, può significare anche automobile. "C'è ghiaccio nella radio?" capita
di sentirgli dire, oppure: Questa radio mi scassa tutti i colli delle camicie", o anche: "Se
questo deficiente non si sbriga, mai troverò da. parcheggiare la radio".
Se non capiamo subito, si arrabbia da matto e dice che facciamo l'ostruzionismo.
Comunque noi ci abbiamo fatto l'abitudine e capiamo quasi sempre.
Più difficile è capire mia madre, quando scambia le parole. Perché i suoi non sono
scambi fissi e spiegabili per somiglianza, come quelli di mio padre; i suoi sono scambi
sempre diversi e assolutamente inverosimili, che creano un'atmosfera di follia. Per
esempio, una sera a venuta in soggiorno con aria efficiente e ha detto:
"Ragazzi, preparate i cavalli".
Noi ci siamo guardati. Cavalli. Di cavalli in casa è certo che non ne abbiamo, per il
momento. Vediamo, che cosa potrebbero essere questi cavalli? Dopo una rapida
consultazione abbiamo deciso che doveva trattarsi dei cani. Forse voleva portarli un po'
a spasso. Così il Maurizio ha messo il guinzaglio al Bao e alla Baina e li ha portati da mia
madre (cioè loro hanno portato lui, tipo biga di Ben Hur, come sempre fanno quando
sono al guinzaglio), tutti abbaianti e festanti, pronti all'uscita.
Mia madre li ha guardati come se fossero dinosauri:
"Cosa ti viene in mente di bardare i cani!" ha detto nervosamente. "Ti pare il
momento di portarli a spasso? È ora di pranzo, sta per tornare tuo padre, c'è la tavola da
apparecchiare, e lui arriva coi cani bardati".
"Hai detto di preparare i cavalli" si è difeso rispettosamente il Maurizio "e
abbiamo pensato..."
"Ma che cavalli! Ti sembra logico che voglia dei cavalli all'ora di pranzo? Siete
sempre nelle nuvole. Ho detto di preparare i bicchieri. Non vedete che mancano i
bicchieri? Da quando in qua si mettono in tavola i cavalli?"
"Tu però hai detto cavalli" ha insistito cortesemente il Maurizio.
"Ho detto cavalli?" Lei non si arrabbia come mio padre, non nega di aver detto
una parola per un'altra, e nemmeno si stupisce di averla detta. "Cavalli? Ah, è perché sto
leggendo un libro intitolato Il cavallo venduto, così ho detto cavalli" per lei è una cosa
normalissima. "Comunque," conclude in tono ragionevole "i cavalli non sono cani."
Inutile dirle che non sono neanche bicchieri.
Questa abitudine di dire o fare una cosa "pensando di farne o dirne un'altra”, mia
madre l'ha sempre avuta, dice anche quando era giovane. Dice che i suoi c’erano abituati,
e quando lei diceva "questa pistola non spara" invece di dire "questo orologio non va"
(leggeva molti libri gialli, una volta)- suo padre spiegava: "Ha sbagliato casella". Solo che
con gli anni, le fatiche e l'esaurimento cerebrale, i suoi sbagli di casella sono diventati
sempre più frequenti e fantastici. Chi non c'è abituato ci resta secco. Tanto più che poi
noi figli, così per uno scherzo familiare, adottiamo normalmente la casella sbagliata al
posto di quella giusta, dicendo per esempio: "Che ora fa la tua pistola?" oppure: "Vorrei
un cavallo di coca-cola", e mio padre ogni volta chiede allarmato: "Che cavalli? Chi ha la
pistola?" Noi gli spieghiamo la faccenda, ma lui si dimentica la spiegazione o non ha la
pazienza di ascoltarla, così ogni volta ha l'aria di aspettarsi che qualcuno in casa spari o
nitrisca.
Per non parlare delle confusioni che creano gli errori della Rosa, che non sono
errori di distrazione o di comodità, ma di testardaggine, per cui mai si convincerà che
l'idroscalo non è l'uomo che aggiusta i rubinetti e che il corpo umano non si chiama
organista, ma qui ci vorrebbe un capitolo a parte e perderemmo la testa del tutto.
Torniamo dunque alla televisione. Mio padre, non è che adori la televisione. Anzi,
non gli va bene niente, della televisione. Dice che sono tutte fesserie. Che quelli della
radio sono degli incapaci. Che è tutta colpa del governo. Che è tutta colpa dei preti. Che
qui e che là. Però continua a guardare; non solo, ma vorrebbe che tutta la famiglia stesse
lì a guardare con lui. Qualsiasi cosa faccia o non faccia, mio padre ci vorrebbe sempre
tutti intorno. È come una chioccia, mio padre. Una chioccia nevrastenica, che becca
tutti.
Così ogni sera (tranne il sabato) appena finito di mangiare si piazza davanti alla
televisione, e dopo un po' comincia a fare coccodè.
"Osso-Bruna-Maurizio-Nicoletta-deficienti, venite a guardare la radio."
La prima a dargli retta e mia madre. Non perché le piaccia la televisione, ma
perché le piace lavorare a maglia. Mia madre ha sempre qualche pallino. Quest'anno ha il
pallino della maglia. In tutti i momenti liberi, in viaggio, in tassi, al ristorante, in funivia,
al cinema a letto, sempre velocissima sferruzza bisbigliando: una due passata accavalla,
alto basso catenella pippiolino. "Mi riposa la mente" dice, in tono di scusa, oppure: "Ho
della lana da godere". Non so quanti quintali di vestiti, golf, bluse, coperte, soprabiti ha
fatto quest'anno, ma ha ancora e sempre della lana da godere. Cosi, appena cominciano i
coccodè serali di mio padre, eccola che arriva tutta contenta col suo cesto pieno di ferri
piccoli e grossi, uncinetti corti e lunghi, matasse e gomitoli d'ogni misura e colore, più
qualche gatto in mezzo, si rannicchia vicino al papà sul divano della televisione e
comincia a sferruzzare, le ginocchia rialzate, gli occhiali abbassati sul naso, bisbigliando.
"Piantala con 'ste litanie!" dice mio padre. "Sei qui per vedere la radio o per fare
pippiolini?" e ricomincia i suoi coccodè all'indirizzo dei figli.
La prima che gli dà retta, dei figli, sono io. Anch'io mi porto dietro l'uncinetto e le
lane. Non perché abbia il pallino, ma perché voglio fare una coperta per la mia soffitta di
San Mamete, tutta a quadratini. un modo di avvicinarmi all'estate. Ci vogliono
centottanta quadratini e ne ho già fatti centoquindici. Tutti davanti alla televisione.
"Vi assomigliate anche nelle fisse" dice mio padre, col tono goffo che prende
quando si intenerisce. Mio padre si intenerisce per cose strane: una di queste e la
somiglianza, che tutti dicono fortissima, tra me e mia madre. Lei invece protesta:
"Ma che somiglianza! Ma non vedi che bel nasino piccolo ha lei? Non vedi che
begli occhioni languidi? E tutta proporzionata, lei! Non le si vede un osso, a lei! Ero un
rospo al confronto, io!"
Mio padre se la prende come un'offesa personale: "Sicché io avrei sposato un
rospo? E che, son orbo, io? E tutti quei deficienti che ti facevano il filo, per che cosa lo
facevano? Per le tue doti intellettuali?" e fa una risataccia sulle doti intellettuali.
"Comunque, lei è dieci volte più carina" dice mia madre, perentoria. "Non fatele
venire i complessi."
Crede che io abbia paura di assomigliarle. Che abbia paura di diventare come lei.
Ma io non sarò mai, mai come lei. così carica di vita anche adesso che è vecchia, così
allegra anche quando è infelice. Io mai. Tutto quello che faccio per somigliarle è scrivere,
e lavorare all'uncinetto.
Be', dunque mi siedo lì e comincio a far quadratini. L'uncinetto va, la televisione
pure, e io penso a San Mamete, alle sere fresche e fragranti, alla mia soffitta sospesa sulla
voce del lago e delle foglie. Ogni quadratino mi ci avvicina un po'. Intanto i gatti, che
prima stavano seduti tutti e tre in fila a guardare la televisione, cominciano a giocare coi
gomitoli, la Peppa li morde e li scrolla, il Pluto ci si rotola selvaggiamente in mezzo, e la
Giovanna, pur non abbandonando la posizione meditativa, ogni tanto lentamente solleva
la sua zampa da mammut e lentamente la ritira piena di fili provenienti in linea diretta dal
lavoro di mia madre o mio. Alle nostre grida di cordoglio arrivano zompando i cani per
mettere ordine, e in un baleno la zona televisione è un groviglio frenetico di zampe,
code, baffi, gomitoli, latrati, risate, graffi, zoccate, ahi, bu bu, GNAU GRRRAU, finche
mio padre tuona:
"A CUCCIA! ": più che alle bestie, lo dice a mia madre e a me. "Sempre a far
putiferio! Voi e le vostre lane! Appena arrivate voialtre non si capisce più. un tubo." Poi
ricomincia: "E il Maurizio? Cosa fa quel deficiente che non viene? Starà pulendo qualche
trombone! Starà smontando qualche piffero! Maurizio!"
"Mgnu ou pno mu" risponde la voce del Maurizio dal chiuso della sua stanza dove
sta telefonando alla Tessa. Quando lo chiamano mentre telefona alla Tessa emette gli
stessi suoni che emette quando lo chiamano mentre dorme.
"Starà studiando" dice mia madre: mente sapendo di mentire. "Gli esami si
avvicinano, lascialo studiare."
"Tutto il giorno sta dietro ai tromboni, e poi deve studiare di sera! Sai come gli fa
bene! Diventerà orbo! Diventerà scemo! E la Bruna? Cosa fa quella lavativa? Bruna!"
"Momento" risponde la Bruna dal chiuso della sua stanza, dove sta telefonando al
Dario.
"Anche lei sta studiando?" dice mio padre ironico. "O prepara un comizio?"
"Dovresti essere contento che tua figlia abbia degli interessi sociali" dice mia
madre in tono didattico.
"Me ne frego dei suoi interessi sociali" dice mio padre. "E poi lo so io cosa stanno
facendo i tuoi tesorini. Scommetto che stanno telefonando, quei..."
"Ssst!" dice mia madre protendendosi verso il video con subitaneo interesse. "Sta'
un po' zittino, che non si sente più niente. "
Ma mio padre non si lascia imbrogliare. "Lo so che state telefonando!" grida in
direzione dei figli. "Ve lo do io il telefono! Vi strappo le derivazioni! Vi spacco il
ricevitore in testa! Vi faccio mangiare le bollette!"
Lo dice circa tutte le sere. Noi abbiamo due linee telefoniche, con due numeri
diversi. Uno sarebbe per lo studio di mia madre, l'altro per la famiglia. In realtà, uno lo
usa il Maurizio per telefonare alla Tessa, l'altro la Bruna per telefonare al Dario; hanno
un apparecchio con la spina vicino al letto e ci passano ore distesi a mormorare dentro il
microfono. Lo stesso succede in casa della Tessa; anche là il padre urla e la madre tenta
di distrarlo e i figli avanti a mormorare nel microfono. Perché la Tessa, ragazza di mio
fratello, e il Dario, ragazzo di mia sorella, sono fratelli tra di loro. Il terzo fratello, guarda
caso, è l'Antonio.
Hanno anche loro molti gatti; così quando il mese scorso la nostra Giovanna, in
calore per la prima volta, si rotolava per casa come un barattolo coi peli e il Pluto,
abituato a vederla sempre seduta, era troppo sconcertato per pensare a farle la corte,
abbiamo pensato di mandarla a casa loro per vedere se il loro gatto Pugaciof riusciva a
capire che non era un barattolo peloso ma una gatta in amore. L'Avvocato (il loro papà è
avvocato e lo chiamano tutti così anche se gli danno del tu) quando è stato informato
della cosa ha detto: "Pure il gatto! ", col tono di chi si trova davanti a una ineluttabile
fatalità.
"Fortuna che i gatti non si telefonano" ha detto mio padre.
Comunque anche il Pugaciof non ha voluto saperne della Giovanna. Le è girato
un po' intorno con aria dubbiosa e poi si è ritirato: quella cosa non lo riguardava. Il
Dario ha detto che dovevamo raderle i peli e metterle un cartellino con la scritta "Gatta",
perché altrimenti nessun gatto avrebbe mai capito che cos'era.
"Povera la mia Gatta Seduta" ha detto mia madre carezzandola amorosamente.
"Povera la mia mammut-gatta, non farti venire i complessi. E solo perché sei troppo
giovane. Sei ancora una ragazzina, capito?" e avrebbe potuto dire la stessa cosa a me.
Anche l'Antonio, più o meno, si comporta come il Pugaciof. Mi gira intorno dubbioso,
senza capire bene cosa sono.
"Quando lo capirà," dice mia madre "dovremo mettere un terzo telefono."
"Ve lo do io il telefono!" urla mio padre. "Vi faccio tagliare i fili! Vi spacco il
ricevitore in testa! A voi e a quegli altri due al di la del filo! "
In verità, il Dario e la Tessa gli sono molto simpatici, a mio padre. Però non lo
vuole dire. La Tessa gli piace perché è così brusca, sensibile e schietta, ma lui dice: "È
scorbutica! E troppo scorbutica!" Il Dario gli piace perché è intelligente, deciso e serio,
ma lui dice: "È troppo di chiesa!" Poi dice che è troppo giovane.
"Anche tu" lo eri dice mia madre. "E poi lui è quasi architetto."
"Architetto! Architetto' Deve fare ancora il servizio militare! "
"Tu l’hai fatto per nove anni, e cinque in guerra" gli ricorda mia madre.
"Ma se non sanno neanche da che parte comincia, il matrimonio! Tua figlia non sa
neanche cuocere un uovo!"
"Neanche io sapevo cuocere l'uovo."
"Non vorrai citarti a esempio!" dice mio padre.
"No " dice umilmente mia madre. "Forse hai ragione, noi non siamo un buon
esempio."
"Come sarebbe, che non siamo un buon esempio?" dice mio padre offeso
"Abbiamo sempre tirato la carretta da soli, abbiamo tirato su tre bei figli, abbiamo…" si
interrompe, con l'aria di uno che è caduto in un tranello. Ci cade tutte le volte.
"Comunque erano altri tempi!" conclude per salvare la faccia. "E comunque devono
piantarla di stare delle ore attaccati al telefono! Bruna! Maurizio! Piantate
immediatamente quel telefono e venite a vedere la radio." Solo che nell'ira delle volte si
sbaglia e dice: piantate quella radio e venite a vedere il telefono.
Prima o poi, con comodo, mio fratello arriva, accolto da una scarica di urlacci, sui
quali galleggia duduando indisturbato fino al divano.
"Uusc" dice, e gli faccio posto. Si siede, la pipa spenta in bocca, l'aria assorta,
dududa - dudududadudaaaa...
"Sta' un po' zitto!" dice mio padre. "Possibile che non sai stare un minuto senza
duduare?"
Il Maurizio smette di duduare e si accende laboriosamente la pipa, da cui comincia
a trarre profonde boccate con un ritmico, voluttuoso bop bop.
"Non pompare!" dice mio padre. "Te la butto dalla finestra, quella pipa!" Gliel'ha
regalata lui, la pipa, perché non fumasse le sigarette. "La pipa fa bene" diceva. "Rinforza i
polmoni." Però non vorrebbe che la fumasse. "Come si fa a guardare la commedia vicino
a uno che pompa!"
La parola "commedia", per mio padre, serve a indicare tutti i tipi di trasmissioni
televisive, telefilm, inchieste, teleromanzi, riviste, documentari, sono tutte commedie.
Anche tribuna politica è una commedia. "Possibile che non si possa mai vedere una
commedia in santa pace, con voialtri?"
"O che bella commedia" dice mio fratello. "O che bel telefono."
"Commedia? Telefono?" dice smarrito mio padre, che non riconosce negli altri il
proprio eloquio.
"Avrei dovuto battere il piede" dice mia madre.
"Piede? Che piede?" dice mio padre. "Cosa credete, di prendermi in giro?"
Noi non lo prendiamo in giro. Sono solo dei vecchi scherzi un po' scemi, a cui
siamo affezionati. Ma siccome mio padre non capisce i nostri scherzi e noi non capiamo
i suoi, e siccome lo stesso succede in Casa della Tessa, si è stabilito che quando i padri o i
figli dicono una facezia, le madri battono il piede per avvertire che bisogna ridere. Ma
mio padre si arrabbia. "Bello spirito di patate che avete tutti quanti" dice. Però certe
volte gli scappa da ridere, e poi si arrabbia per aver riso. "Rido per le facce da scemi che
avete" dice.
Io a mio padre gli voglio molto bene, in quei momenti. Mi sembra un bambino.
Ma lui non sarebbe contento di sembrarmi un bambino. Gli voglio bene anche quando
fa la chioccia. Ma lui non sarebbe contento di sembrarmi una chioccia.
Tornando ai coccodè serali: l'ultima che gli dà retta è mia sorella. Arriva con le sue
lunghe gambe svogliate, la testa china, i capelli ciondoloni che le nascondono la faccia
tetra. Quando è reduce da una telefonata col Dario, è sempre tetra.
"Non crede nel movimento operaio" dice tragicamente sedendosi, in un angolo
del divano.
"Cosa?" dice mio padre sgomento.. "Che cosa dice?"
Mia madre sorride. "Anche tu non credi in cose in cui il Dario invece crede" dice
alla Bruna. "Basta non pretendere di redimersi a vicenda, e amen. Anche tuo padre non
crede nella psicanalisi e io sì, eppure siamo felicemente sposati da vent'anni e passa."
"Felicemente!" dice la Bruna con voce lugubre.
Mio padre fa una faccia infantile: "Perché, secondo te la nostra non sarebbe una
famiglia felice?" chiede sbalordito.
"Non l'ho mica detto" brontola la Bruna.
"La felicita non è mancanza di litigi" dice la mamma, assorta. "O almeno, non è
solo questo."
Nessuno le chiede che cos'è: neanche il papà, che improvvisamente ha un'aria
spaventata. Poi reagisce: "E smettetela un po' di far discorsi scemi. Lasciatemi un po'
vedere questa commedia".
E così, tra mio padre che si arrabbia, mio fratello che fa bop bop, la Bruna che
medita sul movimento operaio, mia madre che bisbiglia: alto basso pippiolino, io che
faccio quadratini pensando a San Mamete, i gatti che zompano tra i gomitoli, i cani che
giostrano intorno per mettere ordine, si arriva alla fine del programma, di cui nessuno ha
capito niente.
"Che fesseria" dice mio padre girando l'interruttore.
Questo succede, con poche varianti, tutte le sere. Tranne il sabato. Il sabato sera
mio padre e mia madre vanno fuori a mangiare con altri padri e madri, e noi ragazzi
restiamo in casa tutti insieme (una volta a casa degli uni, una volta a casa degli altri) e
facciamo tutto da noi. A mio padre, la cosa non gli va tanto giù.
"Io non so cos'avete in testa voialtre madri!" dice ogni volta. "Tutti quei ragazzi
soli in casa!"
"Se sono insieme non si telefonano, non sei contento?" dice mia madre.
"Chissà che cosa possono combinare!" dice mio padre angosciato.
"Che cosa, per esempio?" chiede mia madre.
Lui quel che pensa non lo dice perché non vuol fare la figura del bigotto (mio
padre odia i bigotti), perciò dice soltanto: "Sporcheranno tutto quanto! Sfasceranno un
sacco di roba!"
"Oh, be'," dice mia madre "anche se rompono un po' di cavalli, cosa vuoi che sia!"
"Cavalli?" dice mio padre con sospetto. "Chi è che rompe i cavalli? A chi li
rompono?"
Mia madre batte il piede. "Bicchieri" spiega. "I cavalli sono bicchieri."
"Ah" dice mio padre con l'occhio vacuo. E va al ristorante per non sapere altro.
I padri, chissà come sono stati da ragazzi. Certo non come credono di essere stati.
"Allora fate i bravi" dice mia madre prima di uscire. "Non rompete troppi cavalli."
LE ORGE DEL SABATO

Sempre per via che è una chioccia in incognito, a mio padre non piace che i figli
escano di sera. Neanche a lui piace uscire di sera. Fa eccezione il sabato, che è dedicato
alle orge.
Durante la settimana, se mio fratello esce di sera è per andare alla scuola del jazz o
a un concerto, e mio padre ce lo accompagna; al Maurizio non è che gli dispiaccia (oltre
tutto gli fa comodo essere portato e riportato in macchina), solo gli scoccia fare la figura
di quello accompagnato dal padre, "sempre col babbino, sempre col babbino", così
escono litigando e rientrano litigando: cioè, è mio padre che litiga, mentre il Maurizio fa
la resistenza passiva, tirando pazzo mio padre.
Mia sorella, invece, se esce di sera è per andare a qualche riunione marxista e il
Dario ce l'accompagna furibondo, furibondo la va a riprendere, furibondo la riporta a
casa e furibonda lei se ne va a letto, sbatacchiando le cose e dicendo che così non si può
andare avanti. Ma io credo che si divertano, quei due lì, a essere furibondi, una specie di
don Camillo e Peppone ma di sesso diverso e molto più seri. Alla Bruna essere
paragonata a Peppone credo che non le piacerebbe niente, ma tanto non lo sa. Col Paolo
(il Paolo è stato una specie di suo primo amore), non litigavano mai, e infatti si sono
stufati. Col Dario sono due anni che sbatacchia le cose e dice che così non si può andare
avanti, ma guai a chi glielo tocca. E più litigano e più si attaccano.
Anche a me piacerebbe litigare così con un ragazzo. Per cose serie, dico. Ma parlo
troppo adagio e nessuno mi starebbe a sentire. L'Antonio men che meno.
Ma questo non c’èntra. Perdo sempre il filo, come mia madre. Dicevo del sabato.
Dunque al sabato sera i babbi (cosi noi chiamiamo per brevità i genitori in massa, madri
comprese) vanno tutti insieme al ristorante, di solito fuori Milano, e noi ragazzi restiamo
a casa tutti insieme. Il che significa che per tutto il tempo, al ristorante, in macchina o
dovunque sia, mio padre forma la disperazione d'ogni altro babbo (mia madre compresa)
col suo stare sulle spine, sbuffare, far andare i piedi e rovinare la digestione a tutti
continuando a pensare chissà cosa mai starà succedendo a casa.
Infatti succede di tutto. Tranne quello che lui pensa, credo.
Certe volte, se i babbi si levano dai piedi un po' prestino, prima di cena vengono
gli amici jazzisti di mio fratello a fare la jam session, che sarebbe poi un concerto, ma
improvvisato e dove ognuno suona quel che gli. pare, se ho ben capito. Gli amici di mio
fratello sono di due tipi: jazzisti (freddi) e filosofi buddisti (zen). I buddisti zen, per
quanto mentecatti possano sembrare, di baccano non ne fanno molto: tutt'al più, se
hanno qualcosa da bere, dopo un po' li trovi seduti per terra o sui lavabi che
filosofeggiano, oppure compongono poemi zen in società, battendoli a macchina un po'
per uno su rotoli di carta igienica. Sono quindi abbastanza ben tollerati dalle madri (dai
padri meno) e si possono invitare anche in giorni qualsiasi. Non così i jazzisti, che a
causa del rumore sono mal tollerati sia dai padri sia dalle madri e si possono quindi
invitare solo in totale assenza dei medesimi. In casa mia, cioè, solo al sabato sera. Mio
fratello ne invita solo due o tre per volta, comunque è come se fossero due o trecento,
perché ognuno suona magari uno strumento solo, ma non fa altro che suonarlo, sempre
lo strumento, tutto lo strumento, nient'altro che lo strumento; le loro madri dicono che
mangiano, dormono e vanno al gabinetto con lo strumento, ma forse esagerano.
Comunque tra loro si chiamano anche col nome dello strumento invece che col nome o
cognome; così capita che si va al telefono e si sente una voce profonda che dice: "Sono
la Tromba. C’è il Clarone?" oppure: "E in casa il Sax Alto? Sono la Chitarra Bassa". Le
prime volte restavo secca. Poi mi sono abituata; anche a sentirli dire, presentandosi a mia
madre: "Buongiorno, signora, siamo la Sezione Ritmica ".
Dunque, quando vengono gli Strumenti non si può fare altro che starli a sentire.
Se ci sono solo il Sax Baritono, il Sax Alto e la Chitarra, starli a sentire mi piace: anche se
è musica troppo difficile, che non capisco ancora bene, mi piace lo stesso, specie quando
fa gli assolo mio fratello, voglio dire il Sax Alto (trasformabile a richiesta in Flauto e
Clarone); ai concerti veri, col pubblico dico, quando fa gli assolo ho sempre una paura
nera che faccia una stecca e sto malissimo; mia madre lo stesso. Ma a casa può fare tutte
le stecche che vuole; comunque non ne fa, credo. Quando ci sono quei tre lì, dicevo, la
jam session viene molto bella. Ma quando c’è la Tromba, un fanatico di uno che tira certi
acuti che uccide, o la Batteria, che se si scatena dentro un appartamento è roba da non
sognarsela neanche, allora la jam session è la fine del mondo; e non serve tapparsi le
orecchie e mettere la testa sotto i cuscini, l'unico modo di sopravvivere e prendere parte
attiva in qualche modo, applaudendo, fischiando all'americana, battendo i piedi, tra latrati
incommensurabili di cani, finche non intervengono i vicini con telefonate, colpi di scopa
e grida isteriche attraverso i muri. Allora, a un segnale di mio fratello, gli Strumenti
-interrompono di botto i loro cerebrali ghirigori e di botto attaccano tutti insieme:
"Mazza la Vecchia - col flit! E se non muore - col gas!", che sarebbe il loro canto
-del cigno con intenzioni polemiche. Dopo di che mettono via gli strumenti e se ne
vanno come sono venuti. Dalle finestre i vicini osservano frementi la loro ritirata;
qualche volta ce n'è uno che manda una raccomandata al padrone di casa, il quale
avendo un figlio Trombone mette tutto a tacere.
Partiti gli strumenti, restiamo noi soliti sei; noi tre fratelli e loro tre fratelli (Dario,
Tessa e Antonio, dico). Noi ragazze mettiamo la tavola, cuciniamo, sprepariamo,
laviamo i piatti, mentre i ragazzi ci danno consigli sul come mettere la tavola, cucinare,
spreparare, lavare i piatti. così litighiamo tutto il tempo: un po' per ridere e un po' no..
Ogni tanto si fanno scioperi, con dimostrazioni cartelli e richieste sindacali, ma le cose
restano come stanno.
Poi il Dario e la Bruna si siedono in un angolo del divano e cominciano, mano
nella mano, i loro litigi privati su quelle che chiamano "questioni di fondo" o "divergenze
di carattere ideologico". Ogni tanto si dimenticano di essere divergenti e allora si
guardano come se fossero l'unico ragazzo e l'unica ragazza della terra, bisbigliano e
ridono, e se sono proprio allegri si picchiano anche.
Il Maurizio e la Tessa, che di divergenze ideologiche non ne hanno, si picchiano
sempre. Cioè, è la Tessa che picchia, mentre il Maurizio, le mani giunte sopra la testa per
ripararsela, declama versi cinesi. Per esempio: "A Yen l'erba pare giada e di seta ahi la
mia testa a Ch'in i gelsi mi fai il solletico chinano i rami verdi piantala disgraziata".
"Era così fin da piccola" dice il Dario guardando sua sorella. "Lei e l'Antonio
erano sempre pieni di cerotti."
"E tu?" chiede la Bruna.
"Io ero ingessato" dice il Dario con voce mesta. Lui ha sempre l'aria di avere
l'aureola. Ma chi ha suonato per primo il campanello del farmacista, quella famosa volta?
Chiedetelo a lui. E chi ha avuto l'idea di mettere il detersivo nella piscina della villa del
Tedesco? Chiedete, chiedete a quello dell'aureola: lui lo sa.
Da voci di famiglia risulta poi che era proprio lui, il piu grande, il perfettone, a
pestare gli altri due. Mentre l'Antonio, che era il più piccolo, si nascondeva dietro i
mobili e di là gridava: "Fra tre anni vi faccio fuori tutti", avesse quattro anni, sei o dieci,
diceva sempre: "fra tre anni". Lui si scoccia un po' quando raccontano questa cosa.
Invece è la prima cosa per cui m'è diventato simpatico: pensarlo nascosto in un angolo,
piccolo e nero e arrabbiatissimo, a urlare minacce a vuoto. Quando mi fa venire il
nervoso (non lo sa, ma me lo fa venire spesso) lo penso così e delle volte mi passa.
Vorrei averlo conosciuto piccolo. O forse no. Se l'avessi conosciuto da sempre, come gli
altri ragazzi di San Mamete, forse non avrei preso quella specie di cotta. Invece è arrivato
che avevo dodici anni, e zac, cotta. Anche mia madre ha preso la prima cotta a undici
anni, per un suo compagno di scuola che si chiamava Bandirali e parlava in erre e altro
non si ricorda.
Tornando all'Antonio, non credo che sia molto cambiato crescendo, e neanche la
Tessa. Si racconta che una volta, quando erano piccoli, l'Antonio per sbaglio ha dato un
colpo sul naso della Tessa facendoglielo sanguinare, e lei infuriata si a messa a morderlo
in testa, tipo conte Ugolino, e siccome intanto continuava a perdere sangue dal naso,
l'Antonio aveva tutta la faccia coperta di sangue che pareva proprio l'arcivescovo
Ruggeri nella bolgia. La madre (da noi detta la capo-mamma per il suo piglio
organizzativo) in quei frangenti mica si spaventava; con urli superacuti si buttava sui figli
menando sberle tutt'intorno: innocenti o colpevoli che fossero, la sua teoria era che, a
guadagno di tempo, conveniva picchiarli tutti. Anche adesso fa così.
Il padre invece (un signore coi capelli grigi, gli occhiali, la voce persuasiva, l'aria
austera), in genere non picchia: lui rompe i piatti. Di solito è a tavola che si arrabbia, per
qualche pietanza che non gli va bene, e slam, slam via i piatti. In sala da pranzo hanno un
mobile stile Luigi Filippo, molto imponente, che chiamano il Filippone; in un tema di
terza elementare sulla famiglia, la Tessa ha scritto così: "Mio papà ha gli occhiali fa
l'avvocato e rompe i piatti sul Filippone". Credeva che fosse uno sport consueto ai
padri. Si racconta che la domenica, quando c’era in tavola il servizio bello e l'Avvocato
cominciava a smaniare per qualche pietanza la moglie ratta gli sostituiva i piatti belli coi
piatti di tutti i giorni, che i figli prendevano dalla credenza e le passavano man mano.
"Vedi che famiglia organizzata" dice mia madre. "Noi non saremo mai così organizzati."
Io di piatti, all'Avvocato, non gliene ho mai visti rompere. Però l'ho visto
arrabbiarsi un sacco di volte, e sempre per cose stranissime; per esempio perché il sugo
della pasta è uguale a quello del giorno prima, oppure perché in un albergo al mare dove
siamo andati a Pasqua, c’erano i castelli, cioè le cuccette, invece dei letti normali. I suoi
l'avevano avvertito: "Guarda che ci sono i castelli", ma siccome certi loro amici si
chiamano Castelli, era nato un equivoco. "Dove sono Gianni e Maria?" ha chiesto
appena arrivato. "Voi mi avete detto che c’erano Gianni e Maria!" e quando poi ha visto
che i Castelli erano in realtà i castelli, ha cominciato a prenderli a pedate, dicendo che lui
lì non ci dormiva, che non aveva mai subito una simile umiliazione e non intendeva
subirla adesso che aveva i capelli grigi, e mio padre ha dovuto portarlo via a forza per
impedire il linciaggio dei castelli.
L'unico vantaggio è che quando l'Avvocato si arrabbia mio padre diventa serafico,
mentre quando si arrabbia mio padre diventa serafico l'Avvocato. Poi ognuno dei due
dice alla moglie: "Però, come s'incavola per niente questo Avvocato", "Però, quel Dino,
farebbe bene a curarsi i nervi". Boh.
Intanto ho perso di nuovo il filo. Stavo dicendo della Tessa che picchia e del
Maurizio che declama.
"Difenditi!" lo incita l'Antonio, per solidarietà virile. "Non farti battere da una
donna! Picchiala, stracciala, fa vedere che sei un uomo!"
"Io non sono un uomo comune" lo informa il Maurizio di sotto le botte. " Io
sono un bodhisattva."
I bodhisattva, se ho ben capito, sono dei tipi che hanno raggiunto il nirvana o
roba del genere. In uno dei poemi su carta igienica che si trovano in giro, sta scritto per
esempio: "Desidero raggiungere il Nirvana / essere tanto buono da far
spavento / e se ci riuscirò sarò un grave pericolo per la società / probabilmente
mi metteranno in manicomio". Questo può forse dare un'idea di che cosa sia un
bodhisattva. Quando è molto contento (cioè quando suona, quando beve, quando va
sott'acqua, quando scia, quando c'è la luna, quando la Tessa lo picchia e in molte altre
occasioni, purché non ci siano i grandi presenti) mio fratello è sempre un bodhisattva. Si
butta nelle imprese più spericolate e nelle cagnare più spaventose conservando la ieratica
calma e l'eloquio rarefatto di un abitante del nirvana. A Bormio, per esempio, lo si vede
arrivar giù sparato dalle discese più pazzesche (mio fratello scia meglio di tutti al mondo,
credo), volare e guizzare tra pini e burroni dicendo: "oh inesprimibile buddità di una
cunetta di neve, heup che la salto, voglio essere vagabondo alla ricerca del darma,
urca la buca crash". Se cade (e quando cade sono voli di metri e metri) tutti accorrono
angosciati, certi di trovarlo fracassato, pronto per la barella e l'autolettiga, e invece lui e lì
seduto sugli sci che si riaccende la pipa dicendo: "Io sono certo un bodhisattva
fortunato bop bop oh incommensurabile buddità di uno zompo nella neve
fresca", e tutti a dirgli parolacce finche lui riparte a razzo seminando panico e massime
buddiste. La sera, quando andiamo a giocare con le slitte di fianco alla funivia, mio
fratello bodhisattva, in piedi sulla slitta,le mani giunte sopra la testa in segno di buddità,
viene giù a catafascio investendo tutti quanti tra grida e divincolamenti immani, finche
scoppia la rivolta e tutti gli sono addosso a pestarlo, e al di sotto della mischia si sente
venir fuori una voce ieratica che dice: "Insieme nell'ora ci ritroveremo lontano ahi
disgraziati lontano nel Fiume delle stelle il solletico no, porco giuda".
Nessuno direbbe, guardandolo, che un tipo così serio, smilzo e taciturno, dedito a
elevate letture e musiche cerebrali, possa essere all'occasione un pericolo pubblico
scatenato; però non picchia mai nessuno, per nessuna ragione. È una questione di
principio, per lui. Mio padre non è d'accordo. Neanche lui picchia, ch'io sappia, però
non è d'accordo.
"E se gli altri picchiano te?" dice. "Se non impari a picchiare, non impari neanche
a difenderti."
"È con la scusa di difendersi" dice mio fratello "che son cominciate tutte le
guerre."
"Cosa ne sai tu delle guerre! Chiudi il becco, va'! Io sì posso parlare! Io l'ho fatta,
la guerra!"
"Appunto" dice mio fratello.
"Come, appunto? Adesso sta' a vedere che siamo entrati in guerra perché io
sapevo picchiare."
"Tutti quelli che picchiano" dice mio fratello "sono najoni in potenza."
Najone, nel linguaggio di mio fratello, significa militarista. Somma offesa, che
manda in bestia mio padre, mentre mio fratello lo guarda quieto dal fondo dei suoi occhi
neri, facendolo sentire sempre più najone.
Anche la Tessa fa finta di arrabbiarsi. "Ah, dunque io sarei una najona! Dunque la
mia famiglia sarebbe una famiglia di najoni!" e giù botte da orbi.
"Compatisci, o Budda, la pochezza mentale di costei" dice mio fratello, e fugge
con la Tessa alle calcagna e i cani che zompano intorno latrando da matti per mettere
ordine.
Comunque hanno l'aria di divertirsi molto, loro. Sia la Tessa e il Maurizio con le
loro botte, sia la Bruna e il Dario con le loro divergenze ideologiche. Credo che tutto
diventi divertente, quando due si vogliono bene davvero.
Intanto io e l'Antonio tapini sentiamo un po' di dischi, cantacronache, Joao
Gilberto, Francoise Hardy, Strawinski e Debussy, tutta una democrazia, ma non è che
ascoltiamo molto né io né lui. Anche sentire insieme i dischi che amiamo, a Milano ci
riesce difficile. Nelle pause tra un disco e l'altro, diciamo a tentoni un po' di parole che
non interessano nessuno dei due, e sembriamo più che mai il gatto Pugaciof con la
Giovanna. Io che faccio il mammut e lui che gira intorno tra incuriosito e scocciato.
Quando ci vediamo a Milano è sempre così. Ha la cravatta, la giacca, le scarpe da città, e
niente che io gli possa dire. È l'Antonio? È lo stesso ragazzo con cui ho contato le stelle
sul molo, ho cercato le pietre focaie sulla rivetta del fiume, ho colto felci e more nella
conca al di là del lago? Lo stesso che mi insegnava il twist in soffitta, che mi portava in
lambretta per le mulattiere, che una sera di settembre sulla prua di una vecchia barca ha
pianto con me perché l’estate finiva? Forse quel ragazzo lì esiste solo a San Mamete. O
forse non è mai esistito, l'ho inventato io, forse tutto è inventato, niente è reale, certe
volte mi vengono di queste idee strane, San Mamete non esiste, la mia soffitta non esiste,
niente lago, niente molo, niente eco della conca, mi sono inventata tutto, so che sono
idee sceme, ma mi vengono e mi fanno star male, come essere sola in un pozzo, senza
un posto dove andare, senza più estati da vivere, senza più nessuno da amare, tutto frana
e si deforma appena lo guardo, è orribile; "sono matta", mi dico allora, "sono matta", ma
non è che sia una gran consolazione essere matta. E pazienza quando 'ste crisi del non-
essere mi vengono di notte, posso piangere dentro il cuscino finché mi addormento, ma
quando mi succede in mezzo agli altri è tremendo. Non posso mica mettermi a piangere
davanti all'Antonio. O dirgli: per piacere, sei vero o ti ho inventato io? Sei lo stesso che
vedo in estate o sei un altro? O non ci sei per niente? Chissà che faccia farebbe. Mi fa
ridere pensarci.
"Perché ridi?" dice.
"Boh" dico.
Se piangessi, direbbe: "Perché piangi?" e io direi: "Boh".
I nostri discorsi sono circa sempre così.
Finisce che per sentirmi meno campata in aria prendo un giornale e mi metto a
leggerlo, e l'Antonio dice: "Be', ciao, andrò al cinema", oppure prende un altro giornale e
si mette a leggere anche lui.
Gli altri quattro intanto continuano a pestarsi e a parlare di ideologie.
Così ci trovano i babbi quando tornano. Le madri ridono. I padri sembrano
sollevati, ma un po' delusi.
"Che deficienti" dice mio padre. "Io ai miei tempi..."
"I ragazzi d'adesso, mica sanno vivere" dice l'Avvocato.
ESAMI E MALATTIE

Io li ho finiti, gli esami, ma i miei fratelli no. Così non si può partire: tutti giorni
d'estate sprecati. Sono stata promossa con la media del quasi otto e per premio mi hanno
regalato una chitarra, grande quasi come quella della Bruna. Pare che Olivieri, lo
psicologo coi baffi della mamma, dica che la chitarra aiuta la favella. A me piace
suonarla, ma favella niente. Negli intervalli tra lo studio, il Dario e la politica, mia sorella
mi ha insegnato un po' di accordi; sono già capace di accompagnare tutti i canti della
Resistenza. Non è mica difficile, basta fare frun frun al momento giusto e col tono
giusto; però mio fratello dice che ho molta disposizione, orecchio, senso musicale e bla
bla bla, e che dovrei studiare il contrabbasso, che è uno strumento più serio.
"E che ci fa col contrabbasso, ci si arrampica sopra?" dice mio padre. "E poi una
donna col contrabbasso, chi l'ha mai vista?"
Mio fratello dice che sono tutti pregiudizi. Che se c’è uguaglianza di diritti deve
esserci anche uguaglianza di strumenti. Che il contrabbasso va benissimo. Che devo
prendere lezioni da Buratti e fare sul serio. Io non so se ho molta voglia di fare sul serio,
come fa a far sul serio una arrampicata sul contrabbasso, però forse se studiassi musica
mio fratello parlerebbe di più con me. Quando eravamo piccoli parlavamo sempre, mi
raccontava un sacco di cose stranissime e me le ricordo tutte, con nessuno stavo bene
come con mio fratello. Anche adesso ci sto bene, però non ci parliamo quasi niente.
Eppure dentro ci assomigliamo, credo; forse e proprio per questo che non riusciamo più
a parlare. Magari la musica ci aiuterebbe. O magari invece suoneremmo soltanto e non
parleremmo più del tutto. Comunque c'è tempo. Per adesso mi basta fare frun frun e ne
avanza.
Dovrei essere contenta che ho finito la scuola, invece è peggio. Mi stufo di
sognare San Mamete quando potrei già esserci. C'è ancora un sacco di tempo prima che
finiscano i loro esami.
La Bruna ne deve fare un fracco perché lei e il Dario hanno deciso di laurearsi
prestissimo e sposarsi subito dopo, politica o no. Chissà che figli verranno fuori, mezzi
rossi e mezzi neri; o forse, come dice mia madre, avranno un colorino medio: Tipo
quello che c’è al governo adesso. Mio padre non lo sa che vogliono sposarsi subito, però
credo che nel subcosciente lo sospetti, perché quando vede la Bruna studiare tanto
comincia a fare quelle che lei chiama le azioni di disturbo.
"Compagna!" da un po' di tempo la chiama compagna, cosa che le dà molto ai
nervi e lui lo sa. "Compagna, tira un po' su quel naso dai libri, vuoi diventare orba!
Compagna, tira un po' indietro quella capelliera, ci vuoi far casa sotto?" La capelliera
sono i capelli di mia sorella, che essendo lunghi, folti e lisci, quando studia le scendono
davanti e la nascondono come dietro un sipario. A lei fa comodo, a mio padre no.
"Compagna, piantala un po' con quei libri della malora! Chi te lo fa fare, Carlo Marx? Se
non sono i libri è la politica, se non è la politica è quel Dario dell'accidente, guarda se è il
modo di vivere a vent'anni."
Di solito mia sorella non alza neanche la testa. Ma l'altra sera improvvisamente
apre il sipario e solleva su mio padre due occhi celestissimi:
“Per vivere bene dovrei dedicarmi ai lavori donneschi, suppongo" dice. Mia
sorella ha sempre avuto una radicata avversione per i lavori donneschi, come lei li
chiama. Più che avversione, mia madre dice che è una specie di allergia.
"Perché, sarebbe un disonore aiutare un po' in casa?" dice mio padre aggressivo.
"Carlo Marx si rivolterebbe nella tomba? I tuoi compagni ti radierebbero?"
La Bruna non raccoglie l'ironia. "Se questo può darti conforto," dice freddamente
"ho imparato a fare le uova al burro e le bistecche alla griglia." Dopo una pausa d'effetto,
butta la con noncuranza: "Ieri ho stirato una camicia del Maurizio".
"O Madonna" dice il Maurizio guardandosi la camicia con aria sconvolta.
Anche mio padre ha l'aria sconvolta. "Cosa le è preso?" chiede a mia madre. "Chi
le ha insegnato? "
Mia madre si stringe nelle spalle: "Avrà preso lezioni private dalla Rosa".
"Proprio adesso? Proprio sotto esami si mette a fare lavori donneschi?"
"Diversivo" dice mia madre con voce amabile.
Mio padre la guarda con sospetto, poi guarda con sospetto la Bruna, che è intanto
riscomparsa dietro il sipario. "E va' un po' a spasso, invece! Va' un po' a ballare! Goditela
un po', finche sei in tempo!" Ma se poi la Bruna andasse a spasso, a ballare e a godersela,
non si sa mio padre cosa direbbe. Cioè lo si sa benissimo. Anche lui lo sa.
Quello che non sa (ufficialmente, almeno) è che tutti i pomeriggi, in sua assenza,
la Bruna e il Dario studiano insieme; un po' da noi e un po' da loro, ma sempre insieme.
Lui fa architettura, lei fa lettere moderne, ma fa niente, gli basta stare vicini. Uno di qua e
l'altra di là del tavolo, studiano come negri, studiano come matti, studiano tanto che non
litigano neanche più. La mamma sospira e dice che si sposeranno prestissimo; che
quando due studiano tanto vuol dire che si sposeranno prestissimo. Attraverso il tavolo
si tengono la mano, si fanno le carezzine, senza mai alzare gli occhi dai libri, e potrebbe
cascare il mondo che non se ne accorgerebbero. Anche a me piacerebbe studiare cosi.
"Ecco i due limonenti" dice la mamma del Dario quando li vede arrivare con tutti
i loro libri e fogli e matite e mani intrecciate. "Largo ai due limonenti" dice sbarazzando
il tavolo.
Anche il Maurizio e la Tessa studiano insieme. Però loro non sono limonenti, non
si tengono per mano, non si fanno carezzine: si pestano e basta. Lei fa la maturità
classica, lui quella scientifica, ma si fanno reciprocamente i ripassi, le interrogazioni
eccetera, lei dice che lui non sa niente di latino, lui dice che lei non capisce un corno di
matematica, e la casa risuona delle loro urla, insulti, inseguimenti e latrati di cani. Anche
così, mi piacerebbe studiare.
Quando la Tessa non c’è, al Maurizio gli viene la psicosi. Dice che è stanco, che
non si ricorda le cose, che non gli vengono le parole, che i luridi (i luridi sono gli
esaminatori) gli chiederanno le notiziole (il Maurizio ha la fissa delle notiziole), che lui le
notiziole non le sa e non le vuole sapere e così i luridi lo bocceranno e lui non riuscirà
mai a uscire da quel lurido liceo per via delle luride notiziole, eccetera eccetera. Dopo di
ché si stende sul letto, un gatto sullo stomaco e il giradischi acceso, a fissare il muro con
gli occhi vacui; e questa sarebbe la psicosi.
"Ma che psicosi!" urla mio padre. "Ha la coscienza sporca, ecco cos'ha! Per tutti i
trimestri sta dietro ai suoi tromboni e ai suoi zen della malora, e poi gli viene la psicosi
degli esami! Gliela do io la psicosi, a quello lì" ma alla mattina è lui che si alza mezz'ora
prima per fargli la bistecca al sangue con l'uovo sopra.
In quanto a me, nessuno mi bada molto in questo periodo, hanno tutti troppo da
fare. Sto quasi tutto il giorno in giardino, povero giardinetto milanese, soffocante,
striminzito, assediato dalla polvere e dalle puzze e dalla gente che strappa la vite
americana della cancellata per guardare dentro e dire: uh guarda, la poltrona senza gambe
(è quella pensile su cui sto seduta, di vimini, appesa con la catena al ramo del ciliegio); uh
guarda, le ciliege; uh guarda, la chitarra; uh senti il giradischi; uh guarda, due cani come
Lassie; uh guarda, quanti gatti! uh mamma, ma l'e un gatt quel lì? (dubbio riferito al
Pluto che ronfa dal suo mucchio di pelo nero). Qualsiasi cosa si faccia in questo
giardino, subito arrivano i commenti dalla cancellata. La mamma dice che è come il coro
nelle tragedie greche. In principio mi scocciavo un po', ma adesso ci ho fatto l'abitudine.
Dunque, sto quasi tutto il giorno in giardino: a leggere, a fare frun frun, a giocare al
riporto col Bao e la Bahia urlanti, a fare quadratini all'uncinetto, a guardare i gatti che
poltriscono nell'erba impolverata; a sognare la Valsolda (tanto per cambiare), a essere
triste (tanto p.c.), a scrivere poesie (t.p.c.). Fa caldo. Il caldo mi piace, ma non qua.
Anche l'Antonio sta preparandosi agli esami, forse sarà bocciato; lui lo è spesso, e io mi
sono messa in mente che abbia il complesso di interiorità nei confronti dei suoi fratelli
che invece sono sempre promossi e bravissimi e tutto, e questa è una delle ragioni per
cui gli ho voluto bene, ma forse lui non si sogna di avere nessun complesso, sta benone
com'è e invece di studiare va a spasso con le ragazze, anzi credo di sicuro, e io sto qui a
fare frun frun e scrivere poesie e pensare che non studieremo mai insieme, io e lui.
"Perché non vai un po' a spasso?" dice ogni tanto mia madre, senza smettere di
scrivere. A spasso dove? Con chi? Da sola non mi piace, la Sandra è partita, coi
molluschi non ci vado, mi restano il Bao e la Bahia, ma tirano da matti al guinzaglio, la
gente mi ride dietro, e dopo un po' mi sento Ben-Hur, mi fanno male le braccia e torno a
casa. "Già tornata?" dice mia madre continuando a scrivere.
Così arriva sera, e a tavola non ho fame. Mia madre mi guarda sopra gli occhiali
abbassati, come guarda i pippiolini del suo uncinetto quando non le riescono.
"Dovrei portarla da Olivieri" ha detto l'altra sera. Sono mesi che lo dice, fortuna
che se ne dimentica sempre.
"Basta con questo Olivieri!" grida mio padre. "Basta con quel cacciaballe! Vuoi
farla rincretinire del tutto?'' Come se mi reputasse cretina a meta. Mica bello da parte sua.
"Ma se ha avuto la media del quasi Otto" protesta mia madre. Dice sempre che i
voti di scuola non contano, ma pur di difendermi è disposta a smentire tutte le sue
teorie.
"Solo a scuola si sveglia! " grida mio padre. "A casa dorme! Tutto il giorno a far
niente, e poi la sera non ha fame! Mandala a lavorare, e vedrai che la fame le viene! È
che è viziata, ecco cos'è! Tutti i tuoi figli sono viziati! Non sanno fare niente di utile! Solo
fesserie sanno fare! Per forza poi hanno la psicosi e le altre balle!" Mi ha guardato con
furore: "E cosa si aspetta a chiamare il Nero Veloce?"
Il Nero Veloce è il nostro medico di casa. Il soprannome gli è rimasto dai tempi
dell'università, quando tra una lezione e l'altra correva già al bar della facoltà e gridava al
barista: "Un nero veloce!" per dire: un caffè alla svelta. Da allora nessuno, dice mia
madre, l'ha più chiamato col suo nome. Tra i tanti medici che mia madre ama consultare,
il Nero Veloce è l'unico che mio padre tolleri e rispetti. Forse perché si arrabbia circa
come lui. Se siamo ammalati si arrabbia perché siamo ammalati ("questo frescone si è
beccato la bronchite!", "l'oca padovana ha le tonsille infiammate! "); se non siamo
ammalati si arrabbia perché non lo siamo: "Vuoi piantarla di chiamarmi per niente?" dice
a mia madre, sbatacchiando irosamente lo stetoscopio. "Ho un sacco di malati seri che
mi aspettano, io, ho mica tempo di star dietro alle tue frescacce!'' Le manie di mia madre
lui le chiama frescacce, mio padre pallini, Olivieri fobie. Mia madre ne ha un sacco, di
fobie: claustrofobia, agorafobia, ma la più grave è la patofobia, che vorrebbe dire paura
delle malattie. Ogni tanto, anzi ogni pochissimo, si mette in mente di avere malattie
terribili e fulminanti, e circola per casa con l'aria di quella che ha un piede nella fossa.
Quest'anno ha avuto un paio di infarti, una mezza dozzina di tumori (ognuno in una
parte diversa del corpo), un'arteriosclerosi galoppante, una volta dopo essersi punta in
giardino potando il rosaio le è venuto in mente che sarebbe potuto venirle il tetano e in
capo a un'ora aveva il tetano, cioè tutti i sintomi, le mascelle serrate, le contrazioni, il
trisma, il risus sardonicus e tutto quanto (dopo ha scoperto che certi dei sintomi che
aveva vengono solo ai cavalli, ma nell'agitazione aveva letto male il dizionario medico e
così le erano venuti pure quelli).
Figuriamoci il Nero Veloce, che la conosce da quando era piccola. Gli altri medici,
dopo averla ascoltata, di solito le danno un sedativo e qualche buona parola in cambio di
diecimila lire, e lei guarisce per incanto. Il Nero Veloce le dice un sacco di insolenze: e lei
guarisce lo stesso. Tutti i sintomi le spariscono in un baleno: sparito il cancro, sparito
l'infarto, sparito il tetano, risanata in un minuto. E felice come una pasqua: perché mia
madre, con tutte le sue disgrazie e i suoi dolori veri, ama moltissimo la vita. E proprio
per questo, credo, che ha tanta paura di morire.
"Quando sarai malata sul serio nessuno ti crederà!' la minacciano in coro mio
padre e il Nero Veloce. "Ti lasceremo morire tra i tormenti, ecco cosa faremo!" Lei li
guarda compunta, con gli occhi che le ridono in segreto, e dice che non lo farà più.
Naturalmente sa che lo farà ancora, e anche loro lo sanno, e sanno anche che si
spaventeranno ogni volta. Per questo sono così inferociti, dopo.
E il bello è che la patofobia non ce l'ha solo per se stessa, mia madre, ma anche
per gli altri; e il suo potere di suggestione è così forte che riesce delle volte a contagiare
anche i più refrattari. Per esempio, qualche settimana fa, una sera, ha cominciato a
guardare il collo di mio padre con un'aria strana. " Stai bene?" gli chiedeva. "Non ti senti
niente?"
"Sto benissimo!" rispondeva mio padre scocciato. "Cosa dovrei sentire?"
"Ma, non so, mi pareva... Mi pareva che avessi un gonfiore sul collo. Come uno
gnocco, lì davanti. Non te lo senti?"
Mio padre si tocca il collo li davanti. Lo ritocca. Dice che, effettivamente, gli pare
di sentirsi uno gnocco, sicuro che c’è uno gnocco, ma guarda che gnocco, cosa sarà 'sto
gnocco. "Adesso che ci faccio caso, mi fa anche un po' male. A pensarci bene, faccio
anche fatica a inghiottire."
"Non sarà niente," dice mia madre "ma è meglio telefonare al Nero Veloce."
Il Nero Veloce, sentita la descrizione dello gnocco, ha detto di andare da lui la
mattina dopo. "Non sarà niente, ma a meglio che ti fai vedere subito."
E cosi, dopo una notte insonne, continuando a dire "non sarà niente'', e a pensare
"cancro del fumatore", sono andati. La mamma ha aspettato in anticamera e il tempo
non passava mai e c’era una pendola che faceva toc, toc, toc (mia madre è molto brava a
descrivere la suspense, non per niente scrive romanzi a puntate), e le pareva di aver
aspettato due secoli, quando dopo due minuti sono usciti mio padre e il Nero Veloce.
"Era un osso" le ha detto mio padre con voce strana.
"Non un osso! L'osso!" ha urlato il Nero Veloce furente. "L'osso del collo!
Credevi che tuo marito non ce l'avesse, l'osso del collo? Tu non ce l'hai forse?"
Mia madre si è toccata il collo. Sì, ce l'aveva.
"Che strano" ha detto. "Non me n'ero mai accorta." Il Nero Veloce non l'ha
ancora digerita.
Mio padre neanche. "Guarda che figura da fesso che mi hai fatto fare! Mai fatta
una figura così da fesso."
“È perché ti voglio bene" ha detto mia madre con voce sentimentale. "Ho avuto
paura per te."
"Se tu sei scema, mica una buona ragione per far scemo me" ma era contento. Gli
ci vorrebbe un finto cancro ogni settimana per convincersi che ci è indispensabile.
Comunque l'altra sera è stato lui a dire che ci voleva il Nero Veloce. "Lo chiami
per tutte le tue fesserie e non lo chiami quando i figli ne hanno bisogno." Ci guardava
come se fossimo improvvisamente macilenti. "Non vedi come sono conciati? E chiama
il Nero Veloce, no?"
Così il Nero Veloce è venuto.
La Bruna l'ha scartata subito. "Via, scio! Non farti neanche vedere da me!" le ha
detto con ira. Effettivamente, si vede che lo studio, la politica e il Dario le fanno da
ricostituente: non è mai stata bella, salda e proterva come adesso. Della psicosi del
Maurizio, ha detto che son tutte frescacce e che pensi a mangiar bistecche; poi gli ha
detto che il giorno degli orali gli darà lui una pilloletta speciale, una sola, mirabolante,
segretissima, che gli farà ricordare tutto, anche quello che non ha studiato, anche i
numeri delle pagine.
"Anche le luride notiziole?" ha detto il Maurizio.
"Anche le più luride" ha promesso il Nero Veloce. "Ti verrà uno scilinguagnolo
mai visto." Mio fratello con lo scilinguagnolo, non riesco a figurarmelo. Comunque
adesso il Maurizio è là che fa le jam sessions e scrive poemi e fa gazzarre con la Tessa,
che tanto gli esami glieli fa la pilloletta. Ci fosse una pilloletta anche per me. Mica per gli
esami, cosa m'importa degli esami, ma per parlare con la gente senza avere il rallentatore
e la sordina e la paura di non so che cosa. Boh.
A me, il Nero Veloce ha detto: "Uei, frescotta. Cosa sarebbe questa storia del
mangiar poco e aver la luna e la faccia verdesina? Piacciono mica 'ste storie, a me. Fai
piacere di far fagotto e menare le ruote" il Nero Veloce parla cosi.
" Menare le ruote dove?" ha detto la mamma.
"A San Mamete" ha detto il Nero, che mi conosce da che son nata. "A San
Mamete le passa tutto."
"Ma gli altri due hanno gli esami" ha detto mia madre. "Il Maurizio ha la psic... si
dico, la maturità, non posso lasciarlo proprio adesso."
"E tu che c’entri?" ha detto il Nero Veloce. "È lei che deve andare, mica tu.
Mandacela con qualche zia, con qualche cugina, che ce n'ha un fracco. Dovrà mica star
sempre attaccata alle tue sottane! Crederai mica di essere insostituibile?"
"No" ha detto la mamma senza sorridere. "Immagino di no. Immagino che starà
benone anche senza di me. Quando lavoro, non è che le faccia molta compagnia.''
Tu mi fai sempre compagnia, avrei voluto dirle. E io non sto bene senza di te. Mi
sarebbe piaciuto proprio dirglielo. Però volevo andare a San Mamete, così non l'ho
detto.
"Con chi ci vorresti andare?" ha detto mia madre.
"Boh.'' Non m'importava con chi. Bastava andarci.
"Non dire sempre boh!" ha detto mia madre. "È troppo comodo dire boh! " Poi
mi ha sorriso, quella tonnellata di allegria attraverso un passaggio stretto stretto. "Sono
un po' nervosina" si è scusata.
Non era solo nervosina, era triste e io lo sapevo e non facevo niente per evitarlo.
Nessuno fa mai niente: I figli, trovo che sono uno schifo.
"Trovero io qualcuno" ha detto allegramente mia madre.
E così domani parto. A quest'ora sarò a San Mamete, nella mia soffitta, sentirò i
ghiri correre sul tetto a salutare la luna, e il lago borbottare contro il molo. Sono
contenta. Ma anche scontenta. Non è che mi dispiaccia lasciare la famiglia. Mi dispiace
che non mi dispiaccia. Credo di essere egoista. Non voglio essere egoista! Ma lo sono,
ecco qua. Forse mio padre ha ragione, se dovessi lavorare per vivere... Ma che colpa ne
ho io se non devo lavorare per vivere? Insomma, tutto questo è molto triste. No, non
molto triste. Solo un po'.
Domani a San Mamete mi passa tutto.
NON SARÀ NOSTALGIA

Forse qualcuno mi ha chiamata. Sono sveglia.


Allora è vero, sono qua. Nella mia casa. Nella mia soffitta. Sotto c’è la voce del
lago e sopra quella degli uccelli. Non sto sognando. Sul letto c'è la coperta a quadratini
fatta da me e nell'aria il colore verde dei risvegli. È un mattino "vero" di luglio. Non me
lo sto inventando io.
A quest'ora a Milano mio padre sta percorrendo il corridoio a passi di lupo,
fumando e tossendo e gridando. "Compagna! Fuori dal letto che il popolo ti chiama!",
"Alzati deficiente, te la do io la psicosi!" e forse dice anche: "Sbrigati principessa",
dimenticandosi che io non ci sono. Oppure è in cucina a friggere la bistecca ricostituente
al figlio esaurito, con la faccia aggrottata, la sigaretta appesa all'angolo della bocca,
l'occhio chiuso per non farci entrare il fumo, scottandosi le dita e levando alte invettive
alla bistecca, alla famiglia e all'umanità. Mio padre.
Strano come si vedono bene le cose quando sono lontane.
È buffo, però. Quando sono a Milano con loro non faccio che pensare di essere
qui, e adesso che sono qui non faccio che pensare a loro che sono là. Boh.
Dal piano di sotto arrivano schianti e scrosci inframmezzati da grida di cordoglio.
È la Cuginona che fa i mestieri di casa. Siamo qui a San Mamete io e lei, sole. Roba mai
vista e sentita. Forse per questo non riesco ancora a persuadermi che sia vero.
Lei è l'unica cugina che di esami non ne ha (ha ventisei anni), in più va matta per
San Mamete (ci veniva da piccola col suo papà) e in più ardeva di prendersi cura di me.
"Non penserai di affidare tua figlia a quella balorda!" gridava mio padre. "A quella
squinternata! A quella cercagrane! Neanche un gatto, le affiderei! Neanche una pulce di
gatto!''
Ed eccoci qua.
È che la Cuginona ci teneva tanto: era una specie di esame di maturità, per lei, una
prova per se stessa e per gli altri prima di sposarsi. Perché dovrebbe sposarsi, la
Cuginona, ed è mezzo morta di felicità e di spavento. Dopo tutte le sue vicissitudini e i
suoi guai, è arrivata in porto, proprio al porto che le ci voleva, e il Franco (lui si chiama
cosi) è lì che aspetta solo che lei si decida a fissare la data, ma lei non si decide, ha troppa
paura. Paura di essere troppo balorda; di far fare brutte figure al Franco; di non saper
educare bene le sue bambine: perché il Franco è vedovo (ma anche giovane e simpatico
e bello) e ha due bambine che la chiamano già mamma con voce e occhi pieni di gioia, e
lei si nasconde dietro le porte a piangere per l'emozione.
Io sono sicura che saranno felici con lei, e lei con loro, ma lei non sa ancora
crederci, ha avuto troppi guai per crederci, continua a ridere e a piangere e non sa
decidersi. Ha bisogno, ma "bisogno" di fiducia.
Credo che mio padre l'abbia capito. Mio padre non sembra, ma tante cose le
capisce. Per questo l'ha lasciata venire qui con me. E adesso m'immagino che sarà la sulle
spine, a fumare come un turco e a beccare tutti, povera chioccia nevrastenica, al pensiero
delle catastrofi cui potrei andare incontro per mano della Cuginona.
Per adesso non ci è capitato niente di sinistro. Solo un po' di vasellame rotto, e un
sacco di spaventi a vuoto della Cuginona. Perché la Cuginona è specialista in spaventi.
Per niente sobbalza e fa cadere tutto e caccia urli da gelare il sangue: il suo sangue,
specialmente.
"Chi è che ha fatto 's-sto urlo?' balbetta atterrita, portandosi la mano al cuore.
"Sei stata tu" le dico.
" Io? S-sei sicura?' chiede incredula, e tira un gran sospiro. "Lo vedi come sono
fatta?" dice poi avvilita. "Sono qui per proteggerti, e caccio gli urli."
"Ma io non mi spavento mica" le dico.
"Ma io sì" geme lei angosciata. "E poi come vuoi che faccia a sposarmi se caccio
sempre gli urli! Caccerò l'urlo anche davanti al prete! "
A me viene da ridere, a pensarci, e allora viene da ridere anche a lei, e va tutto a
posto fino al prossimo urlo. Qualsiasi cosa, anche la più normale, la più solita delle cose,
può all'improvviso suscitarle l'urlo. Una sera, per esempio, stavo entrando dal giardino
col Pluto in spalla, come milioni di altre volte: lei mi vede così col gatto in controluce, e
frac, giù tutti i piatti con un urlo incommensurabile. Boh. "ll gatto" ha spiegato poi con
voce strozzata. "ll gatto!"
Voi potreste pensare che la Cuginona abbia paura dei gatti, che sia allergica o che
so io; nossignori, la Cuginona li ama moltissimo, li cura, gli fa la pappa e li chiama minni-
minni. Ora, che in una casa normalmente piena di gatti una tipa che normalmente li ama
e li vezzeggia venga presa da un attacco isterico perché ne vede uno, era un fatto non
dico strano (niente a strano con la Cuginona) ma per lo meno curioso.
"Ma era alto!" ha spiegato lei indicandolo col dito tremante. "Un gatto alto!" e si
copriva ancora gli occhi per l'orrore, mentre il Pluto la guardava ronfando dalla mia
spalla.
La storia del gatto alto è solo un esempio. Ce ne sono un sacco così. Il fatto è che
la Cuginona, soffice e radiosa com'è, ha il sistema nervoso scassato. Il Nero Veloce lo
dice sempre. "Psicopatica" dice. "Soggetto psicopatico." È che a vederla così grande e
bionda e tutto, una specie di Anitona Ekberg molto più dolce e senza ghiaccio, la gente
si dimentica che non è altro che una povera bambina che adorava il suo papà e l'ha
perduto troppo presto. Ne ha passate di tutti i colori, dopo, povera Cuginona, cose che
a raccontarle uno non ci crede e invece sono tutte vere e tutte capitate a lei. I guai più
recenti e più grossi li ha passati con un tipo molto più vecchio di lei, che s'era messo in
testa di sposarla per forza, (tra parentesi era già sposato, come s'è poi scoperto, ma
voleva sposarla lo stesso) e siccome lei non voleva, la teneva legata minacciandola di
morte, comparendole improvvisamente davanti con la rivoltella puntata e cose del
genere.
Lei dice che il peggio non era quando sparava sul serio, il peggio era aver paura
che sparasse. Infatti una volta le ha scaricato sei colpi di rivoltella un centimetro sopra la
testa, tipo Guglielmo Tell, e lei niente, le è venuto solo un po' di singhiozzo. Un'altra
volta le è andato vicino con una biro in mano, e lei è rimasta svenuta per tre ore.
Questo tipo non era un cattivo tipo, lei dice, aveva solo quella fissa di sposarla per
forza e di sparare. Si chiamava Arturo. Per anni la Cuginona è vissuta col terrore
dell'Arturo; anche quando era con noi e lui era mille miglia lontano, le pareva di
vederselo sempre davanti, e ogni momento sobbalzava, e si portava la mano alla gola
dicendo: "Art", troppo sconvolta per dire anche il turo. Una volta le è venuto un mezzo
collasso al vedere in giardino un innaffiatoio illuminato dalla luna: diceva che le era parso
l'Arturo con una mano sul fianco e la rivoltella nell'altra.
Il guaio della Cuginona è che anche nei momenti tragici fa ridere tutti. Lei poi è la
prima a ridere di se stessa, anche quando è tanto infelice da voler morire. L'ha desiderato
davvero, certe volte. E dice che sarebbe anche morta se avesse trovato un sistema di
morire che non facesse bum e non facesse venire il mal di pancia e non facesse diventare
brutti. Poi anche se l'avesse trovato dice che forse non sarebbe morta lo stesso per via di
un pensiero fisso che aveva, tipo allucinazione: l'idea che non le entrassero i gomiti nella
bara. Si svegliava di notte con quel pensiero fisso, tutta sudata: non mi ci stanno i gomiti,
dove li metto i gomiti; insomma neanche il pensiero della morte poteva darle sollievo per
via di quei fetenti gomiti, come li chiamava. Sono diventati celebri, i gomiti della
Cuginona; mia madre parlando specifica: "Mia nipote, quella dei gomiti" oppure: "Quella
di Guglielmo Tell"; adesso dirà anche: "Quella del gatto alto".
"Squilibrata" dice mio padre. "Famiglia di squilibrati. "
Certe volte mi pare che lo siamo per davvero. Ma mia madre dice che tutte le
famiglie hanno i loro rametti. E che se non li hanno, sono famiglie noiose.
Da quando ha conosciuto il Franco, comunque, la Cuginona è migliorata molto.
Alle bare e ai gomiti non ci pensa più per niente. E noi ragazzi non passiamo più le sere
di pioggia a escogitare sistemi per eliminare l'Arturo senza farlo soffrire (perché la
Cuginona ha pietà di tutti, poverini, poveretti, non vuol fare soffrire nessuno, e la
mamma dice che è per questo che le son capitati tanti guai). È bastata la comparsa del
Franco perché l'Arturo si eliminasse da se, e anche la paura dell'Arturo. Da quando
siamo qua, ha detto "Art" una sola volta, e poi ha fatto le boccacce.
Però di urli ne caccia sempre. Tra un urlo e l'altro pulisce la casa (io faccio su i
letti), fa da mangiare (io metto la tavola), lava i piatti (io asciugo i superstiti) e ci
godiamo San Mamete noi da sole. Senza nessuno che ci sgridi, che ci chiami, che ci
faccia fretta, che ci dica: fa' questo o non fare quello. Noi e San Mamete e basta.
La mattina prendiamo il sole sul molo, e sembra strano non vedere mia madre con
la sua sdraio, il suo cappellone e il suo cestino, con l'aria e l’acqua intorno che si
riempiono di farfalle bianche che sono brandelli di fogli scritti e stracciati, e il Cigno e la
Cigna che vengono a chinarci sopra il lungo collo bianco come se volessero leggere.
A mezzogiorno facciamo il bagno, e sembra strano non vedere mia sorella stesa in
bichini sul canotto di gomma, lunga abbronzata e sdegnosa, a prendere il sole e dare
pacche in testa al Maurizio sommozzatore che affiora improvvisamente a fare azioni di
disturbo e poi riscompare verso gli abissi in una scia di bollicine e versi zen. Mio fratello
è capace di stare sott'acqua un sacco di tempo, e mia madre dovrebbe saperlo, invece si
spaventa tutte le volte. "Maurizio, Maurizio!" grida agitatissima, dal molo "Maurizio
smettila! Maurizio, ti prego! Maurizio torna subito su!" e non si accorge che il Maurizio
riemerso le sta seduto alle spalle, gambe incrociate tipo Budda, mani giunte sopra la testa
e sguardo al nirvana.
Sembra proprio strano non vederli.
Nel pomeriggio andiamo in escursione su per i sassi del fiume e la Cuginona ci
casca a semicupio ogni volta, oppure su per le vecchie mulattiere della valle; la Cuginona
è pigra e ansima da matti ma ci viene "per andar giù di fianchi" dice, e per ricordare tutte
le cose che sono successe per quei sentieri in tante infanzie; da ogni sasso, ogni
cespuglio, ogni svolta, ogni pianta vengono fuori vecchie immagini, vecchie parole, "qui
il mio papà ha detto..., e ti ricordi la tua madre?, lì è dove è caduto dentro il Maurizio
quella volta, ecco il sasso dello zio Pino, qui il nonno Strada ha avuto le vertigini... " e
ritornano, puntuali e precise, frasi e immagini e gesta anche di amici di nonni e bisnonni
che non abbiamo mai conosciuto e che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori e
domani si trasmetteranno ai nostri figli: a questo, credo, che ci attacca così a questo
paese, queste lunghe lunghe radici.
Anche i cani ricordano, o così, sembra, perché corrono avanti e indietro
annusando, scodinzolando e uggiolando sottovoce, come se facessero festa a dei
fantasmi.
Ma non sono fantasmi. Ohi dico, adesso non comincerò mica a pensare che mi
sono inventata anche loro. Anche mio padre e mia madre e i miei fratelli. Non potrei
sopportare di pensarlo neanche un minuto.
Beh, dopo aver girato per la valle e per i sassi del fiume, io e la Cuginona torniamo
a casa al tramonto, piene, di fiori, di graffi e di nostalgia. Nostalgia di cosa, se siamo qui?
Boh.
La sera, quando è buio, stiamo sul molo a guardare la luna, che in questo periodo
è una falce sottile sopra il profilo nero del Pinzernone. A quell'ora a Milano i miei stanno
in soggiorno, con la televisione che va e nessuno che l'ascolta, il papà fuma e tossisce e
insolentisce, la mamma fa pippiolini e si tira il ciuffo e prende cachet di nascosto, la
Bruna studia e cerca di conciliare il Dario e Marx, il Maurizio fa bop bop con la pipa e
spera nella pilloletta, e forse sentiranno la mancanza dei gatti che giocano coi gomitoli e
dei cani che fanno il carosello intorno. Chissà se sentono anche la mia. Io parlo così
poco. E come se non ci fossi.
Ma ci sono. Ehi, ci sono.
Ore e ore a guardare il cielo e a sentire questo profumo di tiglio, di lago e di
vecchie infanzie, che non somiglia a nessuno. E far finta di non vedere che la faccia della
Cuginona ogni tanto si bagna di lacrime (il suo papà, gli anni, gli sbagli, e i ricordi e
l'amore e la gratitudine e tutto) e anche la mia faccia delle volte si bagnerebbe, e i miei
perché non li so. Non è nostalgia. Non so cos'è. È estate, sono qui, che altro voglio?
Non lo so. Forse questa è felicità, ma lo saprò quando sarà passata. La luna sta là e non
dice niente.
"Ho deciso" ha gridato improvvisamente ieri sera la Cuginona, così forte che ho
sobbalzato io stavolta. S'è tirata a sedere e ha steso le braccia in un gesto solenne: "Ho
deciso: mi sposerò qui". Il lago e il cielo e l'infanzia ascoltavano. "Sono sicura che
inciamperò e cascherò giù per l'altare e mi verrà un singhiozzo tremendo intanto che
dico 'sì' e la signora Vailati in fondo alla chiesa dirà " 'l'avevo sempre detto che non
aveva un comportamento serio' " e qui ha fatto la voce nel naso per doppiare la
signora Vailati. Si è asciugata gli occhi col dorso della mano, ha riso e ha detto: "Domani
scrivo al Franco che voglio sposarlo subito, qui". Le tremava un po' la voce, ma si capiva
che era decisa davvero e per sempre: aveva passato gli esami di maturità.
Mi ha guardata e so che mi avrebbe baciata se nella nostra famiglia si usasse
baciarsi, ma non si usa. "Grazie" ha detto.
Grazie a me? Boh. Non so grazie di che cosa. Mica ho fatto niente, io. È questo
paese che ha fatto tutto, con tutti quei ricordi vivi di madri e di padri, di zii e nonni e
bisnonni che risalgono alla notte dei tempi e che dovranno continuarsi domani. Noi li
continueremo. I nostri figli, i nostri nipoti troveranno parole, immagini, ricordi precisi di
noi sui sassi del fiume, tra le ombre fresche della valle, nella conca dell'eco, nel cigolio
delle vecchie barche. È quasi come essere immortali.
Questo pensavo ieri sera, e non so se perché sono matta o cosa, neanche me ne
importa molto saperlo.
Adesso è mattina e sono sveglia. Chi mi ha chiamato?
"Nicoletta! Vieni in barcotto?"
È la Rosella! È arrivata. È qui, è vera. Domani arriva l'Antonio e sarà vero anche
lui, e poi arriveranno la mamma il papà e i fratelli e tutti, e sarà tutto vero. Sarò felice, se
avrò tempo di fermarmi un momento a pensarci. Adesso non ce l'ho.
Spalanco le persiane e la Rosella è lì, in piedi sulla prua del barcotto, che si tiene
ferma al molo con le mani e guarda in su coi suoi occhi azzurri e il suo sorriso da
castoro. Un giorno racconterò la Rosella ai miei figli, e loro la racconteranno ai nipoti,
che così incontreranno in ogni angolo della valle cento immagini di Roselle diverse, le
sue risate, le sfuriate, le sue frasi buffe, i suoi spettacolari incidenti, e sarà qualcosa di
vivo, parte del paese e dell'infanzia e di loro, l'amica della nonna Nicoletta.
"Muoviti stupidotta" mi dice adesso, come sempre; e non pare che sia passato
quasi un anno dall'ultima volta che siamo andate in barcotto, ma meno di un giorno.
"Non potete andarci! Fa acqua!" grida la solita voce inascoltata dalla riva, e l'aria
verde-oro si riempie di echi.
Quando ci stacchiamo dal molo, una remando e l'altra vuotando acqua col
pentolino, è come se legioni di nonni bisnonni trisnonni passati, legioni di figli nipoti
bisnipoti futuri venissero con noi, remando e vuotando acqua dal barcotto, verso la con-
ca dell'eco.
POEMA DI UN GIORNO DI PIOGGIA

A una a una, le case si sono aperte, e adesso ci siamo proprio tutti. Tutti i soliti di
tutti gli anni. Piove. Siamo tutti ammucchiati nel verandone tra giradischi magnetofoni
bridge rubamazzetto sassofono ping-pong hully gully, cani bagnati che rubano le palline,
gatti asciutti che rubano le fishes, madre che vaga in cerca di ispirazione seminando
ovunque foglietti di appunti e pastiglie antinevralgiche, padre che circola in giardino
sotto l'ombrello del nonno, fischiettando aggrondato, torso nudo, calzoncini stinti,
sigaretta appesa all'angolo della bocca e moccoli a non finire contro il Santo Mamete che
fa piovere appena arriva lui. Sono tre giorni che è qui e sono tre giorni che piove. Da
quando ho memoria, è sempre stato cosi.
A me la pioggia piace, in Valsolda. Fa una musica in lago e una musica diversa
sulle foglie, i profili aguzzi delle montagne circostanti compaiono e scompaiono tra soffi
leggeri di nebbia, e dal giardino viene un odore fresco, un odore felice.
"Il pino di fronte a tutto bagnato / dove saranno andati gli uccelli?" sta scritto sul
rotolo di carta igienica infilato nella portatile di mio fratello. "Bodhidarma nella sua
grotta / sta bestemmiando per tutta quest'acqua / dice: `porco Tathagata!' "
Tathagata sarebbe una specie di divinità buddista o roba del genere. Bodhidarma sarebbe
una specie di santone vagabondo seguace di Budda o qualcosa di simile, e questo a
l'inizio del poema odierno: quando piove mio fratello scrive sempre poemi su carta
igienica. Mia madre dice che in nessuna famiglia si fa tanto uso di carta igienica come
nella nostra: cosa vuol dire nascere poeti.
Il rotolo di oggi si intitola: "Poema scritto in un giorno di pioggia in
compagnia di Budda, Charlie Parker e Kerouac". Charlie Parker è un sassofonista
che mio fratello ama molto e anch'io: era infelice, malato, poverissimo, suonava meglio
di chiunque al mondo ed a morto giovane. Kerouac è uno scrittore americano beatnik
che piace moltissimo a mio fratello, abbastanza a mia sorella, lascia perplessa mia madre
e manda in bestia mio padre; a me non è ancora permesso leggerlo. Budda è Budda.
Questo rotolo mio fratello l'ha infilato nella macchina stamattina e ogni tanto ci va
a scrivere qualcosa così di getto. Anche gli altri possono scriverci qualcosa di getto
quando gli capita, e alla fine a leggere tutto di fila viene fuori un macello bellissimo e ci si
diverte a riconoscere gli autori. Adesso è pomeriggio, il rotolo è circa a meta e ci si
leggono già cose stranissime, come: "un motoscafo all'arancia / ed un soffitto
rachitico / un copricapo analgesico ed un bicchier di vin", ma anche: "Come mi
piacerebbe andare per i monti / libero libero libero porco giuda / col sacco a
pelo e un fornello da campo e cento salsicce / mentre canta il gallo cedrone" (e
questo è mio fratello di sicuro), "e il Maraja / seduto sul sofa / beve un grappino /
con suo cugino" (e questo mi sa che è l'Antonio) "con suo cugino che è molto
contento / per via dell'aumento / di stipendio / ottenuto per vilipendio / della
liberta" (e qui sono un po' incerta, ma per via della liberta mi pare uno di famiglia).
Comunque mio fratello lo riconosco quasi sempre perché è il più bravo di tutti, secondo
me.
Forse per questo è stato rimandato in italiano. E non per le notiziole di cui aveva
tanta paura, ma pare proprio per lo scritto, di cui era tanto sicuro. Forse si è dimenticato
che stava facendo un tema per gli esami e non un poema su carta igienica. Fatto sta che
quando si a presentato all'orale, tutto arzillo e con la pilloletta del Nero Veloce in corpo,
il professore di italiano l'ha guardato come se fosse un mentecatto, maneggiando il suo
tema come se fosse una bomba in procinto di esplodere, e per difendersi gli ha chiesto
cinquecentomila notiziole. Lui ne sapeva seicentomila. Ma l'hanno rimandato lo stesso.
Adesso dice che è stata colpa della pilloletta, che gli ha fatto ricordare troppe cose. Che
coi luridi (professori) non bisogna sapere troppe cose, eccetera eccetera.
Mio padre non è abituato ad avere figli rimandati, e immaginavamo che alla
notizia avrebbe fatto una scena turca, gridando: deficiente disgraziato, ecco i risultati dei
tuoi tromboni, ecco i risultati dei tuoi buddisti, io l'avevo sempre detto, disgraziato
deficiente. Invece no. Invece ha detto disgraziati deficienti ai professori, "e guarda come
siamo ridotti! Questa è la democrazia! Questo è il rispetto delle opinioni altrui! Popolo di
pecore! Se uno ha delle idee sue lo boicottano! Deficienti, disgraziati! Devi essere
contento che ti hanno rimandato! È un onore essere rimandato da gente simile!" e
ancora un po' il Maurizio diventava un eroe nazionale, un martire della libertà
d'opinione. Mio padre è fatto così.
Comunque mio fratello ha detto che a settembre farà un bel temino graziosino
rispettosino coi concettini ordinatini, così sarà promossino. L'ha detto con voce amara,
inframmezzando le parole con cupi bop bop della pipa. Ma se credete che sia depresso vi
sbagliate. Appena è arrivato qui, gli è passato tutto. Suona strumenti a perdifiato (il
Nicola lo accompagna al pianoforte), nuota a perdifiato, va in montagna a perdifiato, fa
sci d'acqua a perdifiato, si pesta a perdifiato con la Tessa, e quando piove scrive a
perdifiato versi polemici su carta igienica: "Ci sono al mondo tante cose che amo /
l'acqua Charlie Parker il vino / le foglie le radici e tutte le piccole piante / ma c’è
qualcosa che mi opprime / e mi fa correre urlando / sono i notai i banchieri le
istituzioni / i programmi gli occhiali le convenzioni / il raffreddore la morte le
società per azioni / gli schemi i frigoriferi la buona educazione / (cambio mano) /
ma va' a magna' er sapone ".
Tanto per la cronaca, come dice mia madre: anche l'Antonio è stato rimandato in
italiano più in alcune altre materie. Ma neanche lui appare molto depresso: c'è abituato.
Sono io che mi metto in mente che abbia i complessi eccetera eccetera, che i suoi non lo
capiscano e via dicendo. Mia madre dice che tutti i ragazzi che vanno male a scuola
trovano torme di ragazze che li compiangono e li reputano incompresi dai genitori cattivi
e dai cattivi professori. Anche un suo fratello, che a scuola non studiava mai, dice che era
sempre gremito di ragazze che lo consolavano sebbene non avesse alcun bisogno di
essere consolato. Tra l'altro proprio quel fratello lì che tra tutti gli altri bravissimi andava
male a scuola, e poi diventato un mezzo genio dell'elettronica o roba del genere, ed era
sulla strada del premio Nobel quando è morto a meno di quarant'anni.
Conclusione, anche l'Antonio può diventare come niente un candidato al Nobel.
Intanto gioca a pingpong, insegna ai miei cugini più piccoli a fare i Tarzanetti
(arrampicarsi sugli alberi e fare l'urlo), fa acrobazie con la lambretta, canta, litiga, urla,
balla l'hully gully e sta benone: apparentemente. Mi ha insegnato l'hully gully a viva forza,
perché lui è l'unico tra tutti i ragazzi di San Mamete a cui piaccia ballare. Anche a me
piace ballare, specialmente il twist il madison il surf l'hully gully e quelle robe lì, ma non
io e lui soli. Io e lui soli mi vergogno. E siccome gli altri di ballare non hanno mai voglia,
finisce che non balliamo mai. "Almeno quando piove!" grida l'Antonio. "Non si
potrebbe ballare almeno quando piove? Siete tutti dei morti di sonno" e va amareggiato a
scrivere sul rotolo:
"Tutti morti di sonno / questi individui che ballar non ponno", dal che si
vede anche che sta ripassando Dante per l'esame a ottobre.
Dopo di che ricomincia a giocare a ping-pong, a litigare con tutti, a cantare, a
urlare.
Mio padre intanto continua a zappettare in giardino sotto l'ombrello del nonno,
mia madre vaga in trance, col ciuffo in mano, scribacchiando strane parole mozze su
mozzi foglietti che perde immediatamente, e se anche li ritrova è lo stesso perché non
capisce più quel che ci ha scritto, allora per consolarsi inghiotte un paio di pasticche,
oppure si mette a fare lo yoga. Lo yoga è il suo ultimo pallino. Ha studiato le posizioni
sul libro, e poi se le è fatte illustrare praticamente da me, dice che non c’è niente come lo
yoga per riposare il cervello e favorire l'ispirazione, per cui da un paio di settimane la si
può trovare in qualsiasi angolo della casa in posizioni curiose, che dice: "Vrikhasana: o
posizione dell'albero. Aumenta l'equilibrio neuromuscolare. Vajrdsana: o posizione del
fulmine. Favorisce la concentrazione".
Poco fa si è sentito un urlo seguito da uno scroscio di oggetti infranti, ed è
comparsa la Cuginona con gli occhi fuori dalla testa e la mano sul cuore.
"Un gatto alto?" le abbiamo chiesto.
"No, una zia a rovescio" ha risposto indicando col dito tremante la stanza vicina.
Nella quale abbiamo trovata mia madre a testa in giù e piedi in su lungo una parete, che
diceva: "Sirshasana: o posizione capovolta. Utilissima agli intellettuali. Rinforza la
mente. Elimina i disordini cerebrali".
"Non si direbbe" ha detto mio padre.
A proposito di Cuginona, ci sono già esposte le pubblicazioni per il suo
matrimonio; e in attesa che arrivi su il Franco da Roma con le bambine e tutto, lei è qui a
San Mamete in ritiro spirituale, tra fragorose esercitazioni domestiche e cagnare
incommensurabili. Per non parlare degli urli. Noi ci siamo tanto abituati che non ci
facciamo nessun caso, ma mio padre accorre ogni volta stranito, credendo chi sa che
sciagura, e poi blatera furibondo:
"E quella dovrebbe sposarsi fra dieci giorni! Gli verrà l'infarto a quel poveretto!
Lo farà restar secco! "
"Scusa, zio Dino" dice lei avvilita. "Non lo faccio apposta. Mi scappano proprio,
'sti urli."
Lui se ne va smontato, borbottando sotto l'ombrello.
"Il pino di fronte continua a essere bagnato / ormai è diventata
un'abitudine", sta scritto sul rotolo a tre quarti. "Ma la musica sulle foglie a più
sottile / forse tra poco cesserà la pioggia / e salirà il vento dalla conca dell'eco."
Ci siamo andati l'altro giorno a far colazione, alla conca dell'eco: prima che mio
padre arrivando facesse piovere. Al mattino siamo partite in avanscoperta io e la Rosella
col barcotto. Da riva ci inseguivano le solite voci:
"Non potete andarci! Fa acqua" gridava per abitudine la voce del Federico, fratello
della Rosella, da qualche anfratto invisibile del giardino.
"Non andate alla Casa dell'Inglese!" gridava un'altra voce da un altro anfratto, ed
era la nonna della Rosella.
"Non perdete di nuovo i sandali!" e questa doveva essere qualche madre.
"Aspettatemi, vengo con voi!" e questo era l'Antonio e stava sul molo,
visibilissimo, coi calzoncini a righe e le braccia in agitazione.
La Rosella ha fatto finta di non sentire e io di non vedere. La Rosella perché non
può soffrire l'Antonio, come l'Antonio non può soffrire lei, e io perché non so mai come
comportarmi con quei due che non si possono soffrire. Non è che lo dicano, anzi,
mostrano di ignorarsi; ma se io parlo con l'Antonio la Rosella mette il muso e se parlo
con la Rosella l'Antonio fa lo zulù, e la vita diventa molto complicata e mi viene la
malinconia. E poi in tre sul barcotto non ci si sta. Fa troppa acqua.
Così siamo andate via sole, remando e vuotando acqua col pentolino, come tanti
altri giorni di tante estati, e quando siamo approdate alla conca eravamo eccitate e felici
come se fosse la prima volta. "Ciao!" "Ao!" rispondeva l'eco e il verde folto della sponda
frusciava misteriosamente e la Casa dell'Inglese, antica e segreta dietro il suo scoglio
fronzuto, ci chiamava con le sue finestre di cielo.
Stavo esplorando una rampa di scala dove fiorivano enormi ciclamini, quando la
voce della Rosella mi ha chiamata dall'alto: "Nicoletta!" una voce strana, sommessa e
concitata insieme. Era in cima alla Scala e guardava giù verso di me: gli occhi azzurri
parevano verdi tra le lentiggini improvvisamente scurite. Ho sentito un brivido su per le
braccia e tutti gli echi di vecchie fiabe che mi bisbigliavano nella testa.
"Vieni a vedere" ha detto la Rosella sottovoce, come se qualcuno la stesse a
sentire. Sono corsa su.
Non era l'Inglese. Non era neanche il suo fantasma. Non c’era nessuno. Ma
sull'arco della vecchia finestra, dove per tante estati avevamo sognato di trovarlo seduto
con la pipa tra i denti e il fucile sulle ginocchia, c’era qualcosa. Un cappello di paglia, sul
tipo di quelli che portano gli stranieri in Italia d'estate, ma molto vecchio. E una pipa:
molto vecchia, che somigliava al cappello. Che somigliava all'Inglese.
Zitte, tenendoci vicine, abbiamo girato tutta la casa, tutte le stanze invase
dall'edera e dalle felci e dal muschio e dall'oblio, e ci pareva di sentire dei passi seguirci, e
una voce remota mormorare: "Voi ragazzine curiose, mie amiche. Io venuto da molto
lontano. Voi non tradire me".
Non c’era niente altro, nella casa. Niente altro che quel vecchio cappello e quella
vecchia pipa e tutti gli echi delle vecchie favole risvegliati nella nostra testa. Era un
poeta. Era un pazzo. Era una spia. Aveva ucciso un uomo. Amava la Valsolda. Se
è vivo, tornerà.
Su quel bisbiglio di favole è piombata, come una botta in testa, una voce sgraziata
dal lago: "Arribaarriba! Sono io! Uei, dove siete! Arriba-arriba".
Era l'Antonio. "Arribava", remando a pagaja, su un canotto di gomma mezzo
sgonfio, gridando come un ossesso. L'Antonio grida sempre. Soltanto quando è solo con
me diventa muto o circa. Ogni tanto si fermava per dare una pompata al canotto
pericolante, poi riprendeva a remare e a gridare, là sullo sfondo verdazzurro del lago.
Sembrava molto piccolo, visto così a distanza attraverso la finestra dell'Inglese come
attraverso un mirino nascosto. Una istantanea estiva.
"Non lo dirai a quello stupidotto lì" ha detto la Rosella.
Io guardavo quell'istantanea colorata, e mi pareva di essere divisa in due. Da una parte le
favole dell'infanzia, inconsistenti eppure certe; dall'altra l'Antonio, consistente e
incertissimo. Bisogna decidere, ho pensato confusamente. L'infanzia o il resto?
"Se glielo dici non siamo più amiche" ha detto la Rosella.
Non gli ho detto niente.
Abbiamo nascosto il cappello e la pipa sotto un ciuffo di felci nella soffitta
dell'Inglese, e siamo corse giù sulla riva incontro all'Antonio. La Rosella ha messo il
muso, l'Antonio e diventato zulù, e io non ho saputo più cosa dire ne all'uno ne all'altra,
come al solito. Siamo rimasti lì seduti tutti e tre in fila sulla riva, zitti e ingrugnati, lui
fumando sdegnosamente e con la scritta sulla fronte "io con le ragazze piccole mi
stufo", e noi pensando alla pipa e al cappello e alle favole interrotte.
Poi sono arrivati gli altri, e tutto e diventato come doveva essere. Abbiamo
scaricato le provviste; abbiamo fatto il bagno usando come boa il canottino di gomma
rotto, che si sgonfiava sotto di noi con sibili orrendi prendendo forme ancora più
orrende ("non ha più nulla di umano!" gridava il Renato, tipo che parla forbito); abbiamo
fatto i sommozzatori con scontri e cagnare subacquee, mentre il Bao e la Baina credendo
che annegassimo (lo credono tutte le volte) nuotavano come impazziti di qua e là
cercando di salvare il salvabile, prendendoci coi denti dove gli capitava, con conseguenti
rotture di bretelle e di slip e grida e ammaccature varie di arti, poi i pigri si sono asciugati
al sole (io faccio parte dei pigri) mentre gli attivi preparavano il solito fuoco con le solite
vicissitudini e i soliti cani mangiavano la solita razione di provviste e tutti bevevano il
solito vino, e la solita pastasciutta era scotta, l'unica cosa insolita era l'amico tedesco del
Nicola che mangiava le margherite col sale, vitaminen, vitaminen, e il solito vino ha dato
alla solita testa di tutti, specie di mio fratello, che ripudiando la lurida città civilizzata si
arrampicava come una capra in cima a scoscesi dirupi e là, grattandosi tutto per le
ortiche, contemplava il nirvana, ma poi si stufava del nirvana e tornava giù alla civiltà
scivolando sul sedere, così dopo un po' non c’era più il fondo dei blue-jeans, e allora si è
messo la sottana della Tessa e con quella declamava versi zen dagli scogli; dopo di che si
è tuffato con la sottana i sandali e il bicchiere in mano e tutto, e mia madre agitatissima
come al solito gridava: "Maurizio hai appena mangiato! Maurizio torna subito a galla!
Maurizio, ti prego!" così tutti per compiacerla si sono tuffati vestiti per ripescare
Maurizio sottana e sandali, e nel ripescare quelli perdevano i loro, e dopo un po' la
piccola baia era tutta un galleggiare di sandali gonne calzoni che non avevano più nulla di
umano, tra piedi e teste che affioravano e scomparivano di continuo e mia madre dalla
riva che gemeva: "Cosa diranno le vostre madri! Se la prenderanno con me! Un'altra
volta non si porta più il vino!" Lo dice tutte le volte.
E poi siamo tornati, tutti pigiati nelle vecchie barche. La conca verde si
allontanava dietro di noi, coi suoi fruscii, i suoi echi e le favole dell'infanzia, e l'Antonio
mi cercava la mano e io avrei voluto essere felice, dico felice del tutto, ma non potevo.
Non ero più abbastanza piccola.
"Sei arrabbiata?" sussurrava. "Perché sei arrabbiata? "
Non ero arrabbiata. Non lo sono neanche adesso. Anche adesso è qui che ascolta
con me il rumore della pioggia e sono sicura che gli piace, come gli piace insegnarmi
l'hully gully e portarmi in lambretta e tenermi la mano, ma forse è solo perché non ci
sono in giro altre ragazze più grandi che gli diano retta. Dovrei decidermi a diventare
grande io; forse allora... È che non voglio. Mi pare che il giorno che bacerò un ragazzo
l'infanzia sarà davvero finita e anche le favole. Non voglio diventare grande. Ma come si
fa a spiegarglielo? "Boh" gli rispondo.
Non so come faccia a non scappargli la pazienza con me. Forse è rimasta anche
in lui un po' d'infanzia, a consolarlo o a fargli male, a seconda dei momenti. Forse è per
questo.
Fuori gli alberi sgocciolano, e il cielo sopra il San Salvatore sta diventando una
tersa striscia rosa sempre più larga.
"La pioggia è cessata" sta scritto sul rotolo. "Bodhidarma nella sua grotta /
non bestemmia più / adesso dorme / o forse sta cuocendosi le patate / chissà
se gli piace la musica? / gli piacerà Lady Bird? / certo dovrebbe amare Charlie
Parker / forse tiene un sassofono nella sua grotta / da suonare quando è triste /
o forse suona il flauto al tramonto / aspettando le stelle / deve essere molto
felice."
I ragazzi se ne sono andati, torneranno dopo cena. Siamo rimasti soli io e i miei
fratelli sul molo fresco di pioggia. Il cielo è tutto terso, adesso, e la baia dell'eco sembra a
un passo, coi suoi fruscii e il suo mistero. È il tramonto, anzi il dopo tramonto, l’ora più
dolce e triste in Valsolda. Tra poco si accenderanno le stelle. È questa la felicita?
"Sera o notte che sia / quest'ora mi piace / come suonare il flauto" e così finisce il
poema di un giorno di pioggia.
MATRIMONI E COSÌ VIA

E così la Cuginona si è sposata. Non ha incespicato, non ha perso la scarpa, non


ha cacciato l'urlo davanti al prete, non è rotolata giù per l'altare, non le è neanche venuto
il singhiozzo, niente. Mio padre l'ha accompagnata all'altare, tutto aggrondato di fuori e
così emozionato di dentro che è stato lui a prendere un topicco, voglio dire un inciampo,
sui gradini all'entrata della chiesa, e sarebbe finito gattoni se la Cuginona non l'avesse
tenuto su come uno tiene una valigia a cui s'è rotto il manico, chiamando angosciata:
"Zio Dino! Zio Dino!" mentre lui si divincolava furiosamente e tutti lì a sperare che
tirasse qualche bel moccolo da tramandare ai posteri con le fotografie del matrimonio,
invece l'ha ringoiato in tempo; gli si è solo disegnato sulla fronte. Rimettendosi dritto si è
limitato a dire: "Vorrei conoscere quel deficiente che ha messo due gradini proprio lì".
Come se non fossero i due gradini che ha salito per sposarsi lui, una ventina d'anni fa.
Ma è stato l'unico incidente. La Cuginona, lei, è stata bravissima, fin troppo. Noi
cugini stipati come un reggimento in fondo alla chiesa abbiamo aspettato invano che
combinasse qualche bel disastro dei suoi soliti, o almeno un bell'urletto, ci speravamo
proprio; ma poi ce ne siamo dimenticati. La Cuginona era così pallida e bella e nostra
che faceva male al cuore. Il Nicola suonava l'organo, tutti i nostri vecchi canti. in quella
voce mistica e grave, e la vecchia chiesetta era gremita di fiori e facce note e ricordi di
gente che non c’è più.
"Hai visto come bella la mia mamma?" sussurravano a tutti Sandra e Mirca, le due
bambine del Franco, guardandola estatiche.
Lei, appena poteva, si voltava a dar loro uno di quei suoi sorrisi umili e radiosi, e
così a poco a poco un sacco di gente ha cominciato a soffiarsi il naso. Gente che
ricordava il suo papà e anche gente che ricordava solo lei, la ragazza che faceva fischiare i
garzoni per la strada e suonava i campanelli dei farmacisti e combinava guai su guai, ma
in vita sua non aveva mai fatto una briciola di male a nessuno, se non a se stessa: pronta
sempre a restituire gioia e amore e fiducia in cambio delle cattiverie e delle meschinità.
Peccato che non ci fosse il suo papà a vederla, adesso.
Tanti papà mancavano. Tutti i papà di tutti i miei cugini, ho pensato. E di colpo
mi sono sentita atterrita, e così fortunata da averne vergogna. Non lo dimenticherò, ho
pensato. Giuro che non lo dimenticherò. Il mio papà era là davanti, aggrondato e
impaziente, che scalpitava e tossiva per la voglia di fumare, e teneva stretta la mano della
mamma. Il mio papà strillone, nevrastenico, noiosissimo, che ci strapazza e ci protegge e
ci ama. Il mio papà vivo. Giuro che non dimenticherò.
Vedevo il mento della mia mamma tremare, e sapevo perché, e avrei voluto
andarle vicino e dirle: mamma, non ci saranno più guerre. Non ci saranno più rami
spezzati. Mai più. Cresceremo tutti e saremo di nuovo una bella piantona con tutti i suoi
rami.
Ma queste cose in casa mia si possono pensare, o magari scrivere. Dire mai.
Poi la cerimonia è finita e il mio papà ha potuto fumare centomila sigarette in fila.
Abbiamo fatto una colazione in giardino con una tavola che non finiva mai e una russia
da non dirsi, tra brindisi grida risate lanci di carciofini e ancora qualche naso soffiato ma
più di nascosto, e la Cuginona tutta rosa, coi capelli e gli occhi splendenti e le due
bambine sempre appiccicate addosso, era così felice, e completa, e mamma, e non capiva
più niente. Neanche il Franco capiva più niente. Ogni volta che si guardavano andavano
sul pallone e bisognava dargli le gomitate per tirarli giù. Poi sono partiti, con un sacco di
barattoli e pentolini attaccati all'automobile e un sacco di cugini a piedi nudi che li
inseguivano fin fuori dal paese, e poi siamo tornati indietro e niente più Cuginona.
Tornerà, si capisce. Tornerà ogni estate, col Franco e le bambine e saranno anche
loro rami della nostra pianta. però adesso ci manca.
Approfittando dell'atmosfera nuziale, delle commozioni familiari e così via, la
Bruna e il Dario hanno deciso di rendere pubblico il loro proposito di sposarsi
immediatamente dopo la laurea del Dario, in dicembre. "Rendere pubblico" significava
in pratica dirlo ai padri, visto che gli altri lo sapevano da un secolo. Ma i padri! I padri
erano un osso duro.
Dopo un astuto conciliabolo, le madri hanno deciso che era meglio che glielo
dicessero loro, ai padri: loro sapevano come prenderli e scegliere il momento propizio.
Così un giorno (era l’ora morta del pomeriggio, io la Bruna e il Maurizio stavamo
facendo un concerto in soffitta con chitarre e flauto) si son sentiti venire dal di sotto
terribili scoppi di tosse e di urli, incoscienti, deficienti, ma siete impazziti tutti, glielo do
io il matrimonio, disgraziati lavativi paranoici eccetera eccetera.
"La mamma ha scelto il momento propizio" ha detto il Maurizio.
"Lei sa come prenderlo" ha detto la Bruna.
"Boh" ho detto io.
Indi abbiamo ricominciato a suonare.
Ogni tanto si sentiva dal di sotto qualche brano di conversazione, ossia di urlo:
così previsto, che non valeva neanche la pena di ascoltare.
"Mi sai dire, mi sai dire come vivranno?" gridava mio padre.
"Come abbiamo vissuto noi" diceva mia madre. "Lavoreranno. "
"Ah, sì, perché il lavoro gli piove in testa, a loro! Muovono un dito, e zac, ecco
pronti decine di posti meravigliosamente retribuiti che si contendono l’onore di essere
accettati da quei due rammolliti! Da quei due figli di mamma! Ma se tua figlia non sa
neanche da che parte si comincia, a lavorare!"
"Adesso dice che non so cuocere l'uovo" ha detto la Bruna tra due cupi frun frun
di chitarra.
"Se non sa neanche cuocere un uovo!" ha gridato puntualmente mio padre di
sotto.
"Neanch'io alla sua eta..." ha cominciato mia madre.
"Sapevo cuocere l'uovo" abbiamo detto noi tre in coro. Frun frun.
"Non citarti a esempio!" urlava mio padre. "So bene quello che sapevi fare! So
bene quello che eri! E so bene che cosa ne è venuto fuori! Sono venticinque anni che lo
so!"
"Tuttavia sopravvivi" ha detto mia madre. La voce era leggera, ma si capiva
benissimo che era offesa, così mio padre ha perso la trebisonda del tutto, passando armi
e bagagli dalla parte del torto, come sempre gli succede.
Parte che ha ragione, o quasi, e finisce che ha torto del tutto. E come sempre
quando sa di aver torto, di essere ingiusto e villano, diventa sempre più ingiusto e villano
e sempre più dalla parte del torto, in una specie di rovinosa autocombustione. Gli
vengono fuori cose che non pensa assolutamente, cose dell'altro mondo, per esempio
che mia madre è una madre fallita, una moglie incapace, che è una balorda, che non ha
saputo fare mai niente di buono in tutta la sua vita e altre cose del genere, cose di cui si
dovrebbe soltanto ridere. Ma mia madre al momento non ci riesce. Sa benissimo che lui
è spaventato e furioso di quel che sta dicendo, che sono soltanto parole nevrasteniche.
Dice sempre che non bisogna badare alle parole, mia madre, ma poi non è capace di non
badarci. E che quando sono così urlate, le parole, è difficile riuscire a ricordarsi il resto.
Così non ha parlato più, mia madre. Il che significava che era sul fondo dell'abisso, come
dice lei quando è stanca triste stufa al massimo. E dopo un po' si sentito bang!, la porta
del verandone che sbatteva, e il papà che zoccolava via tutto autocombusto per il
giardino, al cancello, in strada, via.
"Partito per la Legione Straniera" ha detto il Maurizio, per alleggerire l'ambiente.
Ma non s'è alleggerito, non molto. Abbiamo messo giù chitarre e flauto, non ci andava
più di suonare. La Bruna ha dato anche un calcio al muro, così.
Avremmo voluto andare di sotto della mamma, ma come a noi non piace essere
visti quando siamo sul fondo dell'abisso, così non piace a lei.
È stata lei a chiamarci, dopo un po', con una voce soffocata che ci ha fatto molto
spaventare. Con la Bruna in testa (era lei la causa di tutto, no?) siamo accorsi.
Mia madre stava inginocchiata a terra, i piedi incrociati al centro, le braccia stese al
cielo.
"Parvatasana, o posizione della Montagna" ci ha informati. "Fa passare le
arrabbiature."
"Ma il papà..." ha detto la Bruna.
"Oh, lui sarà là al bar del Bruno a prendere un grappino e a pentirsi" ha detto la
Montagna. "Tra poco tornerà a casa persuaso che la Bruna sarà una bravissima moglie,
lavoratrice, donna di casa esemplare, madre eroica e angelo del focolare, tale quale sua
madre, e che quando c’è l'amore c’è tutto, e in fondo perché aspettare dicembre?
Potrebbero benissimo sposarsi a novembre, ottobre, settembre, agosto, deng! Vedrete
se non sarà così."
E così è stato. Le parole erano un po' diverse, magari, ma la sostanza a stata
quella. Mio padre, che tipo. Fa tenerezza, più ancora di mia madre. È così indifeso e in
balia di se stesso, e di lei.
In quanto all'Avvocato, sua moglie ha deciso che il momento migliore per dargli il
fatale annuncio era dopo colazione: sia per motivi che mia madre chiama psico-somatici
(stomaco pieno, per intendersi), sia per evitare che ci fossero in giro piatti da lanciare.
Gli aveva fatto una colazione buonissima, antipasti misti, pastasciutta al bacon, arrosto
con un sacco di rosmarino. (Il rosmarino è oggetto di profonde amarezze in casa loro,
perché la moglie si dimentica sempre di mettercelo e l'Avvocato si dispera: "Ti ho
pregata come una santa! Metti il rosmarino!" dice a mani giunte. E lei niente, non ce lo
mette.) Be', stavolta se n'e ricordata e ci ha messo tutta una vegetazione di rosmarino. E
alla fine della colazione, mentre stavano prendendo il caffè sulla terrazza, gli ha dato la
notizia. La loro casa è un po' in alto, e la terrazza guarda la vallata. Ricevuto l'annuncio,
l'Avvocato è rimasto per un po' pensoso dietro gli occhiali a guardare la vallata, con la
tazzina del caffé in mano. Poi ha posato la tazzina sul piattino e il piattino sul vassoio,
vicino alla napoletana. Poi ha preso il vassoio e con passo calmo ha traversato il terrazzo,
si è portato alla balaustra e di lì con calma ha scaraventato giù vassoio, piattino, tazzina e
napoletana. Tornato al tavolo, ha visto che era rimasto il cucchiaino, l'ha preso, a tornato
alla balaustra e ha buttato giù anche quello.
"Era d'argento!" ha detto la moglie. "Un cucchiaino del servizio d'argento! " e
allora tutta la famiglia giù di corsa a cercare il cucchiaino nella vallata, con l'Avvocato che
dirigeva le operazioni dal terrazzo. Trovato il cucchiaino, ha dato il consenso alle nozze.
"Gli daremo l'appartamentino di fianco al nostro" ha detto. "Basta tirar su una
parete, aprire una porta, chiudere una finestra, rifare i pavimenti..." Ha il pallino
dell'edilizia, lui.
Mio padre, che ha il pallino dell'arredamento, ha già disegnato i mobili.
E adesso non fanno altro, i due padri, che parlare di matrimonio, di date, di lauree, di
spese, di porte, di finestre, di mobili, fanno un sacco di progetti, litigano, fanno la pace,
si commuovono, rilitigano, eccetera eccetera.
"E il servizio militare" dice ogni tanto mio padre. Ha la fissa del servizio militare
(non per niente lui ne ha fatti nove anni). "Come si fa per il servizio militare?" si
domanda angosciato.
Loro non se ne preoccupano per niente. Dicono che caso mai andranno in
Uganda. Che in Uganda hanno bisogno di architetti giovani, e che se uno ci va per
quattro anni, può fare a meno di fare il servizio militare. Comodo, no? O forse era il
Tanganika, una cosa così.
"E se intanto vi nasce un bambino?" chiedono le madri.
Loro dicono che il bambino in Tanganika o Uganda che sia ci starà benissimo. Che
imparerà le lingue. Ma le nonne non vogliono sentir parlare di. nipotini in Uganda o
Tanganika.
"E va bene," dice il Dario, tanto per farle stare zitte, "allora faremo il servizio
militare" come se anche la Bruna fosse di leva.
"E il bambino?" chiedono le nonne, come se fosse già nato.
"Seguirà il reggimento" dice il Dario. E ricomincia a bisbigliare con la Bruna.
Altrimenti, soluzione proposta da mio fratello, il Dario potrebbe fare l'obiettore di
coscienza. Oppure potrebbe fare il pompiere: pare che se uno fa il pompiere abbia non
so quali vantaggi su chi invece fa l'artigliere o l'alpino; non ci ho capito molto, e neanche
gli altri credo.
"Prima cosa, non spara" dice mio fratello.
Ma il punto, gli spiegano, non è che il Dario spari o non spari, il punto è che non
debba lasciare soli la moglie e i bambini (nel frattempo si sono moltiplicati). Allora si è
sparsa la voce che, per evitare il servizio militare a un figlio coniugato di fresco, era il
padre che doveva fare il pompiere. E quando già si pregustava l'idea dell'Avvocato con
l'elmetto la pompa e le sirene al vento, si è sparsa la voce che non bastava, che anche il
padre della sposa doveva fare il pompiere; e così si capito che era uno scherzo della
Tessa. La Tessa è specialista nel fare questi scherzi, ha un'aria così competente e
documentata mentre li fa, che riesce a far passare per vere le cose più strane, e dopo tutti
la maledicono.
Certo che era bello pensare ai padri pompieri.
In questo fervore di opinioni e di progetti, i due interessati si disinteressano di
tutto. Servizi militari, Uganda, mobili, appartamenti, pompieri, regali, liste, niente gli
interessa. Si tengono per mano e si fanno le carezzine e discutono sottovoce sulle loro
adorate divergenze, e di tutto il resto non gli importa niente.
Intanto, con tutto questo putiferio di matrimoni e fidanzamenti e così via
l'anniversario di nozze di mio padre e di mia madre è passato via quasi inosservato. Sono
venuti un po' di genitori a prendere l'aperitivo, hanno bevuto un sacco di bitterini e sono
diventati allegrissimi, così a noi ragazzi ci è venuta la tristezza e siamo andati fuori sul
molo. Loro dentro facevano una cagnara tremenda e noi lì, seduti tutti in fila a guardare
la luna e sentire Mozart e parlare di filosofia, politica, poesia e cose del genere. Poi i
genitori sono andati a Lugano tutti insieme e noi siamo ridiventati allegri. Abbiamo fatto
fiera, come dice il Nicola, cioè un sacco di macelli, e quando sono tornati erano loro che
erano tristi. Boh.
Anche dopo, quando noi tre siamo andati a salutarli prima di andare a letto, il
papà e la mamma sembravano tristi. Sul fondo dell'abisso, sembravano. Ci guardavano
come se fossero troppo stanchi e spauriti e vecchi per risalire.
Noi non vi lasceremo mai, avrei voluto dire, ma a parte il fatto che non lo so dire,
non è neanche vero. Noi li lasceremo. Comincia la Bruna, poi sarà il Maurizio, poi io, e
poi saranno soli. E lo stesso succederà a noi, e credo che non ci sia niente che nessuno
possa fare.
Più tardi, quando ero già a letto in soffitta, li ho sentiti uscire sul terrazzino della
loro camera, parlottare e ridere piano, e non sembravano più affatto vecchi nè tristi né
soli, così ho pensato che non ci capisco molto dei grandi, tutto sommato. E neanche dei
ragazzi. Tutto sommato, credo che capisco poco di tutto. Ma non mi dispiace poi molto.
Ho chiuso gli occhi e il lago borbottava di sotto e le favole della sera frusciavano leggere
tra le foglie, e forse l'Inglese era seduto sotto l'arco della finestra diroccata, con la pipa
spenta in bocca, a guardare la luna riflessa sulla conca.
Mi sono addormentata e ho fatto un sacco di sogni.
I TEMPI SONO CAMBIATI

Mio fratello ha compiuto diciotto anni e subito mio padre, che da un pezzo
fremeva, zac, gli ha regalato l'automobile. Piccola, di seconda mano, e a rate, ma sempre
automobile. Mia madre era contraria, naturalmente.
"E anche troppo una Bestia, in famiglia" diceva.
La Bestia è la nostra vecchia automobile. Grossa, pacifica, bofonchiante, una
specie di pachiderma a motore: mia madre le si è affezionata appunto perché, più che a
un'automobile, assomiglia a una bestia. Una delle più spiccate caratteristiche di mia
madre, come si sa, è l'amore per le bestie. Un'altra spiccata caratteristica è la sua allergia
per tutto ciò che è macchine, meccanismi, motori (fa eccezione la macchina da scrivere,
purché sia qualcun altro a cambiarle il nastro). Figurarsi se voleva un'altra auto.
"Non è per te!" le ha detto mio padre. "È per tuo figlio. "
"Peggio. Fai un sacco di urli per i figli viziati, da me naturalmente, e poi sei tu che
gli compri l'automobile. "
"Quante storie! " ha detto mio padre, come sempre quando non sa cosa dire. Poi
gli è venuta in mente qualche fiacca giustificazione: "Tutti i suoi compagni ce l'hanno" ha
detto. "E poi un premio per la maturità glielo dovevamo ben dare."
"Se ben ricordo," ha detto mia madre "la maturità non l'ha ancora finita."
"Perché? Per quella buffonata dell'italiano?" ha detto mio padre, licenziando con
un gesto noncurante la lingua madre. "E come se l'avesse già in tasca, la maturità. Con
due sette, pure. Volevi non fargli il regalo? "
"A te" ha chiesto mia madre "cosa ti hanno regalato, per la maturità?"
Mio padre ha preso per un momento un'aria spaesata. Poi ha reagito: "I tempi
sono cambiati" ha detto.
"Quando si vuol far passare per giusta una cosa ingiusta, si dice sempre che i
tempi sono cambiati."
"Non catechizzare!" ha detto mio padre. "Non sono una tua lettrice."
"Io non catechizzo" ha detto mia madre. "Io constato."
"Posso constatare anch'io" ha detto mia sorella, distogliendosi per un momento
da Marx e dai sogni nuziali. " Io ho compiuto diciotto anni da un pezzo, la maturità l'ho
passata con la media del sette e mezzo, ma non ho avuto nessuna automobile." In realtà
non gliene, importa niente, dell'automobile. Lei ha il Dario, il Dario ha la Bianchina,
altro non chiede alla vita. Le sue rivendicazioni sono solo teoriche. "Neanche un
motorino, ho avuto. Tanto per constatare.''
"Tu sei una ragazza!" ha detto mio padre.
"Oh già. Sicuro. Appunto" ha detto mia sorella con voce sarcastica. "Mamma, a te
la parola."
" Se ti aspetti che mi batta con tuo padre per la parità dei sessi, ti sbagli" ha detto
la mamma. "Non con tuo padre! Ma sentiamo l'interessato. Cosa ne dice,
dell'automobile, l'interessato? "
L'interessato, apparentemente in contemplazione del nirvana, non desiderava
interessarsi. Non gli conveniva. Per essere coerente, infatti, avrebbe dovuto disdegnare
l'automobile. S'è mai visto un bodhisattva in automobile? Ma si sa com'è.
"Mg nou pnu" ha detto.
"Non garufare!" ha gridato mio padre. "Gli offrono un'automobile e lui cosa fa?
Garufa!"
"Maurizio, di' il tuo parere" lo ha incitato mia madre.
La pipa spenta tra i denti, mio fratello ha distolto gli occhi dal nirvana per posarli
gravemente su di loro: "I genitori siete voi" ha detto. Il tono significava: se mi regalate
un'automobile, mica posso tirarvela in testa. Onora il padre e la madre.
La verità era che fremeva di mettersi al volante. Si vede che anche nel nirvana i
tempi sono cambiati. E così mia madre ha ceduto.
"Vuoi mettere" le dice adesso mio padre per confortarla "la comodità di una
macchina piccola, in città? E poi così adesso avrai qualcuno che ti porta in giro, quando
io non ci sono, a fare gli acquisti, dalla sarta, dal parrucchiere, a trovare le amiche..." e a
sentirlo pare che mia madre sia una di quelle tipe che passano la vita, portate dall'autista,
tra canaste, sfilate, istituti di bellezza e boutiques, mentre tutti sanno benissimo che esce
solo mezz'ora alla mattina per fare la spesa alla cooperativa all'angolo e un pomeriggio
alla settimana per andare in redazione.
Mia madre non discute Tanto ormai l'automobile c'è, e lei è del parere che è
inutile piangere sul latte versato. Anzi, sta cercando di affezionarsi anche alla Sottobestia,
come lei la chiama. così piccola, rincagnata e fracassona, dice che le pare uno di quei
botoli ringhiosi che mordono i calzoni a tutti.
Così mio fratello ha fatto scuola guida (studiava molto più che per gli esami), si è
preso la patente in men che non si dica, e adesso scorrazza come niente avanti e indietro
per l'accidentata strada del lago, con grappoli di ragazzi a bordo, guizzando tra macchine
e pullman d'ogni nazionalità e volume, tra grattate tremende e frenate infernali e
spaventevoli cigolii di ruote e poesie cinesi. "La cetra di Chao s'acqueta sta' a destra
cornuto il liuto di Shu la sua voce solleva spostati pirata usc."
E mia madre a casa deve raddoppiare la razione di tranquillanti e cachet per la
paura che ha. Non lo dice, perché non vuole fare la madre noiosa, ma muore di paura;
ogni volta che tardiamo ha la faccia stralunata, e io provo rimorso e anche mio fratello lo
prova, ma che cosa ci si può fare. L'automobile è fatta per usarla.
C'è di buono che, quando è a bordo anche lei, la paura le passa. Viene presa dalla
gazzarra generale e dal suo innato spirito sportivo, e non solo non ha paura, ma si
diverte moltissimo. Come se la sua presenza bastasse a salvaguardarci da ogni pullman,
albero, pirata della strada, muretto, lago.
È che non ha mai tempo di venirci. Quasi mai.
A parte il romanzo che ha in corso con le relative angosce (quando scrive un
romanzo ha sempre le angosce), a parte le corrispondenze, le recensioni, le enciclopedie
e quelle faccende lì, mia madre ha anche tutta la casa sulle spalle, come si dice. Non
abbiamo neanche la Rosa, qui (da quando si è sposata abbiamo perso il suo disservizio
estivo). Altri aiuti non se ne trovano, perché qui le donne vanno tutte a lavorare a
Lugano. L'aiutante capo, mio padre, ha finito le ferie a non si può contare sulla sua
cucina (è un bravissimo cuoco) che per due giorni su sette. La Bruna ha il Dario, Marx e
la tesi di laurea. Il Maurizio ha l'automobile, la Tessa, il nirvana, le cagnare e l'esame di
italiano. Io non si può dire che "abbia" l'Antonio, comunque l'Antonio c'è, e c'è la
Rosella, c'è la conca dell'eco, c'è la Casa dell'Inglese, dove continuano ad accadere cose
misteriose. Il cappello e la pipa sono spariti: qualcuno è venuto a riprenderseli. Giorni
dopo abbiamo trovato altre tracce, una bustina di fiammiferi stranieri, una matita di
marca inglese, un foglio accartocciato con sopra un disegno strano, come la pianta di una
casa, fatto in fretta a matita. Abbiamo nascosto tutto sotto il solito cespo di felci, e sul
foglietto abbiamo scritto con un fiammifero spento: Ciao. La volta dopo il foglietto
c’era ancora, e sotto al nostro ciao qualcuno aveva scritto How do you do, che sarebbe
il saluto degli inglesi; ci tremavano un po' le gambe mentre scrivevamo col fiammifero
Where are you? che vuol dire: dove sei? Abbiamo trovato la risposta due giorni dopo:
Here, c’era scritto, che vuol dire: qui. E più sotto: Bye bye, arrivederci. Dopo non ci
sono più state domande, né tracce tangibili, ma il foglietto era sempre lì (Bye bye,
arrivederci) e noi "sentivamo" qualcosa: nell'aria, nei cespugli di felci piegati come se
qualcuno ci avesse frugato in mezzo, nei fruscii di vento e di foglie tra le finestre
diroccate. Non l'abbiamo detto a nessuno. Le favole, a dirle, sembrano stupide storie.
Ma abbiamo continuato a pensarci.
Adesso la Rosella è partita (ha un sacco di esami a settembre e qui non studia
niente), non ho più nessuno con cui parlarne. Ho provato una sera con mio fratello, ma
lui mi ha guardato in un modo così strano, sono ridiventata subito muta. Mi guardava,
non so, come se cercasse di nascondermi qualcosa, e questo qualcosa fosse... non so.
Noia, forse; o pietà. Forse gli sembro scema, ho pensato, per questo ha pietà? Oppure le
mie storie gli sembrano troppo fantastiche per starle a sentire. Ma allora, allora non crede
più alle favole, ho pensato. Allora la sua infanzia è finita. Lui mi guardava scontroso dal
fondo dei suoi occhi neri, e io non ho parlato più. Ma continuo a pensarci. Specialmente
di sera prima di addormentarmi, quando le foglie frusciano.
Forse ne parlerò con la mamma, un momento che ha tempo. Ci crede ancora, lei,
alle favole, sono sicura. Solo che non ha mai tempo, per le ragioni che dicevo prima, e
anche perché è così di natura, smemorata, caotica, mentre riordina da una parte fa la
rivoluzione cinese dall'altra, complicando enormemente le cose. Anch'io, in quanto a
ordine, sono fatta cosi: uguale. Solo che io vado sempre piano, e lei corre sempre, corre
quando lavora, corre quando cucina, corre quando si ispira, corre ed è sempre allegra, ma
anche stanca e nervosa e prende un sacco di pasticche, e nessuno l'aiuta. Io vorrei, ma
me ne dimentico sempre. E a lei chiedere non piace.
"Fatti aiutare dai figli!" urla mio padre quando al venerdì sera arriva e trova la
rivoluzione cinese. "Ecco cosa vuol dire viziare i figli! Tu lavori e loro oziano.
Incoscienti, disgraziati, lavativi, perché non aiutate vostra madre?''
"Io ho la tesi" dice la Bruna, che sta guardando negli occhi il Dario.
"Io ho tutto l'italiano da ripassare" dice il Maurizio che sta oliando il sassofono
oppure uscendo in automobile con folle di ragazzi a bordo.
"Boh" dico io, che sto pensando all'Inglese.
"Lasciali in pace" dice mia madre. "Sono in vacanza."
"E tu non hai diritto a un po' di vacanza? Loro se la spassano e tu sfacchini! Che
razza di sistemi! Noialtri li aiutavamo e come, i nostri genitori!"
"Non d'estate" dice mia madre. "E poi, i tempi sono cambiati. L'hai detto tu."
" E tu hai detto...''
"Appunto" dice mia madre con un sospiro.

Come se non bastasse, a complicare la vita di mia madre sono nati un sacco di
cuccioli. Prima sono nati i gattini. Nonostante le previsioni, il Pluto e la Giovanna ce
l'hanno fatta. Cinque, ne sono nati: cinque mammuttini nobilissimi e pelutissimi, tre grigi
come la madre, due neri come il padre. La Giovanna, da che sono nati, non è che abbia
perso la sua aria di mammut, ma ha smesso di sedere sempre e passa tutto il giorno a
leccare allattare accudire difendere adorare i suoi mammuttini, li mostra alla gente con
roche voci d'orgoglio e d'amore, e sembra perfino diventata intelligente: potenza della
maternità. Il Pluto invece, della paternità non capisce niente, non ne è per niente fiero,
appena vede i mammuttini, o solo li sente gnaolare da lontano, alza la gobba e sgaloppa
via tutto sbilenco, gli occhi gialli sbarrati e il pelo irto, a rifugiarsi tra le braccia di mia
madre, che tenta invano di spiegargli la situazione.
"Tu sei il babbut" gli dice cullandolo teneramente "e quelli lì sono i tuoi
mammuttini, o babbuttini se vuoi, insomma li hai fatti tu, sono figli tuoi, capito?" Lui
non capisce, ma ronfa tutto contento.
Tre giorni dopo sono nati i baìni. Otto pastorini scozzesi, quattro fulvi come la
madre, quattro neri come il padre, grassocci, stupidi come la luna e simpaticissimi. La
Baìna è una madre brava quasi come la Giovanna. Dico quasi, perché per la Giovanna
prima di tutto vengono i mammuttini, poi tutto il resto; per la Baina invece, prima
vengono i padroni, poi la pappa, poi il bagno in lago, poi il gioco del riporto, e poi, con
comodo, i baìni. Si vede che ha dei sistemi educativi più moderni e sa che non bisogna
star troppo addosso ai figli. Comunque li ama molto. Il Bao, niente. Pure lui, appena li
vede o li sente, sgroppa via con la coda tra le gambe, uggiolando pietosamente, viene a
mettermi il muso in grembo e a dire uh, uh, che cosini terribili ha fatto mia moglie, si
muovono da soli, uh uh, cosa mai sarà di me.
I padri, che cervelloni.
I primi giorni veramente anche le madri hanno fatto un bel po' di confusione, ma
in senso inverso: per eccesso di maternità, cioè. La Giovanna si era messa in testa che
anche i baìni fossero compito suo, pretendeva di portarli nella sua cesta, tirandoli
spaventosamente per la collottola, e la Baìna faceva grrr, grrr, non per vera minaccia
(ama molto la Giovanna) ma per perplessità e rampogna. Lei dal canto suo riteneva che
fosse suo dovere accudire anche ai gattini, faceva irruzione col suo lungo muso nella
cesta, rischiando ogni volta di annegare un paio di mammuttini con un solo colpo di
lingua, mentre la Giovanna cercava di tenerla indietro dandole testate e spingendola con
la zampa (senza unghie però) e diceva au au, che credo significasse fa' piano, sta' attenta,
sei troppo grossa per loro, non vedi? E insomma erano tutte e due molto inquiete,
agitate, facevano un gran correre avanti e indietro tra le due ceste seminando baìni .e
mammuttini, uggiolando, miagolando, facendo grrr grrr e au au, e guardandosi con aria
frastornata, finche una mattina, dopo una notte movimentatissima, le abbiamo trovate
tutt'e due in una cesta sola, stipate come in tram, con tutti i figli attaccati e un'aria
finalmente placata. Avevano deciso di fare tutta una famiglia. così gli abbiamo fatto fare
dal Barelli falegname una cassa bella grande, l'abbiamo foderata con una coperta, e
adesso ci stanno dentro tutti insieme bei comodi, e sono tutti contenti. Madri e figli.
Ogni tanto un mammuttino si perde tra le code dei baìni, ogni tanto un baino piomba
come una bomba razzolante sopra i mammuttini, ma le madri con teneri colpi di lingua li
rimettono sulla retta via, tubando come colombe, e poi si guardano soddisfatte tra loro
emettendo strani versi cino-felini. Mia madre dice che si scambiano consigli di
puericoltura.
Anche la Peppa, quando ritorna dai suoi consueti vagabondaggi coi teddy-gatti del
paese, va a piazzarsi nella cassa, a farsi le pulizie, a fare gli scherzi ai baini, a leccare i
mammuttini con tenera condiscendenza.
"Che brava ziut" dice mia madre.
Adesso i miei cugini chiamano lei ziut. "Ziut Ossut, vieni in barcut? "
Ha poco tempo per venire in barcut, mia madre. Oltre al romanzo, alle
corrispondenze, agli articoli, alla casa sulle spalle e via di seguito, adesso ha pure i
cuccioli, e ci passa ore.
"Si crede nonna" dice mio padre. "Anzi, nonnut."
Tutto il paese è venuto e viene tuttora a vedere questa famiglia eterogenea, è
venuto anche un fotografo da Lugano, e uno da Milano, e mia madre fierissima fa da
cicerone.
"Che cosa straordinaria!" dicono tutti stupefatti. "Cani e gatti insieme! Dunque
non è vero che i cani e i gatti si odiano."
"No di certo" dice severamente mia madre. "Sono bestie, non uomini. "
"Non donne" dice mio padre.
E non solo di giorno mia madre si occupa dei cuccioli, ma anche di notte. Se
appena ne sente piangere uno, zac, corre a vedere che cos'ha, gli dà il biberon (la famiglia
è grossa e bisogna fare l'allattamento misto) e poi rimane lì seduta per terra, in pigiama, a
contemplarli. Se c'è mio padre, lo si sente strepitare dalla stanza vicina:
"Perché non ti ci metti anche tu coi tuoi figli, in quella cuccia, così siamo a posto!
E vieni a dormire, incosciente. Poi dici che hai l'insonnia! Che sei stanca! Che hai mal di
testa! Ma quale testa? Dove ce l'hai, la testa? Passare metà della notte a guardare i
cuccioli!''
"Ma io intanto penso" si difende mia madre. "Guardare i cuccioli mi rinfresca la
mente. Mi facilita la meditazione."
"Guarda che ti confondi con lo yoga" dice mio padre.
"No no, anche i cuccioli" insiste. "Mi favoriscono l'ispirazione. Quando sto un po'
a guardare i cuccioli, dopo mi viene meglio il romanzo."
Che cos'abbia a che vedere un romanzo d'amore a sfondo educativo-sociale con i
cuccioli, non si sa. "Sarà un romanzut" dice mio fratello.
FUOCHI E STELLE

Mio fratello, quando era piccolo, a chi chiedeva che cosa voleva fare da grande,
rispondeva: "L'antico romano" oppure: "Quello che mangia il fuoco".
La passione per gli antichi romani gli è completamente passata. Quella del fuoco
gli è rimasta. Non è che lo mangi, il fuoco. Si limita a provocarlo con ogni mezzo a sua
disposizione, nei luoghi e nelle circostanze più impensate, e poi star lì a guardarlo felice
finchè si spegne. A Milano, mentre studia, incendia scatole di fiammiferi, arde matite, fa
piccoli falò nei posacenere, piccoli lanciafiamme con gli elastici, la sua scrivania è tutta
bruciacchiata e così le copertine e gli orli dei suoi libri. Qui a San Mamete, dove c'è più
spazio e nessun vicino che protesta, i fuochi di mio fratello divampano all'improvviso sul
molo, partono a razzo dalle barche, esplodono fragorosi nello "stanzino Belle
esperienze" tra fumate tremende, bagliori sinistri, zaffate pestilenziali e spaventi di mia
madre.
"Maurizio, sei carbonizzato?" chiede affacciandosi sul suo terrazzino.
"Si" risponde una voce grave dentro una nuvola di fumo.
Questa passione del fuoco ha contagiato anche il Nicola, l'Antonio e molti altri
ragazzi di San Mamete. Ogni sorta di fuoco (purché non sia quello delle armi, odiate
sopra ogni altra cosa da mio fratello), ogni sorta di torce falò razzi petardi fuochi
d'artificio combustioni esplosioni bum, ha il potere di renderli estremamente felici.
Mia madre dice che è una forma di piromania collettiva. Che un giorno
arrostiranno e ci faranno arrostire tutti. Che correremo per il giardino trasformati in
torce umane.
"II fuoco purifica" tenta di persuaderla il Maurizio. "E poi c'è il lago a un passo,
no? Se prendiamo fuoco ci buttiamo a lago e ciao."
"Quando siete belli che esplosi" dice mia madre "vi fa tanto, il lago."
Lui dice che mia madre è una pessimista. Che ha la pirofobia. Ma che stavolta, se
lo lascia fare, lui creerà dei fuochi così belli che ne resterà sedotta e diventerà artificiera
anche lei. Lei lo esclude.
Quest'anno, comunque, si è venuti a un compromesso. Durante tutta l’estate, cioè
durante il romanzo di mia madre, c'è stato divieto di fuoco. A parte i normali fuochi di
carattere utilitario, quelli che servono per i bivacchi quadrivacchi seivacchi etcetera, o per
fare la polenta e la pastasciutta al di là del lago, o per bruciare le foglie secche e gli
arbusti rotti dopo i temporali, ogni altro tipo di combustione era proibita. Mia madre
diceva che una non può scrivere un romanzo con l'idea di essere lì lì per saltare in aria,
trovare torce umane al posto dei figli, rischiare l'asfissia per il fumo o l'infarto per le
esplosioni. Diceva che c’erano già le acrobazie subacquee del Maurizio a minacciarle
l'infarto, per non parlare di quelle automobilistiche; le fosse risparmiato almeno il fuoco.
Soltanto per una sera, e precisamente l'ultima sera d'agosto, prima che cominciassero le
partenze in massa per gli esami, avrebbe tolto il divieto. Fuochi d'artificio, razzi, petardi,
torce, falò, tutto sarebbe stato permesso. Solo per quella sera. Diceva che, per una volta,
era un rischio che bisognava correre. Tanto per lasciar sfogare gli istinti. Perché Olivieri
dice che gli istinti repressi...
"Me ne frego di Olivieri!" la interrompeva mio padre. "Se ti tornano con qualche
arto di meno, gli dici a Olivieri che glielo riattacchi lui con la psicanalisi."
Comunque, mia madre ha mantenuto la promessa. L'ultima sera d'agosto (era un
sabato e c’era anche mio padre) ha avuto luogo la sagra del fuoco. Tanto breve quanto
potente. Io non ci sono andata (di sera non mi mollano) ma sono stata sul molo con mio
padre e mia madre a guardare. Sono partiti con la fiaccolata dalla casa del Nicola, che sta
un po' in alto, e la strada in discesa e diventata una scia luminosa incandescente che
serpeggiava nel buio, sono arrivati al lago, sono saliti in barca, con le fiaccole che
ondeggiavano e si riflettevano rosse nell'acqua nera, e le voci basse che cantavano
cupamente Deguello, era bellissimo e impressionante, io tremavo anche se era un gioco,
pareva un corteo di streghe e stregoni su un lago incantato.
Le barche magiche sono scivolate via fino in mezzo al lago, si sono fermate, il
canto degli stregoni è cessato: cominciava il rito. E lì, tra i riflessi rossi balenanti, streghe
e stregoni hanno cominciato a dire porca miseria, no, ma cosa fai, dammi qua, dov'e la
miccia, ma sei scemo, fa' attenzione, porco giuda, aspe-tta, no, NO, NOO, NOO!
All'ultimo noooo il lago la valle la terra e il cielo hanno tremato per un'esplosione da fine
del mondo, e s'è vista una pioggia di corpi neri e di fiaccole rosse schizzare via a zampillo
dalle barche e sparire nell'acqua scura.
Silenzio. Barche ferme, vuote, che dondolavano appena in mezzo al lago, nere
sull'acqua nera. Noi sul molo paralizzati e senza voce. Poi, mentre la gente cominciava
ad accorrere da ogni parte sulla riva con un brusio spaventato, zic, zic, ecco le teste
riaffiorare a una a una dall'acqua (tre, cinque, nove, dodici, c’erano tutti), le mani
aggrapparsi ai bordi delle barche, le voci. Volevano insultarsi, ma ridevano troppo. Da
schiattare. Mai sentito ridere cosi.
Mia madre si a seduta sul molo come se le gambe non la reggessero più.
"Preparati a contare gli arti" ha detto a mio padre con voce tremula.
"Non avrai mica avuto paura, delle volte!" ha detto lui ancora rococò per lo
spavento. "Paura di cosa? Erano fuochi artificiali. Petardi. Mica cannoni, mica bombe
atomiche."
Poi, mentre il faro della finanza scandagliava le acque e sul luogo del delitto
arrivava rombando il motoscafo delle forze dell'ordine, si è portato una mano alla tasca:
"Invece di contare gli arti" ha detto "prepariamoci a contare le multe."
Ancora oggi non si è riusciti ad assodare per quale straordinaria e imprevedibile
circostanza i singoli razzi dei singoli stregoni si siano messi d'accordo per scoppiare tutti
insieme, in una sola volta. Probabilmente non lo si saprà mai. È già successo qualcosa
del genere un po' di anni fa, e neanche allora si è saputo. Comunque le multe sono state
fraternamente divise.
"Basta coi razzi!" ha concluso mia madre. "Questa è l'ultima sagra del fuoco che
fate in vita vostra! L'ultima, intesi? " Lo dice tutte le estati.
Comunque avrei voluto esserci anch'io. Era bello anche stare a guardarli dal molo,
ma avrei voluto essere là, con la mia fiaccola in mano e il mio razzo e tutto. Spero di
esserci l’estate prossima, e tante altre estati.
Questa sta finendo. Tutto è talmente breve, quando è passato. Passata la sagra dei
fuochi, e più in là passato il mio compleanno (sono quattordici interi, adesso), passato
san Lorenzo con le stelle cadenti e noi tutti stesi sul molo a contarle e a formulare
desideri segreti.
"Che cos'hai chiesto?" sussurrava a ogni stella l'Antonio.
"Boh" dicevo.
Lui chissà cosa chiedeva alle stelle. Forse una ragazza già cresciuta, che non
dicesse boh.
Adesso è partito per gli esami di riparazione, e ha già la leggerezza e la fisionomia
confusa dei ricordi. Preferirei che restasse così, fino all'estate prossima. Invece lo rivedrò
a Milano e dovrò dire altri boh.
Me la ricorderò, questa estate, così uguale alle altre e così diversa. Avrò un. sacco
di anni per ricordarla.
Alla conca dell'eco, il mistero è finito. Ne ho parlato con la mamma, infine. Mi ci
sono decisa una sera d'agosto, i ragazzi erano in giro e mi sentivo sola.
"Mamma" le ho detto. "Mamma, ti piacerebbe che tornasse l'Inglese?"
Lei ha smesso di scrivere a macchina e mi ha guardata con un'aria strana, anche
lei.
"No, non credo" ha detto piano.
Neanche lei crede più alle favole, ho pensato, e per un momento mi sono sentita
sgomenta e tradita e ferita.
"Ma forse è tornato" ho detto parlando molto più forte del solito. E ho
raccontato in fretta tutto, della pipa, del cappello, del foglietto e di tutto, e gli echi delle
favole alitavano intorno e pregavo perché lei li sentisse.
Senza alzare la testa, tristemente, ha detto: " L'Inglese è morto. L'hanno ucciso in
Africa. Tanto tempo fa".
Morto, ucciso. Tanto tempo fa. Ma allora chi era? Sentivo i brividi su per le
braccia.
Mia madre picchiava con un dito sempre sullo stesso tasto della macchina. "Lo si
è saputo solo adesso," ha detto "perché gli eredi, nipoti o altro, hanno venduto il
terreno."
Eredi, venduto, terreno. Stentavo a capire. "A chi?" ho detto.
"A un olandese o tedesco o danese che sia, l'ho visto in paese: un tipo cordiale,
grassoccio. Uno che ha un cappello di paglia e una pipa."
Sono stata zitta. Non c’era niente da dire. Era tutto chiaro: un tipo grassoccio,
cordiale, che si era divertito a fare i giochini con due ragazzette esaltate. Capita
"Sta già demolendo la Casa" ha continuato mia madre, accanita col dito su quel
tasto. "Ne costruirà una nuova. Ha già il progetto, cominceranno i lavori subito." Ha
detto tutto duramente, senza guardarmi, come se fosse arrabbiata con me, ma non lo era.
Non con me.
Dopo un momento, ho detto: "Io non ci andrò mai più". E mi pareva di mettere
in quel preciso momento una pietra sull'infanzia. Le favole erano morte, morte, non
c’erano più favole per me in tutto il mondo.
Finalmente mia madre mi ha guardata: "Adesso vai pure in soffitta," ha detto
dolcemente "e restaci finche vuoi".
Ci sono restata tutta la sera. Quel cretino di guanciale continuava a bagnarsi e
dovevo continuamente rivoltarlo. Poi mi sono addormentata.
Per un bel po' di giorni non ho potuto parlarne.
"Sei arrabbiata?" diceva l'Antonio. "Perché sei arrabbiata?"
Quando mi vede triste mi chiede sempre perché sono arrabbiata. E io gli rispondo
boh. Poi è partito.
Infine, l'altra sera mia madre mi ha chiamata. Stavo dando la pappa ai cuccioli, e
mi ha fatto un cenno.
"Vieni qui" ha detto. "Guardami bene. Ti sembro molto infelice? Molto
sbagliata?"
"Boh" ho detto. Ma non era giusto dire boh. L'ho guardata. Un po' triste, un po'
vecchia, molto svanita, con un mucchio di cuccioli in braccio. Non infelice, e non
sbagliata. "No" ho detto. "Tu no."
"Eppure lo sono stata. Quando ero molto giovane, quando ero una ragazzina
come te, astratta e impastata di favole. La realtà mi pareva stupida e brutta e mi sentivo
spostata e sola. Poi ho imparato."
"A inserirti?" ho detto, ostile.
"Non proprio. Non in quel senso. Ho imparato a voler bene alla vita per quel che
è. Coi padri e le madri che litigano, e la fretta e la fatica, e il dolore anche. E la morte,
anche. E i soldi che non bastano e il lavoro da fare anche quando non ne hai voglia, e la
gente che parla e nessuno che ascolta. E le case col frigorifero e la lavatrice al posto delle
felci e del mistero. E la vita, e io l'amo anche così. "
Dopo un po' ho detto:
"Scommetto che ci farà pure la piscina di marmo con delle orrende statue sopra,
putti e così via".
"Può darsi" ha detto mia madre; il suo sorriso era di nuovo una tonnellata di
allegria attraverso un passaggio stretto, così stretto che doveva farle molto male. "Vuol
dire," ha detto "che andrete nottetempo a metterci dentro quintali di detersivo."
"E farà il bagno nella nostra conca! E l'eco risponderà alla sua voce orrenda!"
"Forse non sarà proprio orrenda. Pare un ometto simpatico."
"Simpatico!" ho detto. " Io... io lo strozzo!"
Mia madre ha sorriso di nuovo. "Hanno detto così anche i tuoi fratelli" ha detto.
E di colpo ho sentito un fiotto caldo dentro, un bene così forte, e radici così profonde, e
non so cosa. I miei fratelli.
"Poi gli è passata" ha detto mia madre. "Passerà anche a te. Pover'uomo, lui che
ne sa? E così ansioso di fare amicizia con voi."
Per questo faceva i giochini coi foglietti. Certo, lui che ne sa?
"Ha quattro figli, tra l'altro" ha detto mia madre con aria noncurante.
" Maschi o femmine?''
"Maschi e femmine. Dai quindici ai venti, mi pare. Passeranno qui tutte le estati,
dalla prossima in su. Forse sapranno accendere il fuoco. E mangeranno le margherite col
sale."
Forse. Quattro ragazzi nuovi, senza radici, alla conca dell'eco. Forse mi ci
abituerò, ci si abitua a tutto, ho pensato; e non sapevo se dovevo esserne contenta o
disperata. Un po' tutte e due le cose, credo.
Di notte ho sognato l'Inglese seduto nell'arco della finestra diroccata, con la faccia
di nebbia e la pipa, che parlava con quattro ragazzi biondi e rossi col cappello di paglia,
seduti sulla riva a mangiare margherite grandi come piatti . Vitaminen, ia, vitaminen,
dicevano; e l'eco rispondeva inen inen. Forse bisognerebbe dirlo a Olivieri, che ci fa uno
studio sopra. Piscine comunque non ce n'erano, nel sogno, e neanche putti.
E adesso è l'ultima sera. È settembre, tutti i ragazzi sono già partiti, c'è profumo
d'olea fragrans nell'aria. Domani torniamo a Milano. M'immagino che razza di viaggio,
con cinque cuccioli di gatto e otto cuccioli di cane, senza contare genitori e ziut, tutti con
le loro sante zampe e le loro sante code e il loro santo mal di mare in ogni dove. E mia
madre con la grande emicrania delle partenze, e mio padre col grande nervoso dei viaggi.
già adesso stanno litigando da matti coi bagagli, di sopra, e fanno discussioni bizantine
per ogni solita cosa.
Fa freddo, abbiamo acceso il fuoco, io e i miei fratelli: l'ultimo trivacco.
Le cose vengono, passano, mica puoi fermare niente. La Cuginona sposata, la
Bruna fidanzata, il Maurizio universitario (non sa ancora se farà l'anatomista, il fisico o il
matematico oltre che il jazzista il bodhisattva e il dio del fuoco), un'altra estate finita, e
io? Sono ancora qua, né piccola nè grande, mezza cotta e mezza no, a chiedere alle stelle
cose che non possono dirmi.
"Si sono accese le stelle" sta scritto su un rotolo di mio fratello. "Le guardi e
non c’è più niente da dire / le stelle spiegano tutto / hanno una risposta per ogni
dubbio. / Tutto sta così / inutile agitarsi /l'erba cresce anche se tu non muovi
un dito / il sole sorge e tramonta / passano e tornano le nuvole / anche se tu
non guardi / le stelle continuano a splendere sul lago / quindi non
preoccupatevi."
Ma io mi preoccupo
Domani ricominceranno la fretta, la scuola, gli urli, le puzze, la televisione, su le
tapparelle, giù le tapparelle, i giorni e le sere, il nostro pezzo di vita da vivere.
Vivere, è una parola.
Ma qualcosa credo di aver capito. Di me e degli altri e di quel pezzo di vita. Non
so esattamente cosa. Ma credo che non avrò bisogno dello psichiatra per sentire che
sono viva e che loro sono vivi. Non avrò più paura d'essermi inventata tutto. Credo
proprio di no.
Le stelle scintillano remote sopra il trivacco d'addio, e le vecchie favole frusciano
leggere tra le foglie. Non sono morte, le favole. Sono, saranno sempre vive. Soltanto
sono favole. E io, io sono un ramo di quel vecchio tronco.
Boh. Credo che mi toccherà volerle bene, a questa vita.

INDICE
Io e loro
Io e loro pag. 7
Come fu che non andammo al mare l7
Dramma alla foce del fiume 27
La giovane bruciata 39
Spedizione nella giungla 49
Noi, le stelle e qualcos'altro 6l
Anniversario a sorpresa 73
La sagra dei sospiri l0l
Questa dannata casa lll
La figlia difficile l2l
Vietato fumare l3l
Storie di acquisti l4l
Storia di bestie l5l
Aria di vigilia l67
Ma forse to sapete l75
Si va sulla montagna l8l
Anno dopo anno l89
Lui e noi
Lui e noi l95
Un destino che si chiama Bao 205
Se io fossi un'automobile 2l7
Signore, non litighero più 229
Seguire il marito 24l
FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI MAGGIO l974
NELLO STABILIMENTO
DI RIZZOLI EDITORE IN MILANO
PRINTED IN ITALY
Viaggiando s'impara 255
E loro ballano il cha-cha-cha 267
Le sorprese del santo Mamete 28l
Tempi duri per i tizietti 293
Rotola rotola rotola 305
Datemi tante emicranie 3l7
Una donna emancipata 329
E trasloco sia 34l
Panini e calcinacci 353
I miei trenteccetera anni 363
Che quiz i figli 373
Che menagramo le madri 385
E l'erba cresce 395
Un momento d'aprile 407
Noi e loro
Noi e loro 42l
Ciao, principessa 433
Quelli della mia eta 447
Per piacere, non rompete i cavalli . . 459
Le orge del sabato 47l
Esami e malattie 483
Non sarànostalgia 495
Poema di un giorno di pioggia 505
Matrimoni e così via 5l7
I tempi sono cambiati 527
Fuochi e stelle 537

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