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LETTERA 28

Scritta nel 394-95.

Agostino, pur ossequiando Girolamo, non ne approva la sua nuova traduzione dall'ebraico (n. 1-
2), tanto meno l'interpretazione del rimprovero di Paolo a Pietro: la possibilità di una bugia
giustificherebbe ogni interpretazione della Scrittura (n. 3-5). Invia altri suoi scritti onde li esamini
e li corregga (n. 6).

AGOSTINO A GIROLAMO, SIGNORE CARISSIMO, FRATELLO CHE DEVE ESSER


OSSEQUIATO E ABBRACCIATO COL PIÙ SINCERO TRIBUTO DI AFFETTO, E COLLEGA
NEL SACERDOZIO

Stima affettuosa di Agostino per Girolamo.

1. 1. Nessuno mai fu noto a chiunque altro di persona tanto quanto lo è a me l'attività tranquilla, lieta e
veramente nobile dei tuoi studi religiosi. Perciò, sebbene io desideri vivamente di conoscerti sotto ogni
aspetto, tuttavia è una parte esigua di te che io conosco meno, cioè il tuo aspetto fisico; ed anch'esso,
dopo che il fratello Alipio (ora beatissimo vescovo, ma già allora degno dell'episcopato) ti vide e al suo
ritorno fu da me veduto, non posso negare che in gran parte sia impresso in me a seguito della sua
relazione: ed anche prima del suo ritorno, quando egli ti vedeva costì, io ti vedevo ma con gli occhi di lui.
Infatti chi ci conosca potrebbe dire che io e lui siamo due [persone] non quanto all'animo ma quanto al
corpo: solo, beninteso, per la nostra concordia e amicizia fedelissima, non per i meriti, in cui egli mi supera.
Poiché dunque tu già mi ami (inizialmente per comunione di spirito col quale tendiamo ad un unico scopo
e poi per le sue parole), non certo sfacciatamente, come se fossi uno sconosciuto qualsiasi, io raccomando
alla tua Fraternità il fratello Profuturo che per i nostri sforzi e poi per il tuo aiuto speriamo sarà veramente
"profittevole"; se non che egli forse è tale che diverrò più accetto a te io per mezzo suo che lui per mezzo
mio. Forse io avrei dovuto limitarmi a scrivere fino a questo punto se intendessi accontentarmi di una
lettera del tipo di quelle che si scrivono di solito; ma mi urgono nell'animo molti pensieri, che bramo
comunicarti, sui nostri studi cui attendiamo in Gesù Cristo nostro Signore, il quale anche per mezzo della
tua carità si degna di fornirci con generosa larghezza molti utili mezzi e provviste (per così dire) per il
viaggio che Egli ci ha additato.

Perché una nuova versione dell'A. T. dopo quella autorevole dei LXX?

2. 2. Dunque ti chiediamo, e insieme con noi lo chiedono tutte le comunità di studiosi delle Chiese d'Africa,
che non ti rincresca di spendere cura e fatiche per tradurre i libri di coloro che, in greco, hanno commentato
le nostre Scritture in modo così egregio. Giacché tu sei in grado di far sì che anche noi possiamo servirci di
tali famosi autori, e soprattutto di uno che tu più volentieri citi nei tuoi scritti. Quanto poi alla traduzione in
lingua latina dei Libri Sacri canonici, non vorrei che tu vi attendessi se non seguendo il metodo da te usato
nel tradurre il libro di Giobbe, in modo che, grazie all'uso di segni particolari, appaia in che cosa la tua
versione differisca da quella dei Settanta, di cui preminente è l'autorità. Peraltro non saprei manifestare
adeguatamente tutto il mio stupore se nei testi ebraici si trova ancora qualcosa che è sfuggito a tanti
traduttori, i quali pur conoscevano a fondo quella lingua. Lascio da parte i Settanta, sulla cui uniformità di
intento e di ispirazione (maggiore che se si fosse trattato di una sola persona) io non oso esprimere un
parere sicuro in nessun senso se non che io ritengo si debba loro riconoscere, indiscutibilmente, un'autorità
preminente in questo campo. Mi colpiscono maggiormente coloro i quali, pur traducendo in un momento
successivo e restando, a quanto si dice, strettamente aderenti al metodo e alle regole del vocabolario e
della sintassi ebraici, non solo non sono andati d'accordo tra di loro, ma hanno altresì lasciato molte cose
da scoprire e da rendere note tanto tempo dopo. Ed esse o sono oscure o sono chiare. Se sono oscure, è
da credere che anche tu possa ingannarti su di esse; se sono chiare, non è da credere che essi vi abbiano
potuto commettere degli errori. Ti pregherei dunque vivamente per la tua carità di rendermi edotto su
questo problema, portando degli argomenti.

Paolo non usò una bugia ufficiosa nel rimproverare Pietro.

3. 3. Ho letto anche alcuni scritti a te attribuiti, sulle Lettere dell'apostolo Paolo. Nella spiegazione che tu
hai inteso dare di quella ai Galati, t'è capitato tra le mani il famoso passo in cui si cerca di distogliere
l'apostolo Pietro da una funesta simulazione 1. Io mi dolgo non poco - lo confesso - che a proposito di esso
sia stata assunta la difesa della menzogna o da te, che pur sei un tal uomo, o da qualcun altro, se altri è

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l'autore di quegli scritti, fintantoché non vengano confutate (se per avventura è possibile confutarle) le mie
ragioni. Mi pare infatti che sia quanto mai funesto credere che nei libri Sacri vi sia qualche menzogna; cioè
che quegli uomini per opera dei quali è stata redatta e ci è stata trasmessa la Scrittura abbiano detto delle
menzogne nei loro libri. Giacché una cosa è chiedersi se all'uomo onesto sia lecito talvolta mentire e un'altra
chiedersi se uno scrittore delle Sacre Scritture si sia trovato nella opportunità di mentire: anzi non si tratta
di un'altra cosa, bensì la questione non esiste. Invero, una volta ammessa una menzogna officiosa in un
grado così alto di autorità, non resterà più alcuna parte per quanto esigua di quei libri, la quale, a seconda
che sembrerà a ciascuno difficile per la morale o incredibile per la fede, usando lo stesso funestissimo
sistema non possa essere riferita ad un preciso intento e ad una esigenza dell'autore che mente.

Ammessa la bugia, sia pure ufficiosa, nella S. Scrittura dove va la sua autorità?

3. 4. Supponiamo infatti che mentisse l'apostolo Paolo allorché, rimproverando l'apostolo Pietro, diceva: Se
tu, che sei Giudeo, vivi alla maniera dei pagani e non dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere
alla maniera dei Giudei?; pur giudicando che Pietro avesse agito rettamente, disse e scrisse che non aveva
agito rettamente, quasi coll'intenzione di placare gli animi della folla in tumulto. Che cosa risponderemo
quando salteranno su degli uomini perversi (e lui stesso disse che ne sarebbero sorti), a vietare il
matrimonio, e diranno che tutto quello che lo stesso Apostolo disse per confermare la legittimità del
matrimonio, egli lo disse mentendo a causa di uomini che potevano mettersi a tumultuare per amore delle
loro spose, cioè non perché la pensasse così ma perché la loro ostilità si calmasse? Non c'è bisogno di
addurre molti esempi. Giacché si potrebbe credere che anche quando si tratta della gloria di Dio vi siano
delle menzogne officiose, affinché l'amore di Lui divampi presso uomini meno ferventi: e così, nei Libri
Sacri, in nessun punto sarà sicura l'autorità della pura e nuda verità. Come non tener conto di ciò che dice
il medesimo Apostolo col preciso impegno di affermare la verità: Ma se Cristo non è risorto, la nostra
predicazione è vana, vana è anche la nostra fede. Più ancora, noi risultiamo dei falsi testimoni riguardo a
Dio, poiché abbiamo testimoniato contro Dio che Egli ha risuscitato Cristo pur non avendolo risuscitato? Se
qualcuno gli avesse detto: "Perché provi un grande orrore per questa menzogna, dal momento che hai
detto una cosa la quale, anche se falsa, serve in sommo grado alla gloria di Dio"? Forse che, dopo aver
maledetto la follia di costui con tutte le parole e le spiegazioni possibili, non avrebbe rivelato chiaramente
i segreti del suo cuore proclamando che è colpa non meno grave, o forse anche più grave, lodare in Dio la
menzogna che vituperare la verità? Bisogna pertanto adoprarsi affinché chi s'accosta alla conoscenza delle
Divine Scritture sia in tale disposizione d'animo da giudicare dei Libri Sacri con tanta pietà e rispetto della
verità da non volere trovar gusto nel ricorrere in qualsiasi passo di esse a menzogne officiose e da passar
sopra a ciò che non capisce piuttosto di preferire il proprio pensiero alla verità. È certo infatti che quando
sostiene questo, vuole che si creda a lui ed agisce in modo da farci perdere la fiducia nell'autorità delle S.
Scritture.

La S. Scrittura non mentisce mai.

3. 5. Quanto a me, con quelle forze che il Signore mi fornisce, cercherei di dimostrare che debbono essere
intese diversamente tutte quelle testimonianze che sono state addotte per provare l'utilità della menzogna
affinché si possa in ogni punto mostrare la loro sicura veridicità. Infatti, come le testimonianze non devono
essere mendaci, così non devono favorire la menzogna. Ma questo io lascio alla tua competenza. Se infatti
tu porrai nella lettura una più diligente riflessione, forse vedrai questo molto più facilmente di me. A questa
riflessione t'indurrà la pietà, per cui tu comprendi che l'autorità delle Divine Scritture vacilla al punto che
ciascuno potrà credere quello che vuole e non credere quel che non vuole in esse, una volta che ci si sia
convinti che quegli uomini, per opera dei quali esse ci sono state elargite, hanno potuto in qualche caso
mentire per ragioni di officiosità nei loro scritti. A meno che tu non ti accinga a darci delle regole per cui
noi sapremo quando bisogna mentire e quando non bisogna. Se questo è possibile, spiegamelo, te ne
prego, con argomenti che non siano in alcun modo menzogneri e dubbi; e non giudicarmi fastidioso o
sfrontato, te lo chiedo per l'umanità veracissima di nostro Signore. Infatti se, a tuo giudizio, ci può essere
un giusto motivo per la verità di giustificare la menzogna, non sarà colpa o almeno grave colpa se il mio
errore giustifica la verità.

Girolamo critichi severamente gli scritti che Agostino gli invia.

4. 6. Di molte altre cose io vorrei parlare col tuo sincerissimo cuore e discutere riguardo agli studi cristiani,
ma nessuna lettera è sufficiente per realizzare questo mio desiderio. Ciò io posso fare più diffusamente per
mezzo del fratello che mi rallegro d'aver mandato affinché partecipi alle tue piacevoli ed utili conversazioni
e ne venga nutrito. Tuttavia forse neppure lui è in grado di trarne quanto io vorrei (mi sia lecito dirlo con
sua buona pace): per quanto io non oserei affatto preferirmi a lui. Infatti ammetto d'esser più capace di
comprenderti, ma vedo che lui trae maggior profitto, e in questo senza dubbio mi supera: e dopo che sarà
ritornato - il che spero avverrà felicemente con l'aiuto del Signore - quando sarò stato messo a parte di

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quanto tu hai riversato nel cuore di lui, egli non riuscirà a riempire quello che vi sarà ancora in me di vuoto
nell'avidità di conoscere i tuoi pensieri. Così avverrà che anche allora io sarò ancora più povero, lui più ricco
di me. Orbene, il medesimo fratello porta con sé alcuni scritti miei; e se farai loro l'onore di leggerli, usa
anche nei loro confronti una sincera e fraterna severità, ti prego. Giacché io non intendo altrimenti quello
che è stato scritto: Il giusto mi correggerà nella sua misericordia e dimostrerà la mia colpa: ma l'olio del
peccatore non ungerà il mio capo, se non nel senso che ama di più il censore che sana dell'adulatore che
unge il capo. Per me, ben difficilmente nel leggere sono buon giudice di quello che ho scritto, lasciandomi
vincere o da uno scrupolo o da un entusiasmo eccessivo. Vedo anche qualche volta i miei errori; ma
preferisco sentirmeli dire dai più esperti di me, per non lusingarmi di nuovo, dopo essermi rimproverato
forse a ragione, pensando di aver pronunciato nei miei confronti un giudizio pedante piuttosto che giusto.

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LETTERA 40
Scritta sulla fine del 397.

Agostino, ringraziato Girolamo per la lettera, approva il suo libro sugli Scrittori ecclesiastici ma
non ne comprende il titolo (n. 1-2). Ritorna sulla questione dei rapporti fra Pietro e Paolo dando
la propria interpretazione (n. 3-6); invitandolo a cantar la palinodia, si dichiara in cerca della
verità (n. 7-8). Lo prega di indicare nella sua opera gli errori di Origene e degli altri eretici (n.
9).

AGOSTINO A GIROLAMO, SUO CARISSIMO SIGNORE E FRATELLO, DEGNO DEL PIÙ


GRAN RISPETTO E DEL PIÙ VIVO AFFETTO SGORGANTE DA SINCERISSIMO OSSEQUIO
DI CARITÀ, E SUO COLLEGA NEL SACERDOZIO

Agostino prega di scrivere più spesso.

1. 1. Ti ringrazio d'aver risposto a un mio semplice biglietto inviandomi con i saluti una vera e propria
lettera. Essa però è più breve di quella che avrei desiderato ricevere da un personaggio come te, i cui scritti
non son mai prolissi per quanto tempo possono portar via. Pertanto, sebbene io sia assediato da notevoli
preoccupazioni di affari altrui e per di più di natura temporale, non ti perdonerei facilmente per la brevità
della lettera, se non pensassi che rispondi a una mia lettera anche più breve. Prova, dunque, ad aprire un
dialogo epistolare con me. Si eviterebbe in tal modo che la nostra lontananza fisica ci tenga separati per
molto tempo, sebbene siamo uniti nel Signore mediante l'unità dello spirito pure nel caso che lasciassimo
riposare la penna e ce ne stessimo zitti. Del resto i libri da te composti, elaborando i tesori racchiusi nei
granai del Signore, mi presentano un'immagine quasi completa di te stesso. Se infatti il motivo per cui non
ti conosco è quello di non avere mai visto il tuo aspetto fisico, per lo stesso motivo neppure tu conosci te
stesso, perché non lo vedi neppure tu stesso. Se invece sei noto a te stesso solo perché conosci la tua
anima, anch'io la conosco abbastanza bene attraverso i tuoi scritti. Essi mi spingono a benedire il Signore
per aver concesso (a te, a me e a tutti i fratelli che leggono le tue opere) un personaggio pari tuo.

L'Epitaffio o Gli Scrittori ecclesiastici.

2. 2. Fra le altre tue opere m'è capitato fra le mani, non è molto, un tuo libro; m'è ancora ignoto il titolo,
poiché proprio l'esemplare da me posseduto - contrariamente al solito - non lo indica. Ciononostante il
fratello, presso il quale esso è stato trovato, diceva che s'intitolava "Epitaffio"; io però avrei potuto credere
che tu avresti ritenuto opportuno assegnare al libro quel titolo, se vi si leggesse solo la biografia o gli scritti
di personaggi defunti. Siccome però vi sono ricordati gli scritti di molti autori non solo ancora viventi al
tempo in cui l'opera è stata composta ma tuttora viventi, mi stupisco che tu vi abbia posto o si possa
credere che vi abbia posto un simile titolo. Hai comunque scritto un'opera di grande utilità, che incontra la
mia incondizionata approvazione.

Disputa tra S. Pietro e S. Paolo ad Antiochia.

3. 3. Nel tuo Commento all'Epistola dell'apostolo Paolo ai Galati ho trovato un particolare che mi ha
sconcertato assai. Se infatti nella Sacra Scrittura si ammettessero delle bugie per così dire officiose, quale
autorità potrebbe essa ancora avere? Quale citazione della Sacra Scrittura si potrebbe addurre come prova
per schiacciare col suo peso la malizia d'un errore difeso con sotterfugi e cavilli? Non avrai, si può dire,
finito di citarla che l'avversario, qualora la intendesse diversamente, ti dirà che la frase citata è stata falsata
a bella posta, sia pure per qualche plausibile motivo di convenienza, dal sacro scrittore. Orbene, dove non
potrebbe addursi una tale ragione, dal momento che si è potuto ammetterla in un passo che l'Apostolo
inizia con queste parole: E quanto vi scrivo - ecco Dio m'è testimone - non è una menzogna, tanto da
credere e sostenere che ha poi davvero mentito dove a proposito di Pietro e Barnaba affermò: Quando vidi
che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo. Poiché se quelli camminavano rettamente,
ha mentito Paolo; se invece ha mentito in quel passo, dove avrà detto la verità? Si crederà dunque che
avrà detto la verità solo quando afferma ciò che pensa il lettore, mentre, quando si incontrerà qualche frase
contraria al pensiero del lettore, la si considererà una bugia officiosa? Se dovesse ammettersi tale norma
esegetica, non mancherebbero mai delle situazioni in cui si potrebbe pensare che il sacro scrittore abbia
non solo potuto, ma dovuto mentire. Ma non occorre trattare più a lungo tale questione, specialmente con
uno come te, pieno di saggezza e di buon senso. Mai e poi mai m'arrogherei il diritto o pretenderei

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d'arricchire con i miei spiccioli il tuo ingegno oltremodo ricco per dono di Dio: non c'è poi nessuno più adatto
di te a correggere quell'opera.

Pensiero di S. Paolo sui riti mosaici.

4. 4. Non devo certo insegnarti io come si debba intendere l'altra frase del medesimo Apostolo che dice: Coi
Giudei mi son fatto come un Giudeo per guadagnare i Giudei e tutto il resto ch'egli dice con senso di
misericordiosa compassione, non per falsa simulazione. Chi assiste un malato diventa realmente come un
malato non perché finge d'aver la febbre, ma perché, assumendo lo stato d'animo di chi soffre, cerca di
capire come vorrebbe essere se fosse lui ad essere malato. Ora, Paolo era effettivamente Giudeo ma una
volta diventato Cristiano non aveva abbandonato i riti giudaici ricevuti a tempo opportuno da quel popolo
in modo conveniente e conforme alla legge di Dio. Ecco perché si assunse il dovere e il peso di osservarli
anche quando era già Apostolo di Cristo; voleva solo insegnare che quei riti non costituivano per se stessi
alcun pericolo spirituale per quanti volevano osservarli come li avevano ricevuti dai genitori attraverso la
Legge, anche dopo aver creduto in Cristo; ma i Cristiani non dovevano ormai riporre in essi la speranza
della salvezza, poiché proprio la salvezza prefigurata da quei riti era già arrivata per mezzo del Signore
Gesù. Egli quindi riteneva che non dovevano affatto essere imposti ai pagani convertiti, essendo un peso
gravoso ed inutile al quale non erano abituati e che li avrebbe allontanati dalla fede.

Perché S. Paolo criticò S. Pietro.

4. 5. Se quindi Paolo criticò Pietro non lo fece perché osservava le tradizioni dei padri; se l'avesse voluto
fare, non avrebbe agito in modo né sconveniente né finto, poiché per quanto fossero superflue, non erano
però nocive; ma lo rimproverò perché obbligava i pagani convertiti a osservare i riti giudaici, e ciò non
avrebbe potuto assolutamente fare, se non li avesse praticati come necessari anche dopo la venuta del
Signore. Era proprio questa l'opinione combattuta dalla Verità per mezzo dell'apostolo Paolo. Ma neppure
Pietro ignorava ciò; agiva così per timore dei circoncisi. In tal modo e Pietro fu realmente rimproverato e
Paolo narrò un fatto reale, altrimenti, una volta ammessa la giustificazione della menzogna, tutta la Sacra
Scrittura fluttuerebbe ondeggiando nel dubbio. Ma non sarebbe possibile né opportuno mostrare per lettera
quante cattive e insolubili conseguenze ne deriverebbero, se ammettessimo questo principio. Sarebbe però
possibile e opportuno e anche meno pericoloso, se potessimo parlarci a tu per tu.

Che cosa S. Paolo ripudiò del giudaismo.

4. 6. Del giudaismo dunque Paolo aveva abbandonato solo ciò che era male: anzitutto il fatto
che misconoscendo la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono assoggettati
alla giustizia di Dio. In secondo luogo non approvava che dopo la passione e la risurrezione di Cristo, dopo
essere stato concesso e manifestato il mistero della grazia alla maniera di Melchisedech, essi ancora
credevano che gli antichi riti dovessero celebrarsi non come ricorrenze sacre e tradizionali ma come
necessarie alla salvezza. Ammettiamo però che, se essi non fossero mai stati necessari, il martirio affrontato
dai Maccabei sarebbe stato senza merito e senza scopo. Paolo infine ripudiò il giudaismo per il fatto che i
Giudei perseguitavano i Cristiani come nemici della Legge perché predicavano la grazia. Sono tali errori e
colpe di tal genere che Paolo afferma d'aver reputati come danni e spazzatura per guadagnare Cristo e non
le pratiche legali qualora venivano compiute per rispetto della tradizione degli antenati, senz'affatto credere
che fossero necessarie alla salvezza (mentre invece i Giudei ritenevano che lo fossero) e non già per finzione
o simulazione come faceva Pietro per cui Paolo lo rimproverò. Orbene, se Pietro compiva quelle pratiche
religiose simulandosi giudeo per guadagnare a Dio i Giudei, perché mai non avrebbero dovuto pure
compiere sacrifici coi pagani, dato che viveva come uno senza Legge per guadagnare a Cristo anche quelli
ch'erano senza Legge? Non agiva forse così, Paolo, se non perché era giudeo di nascita? Tutto quel discorso
lo fece non per apparire falsamente quel che non era, ma perché credeva suo dovere venire in loro aiuto
con sentimenti di misericordia come se egli stesso soffrisse per lo stesso errore; non agiva cioè con astuzia
da bugiardo ma con amore di chi prova compassione. Proprio ciò vuol far capire nello stesso brano con una
frase di portata più generale: Mi son fatto debole, per guadagnare i deboli, e con la conclusione che
segue: Mi son fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti; frase che deve intendersi nel senso che Paolo volle
apparire preso da compassione per chiunque fosse debole come se lo fosse lui stesso. Così pure quando
diceva: Chi è malato senza che lo sia pure io?, non voleva far intendere ch'egli fingesse d'avere in sé le
malattie degli altri, ma solo che pativa con loro.

Agostino invita Girolamo a cantare la palinodia.

4. 7. Perciò ti scongiuro, àrmati di autentica e veramente cristiana severità, che dev'essere accompagnata
da carità, àpplicati con ardore a correggere quel tuo lavoro ed emendalo dagli errori e poi - come suol dirsi

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- canta la palinodia. Poiché non c'è confronto tra la bellezza della verità cristiana e la bellezza dell'Elena
greca. I nostri martiri, per difendere la verità cristiana, han combattuto contro questa Sodoma molto più
coraggiosamente di quanto han fatto per quella donna i famosi eroi contro Troia. Se ti parlo così non è per
farti riacquistare la vista spirituale (lontano da me il pensiero che tu l'abbia persa), ma per farti notare un
fatto strano, che pur avendo gli occhi dell'anima ben sani e perspicaci, tuttavia, per una finzione che non
riesco a spiegarmi, li volgesti altrove per non considerare le disastrose conseguenze che ne deriverebbero
se anche per una sola volta si ammettesse che un autore della Sacra Scrittura possa aver mentito in qualche
passo della propria opera sia pure in buona fede e a fin di bene.

Agostino cerca solo la verità.

5. 8. Da dove mi trovo t'avevo già scritto tempo fa una lettera, che non ti fu recapitata perché non ha più
compiuto il viaggio la persona cui l'avevo consegnata per fartela avere. Quella lettera mi aveva fatto venire
in mente, mentre dettavo la presente, la questione precedente che mi pareva doveroso non tralasciare
nemmeno in questa; se hai un'opinione diversa e più fondata della mia, perdona volentieri la mia
apprensione. Poiché, se la pensi diversamente e la tua opinione è giusta (se non fosse giusta, non potrebbe
essere neppure migliore), il mio errore - non voglio dire senza alcuna mia colpa ma certamente senza mia
grave colpa - favorisce la verità, tanto più se potesse sostenersi con ragione che in qualche caso la verità
può favorire la menzogna.

Gli errori di Origene.

6. 9. Riguardo alla risposta che mi hai benevolmente data a proposito di Origene, già sapevo anch'io che
non solo nel campo della letteratura ecclesiastica ma in ogni altro campo dobbiamo approvare ed elogiare
quanto vi troviamo di giusto e di vero, mentre dobbiamo disapprovare quanto è falso ed erroneo. Ma io
desideravo e ancora desidero da te, saggio qual sei, di sapere in modo esplicito quali sono gli errori veri e
propri con cui s'è potuto provare irrefutabilmente come quel personaggio sì grande e famoso s'è allontanato
dalla retta fede. Quanto poi al libro in cui hai menzionato tutti gli scrittori ecclesiastici e le relative opere di
cui ti sei potuto ricordare, sarebbe più opportuno, a mio modesto giudizio, se dopo aver nominato quelli da
te conosciuti come eretici (salvo che proprio questi tu abbia voluto saltare a piè pari) aggiungessi pure i
punti da cui è bene guardarsi. Qualcuno però lo hai davvero saltato e mi piacerebbe sapere in base a quale
criterio lo hai fatto. Se per caso non hai voluto sovraccaricare il volume aggiungendo all'elenco degli eretici
i punti in cui l'autorità cattolica li ha condannati, non ti paia troppo gravoso fare una tale aggiunta alla tua
fatica di scrittore. Grazie a nostro Signore, la tua fatica letteraria ha contribuito non poco ad accendere e
aiutare gli studi sacri in lingua latina. Cerca dunque di fare quanto la carità dei fratelli ti raccomanda
pressantemente per mezzo della mia pochezza e cioè, se te lo permetteranno le tue occupazioni, di
registrare accuratamente ma brevemente in un opuscolo le false dottrine di tutti gli eretici i quali, o per
impudenza o per testardaggine, si sono sforzati di deformare l'ortodossia della fede cristiana, e pubblicarlo
per informarne le persone che, pressate da altre faccende, non hanno tempo o, impedite dalla lingua
straniera, non hanno la capacità di leggere e approfondire i numerosi testi originali. Ti pregherei più a
lungo, se ciò non fosse di solito indizio di chi s'aspetta poco dalla carità. Raccomando per ora caldamente
alla tua Benevolenza Paolo, nostro fratello in Cristo che a te si presenta. Per la stima che gode nel nostro
paese ti posso dare davanti a Dio una buona testimonianza di lui.

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LETTERA 71
Scritta probabilmente nell'anno 403.

Agostino, espresso il desiderio d'una risposta alle sue lettere (n. 1-2), loda la prima versione del
libro di Giobbe dall'Ebraico, ma lo dissuade di tradurre dal testo originale gli altri libri del Vecchio
Testamento (n. 3), mentre lo esorta a ristabilire il testo latino sulla base della versione greca dei
LXX (n. 4-5-6); approva infine la versione del Vangelo dal greco (n. 6).

AGOSTINO INVIA CRISTIANI SALUTI A GIROLAMO, SUO VENERABILE SIGNORE, AMATO E


SANTO FRATELLO E COLLEGA NEL SACERDOZIO

Desidera la risposta e la presenza di Girolamo.

1. 1. Da quando ho cominciato a scriverti e desiderare scritti da parte tua, non m'è capitata mai occasione
migliore di questa: di farti cioè recapitare la presente per mezzo di un servo e ministro fedelissimo di Dio,
ch'è pure mio carissimo amico, e precisamente dal diacono Cipriano, nostro figlio. Per suo tramite mi
riprometto, anzi ho quasi la certezza, di ricevere una tua lettera; non spero nulla con maggiore fiducia. Al
suddetto nostro figlio infatti non mancherà né lo zelo nel sollecitare una tua risposta, né l'affabilità per
meritarla, né la fedeltà nel recapitarmela. Se dunque io lo merito in qualche modo, il Signore ti aiuti e ispiri
il tuo cuore e aiuti il mio desiderio, affinché nessuna forza maggiore t'impedisca di attuare la tua premura
fraterna.

Le due prime lettere scritte da Agostino a Girolamo.

1. 2. T'ho già inviato due lettere, ma dato che non ne ho ricevuta alcuna da parte tua, ho deciso di inviarti
nuovamente le stesse, supponendo che esse non ti siano pervenute. Se invece le hai già ricevute e forse
sono state piuttosto le tue a non potermi raggiungere, mandami di nuovo quei medesimi scritti già inviati,
se per caso ne hai conservato copia; in caso contrario detta nuovamente quel che vuoi farmi leggere,
purché non ti sia troppo gravoso, poiché è già molto che aspetto. La mia prima lettera l'avevo preparata
fin da quando ero ancora semplice prete per inviartela per mezzo del nostro fratello Profuturo, divenuto poi
nostro collega nell'episcopato ed ora passato a miglior vita; egli però non poté recapitartela di persona.
Mentre infatti si preparava a partire, all'improvviso fu trattenuto dal fardello dell'episcopato e poco dopo
morì. Ho deciso così di mandartela per farti costatare da quanto tempo ardo dal desiderio d'intrattenermi
con te e quanto mi cruccia il fatto che sono tanto lontano dalla tua presenza fisica, attraverso la quale il
mio spirito potrebbe arrivare al tuo, mio fratello amatissimo, degno d'onore tra tutti i membri del Signore.

Le versioni della Bibbia dall'ebraico.

2. 3. Nella presente devo aggiungere quanto ho appreso solo più tardi, che cioè hai tradotto dall'ebraico il
libro di Giobbe: noi avevamo già una tua versione di quel Profeta dal testo greco in latino. In quella tua
prima versione avevi contrassegnato con asterischi le parti ebraiche mancanti nel greco e con obelischi le
parti che si trovano nel greco e mancanti nell'ebraico. Avevi eseguito la versione con sì mirabile accuratezza
che in alcuni brani ad ogni parola si vedono gli asterischi significanti che le medesime parole sono
nell'ebraico ma non sono nel greco. Ora invece in questa seconda versione condotta sul testo ebraico non
si riscontra più la medesima scrupolosa fedeltà verbale. Ciò turba non poco il lettore il quale si domanda:
Perché mai nella prima hai messo con tanta diligenza gli asterischi indicanti le particelle anche minime che
mancano nei manoscritti greci e che invece sono nell'ebraico? Perché, al contrario, in quest'altra versione,
condotta sul testo ebraico, sei stato a questo riguardo tanto trascurato che quelle medesime particelle non
si trovano più al loro posto? Avrei voluto citare qualche esempio di quanto affermo, ma in questo momento
non ho a portata di mano il manoscritto. Ma siccome mi superi di gran lunga per ingegno, hai capito a volo
e molto bene non solo quanto ho detto, ma pure quanto avrei voluto dirti - così almeno credo - per cui puoi
rispondere alle obiezioni che ti ho esposto e che mi lasciano perplesso.

Agostino preferisce la versione dai LXX per ragioni pastorali.

2. 4. A dir la verità io, personalmente, avrei preferito e preferirei che tu ci traducessi i libri canonici della
sacra Scrittura dal testo greco della versione dei LXX. Se infatti la tua traduzione cominciasse ad esser letta
con una certa frequenza in molte Chiese, succederebbe un fatto assai penoso: le Chiese greche si
troverebbero a discordare da quelle latine; la cosa sarebbe tanto più penosa in quanto ora riesce facile

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convincere del suo errore chi avanza delle obiezioni col mostrargli la sacra Scrittura nel testo greco, cioè in
una lingua quasi universalmente conosciuta. D'ora in poi invece, se uno incontrerà delle difficoltà per
qualche espressione insolita nel testo tradotto dall'ebraico e lancerà l'accusa di falsità, rarissimamente o
mai addirittura s'arriverà ad avere i testi originari ebraici con cui ci si possa difendere dall'obiezione.
Ammesso pure che ciò sia possibile, chi se la sentirebbe di lasciar condannare tante autorità latine e greche?
A ciò s'aggiunge che anche i dotti ebrei, consultati in proposito, potrebbero rispondere diversamente;
potrebbe quindi sembrare che tu fossi l'unica, indispensabile persona capace di confutarli; ma chi potrebbe
comunque fare da arbitro? Sarebbe un miracolo se si riuscisse a trovarne uno!

Inconvenienti derivanti dalla versione sul testo ebraico.

3. 5. Per esempio, un nostro confratello d'episcopato aveva cominciato a leggere la tua versione nella
chiesa a lui soggetta: era un passo del profeta Giona, da te tradotto con varianti assai diverse dal testo
ormai fissato nel pensiero e nella memoria di tutti e così trasmesso per tante generazioni, e suscitò un
certo turbamento. Scoppiò allora un tale tumulto tra i fedeli, soprattutto perché i Greci lanciavano accese
accuse di falsità che il vescovo - si trattava della città di Ea - fu costretto a chiederne la conferma a dei
Giudei. Costoro, non si sa se per ignoranza o per malizia, risposero che i testi ebraici avevano le medesime
espressioni contenute, con le stesse parole, nei testi greci e latini. A farla breve, quel poveretto fu costretto
ad emendare il testo quasi fosse inesatto, nell'intento di scongiurare il grave pericolo e di non rimanere
senza fedeli. Da ciò posso arguire che tu pure sei potuto incorrere in qualche errore. Vedi quali inconvenienti
possono derivare a proposito di certi brani della Scrittura che non si possono correggere mettendo a
raffronto coi passi paralleli delle lingue più comuni.

Difesa della versione greca dei LXX.

4. 6. Rendiamo perciò vivissime grazie a Dio per l'opera da te compiuta col tradurre il Vangelo dal greco;
in quasi tutti i passi di esso non c'è alcuna espressione contrastante col testo greco della Scrittura messo
a fronte. Se quindi qualcuno vuol far polemica poiché è fautore delle false traduzioni precedenti, basta tirar
fuori i testi e metterli a confronto: in tal modo è assai facile persuaderlo o confutarlo. Può anche darsi però
che pure in esso si trovino passi che a ragione lascino perplessi, ma se ve ne sono, sono rarissimi; chi sarà
tanto scorbutico da non considerare con una certa indulgenza un lavoro così utile, che non si potrebbe
lodare mai quanto merita? Vorrei comunque che mi spiegassi perché mai in molti passi il testo dei
manoscritti ebraici della sacra Scrittura è assai diverso da quello greco detto dei LXX. Questo testo infatti
ha non poca importanza, dal momento che ha avuto una sì vasta diffusione e fu usato dagli Apostoli; ciò è
attestato non solo dai fatti, ma ricordo che lo hai attestato pure tu stesso. Faresti quindi un lavoro utilissimo
se ristabilissi esattamente il testo latino sulla versione greca curata dai LXX; poiché quello che abbiamo
presenta, nei vari codici, varianti così notevoli che a stento si può ancor tollerare; uno poi ha tanti motivi
di sospettare che si trovino nel testo greco lezioni diverse da rimanere sempre in dubbio se servirsene o
no per trarne citazioni o dimostrazioni. Credevo che la presente sarebbe stata breve, ma, non so come,
m'è riuscito assai piacevole di tirarla in lungo, come se mi trovassi a conversare con te. Ti scongiuro,
comunque, nel nome del Signore, che non ti rincresca di rispondere ai singoli quesiti e di farmi il dono, per
quanto t'è possibile, di starmi vicino.

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LETTERA 72
Scritta verso la fine del 403 o l'inizio del 404.

Girolamo si lamenta una volta ancora che a Roma e in Italia circoli una lettera piuttosto
provocante e altezzosa attribuita ad Agostino (n. 1) e lo invita a dire francamente se è sua e a
non provocare un vecchio studioso della sacra Scrittura (n. 2-4) il quale non vuol far la critica
alle opere d'un vescovo suo amico, ma vuol essere lasciato in pace (n. 5).

GIROLAMO AD AGOSTINO, SIGNORE DAVVERO SANTO E VESCOVO BEATISSIMO

Non ha Agostino scritto una lettera contro Girolamo?

1. 1. M'invii una lettera dopo l'altra e continui a sollecitarmi di rispondere ad una di queste tue, della quale
- l'ho già scritto un'altra volta - m'era giunta una copia senza la tua firma, recapitatami dal diacono Sisinnio.
Mi fai pure sapere d'avermene inviate delle altre: in un primo tempo per mezzo del fratello Profuturo e in
un secondo tempo per mezzo di un'altra persona; nel frattempo Profuturo sarebbe stato impedito
dall'intraprendere il viaggio perché ordinato vescovo, e quasi dopo brevissimo tempo portato via dalla
morte, mentre l'altra persona, di cui taci il nome, avrebbe avuto paura del mare e avrebbe cambiato parere
rinunciando alla traversata. Stando così le cose non posso esprimere sufficientemente il mio stupore come
mai si vada dicendo che quella lettera è nelle mani di molta gente non solo a Roma ma pure nel resto
dell'Italia e non sia giunta proprio a me che sono l'unico destinatario! Tanto più mi stupisco che il medesimo
fratello Sisinnio m'ha dichiarato d'averla trovata in mezzo a tutti gli altri tuoi scritti esegetici non in Africa
o nella tua città, ma in un'isola dell'Adriatico quasi cinque anni orsono.

Tra amici non ci dev'essere né diffidenza né provocazione.

1. 2. Nelle relazioni di amicizia è da eliminare ogni motivo di diffidenza e ad un amico bisogna parlare come
a un altro sé stesso. Alcuni miei intimi amici - " vasi " di Cristo, che sono moltissimi a Gerusalemme e nei
Luoghi Santi - mi insinuavano che tu avessi agito tutt'altro che con schiettezza, ma che andassi cercando
d'ottenere la lode, le chiacchiere e la gloria a buon mercato tra il popolo per farti grande a mie spese e far
sapere alla gente che quando mi lanci una sfida, io tremo dalla paura, che tu scrivi come uno scienziato, io
invece me ne sto zitto come un ignorante e che finalmente s'è trovato uno come te ch'è stato capace di
chiudere il becco a questo chiacchierone. Io invece, per dirla francamente, non ho voluto rispondere alla
Eccellenza tua per diversi motivi: anzitutto perché non avevo elementi sicuri per credere che la lettera
fosse tua, e neppure potevo credere che fosse una spada spalmata di miele, come un proverbio popolare
designa certe persone; in secondo luogo non volevo sembrare insolente nel rispondere a un vescovo della
stessa mia comunione e criticare delle espressioni contenute nella sua lettera che criticava proprio me,
soprattutto perché alcune di esse le ritenevo eretiche.

Agostino lasci in pace un vecchio eremita.

2. 3. Per ultimo non ho voluto risponderti per non darti motivo di fare una giusta lagnanza: " Perché una
simile cosa? avresti potuto dirmi. Avevi forse riconosciuto la mia lettera e nella firma i caratteri della mano
che tu conosci? Perché dunque ti sei indotto con tanta leggerezza a colpire un amico e servirti della
malvagità altrui per lanciare oltraggi al mio indirizzo?". Insomma, ti ripeto quanto ti ho scritto un'altra
volta: o mi rimandi quella lettera firmata di tuo pugno o smetti di provocare un vecchio rintanato nella sua
piccola cella! Se invece hai intenzione d'esercitare o di ostentare la tua scienza, cercati dei giovani eloquenti
e nobili; si dice che a Roma ce ne siano tanti, che hanno la capacità e il coraggio di misurarsi con te e di
far pariglia con un vescovo nel discutere sulle Sacre Scritture. Io ho già fatto il soldato, ma ora sono un
veterano e non mi resta che il dovere di applaudire alle tue ed altrui vittorie, ma non di scendere
nuovamente in lizza, fisicamente spossato come sono. Ma bada bene: se insisti ancora nel pretendere ch'io
ti risponda per forza, dovrei rammentarti la famosa storia di Annibale, la cui giovanile baldanza fu fiaccata
dalla pazienza di Quinto Fabio Massimo. Il tempo ci porta via tutto, pure la memoria; mi ricordo che da
ragazzo trascorrevo spesso lunghe giornate cantando. Ora invece ho dimenticato tante canzoni; a Meri
viene meno perfino la voce. Anche il famoso Berzellai Galaadite - per citare piuttosto un esempio biblico -
quando lasciò al figlio ancor giovinetto tutti i benefici e le squisite ricompense avute dal re David, diede a
vedere che i vecchi non debbono né desiderare queste cose né accettarle quando vengono offerte.

L'amicizia vuole reciproca lealtà.

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2. 4. Tu giuri di non avere scritto un libro contro di me né di averlo inviato a Roma dal momento che non
l'hai scritto; aggiungi poi che nei tuoi scritti potrebbero incontrarsi bensì opinioni diverse dalle mie, ma che
in tal caso non hai avuto l'intenzione d'offendere me, sebbene scrivere solo quel che ti pareva giusto. Ti
prego di starmi a sentire con un po' di pazienza. Tu non hai scritto il libro. Ma com'è allora che da terzi mi
sono stati portati dei tuoi scritti contenenti critiche nei miei riguardi? Inoltre com'è che in tutta l'Italia circola
una tua lettera che tu non hai scritto? Qual diritto poi accampi nel pretendere ch'io risponda ad argomenti
che affermi di non aver mai scritto? D'altra parte io non sono tanto sciocco da ritenermi offeso da te qualora
esprimi opinioni diverse dalle mie! ma sottoporre a una critica serrata le mie asserzioni e chiedermi poi
spiegazione dei mie scritti e costringermi a correggere ciò che ho scritto e sollecitarmi a cantare la
ritrattazione perché vuoi restituirmi la vista, questo significa solo offendere l'amicizia, violarne le leggi. Ti
scrivo queste cose per non dare a vedere che ce le diamo come dei ragazzi o che forniamo ai nostri rispettivi
fautori e detrattori materia per litigare; io desidero nutrire per te un affetto sincero e cristiano, non già
tenermi nel cuore sentimenti diversi da quelli che ho sulle labbra. Non sarebbe certo bello che io, dopo aver
faticato e penato, dall'adolescenza fino a questa mia età in un piccolo monastero assieme a santi fratelli,
osassi scrivere qualcosa contro un vescovo della mia stessa comunione, anzi proprio contro il vescovo che
ho cominciato ad amare prima di conoscerlo, che fu il primo a sollecitare la mia amicizia, che m'ha colmato
di gioia nel vederlo emergere dopo di me negli studi biblici. Dimmi quindi che il libro non è tuo, se per caso
non è tuo, oppure, se è tuo, ammettilo francamente; così nel caso dovessi scrivere qualcosa in mia difesa,
la colpa ricadrebbe su di te che m'hai provocato, non su di me che sono stato provocato a rispondere.

Girolamo non critica Agostino né vuol essere criticato.

3. 5. Tu inoltre aggiungi d'esser pronto ad accettare fraternamente le mie osservazioni sui punti dei tuoi
scritti che mi facessero torcere il naso o che io volessi correggere; anzi non solo saresti contento di questa
prova di benevolenza verso di te, ma mi supplichi di farlo sul serio. Ti ripeto ancora una volta quanto penso:
tu provochi un vecchio, stuzzichi uno che tace, hai l'aria di fare sfoggio della tua scienza. Ma non sta bene
alla mia età esser ritenuto malevolo verso una persona alla quale ho piuttosto il dovere d'esser benevolo.
Se anche nei Vangeli e nei Profeti persone perverse trovano cose che vogliono criticare per forza, perché
mai ti stupisci se nei tuoi libri, soprattutto in quelli ove esponi punti della sacra Scrittura, già di per sé
quanto mai oscuri, ci siano delle idee che sembrano scostarsi dalla linea del giusto? E dico ciò non perché
io pensi già di trovare delle idee ereticali nelle tue opere, poiché non mi sono dato mai la briga di leggerle,
e inoltre dalle nostre parti non ne esistono molte copie, se si eccettuano i libri dei tuoi Soliloqui e alcuni
Commentari ai Salmi; se volessi sottoporre questi a un attento esame, ti darei la dimostrazione di come si
discostino, non dico dalle mie opere (io infatti non so nulla), ma dalle interpretazioni degli antichi Padri
greci. Sta' sano, amico mio carissimo, mio figlio per l'età ma padre per la dignità. Per ultimo ti raccomando
d'attenerti a questa norma: che qualunque cosa scriverai fa che arrivi nelle mie mani prima che in quelle
di altri.

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LETTERA 75
Scritta tra il 403 e il 404.

Girolamo risponde alle questioni di Agostino proposte nelle lettere 28, 40 e 71 sul titolo della
sua opera (n. 1-3), sul rimprovero di Paolo a Pietro (n. 4-18), sulla traduzione dell'Antico
Testamento (n. 19-21) e sul termine edera, difendendo energicamente le sue interpretazioni
contro Agostino (n. 22).

GIROLAMO SALUTA IN CRISTO IL VERAMENTE SANTO E BEATISSIMO


VESCOVO AGOSTINO

Risponde in fretta e furia.

1. 1. Per mezzo del diacono Cipriano ho ricevuto in una sola volta tre lettere, o meglio tre brevi opuscoli
della tua Eccellenza, contenenti diversi quesiti (così li chiami tu) mentre a mio parere sono critiche dei miei
opuscoli. Se volessi dare ad essi una risposta, questa assumerebbe necessariamente le dimensioni di un
libro. Mi sforzerò, tuttavia, per quanto mi sarà possibile, di non oltrepassare la misura d'una lettera, anche
se un po' lunga, e non essere cagione di ritardo al fratello che ha premura di partire. Egli mi ha chiesto la
lettera solo tre giorni prima della data stabilita per la partenza; mi vedo in tal modo costretto a sciorinare,
così su due piedi, delle risposte disordinate, senza la ponderazione di chi scrive, anzi con l'avventatezza di
chi detta all'improvviso: cosa che per lo più approda a un'esposizione condotta non in maniera scientifica
ma a caso. Lo stesso succede ai soldati quando vengono sconvolti da combattimenti improvvisi: per quanto
valorosi, sono costretti allora a darsi alla fuga prima che possano impugnare le armi.

Le armi spirituali per il trionfo della verità.

1. 2. Del resto, la nostra armatura è Cristo: è il sistema dell'Apostolo che agli Efesini scrive: Impugnate le
armi di Dio, per poter resistere nel giorno del male; e ancora: In piedi, con i fianchi cinti della verità,
indossando la corazza della giustizia e coi piedi calzati per essere pronti ad annunziare il Vangelo di pace.
Ma soprattutto impugnate lo scudo della fede, con cui possiate estinguere le frecce infocate del maligno e
prendete pure l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Di queste armi s'era
munito il re David un giorno per andare in battaglia. Dopo aver raccolte dal torrente cinque pietre ben
levigate dimostrò che pure tra i torbidi flutti di questo mondo conservava il cuore scevro di sozzi e bassi
sentimenti e bevendo dal torrente per via e perciò andando a testa alta contro quel mostro di superbia
ch'era Golia, ne troncò la testa e (particolare molto significativo) proprio con la spada di lui, percuotendo
nella fronte il bestemmiatore e colpendolo in quella parte del corpo in cui fu colpito dalla lebbra pure Ozia
per aver usurpato con presunzione le funzioni sacerdotali, in quella parte del corpo di cui il santo si gloria
nel Signore allorché dice: E' rimasta su di noi una traccia della luce del tuo volto, o Signore. E allora diciamo
anche noi: Pronto è il mio cuore, o Dio, pronto è il mio cuore; canterò, salmodierò nella mia gloria.
Destatevi, o salterio e cetra; m'alzerò ai primi albori, affinché anche per noi possa avverarsi la parola di
Dio: Apri la tua bocca e io la riempirò, come pure quest'altra: Il Signore suggerirà la parola a coloro che
annunciano la buona novella con gran forza. Tu pure preghi - non ne dubito - affinché tra noi, intenti a
discutere, trionfi la verità; poiché tu non cerchi la tua gloria ma quella di Cristo. Nel caso che sia tu a
vincere, sarò vincitore anch'io qualora mi renderò conto del mio errore; ma pure nell'ipotesi contraria, se
sarò io a vincere, sarai vincitore anche tu, poiché non sono i figli ad accumulare ricchezze per i genitori,
ma i genitori per i figli. Nel libro dei Paralipomeni, inoltre, leggiamo che i figli d'Israele s'avviarono a
combattere con intenzioni pacifiche, perché pur tra le spade e lo scorrere del sangue e tra i cadaveri dei
caduti si preoccupavano non tanto della propria vittoria quanto piuttosto di quella della pace. Cerchiamo
dunque di dare una risposta a tutti i quesiti e di risolvere con una esposizione sintetica - se Cristo vorrà - i
molteplici problemi. Lascio da parte i saluti e le espressioni di stima con cui mi accarezzi la testa e le
espressioni lusinghiere con cui ti sforzi di addolcire la critica che fai della mia opera. Ma vengo senz'altro ai
punti essenziali della discussione.

De viris illustribus.

2. 3. Dici d'aver avuto da parte d'un fratello un mio libro mancante di titolo, nel quale passerei in rassegna
gli scrittori ecclesiastici sia Greci che Latini. Avendo tu chiesto a quello - riferisco le tue parole - perché
mancasse il titolo sul frontespizio o con qual titolo venisse indicato, ti avrebbe risposto che si chiamava "
Epitaffio ". Tu allora fai questo ragionamento: Un simile titolo sarebbe appropriato, se vi si leggessero
unicamente le biografie o le opere di personaggi già defunti; ma, siccome vi sono ricordati gli scritti di molti

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autori viventi al tempo in cui componevo quell'opera e che sono ancor vivi, ti pare strano che io abbia
potuto darle quel titolo. Penso che tu, intelligente come sei, capisca che il titolo può arguirsi dal contenuto
stesso dell'opera. Poiché hai letto gli autori Latini e Greci che scrissero la vita degl'illustri personaggi, sai
pure che non hanno mai intitolato " Epitaffio " quelle loro opere, ma le hanno intitolate " Degli illustri
personaggi ", come sono per esempio i capitani, i filosofi, gli oratori, gli storiografi, i poeti, gli epici, i tragici,
i comici; mentre un epitaffio, a rigor di termini, lo si scrive solo per i morti, come ricordo d'aver fatto io
stesso tempo addietro in occasione del prete Nepoziano, di santa memoria. Per conseguenza quel libro
deve portare il titolo " Degli illustri personaggi " o più propriamente " Degli scrittori ecclesiastici, sebbene
alcuni correttori ignoranti dicano abbia per titolo " Degli autori ".

Il rimprovero di Pietro a Paolo.

3. 4. In secondo luogo mi chiedi perché nei Commentari sulla Lettera ai Galati ho detto che Paolo non ha
potuto riprendere Pietro per un fatto compiuto pure da lui stesso, cioè riprendere un altro di simulazione,
di cui egli stesso era colpevole. Tu invece sostieni che il rimprovero dell'Apostolo non fu finto, ma autentico
e che perciò io non dovrei insegnare che lì si tratta di menzogna, ma che tutto ciò che sta scritto nella
Bibbia dev'essere inteso come sta scritto. Rispondo: anzitutto la tua Prudenza avrebbe dovuto tener
presente la breve prefazione premessa ai miei Commentari, dove, parlando di me stesso, dico: " E che?
Sarei dunque si sciocco e temerario, da promettere una cosa che egli stesso non poté mantenere? Niente
affatto! Mi pare anzi d'essere stato tanto più cauto e riservato in quanto, consapevole delle mie deboli
forze, mi sono attenuto ai Commentari d'Origene". Quell'illustre esegeta compose appunto ben cinque
volumi a commento della lettera di Paolo ai Galati e concluse il decimo libro del suoi Stromati con
un'esposizione sommaria del suddetto commento, ed inoltre compose vari trattati ed estratti che sarebbero,
anche da soli, esaurienti. Passo sotto silenzio Didimo, il mio veggente e il Laodiceno, recentemente uscito
dalla Chiesa, e il vecchio eretico Alessandro Eusebio di Emesa e Teodoro di Eraclea, i quali pure ci lasciarono
dei Commentari sullo stesso soggetto. Se raccogliessi insieme, anche solo dei passi scelti da tali opere,
compilerei un'antologia tutt'altro che disprezzabile. E, a dirtela schiettamente, le ho lette tutte e, dopo
essermi riempito la testa di moltissime delle loro idee, fatto venire il mio stenografo, mi sono messo a
dettare: erano pensieri sia miei che di altri, dei quali talora non ricordavo né il piano dell'opera né le parole,
anzi spesso neppure i concetti. E' purtuttavia già un dono della divina misericordia, che, malgrado la mia
incapacità, non sia andato perduto quel che di buono è stato detto dagli altri e che gli stranieri non provino
fastidio per ciò che piace ai loro compatrioti. Se perciò qualche punto della mia spiegazione t'era parso
meritevole d'essere criticato, avresti dovuto, con la cultura che possiedi, far delle ricerche per vedere se
quel che ho scritto si trovava negli esegeti Greci e, solo nel caso che non l'avessero già detto essi, avresti
dovuto condannare la mia opinione come personale. Tanto più che nella prefazione ho confessato
apertamente d'aver seguito i Commentari di Origene e d'aver dettato idee non solo mie ma pure di altri.
Anzi, alla fine del capitolo da te censurato, avevo pure scritto: " Se a qualcuno non garba la mia spiegazione,
che cioè Pietro non ha commesso colpa né Paolo s'è mostrato insolente nel biasimare chi era superiore a
lui, dovrà spiegarmi con quale logica Paolo biasimerebbe un altro d'una cosa fatta da lui stesso". Con ciò
ho voluto mettere in rilievo che non difendevo come dimostrata la spiegazione che avevo letto negli esegeti
Greci, ma solo che avevo esposto le idee che avevo lette, lasciando al giudizio del lettore se fossero da
approvare o da disapprovare.

L'esegeta propone, non impone le sue spiegazioni.

3. 5. Tu, invece di rispondere a queste mie precise domande, hai escogitato un nuovo argomento,
asserendo che i Gentili, i quali avevano creduto in Cristo, erano stati liberati dal giogo della Legge, mentre
i Cristiani provenienti dal Giudaismo erano ancora soggetti alla Legge. Come rappresentante perciò d'una
delle due categorie, Paolo aveva ragione di biasimare quelli che osservavano la Legge, in quanto egli era il
maestro dei Gentili, mentre Pietro rappresentante dell'altra, fu giustamente biasimato in quanto, come
capo dei Cristiani provenienti dalla circoncisione, imponeva ai Gentili pratiche che avrebbero dovuto
osservare solo i Cristiani provenienti dal Giudaismo. Se la pensi così, che cioè tutti i Giudei che si convertono
alla fede cristiana, sono in dovere d'osservare la Legge, tu che sei un vescovo notissimo in tutto il mondo,
dovresti promulgare questa tua opinione ed indurre tutti i vescovi ad abbracciarla. Io invece, confinato in
questo misero tugurio insieme ai miei monaci, vale a dire con peccatori come me, non osando pronunciare
una precisa opinione su questioni tanto difficili, dichiaro schiettamente che leggo le opere degli autori che
mi hanno preceduto e che nei miei Commentari registro - secondo l'usanza generalmente seguita - le varie
spiegazioni in modo che ciascuno possa seguire quella da lui preferita. Penso che tu pure segui e approvi
questo metodo di leggere le opere della letteratura profana e della sacra Scrittura.

Origene e il Crisostomo.

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3. 6. Ora, il primo a seguire la mia spiegazione fu Origene nel suo decimo libro degli Stromati - dove
commenta la lettera di Paolo ai Galati - e dopo di lui l'hanno seguita tutti gli altri esegeti. Il motivo principale
per cui essi l'hanno avanzata era quello di dare una risposta alla bestemmia di Porfirio, il quale accusa
Paolo d'impudenza per aver osato riprendere Pietro, il capo degli Apostoli, per avergli lanciato un'accusa
proprio in faccia e per averlo costretto a riconoscere d'aver agito male, cioè d'esser caduto nello stesso
errore in cui era caduto anch'egli, che accusava l'altro di peccare. Che dire di Giovanni, che or non è molto
governava da vescovo la Chiesa di Costantinopoli? Proprio sul capitolo in questione ha composto un'opera
voluminosa, in cui s'è attenuto alle idee di Origene e degli Antichi. Se quindi m'incolpi di sbagliare, lasciami,
per favore, sbagliare con autori di tale levatura: e se ti renderai conto che sono in compagnia di molti che
hanno sbagliato come me, avrai tu il dovere di presentarmi almeno uno che sostenga la tesi da te ritenuta
vera. Ciò che ho detto concerne l'esegesi d'un solo capitolo della Lettera ai Galati.

Prove scritturistiche a suffragio dell'esegesi geronimiana.

3. 7. Ma per non darti l'impressione ch'io m'opponga alla tua tesi facendo leva sul numero dei testimoni a
mio discarico e che col pretesto degl'illustri personaggi non voglia affrontare la verità né misurarmi con te,
ti sottoporrò alcuni brevi esempi tratti dagli Atti degli Apostoli. A Pietro giunse una voce che diceva: Alzati
Pietro, uccidi e mangia, cioè la carne di tutti gli animali, ossia dei quadrupedi e dei serpenti della terra e
dei volatili dell'aria. Quest'ordine dimostra che nessun uomo è per natura immondo, ma che tutti senza
distinzione sono chiamati al Vangelo di Cristo. Pietro allora rispose: Dio me ne guardi! Non ho mai mangiato
cibi profani o immondi. Ma gli si fece sentire di nuovo la voce che diceva: Non chiamare profano ciò che
Dio ha reso puro. Andò quindi a Cesarea ed entrato nella casa di Cornelio, aprendo la bocca disse:
Riconosco che effettivamente Dio non è parziale verso nessuno, ma che in tutti i popoli gli è gradito chi lo
teme e pratica la giustizia. Scese poi su di essi lo Spirito Santo: i credenti che provenivano dalla
circoncisione e che avevano accompagnato Pietro, rimasero stupiti nel vedere come la grazia dello Spirito
Santo s'era effusa pure sui Gentili... Pietro allora soggiunse: Ci è forse lecito rifiutare l'acqua del battesimo
a costoro che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi? E ordinò che venissero battezzati nel nome di
Gesù Cristo. Gli Apostoli poi e i fratelli che si trovavano nella Giudea vennero a sapere che anche i Gentili
avevano ricevuto la parola di Dio. Quando però Pietro risalì a Gerusalemme, i convertiti dalla circoncisione
cominciarono a muovergli dei rimproveri dicendo: Perché mai sei entrato in casa di persone incirconcise e
hai mangiato con esse? Dopo aver esposto loro tutti i motivi del suo agire, alla fine concluse il suo discorso
con queste parole: Se dunque Dio ha concesso loro la medesima grazia che a noi, i quali abbiamo creduto
nel Signore Gesù Cristo, chi mai ero io da oppormi a Dio? A queste parole si calmarono e resero gloria a
Dio dicendo: Dunque, Dio ha concesso anche ai Gentili di ravvedersi perché abbiano la vita. Un'altra volta,
molto tempo dopo, essendo Paolo e Barnaba andati ad Antiochia, radunata l'assemblea dei Cristiani,
riferirono tutte le cose che Dio aveva compiuto per mezzo di loro e come aveva aperto ai Gentili la porta
della Fede. Ora, alcuni che venivano dalla Giudea andavano insegnando ai fratelli questa dottrina: Se non
vi farete circoncidere secondo il rito di Mosè, non potrete esser salvi. Scoppiò allora una sedizione piuttosto
grave contro Paolo e Barnaba. Decisero perciò di recarsi, sia gli accusati che gli accusatori, a Gerusalemme
dagli Apostoli e dai Seniori, per dirimere la controversia... Erano appena giunti a Gerusalemme,... che
insorsero alcuni della setta dei Farisei, che avevano creduto in Cristo dicendo: E' necessario che vengano
circoncisi pure i Gentili e imporre loro d'osservare la Legge di Mosè. Dopo una lunga discussione su tale
questione, Pietro con l'abituale sua franchezza: Fratelli, disse, vi è noto che fin dai primi tempi Dio scelse
me tra voi perché dalla mia bocca i Gentili ascoltassero la parola del Vangelo e credessero; e Dio, che
conosce i cuori, ha reso loro testimonianza dando loro lo Spirito Santo come a noi, senza fare alcuna,
distinzione tra noi e loro, rendendo i loro cuori puri mediante la fede. Allora, perché mai volete provocare
la pazienza di Dio con l'imporre sul collo dei Discepoli un giogo che né i nostri Padri né noi siamo riusciti a
portare? Ora noi crediamo che la nostra, come la loro salvezza, viene dalla grazia del Signor nostro Gesù
Cristo. Tutta l'assemblea rimase in silenzio, e l'apostolo Giacomo e tutti i Seniori approvarono il suo parere.

Ossequio di Paolo a Pietro.

3. 8. Queste citazioni non devono infastidire il lettore, ma essere utili sia a lui che a me per provare che,
prima ancora dell'apostolo Paolo, Pietro non ignorava la norma presa in una decisione, di cui egli era stato
l'autore principale, per cui la Legge dopo il Vangelo non obbligava più all'osservanza. Insomma Pietro era
investito di tanta autorità che Paolo in una sua lettera scrisse: In seguito, tre anni dopo, salii a
Gerusalemme per incontrarmi con Pietro e rimasi con lui quindici giorni; e ancora nei versetti
seguenti: Quattordici anni dopo salii di nuovo a Gerusalemme insieme a Barnaba conducendo con me pure
Tito. Vi salii in seguito a una rivelazione ed esposi a quei fedeli il Vangelo che predico ai Gentili. Con ciò fa
vedere chiaramente ch'egli non si sentiva sicuro della sua predicazione del Vangelo, se non si fosse sentito
sostenuto della conferma di Pietro e degli altri che erano con lui. E subito soggiunse: A parte poi lo esposi
a quelli ch'erano tenuti in particolare reputazione per sapere se correvo o avevo corso invano. Perché mai
a parte e non in pubblico? Per evitare che nascesse lo scandalo a danno della fede per i fedeli convertitisi

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dal Giudaismo, i quali credevano che ci fosse ancora l'obbligo d'osservare la Legge come presupposto della
Fede nel Signore e Salvatore. Così pure dovette dunque accadere quando Pietro andò ad Antiochia (sebbene
gli Atti degli Apostoli non lo riferiscano, si deve crederlo per l'affermazione di Paolo); Paolo infatti scrive
che si oppose a lui apertamente, perché era degno di biasimo. Infatti prima che arrivassero alcune persone
da parte di Giacomo, Pietro mangiava con i Gentili, mentre dopo l'arrivo di quelle li evitava e se ne stava
in disparte per timore dei fedeli provenienti dal Giudaismo. Tutti gli altri Giudei agirono in modo
corrispondente, tanto che perfino Barnaba si lasciò trascinare a simulare come loro. Ma quando mi accorsi
- soggiunge Paolo - che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, in presenza di tutti
apostrofai Pietro: Se tu, che sei Giudeo, vivi da pagano e non da Giudeo, come mai costringi i pagani a
vivere alla maniera dei Giudei? ecc. Nessuno dunque può mettere in dubbio che sia stato Pietro il primo
autore di questa norma, che ora viene accusato di trasgredire. Ora la causa di queste trasgressioni fu solo
il timore dei Giudei. La Scrittura infatti dice che dapprima mangiava con i Gentili, mentre, dopo l'arrivo di
alcune persone da parte di Giacomo, li evitava e stava in disparte, perché temeva i fedeli convertitisi dal
Giudaismo. Perché mai Pietro ha paura dei Giudei di cui era l'Apostolo? Non voleva che prendessero pretesto
dai Gentili per allontanarsi dalla fede di Cristo, non voleva cioè, da imitatore del Buon Pastore, perdere il
gregge a lui affidato.

Condotta incoerente di Paolo.

3. 9. Pietro dunque, come ho dimostrato, era ortodosso nel giudicare abolita la Legge mosaica, ma fu il
timore a spingerlo a praticarla con finzione. Vediamo ora se Paolo, che incolpa un altro, ha agito quasi allo
stesso modo. Ecco cosa leggiamo sempre nel medesimo libro: Paolo percorreva la Siria e la Cilicia
confermando le Chiese. Giunse così a Derbe e a Listri, dove incontrò un discepolo chiamato Timoteo, figlio
di una Giudea convertita e di padre pagano. I fratelli abitanti a Listri e ad Iconio gli rendevano buona
testimonianza. Paolo volle che partisse con lui e, presolo con sé, lo fece circoncidere per riguardo dei Giudei
abitanti in quei luoghi, poiché tutti sapevano che suo padre era pagano. O beato apostolo Paolo! proprio tu
che avevi biasimato la simulazione in Pietro perché s'era tenuto in disparte dai Gentili, in quanto temeva i
Giudei venuti da parte di Giacomo, come mai sei costretto, contrariamente al tuo insegnamento, a far
circoncidere Timoteo, figlio di padre pagano, e naturalmente anch'egli pagano, poiché non poteva
essere giudeo, dacché non era stato circonciso? Mi risponderai: "L'ho fatto per paura dei Giudei stanziati in
quel paese ". Ebbene, se ti credi scusato per aver fatto circoncidere un discepolo proveniente dal
paganesimo, scusa pure Pietro, tuo predecessore in una colpa commessa per paura dei Giudei. In un altro
passo sta scritto: Dopo essersi trattenuto [a Corinto] ancora molti giorni, salutati i fratelli, Paolo s'imbarcò
alla volta della Siria insieme a Priscilla ed Aquila; a Cencre si fece rasare i capelli perché aveva fatto un
voto. Va bene che nel primo caso Paolo sia stato costretto a compiere un'azione da lui non voluta; perché
mai nel caso presente s'era fatto crescere i capelli in base a un voto fatto e poi se li era fatti rasare a Cencre
secondo la Legge? Sono i Nazareni votatisi a Dio che in base al precetto di Mosè hanno quest'usanza!.

Paolo segue le usanze giudaiche e offre sacrifici nel Tempio.

3. 10. Ma questi fatti sono quasi trascurabili a paragone di quello che segue Luca, l'autore di questa storia
sacra, riferisce il fatto seguente: Giunti a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con piacere; il giorno seguente
Giacomo e tutti i seniori che erano con lui, dopo avere approvato il suo Vangelo, gli dissero: Tu vedi,
fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto in Cristo e tutti zelanti della Legge. Ora, sono venuti a
sapere che ai Giudei sparsi tra i Gentili insegni ad apostatare da Mosè dicendo che non devono far
circoncidere i loro figli e non devono seguire le consuetudini. Come stanno le cose? Naturalmente s'adunerà
della folla perché verranno certamente a sapere del tuo arrivo. Fa dunque come ti diciamo noi: Ci sono qui
con noi quattro uomini vincolati da un voto. Prendili con te, purìficati con loro e paga per essi, affinché si
radano il capo. Così tutti capiranno che le chiacchiere udite sul tuo conto sono false, ma che tu pure ti
comporti come osservante della Legge... Paolo allora, presi con sé quei tali, il giorno dopo si purificò, entrò
con essi nel Tempio annunziando (ai sacerdoti) entro quali giorni si sarebbe compiuta la purificazione, cioè
in qual giorno per ciascuno di essi sarebbe stata presentata l'offerta. Oh, Paolo! Anche a proposito di questo
fatto ti domando: " Perché mai ti facesti radere la testa? Perché mai hai fatto la processione a piedi nudi
secondo il rito giudaico? Perché mai avresti offerto sacrifici e per te sarebbero state immolate vittime
prescritte dalla Legge mosaica? " Certamente risponderai: " Perché non si scandalizzassero i Giudei
convertiti ". Ti fingesti dunque giudeo per salvare i Giudei. E questa simulazione ti fu insegnata da Giacomo
e dagli altri seniori: eppure non riuscisti a scamparla. Poiché scoppiò un tumulto, in cui avresti dovuto
essere ucciso, ma ne fosti strappato dal tribuno e mandato a Cesarea sotto una scorta circospetta di soldati,
per evitare che i Giudei ti sopprimessero come simulatore ed eversore della Legge. Di là raggiungesti Roma,
ove nell'alloggio da te affittato predicavi Cristo ai Giudei e ai Gentili, e ove il tuo modo di pensare ricevette
la suprema ratifica dalla spada di Nerone.

Il rimprovero di Paolo a Pietro era ufficioso.

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3. 11. Abbiamo visto che Pietro e Paolo finsero l'uno come l'altro d'osservare i precetti della Legge per
paura dei Giudei. Con quale faccia, allora, con quale ardire ha potuto Paolo biasimare l'altro d'una mancanza
commessa pure da lui stesso? Io, o meglio, altri prima di me, hanno dato del fatto una spiegazione basata
sulle loro opinioni, ma non hanno propugnato, come scrivi tu, trattarsi d'una bugia ufficiosa, mentre hanno
insegnato che si tratta d'onesta diplomazia, per far vedere la prudenza degli Apostoli e ricacciare in gola a
Porfirio la sua blasfema impudenza. Costui infatti diceva che Pietro e Paolo litigarono come bambini, anzi
che Paolo aveva cocente gelosia delle virtù di Pietro e che, mosso dall'orgoglio, avrebbe scritto fatti che o
l'altro non aveva commesso o, anche se li aveva commessi, avrebbe agito da sfrontato criticando un altro
d'una mancanza commessa pure da lui. Quegli esegeti hanno spiegato questo passo secondo le proprie
capacità; tu invece come lo spiegheresti? Certamente sei in grado di dare una spiegazione migliore, dal
momento che hai disapprovato l'opinione degli antichi!

Pericolosa è l'opinione di Agostino.

4. 12. Nella tua lettera tu mi scrivi: " Non sono certo io che debbo insegnarti come si debba intendere la
frase del medesimo Apostolo: Mi sono fatto come Giudeo per attirarmi i Giudei e le altre frasi che seguono,
dette per un senso di compassione e di pietà, non già per mascherare un comportamento falso. Chi infatti
assiste un malato si fa, per così dire, malato non quando afferma, mentendo, di avere la febbre, ma quando
intimamente soffre col malato e pensa come vorrebbe essere assistito se fosse lui il malato. Paolo era
realmente Giudeo ma, una volta diventato cristiano, non aveva ripudiato i riti giudaici che quel popolo
aveva ricevuto come ad esso convenienti a tempo legittimo e opportuno. Ecco perché si sottopose a
osservarli quand'era già apostolo di Cristo, al fine d'insegnare che non erano dannosi a quanti li volevano
osservare secondo la Legge che avevano ricevuta dai genitori, anche dopo essersi convertiti a Cristo: solo
che non dovevano riporre in essi la speranza della salvezza perché l'unica vera salvezza preannunciata
simbolicamente da quei riti era ormai venuta col Signore Gesù ". Il succo di tutto il tuo discorso, protratto
con un'argomentazione fin troppo lunga, è questo: Pietro non avrebbe sbagliato in quanto riteneva che i
Giudeo-Cristiani dovevano continuare a osservare la Legge, ma in quanto s'allontanò dalla retta strada per
aver costretto i Pagano-Cristiani a seguire le usanze giudaiche, e li avrebbe costretti non con l'autorità del
suo insegnamento, ma con l'esempio del suo comportamento. Paolo inoltre non avrebbe detto il contrario
di quel che praticava, ma voleva sapere perché mai Pietro obbligava i Cristiani venuti dal gentilesimo a
seguire le usanze giudaiche.

L'opinione di Agostino favorisce l'eresia ebionitica.

4. 13. Insomma il punto essenziale della questione o meglio della tua opinione è che " dopo il Vangelo di
Cristo i Cristiani venuti dal giudaismo fanno bene a osservare le prescrizioni della Legge, ossia a offrire i
sacrifici offerti da Paolo, a far circoncidere i figli, a osservare il sabato come aveva fatto Paolo con Timoteo
e come praticavano tutti i giudei ". Ma se ciò è vero, cadiamo nell'eresia di Cerinto e di Ebione; costoro,
pur credendo in Cristo, furono condannati dai Padri della Chiesa unicamente perché avevano mescolato i
riti della Legge mosaica col Vangelo di Cristo, professando in tal modo la nuova dottrina senza rinunziare
a quella antica. Che dire poi degli Ebioniti, che fingono d'essere Cristiani? Ancor oggi, in tutte le sinagoghe
dell'Oriente perdura tra i Giudei l'eresia condannata ancora adesso dai Farisei e detta dei Minei, chiamati
comunemente Nazarei: essi credono in Cristo, Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, dicono che ha patito
sotto Ponzio Pilato e ch'è risuscitato, proprio come crediamo anche noi, ma mentre vogliono essere Giudei
e Cristiani allo stesso tempo, non sono ne Giudei né Cristiani. Orbene, ti prego: poiché ti preoccupi di
sanare una mia piccola lesione, una foratina, anzi si potrebbe dire appena una puntura d'ago, cerca di
sanare la ferita di questa tua opinione prodotta da una lancia, anzi, per così dire, da una poderosa falarica.
Ben diversa è la colpa di esporre - quando si spiega la sacra Scrittura - le varie opinioni dei predecessori,
da quella d'introdurre di nuovo nella Chiesa una scelleratissima eresia! Ma se non potessimo sottrarci alla
necessità d'accogliere i Giudei coi loro riti legali, e fosse loro lecito osservare nelle Chiese di Cristo le usanze
praticate nelle sinagoghe di Satana, dirò quel che penso: non saranno essi a diventare Cristiani, ma faranno
diventare Giudei noi stessi!

Il Vangelo ha abolito la Legge.

4. 14. Quale Cristiano potrebbe rimanere impassibile nel sentire le seguenti espressioni contenute nella
tua lettera? Eccole: " Paolo era giudeo. Diventato poi Cristiano non aveva abbandonato le pratiche religiose
giudaiche ricevute da quel popolo al tempo opportuno, e ad esso convenienti e legittime. E se volle
sottoporsi di nuovo a praticarle quando era già apostolo di Cristo, ci fu un motivo: insegnare che non erano
dannose a coloro che le volessero osservare come le avevano ricevute dai loro padri ". Di nuovo ti scongiuro:
non offenderti se t'esprimo il mio dolore. Paolo osservava le pratiche religiose del giudaismo quand'era già
apostolo di Cristo e tu vieni a dirmi ch'esse non erano dannose per quelli che le volevano osservare come
le avevano ricevute dai loro padri? E' proprio il contrario di quel che dico io; associandomi alle grida di

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protesta che si levano da tutto il mondo, dichiaro apertamente che le pratiche religiose giudaiche sono
dannose e letali per i Cristiani, e chi le osserva - sia esso convertito dal giudaismo o dal paganesimo - è
già sprofondato nel baratro del diavolo. Il fine di tutta la Legge è infatti Cristo, che giustifica tutti quelli che
credono, Giudei o pagani, s'intende. Cristo poi non sarebbe il fine che giustifica tutti quelli che credono, se
si eccettuassero i Giudei. Anche nel Vangelo leggiamo: La Legge e i Profeti fino a Giovanni Battista. E in un
altro passo: Per questo dunque i Giudei cercavano più che mai di uccidere Gesù, perché non solo non
osservava il sabato, ma diceva pure che Dio era suo Padre facendosi uguale a Dio. E in un altro
ancora: Dalla pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia; poiché da Mosè fu data la Legge,
mentre per mezzo di Gesù Cristo è venuta la grazia e la verità. Invece della grazia della Legge, destinata
a passare, abbiamo ricevuto la grazia del Vangelo, destinata a permanere; invece delle ombre e delle figure
simboliche del Vecchio Testamento è venuta la verità per mezzo di Gesù Cristo. Pure Geremia, in persona
di Dio, fa questa profezia: Ecco, vengono i giorni - dice il Signore - in cui concluderò una nuova alleanza
con la casa d'Israele e con la casa di Giuda: non sarà come l'alleanza che stipulai con i loro padri il giorno
che li presi per mano per condurli fuori dalla terra d'Egitto. Considera queste parole del Profeta: promette
la nuova alleanza non già al popolo dei Gentili, con cui antecedentemente non aveva stretto alcuna alleanza,
ma al popolo giudaico, al quale aveva dato la Legge per mezzo di Mosè, affinché i Giudei non vivessero
secondo l'antica lettera ma secondo lo Spirito nuovo. Ora, Paolo, sulla cui persona si sta ora discutendo,
spesse volte esprime nei suoi scritti pensieri simili. Per amore di brevità ne citerò solo qualcuno: Ecco, io
Paolo vi dico che se vi farete circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. Ancora: Voi che volete essere
giustificati dalla Legge, vi siete separati da Cristo; siete decaduti dalla grazia. E più oltre: Se vi lasciate
guidare dallo Spirito non siete più sotto la legge. Da ciò appare chiaro che colui, il quale sta sotto la Legge,
non ha lo Spirito Santo non solo per modo di dire, come pensavano i nostri padri, ma non lo ha realmente,
come tu ben vedi. Di qual natura poi siano le prescrizioni della Legge impariamolo da Dio stesso che ci ha
insegnato: Ho dato loro - dice - delle prescrizioni dannose, delle leggi per cui non possono vivere. Diciamo
questo, non per negare il valore alla Legge come fanno Mani e Marcione, ben sapendo noi che secondo S.
Paolo essa è santa e spirituale, ma perché dopo che sopraggiunse la fede, insieme alla pienezza dei tempi
Dio mandò suo Figlio fatto da una donna, fatto sotto la Legge, affinché riscattasse quelli ch'erano sotto la
Legge e noi ricevessimo l'adozione di figli, e così non vivessimo più sotto il pedagogo, ma sotto colui che è
adulto, il Signore, l'erede.

Contegno teorico e pratico di Paolo verso la Legge Mosaica.

4. 15. Nella tua lettera viene poi questo passo: " Paolo fece la riprensione a Pietro non perché questi
osservava le tradizioni dei suoi Padri, dato che, se avesse voluto farlo, avrebbe agito senza infingimento e
non avrebbe fatto nulla di sconveniente ". Ti ripeto: Sei vescovo, sei maestro delle Chiese di Cristo; se vuoi
sapere se è vero quel che affermi, prenditi un Giudeo il quale, divenuto Cristiano, faccia circoncidere il figlio
che gli è nato, che rispetti il sabato, che si astenga dai cibi creati da Dio perché ce ne serviamo rendendogli
grazie, il quale il quattordicesimo giorno del primo mese immoli l'agnello verso sera. Dopo aver fatto ciò,
anzi dopo non averlo fatto (poiché so che sei Cristiano e non hai la minima intenzione di fare una simile
cosa), lo voglia o no, dovrai condannare la tua tesi e ti convincerai per esperienza personale ch'è più difficile
dimostrare le proprie tesi che criticare quelle altrui. Ma forse che non ti avremmo dato ragione o, peggio,
non avremmo capito cosa volessi esprimere? Succede spesso, infatti, che un discorso tirato troppo in lungo
sia incomprensibile e, proprio perché non se ne coglie il senso, sia meno criticato dagl'ignoranti. Perciò
insisti e replichi: " Paolo, dunque, del giudaismo aveva abbandonato solo quel che aveva di male ". Ma
quale è il male abbandonato da Paolo? Certamente quanto affermi nella frase seguente: Ignorando la
giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio; inoltre
è male il fatto che anche dopo la passione e la risurrezione di Cristo, dopo cioè ch'era stato dato e
manifestato il mistero della grazia secondo l'ordine di Melchisedec; credevano che gli antichi riti sacri
dovevano essere ancora celebrati come indispensabili alla salvezza e non unicamente come sopravvivenze
d'una tradizione sacra. (Ma bisogna pure dire che, se non fossero stati mai necessari, il martirio affrontato
dai Maccabei per rimanervi fedeli sarebbe stato del tutto inutile e senza scopo). E infine è male il fatto che
i Giudei perseguitavano come nemici della Legge i Cristiani che predicavano la, grazia. Questi errori e colpe
ed altri di tal genere, dice Paolo di aver reputato dannosi e come spazzatura per guadagnarsi Cristo.

Azioni buone o cattive: azioni indifferenti.

4. 16. Sappiamo da te quali sarebbero stati i mali del Giudaismo abbandonati dall'apostolo Paolo; vediamo
ora, come tu insegni, quali sarebbero stati gli elementi buoni del Giudaismo da lui conservati. " Sono le
pratiche prescritte dalla Legge - dici tu - dai Giudei celebrate in omaggio alla tradizione dei loro padri, e
secondo questo spirito celebrate personalmente pure da Paolo, nella convinzione che non erano affatto
necessarie alla salvezza". Non capisco bene cosa vuoi intendere con l'espressione: "Nella convinzione che
non erano affatto necessarie alla salvezza". In realtà se non apportano la salvezza, perché mai vengono
osservate? Ma se è necessario osservarle, apportano senza dubbio la salvezza, soprattutto quelle, la cui

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osservanza ha fatto dei martiri. Poiché non verrebbero osservate, se non apportassero la salvezza. D'altra
parte non sono neppure indifferenti, di mezzo tra il bene e il male, come dicono dei filosofi nelle loro
disquisizioni. E' un bene la continenza, un male la lussuria; azioni indifferenti tra l'una e l'altra sono:
camminare, evacuare gli escrementi dal ventre, espellere dal naso le secrezioni della testa, sputare il
catarro. Siffatte azioni non sono né buone né cattive; tanto è vero che a farle o a non farle non si acquista
né la giustizia né l'ingiustizia. Ebbene, osservare i riti legali, non può essere un'azione indifferente, ma o
buona o cattiva. Tu la chiami buona: io invece affermo che è cattiva: cattiva non solo per i Cristiani
provenienti dal Gentilismo, ma anche dal Giudaismo. Su questo punto, se non mi sbaglio, mentre cerchi di
schivare l'errore, cadi in un altro. Mi spiego: mentre per paura stai lontano dalle bestemmie di Porfirio, cadi
nel tranello di Ebione, dal momento che dichiari che i Giudei convertiti al Cristianesimo, sono tenuti ancora
ad osservare la Legge. Siccome però capisci quanto sia pericolosa la tua affermazione, cerchi di attenuarla
con la seguente inutile espressione: " Nella convinzione che non sono affatto necessarie alla salvezza, come
invece pensavano i Giudei obbligandone l'osservanza, oppure facendo finta di osservarle e così mentendo,
colpa questa per cui Paolo aveva rimproverato Pietro ".

Condiscendenza o fallace simulazione?

4. 17. Pietro, quindi, fece solo finta d'osservare la Legge, mentre l'altro che biasimò Pietro, osservò senza
alcuna paura le prescrizioni legali. Questo dici nel seguito della tua lettera: " Ora, se aveva celebrato quei
riti per guadagnarsi la simpatia dei Giudei col figurarsi Giudeo, perché mai non ha pure offerto sacrifici coi
Gentili, dal momento che era diventato come uno che è senza Legge con quelli che erano senza Legge allo
scopo di poter guadagnare anche loro? Non ha agito forse solo perché era Giudeo di nascita? E ha fatto
tutto quel discorso, non per mostrarsi falsamente quel che non era, ma perché sentiva di dover venire loro
in aiuto con carità, come se egli stesso fosse vittima dello stesso errore. Agì insomma con una bugia
strategica, ma con l'amore che lo portava a compatire ". Sei davvero bravo nel difendere Paolo! Non
avrebbe simulato l'errore dei Giudei, ma fu veramente vittima del loro errore. E non avrebbe solo imitato
la menzogna di Pietro, dissimulando per paura dei Giudei quello che era, ma si sarebbe pure dichiarato
Giudeo con tutta franchezza! O nuova clemenza dell'Apostolo! Mentre vuol fare Cristiani i Giudei diventa
Giudeo lui stesso! Non avrebbe potuto davvero ricondurre i dissoluti alla temperanza, senza dar prova
d'essere anch'egli dissoluto, non avrebbe potuto soccorrere con carità i miserabili, senza sentirsi - tu dici -
anche egli un miserabile! Sì, erano davvero dei miserelli e misericordiosamente da compiangere quei tali
che, animati da zelo accanito per la Legge di già abolita, riuscirono a fare Giudeo un Apostolo di Cristo!
Non c'è poi molta differenza fra la mia e la tua opinione. Io dico che Pietro e Paolo per paura dei Giudeo-
Cristiani osservarono, o meglio finsero di osservare, le prescrizioni legali; tu invece asserisci ch'essi agirono
così per condiscendenza " non con una bugia strategica, ma per sentimento di amore che li portava a
compatire ". D'accordo, purché sia provato che abbiano simulato di essere quello che non erano, per paura
o per condiscendenza. L'altro argomento che usi contro di me, che cioè pure con i pagani convertiti avrebbe
dovuto diventare pagano, se divenne Giudeo coi Giudei, è piuttosto a mio favore. Difatti, come non era
veramente Giudeo, così non era veramente nemmeno pagano; e come non era veramente pagano, così
non era veramente nemmeno Giudeo. Egli ha imitato i Gentili solo nell'ammettere alla fede gli incirconcisi
e nel permettere loro di mangiare con perfetta indifferenza certi cibi vietati ai Giudei, non già per aver
partecipato - come tu credi - al culto degli idoli. In Gesù Cristo, infatti, non vale nulla l'essere circoncisi, né
il non essere circoncisi, ma l'osservare i comandamenti di Dio.

Professione di amore per la verità.

4. 18. Concludendo ti chiedo, per favore, e torno a supplicarti di perdonarmi questa mia piccola discussione.
Se poi ho oltrepassato la mia abituale misura, dànne la colpa a te stesso, che mi hai costretto a risponderti,
e per avermi cavato gli occhi, come fu fatto a Stesicoro. Non pensare poi che sia maestro di menzogna io,
discepolo di Cristo che disse: Sono io la via, la vita e la verità. A me che ho il culto della verità non può
accadere che pieghi il collo alla menzogna. Non aizzarmi la bassa plebe degli ignoranti, che ti venerano in
quanto vescovo e, quando predichi in Chiesa, ti guardano con rispetto per la venerazione che hanno del
Sacerdozio; di me invece, ormai giunto alla vecchiaia e quasi decrepito, che me ne sto volentieri nascosto
in un monastero di campagna, non fanno quasi nessun conto. Cèrcati altri discepoli o altre persone da
criticare, poiché a me, separati come siamo da sì vaste distese di mari e di terre, giunge a stento il suono
della tua voce. E se per caso mi scrivi qualche lettera, fa che la ricevano l'Italia e Roma prima che venga
recapitata a me, che dovrei esserne il destinatario.

La versione dei Settanta.

5. 19. In altre lettere mi domandi perché la mia prima traduzione dei libri canonici porta asterischi e
obelischi, segnati davanti ad alcune parole, mentre poi ho pubblicato la seconda edizione priva di tali segni.
Non ti offendere se ti dirò che mi dai l'impressione di non avere idee esatte su quel che vuoi sapere. Ecco

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come stanno le cose: la prima è la traduzione della Bibbia dei Settanta, e dovunque ci sono dei " bastoncini
" ossia obelischi, significa che i Settanta hanno aggiunto qualche parola o frase al testo ebraico; dove invece
si trovano degli asterischi - ossia delle stelle, che, per così dire, precedono con la loro luce qualche parola
- c'è qualche aggiunta fatta da Origene in base all'edizione di Teodozione. La prima versione è stata
condotta sul testo greco; la seconda direttamente dall'ebraico, traducendo, secondo quanto avevo capito,
rispettando più il pensiero genuino che - talora - la disposizione delle parole. Mi stupisco inoltre che tu
legga i libri dei Settanta, non nel testo originale pubblicato da essi, ma nel testo emendato (o corrotto) da
Origene, con obelischi ed asterischi, e non segui la traduzione, sia pure modesta di un Cristiano, tanto più
che le aggiunte, Origene le prese dalla versione di un Giudeo e blasfemo, per di più eseguita dopo la
passione di Cristo. Vuoi essere un lettore davvero fanatico dei Settanta? non leggere le parole precedute
da asterisco, anzi raschiale dai rotoli per dar prova in tal modo che sei partigiano degli antichi. Se farai
così, sarai costretto a condannare tutte le biblioteche ecclesiastiche, perché è assai difficile trovare uno o
due libri che non portino quei segni!

Le traduzioni della sacra Scrittura.

6. 20. Affermi inoltre che non avrei dovuto tradurre di nuovo libri già tradotti dagli antichi; per provarlo
ricorri a questo singolare sillogismo: " i testi tradotti dai Settanta, o erano oscuri o erano chiari. Se oscuri,
bisogna credere che tu pure hai potuto sbagliare nel tradurli. Se chiari, è evidente che essi non poterono
sbagliare ". Ti rispondo ricalcando il tuo argomento. Tutti gli antichi esegeti che ci hanno preceduti nel
Signore ed hanno commentato le Sacre Scritture, hanno spiegato passi oscuri o chiari. Se oscuri, come hai
tu osato spiegare, dopo di essi, ciò che essi non hanno potuto spiegare? Se chiari, è stata una fatica inutile
voler spiegare ciò che non poteva loro sfuggire. Ciò dico soprattutto per la spiegazione dei Salmi, che sono
stati illustrati in molti volumi dai Greci: il primo dei quali fu Origene, il secondo Eusebio di Cesarea, il terzo
Teodoro di Eraclea, il quarto Asterio di Scitopoli, il quinto Apollinare di Laodicea, il sesto Didimo di
Alessandria. Si citano pure gli opuscoli di commento di diversi altri autori, su un piccolo numero di Salmi;
ma qui parliamo dell'intero Salterio. Tra i Latini poi, Ilario di Poitiers e il vescovo Eusebio di Vercelli hanno
solo tradotto Origene ed Eusebio; anche il nostro Ambrogio si è attenuto generalmente alla traduzione del
primo di questi due. Ora la tua Prudenza mi risponda perché, dopo sì grandi e qualificati commentatori, tu
nello spiegare i Salmi hai espresso interpretazioni differenti. Poiché, se i Salmi sono oscuri, bisogna credere
che tu pure hai potuto sbagliare; se invece sono chiari, non è pensabile che abbiano potuto sbagliare.
Pertanto, sia in un modo, sia in un altro, il tuo commento sarà inutile. Anzi, in base al tuo principio, nessuno
avrà il coraggio di dire la sua dopo quelli che hanno detto la loro per primi; insomma, se uno ha già trattato
un argomento, un altro non avrà più diritto di trattarlo nuovamente per iscritto! Dovresti al contrario sentirti
piuttosto in dovere, come uomo, di permettere anche agli altri di fare ciò che permetti a te stesso! Ora, col
mio lavoro, ho inteso non tanto cancellare le opere degli autori che mi hanno preceduto (opere che ho solo
corretto e tradotte dal greco in latino per le persone che parlano la mia lingua), quanto mettere sotto gli
occhi di tutti le espressioni saltate o corrotte dai Giudei, affinché i nostri fedeli conoscano il contenuto
genuino della sacra Scrittura redatta in ebraico. Se poi a qualcuno non garba il mio lavoro, nessuno lo
costringe a leggerlo contro il suo volere; beva pure con gusto il vino vecchio e disprezzi il nostro mosto,
destinato proprio a spiegare gli antichi, a rendere più comprensibili, per suo mezzo, le edizioni,
incomprensibili degli altri. Quale sia poi il metodo da seguire nel tradurre la sacra Scrittura, l'ho già spiegato
nel mio libro intitolato "Il metodo ideale per tradurre" e in tutte le brevi prefazioni premesse alla mia
edizione della Bibbia. A dette opere penso debba rimandarsi un lettore intelligente. Dici inoltre che approvi
la correzione che ho fatto del Nuovo Testamento ed esponi pure il motivo per cui la approvi, e cioè che
moltissimi conoscono il greco assai bene e perciò sono in grado di dare un giudizio critico del mio lavoro.
Ebbene, avresti dovuto ammettere la medesima integrità e purezza nella mia edizione del Vecchio
Testamento: in essa non ho cambiato nulla di mia testa, ma ho tradotto il testo divino come l'ho trovato in
ebraico. Se per caso hai dei dubbi, interroga gli Ebrei.

La versione della Bibbia dall'ebraico e gli Ebrei.

6. 21. Ma forse potrai obiettarmi: "E se gli Ebrei non vorranno rispondere o vorranno mentire?" ma proprio
tutti i Giudei, numerosi come sono, non vorranno rispondere a proposito della mia traduzione? E' possibile
che non si trovi alcuno che conosca l'ebraico? O seguiranno tutti l'esempio di quei Giudei che affermi di
aver scoperto in una borgatuccia dell'Africa e che si sono messi d'accordo per calunniarmi? Ecco che razza
di storiella mi racconti nella tua lettera: " Un nostro confratello d'episcopato aveva cominciato a leggere la
tua traduzione nella Chiesa da lui retta. Orbene, un brano del profeta Giona, tradotto da te in maniera assai
diversa da quel che era impresso da troppo tempo nell'anima o nella memoria di tutti e tramandato e
ripetuto di generazione in generazione, provocò una poco favorevole impressione. Scoppiò un tale baccano
tra il popolo (i Greci erano i più accesi nel lanciare accuse di falso), che il Vescovo - si trattava appunto
della città di Ea - fu costretto a chiedere la conferma dei Giudei. Questi, non so se per ignoranza o per
malizia, risposero che i testi ebraici riportavano le stesse lezioni contenute in quelli latini e greci. A farla

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breve, quel poveretto fu costretto ad emendare il testo quasi fosse inesatto, nell'intento di scongiurare il
grave pericolo e di non rimanere senza fedeli! Per lo stesso motivo posso pensare anch'io che talora tu
pure, in qualche caso, possa avere sbagliato ".

Zucca o edera?

7. 22. Mi dici che ho tradotto male un passo del Profeta Giona e che, essendosi messo il popolo a far
baccano e a schiamazzare a motivo di una parola tradotta diversamente, per poco il vescovo ci rimetteva
la carica episcopale. Non mi dici però qual è il passo che avrei tradotto male e così mi togli la possibilità di
difendermi, per paura che la mia risposta mandi a monte la critica mossami. A meno che non sia tornata
in ballo, dopo tanti e tanti anni, la zucca; un Cornelio, anzi un Asinio Pollione di allora, sosteneva che io
avevo tradotto edera al posto di zucca. Su questo particolare ho dato una risposta abbastanza esauriente
nel mio Commento al Profeta Giona. Qui mi accontento di dire solo che nel passo dove i Settanta
tradussero zucca, e Aquila con tutti gli altri edera cioè , l'ebraico ha ciceion, che corrisponde a ciò
che i Siri chiamano comunemente ciceia. Si tratta in altre parole di un arbusto dalle foglie larghe a mo' di
pampano. Una volta piantato, presto diventa un arboscello che si regge alto senza alcun sostegno di canne
o di pertiche (di cui invece hanno bisogno le zucche e le edere), perché si sostiene sul proprio tronco. Ora,
se avessi voluto tradurre quella parola con ciceion, per rendere l'espressione alla lettera, nessuno l'avrebbe
capita; se con zucca, avrei reso un senso inesistente nel senso ebraico; ho usato allora la parola edera, per
essere d'accordo con gli altri traduttori. Se invece i Giudei delle vostre parti - come tu affermi - hanno
detto, per malizia o per ignoranza, che nei testi ebraici c'era lo stesso termine contenuto nei testi greci e
latini, è chiaro che o non sanno l'ebraico o mentirono apposta, per farsi gioco dei cucurbitari. Finisco la
presente chiedendoti di non costringere un vecchio veterano a riposo come me ad impugnare le armi e a
mettere a repentaglio ancora la propria vita. Tu che sei giovane, dall'alta cattedra della dignità episcopale
ove ti trovi, ammaestra i popoli, arricchisci i magazzini di Roma delle nuove messi africane. A me basta far
sentire la mia debole voce a qualche poverello che mi legge o mi sta ad ascoltare in un angolo del
monastero.

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LETTERA 81
Scritta tra l'anno 404 e il 405.

S. Girolamo chiede scusa a S. Agostino di avergli risposto con poco riguardo nella Lettera 75 e
lo invita a dedicarsi con lui nello studio della sacra Scrittura, lasciando da parte qualunque
discussione litigiosa.

GIROLAMO INVIA CRISTIANI SALUTI AD AGOSTINO, SIGNORE VERAMENTE SANTO E


PADRE BEATISSIMO

1. Ero in ansia di sapere dal nostro santo fratello Fermo come te la passavi: con gioia ho saputo che stai
bene. Non dico che sperassi ma esigevo ancora un'altra tua lettera, sennonché mi ha detto ch'era partito
dall'Africa a tua insaputa. Per tale motivo compio io per lui il dovere di salutarti, poiché nutre per te un
amore senza uguale; nel contempo ti prego di perdonarmi: sono confuso di non aver potuto fare a meno
di rispondere a chi da lungo tempo mi sollecitava a farlo. Non rispondo poi a te ma come parte in causa
rispondo all'accusa. E se è una colpa rispondere - ascoltami senza inquietarti per favore - molto maggiore
è quella d'aver provocato. Ma basta con queste recriminazioni e regni tra noi una sincera fraternità! E d'ora
in poi cerchiamo di scambiarci scritti che trattino non di questioni ma d'amicizia. I fratelli, che servono il
Signore con me, t'inviano molti saluti. Ti prego di porgere i miei ossequienti saluti ai Santi che con te
portano il giogo leggero di Cristo, soprattutto il santo e venerabile Alipio. Cristo, nostro Onnipotente Iddio,
ti custodisca salvo e sano e memore di me, o signore veramente santo e padre beatissimo. Se hai letto il
libro dei miei commenti a Giona, penso che non tornerai più sulla ridicola questione della zucca. Ma se
quell'amico ch'è stato il primo ad assalirmi con la spada è stato respinto con lo stilo, tocca adesso al tuo
senso di umanità e di giustizia fare una ripassata all'accusa non alla difesa. Se ti aggrada,
esercitiamoci [ludamus] pure nel campo delle Scritture, ma senza farci male.

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LETTERA 82
Scritta tra il 404 e il 405.

Agostino rispondendo alle lettere 72, 75, 81, gli chiede di dirgli apertamente se lo ha perdonato
(n. 1) e conferma l'opinione che Pietro fu effettivamente e giustamente rimproverato da Paolo,
ribadendo gli argomenti esposti nella lettera 40 (n. 2-27). Esprime quindi il dispiacere che le
lettere dirette a Girolamo siano capitate prima in mani estranee, ma nega d'avere mai scritto
alcun libro contro di lui (n. 28-33). Per la versione di Girolamo dall'ebraico spiega perché non
desidera che sia letta nelle sue chiese (n. 34-35). S'accomiata con l'augurio che tra loro regni
sempre la più schietta carità (n. 36).

AGOSTINO INVIA CRISTIANI SALUTI A GIROLAMO, CARISSIMO E ONORANDO


SIGNORE NELL'AMORE DI CRISTO, SANTO FRATELLO E COLLEGA DI SACERDOZIO

Desidera essere rassicurato del perdono.

1. 1. Già da tempo ho inviato alla tua Carità una lunga lettera in risposta a quella che tu mi ricordi di avermi
fatto recapitare dal tuo santo figliolo Asterio, il quale è ora non più solo fratello ma anche collega
nell'episcopato. Non so se tale lettera abbia avuto ancora la sorte di arrivare nelle tue mani; so unicamente,
dallo scritto recapitatomi dal sincerissimo fratello Fermo, che quel tale che per primo t'ha assalito con la
spada è stato respinto con lo stilo, e che sarebbe mio dovere d'umanità e di giustizia biasimare l'accusatore
e non già chi risponde all'accusa. Da questo sia pur brevissimo indizio suppongo comunque che tu hai letto
la mia lettera. Sì, è vero: in essa io deploravo che fra te e Rufino fosse sorta una così grave discordia,
mentre proprio chi vi amava come fratelli godeva della fama ovunque diffusa della vostra tanto stretta
amicizia. Dicendo ciò, non intendevo muovere un rimprovero alla tua fraternità, poiché mi guarderei bene
dall'attribuirti qualche colpa in quella faccenda, ma solo deplorare quanto sia incerta la perseveranza di noi
poveri uomini nel conservare i rapporti d'amicizia nello scambievole affetto, per quanto grande esso sia. Io
però avrei preferito sapere dalla tua risposta se mi hai accordato il perdono che t'avevo chiesto; desidererei
che tu me lo facessi capire nel modo più esplicito, anche se ho l'impressione d'averlo ottenuto, come posso
arguirlo dal tono piuttosto scherzoso della tua lettera, sempre se me l'hai spedita dopo aver letto la mia,
cosa questa che in essa non appare affatto.

Discutere sulla sacra Scrittura, ma seriamente e fraternamente.

1. 2. Tu mi proponi, o meglio, mi comandi (in forza della fiducia che hai nella carità) di esercitarci [ludamus]
insieme nel campo della sacra Scrittura senza procurarci vicendevoli dispiaceri. Io veramente, per quanto
dipende da me, preferirei trattare simili problemi in tono serio e non già per gioco [ludo]. Comunque, se
t'è piaciuto usare quel termine così alla buona, ti confesso che m'aspetto qualcosa di meglio dalle possibilità
che tu possiedi di benevolenza, d'intelligenza, di applicazione continua e annosa, appassionata e ingegnosa!
E non solo per un dono dello Spirito Santo, dal quale hai queste doti, ma pare per sua ispirazione mi devi
aiutare in quelle gravi e difficili questioni, non già come uno che voglia giocare nel campo della sacra
Scrittura ma come uno che ha il fiato grosso nel salire le montagne. Se invece hai creduto di dover usare
il termine " giochiamo" per indicare la gioia che deve regnare tra amici carissimi quando discutono tra loro,
giochiamo pure non solo quando l'argomento delle nostre conversazioni è chiaro e facile, ma pure quando
è arduo e difficile. Ti scongiuro d'insegnarmi il modo d'arrivare a questo risultato. Può darsi che qualche
passo ci procuri imbarazzo per il fatto che non possiamo approvarne il senso (non tanto per averlo
considerato con poca attenzione, quanto a causa della nostra tarda intelligenza) e ci sforziamo di sostenere
un nostro punto di vista contrario. Orbene, qualora dovessimo esprimerlo in modo piuttosto franco e senza
troppi riguardi, evitiamo il sospetto reciproco di puerile iattanza come se andassimo a caccia di notorietà
col mettere sotto accusa dei personaggi illustri. Se invece cercheremo di rendere più tollerabile, foderandola
per così dire di termini più morbidi, qualche osservazione pungente, usata per necessità polemica, non
accusiamoci poi di brandire una spada cosparsa di miele. A meno che per caso questo metodo di discutere
sia adatto ad evitare ambedue quei difetti o almeno ad evitare di sospettarli nell'altro quando, discutendo
con un amico più istruito, ci è giocoforza approvare tutto quel che dice senza aver la possibilità di
contraddirlo neppure per accertarci meglio della cosa!

Inerranza della sacra Scrittura.

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1. 3. Allora, sì, senza paura di offenderci, si può giocare come in una gara, altrimenti ci sarebbe da
meravigliarci se non fossimo giocati noi stessi! Poiché - debbo confessarlo alla tua Carità - questo timore
riverenziale per cui credo in modo fermissimo che nessun autore ha potuto sbagliare nello scrivere, ho
imparato ad averlo solamente per i libri della sacra Scrittura. Se quindi m'imbatterò in qualche passo di
questi libri, che mi dia l'impressione d'essere in contrasto con la verità, non avrò alcun dubbio che ciò
dipenda dal fatto che o è scorretto il manoscritto o il traduttore non ha centrato il senso o sono io che non
ho capito. Nel leggere invece tutti gli altri autori, per quanto possano essere superiori a chiunque altro per
santità e dottrina, non ritengo vera una cosa per l'unico motivo che quelli la pensino così, ma solo perché
sono riusciti a persuadermi che la loro opinione non è in contrasto con la verità in base all'autorità della
sacra Scrittura canonica o in base a un ragionamento plausibile. Penso pure, fratello, che tu pure non sia
di parere diverso; voglio dire: non credo assolutamente che tu pretenda che i tuoi libri siano letti come se
fossero quelli dei Profeti e degli Apostoli, gli unici a proposito dei quali sarebbe empio aver dubbi che siano
esenti da qualsiasi errore. Un simile pensiero tenga Dio lontano dalla tua religiosa umiltà e dallo schietto
sentimento che hai di te stesso; se ne fossi privo, non avresti certamente detto: "Dio voglia ch'io meriti
d'abbracciarti e d'insegnare o imparare qualcosa in conversazioni tra noi due".

Veridicità di S. Paolo.

2. 4. Se, per quanto riguarda la tua persona, sono convinto, in considerazione della tua vita e del tuo
carattere, che hai parlato senza simulazione e senza falsità, quanto è più giusto che io creda che Paolo non
pensasse diversamente da quanto ha scritto nel passo ove, parlando di Pietro e di Barnaba, dice: Quando
m'accorsi che non camminavano rettamente, secondo la verità del Vangelo, in presenza di tutti dissi a Cefa:
Se tu, che sei Giudeo, vivi da pagano e non da Giudeo, come mai costringi poi i pagani a osservare i riti
giudaici? Orbene, che certezza potrei avere io che, scrivendo o parlando, l'Apostolo non m'inganni, se
ingannava i suoi figli, ch'egli partoriva continuamente fino a che non si fossero conformati perfettamente a
Cristo, ch'è la Verità? E dire che proprio poco prima li aveva rassicurati dicendo: M'è testimone Iddio che
quanto vi scrivo non è affatto una menzogna! e poi eccolo scrivere cose contrarie alla verità e ingannare
con una non so quale simulazione diplomatica, dicendo d'essersi accorto che Pietro e Barnaba non
camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo e d'essersi opposto apertamente a Pietro per il solo
motivo ch'egli costringeva i pagani a osservare i riti giudaici!

La sacra Scrittura è sempre veridica.

2. 5. " Ma - si obietterà - è meglio credere che sia stato l'apostolo Paolo a scrivere qualche particolare non
rispondente a verità, anziché pensare che sia stato Pietro ad agire non rettamente in qualche caso ". Ma
se fosse così, dovremmo dire - Dio ne guardi! - che è meglio pensare che il Vangelo dica una bugia, anziché
ammettere che Cristo sia stato rinnegato da Pietro; dovremmo pensare che sia il Libro dei Re a mentire,
anziché ammettere che un Profeta così eminente come David, scelto in modo così straordinario dal Signore
Iddio, abbia commesso un adulterio nel desiderare in modo sensuale e nel portare via la moglie a un altro
e per di più abbia commesso un omicidio davvero orrendo facendone uccidere il marito? Tutt'altro! La sacra
Scrittura è l'autorità che occupa il più alto posto nel cielo anzi la sommità stessa del cielo e io la leggerò
assolutamente certo e sicuro della sua veridicità. Da essa verrò a conoscere senza ombra d'errore che
alcune persone sono state veramente lodate, corrette o condannate, anziché gettare l'ombra del dubbio
sulle parole di Dio solo perché ho timore di dover ammettere che certe azioni umane debbano venire talora
criticate in persone eminenti ed encomiabili.

Integrità dei codici della sacra Scrittura.

2. 6. Il sacrilego errore dei Manichei è confutato con lampante evidenza dalle espressioni delle divine
Scritture, ch'essi non possono stravolgere in senso diverso e perciò sostengono che moltissime tra esse
sono false, anche se non attribuiscono tale falsità agli Apostoli che le scrissero, bensì a non so quali
corruttori di manoscritti. Ma siccome non hanno mai potuto dimostrarlo né in base a esemplari più numerosi
o più antichi né in base alla lingua originale, sulla quale è stata fatta la traduzione dei testi latini - cioè sulla
lingua che fa testo - devono battere in ritirata, pieni di confusione e pienamente confutati da una verità a
tutti ben chiara! E la tua Santità non si rende conto dell'appiglio opportuno che offriamo alla loro malizia
se andiamo dicendo che non da altri sono stati falsificati gli scritti degli Apostoli, ma furono proprio gli
Apostoli a scrivere delle falsità?

Giusto il rimprovero dato a Pietro.

2. 7. " Ma non è possibile pensare - dici tu - che Paolo rimproverasse Pietro di una cosa che aveva fatto lui
stesso ". Adesso però io esamino non che cosa abbia fatto, ma che cosa abbia scritto; questo è della

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massima importanza per la questione da me presa a discutere e cioè che la verità delle sacre Scritture,
affidataci come documento storico per la conferma della nostra fede non da persone qualsiasi ma dagli
stessi Apostoli e posta per questo nel canone dei Libri sacri come il sommo e più autorevole criterio di
verità, resta sotto ogni aspetto attendibile ed esente da qualsiasi possibilità d'essere messa in dubbio.
Orbene, se Pietro agì solo come doveva, allora sarebbe stato Paolo a mentire dicendo che s'era accorto che
non camminava rettamente secondo la verità del Vangelo. Chiunque infatti agisce come deve, senza dubbio
agisce bene e perciò dice il falso chi dice che non ha agito bene, mentre sa ch'era suo dovere d'agire a quel
modo. Se al contrario è vero quanto ha scritto Paolo, è vero pure che Pietro non camminava rettamente
secondo la verità del Vangelo: faceva insomma quel che non avrebbe dovuto fare; e se Paolo aveva fatto
anch'egli qualcosa di simile, dovrò credere che si sarà ravveduto anch'egli e non poté trascurare di far
ravvedere l'apostolo suo collega, anziché credere che possa aver riferito qualcosa di falso nella sua lettera
in questione o in qualsiasi altra lettera, ma tanto meno in quella, in cui aveva premesso l'asserzione: Quanto
vi scrivo - m'è testimonio Iddio - non è una menzogna.

Perché Paolo praticò certi riti giudaici.

2. 8. Io per me credo che in quel caso Pietro agisse in modo da obbligare i pagani a osservare i riti giudaici.
Così infatti trovo scritto in Paolo e non posso credere ch'egli abbia mentito. Era quindi Pietro a non agire
rettamente, perché era in contrasto con la verità del Vangelo pensare che i convertiti a Cristo non potessero
salvarsi senza osservare quei riti antichi. Appunto questo sostenevano in Antiochia coloro ch'erano passati
dalla circoncisione alla fede di Cristo e contro i quali Paolo ingaggiò una lotta continua e accanita. Ma
quando fu proprio Paolo a far circoncidere Timoteo, a sciogliere il voto a Cencre, a celebrare in Gerusalemme
i riti della Legge con quelli che lo conoscevano dietro esortazione di Giacomo, egli non agì per far credere
che con quei riti si potesse conseguire la salvezza cristiana; voleva solo non dare l'impressione ch'egli
condannasse, al pari dei culti idolatrici dei pagani, i riti che Dio aveva prescritto si celebrassero, com'era
conveniente, nei tempi primitivi, in quanto rappresentavano la prefigurazione delle realtà future. Giacomo
in realtà gli dice proprio questo: d'aver cioè sentito dire di lui che insegnava a romperla con Mosè. Ora,
sarebbe senza dubbio un'empietà che i credenti in Cristo la rompessero con un Profeta di Cristo come se
condannassero e detestassero la dottrina di uno del quale Cristo stesso afferma: Se voi credeste a Mosè,
credereste pure a me, perché proprio di me egli ha scritto.

I riti della Legge mosaica e la grazia di Cristo.

2. 9. Considera attentamente, ti scongiuro, le precise parole di Giacomo: Tu vedi, fratello, quante migliaia
di Giudei hanno creduto in Cristo e come tutti sono zelanti della Legge. Ora essi hanno sentito dire che
insegni a tutti i Giudei, viventi tra i pagani, a staccarsi da Mosè, dicendo loro di non far circoncidere i loro
figlioli e di vivere senza seguire la tradizione. Che fare dunque? E' necessario senz'altro radunare la folla,
avendo essa sentito del tuo arrivo. Fa dunque quel che ti diciamo. Sono qui con noi quattro persone che
hanno fatto un voto. Prendile con te e purìficati con esse e paga per esse le spese necessarie perché si
radano il capo. In tal modo tutti si renderanno conto ch'è falso quanto hanno sentito dire sul tuo conto,
mentre tu pure segui la Legge e vi resti fedele. Riguardo poi ai pagani passati alla fede, noi abbiamo creduto
giusto di dare il seguente ordine: non devono attenersi a nessun'altra prescrizione tranne a quella che si
astengano dai cibi immolati agli idoli, dal sangue e dalla fornicazione. A mio parere il testo non è oscuro:
Giacomo volle dargli questo consiglio perché i Giudei convertiti al Cristo, che però erano ancora zelanti
nell'osservare la Legge, sapessero ch'era falsa la diceria sentita sul conto di Paolo; voleva inoltre evitare
che le prescrizioni date agli antichi Ebrei, nostri antenati nella fede, le considerassero condannate come
sacrileghe dalla dottrina di Cristo e scritte senza l'ordine di Dio. Questa calunnia contro Paolo l'avevano
lanciata non quelli che capivano con quale spirito dovevano essere osservati dai Giudeo-Cristiani i riti
mosaici, cioè per metterne in rilievo l'autore, ossia Iddio, e la santità prefigurata in quelle cerimonie, senza
tuttavia credere che potessero ottenere con essi la salvezza, che già s'era rivelata in Cristo e veniva
procurata mediante il sacramento del Battesimo. Quella calunnia contro Paolo era stata diffusa da coloro
che volevano l'osservanza di quei riti, come se sotto la nuova legge del Vangelo la salvezza dei fedeli fosse
impossibile senza di essi. Quei tali s'erano infatti accorti ch'egli predicava la grazia con tutta l'energia e
ch'era agli antipodi della loro mentalità, quando insegnava che veniamo giustificati non da quei riti, ma
dalla grazia di Gesù Cristo, della quale quei riti erano solo prefigurazioni e, come tali, erano prescritti sotto
la Legge mosaica, appunto per preannunciare la grazia. Ecco perché gli avversari cercavano di suscitare
contro Paolo e l'odio e la persecuzione e l'accusavano come nemico della Legge e dei comandamenti divini.
Ora, Paolo non avrebbe potuto evitare più opportunamente l'odio suscitatogli dalla calunnia se non col
praticare egli stesso quei riti che veniva accusato di condannare come sacrileghi; solo così poteva dare una
prova palmare che né ai Giudei - a quel tempo - si dovevano proibire quei riti, come se fossero pratiche
sacrileghe, né ai pagani se ne doveva imporre l'osservanza, come se fossero indispensabili.

Condotta incoerente di Pietro.

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2. 10. Poiché se Paolo avesse condannato effettivamente quei riti, come s'era inteso dire sul suo conto, e
poi invece si fosse piegato ad osservarli per nascondere con azioni simulate il suo modo di pensare, Giacomo
non gli avrebbe detto: Così tutti si renderanno conto, ma: Così tutti penseranno che è falso quanto hanno
sentito sul tuo conto tanto più che proprio a Gerusalemme gli Apostoli avevano decretato che nessuno
doveva costringere i pagani a praticare i riti giudaici, mentre non avevano decretato, in quell'occasione,
che si dovesse proibire ai Giudei di praticare i loro riti, anche se la stessa dottrina cristiana non ne faceva
un obbligo neppure per essi. Se, quindi, dopo il decreto degli Apostoli, Pietro agì con simulazione per
costringere i pagani all'osservanza dei riti giudaici - cosa alla quale neppure lui era obbligato, ma che non
gli era nemmeno proibita allo scopo di onorare le sacre Scritture affidate proprio ai Giudei - che c'è di strano
se Paolo lo costrinse a dichiarare senza paura ciò che non poteva non ricordare d'aver decretato a
Gerusalemme insieme agli altri Apostoli?

Contrasto tra la dottrina e la pratica di Pietro.

2. 11. Se invece Pietro fece una simile cosa prima del concilio di Gerusalemme - come io sono più propenso
a credere - neppure in tal caso sarebbe strano che Paolo pretendesse che Pietro, invece d'un codardo
sotterfugio, dichiarasse quanto era condiviso pure da lui. Egli infatti ne era a conoscenza, sia perché aveva
confrontato il suo col Vangelo di Pietro, sia perché, nella vocazione del centurione Cornelio, Pietro aveva
avuto un avvertimento in proposito, sia infine perché l'aveva veduto a mensa coi pagani prima che
arrivassero ad Antiochia quei Giudei di cui aveva paura. Non nego affatto che Pietro avesse la stessa
convinzione di Paolo; questi perciò non insegnava all'altro cosa dovesse reputarsi vero in quel problema,
quanto piuttosto gli rimproverava la simulazione, per causa della quale i pagani si vedevano costretti
all'osservanza dei riti giudaici. Lo rimproverava inoltre unicamente perché tutta la condotta simulata di
Pietro poteva far credere che fosse vero quanto sostenevano i Giudei, che cioè i convertiti alla fede non
potessero salvarsi senza la circoncisione e senza gli altri riti, che erano prefigurazioni delle realtà future.

Perché fu circonciso Timoteo e non Tito.

2. 12. Per questo motivo dunque Paolo circoncise Timoteo, perché i Giudei e soprattutto i suoi parenti da
parte di madre non avessero l'impressione che i pagani convertiti a Cristo detestassero la circoncisione
come deve detestarsi l'idolatria, mentre la prima era stata comandata da Dio, l'altra invece ispirata da
Satana. Per un altro motivo invece non volle far circoncidere Tito, per non dare un appiglio a coloro i quali
sostenevano per i credenti l'impossibilità di salvarsi senza la circoncisione e, per ingannare i pagani,
mettevano in giro la diceria che anche Paolo avesse la stessa convinzione. Ce lo fa capire egli stesso nel
passo che dice: Ma neppure Tito, che era con me, quantunque greco, fu costretto a farsi circoncidere, per
dare una lezione a certi falsi fratelli intrusi, che s'erano introdotti di nascosto tra noi al fine di spiare la
nostra libertà e di ridurci in schiavitù. A costoro non abbiamo ceduto e non ci siamo piegati nemmeno per
un istante, perché la verità del Vangelo si conservasse integra per voi. Da questo passo appare chiaro che
Paolo intuì l'inganno cui essi miravano e perciò non fece quello che aveva fatto con Timoteo, pur potendolo
fare in virtù della libertà con cui aveva mostrato che quei riti non si dovevano né cercare come necessari
né condannare come sacrileghi.

La verità degli Apostoli e quella dei filosofi e degli avvocati.

2. 13. In questa discussione però occorre naturalmente evitare di chiamare, come fanno i filosofi,
indifferenti oppure intermedie tra il bene e il male certe azioni, che non si possono catalogare né tra le
azioni buone né tra i peccati. E perché? Per non essere costretti ad affermare che l'osservanza dei riti della
Legge non può essere un'azione indifferente, ma che è o buona o cattiva. Poiché se la diremo buona,
saremmo obbligati ad osservarli anche noi; se invece è cattiva, dovremmo credere che gli Apostoli li abbiano
osservati non sinceramente ma fintamente. Io però, per quanto riguarda gli Apostoli, non temerei tanto il
paragone coi filosofi allorché nelle loro dissertazioni affermano qualche verità, quanto piuttosto il paragone
con gli avvocati del Foro, allorché nel difendere le cause dei clienti ricorrono alla menzogna. Ora, se perfino
nella spiegazione della Lettera ai Galati s'è potuto credere conveniente introdurre il paragone tra gli Apostoli
e gli avvocati per confermare la simulazione di Pietro e di Paolo, perché dovrei temere l'accostamento che
tu fai ai filosofi? Questi sono stolti non perché sia falso tutto quel che dicono, ma perché sono false molte
teorie a cui dànno credito e, quando si riscontra che dicono la verità, sono estranei alla grazia di Cristo,
ch'è la verità in persona.

Indifferenza morale dei riti mosaici.

2. 14. E perché non dovrei dire che le prescrizioni degli antichi riti non sono né buone (infatti non veniamo
giustificati da essi che sono solo figure preannuncianti la grazia, dalla quale siamo giustificati) ma neppure

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cattive in quanto furono ordinate da Dio come confacenti a quei tempi e a quelle persone? La mia opinione
è suffragata da un'espressione del Profeta, il quale afferma che Dio diede a quel popolo precetti non buoni.
Forse proprio per questo egli non li chiamò " cattivi ", ma solo " non buoni ", cioè non tali da rendere buoni
gli uomini, oppure non tali per cui, senza di essi, non si potrebbe essere buoni. Vorrei che la tua sincera
benevolenza mi facesse sapere se solo per simulazione un fedele orientale venendo a Roma digiuna in
giorno di sabato, eccetto il sabato della vigilia di Pasqua; se diremo che quest'usanza è cattiva, dovremo
condannare non solo la Chiesa di Roma, sebbene molte altre Chiese vicine o anche un po' distanti, dove
essa si conserva ed è in vigore. Se invece pensiamo ch'è peccato non digiunare il sabato, con quale
temerarietà oseremo condannare tante Chiese orientali e una parte molto maggiore del mondo cristiano?
Saresti contento se dicessimo ch'esiste qualche pratica indifferente, che fosse ammissibile da chi volesse
osservarla non per simulare, ma solo per conformarsi alla legge e alla pratica d'una comunità? Eppure nei
Libri canonici della sacra Scrittura non si trova alcun cenno di simili pratiche comandate ai Cristiani! A più
forte ragione non oserei chiamare peccaminosa una pratica che proprio in forza della fede cristiana non
posso negare essere stata ordinata da Dio; so inoltre, sempre in forza della stessa fede, che la mia
giustificazione non dipende da una simile pratica, ma dalla grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore.

I riti mosaici figura dei sacramenti e della grazia.

2. 15. Dico dunque che la circoncisione e gli altri riti di tal genere furono dati da Dio all'antico popolo
ebraico mediante il Testamento che chiamiamo Antico; essi erano unicamente simboli dei beni futuri che
dovevano essere realizzati da Cristo; dopo l'arrivo di tali beni quelle prescrizioni sono rimaste solo come
documenti che i Cristiani devono leggere per comprendere le profezie che li hanno preceduti e non per
praticarle come se dovessimo aspettare ancora la rivelazione della fede, che quelli annunciavano come
futura. Sebbene però quei riti non dovessero essere imposti ai pagani, non dovevano tuttavia essere
eliminati dalla consuetudine dei Giudei come detestabili e da condannare. Solo in un secondo tempo e
gradualmente, a poco a poco, in seguito all'intensa predicazione della grazia di Cristo, i fedeli avrebbero
capito che veniamo giustificati e salvati dalla grazia e non già da quei riti, figure di beni una volta futuri,
ma ormai avverati e presenti. Così, con la chiamata al Vangelo dei Giudei viventi durante la manifestazione
fisica del Signore e durante i tempi degli Apostoli, sarebbe venuta a cessare definitivamente la funzione di
quelle pratiche rituali figurative; per tenerle ancora in onore sarebbe bastato non scansarle come detestabili
e simili all'idolatria. D'altronde la loro pratica non doveva continuare più oltre, per evitare che si credessero
necessarie nel senso che dall'osservanza di esse dipendesse la salvezza o questa fosse impossibile senza
di esse. Così la pensavano quegli eretici, i quali, volendo essere Giudei e Cristiani allo stesso tempo, non
potevano essere né Giudei né Cristiani. Quantunque io non abbia mai avuto nulla in comune con tale
opinione, ti sei degnato tuttavia di ammonirmi con la più squisita cortesia di starne in guardia. Orbene,
proprio in quell'errore era caduto Pietro, non perché vi consentisse, ma perché cadde nella simulazione per
paura. Ecco perché Paolo poté scrivere, senza dire una bugia diplomatica, d'essersi accorto che non
camminava rettamente secondo la verità del Vangelo e poté dirgli con altrettanta sincerità che obbligava i
pagani a praticare i riti giudaici. A una tale pratica invece Paolo non costringeva nessuno senza finzione
allorché praticava sul serio quegli antichi riti, quando era necessario, per dimostrare che non erano, di per
sé, da condannare. Egli per contro predicava senza stancarsi che la salvezza dei fedeli non dipendeva da
quei riti, ma dalla grazia della fede ch'era stata rivelata; in tal modo non costringeva nessuno a sobbarcarsi
a praticarli come necessari. Io insomma credo che l'apostolo Paolo nell'osservare quelle pratiche agisse
senza finzione; con tutto ciò non permetto a un Giudeo divenuto Cristiano né l'obbligo a praticare sul serio
quei riti, allo stesso modo che neppure tu, per quanto pensi che Paolo agisse con simulazione, obblighi
questo supposto individuo a una simulazione del genere, né gliela permetti.

Il simbolismo dei riti mosaici realizzato nei sacramenti cristiani.

2. 16. Desideri per caso che sostenga anch'io che il nocciolo della questione o, meglio, della tua opinione,
sta in questo: che, una volta venuto il Vangelo di Cristo, i fedeli convertitisi dal Giudaismo farebbero bene
a offrire i sacrifici che offrì Paolo, a far circoncidere i figlioli, a osservare il sabato, a fare quel che fece Paolo
con Timoteo e che facevano tutti i Giudei, purché agiscano con simulazione ed inganno? Se la cosa sta così,
allora noi scivoliamo non già nell'eresia di Ebione e di quelli chiamati comunemente Nazzarei o in qualsiasi
altra vecchia eresia della medesima specie, ma in non so quale altra nuova eresia, tanto più dannosa perché
consisterebbe non tanto nell'errore, quanto nell'intenzione premeditata di ingannare. Può darsi però che,
per giustificarti, tu mi risponda che gli Apostoli sono encomiabili perché in quell'occasione finsero di
praticare quei riti al fine di non scandalizzare i deboli, ch'erano molto numerosi tra i convertiti dal Giudaismo
e ancora non capivano che erano ormai da rigettare, mentre adesso ormai la dottrina della grazia di Cristo
è sicuramente radicata in tante nazioni e confermata in tutte le Chiese cristiane mediante la lettura della
Legge e dei Profeti; che se questi vengono letti in chiesa, lo si fa solo per far comprendere la funzione di
quei riti e non perché vengano praticati; che, se uno volesse praticarli solo per finta, sarebbe un pazzo!

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Perché allora non m'è permesso di dire che l'apostolo Paolo e gli altri Cristiani ortodossi osservarono in
determinate circostanze e senza finzione quei vecchi riti per metterne in risalto il significato, per evitare
che quelle cerimonie piene di simbolismo profetico e già praticate dai loro antenati, ch'erano attaccatissimi
alla religione, venissero considerate dai posteri come sacrileghe e diaboliche? Al sopraggiungere della fede,
già preannunciata dagli antichi riti e rivelata poi dalla morte e dalla risurrezione del Signore, esse avevano
certamente perduta, in certo qual modo, la loro funzione vitale: erano come cadaveri di parenti, che
dovevano anch'essi, per così dire, essere portati alla sepoltura non con simulato onore, ma con religioso
rispetto; non dovevano insomma essere abbandonati all'improvviso e neppure essere gettati in pasto agli
oltraggi dei nemici, come a dei cani arrabbiati. Adesso quindi, se un Cristiano, anche se proveniente dal
Giudaismo, avesse intenzione di praticarli come per il passato, dissotterrando per così dire dei carboni
ormai spenti, non agirebbe più come uno che accompagni o porti religiosamente una salma alla sepoltura,
ma come un sacrilego il quale violi una tomba.

L'opinione espressa da Agostino già in opere precedenti.

2. 17. Ammetto senz'altro che la mia lettera contiene un passo in cui affermo che Paolo s'era adattato a
praticare certi riti sacri dei Giudei quand'era già apostolo di Cristo solo al fine di far capire che non erano
dannosi per quelli che li volevano praticare con le disposizioni d'animo con cui li avevano ricevuti nella
Legge dai loro padri, ma debbo dichiararti pure di non avere aggiunto espressamente la precisazione: "
Solo, beninteso, nei primi tempi in cui fu rivelata la grazia della fede cristiana ". La pratica di quei riti infatti
non poteva essere dannosa in quel tempo. In seguito però, passato un certo periodo, quei riti dovevano
essere abbandonati da tutti i Cristiani, perché fosse possibile distinguere ciò che Dio aveva prescritto al suo
popolo per mezzo di Mosè da ciò che aveva istituito lo spirito immondo nei templi dei demoni. Sono io
quindi che debbo essere incolpato di negligenza per non aver aggiunto quella precisazione, e non già tu
per il tuo rabbuffo. A parte ciò, molto tempo prima che io ricevessi la tua lettera, in un mio scritto contro
Fausto, il manicheo, avevo spiegato, sia pure assai brevemente, quel medesimo passo; lì non avevo
tralasciato quella precisazione. Se la tua Benignità vorrà degnarsi, potrai leggerlo da te stesso; d'altronde,
che quella precisazione io l'abbia dettata precedentemente, te lo potranno garantire - se e quando lo vuoi
- i nostri carissimi fratelli per mezzo dei quali t'invio adesso la presente. Tuttavia riguardo alla mia
convinzione, credi pure a me; parlo davanti a Dio e te lo chiedo per il diritto della carità: non ho mai pensato
che i Cristiani convertiti anche presentemente dal Giudaismo abbiano l'obbligo o esista alcuna scusa che
renda lecito praticare quei vecchi riti con qualsivoglia intenzione o disposizione d'animo. Il mio pensiero su
quel passo di Paolo è stato sempre il medesimo fin da quando ho conosciuto le sue lettere; allo stesso
modo neppure tu pensi che qualcuno possa fingere di praticare quei riti al giorno d'oggi anche se credi che
gli Apostoli li praticassero per finta.

Da approvare prima di Cristo, sono ora da riprovare le prescrizioni mosaiche.

2. 18. Ebbene, tu sostieni la tesi contraria e, nonostante - come scrivi - le proteste di tutti, esprimi
francamente l'opinione che i riti giudaici sono dannosi e letali per i Cristiani e che qualsiasi Cristiano il quale
li ha osservati, provenga egli dal giudaismo o dal paganesimo, è precipitato nel baratro del demonio. Allo
stesso modo confermo anch'io in pieno questa tua dichiarazione, anzi aggiungo che colui il quale ha
osservato quei riti, provenga egli dal giudaismo o dal paganesimo, è precipitato nel baratro del demonio,
l'abbia fatto con convinzione oppure con finzione. Che vuoi di più? Ma come tu fai distinzione tra la
simulazione degli Apostoli e l'applicazione della loro condotta al tempo presente, così io faccio distinzione
tra la condotta sincera tenuta allora dall'apostolo Paolo nel praticare tutti quei riti e l'osservanza dei
medesimi al giorno d'oggi, anche se non sia affatto finta, per il motivo che, se allora essa era approvabile,
adesso è detestabile. E' vero che sta scritto: La Legge e i Profeti arrivano fino a Giovanni e: I Giudei
cercavano di uccidere Cristo perché non solo violava il sabato, ma dichiarava pure d'essere figlio di Dio
facendosi uguale a Dio ed anche: Abbiamo ricevuto grazia su grazia come pure: La Legge è stata data per
mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità è stata procurata da Gesù Cristo; è vero pure che Dio, per mezzo
di Geremia, promise che avrebbe dato un nuovo patto alla casa di Giuda, diverso da quello stretto coi loro
padri; eppure, nonostante tutto questo, non posso credere che il Signore in persona si fosse fatto
circoncidere dai genitori solo per finta! Ammesso pure che, essendo piccino per l'età, non potesse evitare
la circoncisione, non penso tuttavia che agisse con finzione quando al lebbroso - la cui guarigione era
dovuta non già alle prescrizioni date per mezzo di Mosè ma all'ingiunzione di Cristo in persona - egli
disse: Va' ad offrire per te il sacrificio prescritto da Mosè in testimonianza per il popolo. Così non agì
neppure per inganno quando andò alla festa, anzi cercava tanto poco di mettersi in mostra davanti alla
gente, che vi andò di nascosto e non già in modo palese.

Altre prove tratte dalla sacra Scrittura.

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2. 19. E' bensì vero che lo stesso Apostolo affermò: Ecco, proprio io, Paolo, vi dico che, se vi farete
circoncidere, Cristo non vi sarà di alcun giovamento. Ingannò egli dunque Timoteo facendo in modo che
Cristo non gli fosse d'alcun giovamento? O si deve forse pensare che quel rito non gli apportò alcun danno
perché fu solo una simulazione? Paolo però non scrisse né disse: " Se vi farete circoncidere sinceramente
" e neppure: " per finta ", ma senza alcuna eccezione: Se vi farete circoncidere, Cristo non vi sarà d'alcun
giovamento. Ebbene, come tu pretendi far prevalere la tua tesi sottintendendo in questo passo " a meno
che non sia per finta ", così neppure la mia è una pretesa sfacciata, se esigo da te il permesso d'intendere
la frase: Se vi farete circoncidere come indirizzata a coloro che volevano farsi circoncidere credendo di non
potersi salvare con la grazia di Cristo. Insomma chi in quel tempo si faceva circoncidere con questa
disposizione d'animo, con questa volontà e con questa intenzione, non poteva trarre alcun giovamento da
Cristo. Lo dice apertamente pure in un altro passo: Poiché, se la giustificazione si ottiene per mezzo della
Legge, allora Cristo è morto inutilmente. Questa verità è proclamata pure nel passo che mi hai citato tu
stesso: Non avete più nulla da spartire con Cristo voi che cercate la giustificazione per mezzo della Legge;
siete caduti in disgrazia. Paolo dunque condanna quelli che credevano d'ottenere la giustificazione per
mezzo della legge, non quei tali che osservavano questi riti per dare gloria a Dio, dal quale erano stati
prescritti, e comprendevano sia lo scopo per cui erano stati ordinati, cioè quello di preannunciare la realtà
futura, sia il tempo per il quale dovevano durare. A ciò si riferisce pure l'altra affermazione dell'Apostolo: Se
siete guidati dallo spirito, non siete più sotto la Legge. Di qui si conclude, come tu ben capisci, che non ha
lo Spirito Santo chi è sotto la Legge, e non lo ha non solo apparentemente, come - secondo te - la pensavano
i nostri padri, ma effettivamente, come la penso io!

In che senso è colpevole " essere sotto la legge ".

2. 20. Mi pare inoltre un problema importante quello di sapere in che senso l'Apostolo chiama colpa l'essere
" sotto la Legge ". Secondo me, egli, esprimendosi così, non ha di mira la circoncisione o i sacrifici che a
quel tempo venivano compiuti dagli antichi Ebrei e al presente i Cristiani non compiono più, e neppure
pensava ad altre cerimonie di tal genere, ma proprio al precetto espresso dalla Legge con le parole: Non
desiderare. Su ciò siamo d'accordo: i Cristiani debbono certamente osservarlo e la predicazione evangelica
deve metterlo in luce sopra ogni altro. Paolo, insomma, afferma che santa è la Legge e santo e giusto e
buono è il precetto, quindi soggiunge: E' diventata dunque una cosa buona la causa di peccato per me? Per
nulla affatto! Ma è stato il peccato a servirsi del bene per darmi la morte e s'è servito del comandamento
per divenire la quintessenza del peccato. Quanto egli afferma qui, che cioè il peccato, servendosi del
comandamento, è divenuto la quintessenza del peccato, lo esprime anche altrove dicendo: Subentrò poi la
Legge, perché il peccato fosse più grave. Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. In un altro
passo, dopo aver parlato poco prima dei piano divino che giustifica, Paolo, ponendosi per così dire una
domanda, dice: Ma perché allora la Legge? e tosto risponde: Essa fu data in seguito a motivo della
prevaricazione, finché non venisse il Discendente, al quale era stata fatta la promessa. Egli dunque afferma
che si trovano in maniera condannabile sotto la Legge coloro i quali sono resi colpevoli proprio dalla Legge
in quanto non la osservano e, non comprendendo il beneficio della grazia, sono pieni d'orgogliosa arroganza
e presumono d'osservare i comandamenti di Dio come se ciò dipendesse dalle proprie forze. Ora, invece, la
pienezza della Legge è la carità; ma la carità è diffusa nei nostri cuori non da noi stessi, ma dallo Spirito
Santo che ci è stato dato. Per spiegare però a sufficienza questo argomento, sarebbe necessario, forse, un
discorso troppo prolisso, anzi un vero e proprio trattato. Se, insomma, il comandamento della Legge Non
desiderare, qualora la debolezza umana non sia aiutata dalla grazia di Dio, rende colpevole chi è soggetto
ad essa e serve a condannare il prevaricatore, piuttosto che a liberare il peccatore, quanto meno avrebbe
potuto dare la giustificazione alcuno di quei riti prescritti solo per la loro funzione di simboli, quali la
circoncisione e le altre pratiche, che, diffondendosi sempre più la rivelazione della grazia, era stato
necessario abolire? Ma non per questo esse dovevano essere scansate come i sacrilegi diabolici dei pagani,
anche quando era poi cominciata a manifestarsi la grazia, ch'era stata annunciata da quelle figure. Al
contrario tali riti dovevano essere permessi ancora per un po' di tempo, soprattutto ai fedeli provenienti
dal popolo al quale erano stati dati. Ma poi, una volta ch'erano stati, per così dire, portati onorevolmente
alla sepoltura, dovevano essere definitivamente abbandonati dai Cristiani.

Menzogne ufficiose e azioni diplomatiche.

2. 21. Che significa poi, per favore, quella frase: " Non per diplomazia, come pensavano i nostri padri "?
Essa infatti o indica quel ch'io chiamo bugia ufficiosa - che sarebbe come una diplomazia consistente nel
mentire in modo onesto - o non vedo assolutamente cosa possa indicare; a meno che il termine aggiunto
di " diplomazia " faccia in modo che una bugia non sia più bugia! Ma se ciò è assurdo, perché allora non
dici chiaramente che è lecito difendere una bugia ufficiosa? E' forse il termine a farti impressione, dato che
il termine " ufficioso " non è molto usato nei libri ecclesiastici? Eppure non ne ebbe paura il nostro Ambrogio,
che intitolò De Officiis alcuni suoi libri ripieni di utili norme. O forse pensi che se uno mentisce "
ufficiosamente " è da condannare, mentre se lo fa " diplomaticamente " è da approvare? Dimmi, ti prego,

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se mentisce chi pensa così quando sceglie l'una delle due alternative poiché anche a questo proposito c'è
la grande questione se a un galantuomo o, peggio, a un Cristiano sia lecito mentire. Non è stato loro
detto: Il vostro " sì " sia " sì " e il " no " " no ", per non essere condannati? Non sono loro che sentono dire
con fede: Tu manderai in perdizione tutti i menzogneri?

La menzogna diplomatica estranea ai dispensatori del Vangelo.

2. 22. Ma, come dicevo, questa è un'altra questione, e piuttosto importante. In fatto di menzogna, chi la
pensa così, scelga pure la forma che preferisce, purché si creda fermamente e si sostenga questa tesi: gli
autori delle sacre Scritture, e in modo particolare gli autori dei Libri canonici, sono assolutamente esenti da
menzogne; poiché non si può credere che ai dispensatori di Cristo - dei quali è detto: Orbene dagli
amministratori si richiede che ciascuno sia trovato fedele - sia lecito mentire nel dispensare la verità, quasi
che la fedeltà alle cose importanti da loro apprese riguardi solo loro stessi. Lo stesso termine " fede " non
è forse chiamato, in latino, fides dal fatto che si mantiene ciò che si dice? Ebbene, quando si mantiene ciò
che si dice, non c'è alcuna possibilità di mentire. Quel fedele dispensatore, ch'era l'apostolo Paolo, ci dà
perciò senza dubbio prova di veridicità nei suoi scritti, perché dispensatore di verità e non di falsità. Ecco
perché dice la verità quando dice d'essersi accorto che Pietro non procedeva rettamente secondo la verità
del Vangelo e d'esserglisi perciò opposto apertamente, perché obbligava i pagani a osservare i riti giudaici.
Pietro d'altronde accolse religiosamente, con santa e salutare umiltà, l'utile riprensione che Paolo gli aveva
fatta con la franchezza della carità, offrendo ai posteri l'esempio di non prendercela a male quando
eventualmente, deviando dal retto sentiero, fossimo corretti anche da un inferiore; esempio, il suo, più
raro e più santo di quello datoci da Paolo d'avere il coraggio di opporci coraggiosamente ai superiori per
difendere la verità del Vangelo, salva sempre la carità fraterna. Certo: è meglio non scostarsi per nulla dal
retto sentiero, ma è molto più da ammirare e da lodare chi accoglie volentieri la correzione, che non chi
corregge coraggiosamente la deviazione d'un altro. E' quindi lodevole sia la giusta libertà di Paolo sia la
santa umiltà di Pietro, ma era questa, secondo il mio modesto parere, che doveva essere difesa più
energicamente contro le calunnie di Porfirio, anziché offrirgli un'occasione più propizia di denigrare; egli
sarebbe stato più mordace nell'accusare i Cristiani, se avesse potuto tacciarli di falsità o nello scrivere i loro
libri o nel presentare i misteri del loro Dio.

Autori su cui s'appoggia Girolamo.

3. 23. Mi chiedi di presentarti almeno un commentatore, del quale io abbia seguito l'opinione su questo
punto controverso, mentre tu hai fatto il nome di tanti che ti hanno preceduto nell'opinione che sostieni.
Mi chiedi pure di lasciarti libero di sbagliare in compagnia di autori tanto qualificati nel caso che io volessi
criticare il tuo errore. Ti confesso che di tali autori non ne ho letto neppure uno, ma di quattro tra questi
sei o sette tu pure infirmi l'autorità, poiché dici che il Laodiceno, di cui taci il nome, è uscito non molto
tempo fa dalla Chiesa, e chiami vecchio eretico Alessandro e, inoltre, come leggo nei tuoi opuscoli più
recenti, Origene e Didimo sono da te criticati piuttosto aspramente né su questioni di poca importanza
sebbene ad Origene tu abbia dato in precedenza lodi eccessive. Penso quindi che neppure tu ti rassegneresti
a sbagliare con questi tali, anche se ti sei espresso così perché credi che sul tal punto essi non abbiano
errato. Infatti chi vorrebbe sbagliare in compagnia di chicchessia? Ne restano dunque tre: Eusebio di Emesa,
Teodoro d'Eraclea e Giovanni, da te ricordato poco dopo, che fino a qualche tempo fa ha governato come
vescovo la Chiesa di Costantinopoli.

Su quali Commentatori di S. Paolo si basa Agostino.

3. 24. D'altronde, se tu volessi sapere da me o ricordarti da te stesso quale fosse l'opinione del nostro
Ambrogio e parimenti del nostro Cipriano su questo punto, potresti renderti conto che neppure a me sono
mancati autori da seguire nella tesi che sostengo. Come però ho affermato poco prima, questa mia
dipendenza la riservo unicamente ai Libri canonici della sacra Scrittura, che io seguo ispirandomi a questa
norma: non dubito assolutamente che tali autori abbiano commesso alcun errore e che nulla abbiano scritto
allo scopo d'ingannare. Dovrei dunque cercare un terzo autore in modo da contrapporne anch'io ai tuoi tre?
Penso che non mi sarebbe difficile trovarlo, se le mie letture fossero state più numerose. Comunque, al
posto di tutti questi, anzi al di sopra di tutti questi, mi viene in soccorso l'apostolo Paolo in persona; in lui
trovo rifugio, a lui mi appello contro tutti i commentatori dei suoi scritti che la pensano diversamente; a lui
mi rivolgo direttamente, lo interpello e lo interrogo per sapere se quanto scrisse ai Galati, d'essersi cioè
accorto che Pietro non procedeva rettamente secondo la verità del Vangelo e d'essersi opposto a lui
apertamente, perché con la sua condotta simulata obbligava i pagani a seguire i riti giudaici, lo scrisse in
modo veridico oppure se mentì per non so quale diplomatica finzione. E che sento rispondermi? Poco prima,
proprio all'inizio del racconto che sta facendo, mi grida in tono di sacro giuramento: Quanto vi scrivo - Dio
m'è testimonio - non è una menzogna.

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Più che ai commentatori Agostino crede a Paolo stesso.

3. 25. Mi perdonino tutti quelli che hanno un l'opinione diversa, ma per conto mio preferisco credere a un
Apostolo sì eminente quando in una sua lettera fa un giuramento per accreditarla, piuttosto che a un
esegeta, dotto quanto si voglia, che commenta una lettera non sua. E neppure temo che mi si dica che
difendo Paolo negando che simulasse l'errore dei Giudei e affermando che fosse caduto realmente nel loro
errore. Non poteva infatti neppure simulare quell'errore lui che con franchezza d'apostolo, conveniente a
quel tempo, col praticarli quando era necessario, non faceva che mettere in risalto quei vecchi riti, istituiti
non dall'astuzia di Satana, ma dalla Provvidenza di Dio, perché fossero figure preannunciatrici delle realtà
future. E neppure era caduto in quell'errore dei Giudei lui che non solo sapeva, ma predicava pure, senza
stancarsi e con energia, che nell'errore erano quanti pensavano che quei riti dovessero imporsi anche ai
pagani o li giudicavano necessari alla giustificazione dei fedeli, a qualunque stirpe essi appartenessero.

Prudenza e sincerità di Paolo.

3. 26. Dicevo pure che Paolo si fece giudeo coi Giudei e pagano coi pagani, non per agire con l'astuzia del
bugiardo, ma per l'intimo sentimento che lo portava a compatire. Ho però l'impressione che tu non abbia
considerato attentamente il modo come mi sono espresso o forse sono stato io piuttosto a non spiegarmi
con sufficiente chiarezza. In realtà io mi sono espresso non già nel senso che Paolo abbia praticato quei riti
solo per finta e per compassione, ma in quest'altro senso: come non simulò nel conformarsi ad alcune
usanze giudaiche, così non simulò neppure nel conformarsi ad alcune usanze pagane nei casi che tu pure
hai ricordati; a questo proposito debbo confessarti, non senza gratitudine, che mi sei venuto in aiuto. Ecco:
in una mia lettera t'avevo chiesto di spiegarmi come poteva intendersi che Paolo si fosse fatto come un
giudeo coi Giudei per aver osservato solo fintamente i riti dei Giudei, dato che poi si fece pure pagano coi
pagani senza però praticare neppure per finta i sacrifici dei pagani. Tu m'hai risposto che si fece pagano
coi pagani perché ammise nella fede di Cristo gl'incirconcisi e permise pure d'usare indifferentemente dei
cibi condannati dai Giudei. Orbene, io chiedo: agì forse con simulazione anche in questo caso? Poiché, se
tale ipotesi è quanto mai assurda e falsa, le cose, per conseguenza, non stanno diversamente per quei riti
coi quali si conformava alle usanze dei Giudei con prudente franchezza, non costretto cioè come uno schiavo
o, ciò che sarebbe più indegno, usando una diplomazia d'inganno anziché di lealtà.

Zelo apostolico di Paolo.

3. 27. Infatti per tutti i fedeli e per tutti quelli che hanno conosciuto la verità - lo attesta egli stesso, salvo
che non inganni pure in questo punto - ogni creatura di Dio è buona, e niente è da disprezzare se preso
con rendimento di grazie. Per lo stesso Paolo dunque, non solo in quanto uomo, ma pure come dispensatore
fedelissimo, che non solo conosceva, ma insegnava pure la verità, ogni creatura di Dio - anche in fatto di
cibi - era buona, non simulatamente, ma realmente. E perché mai, allora, mentre non praticò neppure per
finta alcuno dei riti religiosi e delle cerimonie dei pagani - mentre al contrario il suo pensiero e il suo
insegnamento sui cibi e sulla circoncisione rispondevano a verità - perché mai, ripeto, si fece come un
pagano tra i pagani e non avrebbe potuto farsi giudeo tra i Giudei, se non fingendo i riti religiosi dei Giudei?
Perché mai riserbò a un innesto d'ulivo selvatico il ministero dell'autentica fede, mentre sui rami naturali
cresciuti dall'interno dell'albero stesso e non aggiunti dall'esterno avrebbe dovuto stendere un non so qual
velo di diplomatica simulazione? Perché mai, fattosi come un pagano tra i pagani, insegna ciò che pensa e
agisce come pensa, mentre, fattosi come un giudeo fra i Giudei, una cosa ha nel cuore e un'altra ne esprime
a parole, a fatti e per iscritto? Inammissibile una simile interpretazione! La realtà è tutt'altra: sia verso gli
uni che verso gli altri egli sentiva un debito di carità sgorgante da un cuore puro, da una coscienza retta e
da una fede senza simulazione. Ecco in qual modo poté farsi tutto a tutti per salvare tutti, non con la
scaltrezza di chi mentisce, ma con l'affetto di chi compatisce, non facendo cioè finta di commettere tutti i
mali degli uomini, ma procurando con premura una medicina di misericordia ai mali di tutti gli altri come
se quei mali fossero suoi.

Paolo agiva spinto dal vero amore.

3. 28. Quando perciò non rifiutava di praticare pure lui i riti sacri del Vecchio Testamento, non ingannava
mosso dall'amore misericordioso; il suo non era affatto un inganno; egli al contrario si comportava in quel
modo al fine di mettere in risalto la santità di quei riti - ch'erano stati dati e ordinati dal Signore Iddio per
un tempo determinato - e li distingueva dai riti sacrileghi dei pagani. Paolo inoltre si faceva giudeo coi
Giudei non con la scaltrezza di chi mentisce, ma con l'amore di chi compatisce; e quando lo faceva? Quando
voleva liberarli dall'errore per cui si rifiutavano di credere in Cristo o pensavano di potersi purificare dai
loro peccati e ottenere la salvezza per mezzo dei sacrifici compiuti dai loro sacerdoti o con l'osservanza
delle antiche cerimonie: e lo faceva come se lui stesso si trovasse prigioniero di quell'errore. In tal modo

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egli amava davvero il prossimo come se stesso e faceva agli altri quel che avrebbe voluto fosse fatto a lui,
se si fosse trovato nella stessa necessità. Proprio dopo avere inculcato questo precetto, il Signore aveva
aggiunto: Poiché questa è tutta la Legge e i Profeti.

Carità nella verità.

3. 29. Questo amore di compassione Paolo lo comanda nella stessa lettera ai Galati, quando dice: Anche
se uno fosse sorpreso in qualche mancanza, voi che siete spirituali correggetelo con spirito di dolcezza,
badando bene a te stesso perché tu pure non sia tentato. Lo vedi dunque se non ha detto: " Diventa come
lui per salvarlo "? Ma non certo facendo finta di commettere lo stesso peccato o facendogli credere
falsamente d'averlo commesso, ma per capire - nel considerare la colpa dell'altro - che cosa potrebbe
accadere a uno. In tal modo si può misericordiosamente venire in aiuto d'un altro, come si vorrebbe essere
aiutati dagli altri, usando cioè non la scaltrezza di chi mentisce, ma l'amore di chi compatisce. Ecco in qual
modo Paolo, per salvare tutti, si fece tutto a tutti col giudeo, col pagano, con qualunque altro che si trovasse
in qualche errore o peccato, non fingendo quello che non era, ma usando compassione, perché anch'egli si
sarebbe potuto trovare in quella condizione, considerando che anch'egli era un uomo.

Espressioni di affetto di Girolamo per Agostino.

4. 30. Se non ti dispiace, considera, per favore, te stesso solo per un poco; te stesso, dico, nei miei
confronti. Ricorda o rileggi - se ancora ne conservi la copia - le parole della tua lettera più breve, di quella
cioè fattami recapitare per mezzo di Cipriano, nostro fratello e ora pure mio collega; considera con quanto
sincero e fraterno affetto pieno di carità, dopo avermi rimproverato per qualche torto commesso verso la
tua persona, soggiungevi: " Ciò significa offendere l'amicizia, violarne le leggi. Cerchiamo di non dar
l'impressione di stare a bisticciare come dei ragazzi, fornendo così motivo alle chiacchiere dei nostri
rispettivi fautori o detrattori ". Ho la sensazione che queste parole le hai dettate non solo con l'anima, ma
pure mosso dalla bontà, con l'intenzione di rendermi un servizio. Aggiungi infine un'espressione che si
sarebbe capita anche se fosse rimasta sottintesa: " Ti scrivo ciò - dici - perché desidero nutrire per te un
affetto veramente schietto e cristiano e non coltivare nell'animo sentimenti diversi da quelli ch'esprimo con
le labbra ". O uomo santo! Anch'io ti amo (Dio mi vede nell'anima) con sincero affetto. I sentimenti che hai
scritto a chiare note e che non dubito tu abbia voluto esternarmi nella tua lettera, sono gli stessi che
l'apostolo Paolo - ne sono convinto - ha manifestato certamente non per una persona particolare, ma per i
Giudei, per i Greci, per tutti i pagani, suoi figli, da lui generati nel Vangelo, che continuava a generare
soffrendo come una madre che dà alla luce la sua creatura; penso altresì che tali sentimenti li abbia espressi
pure per tante migliaia di fedeli Cristiani che sarebbero venuti in seguito. Per tutti questi egli scrisse quella
lettera, affinché ritenessero bene in mente i suoi ammonimenti, senza provare nel suo animo sentimenti
per nulla diversi da quelli ch'esprimevano le sue labbra.

Sincerità e veridicità, basi dell'amicizia.

4. 31. Sono certo che tu pure, come avrei fatto io stesso, hai agito non già con la scaltrezza di chi mentisce,
ma con l'affetto di chi compatisce, quando hai pensato di non lasciarmi nella colpa in cui, secondo te, io
ero caduto, come non avresti voluto esserci lasciato nemmeno tu, se vi fossi caduto tu stesso. Mentre
perciò ti esprimo la mia gratitudine per la benevolenza dimostratami, ti prego pure di non adirarti con me,
se ti ho messo al corrente della cattiva impressione che mi hanno suscitato alcune idee espresse in certi
tuoi scritti. Ti spiego: vorrei che tutti agissero con me allo stesso modo che ho agito io con te, in modo cioè
che qualunque cosa fosse, a loro modo di vedere, riprovevole nei miei scritti, non se la tenessero nascosta
malignamente in cuore né la criticassero parlando con altri, senza farne cenno a me; poiché sono senz'altro
convinto che proprio così si offende l'amicizia e si violano le norme dei buoni rapporti tra due persone. Non
so infatti come si possano considerare amicizie cristiane quelle, nelle quali si dimostra più valido il proverbio
popolare che dice: La condiscendenza procura amici, la sincerità genera odio anziché il detto
dell'Ecclesiastico: Sono indizio di maggior fedeltà le ferite di chi ti vuol bene, che i falsi baci di chi ti vuol
male.

Come mai la lettera di Agostino è caduta in mani estranee.

4. 32. Ebbene, ai nostri cari amici, che seguono con grande e sincero interesse i nostri lavori, cerchiamo
piuttosto di far capire con la maggior premura possibile - e lo sappiano - che pure tra le persone più care
può avvenire che, nel discutere insieme le nostre opinioni su qualche argomento, si manifestino delle
disparità di vedute senza tuttavia che ne soffra la carità, anzi senza che la sincerità, uno dei requisiti
dell'amicizia, generi odio sia quando è vera l'opinione opposta, sia quando un'altra opinione venga esposta
(qualunque valore essa abbia) con sincerità d'animo senza nascondere nella mente il contrario di quello

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che si esprime con le labbra. Pertanto i nostri fratelli, che vivono con te e che tu attesti essere " vasi " di
Cristo, si convincano di ciò: non è dipeso per nulla dalla mia volontà che la mia lettera sia capitata nelle
mani di molti altri prima di giungere nelle tue essendone tu il destinatario e di ciò sono veramente
costernato. Sarebbe troppo lungo e, se non m'inganno, anche superfluo raccontare come ciò sia potuto
accadere, poiché basterebbe credere, seppure mi si dà un po' di credito, che il fatto è accaduto senza la
minima intenzione che si suppone; il disguido è avvenuto in modo del tutto estraneo alla mia volontà o
disposizione o complicità, anzi perfino alla mia immaginazione. Se poi non si crede quanto affermo al
cospetto di Dio, non so più cosa fare. Per parte mia, comunque, non penso minimamente che siano essi a
insinuare malignamente tali sospetti alla tua Santità per fomentare inimicizia tra noi due - la misericordia
del Signore nostro Dio la tenga lontana da noi! - ma, anche senza intenzione di nuocere, è facile sospettare
in un altro dei vizi propri dell'umana natura! E' giusto ad ogni modo ch'io la pensi così sul conto di essi, se
sono " vasi " di Cristo destinati a usi non ignobili, ma nobili, disposti da Dio nella sua grande casa per ogni
opera buona. Se poi, anche dopo questa mia dichiarazione, ammesso pure che la verranno a conoscere,
volessero continuare a fare come prima, tu pure comprendi quanto agirebbero scorrettamente.

Agostino non ha voluto offendere Girolamo.

4. 33. Riguardo a quanto ti scrissi, di non avere cioè inviato a Roma alcuno scritto contro di te, è vero. Te
lo scrissi, perché non potevo identificare il termine " libro " con quello di " lettera " e pensavo di conseguenza
che tu avessi sentito non so quali chiacchiere non rispondenti affatto alla realtà; tanto più che quella lettera
l'avevo mandata non già a Roma, sebbene a te né pensavo che fosse contro di te, sapendo d'averla scritta
con la sincerità propria dell'amicizia, sia per darti un'ammonizione sia per ricevere una correzione da te.
Orbene, a parte le persone che convivono con te, ti scongiuro, in nome della grazia da cui siamo stati
redenti; non pensare che tutte le buone doti a te concesse dalla bontà del Signore io le abbia ricordate
nella mia lettera per prenderti nei lacci dell'adulazione. Se però t'ho fatto qualche torto, perdonami.
Riguardo alla leggenda di non so quale poeta, che t'avevo menzionato più da sventato che per darmi arie
di letterato, non applicarla a te più di quanto intendevo dire. Avevo soggiunto subito dopo che dicevo così
non perché tu recuperassi la vista spirituale, dicevo anzi: " Sono ben lontano dal pensare che tu l'abbia
perduta, ma perché faccia attenzione a conservarla sana e vigilante ". Pensavo insomma di accennare a
quella leggenda solo per via della "palinodia" [ritrattazione] che dovremmo cantare come quel poeta,
qualora avessimo scritto qualcosa da distruggere successivamente con un altro scritto; non perché
attribuissi o temessi per il tuo spirito la cecità di Stesicoro! E' proprio di questo che ti voglio pregare: non
aver paura di correggermi quando t'accorgi che ne avessi bisogno. Sebbene, infatti, a causa dei diversi
titoli delle dignità ecclesiastiche, ormai introdotti nell'usanza della Chiesa, l'episcopato sia un grado
maggiore del presbiterato, è pure vero tuttavia che, sotto molti aspetti, Agostino è inferiore a Girolamo,
come è pur vero, d'altra parte, che una correzione fatta da uno qualsiasi, anche inferiore, non si deve né
schivare né disdegnare!

Ortodossia e libertà d'esegesi.

5. 34. Riguardo poi alla tua traduzione, mi hai ormai convinto dell'utilità che ti sei proposto di raggiungere
nel tradurre le Sacre Scritture dal testo ebraico, ch'era quello di mettere in risalto le parole saltate o alterate
dai Giudei. Ti chiedo tuttavia d'indicarmi di quali Giudei si tratta. Sono forse quelli che avevano fatto la
versione prima della venuta del Signore? In tal caso chi sono stati o chi di essi è stato? O sono stati forse
solo quelli della generazione posteriore, che si può pensare abbiano tolto o alterato qualche passo nei
manoscritti greci allo scopo di non vedersi confutati senza scampo da quelle prove riguardanti la verità
della fede cristiana? Non riesco a immaginare per qual motivo avrebbero dovuto fare una simile cosa i
traduttori della generazione precedente! Mandami inoltre la tua versione dei Settanta; non sapevo ancora
che tu l'avessi già pubblicata. Desidero pure leggere il tuo libro "il metodo ideale per tradurre ", a cui tu
stesso accennavi. Vorrei poi sapere un'altra cosa: com'è possibile a un traduttore mettere d'accordo le sue
conoscenze delle lingue originali con le opinioni congetturali degli espositori sistematici delle Scritture. E'
infatti inevitabile che costoro, anche se tutti professano la retta e unica fede, tirino fuori opinioni diverse,
data l'oscurità di molti passi, sebbene tale varietà d'opinioni non sia in contrasto con l'unità della fede; così
pure uno stesso commentatore, pur restando nell'ambito della medesima fede, può dare spiegazioni diverse
d'un identico passo, cosa questa consentita dalla stessa oscurità del testo.

Preoccupazioni per il testo dei LXX.

5. 35. Desidero inoltre la versione del testo dei Settanta, allo scopo di sbarazzarmi, per quanto è possibile,
di tutte le traduzioni difettose dei Latini, chiunque siano coloro che hanno tentato quest'impresa. Quanti
poi pensano ch'io sia geloso dei tuoi utili lavori, capiscano una buona volta (se pur sarà possibile) perché
non voglio che venga letta nelle chiese la tua versione dall'ebraico: non voglio ch'essa venga introdotta
come una novità contro l'autorità dei Settanta e si vengano in tal modo a turbare con un grave scandalo i

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fedeli Cristiani. Le loro orecchie e la loro mente sono infatti abituate a sentire quella versione già approvata
dagli Apostoli. Ecco anche perché preferirei che quel virgulto di cui si parla in Giona 56, anche se il termine
ebraico non corrisponde né ad " edera " né a " zucca " o non so cos'altro che si tiene diritto sul suo stelo
senza bisogno d'appoggiarsi ad altro sostegno, preferirei, ripeto, che in tutte le versioni latine si leggesse
" zucca". Poiché penso che non senza motivo i Settanta abbiano usato questo termine, ma perché si trattava
di qualcosa di simile.

La vera carità è sincera.

5. 36. Penso d'aver dato una risposta esauriente, anzi più che esauriente alle tue lettere, due delle quali
recapitatemi da Cipriano e una da Fermo. Fammi sapere in una tua risposta che cosa te ne pare perché sia
d'insegnamento sia a me che ad altri. Io poi da parte mia starò più attento, con l'aiuto di Dio, affinché la
lettera che ti sto scrivendo arrivi a te prima che ad altre persone, dalle quali poi potrebbe esser fatta
circolare in un raggio troppo largo. T'assicuro che nemmeno io vorrei che accadesse anche a me, per le
lettere che tu mi scrivi, quanto è accaduto delle mie che t'ho scritto e di cui hai avuto pienamente ragione
di lamentarti con me. Vorrei comunque che nelle nostre relazioni non ci accontentassimo soltanto della
carità ma cercassimo pure la franchezza dell'amicizia; tu da parte tua e io da parte mia non dobbiamo
tacerci quello che nelle nostre lettere può causarci turbamento, ma facciamolo con l'intenzione ispirata
dall'amore fraterno, che non dispiace agli occhi di Dio. Se però tu pensi che tra noi ciò non possa avverarsi
senza che venga offeso con grave danno il Suo amore, lasciamo andare. La carità che vorrei mi stringesse
a te è certamente di grado superiore, ma è meglio la carità di grado inferiore piuttosto che non averne per
nulla!

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Sommario
LETTERA 28 ............................................................................................................ 1
LETTERA 40 ............................................................................................................ 4
LETTERA 71 ............................................................................................................ 7
LETTERA 72 ............................................................................................................ 9
LETTERA 75 .......................................................................................................... 11
LETTERA 81 .......................................................................................................... 20
LETTERA 82 .......................................................................................................... 21

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