“Dammi mille baci,” chiede il poeta Catullo alla sua amatissima Lesbia, “e poi cento, e poi ancora altri
mille...”: una delle poesie più celebri della letteratura latina. Una storia d’amore, quella tra Catullo e
Lesbia, piena di passione, che – dopo uno, due, tre, forse mille tradimenti – si trasforma in disperazione
e disprezzo. Una storia che fa pensare a un rapporto vissuto secondo i canoni più tradizionali, per non
dire più scontati, dell’amore romantico.
Ma sarebbe sbagliato dedurre da questi versi che i romani fossero romantici. Se Catullo lo fu, in alcuni
momenti della sua vita, e certamente in alcune poesie, lo fu a modo suo. O meglio, lo fu nel modo in
cui poteva esserlo un romano: come parentesi – non importa quanto lunga, pur sempre una parentesi –
all’interno di un rapporto vissuto, di regola, all’insegna di una sessualità prepotente, arrogante, per non
dire, come vedremo, addirittura predatoria. E non solo nei confronti del sesso femminile, ma anche
quando l’oggetto del desiderio non era, come accadeva spesso, una donna, bensì un ragazzo.
Lesbia, infatti, non è la sola persona amata cui il poeta veronese chiede mille baci. Con toni non meno
romantici, ne chiede ben più di mille – e riesce a strapparne quanto meno uno – al giovane, bellissimo e
dolce Giuvenzio, di cui fu per un certo periodo innamorato. Salvo poi, come nel caso di Lesbia,
rimanere deluso, amareggiato dai suoi tradimenti, e minacciare i rivali di vendette, anche sessuali,
tutt’altro che romantiche.
Nel dare inizio alla nostra ricognizione sull’amore a Roma, vediamo dunque di ricostruire queste due
storie.
La donna cantata da Catullo come Lesbia si chiamava, in realtà, Clodia. Sorella di Clodio, ex tribuno e
capo di una banda che sosteneva con la violenza la politica dei popolari, e in particolare di Cesare,
Clodia era molto bella. I suoi occhi erano così splendenti da meritarle l’appellativo di boopis, “grandi
occhi” (letteralmente “occhi di giovenca”, che i greci consideravano un complimento), il soprannome
della moglie di Zeus: l’equivalente greco di Giove, la cui moglie, a Roma, si chiamava Giunone.
Sposata a Quinto Cecilio Metello Celere, nel 61 a.C., a trentatré anni, Clodia incontra Catullo, di circa
dieci anni più giovane. Nasce una passione che il poeta vive con tutta l’intensità della sua gioventù, a
dare un’idea della quale niente di meglio del celebre, già citato carme dei mille baci.
Ma alla passione si alternano freddezze, abbandoni, distacchi che a volte sembrano definitivi:
I proponimenti, però, non vengono mantenuti. Pur consapevole di quelli che definisce i crimini di
Lesbia, Catullo continua ad amarla:
Odio e amo.
Come sia non so dire,
ma tu mi vedi qui crocifisso
al mio odio ed amore.
Secondo Catullo, Lesbia è poco più di una prostituta, anzi, molto peggio:
E infierisce:
Questa, alla luce dei suoi carmi, la storia dell’amore di Catullo per Lesbia. Ma per capire meglio il
poeta – e i romani della sua epoca – bisogna confrontarla con quella del suo amore per Giuvenzio.
Giuvenzio era, probabilmente, un ragazzo di nobile famiglia veronese, come Catullo, mandato dai
genitori a Roma e affidato al poeta, che se n’era innamorato. Secondo l’antica etica dei romani, un
amore riprovevole. Ma non perché “omosessuale”. I romani – esattamente come i greci – non
conoscevano né questo concetto, né questo termine: per loro, la virilità non si manifestava solo nel
rapporto con le donne, ma ogni qual volta, in un rapporto sessuale, l’uomo assumeva un ruolo attivo;
anche nel rapporto con un altro uomo.
Il che non significa che approvassero qualunque rapporto tra uomini: non lo approvavano loro, e non lo
approvavano neppure i greci. Questi, infatti, ammettevano e valutavano culturalmente e socialmente
solo le relazioni pederastiche, vale a dire quelle tra un uomo adulto e un ragazzo libero, che grazie alla
frequentazione con un cittadino imparava a condividere i valori della polis. E che, quando sarebbe
giunto il momento, sarebbe così stato in grado di trasmetterli, nel ruolo attivo di amante, a un giovane
amato.
I romani invece non ammettevano rapporti di questo genere. A Roma i giovani maschi venivano
educati al mestiere di cittadino dai genitori: il padre, in primo luogo, che li conduceva con sé quando
partecipava alle riunioni politiche, così che ne apprendessero i meccanismi e le regole, e la madre, che
coltivava in loro la consapevolezza della grandezza di Roma e l’orgoglio per la loro appartenenza
civica.
Inoltre, agli occhi dei romani essere partner passivi in un rapporto sentimentale o sessuale era segno di
debolezza, di mancanza di virilità. L’uomo romano, insomma, poteva amare qualcuno del suo sesso,
ma solo come amante, mai come amato. Come risolvere il problema? Come trovare un “amato”?
E quando veniva preso dal desiderio di un altro uomo? Ovvio e semplicissimo. La soluzione era a
portata di mano: gli schiavi. Anche a questo serviva la schiavitù. Naturalmente, gli schiavi propri. Gli
altri non andavano disturbati, distratti e sottratti al loro lavoro: bisognava rispettarli, come qualunque
proprietà altrui.
Ciò premesso, torniamo a Catullo e alla sua relazione con Giuvenzio.
Giuvenzio era un ragazzo libero. Come poteva Catullo scrivere così apertamente del suo amore per lui?
Poteva farlo perché, nei secoli, i costumi anche sessuali dei romani erano cambiati. Nei primi secoli
della città, ai tempi dei maiores – gli antenati dei quali i romani celebravano incessantemente le virtù –
l’amore di Catullo per Giuvenzio avrebbe infranto ogni regola etica. Ma Catullo visse tra l’87 e il 54
a.C., quando i romani, per ragioni e a seguito di eventi sui quali torneremo, avevano dimenticato le
regole antiche e avevano preso a considerare i ragazzi, anche se liberi, persone delle quali ci si poteva
innamorare e con le quali si poteva avere, anche apertamente, una relazione. […]