La terapia del passato tendeva a ricalcare il profilo glicemico/insulinico nelle 24 ore basandosi in primis sul
profilo insulinico e modificando di conseguenza la propria giornata sulla base delle diverse somministrazioni
farmacologiche (quando in natura è l’aumento glicemico che comporta modificazioni nelle concentrazioni
plasmatiche di insulina). Gli schemi terapeutici erano su 3 iniezioni (rapida/rapida/mista), 4 iniezioni
(rapida/rapida/rapida/lenta) o 5 iniezioni (rapida/ritardo/rapida/rapida/ritardo). Gli svantaggi erano di avere la
necessità di somministrare l’insulina 30-60’ prima dei pasti, con il rischio di ipoglicemia preprandiale (e maggior
ansia nel paziente), con associata la necessità quotidiana di spuntini. La compliance terapeutica era quindi molto
bassa, con un pessimo controllo metabolico.
Nella terapia attuale si scindono le differenti coperture insuliniche di base (a lento rilascio) e post-prandiale
(rapido/ultrarapido rilascio), permettendo quindi una maggiore compliance terapeutica, con un maggior controllo
glicemico. L’insulina rapida Lispro [Humalog], Aspart [Novorapid], Glulisine [Anidra] hanno una
farmacocinetica con esordio d’azione a 30-45 minuti, con concentrazioni plasmatiche massime a 1-3 ore, ed un
emivita di 5-7 ore. Il controllo glicemico attuato è buono e viene utilizzato come controllo estemporaneo
(correzioni glicemiche) anche se il loro uso non porta a modifiche nei valori di emoglobina glicata. L’insulina
ultrarapida é composta da formulazioni che più facilmente portano alla formazione di monomeri di insulina (che
sono quindi più velocemente assorbiti); rappresentano il gold standard per il fabbisogno insulinico prandiale,
con un inizio a 15 minuti dalla somministrazione, con concentrazioni plasmatiche massime a 30-70 minuti ed un
emivita di 2-5 ore. Sono utilizzate anche in ICU per le correzioni glicemiche estemporanee sia come bolus che
come infusione IV. L’insulina lenta come la Glargina [Lantus] presenta un punto isoelettrico modificato a
pH 4,0; quando viene iniettata nel sottocute (a pH 7,4) si ha localmente il deposito della stessa, con una lenta
dissociazione ed una durata d’azione prolungata. La sua somministrazione evita le ipoglicemie notturne e le
iperglicemie diurne; dando una copertura completa, permette anche di evitare un pasto (evitando l’insulina
rapida). Nel paziente diabetico di tipo 1 viene somministrata 1 volta al giorno per garantire il fabbisogno
giornaliero basale di insulina. Da quando é stata introdotta in clinica l’uso dell’insulina ultrarapida con l’insulina a
lento rilascio, si é assistito ad un miglior controllo glicemico ed una riduzione della HbA1C.
TERAPIA DEL DIABETE TIPO 2:
La terapia del diabete di tipo 2 è una terapia complessa ed estremamente variabile, che richiede una buona
compliance del paziente, avvalendosi sempre di modificazioni dello stile di vita con eventuale utilizzo di farmaci
(fra cui l’insulina). E’ una terapia multistep per il fatto che la malattia ha una evoluzione progressiva sia in
termini di resistenze periferiche all’insulina, che in termini di riduzione delle concentrazioni plasmatiche relative
di insulina stessa. Al di fuori della ICU si ha un percorso con dieta ed esercizio fisico, uso di ipoglicemizzanti
orali in monoterapia, ipoglicemizzanti orali in pluriterapia, ipoglicemizzanti orali con insulina ed infine solo
insulina (nel 30% pazienti).
Concernente la valutazione della neuropatia è fondamentale controllare i piedi dei pazienti diabetici, così come
è altrettanto importante che il paziente abbia un’ottima complicance terapeutica nel monitoraggio quotidiano del
piede (ispezione visiva, lavaggio, utilizzo di calze corrette, ecc…). Ad ogni visita è fondamentale
l’ispezione della cute del piede in termini di integrità, soprattutto a livello del calcagno e del metatarso,
di calore, rossore, callosità, deformità ossee, ecc… che possono predirre l’evoluzione peggiorativa verso la
formazione di ulcere. Si deve eseguire un controllo vascolare dei polsi arteriosi lungo tutto l’arto inferiore, sia
dal punto di vista anamnestico (claudicatio) che clinico (palpazione, arterial-brachial index, ecc…); segue poi
un controllo neurologico della sensibilità periferica, sia a livello superficiale (tattile, dolorifica)
che profonda (pallestesia, propriocezione, ecc…). In merito alla valutazione della nefropatia è fondamentale
eseguire il controllo della microalbuminuria (30-300 mg die) che nei pazienti diabetici è indice di una nefropatia
in stadio iniziale (deve essere confermata da due misurazioni consecutive, escludendo le forme di proteinuria
estemporanea). Nei pazienti con diabete tipo 1 i controlli possono essere ritardati nel tempo (dato che la diagnosi è
abbastanza precoce), mentre nei pazienti con diabete tipo 2 è fondamentale eseguire un controllo immediatodi una
eventuale nefropatia perché spesso la malattia è asintomatica per anni prima di divenire clinicamente evidente.
Infine per la valutazione della cardiopatia i pazienti diabetici sono a maggiore rischio di sviluppare una
patologia coronarica sia per la presenza del diabete stesso che per la presenza di altri fattori di rischio
cardiovascolare; oltretutto i pazienti diabetici più spesso sono asintomatici e/o con sintomatologia più aspecifica
rispetto ai pazienti non diabetici. E’ pertanto fondamentale studiare più attentamente dal punto di vista
cardiologico tali pazienti, eventualmente impostando già una terapia preventiva.
Rispetto alla popolazione non diabetica, i pazienti diabetici hanno una minore spettanza di vita per il rischio
elevato di complicanze cardiovascolari e cerebrovascolari (la diagnosi di diabete porta a trattare il paziente
come prevenzione secondaria per tali patologie). E’ pertanto fondamentale controllare tutti i fattori di rischio
cardiovascolare ed impostare terapie che vedano come goals terapeutico livelli più stringenti rispetto alla
popolazione sana.
METFORMINA:
Attualmente la metformina viene considerato il farmaco di prima scelta (in assenza di controindicazioni) da
aggiungere alle modificazioni dei fattori di rischio cardiovascolare come segnalato precedentemente. L’effetto
principale è quello di ridurre la produzione epatica di glucosio, ma anche di aumentare la sensibilità periferica
all’insulina (permette quindi di utilizzare più glucosio alle stesse concentrazioni di insulina) e di ridurre le
concentrazioni plasmatiche di LDL, FFA e TG, con un lieve effetto indiretto di riduzione della insulinemia
periferica.
Gli effetti collaterali sono prevalentemente a carico del tubo gastro-enterico, con senzazione di gusto metallico,
inappetenza, nausea, dolori addominali e/o diarrea e generalmente sono sintomi lievi e che vanno poi incontro a
miglioramento. E’ importante ricordare che riduce l’assorbimento di Vitamina B12 per cui spesso è necessario un
suo supplemento orale (più raramente parenterale) per evitare forme di anemia megaloblastica e/o neuropatie
periferiche. E’ importante ricordare la possibilità di acidosi lattica legata all’uso della Metformina; generalmente
si hanno concentrazioni plasmatiche inferiori a 2 mmol/l, ma in condizioni di predisposizione (come in caso di
nefropatia e/o epatopatia e/o scompenso cardiaco e/o shock) si possono avere valori di acidosi lattica
estremamente severi. Viene pertanto sconsigliato il suo uso in tali condizioni; in caso di esame TC con mezzo di
contrasto iodato il farmaco viene sospeso 24 ore fino a 24 ore dopo l’esame, con controlli seriali della funzione
renale. Per quello che concerne la posologia esiste in formulazioni di 500 mg, 850 mg e 1.000 mg; generalmente
si inizia con una dose di 500 mg die PO, eventualmente incrementabile a 500 mg bid PO. Le dosi massime
tollerate sono 2550 mg die PO (850 mg tid PO).
TIAZOLIDINEDIONI:
Sono farmaci che, similmente alla Metformina, svolgono come azione principale quella di aumentare la sensibilità
periferica all’insulina; i farmaci utilizzati sono il Rosiglitazone ed il Pioglitazone. Sono farmaci che
incrementano la sensibilità periferica all’insulina agendo sul tessuto muscolare, adiposo ed epatico (con minor
produzione di glucosio e maggiore immagazzinamento); sono agonisti sintetici dei PPARγ (Peroxisome
Proliferator-Activated Receptor, subtype γ) e sembra che tale legame porti ad un maggiore utilizzo del glucosio
circolante, anche se il preciso meccanismo con cui tutto questo avviene non è ancora stato compreso. Svolgono
anche un ruolo sulla preservazione delle ß-cellspancreatiche nella produzione di insulina; l’uso di questi farmaci,
difatti, si è dimostrato efficace nell’incrementare la produzione di insulina da parte delle ß-cells.
In monoterapia il loro utilizzo in monoterapia si è dimostrato efficace nel ridurre al glicemia basale (3.6 mmol/l)
ed i valori di emoglobina glicata (1.6%), con piccoli incrementi plasmatici di HDL e LDL. Gli effetti in
monoterapia sembrano pertanto sovrapponibili a quelli della Metformina, ma non vengono utilizzati come farmaci
di prima linea per i costi maggiori e la presenza di maggiori effetti collaterali. Numerosi studi hanno dimostrato
un’efficacia dei farmaci nel controllare numerosi fattori di rischio cardiovascolare, fra cui la dislipidemia, i
markers infiammatori, la proliferazione delle cellule muscolari lisce, la funzione endoteliale, ecc… ma nessuno
studio ha ancora dimostrato un’efficace riduzione del numero di eventi cardiovascolari e/o sulla sopravvivenza
globale. In pluriterapia, generalmente in aggiunta alla terapia già precedentemente impostata per il paziente,
porta ad un potenziamento degli effetti farmacologici in maniera sinergica. Vengono pertanto utilizzati come
farmaci di seconda/terza linea, in aggiunta alle terapie precedenti.
Gli effetti collaterali di tutti i tiazolidinedioni comportano un incremento ponderale, sia per la proliferazione di
nuovi adipociti che per ritenzione di fluidi; può esserci la presenza di edemi periferici, maggiormente in pazienti
con disfunzioni ventricolari, dando luogo più facilmente a quadri di scompenso cardiaco. Nuovi studi hanno
dimostrato una riduzione della densità ossea e un incremento del rischio di fratture nelle donne, probabilmente
perché il legame con PPAR favorisce la differenziazione di precursori mesenchimali verso gli adipociti rispetto
che gli osteoblasti, con conseguente riduzione di deposito di nuova matrice ossea. Alcuni studi hanno dimostrato
una epatotossicità (attualmente attorno allo 0.3%), fenomeno che ha portato al ritiro dal commercio di alcuni
precursori dei farmaci attuali; sono stati descritti anche casi di edema maculare, spesso in pazienti con edemi
periferici. Il Rosiglitazone è stato anche associato a fenomeni di eczema cutaneo.
ACARBOSIO:
L’acarbosio è un blando ipoglicemizzante orale, che si è dimostrato in grado di ridurre l’assorbimento di glucosio;
è un inibitore competitivo dell’alfa-amilasi pancreatica e della alfa-glucosidasi dell’orletto a spazzola intestinale,
comportando una riduzione della digestione di zuccheri complessi e quindi dell’assorbimento di glucosio. E’ un
farmaco che presenta una bassissima biodisponibilità, che viene metabolizzato dai batteri intestinali e dagli enzimi
digestivi. Viene prevalentemente eliminato nelle feci, in parte nelle urine (con emivita di 1 ora). Per i vantaggi
terapeutici è un farmaco che porta ad una riduzione dell’assorbimento di glucosio, con pochi effetti
collaterali, non ha alcuna influenza sul peso corporeo e non porta ad ipoglicemie. E’ da tenere presente che è un
farmaco con scarsa efficacia rispetto ad altri ipoglicemizzanti orali. Gli effetti collaterali sono relativamente rari,
prevalentemente a carico del tubo gastro-enterico (nausea, diarrea, dolori addominali, flatulenza) e più raramente
sono stati descritti casi di epatiti fulminanti. Viene pertanto controindicato nei pazienti epatopatici, nei pazienti
con malattie infiammatorie intestinali e nei pazienti neuropatici.
SULFANILUREE:
Le sulfaniluree sono una classe di farmaci ipoglicemizzanti orali che si sono dimostrati in grado di stimolare la
secrezione insulinica da parte delle ß-cells; generalmente non vengono utilizzati come farmaci di prima scelta, ma
vengono progressivamente aggiunti in caso di scarso controllo glicemico. Sono farmaci che agiscono
tramite recettori ATP-dipendenti dei canali del potassio posti sulle ß-cells pancreatiche che, una volta stimolati,
favoriscono l’ingresso di calcio nella cellula, favorendo così la fusione di vescicole contenenti insulina;
permettono così di avere in circolo maggiori concentrazioni di insulina. Hanno anche qualche ruolo
sull’incremento della sensibilità periferica all’insulina, ma tale ruolo sembra marginale e secondario.
In merito al loro uso clinico le solfaniluree possono essere utilizzate in monoterapia e/o in pluriterapia con altri
ipoglicemizzanti orali; il loro utilizzo comporta un abbassamento della glicemia basale del 20% ma non è ancora
stata dimostrata una loro efficacia clinica in termini di outcome. Per gli effetti collaterali sono farmaci
tendenzialmente ben tollerati, anche se le ipoglicemie sono fra gli effetti collaterali più frequenti, soprattutto
perché tali farmaci inibiscono la produzione epatica di glucosio notturna, comportando fenomeni di ipoglicemia
spesso silenti. Gli episodi di ipoglicemiapossono essere più frequenti in determinate condizioni cliniche, fra
cui dopo esercizio fisico e/o un pasto saltato, per dosi farmacologiche troppo elevate, in pazienti
malnutriti e/o alcolisti, in pazienti con cardiopatia e/o nefropatia, in pazienti con uso concomitante di
salicilati e/o altri ipoglicemizzanti orali. Alcuni studi hanno dimostrato un effetto peggiorativosull’outcome di
pazienti diabetici in stato post-infarto miocardico acuto, forse perché tali farmaci possono interagire con altri
canali posti sui miocardiociti favorendo l’estensione dell’area necrotica.
L’effetto principale è un potenziamento della sensibilità delle ß-cells al glucosio circolante, ma gioca un ruolo
fondamentale anche nel controllare il metabolismo lipidico negli adipociti e, sotto certe condizioni, aumentare la
sopravvivenza delle ß-cells pancreatiche. Sono stati riscontrati anche effetti sul sistema nervoso centrale, sul
tessuto adiposo e sull’osso, ma gli effetti non sono ancora stati chiariti. Data la sua relazione ed i suoi effetti su
sistemi strettamente implicati con la patogenesi del diabete, il GIP è un sistema ormonale in fase di studio per lo
sviluppo di nuovi farmaci. Purtroppo si sa che nei pazienti diabetici si ha una minore sensibilità cellulare al GIP,
probabilmente per una down-regulation del recettori posti sulle ß-cells; in questi pazienti le concentrazioni
plasmatiche di GIP sono nei limiti di norma (eventualmente in eccesso), ma è la sensibilità cellulare che viene a
mancare. Attualmente il GIP viene quindi studiato dal punto di vista biologico, senza interessi per lo sviluppo di
nuovi molecole ad azione farmacologica.
GLUCAGON-LIKE PEPTIDE:
Il GLP è un ormone intestinale secreto dalle L-cells che si localizzano soprattutto nel digiuno distale, nell’ileo e
nel colon; partendo dal gene del proglucagone, si producono diverse molecole, di cui il GLP 1 è la forma più
rappresentativa e biologicamente più importante. La sua azione si esplica prevalentemente grazie ad opportuni
recettori cellulari posizionati sulle ß-cells pancreatiche (e non solo). Le sue concentrazioni
plasmatiche aumentano dopo pochi minuti dalla ingestione di glucosio, il che significa che esistono molecole
solubili nel circolo ematico in grado di stimolare le L-cells; presenta una breve emivita (inferiore ai 2 minuti)
e viene degradato da DPP4.
In merito agli effetti, il GLP1 svolge azioni fondamentali nella secrezione di insulina e nell’adeguato controllo del
metabolismo glucidico post-prandiale ed a digiuno, ma sembra avere una azione sinergica quando agisce con il
GIP. Questo sembra essere spiegabile perché il GLP1 svolge un ruolo importante nell’attivare la sintesi di
insulina e l’esocitosi cellulare, mentre il GIP ha un ruolo importante nel secernere insulina da parte dei granuli
cellulari esistenti. Per la secrezione il GLP1 è in grado di modulare la secrezione insulinica in maniera glucosio-
dipendente; gli effetti maggiori si hanno se viene somministrata poco prima della somministrazione di glucosio,
perché permette di evitare iperglicemie eccessive, senza avere nella seconda fase periodi di ipoglicemie. Sulle
cellule alfa si è dimostrato in grado di inibire il rilascio di glucagone sia sulla popolazione sana che sulla
popolazione con diabete mellito, anche se in caso di ipoglicemia non svolge alcuna azione peggiorativa. Per
lo storage il GLP1 è in grado di favorire l’immagazzinamento di insulina mediante l’azione sulla trascrizione
genica e la biosintesi si insulina da parte delle ß-cells pancreatiche. Sempre il GLP 1 in vitro si è dimostrato anche
in grado di favorire la differenziazione di progenitori cellulari in cellule endocrine secernenti insulina e glucagone.
In merito allo svuotamento gastrico il GLP1 si è dimostrato in grado di rallentare il normale svuotamento gastrico
in maniera dose-dipendente, ed in caso di diabete mellito una riduzione nell’intake acuto di sostanze si è
dimostrato avere un’azione benefica per la riduzione di stati di iperglicemia. Inoltre, la persistenza di uno stomaco
pieno, aumenta i tempi di sensazione di sazietà, riducendo le necessità di cibo. Sono stati eseguiti numerosi altri
studi che descrivono effetti benefici potenziali da parte di GLP 1 sul sistema cardiovascolare (sul danno da
ischemia e riperfusione, sulla contrattilità miocardica, ecc…), sul sistema nervoso centrale (azione anti-
apoptotica sui neuroni cellulari), sui reni (azione natriuretica), sul sistema endocrino (modulazione dell’asse
ipotalamo-ipofisario), ma gli effetti clinici reali sono ancora da dimostrare.
Il sistema incretinico, in particolare GLP1 è un sistema estremamente attrattivo per il potenziale sviluppo di nuove
terapie farmacologiche; attualmente si sta cercando di avere un potenziamento (o sovrautilizzo) di GLP 1 in grado
di restaurare i livelli glicemici ed insulinici come nei pazienti sani. Nuovi studi eseguiti negli ultimi anni hanno
dimostrato che terapie con GLP1 eseguite per 6 settimane in pazienti diabetici si sono dimostrati in grado
di ridurre i livelli di glicemia basale e ad 8 ore post-prandiale, migliorare il controllo glicemico a breve termine
e ridurre i valori di emoglobina glicata.
Il GLP1 ricombinante è un farmaco ricombinante che è stato sintetizzato inizialmente per gli studi sulla biologia
della molecola e per comprendere le iniziali applicazioni cliniche da poter ottenere con il farmaco. Data la breve
emivita, deve essere somministrato IV/SC in infusione continua. Gli inibitori della DPP4 sono la Sitagliptina e la
Vildagliptina, che si sono dimostrate efficaci nell’inibire l’azione della DPP 4 sugli ormoni incretinici; a livello
clinico si sono dimostrati in grado di aumentare i livelli plasmatici di GLP 1 di 2 volte, pur mantenendo il normale
profilo circadiano. Anche se ad oggi con l’utilizzo di tale farmaco non si sono riscontrati effetti collaterali
significativi, è intuitivo che tale farmaco, inibendo anche la degradazione di altri sistemi ormonali (comprese
citochine, neuropeptidi, ecc…) possa avere interazioni fisiologiche estremamente complesse.
Gli agonisti del GLP1 sono farmaci di recente scoperta che vengono generalmente somministrati a dosi elevate, al
fine di ottenere una importante stimolazione dei recettori GLP 1 e delle ß-cells. La loro sola somministrazione si è
dimostrata in grado di ridurre il peso corporeo di circa 1.14%, pari a 3.1 Kg. L’exenatide è il farmaco agonista
attualmente utilizzato; si compone di 39 aminoacidi, e presenta un 53% di omologia con il GLP 1 nativo, pur
essendo resistente alla DPP4. Viene somministrata bid SC nei 60 minuti precedenti al pasto,
l’eliminazione avviene a livello renale (per cui è controindicata nei pazienti con insufficienza renale cronica
terminale). Il farmaco è attualmente approvato dalla FDA e viene utilizzato in aggiunta agli antidiabetici orali
qualora si dimostrino inefficaci nel controllo glicemico. La Liraglutide è un farmaco analogo alla Exenatide, ma
presenta il vantaggio di una sola somministrazione giornaliera, con effetti analoghi al precedente.
EFFETTI SISTEMICI:
Dopo la scoperta del sistema incretinico e lo sviluppo di due nuove classi farmacologiche, sono stati eseguiti
ulteriori studi in grado di analizzare gli effetti sistemici diretti provocati da tali farmaci (senza contare ulteriori
effetti benefici legati al miglioramento del controllo glicemico).
Effetti pancreatici: tutti i farmaci hanno dimostrato un potenziamento della attività anti-apoptotica sulle ß-cells
pancreatiche, riducendo notevolmente il tasso di apoptosi di queste cellule e potenziando la loro attività di sintesi
e secrezione insulinica, anche per effetto dell’incremento di sensibilità cellulare alla glicemia; tutti gli effetti
sembrano essere farmaco-dipendenti, dato che alla sospensione del farmaco si perde tale effetto protettivo (o forse
gli studi eseguiti erano troppo brevi per poter permettere alle ß-cells di stabilizzarsi).
Effetti gastrici: l’utilizzo di tutti questi farmaci si è dimostrato in grado di rallentare lo svuotamento gastrico in
maniera significativa, incrementando il senso di sazietà post-prandiale (in alcuni casi con l’Exenatide si è
riscontrata nausea, che generalmente a medio termine va incontro a scomparsa).
Effetti cardiovascolari: studi istologici hanno dimostrato la presenza di recettori per GLP1 anche sui
cardiomiociti, per cui è stato ipotizzato qualche ruolo potenziale del sistema incretinico su tali cellule. Pazienti
diabetici con scompenso cardiaco avanzato da sottoporre a CABG sottoposti ad infusione continua di GLP 1 hanno
dimostrato un significativo miglioramento del Wall-Motion-Index regionale, della funzione sistolica globale e ad
una riduzione della mortalità ospedaliera (con miglioramento della qualità della vita percepita dal paziente). Altri
studi hanno dimostrato un’efficacia anche sulla funzione endoteliale (ma non sulla resistenza insulinica
periferica), sull’abbassamento della pressione arteriosa ed un miglioramento del profilo lipidico, anche se tali
effetti sono minimi, seppure statisticamente significativi.
Effetti neurologici: studi istologici hanno dimostrato la presenza di recettori per GLP 1 a livello neuronale
cerebrale, sia nell’ipotalamo che in diversi neuroni lungo tutto il sistema nervoso centrale, per cui il GLP 1 può
anche venire considerato come un neuropeptide; i suoi ruoli sono parecchi, soprattutto a
livello neuroprotettivo e neurotrofico(dimostrato su animali con Parkinson), migliora l’equilibrio glicemico
cerebrale ed in parte regola il sistema nervoso autonomo (a livello pressorio, di svuotamento gastrico e sazietà).
Effetti ossei: studi molto recenti hanno riscontrato che modelli animali knock-out per GLP1-r presentano alte
concentrazioni di deossipiridoline urinarie che sono un markers di riassorbimento osseo, dando idea all’ipotesi
che il sistema incretinico svolga un ruolo importante anche nella prevenzione dell’osteoporosi. Devono ancora
essere sviluppati studi clinici in tal senso.
Ancora ad oggi la terapia del diabete mellito tipo 2 è una terapia multisteps in cui si prosegue lungo la scala in
maniera progressiva, qualora la terapia precedentemente impostata non raggiunge il corretto controllo glicemico.
Dopo la scoperta e gli studi sul sistema incretinico, la fisiopatologia ed il trattamento del diabete mellito devono
tenere conto di tre problemi: deficit relativo di insulina (solfanilurea), insulino-resistenza (tiazolindinedioni)
e deficit di incretina (inibitori di DPP4 e analoghi del GLP1). Tale sistema utilizza come terapia di prima linea la
classica terapia comprendente modificazioni dello stile di vita (dieta, esercizio fisico, supporto psicologico),
eventualmente associato ad una terapia farmacologica di prima linea (metformina). Nel caso tale terapia non si
dimostri sufficiente, è fondamentale introdurre un’ulteriore terapia farmacologica che tenga conto delle basi
fisiopatologiche della malattia.
Coma iperglicemici (Capitolo 4.5.2)
La chetoacidosi diabetica ed il coma iperosmolare sono sindromi potenzialmente letali causati da una squilibrio
metabolico associato al diabete mellito, sia insulino-dipendente (tipo 1) che non insulino-dipendente (tipo 2).
Anche se viene fatta una distinzione nelle definizioni dei due sindromi, c'è molto comunanza tra loro e fino al
30% delle presentazioni acute possono avere le caratteristiche di entrambe le sindromi. La chetoacidosi diabetica è
circa tre volte più comune rispetto al coma iperosmolare nei pazienti con iperglicemia severa. Anche se lo
squilibrio metabolico visto nelle due sindromi é estremo, il tasso di mortalità associato a queste sindromi è
relativamente basso se si imposta una terapia appropriata e meticolosa. Le indagini dei pazienti con sindromi
iperglicemiche hanno trovato un tasso di mortalità inferiore al 5% associato alla chetoacidosi diabetica ed attorno
al 15% associato al coma iperosmolare. La maggior parte delle morti non sono causate dallo squilibrio metabolico
di per se stesso, ma si verificano a seguito di malattie co-esistenti, ad esempio come infarto del miocardio, sepsi
(soprattutto polmonite), ecc…
CHETOACIDOSI DIABETICA:
La chetoacidosi diabetica è una sindrome iperglicemica (dove la glicemia supera i 13.8 mmol/L), associata ad
acidosi metabolica (con pH inferiore a 7,30 ed un bicarbonato sierico inferiore a 18 mmol/L con un gap anionico
superiore a 10) associata a chetosi. La malattia si verifica principalmente nei pazienti diabetici insulino-
dipendenti, e la carenza di insulina grave è il segno distintivo di questa sindrome. I livelli sierici elevati di ormoni
dello stress (glucagone catecolamine, cortisolo, e l'ormone della crescita) sono anche un’altra caratteristica che
generalmente non viene ricercata in ICU. La chetoacidosi diabetica ha un'incidenza di circa l’8.6% nei pazienti
diabetici e si verifica in una fascia di età più giovane (età media attorno ai 33 anni) rispetto ai pazienti diabetici
con il coma iperosmolare (che presentano un’età media di 69 anni).
Il meccanismo fisiopatologico é fondamentale per la comprensione della malattia e per la corretta presa a carico
del paziente (come avremo modo di vedere nel capitolo successivo dedicato alla terapia del diabete, Capitolo
4.5.3). L’aumento della glicemia oltre al valore di 10 mmol/l (o 180 mg/dl) supera le capacità renali del tubulo
contorto prossimale di riassorbire il glucosio che viene filtrato dal glomerulo, generando pertanto una diuresi
osmotica con deplezione progressiva di liquidi ed elettroliti (in particolare si ha un aumento dell’osmollarità
plasmatica, una ipernatremia ipovolemica ed un’ipokaliemia). Fra l’altro é da ricordarsi che - a livello di
laboratorio - una iperglicemia severa comporta una falsa misurazione della natremia, che deve pertanto essere
corretta in base ai valori di glicemia (la natremia reale é pari alla natremia misurata + glucosio/3 se il glucosio é
misurato in mmol/l, oppure glucosio/62 se in mg/dl). Accanto a questo effetto osmotico, l’assenza di insulina fa sì
che a livello cellulare il metabolismo del glucosio non possa procedere, pertanto per la formazione d’energia il
fegato inizia e potenzia la lipolisi, che portano alla formazione ed all’accumulo di acidi non volatili (da qua si
comprende l’acidosi metabolica con gap anionico aumentato) quali l’acido acetacetico, il B-idrossibutirrato e
l’acetone. La formazione temporale degli acidi é nell’ordine in cui sono stati descritti e, con la somministrazione
dell’insulina, l’acetone é il primo acido a scomparire e l’acido acetacetico é l’ultimo. Un aspetto laboratoristico
importante é che tali acidi - che generano sempre un’acidosi metabolica a gap anionico aumentato - sono rilevati
nelle urine/plasma come corpi chetonici, ma l’acido acetacetico, seppure presente, non viene rilevato. Pertanto
un’assenza di corpi chetonici con la positività di tutta la storia clinica e di laboratorio deve far sospettare una
chetoacidosi diabetica in fase precoce, senza che si abbia avuto il tempo di sviluppare gli ulteriori corpi chetonici.
I fattori precipitanti associati allo sviluppo di chetoacidosi diabetica comprendono: la mancanza di insulina, sia
relativa o assoluta, una nuova diagnosi di diabete mellito insulino-dipendente, una storia compatibile con una non
compliance medicamentosa o un trattamento inadeguato per il diabete diagnosticato, la presenza di fattori di stress
fisici (come una malattia infiammatoria o infettiva) o la somministrazione di alcuni farmaci (glucocorticoidi,
fenitoina, inotropi, diuretici, ecc…) e/o la fase post-operatoria. Anche se ci sono molti fattori di stress in ICU, un
nuovo sviluppo di chetoacidosi diabetica in ICU non è un evento comune, presumibilmente a causa del alto livello
di vigilanza con rapida somministrazione di insulina per la correzione dell’iperglicemia.
CLINICA E LABORATORIO:
Le caratteristiche cliniche della chetoacidosi diabetica riflettono i disordini metabolici alla base della
disidratazione, della chetosi e dell’acidosi metabolica, comprendondo tachicardia ed ipotensione arteriosa, la
respirazione di Kussmaul ed il fetor chetosico, segni per infezione/infiammazione, uno stato mentale alterato,
ecc… Le prove di laboratorio a supporto della diagnosi di chetoacidosi diabetica comunemente sono
l’ipernatremia spuria se l'iperglicemia è grave, alti livelli di potassio sierico (che riflette lo stato acido-base e non
il grave esaurimento totale del corpo di potassio, che è sempre presente), livelli sierici variabili di magnesio,
calcio e fosfati (anche se questi sono generalmente bassi o si smascherano come bassi all’esordio della terapia),
un’acidosi metabolica con basso bicarbonato sierico, aumentato gap anionico ed aumentati livelli sierici/urinari di
chetoni con un ipocapnia compensatoria.
COMA IPEROSMOLARE:
Le caratteristiche della nozione di coma iperosmolare comprendono l’iperglicemia (con una glicemia superiore a
33.3 mmol/L), un’acidosi (con pH inferiore a 7.3 ed un bicarbonato ridotto, ma generalmente superiore a 15
mmol/l), la disidratazione ed il riscontro di un’iperosmolarità plasmatica superiore a 320 mOsm/Kg senza
chetoacidosi. La differenziazione principale dalla chetoacidosi diabetica sembra essere la presenza di almeno
alcune unità di insulina che permette lo sviluppo di una glicolisi senza lipolisi e formazione di corpi chetonici, dei
livelli di ormoni dello stress più variabili ed il fatto che la disfunzione renale e la ridotta funzione tubulare
(conseguenza dell’incapacità del rene di affrontare gli alti carichi di soluti osmotici) è comunemente presente. La
disfunzione renale, assieme alla diuresi osmotica può causare grave disidratazione, in particolare nell’anziano
dove la sensibilità al senso della sete appare ridotta.
Come accennato in precedenza, il coma iperosmolare è meno comune della chetoacidosi diabetica, si verifica in
un gruppo di pazienti d’età più avanzata, e ha un tasso di mortalità più elevato, mortalità che può essere associata
ad una mancata diagnosi (soprattutto se lo stato mentale del paziente è compromesso), alla presenza di
comorbidità o ad una ritardata terapia. I fattori precipitanti (oltre a quelle elencati per la chetoacidosi diabetica)
presentano comunemente ottundimento mentale, demenza o menomazione fisica che limita l'accesso all'acqua,
un uso inappropriato di diuretici. I test di laboratorio sono simili a quelli indicate per la chetoacidosi diabetica
ma differiscono alquanto in termini di severità in quanto i livelli sierici di glucosio sono generalmente più elevati,
i livelli sierici di sodio possono essere normali (in maniera impropria per il grado di iperglicemia), i marcatori di
disfunzione renale sono peggiori rispetto al coma chetoacidotico, l’iperosmolalità è più marcata, l’acidosi
metabolica non è così grave ed i livelli di gap anionico e di chetoni sierici sono normali o poco presenti.
EDEMA CEREBRALE:
La correzione rapida dell’iperglicemia e dell’iperosmolalità è associato con lo sviluppo di edema cerebrale; il
meccanismo di come si presenti l’edema cerebrale non è chiaro. L'edema potrebbe essere dovuto ad un effetto del
pH sullo scambiatore Na/K causando l'ingresso di sodio e acqua nelle cellule cerebrali, portando ad
un’interruzione osmotica o infiammatoria della barriera emato-encefalica o favorendo l'accumulo di soluti
osmoticamente attivi (come gli amminoacidi, i polioli ed altre sostanze). Altre teorie sul meccanismo dell’edema
cerebrale includono un’acidosi paradossale del sistema nervoso centrale o uno spostamento a sinistra della curva
di dissociazione di ossigeno-emoglobina che riduce l'ossigenazione dei tessuti. L'uso di soluzioni
isotoniche piuttosto che ipotoniche per la reidratazione e la prevenzione di una troppo rapida correzione
dell'iperglicemia sembra offrire una certa protezione contro lo sviluppo di edema cerebrale. L’edema cerebrale è
più comune dopo il trattamento della chetoacidosi diabetica che dopo il trattamento del coma iperosmolare, inoltre
é più comune nei pazienti diabetici di nuova diagnosi e nei pazienti giovani.
L’edema cerebrale dopo il trattamento per l’iperglicemia solitamente si manifesta come un prolungamento dello
stato mentale alterato o come un nuovo sviluppo di uno stato mentale alterato con le caratteristiche descritte in
precedenza. Di solito nessuna terapia specifica è necessaria oltre una buona terapia di supporto; raramente l’
edema cerebrale può produrre danni neurologici focali e permanenti. Nei bambini invece l’edema cerebrale
associato a chetoacidosi diabetica è una condizione molto più grave, gravata da una notevole mortalità. Il
trattamento urgente si basa su l’osmoterapia per via endovenosa (Mannitolo o NaCl 7.5%) seguito da steroidi e
diuretici come terapia di seconda linea.
DEFICIT COGNITIVI:
Il deficit cognitivo può verificarsi dopo la sindrome iperglicemia; questo deterioramento può essere grave e
clinicamente evidente (tipicamente é più comune nei pazienti anziani) o essere molto sottile (ad esempio con
scarsa concentrazione o perdita di memoria). Esso può inoltre essere associato con deficit neurologici focali o
globali oppure può essere evidente in presenza di un cervello strutturalmente normale. La maggior parte del
deterioramento cognitivo che non è causato da danni cerebrali strutturali migliora con il tempo. I potenziali
evocati sensoriali hanno mostrato risultati promettenti come test sensibile per rilevare eventuali disfunzioni
cerebrali subcliniche nei pazienti con grave chetoacidosi diabetica.
CRISI EPILETTICHE:
Le crisi epilettiche focali e generalizzate sono comuni nei pazienti con sindromi iperglicemiche e possono essere
resistenti al trattamento con i soliti agenti anticonvulsivanti; l’epilessia parziale continua, una forma insolita di
epilessia caratterizzata da un’intensità anormale del segnale RMN nel giro precentrale, può verificarsi in caso di
chetoacidosi diabetica o coma iperosmolare.
SINDROMI ALGICHE:
Il dolore può essere una caratteristica clinica importante di pazienti con sindromi iperglicemiche; tale dolore,
spesso di origine neuropatica, può essere così grave da imitare un quadro di addome acuto a indicazione
chirurgica. Anche il dolore toracico pleurico ed i mal di testa sono comuni. Un'adeguata valutazione del dolore è
molto difficile nel paziente con una sindrome iperglicemica emergente. La valutazione clinica frequente è
importante per rilevare in anticipo la vera causa del dolore. Per la diagnosi differenziale si può anche usare una
diagnosi ex-juvantibus, dato che il dolore causato dal coma iperglicemico spesso diminuisce con il tempo assieme
ad un trattamento farmacologico adeguato.
L’IPERGLICEMIA NEI PAZIENTI CRITICI:
In un individuo normale i livelli di glucosio nel sangue sono strettamente regolati all'interno della ristretta gamma
fra 60- 140 mg/dL (3.3-7.7 mmol/L), sia negli stati postprandiali che nel digiuno. L’iperglicemia diabetica è
definita dall’OMS come valori di glicemia a digiuno oltre 126 mg/dL (7 mmol/L) valori di glicemia post-
prandiale oltre 200 mg/dL (11.1 mmol/L).
L’iperglicemia da stress è associato ad una prognosi sfavorevole in diverse popolazioni di pazienti critici; un
ampio studio di coorte su oltre 66.000 pazienti in condizioni critiche ha rivelato un rapporto J-shape tra i valori di
glicemia all’ammissione ed il rischio di mortalità, con il nadir tra 5.6-8.3 mmol/L). Nei pazienti con sindrome
coronarica acuta, un'associazione simile è stato osservata, con il più basso rischio di mortalità con valori di
glicemia fra 4.4-5.5 mmol/L.
Fino a poco tempo, in ICU si tolleravano livelli di glicemia fino a 12 mmol/L nei pazienti nutriti, suggeriti dalla
possibilità che un’iperglicemia moderata poteva essere benefica per gli organi come il cervello e le cellule del
sangue (che si basano esclusivamente sul metabolismo glucidico per il loro approvvigionamento di energia). La
motivazione per il trattamento dei livelli di glucosio nel sangue superiore a 12 mmol/L è stata principalmente
l'insorgenza della diuresi osmotica iperglicemia-indotta e la predisposizione a complicanze infettive. Questo
approccio però si contrappone con la relazione J-shape tra la glicemia ed il rischio di mortalità nei pazienti in ICU.
Studi osservazionali hanno anche rivelato che l'iperglicemia nei pazienti con diabete mellito stabilito denoti un più
alto rischio di mortalità di almeno tre volte rispetto ai pazienti con diabete noto senza iperglicemia.
Due studi multicentrici europei volti a valutare se la terapia insulinica intensiva esercitava il vantaggio segnalato,
usando come endpoint primario la mortalità, non sono riusciti a riprodurre i risultati di Leuven. Questi ed altri
ulteriori studi sono stati infatti statisticamente sottodimensionati per rilevare una differenza di mortalità
ragionevole; per risolvere questo problema, lo studio NICE-SUGAR ha incluso oltre 6100 pazienti con più di 41
centri partecipanti, confrontando valori glicemici inferiori a 108 mg/dl (6.0 mmol/L) rispetto alla terapia abituale
(con valori di glicemia fra 140-180 mg/dL o 8-10 mmol/L). L'obiettivo dello studio NICE-SUGAR è stato quello
di valutare se l'abbassamento ulteriore dei livelli di glicemia al di sotto dei 6,0 mmol/l in ICU nella pratica clinica
mostrava ulteriori vantaggi. Contrariamente alle aspettative, NICE-SUGAR ha rivelato che il targeting prefissato
mediante la somministrazione di insulina aumentava la mortalità a 90 giorni dal 24.9% al 27.5% rispetto al valore
target di 8-10 mmol/L.
Ad oggi le linee guida di pratica clinica idealmente si basano su revisioni sistematiche e meta-analisi; le due più
recenti meta-analisi hanno mostrato che nei pazienti adulti in condizioni critiche, uno stretto controllo glicemico
non porta ad una riduzione significativa della mortalità ospedaliera, associandosi ad aumenti del rischio di
ipoglicemia. L’unica popolazione che può beneficiare di uno stretto controllo glicemico era la popolazione post-
chirurgica. Il fallimento di riuscire a ripetere i risultati di studi randomizzati controllati e meticolosamente eseguiti
ha indicato che il lo stretto controllo glicemico non è ancora pronto per essere ampiamente implementato in ogni
terapia intensiva, mettendo in discussione la validità scientifica dei benefici di tale terapia nei pazienti critici.
Sicuramente i livelli di glicemia devono essere normalizzati il maniera più sicura possibile, senza abbassare
troppo rapidamente la glicemia, per evitare un aumento d’incidenza di ipoglicemia e senza grandi fluttuazioni di
glucosio nel sangue. All’atto pratico ad oggi si consiglia:
1) di eseguire misurazioni accurate e frequenti della glicemia con prelievi, dato che i sensori glicemici in continuo
non sono ancora così accurati. I campioni di sangue capillare sono poco affidabili in ICU e devono essere ben
contestualizzati. Inoltre deve essere preferito l'uso di un unico glucometro con un margine di errore accettabile,
utilizzando il sangue arterioso per minimizzare gli errori di misurazione.
2) una continua somministrazione di insulina per via endovenosa utilizzando pompe a siringa accurate di cui si
conosce bene il funzionamento
3) una formazione approfondita degli operatori in ICU (medici ed infermieri) per il riconoscimento precoce di
un’ipoglicemia, per il riconoscimento dei protocolli di gestione della glicemia e del suo precoce trattamento.