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LA VOCE DEI SUBALTERNI.

Immedesimarsi nel subalterno.


“Ci siamo davvero mai chiesti cosa si prova ad essere i rappresentanti di una minoranza all’interno di
un paese?” Robert Young si pone questa domanda all’inizio del libro “Introduzione al
postcolonialismo” e lo fa con l’intento di spingere immediatamente il lettore a riflettere.
Risulta complicato però per noi occidentali riuscire a metterci nei panni del subalterno, avendo alle
spalle un passato coloniale che ha profondamente segnato la realtà odierna generando squilibri e
ingiustizie.
Non riusciremmo mai probabilmente a comprendere il dolore di una comunità che oggi si trova a
dover fare i conti con un passato impregnato di schiavitù, violenze e soprusi e un presente che
continua a far male.
L’obiettivo del postcolonialismo è proprio quello di esaminare il passato attraverso un approccio che
possa dare voce a quella parte della popolazione mondiale che nel corso dei secoli non ha fatto altro
che subire il dominio dell’Occidente. Si tratta quindi di un vero e proprio intervento politico sulla
realtà che cerca di dare vita a rapporti più giusti ed egualitari e di inserire i propri saperi alternativi
nelle strutture di potere.
Il termine stesso “postcoloniale” ci fa pensare ad una svolta, ad un nuovo modo di vedere le cose che
sovverte l’ordine del mondo e i rapporti di potere pre-costituiti. Al giorno d’oggi l’altrove e l’altro non
possono essere più concepiti come al di fuori di noi ma tra di noi, come parte integrante del nostro
passato e del nostro divenire.
Ed è proprio a distanza di tempo, con una maggiore consapevolezza e con una nuova prospettiva
critica, che voglio far riferimento alla mia esperienza di volontariato a Bucarest. L’intento è di
richiamare alla memoria gli episodi che più mi hanno colpito nel corso di quest’avventura attraverso la
quale sono entrata a stretto contatto con famiglie provenienti da diverse comunità rom della città.

Evoluzione socio-culturale dei rom di Romania.


Prima di procedere, è importante ripercorrere alcune tappe della storia dei rom in Romania per capire
come, in linea generale, le loro abitudini siano state modificate nel corso del tempo, con l’obiettivo di
uniformare questa comunità a quella rumena attraverso un processo di omogeneizzazione. La
presenza delle prime comunit{ rom in Romania risale all’XI secolo. Da allora i rom, soprattutto a
partire dal 1300 vennero resi schiavi di feudatari e monasteri e sfruttati per lavorare nei campi.
Questa condizione di sudditanza determinò la collocazione dei rom in una posizione sociale inferiore
rispetto al resto della popolazione gi{ a partire dall’et{ medievale. Solo intorno alla met{ dell’800, con
l’abolizione della schiavitù i rom ottennero finalmente la libert{.
Nel periodo interbellico, la modernizzazione economica portò molti di loro ad abbandonare le
professioni tradizionali che a causa della concorrenza dei prodotti industriali scomparvero. Ciò,
considerando anche gli spostamenti dalle campagne alle città e la dispersione di queste comunità, lì
portò lentamente ad omogeneizzarsi alla società rumena. È interessante ricordare come questa crisi
colpì principalmente i musicisti rom che si videro letteralmente rimpiazzare da orchestre di musica
moderna e radiofonica. Per le autorità centrali erano i rom romadi a rappresentare il pericolo
principale, poiché erano ritenuti “scomodi” in quanto sfuggivano al controllo da parte del governo.
Durante il regime nazista, i rom continuando ad essere tra le minoranze più discriminate in assoluto
furono particolarmente presi di mira. Si stima, infatti, che durante l’Olocausto all’incirca 500.000 ne
vennero sterminati. Quando in Romania nel 1945 venne eletto un governo comunista le minoranze
presenti nel paese e i rom che rappresentavano una grande fetta della popolazione totale, ottennero
un forte appoggio e supporto da parte del governo nella conservazione della propria identità culturale.
E fu così che nei primi anni del regime comunista si manifestò un fenomeno mai conosciuto fino ad
allora: molti di loro entrarono a far parte dell’apparato di partito, della milizia, dell’armata e
addirittura degli organi della Securitate. Vi furono addirittura alcuni comuni guidati da sindaci di
origine rom. Ma questa non fu altro che una tattica da parte del governo con il solo scopo di ottenere
maggior consenso possibile.
Una volta presi i pieni poteri, la questione dei rom venne completamente tralasciata e almeno per tre
decenni, fino alla metà degli anni 70 queste comunità iniziarono a ripercorrere una discesa sociale. Ma
ciò che ha contribuito maggiormente a gravare sul peggioramento delle condizioni sociali dei rom fu il
fatto che ufficialmente non vennero mai considerati delle minoranze etniche. Di conseguenza non ci
sono mai state delle legislazioni specifiche che andassero a loro favore. Secondo il dittatore Ceausescu
i rom di Romania più che di politiche razziali, avevano solo bisogno di un “aiuto” in termini economici
e sociali, tanto che molti videro in ciò un tentativo di protezione nei confronti dei rom da parte del
dittatore. E questo non fece altro che aumentare ancora di più i sentimenti di razzismo che la
popolazione rumena aveva maturato nei secoli nei loro confronti.
La Rivoluzione del 1989, che segnò la fine del regime dittatoriale di Ceausescu e l’apertura della
Romania al mondo occidentale, determinò cambiamenti importanti anche per la popolazione rom. Se
da una lato vi sono stati effetti positivi, come la concessione di maggior diritti e libertà, relativi per
esempio alla costituzione di associazioni e partiti politici, così come quotidiani e pubblicazioni di ogni
genere, tuttavia per la maggior parte della popolazione zingara è cambiato ben poco. La povertà,
l’analfabetismo e la disoccupazione sono ancora delle costanti molto alte dei cittadini rom. Il razzismo
da parte della popolazione diventa ogni giorno più accentuato.

Il peso della discriminazione.


A Bucarest, nei giorni nostri, si avverte un forte clima di tensione dovuto alla presenza delle comunità
rom in città. Chi, come me ci ha vissuto anche solo per un breve periodo, parlando con le persone del
posto può facilmente imbattersi in discorsi pieni di pregiudizi nei confronti di questa minoranza. Basta
uscire il sabato sera in centro, andare nei locali stracolmi di turisti e romeni, per rendersi conto che
però di rom, nei luoghi maggiormente frequentati non se ne vedono. Ho capito, a distanza di poco
tempo, che ci fosse una tendenza generale a discriminare e a giudicarli in base ai pregiudizi e ai tipici
luoghi comuni che li caratterizzano. Esiste, infatti, questo luogo comune secondo cui i rom siano pigri,
nullafacenti e non disposti ad integrarsi. E se ne parla come se queste fossero delle vocazioni innate.
A quel punto ho realizzato quanto il mio ruolo da volontaria potesse essere importante. Trovandomi
infatti in una posizione che mi permettesse al contempo di avere a che fare sia con romeni che rom,
avrei potuto confrontarmi, capire e analizzare i vari punti di vista delle persone incontrate durante il
mio anno a Bucarest.
Nel corso di quei mesi ero principalmente a lavorare in un centro diurno con bambini e la mia sfida è
stata quella di riuscire in qualche modo a vedere le cose attraverso i loro occhi, o almeno sforzarmi a
capire quanto il peso della discriminazione gravasse sulle loro esistenze e influisse sulle loro identità.
E, a tal proposito, c’è stato un episodio che mi ha particolarmente segnato.
Eravamo solitamente abituati a incontrarci in un edificio e di stare lì per ore a giocare e fare attività
con i bambini. Quel giorno però era speciale e l’avevamo tanto atteso: ci sarebbe stata la prima lezione
di danza e noi volontari, insieme all’educatrice, avremmo accompagnato i bambini in una scuola di
ballo dall’altra parte della citt{, a quaranta minuti di autobus. Entrando nell’autobus ho avuto una
sensazione mai provata prima. Era, infatti, come se alcune delle persone presenti ci stessero
guardando con una curiosità mista a disprezzo. Nel corso del viaggio, uno dei bambini si è seduto e,
alla fermata successiva ha ceduto il posto a una signora anziana, la quale sembrava stupita per la sua
inaspettata gentilezza e buona educazione. Dopo un po’ i bambini hanno iniziato a canticchiare una
canzone che avevamo imparato in quei giorni. E da lì ho potuto notare alcune persone palesemente
infastidite, che si stavano lamentando per quanto fossimo rumorosi.
Al ritorno una signora anziana mi ha urlato contro qualcosa in romeno ma io, non potendo rispondere
nella stessa lingua sono rimasta in silenzio. Ma il messaggio era chiaro: la signora, inferocita stava
rimproverando i bambini, a suo parere troppo maleducati, e noi volontari, incapaci di gestirli.
Torniamo a casa. Sulla strada del ritorno ho pensato a ciò che era successo poco prima. Quella signora
era davvero arrabbiata e, onestamente, i bambini non mi erano sembrati maleducati o rumorosi a tal
punto da provocare una reazione così esagerata. L’educatrice, facendo riferimento all’accaduto, mi ha
ripetuto più volte nei giorni successivi: “Se quei bambini non fossero stati rom, lei non si sarebbe
minimamente permessa di rivolgersi a noi con quel tono”.
Per la prima volta credo di aver vissuto diversamente un episodio di razzismo. Io ero con quei
bambini, ne conoscevo le storie, le situazioni difficili che avevano alle spalle e le insicurezze. Io questa
volta non ero una semplice “spettatrice” ma mi sono sentita piuttosto come parte di un gruppo.
E agli occhi della signora apparivo invece come una sorta di “complice”, una povera illusa come alcune
persone mi hanno detto di essere. Una delle tante (per fortuna ce ne sono tante) che spera in un
riscatto sociale dei rom.
Attraverso una nuova visione, la svolta degli studi postcoloniali.
Valeriu Nicolae è uno scrittore e attivista per i diritti umani e ha origini rom. Gestisce a Bucarest, in
uno dei quartieri più poveri, un centro per bambini in difficoltà. Ho letto alcuni dei suoi articoli sul web
e le sue storie mi hanno fatto ricordare un po’ i bambini che ho conosciuto io, in particolare quando
racconta dei loro progressi nella scuola:

Domenica scorsa Zîna non aveva troppa voglia di fare i compiti di matematica. A un certo punto, furiosa, mi ha detto che non
poteva. Nicuşor, un bambino di sei anni, l’ha sentita e le ha detto: “Non esiste ‘non posso’, esiste solo ‘non voglio’”.
Oana se ne sta ancora seduta vicino a noi, tutta presa dal suo libro. Nicuşor è felicissimo perché ha imparato a fare le
addizioni fino a venti e le sottrazioni a una cifra. Zîna corruga la fronte e comincia a leggere da capo. Arriva alla fine senza fare
errori. In Romania le cose miglioreranno. E questa trasformazione avverr{ nonostante la classe politica. L’importante è voler
cambiare il paese. Che si possa fare, questo è certo. La conferma ce l’ho davanti ogni settimana quando lavoro con i bambini di
Ferentari.

Un giorno ho conosciuto una ragazza e abbiamo avuto una lunga conversazione. Abbiamo parlato del
più e del meno e mi sembrava davvero una persona piacevole e interessante. Le ho raccontato che
collaboravo come volontaria in un centro diurno con bambini che vivevano situazioni di estrema
marginalità sociale e a rischio di abbandono scolastico. In quel periodo ero particolarmente
soddisfatta perché attraverso le attivit{ di educazione non formale e i giochi che l’educatrice
proponeva nel centro, alcuni dei bambini che pochi mesi prima non conoscevano l’alfabeto gi{ stavano
imparando a leggere e scrivere. L’ho raccontato a quella ragazza con immensa gioia ma lei, quando ha
capito che avessi a che fare con dei rom, ha immediatamente cambiato espressione del viso. Mi ha
detto più volte di ammirarmi per la scelta coraggiosa che avevo fatto ma non capivo bene cosa volesse
dire. Per me il coraggio è uno stato d’animo che viene fuori da situazioni di pericolo, aiutando a
superarle e affrontarle. Io invece ero semplicemente lì per intraprendere un percorso di crescita
personale, per offrire un sorriso, per far sapere a quelle persone che avrebbero potuto contare su di
me nel momento del bisogno. E giorno dopo giorno, ricevevo in cambio tanta di quella gratitudine e di
quell’affetto sincero e incondizionato.
La ragazza poi è andata avanti col discorso, spiegandomi bene a cosa si riferisse. Secondo lei il mio era
un coraggio che mi rendeva cieca, inconsapevole della realtà dei fatti. Quei bambini avrebbero
sicuramente lasciato la scuola a un certo punto della loro vita. Le bambine avrebbero fatto figli già in
età adolescenziale, trovandosi costrette a stare in casa e accudirli. I bambini invece avrebbero seguito
l’esempio dei loro padri e a un certo punto sarebbero diventati dei criminali e avrebbero passato il
resto della loro vita in carcere. Era così che funzionava secondo lei, e si trattava di un circolo vizioso
senza fine.
Io non ho mai pensato che le condizioni di questi bambini sarebbero cambiate nel giro di poco tempo o
che tutto si sarebbe risolto semplicemente con l’aiuto di associazioni pronte a offrire loro un supporto.
Non ho mai pensato di avere il potere di stravolgere le loro vite e di renderle perfette e senza la
presenza di ostacoli. Se così fosse, allora i problemi nel mondo si potrebbero affrontare con troppa
facilit{. La realt{ è un’altra. Di certo noi volontari avevamo un atteggiamento positivo e una forte
motivazione, e i risultati c’erano, ma è anche vero che il primo punto di riferimento per dei bambini è
sempre la famiglia e i modelli da seguire sono i genitori. È normale che sia così, soprattutto nel caso dei
rom, per i quali la famiglia è importantissima e contribuisce fortemente alla costruzione delle identità
dei componenti.
È chiaro che con quei discorsi la tendenza era di generalizzare forzando in una categoria le tipiche
caratteristiche associate ai rom. Ed è proprio questo l’esempio di un episodio che ci porta a ragionare
attraverso una concezione binaria della realtà e ha come conseguenze una visione limitata e un forte
timore per il “diverso”.
Questa entità del “diverso” ci confonde con la sua presenza e minaccia creando caos nell’ordine delle
nostre categorizzazioni. “Lo straniero finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri”; niente è più vero
considerando che è impossibile parlare di autenticità. Anche se proviamo un senso di appartenenza
per un luogo, ciò non determina in maniera assoluta la nostra identità. Esso appare come una traccia
che si mescola continuamente al flusso delle storie che fanno parte del nostro vissuto. Attraverso il
pensiero critico si vuole quindi riscrivere la memoria del passato utilizzando un approccio
postcoloniale. Con la visione binaria si è stati solo in grado di costruire monologhi, non dialoghi con
l’altro, senza comprenderne minimamente i vari punti di vista.

Le conseguenze del razzismo.


Nel corso di quei mesi, quando finalmente ho iniziato a parlare un po’ in rumeno, potevo riuscire a
comunicare con i bambini. Diverse volte mi è sembrato che ai loro occhi apparissimo come delle
persone “migliori”. Non so bene come spiegarlo a parole, ma è una sensazione che standoci a contatto
percepivo spesso. A volte, anche parlando con le famiglie, ci chiedevano perché con tanti bei paesi che
ci sono in Europa avessimo scelto di andare proprio in Romania. Inoltre avevano questa visione
idilliaca dell’Italia, lo immaginavano come un paese perfetto, ricco, dove le persone sono disposte ad
accoglierti e ad aiutarti nel migliore dei modi. Quando aprivamo questo argomento sottolineavo come,
in realtà, mi piacesse vivere lì e di quante belle persone avessi incontrato durante il mio percorso.
Essendosi fatti questa idea di noi italiani, ci vedevano come delle persone arrivate lì per dare un
esempio di vita a chi invece si trovava a vivere ai margini della società. Non volevo che ci vedessero
così, non volevo che pensassero di valere meno di noi solo perché nati in un paese e in un contesto
sociale diverso. Dover realizzare che la collocazione di un individuo all’interno del mondo vada a
segnarlo profondamente, ad influire nei rapporti sociali e a renderlo vittima di razzismo è la cosa che
più mi fa rabbia e che trovo estremamente ingiusta. Ho capito col tempo che questa visione che loro
avevano di noi fosse inevitabile, per quanto mi sforzassi a far percepire che stessimo sullo stesso
piano.
Ho avuto la fortuna di stare a contatto con dei bambini perché mi hanno insegnato tanto. I bambini
non giudicano ed è grazie a loro che all’inizio mi sono sentita a mio agio pur non sapendo una parola di
rumeno. È anche grazie a loro che ho scoperto l’efficacia e il potere del linguaggio non verbale, unico
mezzo di comunicazione indispensabile durante i primi mesi. È sempre grazie a loro se lentamente ho
imparato la lingua e a formulare delle piccole frasi per poter finalmente comunicare con le parole.
L’infanzia è una fase importante per la crescita e lo sviluppo dell’identit{ di una persona. Dovrebbe
essere un periodo sereno, senza preoccupazioni o ansie derivanti dal contesto in cui si vive. Eppure,
quei bambini già subivano l’enorme peso della discriminazione. C’era da parte loro un bisogno
costante di sentirsi accettati poiché consapevoli del fatto di essere giudicati in base ai pregiudizi e
ritenuti inferiori dalle persone al di fuori delle loro comunità. Da ciò derivava una bassissima
autostima.
Un giorno stavo giocando una bambina che mi disse: “Sei molto bella, lo sai?” e io risposi subito
“Grazie, anche tu sei bella”. Senza esitare e in maniera molto naturale la bambina mi disse: “Si sono
bella anch’io ma tu lo sei di più perché sei bianca”. Io rimasi in silenzio perché quella risposta mi aveva
lasciato spiazzata. Proprio il fatto che lei me lo avesse detto in maniera molto naturale mi fece
riflettere. Era evidente, infatti, come, quella bambina attraverso una frase del genere stesse
affermando che io fossi migliore di lei solo perché avessi una carnagione più chiara. Questo dimostra
quanto il razzismo penetri nella vita delle persone facendole arrivare al punto di disprezzare ed
evitare la loro stessa cultura. Mi ricorda un po’ la storia di tanti nativi americani che avendo alle spalle
un passato segnato dalla sofferenza decidono a malincuore di non trasmettere la loro lingua madre e le
loro usanze ai figli per permettere loro di avere una vita migliore e che li porti ad integrarsi facilmente
nella società. È l’inevitabile scelta di chi rinnega le proprie radici pur di non subire il peso della
discriminazione.

L’impatto del modernismo in Romania e lo sviluppo di una cultura del consumo.


Nel periodo estivo ho vissuto per due settimane in un piccolo paese a cinque ore da Bucarest e posso
affermare di aver notato che la situazione nelle zone rurali sia piuttosto diversa. Da un lato, si dà
ancora importanza ai mestieri tradizionali praticati dai rom; di conseguenza sono maggiormente
tollerati dal resto della comunit{. Dall’altro lato è interessante vedere come rispetto a Bucarest dove
attualmente si vive nel pieno del consumismo, nei piccoli centri abitati ci si trova in una fase di
transizione. È proprio in questi anni che sta avvenendo molto velocemente il passaggio dal
tradizionale al moderno e ciò, porta i due elementi a coesistere. Qualche mese fa mi è capitato di
vedere una foto su internet dove ci sono in primo piano due ragazzi seduti su una căruță (antico
carretto utilizzato per i trasporti) trainata da due cavalli fermi al McDonald’s per mangiare un panino
al volo. Credo che questa sia un’immagine che rispecchi la situazione attuale in Romania in generale,
ma in maniera più evidente nelle zone rurali dove elementi tipici della tradizione convivono con
elementi di una modernità imposta.
L’affermazione della modernit{ porta a sua volta a influenzare la costruzione dell’identit{ dei giovani
rom. Facendo un piccolo accenno al passato, ricordiamo come durante il periodo del socialismo di
Stato, in Romania ci fosse una dittatura sui bisogni, la mancanza dei beni desiderati e la cultura della
limitazione. Di conseguenza, nel periodo immediatamente successivo alla fine della dittatura è stato
attribuito un significato particolare a tutto ciò che era considerato occidentale: sinonimo di status più
elevato, di maggiore comodità, benessere e qualità della vita. È avvenuto quindi un forte cambiamento
culturale. I nuovi beni presenti sul mercato si sono inseriti negli schemi di relazione sociale
contribuendo a nuove concettualizzazioni dell’identit{ delle comunità a cui si appartiene. Se facciamo
riferimento al consumo culturale, poi, di certo non possiamo non citare le manele, genere musicale che
combina elementi della musica dei lautari (tradizionale musica rom) con elementi della musica
popolare turca, araba e serba. Poco a poco, le manele hanno incorporato influenze di quasi tutti i
generi musicali della cultura di massa, dal pop al rap. Nelle manele ci sono riferimenti culturali che
caratterizzano l’universo simbolico dei giovani rom e vengono veicolati modelli, stili di vita ritenuti
“occidentali”, parte di una cultura giovanile globale.
I testi sono legati ai soldi, all’amore o al vissuto quotidiano. Il genere è profondamente criticato dalle
cerchie elitarie poiché considerato di bassa qualità e cattivo gusto. Sono considerazioni che vengono
sicuramente alimentate dalla xenofobia nei confronti dei rom, dato che in genere i cantanti stessi si
dichiarano rom e che l’immaginario delle manele viene associato ad una vita più idealizzata che
vissuta. Queste canzoni, infatti, mettono in scena una persona “esotica” spostando la tipica identit{
zingara in una versione più romanticizzata, idealizzata dei rom: passionali, intensi e con uno spirito
libero. Se da un lato, l’élite tende a criticare questo genere musicale, dall’altro esiste quella parte di non
rom che prende una posizione di difesa di queste comunità. Gli attivisti volontari che lavoravano
nell’associazione in cui ho collaborato a Bucarest erano, infatti, soliti ad andare in un bar dove in
genere il pomeriggio si faceva teatro politico e dibattito e la sera venivano organizzate feste a tema
manele. Era quello un modo per provocare, per prendere le difese dei rom e per opporsi a
discriminazioni di ogni tipo. Tornando a parlare dei contenuti, è evidente quindi come le manele
esprimano una rottura con le tradizioni permettendo la trasgressione rispetto ad alcuni discorsi
trasmessi attraverso la socializzazione. Ad esempio, mentre nella cultura rom, fortemente maschilista,
viene sottolineata la purezza delle donne e la ristrettezza sessuale, nelle manele vengono proposte
delle inversioni in cui la donna si trasforma in una “bomba sexy”. In queste canzoni ci si vanta di
un’appartenenza zingara ma al tempo stesso europea che si esprimono in una nuova definizione
dell’identit{ etnica fortemente valorizzata.
Lo șmecher, personaggio maschile principale delle manele, si oppone al fraier (lo sfigato) e ha come
tratti distintivi un grande potere d’acquisto, guadagnato attraverso la furbizia e la fortuna. Spesso i
cantanti manele interpretano il ruolo di prepotenti e ci sono chiari riferimenti al furto.
Il ruolo della donna rom.
Come è stato accennato prima, la cultura rom, fortemente maschilista, tende ad oggettivizzare la
donna, che di conseguenza si ritrova privata di tutte le libertà.
Durante quest’esperienza ci sono stati diversi episodi che mi hanno fatto riflettere su quanto debba
essere difficile essere una donna rom. A tredici anni sei ritenuta una donna adulta a tutti gli effetti. Le
bambine sognano il matrimonio già da piccole e una vita con un bravo marito e tanti figli. È per questo
poi che la maggior parte di loro decide di lasciare la scuola. La famiglia per i rom è di fondamentale
importanza, tuttavia la vita di un individuo gira intorno ad essa e la quotidianità è vissuta in maniera
collettiva. Se la famiglia costituisce l’intera vita di un rom e va ad influire così tanto nelle sue scelte di
vita e nella costruzione della propria identit{, possiamo capire allora perché il contatto con l’esterno
possa rappresentare un disagio. Quasi tutte le madri che ho avuto modo di conoscere durante
quest’esperienza si trovavano a dover crescere i figli senza la presenza di un marito. È la donna che
deve farsi forza, subire violenze e doversi rimboccare le maniche per cercare degli espedienti per
poter andare avanti, riuscire a sfamare i figli, fare in modo che la loro sia una vita serena. Tutto ciò non
è facile, non lo è affatto quando ci si ritrova abbandonati e costretti a vivere tutti i disagi causati dalla
povert{ e dall’emarginazione. Il più delle volte i mariti sono in carcere oppure si sposano con altre
donne. A loro è concessa la libertà di poter fare tutto, senza essere giudicati. La donna però deve
esserci, sempre e comunque, a farsi carico delle questioni familiari.
Ho conosciute tante donne disperate che venivano ad accompagnare i figli al centro e si intrattenevano
per ore con l’educatrice per parlare e trovare uno sfogo, chiedere consigli e un supporto. Erano donne
davvero stremate ma, nonostante le difficoltà costrette ad affrontare mostravano di reagire con una
forza inverosimile. Una delle madri che più ho avuto modo di vedere e di conoscere a fondo è Zizi. Zizi
veniva al centro a portare le sue due figlie, Tita e Rita e ci teneva tanto affinché le due sorelle venissero
ogni giorno per stare con noi. Un giorno abbiamo fatto una festa con tutti i genitori e i bambini. Il
giorno prima ci era venuto in mente di fare qualcosa di nuovo, un gioco o un’attivit{ che includesse
anche i genitori per regalare loro un momento di condivisione con i propri figli. Il gioco, che avevamo
proposto anche qualche mese prima ai bambini, consisteva nel creare un cerchio con le persone
presenti. La prima a iniziare avrebbe dovuto lanciare un gomitolo a una persona a scelta legandosi il
filo a un dito. Prima di lanciarlo però, avrebbe dovuto dire un aspetto positivo del proprio carattere, o
anche una cosa bella che sentiva di aver fatto nel corso della sua vita. Quando è toccato a Zizi, l’ho vista
immediatamente emozionarsi. Inizialmente ha esitato ma poi, con un tono deciso, ha detto: “io sono
una persona coraggiosa che è riuscita ad andare avanti nonostante le difficolt{”. Ricordo bene gli occhi
lucidi di Zizi in quell’esatto momento. È come se in una semplice frase avesse racchiuso tutto il suo
vissuto e trasmesso un grido collettivo di tutte le donne rom alla ricerca di un riscatto.
Conclusioni.
La ricostruzione della mia esperienza a Bucarest attraverso il ricordo degli episodi che più mi hanno
colpito, ha portato a farmi riflettere su diversi aspetti.
Innanzitutto, è impressionante quanto il passato influenzi le identità del presente. Più precisamente,
possiamo dire di avere una grande responsabilit{ nell’agire sulla realt{ che ci circonda.
Nel periodo colonialista, attraverso una visione eurocentrica e l’utilizzo di una logica binaria si è
cercato in tutti i modi di stabilire confini, generando solo squilibri. Il ruolo che ha il postcolonialismo è
quindi di fondamentale importanza nel cercare di sovvertire l’ordine del mondo e creare rapporti più
giusti ed egualitari.
In secondo luogo, ho tentato di capire quanto risulti difficile sopportare il peso della discriminazione e
quanto sia dura ottenere un riscatto sociale quando si è intrappolati in una condizione di povertà e
discriminazione.
Infine, è importante riflettere anche sul forte impatto che può avere la modernità e la diffusione di una
cultura legata al consumo sulla costruzione delle identit{. Questo ci dimostra che la totalit{ dell’io è
aperta e in continuo movimento, l’identit{ non è mai immobile e le sue caratteristiche mai fisse e
impenetrabili.

Bibliografia

Chambers, I., 1994, Migrancy, culture, identity, London, Routledge; trad. it. 2003, Paesaggi migratori.
Culture e identità nell’epoca postcoloniale, Roma, Meltemi Editore.

J. Young, R., 2005, Introduzione al postcolonialismo. Disponibile da www.studimed.net.

Marcu, O., 2014 Malizie di strada. Una ricerca azione con giovani rom romeni migranti, Milano, Franco
Angeli.

Nicolae, V., 2018 I bambini che cambieranno la Romania. Disponibile da www.internazionale.it

Villa, E., Evoluzione socio-culturale dei Rom di Romania dal periodo interbellico al regime comunista,
disponibile da www.balcanicaucaso.org

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