DE SICA (1948)
Ladri di Biciclette è un film spartiacque nella storia del cinema, che si inserisce perfettamente nella
cornice della produzione cinematografica italiana del dopoguerra, la stagione del Neorealismo,
attraverso la trattazione di temi, come la povertà, l’umanità, l’importanza del lavoro, i quali
rimandano al degrado sociale nell’Italia devastata dalla guerra, che fatica a riprendersi
economicamente ma anche moralmente.
Il film di Vittorio De Sica riprende anche aspetti di quella grammatica narrativa che ha
contraddistinto il cinema precedente, incluso quello classico hollywoodiano, ma introduce anche
importanti novità che rendono tale pellicola antesignana del cinema moderno.
In particolar maniera, questo aspetto è veicolato dal ‘fatto nullo’ attorno cui ruota tutto il film: ad
un semplice romano viene rubata una bicicletta, mezzo primario per poter continuare il suo
mestiere. Tale accadimento, talmente ricorrente nel contesto sociale in cui il film ambientato, non
merita neanche una riga di giornale - emblematica è la scena in cui il protagonista denuncia il suo
furto, per cui al funzionario di polizia con cui Ricci sta dialogando si avvicina un giornalista,
liquidato dallo stesso commissario, il quale lo avverte che si tratta di “niente, un semplice furto di
bicicletta”. Ecco quindi che si realizza la prima componente realista dell’opera: raccontare il
dramma di eventi quotidiani apparentemente banali e soliti, ma che possono avere un impatto
altamente drammatico su individui dalla condizione simile a quella di Ricci. L’obiettivo dell’intero
film è quello di mettere in risalto la tragicità della vita umana nel momento in cui vengono a
mancare le condizioni necessarie, tra cui il lavoro (Ricci non può continuare ad affiggere manifesti
per la città senza la bicicletta).
Anche per questo motivo, il film si distacca molto dall’opera da cui prende spunto, il romanzo di
Bartolini, in cui è presente la stessa premessa di trama (il furto di una bicicletta), ma a danno di un
artista che se ne serve prettamente a scopo ricreativo, per raggiungere la campagna, in una Italia
che ha appena fatto i conti con il secondo conflitto mondiale: anche l’ambientazione del film di De
Sica risulta perciò ancora più drammatica, dato che, malgrado siano passati diversi anni
dall’armistizio del 3 settembre 1943, l’Italia riversa ancora in una situazione sociale ed economica
fortemente disagiante.
Il film di De Sica presenta una organizzazione narrativa ben costruita, creando quindi un distacco
dalla tecnica di “sceneggiatura in corso”, usata da Rossellini e Visconti, per cui i dialoghi venivano
pensati nel corso delle riprese. La narrazione sembra anche rispettare un principio di ‘unità
aristotelica’, di azione (i personaggi principali, Antonio, il piccolo Bruno, Maria e Baiocco, sono tutti
coinvolti nel ritrovamento della bici), di luogo (l’ambientazione urbana romana) e di tempo
(questo lo si evince soprattutto dalla seconda parte del film, ambientata nella giornata di
domenica).
La narrazione occupa un tempo di tre giorni. La durata narrativa del venerdì e del sabato si
caratterizza per essere più breve e sbrigativa. la narrazione cinematografica abbonda di ellissi e di
dissolvenze, espedienti tecnici usati ampiamente nella narrazione del cinema classico.
La seconda parte del film, narrante la giornata della domenica, presenta un tempo molto più
dilatato: alle dissolvenze si sostituiscono semplici stacchi e il tempo di azione finisce col coincidere
sempre di più col tempo di ripresa.
Anche l’organizzazione della messa in scena si caratterizza per l’introduzione di importanti novità,
accompagnate da un uso di tecniche messe a punto dal cinema precedente il Neorealismo. E’
opportuno considerare anzitutto le tecniche di messa in scena di matrice anti-drammatica, tra cui
la cosiddetta “tecnica del pedinamento” (Zavattini, uno dei teorici del Neorealismo): la macchina
da presa riprende e segue, ad una certa distanza, attraverso dei campi lunghi, i due personaggi di
Antonio e di Bruno, alla ricerca della bicicletta. L’occhio della cinepresa “pedina” da lontano i due
personaggi, relegati sullo sfondo, per cui lo spettatore non è in grado di cogliere il senso di
disperazione sui loro volti. Tale sentimento di angoscia è veicolato dal loro vagare disperato e
disorientato nella grande città romana. Emblematico è la sequenza in cui i due personaggi
scendono dal tram per raggiungere Baiocco, l’amico di Antonio: Ricci e Bruno, sullo sfondo
dell’inquadratura, si muovono lentamente, con passo incerto, sbagliando inizialmente anche
direzione.
A questo uso documentaristico della ripresa, quasi da cinegiornale, se ne contrappone uno molto
più drammatico, che lavora particolarmente sui volti degli attori, tra cui quello di Maggiorani,
attore non professionista, la cui prestazione risulta efficace in termini di fisicità, per via della sua
corporatura dinoccolata e smilza, che si contrappone a quella più paffuta del piccolo Bruno, ma
che è più fragile sul piano vero e proprio della recitazione (l’operaio-attore viene anche
ridoppiato). La messa in scena del film di De Sica abbonda dunque di lavori di primi piani e mezzi
primi piani altamente espressivi, esiti di una buona assimilazione da parte del regista della lezione
del cinema d’avanguardia, che permettono allo spettatore di entrare facilmente in una dimensione
di coinvolgimento emotivo con il personaggio di Ricci.
Come per altri lavori che abbracciano la poetica neorealista, nella narrazione del film di De Sica è
presente l’artificio della coincidenza: Antonio incontra casualmente il ladro della sua bici. Questo
aspetto, come evidenziato dalla studiosa Thompson, risulta inverosimile nella cornice realistica del
film, eppure contribuisce a rimarcare ancora di più la drammaticità del personaggio di Antonio, la
cui condizione è in parte anche più agiata rispetto al giovane che gli ruba la bicicletta. Inoltre,
l’incontro innesca i lazzi della gente che abita nella stessa strada del ladro, difeso da questi ultimi,
a danno di Antonio, contribuendo a porre sempre più in evidenza la tragicità del fatto ‘nullo’ che la
cinepresa sta cogliendo.
Ecco che quindi la logica ‘causa-effetto’, alla base dell’impianto narrativo del cinema hollyoodiano,
non scompare del tutto: il furto della bici, alla base di tutto il film, viene costantemente evocato
nella primissima parte dell’opera, quando, ad esempio, dopo aver accompagnato la moglie dalla
Santona, Antonio chiede ad un ragazzino di ‘guardargli la bici’; o, ancora, quando Antonio
vorrebbe portare con sé la bicicletta all’interno dell’ufficio affissioni, temendo un furto.
Ma la logica di rimandi interni che è presente nel film viene alternata dalla totale casualità e il
realismo di alcuni eventi: emblematica per quest’ultima caratteristica è la scena in cui, nel bel
mezzo di un inseguimento, il piccolo Bruno comincia ad orinare contro un muro. Scene di questo
tipo sviluppano ancora di più il realismo alla base della narrazione del film, il cui scopo è quello di
sottolineare ancora una volta come la vita reale sia in realtà caotica e disorganica e non strutturata
e pensata logicamente, come nei film hollywoodiani.
Il film presenta comunque una dimensione anti-realistica che vale la pena rimarcare, anzitutto, per
quanto riguarda l’uso delle scenografie: esse rispondono anzitutto ad una logica denotativo-
descrittiva, per quanto riguarda le ambientazioni nelle strade della città e nei caseggiati più poveri
della Roma del dopoguerra. Eppure, molto spesso, le scenografie sembrano essere talmente
espressive da costituire un’eco nei confronti del cinema espressionista tedesco. Ciò è
individuabile, ad esempio, nell’inquadratura dei caseggiati, spogli, miseri e identici, posti in
successione, dopo che Antonio riaccompagna a casa Bruno. L’inquadratura è quasi del tutto priva
di luce, fatta eccezione per quella radiata dai lampioni della strada. La fotografia diventa oscura in
molti casi, all’interno del film: nel tunnel in cui Antonio tenta di inseguire il ladro subito dopo il
furto, o sotto il ponte, in cui il personaggio cerca suo figlio, credendolo caduto nel Tevere.
L’oscurità che domina la scenografia in queste situazioni diventa dunque allegoria dell’angoscia e
della disperazione del personaggio.
Una spiccata nota anti-realista della composizione in scena è denotabile anche nella scena di
apertura del film, nel dialogo tra Ricci e il funzionario che gli sta offrendo il lavoro, ripresa su una
scalinata: il funzionario è su un gradino più alto ed è inquadrato dal basso; Antonio è collocato più
in basso e la macchina lo riprende dall’alto. La scala diventa dunque simbolo della gerarchia di
classe.
Infine, nell’ultima sequenza del film si realizza un climax molto raffinato attraverso un sapiente uso
del montaggio e del sonoro che enfatizzano il dramma vissuto. Antonio e Bruno giungono nei
pressi dello stadio, tra il frastuono dei boati dei tifosi, spettatori della partita. Si sta inoltre
disputando una gara ciclistica: le inquadrature sono cosparse di biciclette, espressione
dell’angoscia quasi delirante di Antonio, che sembra vedere biciclette ovunque (rimando allo stile
del cinema surrealista). Antonio decide di rubare una bicicletta e viene inseguito da alcuni
testimoni del furto. L’inseguimento e il braccaggio di Ricci vengono intervallati dai primi piani su
Bruno, preoccupatissimo. Tale montaggio alternato, che veicola un forte senso di tensione e di
consapevolezza di una drammaticità , consiste in un’autentica strizzata d’occhio ai lavori
precedenti sul montaggio, di Griffith, ma anche di Ejzenshtein, col suo montaggio delle attrazioni,
e contribuiscono a rendere peculiare il lavoro di De Sica, in cui la poetica neorealista, la poetica
che cerca di cogliere le problematicità della dimensione sociale, catturandola nella maniera più
verosomigliante possibile, si alterna ad una spiccata consapevolezza degli sviluppi precedenti che
hanno interessato l’arte del cinema.