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Corso di storia della storiografia filosofica

Prof. F. Lomonaco

Integrazione con Slide

Prima lezione

27/04

La teoresi fondamentale di Piovani è una critica dell’universalismo assoluto e di una impostazione


che lui definisce giusnaturalistica, cioè una critica molto diretta e completa al diritto naturale antico
e moderno perché all’universale classico e moderno oppone sul piano teorico la pluralità delle
forme storiche.

Questo tema dell’opposizione all’universalismo si colloca dentro i suoi primi interessi legati al
diritto. Piovani nasce come filosofo del diritto, è assistente prima di diventare docente di filosofia
del diritto a Napoli e guarda già in modo molto originale alle formazioni storico-giuridiche perché il
termine per lui chiave è già questo delle formazioni, cioè il filosofo del diritto secondo Piovani
guarda alle idee così come esse si sono istituzionalmente incorporate, questa è la sua convinzione di
base. Quindi essendo anche letterato molto esperto, legge i testi del ‘900, Proust e gli autori
francesi, coltiva anche interessi per la linguistica e ha uno spiccato senso del linguaggio, il suo
primo insegnamento sta in questa dimensione estremamente significativa nell’uso delle parole,
nell’uso del linguaggio.

Insiste molto su questo tema della formazione e insiste molto sulla radice tedesca del termine
“bildung”, che significa appunto formazione, educazione, la radice di questa parola è “BID” ossia
idea.

Piovani insiste molto su questa connessione tra la forma e l’azione. È un filosofo del diritto molto
originale che gioca sul linguaggio, che gioca su queste espressioni e che rifiuta un modello
universale astratto di diritto; quindi, il diritto naturale che possa valere per tutti gli uomini in senso
universale è rifiutato e questo è il primo approccio ad una consapevolezza dello studio della
pluralità delle forme storiche. Quindi si abbandonano gli universali astratti, si abbandona la logica
astratta perché la logica moderna è la logica dell’universale concreto. Da questo punto di vista, è
importante Vico perché con Vico si smonta l’universale, sia di carattere aristotelico sia di carattere
cartesiano, e nasce quell’universale concreto. Perché il rifiuto del diritto naturale? Perché il diritto
naturale, pensando alle sue maggiori espressioni, da un lato Hobbes, dall’altro boh, il diritto
naturale secondo Piovani includeva una visione cosmologica, universalistica, in cui l’uomo era una
parte subordinata, invece la svolta secondo Piovani del moderno sta nella centralità dell’umano e
del linguaggio, quando questa centralità si consolida, viene a cadere la concezione cosmologica e
universalistica del mondo. E quindi questo lo vedremo proprio soffermandoci su un testo che lui
scrive nel 1961, dedicato proprio al giusnaturalismo e all’etica moderna, cioè non si può capire
l’etica moderna se non si capisce la crisi del modello giusnaturalista. Questa è per noi una tappa
importante per capire come Piovani arriva alla filosofia della morale, senza questa tappa non si
comprende così come non si comprende il suo approccio all’etica senza riconoscere alcuni interessi
che vanno in direzione della storicità, quindi è un pensatore e un filosofo del diritto che proprio
perché guarda alle formazioni e proprio perché condivide e insiste su un processo di relazione tra
l’idea e l’azione, l’approccio all’etica non può mancare di sensibilità nei confronti della storia. La
svolta nel moderno non a  caso è l’umanesimo, punto di riferimento importante perché detta il
nuovo ordine della coscienza che abbandona il vecchio personalismo di carattere ontologico e
quindi chiude le relazioni con un certo tomismo, e invece rivaluta alcune figure della antichità, in
modo particolare il socratismo, quindi questo legame forte con il modello socratico e con il modello
agostiniano, cioè con tutti quei pensatori che guardano con particolare interesse alle prerogative e al
significato della individualità.

Quindi l’umanesimo apre a questi modelli antichi, a scorate e ad agostino, perché ha un senso
dell’individuale, e per questo filosofo che guarda alle formazioni, quindi alle forme in azione,
questo tema della agostinismo e del socratismo sono fondamentali e secondo Piovani aprono al
moderno giungendo  fino ad un grande autore della modernità che è Montaigne, le quali teorie
rompono con lo schema classico della filosofia dogmatica e Piovani dirà “ il pensiero moderno da
cosmologico diventa un pensiero umanologico”, il pensiero moderno è un pensiero di carattere
umanologico. Naturalmente è chiara l’impostazione che nettamente distingue il mondo antico, il
mondo della natura, della sostanza naturale, Cassirer sottolinea la centralità della “funzione” , il
mondo nasce quando passiamo dalla sostanza alla funzione, cioè quando passiamo da una
concezione del mondo di carattere sostanzialistico ad una concezione che invece è funzionalistica,
quindi il linguaggio non è più semplicemente copia, ,Mimesis, dell’essenza ma il linguaggio fonda
la realtà, la crea, la inventa, l’invenzione del reale è affidata al linguaggio e ai simboli.
Piovani si sfila in questa posizione, la sua teoresi generale è convinta che il nuovo filosofare è
impostato ed è interessato a comprendere l’individuale evitando sia il cattivo universale cioè quello
astratto, sia il particolare singolare, l’individuale non è né l’universale astratto né l’universale
singolare; quindi, bisogna capire bene cosa è l’individuale. Perché l’individuale non è il particolare?
Perché si tratta di cogliere anche nell’istanza individuale un’esigenza fondamentale, cioè trovare la
regola e la norma, perché senza questa dimensione normativa non si dà la scienza che richiede un
ordine, una costante.

Non basta l’universale astratto così come non basta il particolarismo di una soggettività, di una
individualità senza relazioni; quindi, se voglio individuare una norma ho bisogno di concepire che il
particolare individuale non sia singolare, non sia isolato, non sia irrelato, ma sia in relazione.

Tema fondamentale che alimenta tutta la sua filosofia morale, così l’etica si traduce in realtà
secondo Piovani.

Quello che andrà a teorizzare in principi della filosofia morale, sarà una morale e un’etica
storicistica come fenomenologia degli ideali dell’uomo, un’etica e una morale storicista che si
avvalgono della grande lezione moderna di Kant che sarà uno dei grandi autori di Piovani, però la
ricerca kantiana dell’universale deve incontrare la storicità delle esperienze della vita.

Da questo punto di vista bisogna riconoscere che una lezione gli sia venuta dalla tradizione
dell’idealismo sia tedesco che italiano, perché Kant è alle origini dell’idealismo occidentale e in
modo particolare di quello italiano. Piovani scriverà anche un saggio su Gentile, un saggio critico su
Giovanni Gentile e su un certo idealismo italiano che sfocia poi nello storicismo assoluto, la critica
poi sarà rivolta alla filosofia di Gentile, ma impegnerà in parte anche la polemica con Croce?

Perché il neoidealismo italiano ha dato una certa interpretazione di Kant che va in un formalismo
che chiude l’individualità, che la costringe nei limiti gnoseologici dell’io penso nelle categorie della
ragion pratica, la storia di Kant è una storia viziata da questo senso dell’universale, quindi non è
ancora maturo questo idealismo a mettersi in relazione con le esperienze concrete della vita, il
neoidealismo riprenderebbe questo schema e sarebbe secondo Piovani molto poco fruttuoso dal
punto di vista teorico. Il primo Piovani filosofo del diritto guarda soprattutto alle dimensioni del
diritto in relazione alle individualità che agiscono, quindi il diritto è considerato un attività, un
dinamico farsi che è innanzitutto esperienza e non concetto, prima di essere concetto è esperienza,
se è esperienza il diritto non può rinunciare alle relazioni fondamentali con il linguaggio da un lato
e la storicità dall’altro, sia il linguaggio che la storicità si traducono in istituzioni e quindi il filosofo
del diritto che esamina queste istituzioni è legato ai linguisti che frequenta, come Devoto noto
autore del vocabolario della lingua italiana, hanno parlato linguisti suoi contemporanei di civiltà, di
parole e di ricerca di umanità. Quindi il problema di Piovani è di non rinunciare all’universale, ma
di parlare di universalità interiore, una ricognizione dell’individuale e noi dovremmo provare ad
indicare quali sono le tappe fondamentali di questa ricognizione dell’individuale.

Il primo scritto è un testo del 1949 che si intitola “normatività e società”, questo titolo è già
significativo dello stile piovanese, non parla di norma, ma di normatività perché c’è questo interesse
per la dimensione dinamica di questi concetti, i concetti della filosofia del diritto devono essere
dinamici perché la norma non è mai qualcosa di trascendente e di assoluto. Il tema dinamico della
normatività si collega al luogo che è il fulcro della dimensione dinamica cioè la società, lo stare
insieme, lo stare in relazione, è una congiunzione teoreticamente molto significativa per Piovani
perché la norma che non è universale e trascendente, è normatività cioè norma attiva e dinamica in
relazione alla società, cioè la società è il luogo in cui gli individui si danno, ma non si danno mai
irrelati e separati, ma sono sempre individui in relazione. Allora questo testo scritto nel ‘49, dopo
aver scritto un piccolo saggio dedicato al Cretone del 1947, un famoso dialogo in cui non a caso il
protagonista è Socrate, è un dialogo dedicato alla giustizia, quindi il filosofo del diritto che si
occupa di questo tema filosofico.

Normatività e società  è contemporaneo ad un altro saggio il cui titolo è molto emblematico di


questa posizione Piovaniana che sta provando a delineare, “ La conclusione del solipsismo”, è
l’avvio del moderno, il moderno nasce quando si chiude l’età del solipsismo, individualità intesa
come particolarità chiusa in se, l’individualità moderna invece è aperta, non è solipsistica, non è
chiusa in se, non è solitaria, ma è un individualità tra altre individualità, quindi cercherà di capire
qual è questa dimensione sociale. La normatività, la questione dell’azione, il carattere etico della
vita, che è vita di relazione e comunicazione, questo è un primo tema di fondo di quest’opera, che
ha un bersaglio polemico molto preciso contro ogni posizione esclusivamente volontaristica,
posizione che Piovani collega ad un atteggiamento dell’individuale particolare che nel mondo
contemporaneo poggia soltanto sulla volontà irrelata incapace di farsi norma, diventa debole,
incerta, incostante nella sua empiricità, quindi è una volontà empirica chiusa in se stessa.

Questa dimensione che l’uomo del ‘900 non può assolutamente condividere, a pagina 86-87 di
questo testo scrive: L’uomo del ‘900 non potrà mai ridurre il reale all’immediato, al non mediato, al
volere, perché qualsiasi atto umano mentale o pratico è attuabile solo se riferito a qualcosa di
diverso dall’atto medesimo, questo qualcosa dovrà sempre misurare l’atto prima che esso si attui,
dovrà sempre sussistere come norma regolante qualunque tipo di azione”, polemica molto diretta
nei confronti dell’attualismo, la realtà non è atto ma è qualcosa che interviene e che misura l’atto
prima che esso si attui, quindi ridurre tutta la realtà all’atto significa ridurre ogni misura ad una
volontà, ma la volontà è un qualcosa di immediato e questo qualcosa di immediato l’uomo del ‘900
non lo conosce, l’uomo del ‘900 conosce la mediazione, quindi nella mediazione e per la
mediazione serve una misura per comprendere l’atto, quindi prima dell’atto c’è questa dimensione
di attenzione del normativo, il normativo è ciò che media, ciò che misura. Non singolarismo
egoistico, non l’azione immediata, non l’assolutizzazione di principi e sistemi trascendenti, ma la
comunicazione tra uomini.

Per quanto riguarda l’opera su cui ci soffermeremo Principi di una filosofia morale non DELLA
filosofia morale, non saranno i principi assoluti della filosofia morale, ma saranno i principi di una
filosofia morale.

Il capitolo I del testo Normatività e società è legato a questo aspetto del significato di normatività e
all’altro tema fondamentale di razionalità della norma, entra in gioco non la volontarizzazione, ma
la ragione, l’uomo contemporaneo è l’uomo moderno che conosce la norma, ma la conosce come
ragione, principio di normatività.

La volontà che vale non è quella dei singoli, ma è quella che si manifesta attraverso questa ragione
normativa e questo consente anche di pensare ad una radice razionalista dell’etica, perché l’etica è
l’etica dell’individualità in relazione, la norma che misura queste relazioni non è nulla di
trascendente, non si sovrappone al mondo dell’esperienza, ma la misura, la norma per misurare
questo mondo dell’esperienza diventa ed è ragione, diventa una misura universale, ma non astratto,
perché fa riferimento all’esperienza ed ogni concreta oggettivazione dell’azione individuale si
riferisce a questa norma.

Quindi non c’è più un mondo degli enti fissi, non c’è più una concezione cosmologica del reale, in
cui ogni ente ha una sua posizione predefinita e stabilita, ma c’è una dimensione umanologica, il
centro è il mondo dell’uomo, e questo giustifica che non si diano delle oggettività, degli oggetti da
misurare, ma si diano le oggettivazioni, le rappresentazioni, le proiezioni, l’oggettivazione
dell’azione, le azioni individuali non restano chiuse in se stesse, non c’è nessun solipsismo, sono
tutte in relazione, però queste relazioni si traducono in istituzioni, in comportamenti, ad es. gli
insegnamenti sono non semplicemente dei momenti formali, lo sono anche, ma lo sono in quanto
oggettivazione delle azioni didattiche che intraprendiamo.

Quando deve esordire Piovani in questo testo a chiarire il senso della normatività e della misura
della norma, lo fa in un brano iniziale a pag.123, quando dà la definizione di normatività, scrive:
“In ogni azione di ogni pensiero, l’individuo come la collettività ha bisogno di riferirsi, deve
riferirsi a una misura dell’azione e del pensiero senza il riferimento ad una misura gli individui
come la collettività non possono né agire né pensare”.

Qua c’è la preoccupazione di tenere insieme la dimensione dell’agire e del pensare, quindi non
siamo soggetti che agiscono senza una norma, senza una misura, così come non siamo soggetti che
agiscono senza avere un criterio, una norma, abbiamo bisogno per agire e per pensare di una misura
e di una norma, quindi già il suo problema è qua quello di tenere insieme pensiero e azione, il
mondo della teoria e il mondo della prassi, questa unità fondamentale di teoria e prassi, che
appartiene al ‘900, problema teorico che ha invaso tutte le scienze. Per il momento questa
definizione serve a capire che il nesso teoria- prassi si gioca sulla necessità di una norma e di una
normatività. Accanto a questo si ribadisce la funzione decisiva di quello che Piovani chiama la
“collettivizzazione della norma”, lo aveva già detto prima a pag.104-105, in cui scrive: “
L’individuo umano è costituito in maniera tale da essere idoneo a chiedere l’intervento di un
universale che solo è capace di collettivizzare la singolarità individuale, in questa speciale
costituzione l’individuo umano trova il segno della sua incompletezza, della propria finitudine e al
tempo stesso l’individuo umano trova la propria azione alla completezza, al contatto con l’infinito,
infatti a differenza di ogni altro individuo, l’individuo umano è costituito in maniera tale da
avvertire il bisogno di trascendere l’individualità transeunte e particolare adeguandola
perennemente a ciò che particolare non è, solamente se un quid non particolare e non transeunte
sussiste, l’individuo umano sussiste, sussiste cioè come individuo e umano e animale pensate
perché capace di riferire volente o nolente ogni sua attività ad un termine differente dall’attività
stessa”.

In questo branco c’è una specifica attenzione all’uomo universale, non è un universale che può
essere definito come l’antico universale astratto, perché questo universale deve essere capace di
collettivizzare la singolarità individuale. L’individuo non è specchio di un assoluto, anzi l’individuo
è per sua definizione incompiuto, quindi imperfetto, però si avverte anche che l’individuo ha il
bisogno di trascendere l’individualità particolare e ha questo bisogno di fissare teleologicamente
una tappa che non è particolare, sente il bisogno di una finalità, solo se sussiste questo quid che non
è transeunte l’individuo può sussistere, c’è quest’ansia di infinito dentro di lui, pur essendo una
natura finita.

Quindi questo tema è molto delicato perché alcuni lettori hanno parlato di Piovani come di un
autore che fine anni 40 è ancora sensibile ad una dimensione ontologica molto originale, il fatto
stesso di dire in questo brano che c’è una vocazione alla compiutezza nell’uomo incompiuto
significa dire che c’è ancora in Piovani un residuo di fede dell’ontologia, sia pure un ontologia
negativa e critica, ma lui dice l’individuo non sussiste se non c’è questo senso della compiutezza,
quest’ansia metafisica.

Ovviamente è stato rilevato che quando l’autore andrà ad approcciare ad una morale più storicistica,
quando andrà a definirsi quella che è stata chiamata opportunamente una esistenzializzazione della
morale è chiaro che viene a crollare anche questo residuo ontologico, cioè questa connotazione
metafisica viene a cadere, però in questi anni, questa sensibilità metafisica c’è e questa dimensione
metafisica che resiste deve però sempre coesistere con la consapevolezza che questo individuo
finito non è un individuo esistente nella collettività, qua c’è la problematica della coesistenza, tra il
bisogno di riconoscere le idee, quindi questo riferimento all’assoluto, di conoscere la dimensione
dinamica di queste idee, sono ideazioni.

Non parla di norma, non parla di trascendenza, però non parla di assenza di norma, parla di una
misura indispensabile che noi sentiamo dentro e questa è l’eredità umanistica, c’è questo sviluppo
della coscienza interiore che nell’uomo del 900 si dà sottoforma di norma come esigenza e bisogno
di normatività; quindi, significa che nell’uomo del 900 c’è questa istanza che se non è metafisica
classica è comunque metafisica, cioè c’è una resistenza al metafisico.

Il dato significativo è che questo residuo di esigenza metafisica non è esterno, questa è la novità, è
dentro l’umano, l’individuo infatti non sussiste se non sente il bisogno di avere un fine, di essere
orientato al compiuto, anche se in apparenza e mai conquistato definitivamente, la novità è che tutto
ciò sta dentro l’individuo, perciò, non è un ordine esterno, perciò la questione è umanologica perché
sta dentro l’umano, non c’è più un ordine esterno in cui l’umano si colloca, es. immagine dei mondi
della divina commedia ci propone, cioè la classificazione verticale degli enti, l’uomo è tra gli enti in
una dimensione verticale, ascende all’uno, l’uno è esterno, l’uomo lo vede, ma l’uno è esterno, non
è già presente, l’uno Bruniano, per Bruno l’uno non è trascendente ma è in tutte le cose, questo è il
modello in cui l’assoluto non è riducibile all’umano, però non è nemmeno tutto fuori all’umano,
l’uomo del ‘900 ha questa consapevolezza e la vive fino in fondo, se in Bruno si avvia questo
processo complicato tra il tutto fuori e il tutto in tutte le cose, l’uomo del ‘900 questa problematica
si risolve secondo Piovani in questa consapevolezza della misura che presuppone questa dimensione
ontologica negativa, riformata rispetto all’ontologia classica.

Questa razionalità della norma-misura sta alle origini di tutte le società e la tendenza a costituire
tutte le umane società, è quella che Piovani chiama “la comunanza normativa” può garantire dagli
eccessi degli stati dominati da oligarchie, da partiti unici, ma per essere un reagente all’oligarchia
ecc., deve essere una misura, una normatività paradossalmente chiusa.

Qui la polemica è contro le tesi contemporanee di Popper sulle società aperte. Perché Piovani
sottolinea che questa comunanza normativa deve essere chiusa?

Perché deve avvalersi di una dimensione di continuità, di costanza, finanche di ripetizione


abitudinaria, deve cioè avvalersi di una regolarità, non può aprirsi all’irregolare, non può aprirsi al
disomogeneo, deve garantire omogeneità, deve essere appunto una misura universale, deve essere
esterna al mondo empirico, ma deve essere anche esterna e non funzionale ad ogni
sostanzializzazione dell’io, quindi questo è il primo problema, cioè sembra un ossimoro, sembra un
affermazione che si contraddice internamente, ma il punto vero è che la contraddizione e la crisi sta
nell’uomo contemporaneo, nell’uomo di primo ‘900 che sa bene di essere un uomo senza qualità
però sa anche di trattenere in se un bisogno di universale che non si deve confondere con un ritorno
all’essenza, l’uomo a cui si fa riferimento non è l’essenza dell’uomo, è in gioco l’uomo che agisce
in base ad una misura che non è esterna all’io, mai trascendente e mai assoluta, ma che vuole essere
misura universale.

Ecco perché questo è un tema importante, perché questa normatività esprime una legge
fondamentale che nessuna azione umana può fare a meno di un riferimento ad un criterio, ad un
modello, e che l’azione deve essere sempre distinta da questo modello. Pag. 94-96: “La ratio
normativa può misurare tutte le cose perché questa ratio è sostenuto da un presupposto che non deve
obbedire alla legge a cui deve necessariamente obbedire il finito”.

Quindi questa ratio che misura le esperienze non si confonde con gli obblighi che ha il soggetto
finito, la ragione non è neanche una ragione assoluta, ma la ragione è invitata a non dimenticare i
limiti della stessa razionalità.

La ragione normativa segue una legge che non è la legge del finito, ancora una volta ci troviamo di
fronte a questa impostazione complessa, cioè la norma misura razionalmente l’agire, non si
confonde mai con la legge del finito, perché questa norma razionale non deve mai far dimenticare al
finito i limiti della sua stessa attività.
La razionalità è l’attività della ratio che non ha nulla a che fare con la dimensione e l’atteggiamento
volontaristico degli individui.

Qual è la preoccupazione che ricompare in queste pagine?

È che se noi volessimo identificare questa norma con la voluntas individuale, quest’ultima sarebbe
fatta di attitudini particolari, di forme e di atteggiamenti atomistici, singolaristici, che
escluderebbero ogni valutazione razionale; quindi, il carattere di attività della ratio è indipendente
dall’atteggiamento volontario dell’individuo (pagina 100), ed è un atteggiamento che non ha nessun
rapporto con quelle forme di singolarità, di atteggiamento, di posizioni singolaristiche. 

Lezione

29/04

Piovani, Giovane filosofo del diritto

Leggiamo Normatività e Società.

Da temi prevalentemente di carattere giuridico estrapoliamo tematiche funzionali a comprendere il


Piovani filosofo della morale.

I testi funzionale ad un approccio progressivo alla filosofia morale sono Giusnaturalismo ed etica
moderna; Conoscenza storica e coscienza morale.
I tre nuclei correlati che andiamo ad analizzare: La filosofia del diritto; Il problema della critica del
giusnaturalismo; Il problema della coscienza storica.

C’è, in Piovani, una forte centralità della norma, oltre all’attenzione posta dal filosofo al problema
della ragione dell’agire: i due temi sono correlati? Sì, perché il tema dell’agire, o meglio
dell’azione, ha senso solo se in relazione alla norma. L’azione stessa non ha ragione in sé, ma solo
se riferita alla norma, ad una misura.

CENTRALITA’ DELLA NORMA: La preoccupazione di Piovani – comprensibile per un pensiero


che nasce alla fine degli anni ’40, nella drammatica crisi del secondo dopo guerra e dinanzi ai
residui e agli orrori della guerra dei quali si vuole intendere le origini teoriche per esorcizzarli nella
pratica- è quella di scoprire il valore dell’individuo liberato dall’esasperazione di tutta la realtà e
dalla unilateralità della intellettualizzazione di tutta la realtà, deve garantire insieme la fenomenicità
del soggetto – l’uomo conosce e si conosce per il tramite dell’esperienza- prestando attenzione al
fatto che quest’ultima non sfoci / si trasformi in una empiricità che condanna all’ipertrofia dell’io,
nelle opposte esagerazioni del singolarismo ( si veda la critica Piovaniana al Solipsismo) radicale o
dell’attività assoluta.

La riflessione affidata nel 1949 al libro su Normatività e società, cercava e trovava l’uscita dalla
morsa stringente dell’antica, e irrisolta, alternativa nella fondazione del principio di normatività.

La norma non è per Piovani l’affermazione imperiosa dell’azione quanto piuttosto l’espressione
dell’integralità della vita, e l’impossibilità di scindere teoria e prassi, la conoscenza dalla condotta
poliesistenziale.

Il pensiero è una forma d’azione.

Piovani (a differenza di Blondel) pone in relazione l’azione particolare con il concetto di azione;
Piovani mette in crisi ogni forma di intellettualismo.

In Normatività e società, il rapporto tra la norma e la società è giocato sull’estensione della


singolarità individuale; la stessa relazione Pensiero – Azione consente di elaborare il senso della
posizione di questa singolarità individuale di cui si è detto (che è così definita perché l’individualità
non è particolarità, quanto piuttosto è aperta all’infinito, possiede una vocazione alla compiutezza,
che è infinita).

Il rapporto tra la norma e la società implica che non si diano mai, in società, individui non
comunicanti.
L’ordinamento giuridico è al centro degli interessi di una filosofia del diritto che vede in essi tutte le
vite agitate: il rapporto logica-vita (logos / ratio – vita) è da regolare, non è mai pacifico, in quanto
comprende tutte le complesse forme del divenire umano; è necessario che si dia la norma.

La normativa si fa di teoria e prassi; conoscere bene è agire bene, dunque attività teoretica e attività
pratica rispondono ad un’unica regola, un esigenza comune.

Dunque, cos’è il male: ogni male è la conseguenza della resistenza alla riduzione normativa; è
presente la critica al solipsismo, in quanto l’individualità di cui parla Piovani non è singolare
(solitaria).

I singoli in società sono in relazione, la relazione stessa è azione che si comunica; fortissima la
critica alla teoria dell’atto per l’atto, insieme con la messa in crisi del modello gentiliano (l’agire per
l’agire): L’azione dev’essere riferita necessariamente ad una norma che la guidi e la giustifichi;
l’azione non ha il suo centro di valore in sé, ma diviene solo in relazione ad una norma.

Le norme del diritto sono le condizioni di affermazione della ragione; questo è un tema che ritorna
quando diviene esplicito in Piovani il riferimento alle condizioni di riferimento di una norma (il
mondo della congiuntura storica).

Attraverso la norma si spezza ogni vagheggiamento singolaristico – critica all’azione per l’azione-
che è sempre l’origine di tutte le assolutizzazioni dell’io. Riconoscere la norma significa impedire al
soggetto di cadere nelle condizioni di chi è fisso nel suo pensiero e nella sua azione; riconoscere la
norma significa accettare la sovranità del logos, non in quanto intellettualistico superamento della
pratica nella ragione astratta – ancora una volta, il pensiero è già da sé azione- ma come rifiuto delle
tentazioni irrazionalistiche, in quanto si scopre l’individuo completo, intero, perché completato
dalla ratio che è in lui e che lo fa essere soggetto misuratore della pluralità dei propri pensieri, della
pluralità delle proprie azioni, come può solo chi sappia riferire pensieri e azioni a un centro che
organizzi gli uni e le altre in sistemi. Attraverso la norma la conoscenza si manifesta quale
organizzazione di pensieri e di azioni, dunque qualcosa che, nel superare l’immediata singolarità
dell’anormale, irragionevolmente chiuso nella contraddittoria affermazione-negazione
dell’empiricità del proprio io, affida il superamento ad un conoscere pratico, non intellettualistico:
la praticità dell’inventio rationis.

In quanto misura della ragione delle azioni, misura che nasce dal fenomeno ma trascende il
fenomenico in quanto razionalità di esso, la norma è collegata alla creazione della società, in quanto
la misurabilità – il riferire l’azione ad una misura- implica la relazionalità in quanto l’identità data
alle azioni e ai pensieri si definisce rispetto a sé e soprattutto rispetto alle altre azioni e agli altri
pensieri dello stesso soggetto e degli altri soggetti.

L’individuo – come già più volte abbiamo detto- è un volente non volutosi, ma prima ancora di
questo, Piovani fa una attenta analisi dell’individualità.

FOCUS INDIVIDUALITA’: L’individualità di cui parla Piovani non è SINGOLARE, ovvero


solitaria! I singoli in società sono in relazione; la stessa relazione è azione che si comunica. L’agire
non è isolato, presuppone un’attività simbolizzante che fa da MEDIAZIONE, consentendo di
fondare la società: anti-isolitarismo; questa, la posizione Piovaniana.

Il simbolo serve per comprendere il valore dell’incontro soggetto-oggetto; conoscere bene è


conoscere l’oggetto attraverso un MEDIUM. Noi non conosciamo l’inseità delle cose, ma solo
realtà mediata. Dunque, la stessa norma – cui va riferita l’azione- non è astratta, perché è dentro la
comunicazione sociale (sin dalle origini) manca dunque un presunto principio astratto.

SULL’EDIFICAZIONE DELLA SOCIETA’: AABL: Autorità alterità bisogno e lavoro sono realtà
intrecciate.

Il lavoro e il bisogno sono due componenti fondamentali nel processo di edificazione della società,
che è primariamente storico. La norma è in questo processo: di qui il nome del testo, normatività e
società; congiunzione profonda. Essa, dunque, non trascende la società.

Usare la razionalità – inventio rationis- è l’atto di fondazione della società, che si fonda attraverso
l’impegno della ragione che va in direzione dello stato: bisogna riconoscere lo stare nello stato. Lo
stato orienta l’individuo, che in qualche modo è vocato a conquistare l’infinito nel relativo; lo educa
alla relazione, alla normatività, solo se l’uomo, tuttavia, rimane fedele alla relatività, evitando ogni
degenerazione universalistica. L’uomo non deve ne può perdere di vista il relativo.

Lo stato gode di amplissima universalità; nella sua costituzione è duplice, si fa di ratio e di azione;
esso può farsi garante della libertà dei singoli e delle relazioni intersoggettive. Il richiamo al
relativismo in Piovani non è scetticismo, serve piuttosto a sottolineare che lo sforzo educativo dello
stato al rispetto della norma tiene conto delle condizioni di possibilità dell’uomo.

Le istituzioni, funzionali a educare al rispetto della norma, devono tener conto delle relazioni.
Relatività della norma giuridica: Il relativo ha a che fare con le relazioni - ogni esistere è un co-
esistere universale-particolare-, e con le condizioni di possibilità dell’essere nelle istituzioni.

Il testo – normatività e società- interessa il piano logico e quello etico; La giurisprudenza non è solo
applicazione del diritto al divenire, al reale, essa implica l’affermazione di un impegno, un volere:
voglio che la mia esistenza sia collaudata da un valore (la giustizia non è un valore assoluto) deve
collaudare la mia esistenza.

Isoliamo un tema che ritornerà in Sulle linee di una filosofia del diritto.

Per parlare della norma che diviene con l’inventio ratios Piovani si cura di non scadere in un
eccessivo razionalismo: come? Parla del SIMBOLO (riferimento implicito al Cassirer di Filosofia
delle forme simboliche).

La natura contiene un invito alla normatività (il suo piano segreto è condurci alla normatività).

L’agire non è isolato, presuppone un’attività simbolizzante che fa da Medium – il simbolo è


medium- consentendo all’uomo di fondare la società.

Posizione di Piovani: Anti-isolarismo. Il Simbolo serve per capire il valore dell’incontro del
soggetto con l’oggetto: conoscere bene è conoscere l’oggetto attraverso un medium; la realtà
mediata dal simbolo è ciò che conosciamo: non conosciamo l’inseità delle cose.

La norma, dunque, non è astratta, perché è dentro la comunicazione socievole sin dalle origini:
Manca un presunto principio logico-astratto. La norma non nasce soltanto come auctoritas, ma
rende possibile l’alterità. Il simbolo, inoltre, è esperienza della comunanza, della messa in comune
(il fondarsi delle prime società) e va a fondare la comunicazione sociale; con ciò, Piovani vuole
mettere in crisi quelle posizioni idealistiche – da Cartesio al Kant della critica della ragion Pura,
passando per Hegel- che teorizzano un soggetto assoluto, in qualche modo puro, che non ha
consistenza in sé e per sé. Come? Insistendo sulla comunicazione sociale intesa come fondamento
della dignità dell’uomo.

Con tipico movimento vichiano, Piovani ammette il rifiuto del singolarismo, che scopre l’alterità
dei relazionanti e l’autorità del referente cui riferisce tutti i relazionanti; al tempo stesso, l’autorità
in quanto superiorità della rappresentazione del soggetto a cui tutti i pensieri e le azioni sono riferiti
( LA NORMA) ovvero in quanto norma, si personifica quale aliud – altro - rispetto all’uomo in
qualcosa che non è presupposta al soggetto, ma che il soggetto scopre nel processo di espansione
della sua interessa da completarsi.

Così il soggetto realizzato umanamente dalla invenzione di una regola che egli ha in sé ( l’uomo
scopre la norma, che tuttavia è in sé stesso, non la inventa) che deve sapere trovare e imitare,
acquista coscienza della propria finitezza, riconosce il limite della propria azione e può distinguere
tra fattibile e non fattibile, ciò che può farsi e ciò che non può farsi; Il quid agendum si esplica
trasformando la coscienza di sé del soggetto in coscienza morale – il male, la lesione non sono altro
che il misconoscimento della norma- esperta del limite che non le è soltanto imposto ma che essa si
pone ( e si pone anche per il suo bene).

Inoltre, chi compie il male – lesione- lede anche sé stesso, perché l’individuo è un volente che
all’origine non si è voluto; questo volente non-volutosi scopre di essere originariamente un essere
irrazionale, che non si è scelto; ne va di conseguenza che egli è in qualche modo scisso, scopre
dentro di sé l’alterità.

Piovani aveva riflettuto sulla componente fondamentale del soggetto, L’Io come un volente che
però alle origini non si è voluto; definizione emersa già in maniera forte; questa dimensione
negativa riconosciuta all’interno dell’io si è poi mostrata essere fondazione della vita morale (anche
come nei p. di una filosofia della morale verranno riprese queste tematiche)

Alla questione del riconoscimento all’interno dell’io di una datità ( non voluta; noi siamo soggetto e
dato dell’esistenza) aveva osservato P. che noi possiamo mettere fine coerentemente all’esistenza
( tema del suicidio venuto fuori in quanto Piovani riconosce come coerente rispetto alla dimensione
antropologica dell’uomo moderno, contemporaneo) se però si fa una scelta di tipo coerente ( se si
accetta in senso vitale di restare nella vita, pur avendo riconosciuto che non esiste un soggettivismo
puro, allora questa accettazione della vita va a fondare l’esperienza morale).

La fondazione della morale nasce da questa accettazione vitale e nasce anche dalla dimensione di
un soggettivismo che non è mai né puro né assoluto.

La scoperta della coscienza morale, consustanziale alla conoscenza che il soggetto fa di sé, assicura
il valore fondante dell’Io come fattore contrastante ogni singolarismo, in quanto definisce il limite
dato non solo da ciò che il soggetto incontra dinanzi a sé come ostacolo da superare, ma anche da
ciò che il soggetto scopre all’origine di sé, come elemento del proprio essere.
Riprendiamo quanto abbiamo appena detto: l’essere originario dell’Io non è soggettivo ma
oggettivo; io non ho deciso di essere qui, non mi sono voluto; perciò, il soggetto è insieme
oggettivazione che deve soggettivarsi – passare da irrazionalità (mancata volontà) a razionalità;
come? Agendo!

Ci soggettiviamo attraverso il farci (Vita Activa di Blondel, ripresa da Piovani per spiegare il
processo Oggettivaz-soggettivaz).

Se in Normatività la norma parte da una mancanza che l’uomo non ha, nei Principi la mancanza,
l’assenza mi deve portare a verificare. Devo colmare la mia mancanza: io sono, in principio, un
essere che non si è voluto. E mi devo verificare facendo (processo temporale, storico)

Immagine Vichiana: Il bestione vichiano, ovvero l’uomo in età primitiva che interpreta il fulmine
come simbolo dell’auctoritas, esce dalla caverna; la paura ci aiuta ad intendere meglio il passaggio
dal Simbolo al logos, alla civilizzazione; “l’uscita dalla caverna” è momento in cui la stessa autorità
viene riferita ad un altro da me, all’alterità. Superamento-uscita dall’isolamento e dalla singolarità:
CREAZIONE SOCIETA’ - AABL.

Piovani vuole mettere in crisi quelle posizioni idealistiche che vanno a teorizzare un soggetto
assoluto – non ha consistenza- come? Insistendo sulla comunicazione sociale intesa come
fondamento della dignità dell’uomo.

Ritornano i temi dell’alterità, autorità, bisogno e lavoro.

Riconoscere lo stato nello stato è usare la razionalità: l’inventio rationis è l’atto di fondazione della
società! Perché? Perché il processo di edificazione della società è un processo storico, la società si
fonda attraverso l’impegno della ragione che va in direzione dello stato, riconoscendolo.

Ruolo dello stato: lo stato orienta l’individuo, lo educa alla relazione, alla normatività, a patto che
l’individuo rimanga fede alla sua relatività, evitando ogni degenerazione universalistica. L’uomo
non deve perdere di vista il relativo, la relatività dell’individuale.

Lo stato nella sua costituzione è duplice e può farsi garante della libertà dei singoli e delle relazioni
intersoggettive.
Il richiamo al relativismo in Piovani non è un richiamo allo scetticismo, serve a sottolineare che lo
sforzo educativo dello stato al rispetto della norma tiene conto delle condizioni di possibilità
dell’uomo;

Ruolo istituzioni: educano al rispetto della norma – tengono conto delle condizioni possibilità
dell’uomo-.

Quindi parliamo di relatività della norma giuridica: Il relativo ha a che fare con le relazioni, le
condizioni di possibilità – che sono condizioni di realtà- dell’essere nelle istituzioni; possiamo
parlare di relativismo giuridico, in relazione alle esperienze: ricordiamo AABL.

L’esistere è sempre un co-esistere (tema che ritorna in Principi di una filosofia del diritto)  La vita
vuole che l’ordine e gli ordinamenti siano; coesistenza UNIVERSALE-PARTICOLARE.

Non bisogna in questo contesto né scadere in un eccesso di volontà né si deve trasformare la norma
in SUPER VOLONTA’.

Collaudare Teoria alla prassi: CONCLUSIONE DEL TESTO; Normatività e Società è un testo che
guarda all’intreccio PIANO LOGICO-PIANO ETICO.

Cerchiamo di dirlo con il senno di poi, guardando a Normatività e Società:

La giustizia non è solo applicazione del diritto al Divenire, essa implica l’affermazione di un volere,
impegna la condotta di vita – se l’esistente assume su di sé la scelta esistenziale, dunque si accetta
come volente originariamente non volutosi, radicalmente irrazionale e oggettivo, allora non può
affermare “ voglio che la mia esistenza sia collaudata da un valore assoluto” perché la Giustizia non
è un valore assoluto, deve collaudare la mia esistenza, io ho in me l’universale, la norma non è
l’universale, non è una Super-norma. Egli sa che per soggettivizzarsi deve agire, la vita activa
prevede orientare l’azione ad una norma, agire responsabilmente.

Tema ontologia negativa: L’individuo è un de esse, un non-essere; l’individuo è perpetua tensione,


che si arresta solo con la morte; la sua azione è guidata dall’assenza, dunque dal bisogno.

Quest’assenza si coniuga con il motivo della presenza, che è ancora motivo d’essere che in qualche
modo va a soddisfare l’assenza.

Piovani pensa ancora l’essere come presenza, la norma (che soddisfa l’assenza, dunque il bisogno).

L’individuo è esso stesso deficienza (è de esse, assenza di essere o non essere) che la norma può
colmare; nel Piovani adulto questa “fede “viene meno: Nessuna presenza andrà a colmare il
“bisogno”.
L’etica contemporanea è l’etica dell’assenza alla quale si oppone l’etica classica, dell’essenza.

Dialettica assenza / presenza: Motivi che ci interesseranno nel Piovani filosofo del diritto.

Alla fine dell’opera (Normatività) è ribadita la preoccupazione teoretica (forte) per la quale la
norma non nasce da idee incontaminate; la norma si pone come completamento della singolarità,
risponde al bisogno dell’individuo di riferirsi ad un’alterità che è quella della RATIO.

Il discorso sull’assoluto correlato alla relatività del singolo che comunicano nel loro stare in società
che avvertono l’angoscia del relativo: relazione e relativo si co-appartengono.

La vita è mediazione! La logica della vita non è la logica del metafisico / assoluto, è comunque una
logica di esseri finiti ma vocati alla infinità che aspirano ad uscire dalla propria finitudine –
Bestione Vichiano che esce dalla caverna colpito da un fulmine: Kant, uscita dallo stato di minorità
(Definizione illuminismo) dovuta alla consapevolezza di usare la ragione abbandonando i simboli
per accogliere la mediazione di una misura che è la norma! La norma è ragione!

Quello di Piovani è un diritto ripensato filosoficamente, perciò parliamo di p. della normatività in


relazione alla società, alla comunicazione sociale (con una forte centralità del linguaggio).

Si delinea un’antropologia in Piovani fatta di revisione del Solipsismo, dove il relativo è il singolare
aperto, non chiuso in sé: c’è la definizione – moderna, merito anche dell’Umanesimo-
dell’individualità come APERTA.

C’è in Piovani un residuo antico – ontologico, relativamente alla concezione della norma in
relazione all’uomo concepito come de esse, norma intesa come presenza che si coniuga con
l’assenza) che però andrà dissolvendosi.

Piovani parte da Conoscenza storica e coscienza morale per poi nelle linee di una filosofia del
diritto approfondire la relazione Universale – particolare (a noi interessano le ricadute che questa
relazione ha sul piano etico).

Tema lesione: occorre capire a quale condizione il rispetto va vissuto e cosa rappresenta l’offesa; di
fatti, quest’ultima per Piovani è irrazionale, eppure si dà come condizione.

Dobbiamo interrogarci sulle condizioni del suo accadere, il fatto morale va compreso nelle
condizioni di vita, sul piano dell’accadere. Il problema normativo non è avulso dalla dimensione
esistenziale – che Piovani attraversa e supera con l’approccio e il conseguente abbandono a Husserl,
Jaspers, Heidegger.
Ora è comunque vivo l’intreccio Ragione normativa-ragione di esistente / co-esistente.

Lezione 2/05

Linee di una filosofia del diritto - I ed. 1958; II ed. 1964; III ed. 1968 –

L’introduzione di G. Acocella è a pagina 223 del testo in formato digitale

Il testo con cui ci confrontiamo oggi appartiene alla II edizione, e precede di due anni
Giusnaturalismo ed etica moderna (là dove la connessione tra il diritto e la morale viene fuori in
maniera molto esplicita; mentre, come vedremo, si renderà autonoma la riflessione sulla Morale ne I
principi di u una filosofia morale).

Il testo del ’58 richiede che si ponga attenzione al titolo, ovvero al significato che assume l’articolo
determinativo in riferimento alla filosofia del diritto: Una filosofia del diritto; differenza con Hegel
“Lineamenti di filosofia del diritto”.

Il I capitolo (241 edizione digitale) s’intitola: UNA EX PLURIBUS; Perché? Perché si tenta di
affermare che ogni filosofia non è mai l’unica filosofia. Questo concetto esprime a pieno titolo la
riflessione di Piovani e cioè: Non l’unica filosofia del diritto! Perché? Perché non è concepibile
parlare di una – come di un’unica filosofia della morale- filosofia del diritto, ma di una fra le tante.

Il capitolo primo dell’opera pone in qualche modo una questione provocatoria: Ogni filosofia è una
fra le molte; parlare di una filosofia del diritto o della morale non è rinnovare la sfiducia
nell’ammettere realtà plurime, né vuol dire relativizzare in senso scettico, quanto piuttosto attestare
il valore della filosofia come FILOSOFARE!

La verità non sta in un presunto unicum verum; la verità sta / è in questo sforzo di comprensione –
cum prendere, prendere insieme- laddove si concilia (essa) con la pluralità.

Il relativismo di Piovani è intrinsecamente connesso con il relazionarsi! Si tratta di concepire che la


verità che la filosofia ricerca è la verità della vita (L’erlebnis di cui parleremo poi; già qui è
possibile cogliere il riferimento a Dilthey) che è ricca di forme e contenuti che costituiscono
l’autentica verità del filosofare.
La verità per la sua grandezza può essere concepita da ogni pensante! Non si tratta, come detto, di
negare l’unità della filosofia, ma l’unicità intesa come pretesa di assolutizzazione, che va a
contrastare le ragioni della stessa filosofia, che è filosofia della vita, e di questo pensiero plurale.

La filosofia incrocia la vita che vive nell’individuato vivente; Il pensiero pensato è dell’individuo
vivente che agisce, pensa in determinate condizioni. La filosofia è la filosofia che uno sceglie, e che
dipende da che uomo uno effettivamente è; essa dipende da quell’uomo che filosofa.

C’è una imprescindibile condizione umana che in qualche modo è sia limite che arricchimento.
Questa condizione umana è quel Quid che sottolinea lo stato dell’uomo interpretante che è dentro la
relazione di com-prensione e non pecca di astrattezza!

La moralità delle filosofie impone che nessuna di essa si presenti come unica, ma come una fra
tante. Fare filosofia significa combattere una tendenza – contemporanea- l’uniformità, il
conformismo: La pluralità delle filosofie, insieme con il dovere ed il diritto di una filosofia di
presentarsi come una ex pluribus, va ricordata, difesa, ribadita specialmente nelle epoche in cui la
tendenza alla meccanicità dell’uniformità è fautrice di conformismo nel costume e nelle opinioni,
ostili non tanto al dissenso discorsivo, quanto alla presenza di idee e di sentimenti polimorfi, non
riducibili al formulario di un modulo già noto. Negli studi filosofici questo stato d’animo che
potrebbe definirsi (se un neologismo vale l’altro) meglio che conformistico, uniformistico, si
manifesta spesso con la riduzione di tutte le varie filosofie, presenti in un periodo, ad un
denominatore comune, che autorizza la cancellazione, o l’ignoranza e trascuranza, di quelle che non
vi sono riducibili, dette, per lo più, superate o anacronistiche (o immature) perché difformi dal
gruppo delle opinioni temporaneamente prevalenti. Questo metodo, per quanto possa comprendersi
quale frutto dell’insegnamento di pur autorevoli ed interessanti correnti di pensiero, è tale da
abituare lo studioso a preconcette esclusioni e recisioni, pericolose alla radi cale libertà del
filosofare, che costituisce una garanzia per tutte le coscienze filosofanti, comprese quelle che sono,
in un dato periodo, breve o lungo, più ascoltate e seguite. La rivendicazione del concetto, in sé
ovvio, della pluralità delle filosofie, giova a mettere in guardia contro questo pericolo.

(pagina 244 formato digitale)

La riduzione all’uniforme è la riduzione a delle posizioni (teorie) temporaneamente prevalenti


rispetto alle altre; anche la riduzione alla unicità è legata ad una condizione (temporanea). Rilevante
è dunque la temporalità del filosofare, anche quella filosofia che vuole ridurre a sé è temporanea.
Il metodo (che Piovani adotta) che vuole essere anti-uniformistico è necessario, per evitare che si
diano concezioni superate e anacronistiche! Non c’è una filosofia, e non è mai una filosofia del
diritto, che in qualche modo possa essere isolata o autarchica, perché bisogna sapere cosa il diritto
sia rispetto alla vita (relazione attiva). Bisogna conoscere il mondo di cui il diritto ci parla.

Concezioni, visioni del mondo, concetti che variano nel mondo del diritto, dell’etica, della storia;
quella del diritto è una filosofia particolare, certo, ha delle specificità, ma il suo autentico senso si
misura sempre con il significato della vita, non è mai particolare.

Si può anche considerare la filosofia del diritto una filosofia particolare, ma il punto di vista di
questa filosofia può essere particolare, ma ogni filosofia pur nella sua particolarità è sempre una
parte, una prospettiva dell’intero, è una interroganza, una curiositas che non si ferma ad una
indagine unica e particolare, ma vuole coinvolgere tute le ragioni dell’esistere nel mondo.

La dimensione particolare si apre sempre a una dimensione generale.

Piovani nel testo che stiamo analizzando rende evidente la premessa a costruire una storia della
filosofia del diritto, che nasca dal contrasto tra tendenze universalistiche e tendenze
particolaristiche!

Nella storia della filosofia si impongono due visioni del mondo, due impostazioni; Piovani in questo
testo tratteggia il contrasto (di cui sopra) nelle diverse epoche storiche con riferimento al diritto:
Parte dal mito e giunge alla sosfistica, da Socrate ad Aristotele e sino al Cristianesimo, passando per
il medioevo e poi sino all’umanesimo, poi all’illuminismo, passando per Rousseau sino a giungere
alla filosofia post-romantica, idealismo etc.

C’è uno scontro rilevante: ogni metodo di carattere particolaristico vuole trasformare il significato
della ragione; Ciò accade anche nell’universo morale dell’uomo moderno, l’uomo copernicano
(rivoluzione “copernicana” l’uomo al centro).

L’individuo che nasce dalla tradizione umanistica è l’uomo che sa di essere una nuova regola: la
regola dell’universo.

Focus: L’individuo umanistico.

Non è l’IO universale dell’idealismo Kant-fichtiano, ma è questo IO umanistico che si sente


particolare, ma in sé anche specchio dell’universale.
Prima dell’idealismo, Piovani insiste sui caratteri dell’umanesimo, in particolare per ciò che
concerne il contrasto particolare-universale; tale contrasto si afferma come aperto, non alla
celebrazione del singolare, bensì alla struttura complessa dell’individuo che dall’umanesimo si
conosce e ri-conosce come persona.

L’umanesimo, nella sua essenza, è scoperto del valore dell’individualità umana in un’umanità che
tende a distinguersi in gruppi riuniti sulla base di valori, appunto, personali, creati dall’attività
dell’uomo, artefice della sua fortuna, padrone della sua storia. In una simile umanità l’evocazione di
una norma universale, dominatrice di un indistinto universo, non può essere attuale. Per questo
aspetto, l’umanesimo è la fine della ratio come astratta ratio aeterna, è ambizione di sostituire
all’antica ratio impersonale le rationes personali. Morale, politica, diritto, ambiscono a passare dal
dominio della ratio al dominio delle rationes e il diritto naturale aspira a distinguersi nei diritti
naturali degli individui (pagina 306)

Sul particolarismo umanistico (pagina 379)

il particolarismo umanistico resiste, nelle sue ragioni e nei suoi ideali, all’urto delle sue dure
esperienze proprio perché non è semplice manifestazione della tendenza a considerare
assolutamente autonoma ogni realtà fornita di valore parti colare. È qualcosa di più ricco, di più
fecondo, proprio per questo suo volere essere esaltazione di individualità, e tuttavia esaltazione non
meramente particolaristica, ristretta in sé, destinata ad essere sé stessa solo come protesta contro
l’universalismo. L’umanesimo rifiuta di essere assoluto singolarismo, pura celebrazione del
singolare come singolare, perché reca nel suo istinto ricordo di un’esperienza da cui è germinato,
l’esperienza della formazione concettuale della persona. Mentre si pone come opposizione
all’universalismo, all’ossequio verso l’universale distaccato dall’individuale ed operante in
un’autonomia lontana dalle vite particolari esistenti nella storia, il particolarismo umanistico non
dimentica le origini del concetto di personalità, chiaritosi solamente in seguito alla riflessione sulla
novità del cristianesimo, racchiusa principalmente nella personalizzazione del logos. Per queste sue
non dimenticate origini, l’umanesimo da un lato vuole affermare il valore dell’individuale quale
storicamente si realizza; quindi, avversa l’astrattezza di un logos puro, dall’altro sospetta che tra
l’individualità realizzantesi ed il logos esista una relazione che non può essere soppressa senza
attentato alla stessa realizzazione dell’individualità. In fondo, il particolarismo umanistico, mentre
fa appello alla particolarità contro le varie forme di universalismo stoico-scolastico, intravede
l’universalità che possa essere l’universalità che dia fondamento alle realizzazioni di tutte le
individualità. Da questa percezione confusa proviene l’ingrandimento della volontà individuale
nella volontà del Soggetto assoluto e dello Stato: l’ingrandimento è un mezzo per impedire che
l’individualità cerchi fondare sé stessa sulla sua sola singolarità. Si spiega così la fiducia nei risultati
di quello stesso ingrandimento. Fallito l’esperi mento nella costatazione della sua conclusiva
nocevolezza, l’umanesimo comprende che l’entificazione della volontà individuale non è sufficiente
ad evitare il singolarismo particolaristico, ma solo a camuffarlo, e tuttavia è sufficiente,
coll’ampliamento della volontà in soggetti entificati, a dar vita a strumenti di un nuovo
universalismo, artificioso nella sua natura, limitato nella sua pretesa forza universale, ma avverso
alla libertà dell’individualità non meno dell’universalismo più antico e più vero. Dunque, neppure
un particolarismo abile nell’evitare gli ostacoli può essere utile alla individualità (…).

Il particolarismo umanistico tocca la storia della filosofia tout court, non solo l’ambito della
filosofia del diritto.

Piovani vuole sottolineare che l’esperienza dell’umanesimo mette in risalto la dimensione centrale
del singolo, però ha di rilevante la dignità del singolo come persona (Vedi De dignitate Homini di
Pico, o tutta la tradizione erasmiana).

L’uomo diviene un quasi-Dio sulla terra, ma è tale solo in quanto si riconosce come persona.
L’umanesimo vive del particolarismo umanistico!

L’universo diviene antropocentrico, l’umanesimo mette in crisi ogni concezione di tipo naturalistico
e giusnaturalistico; il centro gravitazionale è l’uomo. Al centro c’è la natura dell’uomo che si
riconosce e teorizza come personalità. L’umanesimo gode della trasformazione fondamentale che il
Cristianesimo ha apportato: la religione cristiana è una refusione moderna, nuova, non è più la
“religione di questa o quella nazione” è la religione dell’Humanitas e, in quanto tale, nasce da un
dogma fondamentale, quello dell’incarnazione di Cristo. Questa è la religione ripensata dalla
tradizione umanistica, è questa religione particolare che però si apre ad un significato di carattere
universale, non è una religione particolare che si chiude.

L’umanesimo che mette a frutto questa religione dell’umano, vuole affermare il volere
dell’individuale come storicamente si è realizzato, vuole mettere in crisi l’astrattezza del Logos.
Tuttavia, Piovani sostiene che anche durante il periodo umanistico si dia effettivamente una
relazione tra l’individualità e la ragione insopprimibile.

L’Umanesimo è una tappa fondamentale! Perché?

Perché fa appello alla particolarità, alle diverse forme del particolarismo storico, scolastico, con
tendenza cristiana, ma riconosce che la ricerca dell’universalità si realizza tutta dentro l’uomo non
fuori; viene a mancare una natura esterna che vada a garantire l’universale.

C’è un attenzione al particolare e la medesima attenzione è rivolta alla tensione all’universale,


concetto tutto moderno, inteso come esigenza di quell’individuo che rischia di reggersi unicamente
su di sé (cadiamo nel solipsismo).

L’individuale si deve espandere! Bisogna comprendere i limiti e problemi dell’incontro-scontro tra


le due tendenze (Universale-Particolare) dentro la storia della filosofia del diritto, ma in realtà
DELLA FILOSOFIA TOUT COURT!

Nell’Umanesimo le due tendenze si confrontano tentando, nell’età umanistica di assumere una


prospettiva che vada a comprendere entrambe le dimensioni!

Piovani sottolinea il tentativo di espansione del particolare – che nasce nell’umanesimo attraverso il
concetto di stato- ma anche i limiti dell’Universalismo, relativamente alla volontà di attribuire una
identità all’universale. I concetti di carattere universale quando non sono più legati alla dimensione
tensionale, dinamica, assumono degli attributi che chiudono il discorso relativo al rapporto
Particolare-Universale. Si tratta allora di mettere in crisi quelle denominazioni universalizzanti che
rifiutano il mondo plurale, il momento dinamico, la tensione al vero.

Piovani per sottolineare questa dimensione astrattamente universale, pensata come rischio che la
cultura occidentale vive, cita Goethe: Goethe ha intuitivamente colto il centrale vero, cui tutto il
pensiero moderno, nella sua essenza, implicitamente, tormentosamente aspira, allorché ha detto:
«Non ci è dato raggiungere la verità, che è identica al divino, direttamente.

La percepiamo soltanto di riflesso, per mezzo di esempi e di simboli, in apparizioni singole e


correlate.

Ci viene incontro come un tipo di vita che ci è incomprensibile, e tuttavia non riusciamo a liberarci
dal desiderio di comprenderla» (da pagina 381 in poi).

Goethe ha colto il problema del moderno!


Non riusciamo a liberarci dal desiderio di comprendere la verità, questa una fortissima espressione
del moderno!

Noi cogliamo la verità per mezzo di simboli, in apparizioni singole e correlate.

Bisogna guardare con favore all’esaltazione umanistica dello sforzo della persona che porta con sé
il destino di una costruzione della morale; contro l’universalismo astratto, contro il cattivo
universale che assilla le individualità, bisogna guardare a questo sforzo come espansione del potere
individuale. Questo, attesta la concretezza dell’esistere.

Tensione, aspirazione a conoscere, esistere relazionale: questi, i termini fondamentali.

L’Umanesimo è la tappa di partenza, perché fa esperienza dell’Universale e del particolare, e della


parzialità di entrambi! Non assolutizza la dimensione né della prospettiva universalistica né di
quella particolaristica, appunto, sono prospettive, e sono valutate entrambe le aspirazioni come
legittime e funzionali a questa tensione universale (interna).

Emblematica a questo punto la personalità di Pico della Mirandola; Cassirer ne ha fatto il


protagonista della storia della filosofia moderna, asserendo come Pico abbia sia il gusto della
ricerca del particolare, ma anche dell’universale, dell’unità e della sintesi, ma anche della
particolarità.

Accanto alla curiositas, Pico coltiva la memoria. Egli testimonia l’interesse per la particolarità dei
contenuti ma anche di una visione di sintesi; esempio: il progetto di “unire tutte le fedi religiose”
arriva fino a Leibniz; Leibniz si prodigò per la pace tra i popoli e le religioni, facendo proprio
l'ideale dell'armonia universale, che costituisce la cifra di tutto il suo sistema filosofico. Si tratta di
una aspirazione alla pace, in questo, la filosofia si fa vita.

Non si può prescindere dalla vita.

Il moderno nasce come conflitto; con Hobbes, a partire da un’antropologia conflittuale (ricerca del
particolare) che mette l’uno contro l’altro! Eppure, c’è la ricerca di unità: il contratto è questo, è
l’esigenza ragionale di stare insieme secondo patti, ed esprime esigenza all’universale.

Piovani sul contrattualismo (ci ritorneremo)

Tutto il pensiero che si organizza intorno all’individuo per salvaguardarne la solitudine indifesa
cerca un assoluto e un collettivo in cui l’individuo possa stare con nuova sicurezza: la
preoccupazione del pensiero moderno è non perdere l’individualità conquistata: tutti i contatti, i
patteggiamenti del pensiero moderno con isolate nozioni platoniche, aristoteliche, stoiche,
scolastiche restaurate, spesso tenute insieme specialmente da generiche ispirazioni dello stoicismo,
derivano da quella preoccupazione: l’individuo non va abbandonato alla sua particolarità, in cui può
perdersi. C’è un’intuizione fonda mentale in questo atteggiamento: la particolarità abbandonata a sé
stessa, non riesce a connettersi all’universalità della vita, non è vitale. Però c’è anche il pericolo di
affidare l’individuo a forze o che non siano capaci di garantirlo o che, invece di garantirlo, lo
annullino nella morsa di una difesa troppo violenta. Chiedere, per precauzione, che queste forze
siano creazione delle individualità riunite, siano volute, in principio, dalle volontà particolari, non
basta: anche la creatura delle volontà può, alla fine, avere energia tale da schiacciare le volontà
creanti, al cui controllo può facilmente sfuggire. Il contrattualismo sociale vorrebbe evitare
soprattutto ciò, ma Hobbes già lo ammonisce a considerare la possibilità, se non, addirittura,
l’opportunità che lo Stato nato dal patto sociale sia mostruoso, freddo, feroce come il Leviathan
biblico. Al fine di evitare questa possibilità converrebbe che il contratto sociale non fosse creatore,
ma solo, per dir così, protettore dei diritti individuali, garantiti dal loro esistere già in una legge di
natura

Si apre ora nella riflessione di Piovani uno snodo molto importante, che verte su un tema filosofico
rilevante, tema che ritornerà ne I principi di una filosofia della morale, ovvero la definizione
moderna di soggettività.

La soggettività moderna vive di questa tensione al verum, rifiutando l’astratto proprio grazie al
riconoscimento della natura dinamica del reale intesa come interna all’io, non esterna.

C’è un rapporto che coinvolge l’esterno dall’interno.

Già nel testo del ’58 Piovani dice che nella cultura moderna e contemporanea la psicanalisi e la
letteratura introspettiva danno centralità rilevante alla ricerca filosofica che vuole analizzare il mio
IO agente sulla scena del mondo; arriva ora la considerazione del soggetto come originariamente
volente non volutosi (pagina 385):

Ma quale che sia il momento del progresso del mio io da cui io riesca a partire nell’incominciare la
mia osservazione del mio io agente sulla scena del mondo, quali che siano gli accorgimenti, più o
meno esperti, a cui la mia abilità, sorretta dalla mia onestà, possa far ricorso, non posso mai
spogliarmi della mia soggettività: posso anche asseverare che tutto il mio sentito e pensato è
pregiudizio, è frutto di convenzionale convenzione; posso anche rifiutare di riconoscere valore al
mio sentito e pensato, ma non posso uscire da me stesso.
Una filosofia che, per voler essere vera filosofia del l’individualità, voglia prendere le mosse dall’io
dell’indagante, ha il dovere di registrare subito questa impossibilità dell’indagante a liberarsi della
sua soggettività.

Ma questa impossibilità, questo limite della soggettività, a guardar bene, se, per un verso, è limitato
soggettiva mente all’individualità di ciascuno, per un altro verso, in quanto ha in sé di più
sostanziale, documenta l’oggettività dell’io.

Non è consentito alla volontà individuale di cancellare ciò che costituisce l’intimità essenziale di
una soggettività, non è consentito concepire la vita attraverso un’individualità diversa da quella di
cui il concepente sia in possesso vivendo, non è consentito annullare con un tratto di volontà ciò che
è stato nella personalità dell’indagante: tutto questo non è consentito, nemmeno al fine di
considerare l’io nella pura soggettività originaria, perché quella purezza completamente iniziale non
esiste: l’io come soggettività pura non può ritrovarsi perché non è mai stato, non può essere:
l’essere originario dell’io non è infatti soggettivo, ma oggettivo.

Il punto rilevante in questa riflessione sulla soggettività (a cui si guarda perché la connessione con il
problema morale è radicale, per quanto riguarda la responsabilità) è che se il punto di partenza è la
soggettività di cui l’io non si può mai liberare, questa soggettività dell’IO non è una posizione
soggettivistica!

Per quanto io tenti di conoscermi nella nudità del mio sentire e pensare, per quanto io tenti risalire
al mio primo atto di consapevolezza, per quanto io riesca a ricostruire, in ipotesi, una per una, la
storia delle mie volizioni, devo arrestarmi di fronte ad una costatazione, che mi presenta un dato,
che mi presenta me stesso come dato: io che voglio non mi sono voluto.

Io sono un soggetto che vuole, ma che non si è voluto, sa di volere, ma DEVE ri-conoscere di non
essersi voluto (scelta esistenziale).

Il mio volere trova il suo limite inviolabile all’inizio del suo essere (è interno all’io).

La mia soggettività è originariamente oggettiva, io sono una datità, una res fra le res (ma a
differenza di una cosa posso scegliere, esistenzialmente, se vivere accogliendo questa originaria
condizione o suicidarmi).

Tema alterità: gli oggetti sono altro da me così come io sono altro da me! C’è una soggettività
volente, che è oggettiva e sa di esserlo, in quanto fuori di sé ci sono altre datità, ma anch’essa è una
datità.
Comprendiamo come Piovani sia insoddisfatto delle posizioni volontaristiche, che non considerano
l’incapacità della soggettività di volersi: la soggettività, originariamente, non si vuole.

La natura dell’io non si riconosce nella dimensione corporea (che insiste sulla dinamicità,
sull’azione dell’Io). Il fatto di essere un io volente che non si è voluto rende imprevedibile alla
radice l’essere dell’IO: misero del mio essere.

Le posizioni volontaristiche cadono, non considerando alla radice del soggetto volente un non-
essersi voluto, ma non c’è neanche l’affermazione di un oggettivismo assoluto! Perché?

Perché questo io non si scoprirà mai chiuso-conchiuso. Si svela così la consustanzialità tra il mio
essere originario e gli oggetti (non sono altro da me).

Il riscatto come avviene? Avviene nel pensiero (si dà una dimensione di fiducia nel pensiero) che è
modo e dimensione che mi consente di uscire dalla soggettività ed entrare in relazione (ogni
soggetto è un mit-sein): ora si mostra la cifra etica del discorso; LA SOGGETTIVITA’ è
immediatamente un IO IN AZIONE.

Il pensiero – intelletto ragione- critica sé solo con sé stesso e da sé; tuttavia, deve avere fiducia in
sé. Negare la fiducia non è possibile, non posso pensare uscendo fuori dalla mia soggettività.

IMPORTANTE (Pagine 386-389)

Certamente, non c’è aspetto del mio conoscere che io non debba conoscere criticamente,
esaminandolo e riesaminandolo nelle luci più variate, nelle prospettive più diverse, per guadagnare
sicurezza alle mie conoscenze: a tal fine niente mi aiuta come il dubitare de omnibus (cioè di tutte le
conoscenze presenti al mio conoscere), facendo quasi del dubbio l’inesauribile filtro di tutte le
particelle di verità che la mia coscienza possa accogliere: non c’è metodo migliore. A questo scopo
devo sforzarmi di non trascurare l’insegna mento di quella parte della filosofia, dichiaratamente
«critica», che mi suggerisce una critica della mia stessa ragione ragionante: prescinderne, peraltro, è
difficile a qualsiasi ricercatore che compia la sua fatica dopo Kant.

Eppure, la critica del mio conoscere non può essere integrale; non può esserlo non perché debba
porsi territori da rispettare: non ci sono colonne d’Ercole che il pensiero non sia pronto
avventurosamente a valicare. Non può essere integrale perché, pur nel criticare il modo, i modi del
suo ragionare, pur preoccupandosi di perfezionare continua mente, dall’interno, il suo metodo, la
conoscenza non solo non può distaccarsi dalla personalità del conoscente, ma non può sopprimere il
sottinteso di ogni conoscenza, che è atto costitutivo del conoscere del conoscente: la fiducia di poter
conoscere. Integrale, almeno intenzionalmente, rispetto a tutti i suoi eventuali oggetti conoscibili, la
critica del mio conoscere si arresta di fronte alla propria essenza fondamentale: se dubitasse del suo
poter dubitare e poter criticare, verrebbero meno, insieme con le sue certezze, i suoi stessi dubbi:
c’è dunque qualcosa che sfugge alla consapevolezza conoscitiva dell’uomo ed è la capacità del suo
conoscere. Il pensiero, in quanto «intelletto», «ragione», in generale in quanto consapevole
intendimento, può criticare sé stesso solamente con sé stesso: per questo aspetto ogni sua critica è
parziale. Per questo aspetto, l’intellectus non può fare a meno di quaerere fidem: almeno la fede in
sé stesso. Negare fiducia al mio pensiero mi è impossibile come mi è impossibile uscire dalla mia
soggettività: se questa, al suo inizio, mi si scopre come mio limite oggettivo, quello, al suo inizio,
nonostante tutta la mia razionalità, mi si scopre non razionale, almeno nel senso che non posso
provarmi la razionalità del suo essere razionale: io posso controllarne la rigorosa coerenza traendo
ogni conseguenza dal precedente presupposto, senza soluzione di continuità; posso studiare metodi
sempre più raffinati e prudenti (e diffidenti) per accertare il necessario rigore di codesta necessaria
coerenza, posso respingere ogni forma di entusiasmo e concitazione nell’esposizione di un ragiona
mento, posso richiedere che il ragionare mio ed altrui si esprima con metodica ordinata pacatezza,
posso legittimamente avere in sospetto l’espressione tutta intuizionale delle parole e delle pagine
appesantite dalla soverchia ansia del dire (sebbene l’espressione intuizionale possa rappresentare
con efficacia stati d’animo altrimenti ineffabili); posso, insomma, escogitare un sistema di limiti che
sia garanzia della razionalità dei ragionamenti, ma non posso comprendere, fra questi, il limite che
limita la razionalità di ogni ragionare: nella capacità di ragionare devo avere fiducia, devo avere una
fiducia che sfugge, in sé, a controlli razionali perché non è controllabile che ragionando, cioè non
può criticare se stessa che dopo avere ottenuto di essere accettata per quello che è. Alla sua origine,
la razionalità è irrazionale. Per quanta esperienza logica possa possedere, il pensiero rispetto a tutto
sé stesso, è una specie di petizione di principio: non può dare dimostrazione razionale del suo
originario essere. È obbligatorio utilizzarlo così com’è; è obbligatorio sotto metterne la forza
all’umanità senza potersi chiedere se l’umanità non sia ingannata da questa forza che impiega.
Interrogato dal pensatore diffidente, il pensiero davvero può giustificarsi rispondendo: nec ego ipse
capio totum quod sum. Il timore dell’inganno non giova al pensare: rischia di rendere timido il
pensante, di immobilizzarne lo slancio. Altro è il timore, altro è la prudenza: prese tutte le
precauzioni che possa prendere, predisposti, con metodo severo, tutti i controlli che possa
predisporre, il pensante deve affidarsi al pensiero che, solo, gli consente di acquistare consapevole
conoscenza: se la conoscenza sia, in sé e per sé, quale debba essere, a nessuno è dato accertare
perché nessuno può rapportare la razionalità ad una misura diversa dalla razionalità. Allora, appena
incomincia la mia indagine, tutta umanisticamente umana, partendo dalla prima certezza che ho, la
certezza del mio io, mi accorgo subito che per fino di questo elemento certo dispongo
limitatamente: ne sono padrone meno di quello che io stesso ne sia, in fondo, padroneggiato:
all’origine la mia soggettività è oggettiva, in quanto la mia volontà non si è voluta; al l’origine la
mia razionalità è irrazionale, nel senso che non c’è modo di controllarla, regolarla, criticarla se non
con i suoi stessi principî, per quel tanto che essa permette. Il mio io, che, nella storia del progresso
dell’umana consapevolezza meditante, mi sono abituato a considerare specialmente nei suoi aspetti
più lusinghieri per la mia dignità di uomo, cioè come garante della mia libertà di soggetto e
testimone della mia libera attività raziocinante, sembra tradirmi proprio in questi aspetti più sicuri:
la mia soggettività mi si rivela originariamente oggettiva, la mia attività raziocinante mi si rivela
originariamente irrazionale. Scopro, addirittura, che io non determino il mio essere soggettivo e il
mio essere razionale, ma dall’uno e dall’altro sono determinato. Questo scacco della mia libertà non
è forse la sollecita fine di ogni velleità di fon dare una filosofia dell’individualità, desiderosa di
pigliare le mosse del suo ragionare dalla sua individuale consapevolezza, senza restrizioni e senza
ampliamenti preliminari?

Certamente, sarebbe la fine di un simile tentativo se si trattasse veramente di un insuccesso della


libertà, se veramente l’individuale soggettività raziocinante fosse do minata dalle determinazioni di
quella oggettività senza avere una posizione da prendere di fronte ad essa (in un senso o nell’altro).
E poi: la libertà individuale, anche nei momenti in cui scopre quei suoi limiti oggettivi, subisce un
insuccesso o acquista più chiara coscienza di sé chiarendo a sé medesima ciò che è suo e non è suo?

Queste domande si legano intimamente fra loro: se l’individualità liberamente sopravvive alle
costatazioni che le sembrano dolorose, se può far fronte ad esse, se può mutarle, dentro di sé, in
nuovo vigore morale e più approfondita conoscenza, lo scacco non è tale. Se, invece, l’individualità
soccombe, oppressa dal determinismo, è senza dubbio impedita nella sua libertà, nel suo agire e nel
suo conoscere. La risposta può essere unica e univoca: i limiti avvertiti dall’individuo soggetto
raziocinante non attentano alla sua libertà perché egli rimane libero di non essere soggetto e di non
essere raziocinante: se veramente crede che la sua libertà sia la pretesa di potere non essere voluto,
di potere pensare un controllo totale del pensiero che metta al riparo dall’inganno eventuale della
conoscenza razionale, è ancora libero – una volta costatata l’impossibilità di questa sua pretesa – di
non ammettere la costatazione: è libero di non ammettere quella datità. Ha un mezzo per respingerla
imponendo a tutto sé stesso la sua volizione particolare, che vuole dimenticare di essere stata
(all’inizio del suo volere) voluta e, per dimenticarlo, coerentemente, deve rinunciare a volere in
avvenire. Ha un mezzo per prendere una decisione la cui razionalità, in sé medesima, esce dalla
sfera della razionalità giacché taglia il filo che lega il pensiero al pensante. Questo mezzo è il
suicidio.

Riprendiamo; bisogna dunque fissare un limite alla razionalità, sapendo che però, essa è
presupposto all’azione dell’io (come abbiamo visto la critica non è mai integrale, ed inoltre è
possibile accettare la “condizione di partenza” e dare fiducia alla ragione).

Se questo io è un io volente non volutosi, è un io che si può riscattare nell’azione; direzione


dell’etica  vediamo come un orizzonte particolare come quello del diritto non è mai chiuso in sé.

Il discorso sull’Io volente precisa i limiti della razionalità, della ragione; devo aver fiducia nella
ragione, ma devo tener conto della situazione originaria.

Alla sua origine, la razionalità è irrazionale (non può dare dimostrazione razionale del suo
originario essere; esce fuori qui la posizione ontologica – ontologia negativa- in Piovani).

Questa consapevolezza che l’origine non è razionale apre al concetto di libertà dell’individuo (di cui
sopra); egli sa che è impossibile il controllo totale del suo pensiero; l’individuo diventa libero di
non ammettere quella datità originaria (Suicidio).

Un analisi siffatta del Soggetto Piovaniano nasce da un’attenta analisi della modernità; si erode il
soggetto assoluto, uno dei principi dell’idealismo naturalistico.

La volontà scopre dentro di sé una negazione, questa diventa il discorso sulla radice della libertà
dell’uomo che ha questa possibilità: non accettare questa datità (io posso non ammetterla).

Il suicidio per Piovani è coerente, perché io comunque ammetto la mia originaria condizione,
rifiutandola (scelgo di non esistere, ma comunque scelgo, assumo su di me la responsabilità
dell’atto).

La libertà è dunque quella di colui che la rifiuta, rifiutando sé come datità (coerenza analoga a colui
che acquisisce coscienza di quel fatto originario – il non essere razionale della ragione che è in sé
medesimo e continua a vivere, vivendo il dilemma).

All’origine del mio io, il fatto / esperienza che non mi sono voluto, è avvertito come misterioso;
quest’esperienza è la stessa mia vocazione di uomo.

Nel momento in cui la riconosco me ne riscatto; non solo per la consapevolezza morale che assumo
di fronte ad essa, ma anche perché percepisco l’inganno (questa consapevolezza libertà dal timore).
Per costruire una vita che abbia moralmente senso non posso eludere il mistero, ma non posso
arrestarmi all’inganno originario; fare una scelta alternativa al suicidio: il mio vivere come volontà
di continuare a vivere, accettare di vivere come io sono.

L’io è una realtà che o la si prende per quello che è o la si lascia; Se la si prende per quel che è la si
riconosce diversa, più del suo volere volente, è qualcosa che non sfocia nel particolare, è universale
(non si pone dall’esterno).

L’universale è rivalutato solo nell’individuale, perciò è partito (Piovani) dalla concezione


umanistica che ha pensato fino in fondo l’individuale (inteso come particolare che vuole
ingrandirsi) con la consapevolezza che l’uomo moderno ha poi raggiunto di essere insieme
soggetto-oggetto.

A cosa serve riconoscere quella datità nella mia stessa soggettività? A ri-conoscere che io non sono
né posso vivere in una dimensione soggettivistica, solipsistica; il mio essere soggetto si alterizza,
diviene altro (contributi psicoanalisi contemporanea).

L’IO è una dimensione scissa; c’è un altro dentro me. Il soggetto non è assoluto, non controlla sé;
ciò accade nelle patologie, espressione diretta del soggetto che insieme è anche un altro.

Esistono altre individualità, io lo devo riconoscere.

Questo riconoscimento è un atto necessario, non-gratuito. L’oggettività iniziale del soggetto mi


mette sulla strada da seguire (dopo scelta esistenziale). Non sono da solo; inoltre, tale ri-
conoscimento non è esterno, non nasce da una “constatazione” io lo sperimento al mio interno.

Cosa importante: non c’è un IO immediato; il solipsismo presuppone immediatezza; c’è una
rappresentazione del particolare che è anche sempre mio.

Il conoscere è parziale, è legato alla rappresentazione.

Azione-riconoscimento-conoscenza sono campi che si intrecciano.

Interrogativo cruciale che nasce da una possibile contraddizione: Non c’è un IO che nella sua
immediatezza si faccia garante del conoscere il mondo nella sua totalità, perché il mio io, la mia
attività di soggetto conoscente, è MEDIATA: ha bisogno della relazione con ciò che è altro da sé! Il
pensiero mi obbliga a tener conto dell’altro; Non posso evitare questo riconoscimento,
abbandonarmi all’attivismo assoluto (PURA AZIONE).
Il mio IO non si identifica pienamente con l’azione perché l’Io agente non è pura azione. Se così
fosse avrebbe rinunciato alla soggettività in quanto pensiero.

Io non mi chiudo nella mia singolarità, me lo impedisce il pensiero; l’azione non può essere un
assoluto che prescinda dall’attività del mio pensiero – intreccio pensiero e azione-.

Queste linee di una filosofia del diritto sfuggono alla specificità del giuridico; piovani è un
pensatore / filosofo del diritto che entra nella dimensione giuridica che tocca la soggettività e
l’azione, il rapporto tra diritto e morale.

La soggettività indagata nella sua più profonda natura svela la sua oggettività originaria.

La riluttanza dell’uomo ad ammettere la propria oggettivazione è la suprema testimonianza del


valore dell’azione: l’uomo non sa concepirsi immerso in un esistere in cui gli venga negata la
titolarità della libertà di agire.

Ogni forma di oggettivismo puro è ingiustificata poiché l’oggettività originaria non è riduzione ad
un puro esistere biologico: l’uomo non può che condurre una vita attiva.

Lezione 4/05

Linee di una filosofia del diritto (conclusione)

Oggi cercheremo di concludere Linee di una filosofia del diritto, per provare poi (6/05) a sostare su
un altro tema già apparso nelle prec. riflessioni di piovani (rapporto Diritto natura ed etica: testo
1961 giusnaturalismo ed etica moderna).
Prima di arrivare al testo, riprendiamo le Linee, e riprendiamo queste linee ricordando che i punti
centrali della riflessione erano (e sono) stati la questione della lesione-torto.

Piovani aveva riflettuto sulla componente fondamentale del soggetto, L’Io come un volente che
però alle origini non si è voluto; definizione emersa già in maniera forte; questa dimensione
negativa riconosciuta all’interno dell’io si è poi mostrata essere fondazione della vita morale (anche
come nei p. di una filosofia della morale verranno riprese queste tematiche)

Alla questione del riconoscimento all’interno dell’io di una datità ( non voluta; noi siamo soggetto e
dato dell’esistenza) aveva osservato P. che noi possiamo mettere fine coerentemente all’esistenza
( tema del suicidio venuto fuori in quanto Piovani riconosce come coerente rispetto alla dimensione
antropologica dell’uomo moderno, contemporaneo) se però si fa una scelta di tipo coerente ( se si
accetta in senso vitale di restare nella vita, pur avendo riconosciuto che non esiste un soggettivismo
puro, allora questa accettazione della vita va a fondare l’esperienza morale).

La fondazione della morale nasce da questa accettazione vitale e nasce anche dalla dimensione di
un soggettivismo che non è mai né puro né assoluto.

Il problema morale si pone (si confronterà molto con Kant Piovani poi, perché l’uomo moderno /
contemporaneo nasce da una serie di questioni poste in relazioni ad un soggetto che non è mai puro,
è IMPURO).

Pensiero e volontà non sono padroni esclusivi della soggettività.

Aspirare ad una assolutezza soggettiva è un illusione: soggettivismo e attivismo puro sono delle
illusioni: torna polemica contro volontarismo assoluto. Si tratta di uscir fuori da ogni illusione e/o
rinunciare alla vita o prendere il mio io (pag. 522-523) prendendolo fino in fondo per quello che è: è
la cosa più faticosa, più coraggiosa.

Se la mia volontà e il mio pensiero non sono interamente padroni della mia soggettività, io non
rinuncio alla vita.

O Prendo la realtà del mio io così com’è e accetto tutto la vita (difficile a farsi) è cosa più faticosa
del decadere dalla vita e fuggirne.

La fondazione del discorso morale non può essere una fuga dalla realtà, essa è un assunzione fino in
fondo della vita!

La vita morale nasce da una accettazione di fondo (della condizione originaria).


Dunque, da questa consapevolezza di accettare la vita per quella che è nasce l’altro tema che si
affianca al diritto e all’etica, la consapevolezza della realtà della storia.

Nasce l’espansione dell’individuale (motivo importante).

L’individualità può coltivare un’ambizione sua-propria (uscire dalla dimensione singolaristica)


dunque si confronta l’individualità con ciò che è altro da sé e qui il soggetto che non è mai puro
incontra l’altro, dove?

Nel mondo storico (…) le pagine sono da 523 in poi.

L’incontro con l’altro è una necessità, co-essenziale a questo soggetto che non è puro e che quindi si
scopre radicalmente non-singolare.

L’io si realizza con gli altri (527) e il suo essere-con (V. Heidegger) è un tentare di essere sempre in
relazione agli altri; naturalmente ritorna il tema della lesione ( che nasce da una relazione, perché ci
sono gli altri) e anche qui ribadisce un concetto che fissa il tema della lesione: l’essere dell’io con
altri e prima d’ogni altra cosa è anche un tentare di essere senza gli altri; la lesione degli altri è
singolarismo pratico, al fine di affermare una singolarità immediata e prescindendo dagli altri anche
ledendoli direttamente).

Se il soggetto non si riconosce tale, cioè soggettivo, prova a ledere gli altri, a stare contro gli altri;
questo stare-contro determina una possibile lesione, ma la lesione afferma che si tenta di definire la
soggettività in senso improprio; la lesione degli altri è una forma di singolarismo pratico: c’è la
relazione con l’altro, ma se io ledo l’altro mi affermo come soggetto, affermo la mia soggettività
come singolare, solipsisticamente orientata. Cosa che un’etica contemporanea non contempla! La
lesione delle altre individualità è anche la lesione della mia. Io non sono solo, né sono “tutto
soggettivo” il riconoscimento degli altri per quello che sono è necessario. Se io mi concepisco come
individualità singolare, accentuando la mia predisposizione a ledere, nel fare questo non riconosco
gli altri per quello che sono, riconosco solo me, e voglio imporre la mia volontà agli altri. Il campo
d’azione si restringe a una mia singolarità atomica, la mia singolarità è vissuta come atomo irrelato
(in vitro) e ciò non crea né inerisce a una dimensione etica.

Non si tratta di subordinare le altre volontà alla mia, ma riconoscere le altre individualità (al pari
della mia).

Piovani osserva (528): Gli altri sono trasformati da me solo se compresi nel loro mondo e non c’è
comprensione senza momentanea dimenticanza di me nel mio comprendere.
Trasformare gli altri secondo la mia volontà non è possibile.

Punto nevralgico questione: la lesione è possibile quanto più conosco gli altri; la conoscenza degli
altri nella lesione è un orizzonte parziale. La verità è che per trasformare gli altri, per mettermi in
relazione agli altri, questi li devo riconoscere per ciò che sono non in relazione alla mia volontà!

Punto chiave: Libertà. Bisogna uscir fuori da questo modello di volontarizzazione o attivismo
perché bisogna riconoscere che gli altri sono liberi e hanno un esistenza pari alla nostra. Piovani
insiste su questo: ancora una volta un etica (se vuole essere assistita da una f. del diritto) deve far
cadere il concetto di volontà immediata (non c’è) il soggetto non è particolare / singolo: se lo fosse
non vi sarebbe vita pratica. Il singolare, l’individuale non instaura una vita morale (perché non è
una vita di relazione).

Per istaurare una vita di relazione non basta l’immediatezza del dolore; esistono luoghi di medietà.

Il luogo di mediazione è il mondo storico, in esso mi avvicino, incontro gli altri, li posso conoscere
e li posso comprendere e anche trasformare; però, mai, riportandoli ad una misura esterna che
potrebbe essere anche la mia ma è esterna. Anche se voglio trasformare gli altri e lo faccio nel
mondo storico se voglio comprenderli, li devo accettare nella loro individualità; tanto più sarò
trasformarla quanto più sarò capace di indovinarla, di ricercare / individuare la loro individualità,
dimenticando la mia individualità nella individualità degli altri, in un apparente oblio ritrovandomi
arricchito dall’esperienza altrui (mi arricchisco anche da me, nell’abbandono, nell’oblio > richiamo
alla psicologia contemporanea; Tasket)

Una individualità assolutamente sola è la negazione dell’uomo (p.529).

L’alterizzazione è necessaria; l’ipotesi di un uomo isolato è stata sempre riproposta anche dalla
storia della filosofia, anche utilizzando il canovaccio biblico (i primi uomini furono soli e posti); su
queste ipotesi, tenendo conto degli sviluppi dell’individualità – e della individualità moderna, non si
può lavorare.

Il moderno nasce dalla rottura anche del modello sacro, naturalistico (che infondo poi la religione
cristiana aveva assunto anche dentro un'altra cornice) ora si spezza l’idea di natura classica, di
Physis, e di natura sacra. Non è ipotizzabile un individuo che si scopra isolato.

Un individuo si mantiene nella propria individualità solo se resta in relazione all’altro.

“Il soggetto della lesione non si accorge quando pratica un atto ostile che danneggia l’altro, non si
accorge che, infondo, offre non semplicemente un disconoscimento – non disconosce l’altro- ma è
anche un ri-conoscimento.
Quando io provo a danneggiare l’altro, con convinzione, è sì un attività negativa, ma,
paradossalmente, non può mancare di riconoscere – il valore dell’individualità- l’altro.

Questa affermazione è rilevante. Finanche nell’azione lesiva si riconosce il valore dell’individuo;


implicitamente, l’azione lesiva riconosce il valore dell’individualità, quasi ne fa involontario elogio!

Non c’è disconoscimento attivo che non sia anche silenzioso e invidioso riconoscimento: questo
accade! Sul piano esistenziale e personale potrebbe essere consolatorio, ma non fino infondo; è un
dato di fatto.

La necessità dell’alterizzazione dell’io è un dato necessario. Il rispetto che noi diamo agli altri non è
mai un fatto scontato.

Pagina 533, capitolo 14:

Morale e Diritto (intreccio) nella difesa dell’espansione individuale (individuo che tende, che si
espande, che diviene; non individuo chiuso o singolare) > Le ragioni di questa espansione (difesa
dal singolarismo)

Non è esatto dire che io rispetto per essere rispettato: no!

Perché mi tocca l’obbligo del rispetto degli altri; vanno rispettati, indipendentemente dal rispetto
che così facendo io posso ottenere!

Gli altri mi servono ma non perché soggetti alla mia volontà, ma nella misura in cui io non posso
costruire un mondo eticamente corretto se gli altri non li conosco nella loro individualità.

Pagina 533

Non è un do ut des, è un obbligo.

Perché?

Perché gli altri servono, sono necessari – in quanto se stessi- alla mia individualità: Il confronto con
Kant / etica Kantiana è esplicito (l’altro è fine non è mezzo).

(535) Non bisogna pensare che il torto o la lesione rendano la vita assurda o irrazionale!
Anzi, la lesione, anch’essa, appartiene certamente al mondo dell’irrazionale, dell’irrelato, ma la
lesione nella sua irrazionalità appartiene alla logica della vita.

L’irrazionale è parte della storia, della vita (in quanto parte della storia) non è indipendente dalle
volontà individuali, ma non c’è un discorso apocalittico né esterno estraneo alla storia (dove ci sono
possibilità perché si sceglie il male).

Il mondo dell’io è destinato a vivere radicalmente una posizione drammatica; non c’è una colpa.

L’io è un de esse, è privo di essere.

Il punto di partenza che bisogna cogliere è che il male non dovrebbe essere, non ci dovrebbe essere,
ma de facto è, c’è, e c’è perché le individualità non si pongono nelle condizioni di comprendere
l’altro per quello che è, ma in una sorta di dominio (non c’è dignità, la mia individualità non si
espande, non c’è fondazione morale, non c’è libertà, c’è decadenza, una condizione di oppressione).

La logica della vita è una logica che non possiamo considerare, dunque, tout court, razionale: però,
il vero punto, è che la libertà del soggetto nasce da questa consapevolezza (legame razionalità /
irrazionalità).

Pag. 536: il male ha fuori di sé la sua razionalità che nell’economia della vita garantisce il libero
esplicarsi dell’individualità. Questo è un argomento delle teodicee (riferimento modello teodiceo)
che è il punto d’incontro dell’elemento cosmologico, che è in ogni logica, con la storia (dimensione
di storicità come dimensione necessaria).

Intreccio che il problema della teodicea pone: com’è possibile il male? L’intreccio è complicato dal
fatto che c’è una dimensione cosmologica che però incrocia la moderna logica della storia.

Nel campo della storia si incontrano le individualità. Piovani lettore di Pascal: aver fede o non aver
fede, scommettere sulla possibilità o meno di aver fede.

La scommessa si vince sul campo storico! Sono fuori da ogni cornice di carattere religioso
tradizionale.

Ogni teodicea pone un problema cosmologico (come si regge il mondo se c’è male; il male è anche
disordine; come si regge il mondo? > questo schema si rompe con l’introduzione del libero arbitrio.
Si rompe l’ordine cosmico non garantito da Dio né dalla Physis.

Si rompe ma può costituirsi; come? Riconosciamo i mezzi per la ri-costruzione comprendendo


storicamente il nostro esistere; noi sperimentiamo di essere miseri e grandi (pascal) finiti e infiniti.
L’uomo è una canna esposta al vento, che si piega costantemente, non è stabile. Il mondo è
instabile, ma non sta fuori del soggetto, sta dentro esso; e se il soggetto pensa di non rispettare gli
altri o di rispettarli fissando condizioni proprie, ferisce gli altri ma anche sé (l’individualità non si
espande, e invece deve e vuole espandersi).

Piovani dice che infondo il male è un fatto irrazionale, e il male ha fuori di sé la razionalità. Noi non
la possiamo (ragione del male) riconoscere nell’azione lesiva. Ma in ciò che sta fuori l’azione
lesiva: nella relazione, comprensione storica del luogo in cui le individualità scommettono sulla
propria esistenza.

E c’è anche un altro riferimento indiretto a Kant ( scritti di filosofia della storia) : egli ragiona molto
sul problema della storia assumendo il testo biblico come luogo aurorale di manifestazione
dell’uomo, e dice: una storia che è priva alle origini di documenti può servirsi del testo biblico ( che
Kant laicizza) che ci invita a cogliere che se la storia della natura inizia con Dio ( che la crea) la
storia dell’uomo inizia dal male perché l’uomo è stato creato da Dio ma ha questa libertà che lo
porta fuori la sfera paradisiaca. È una storia faticosa, fatta di sfide, bisogni.

Pagina 537: il senso della storia è per un verso il senso del male.

Comprendere la storia significa avere senso del male, l’individualità storica è fonte del male, senso
inteso come coscienza del suo essere nel mondo, del suo contraddittorio esistere (no accettazione
passiva, dunque).

Il male è una datità, non si sottrae alla storia ma ci sta dentro.

Dentro la quesitone di accettazione della storia dell’uomo si dà anche un altro concetto che in
Piovani sarà al centro della vita morale: il concetto della responsabilità.

Se io non scelgo il suicidio ma accetto la vita per quella che è, l’accettazione porta con sé la
responsabilità, la consapevolezza di essere – in una cornice drammatica- responsabile delle azioni.

Questa accettazione / riconoscimento del male come dentro la nostra storia, non soltanto introduce
il tema della responsabilità ma anche un altro tema dal vago sapore settecentesco, il tema del
progredire; senso della storia è progressione, è aver fede nel progresso dell’uomo.

L’umanità come l’individuo (539) si nobilita nelle azioni più alte, anche poco prima di franare nelle
epoche sue più oscure, in cui perfino la storia tace.

Accettazione della storia è accettazione di sé. Anche quando l’uomo scopre di negare sé stesso, di
essere inferiore a sé stesso (quando scopre la realtà del male radicale, anche quando la storia tace
(quando cioè l’individuo nega sé stesso) perfino la storia non riesce a riconoscere l’uomo come tale,
anche se è abituata a mille deformazioni, eppure anche in questa condizione, la storia può
progredire, e può farlo come possibilità, nella consapevolezza di essere esposta a tutte le cadute e a
tutte le ricadute.

Il senso profondo della decadenza possibile della storia: la storia non solo decade, ma tace, cioè non
si riconosce (fortemente settecentesco – idea decadenza- ma anche novecentesco – la fine della
storia, non aver più voce-)

L’attenzione verso un umanesimo drammatico di Piovani

Se volessimo richiamare, a proposito dell’esistenza del male (comprensione della storia, progresso
possibile) noi dovremmo sottolineare che in Piovani c’è e resta attenzione alla civiltà umanistica
(umanesimo non solo propenso a elogiare in positivo la figura dell’umano) a un umanesimo anche
drammatico; Machiavelli (il principe nasce come discorso politico ma su una base antropologica,
rinnovabile).

Il male è della comunitas, non è male particolare (da qui l’esistenza di strumenti politici x evitare
che la storia possa tacere).

C’è comunque in Piovani rifiuto dell’utopismo, manca l’idea di una fuga della realtà; non c’è
riferimento a un mondo “garantito” (sebbene si auspichi allo sviluppo delle individualità).

Nell’utopistica aspirazione al perfetto mondo c’è da dire che: al male corrisponde la consapevolezza
che l’uomo non si libera dall’errore – non definitivamente-.

C’è un rischio dell’aspirazione utopistica: non considerare i pericoli che, nella storia, si danno per
l’individuo, per l’umanità Non c’è un autentica concezione di storicità nell’utopia, c’è una
“costruzione” che non considera la libertà dell’uomo come rischio.

La libertà invece è rischio, è possibilità.

Dunque, l’utopismo non si preoccupa di predisporre mezzi di difesa dal rischio, va in direzione del
perfettismo* invece, ciò che conta, Kantianamente, è il perfezionamento (non perfettismo) che
contiene l’errore, la stasi, il divenire, questo progresso labile, fragile; la storia è luogo che contiene
anche l’irragionevolezza della lesione, ma soprattutto la libertà dell’individuo.
Siamo – in Piovani- dentro la consapevolezza della storicità quale luogo e senso dell’espansione
dell’individuale ( importante quando ci soffermeremo su conoscenza storica e coscienza morale;
anche qui c’è questa sensibilità, questa attenzione, perché queste due questioni sono fondate sul
concetto di responsabilità in relazione all’azione): bisogna avere coscienza conoscitiva e coscienza
morale perché ambedue sanno che l’azione che vuole affermarsi nella sua immediatezza ledendo gli
altri, non è azione che possa partecipare alla logica del soggetto nell’intero itinerario dell’agire – la
storia-.

Si deve dare conoscenza storica e coscienza morale per dare dignità all’azione; ora, quest’azione
implica il riconoscimento del soggetto conoscente e agente che si espande verso un concetto
fondamentale che Piovani riprende ( l’abbiamo visto accoppiato al bisogno, cioè il lavoro) citando
Cassirer che ritorna nel brano ( già ritornato a proposito della dimensione simbolica) perché ha
sottolineato un principio fondamentale della vita contemporanea ( 544): Non ci sono principi innati
che possono definire l’uomo o l’umano. Né l’istinto, né qualche facoltà innata.

La principale caratteristica dell’uomo non è una natura fisica o metafisica ma è il suo lavoro.

Questo lavoro è l’insieme delle attività umane (il lavoro è azione) che determina la sfera
dell’umanità.

Cassirer ha letto studiato personaggi importanti, quali Bruno (l’industria, l’uomo si industria, con la
mano opera; la mano è un tratto distintivo dell’umano essere; non c’è principio innato) Vico
(Verum et factum; non c’è principio metafisico; non c’è il vero e poi il falso. Il vero è nel falso).

A partire da Cassirer Piovani continua dicendo: cosa comanda la morale all’uomo? Domanda di
realizzare sé stesso; dunque, c’è un modo per riscattare quella datità di cui si è detto (soggetto
piovaniano) quella soggettività dell’io (che ha in sé questo contrassegno; quello di essere sogg. E
ogg. Gettato) e questo possibile riscatto si dà nel riconoscere e oltrepassare quella datità.

Da questo punto di vista, quella stessa datità la si può riscattare assumendola come una
connotazione che vive nella misura in cui il soggetto si definisce soggetto non assoluto, soggetto in
azione.

Quella datità nel momento in cui la vive un soggetto agente consente al soggetto di scegliere per la
libertà; il soggetto che sceglie per la libertà si espande, diviene, si mette in relazione con gli altri
(544) l’espansione libera è contrassegno e destino dell’individualità e dell’umanità.

Il destino è espansione libera dell’individuo; è un destino che non è qualcosa di già determinato, è la
sua vocazione originaria.
La vera espansione nasce proprio in questa dimensione, in questa forma di realizzazione; questa
forma di realizzazione serve anche (per l’individuo) a conservarsi.

Gli uomini obbediscono all’impulso morale dove? Nella storia. Il mondo storico, aperto alla
possibilità di male e bene; è nel mondo storico che l’individualità si nega ad una immediatezza
singolaristica – l’individuo deve essere oltre questa- e agisce, difende il proprio esistere, si apre
all’alterità.

A proposito di questa espansione dell’individuale Piovani riconosce un motivo presente in un autore


del pensiero moderno che è Spinoza; perché? Perché Piovani sostiene che la realizzazione
dell’individualità in questo contesto è espansione e conservazione.

Piovani premette citando Spinoza che siamo fuori la prospettiva Spinoziana perché come sappiamo
la natura dell’uomo in Spinoza è inevitabilmente positivamente parte del tutto e questo tutto non è
la storia, ma è la natura! Siamo in un contesto Spinoziano diverso dal contesto di riferimento di
Piovani, eppure, infondo, in Spinoza il problema dell’individualità si comprende se non si resta
nella dimensione del singolo ma ci si apre al tutto che in Piovani è la storicità (la s. è il totale).

Piovani scrive che la storicità che è necessaria. Non più il vecchio modello di storia naturale ma la
storicità come luogo di fondazione della storicità.

Ritorna il tema del diritto ( in riferimento implicito al kantismo) : questa storicità è necessaria
perché si deve affermare il vero e proprio imperativo giuridico; ( il testo che commentiamo è legato
al diritto, alla centralità del fatto giuridico, ma ci soffermiamo sul motivo secondo cui la difesa
dell’individuale avviene attraverso il diritto perché: il diritto lo si comprende se noi diamo del
giuridico una definizione di questo tipo: C’è un imperativo giuridico che dobbiamo tener presente –
formula di tipo kantiano- che potrebbe riassumersi così “ agisci per impedire che la realizzazione
della tua individualità sia ostacolata nella necessaria espansione del mondo storico”.

Questa è la sintesi del discorso. Bisogna agire.

L’Io, costitutivamente, deve agire, ma non agire per agire, il fine non sta nell’azione, ma
nell’oggetto – nelle oggettivazioni di queste azioni, e ciò per impedire l’ostacolo (l’azione stessa è
la difesa dell’espansione dell’individualità; qui non c’è riferimento all’universale, poi vedremo in
Kant, il senso dell’universale kantiano in giusnaturalismo ed etica moderna).

Per il momento l’imperativo giuridico kantiano è questo: non è la dimensione dell’universale. Agire
per impedire che la mia espansione individuale sia ostacolata significa che manca una difesa che
abbia un motivo o elemento universale o di universalità / non c’è uniformismo. Manca
universalizzazione del soggetto o del suo ruolo. Ciò non accade perché l’elemento antropologico,
quel de esse costitutivo, il negativo costitutivo, diventa lo slancio dell’individualità. Se l’io non
avesse consapevolezza che non si è voluto all’origine, sarebbe un Dio; quella mancanza è lo
“spingere” non a universalizzare sé o il proprio mondo, piuttosto a riconoscere che egli è attività.
Da questo punto di vista il soggetto non può universalizzarsi, non può mai essere soggetto assoluto
se vuole difendere la propria espansione. Questa tematica del diritto come attività si lega a tutte
quelle filosofie che sono disposte a guardare a osservare le individualità per quello che sono,
nell’ottica della loro evoluzione. Non ci deve essere alcuno schema astratto o conclusione di
espansione già data; non ci può essere un evoluzione predisposta o già decisa dall’inizio.

Non è ininfluente, dunque, Hegel; egli si riferisce con polemica e costruttivismo a Hegel, e
raggiungerà una concezione fortemente critica nei suoi riguardi. Ma bisogna chiedersi: nei confronti
di quale Hegel? Di quale tradizione Hegeliana?

Soprattutto dell’Hegelismo meridionale, ma, certamente, la polemica non è nei riguardi dello Hegel
che si occupava del diritto. Non a caso, Piovani segue alcune pagine dei lineamenti di filosofia del
diritto di Hegel; il titolo dell’opera di Piovani è “linee di UNA filosofia del diritto / non della
filosofia del diritto. Invece in Hegel (dei lineamenti di una filosofia del diritto) non c’è spazio per
“un’altra” filosofie del diritto; Piovani riprende questo Hegel dei lineamenti di una filosofia del
diritto, in positivo. Riconoscendo che Hegel si è posto il medesimo problema, quello di seguire il
costituirsi progressivo dell’individuo che si personalizza nell’attività, nell’istituzione di alcuni
istituti giuridici (prima che intervenga lo Hegel sistematico, prima che egli teorizzi quello stato
assoluto che, commenta Piovani - a pagina 551 - prende su di sé tutta la storia del mondo; che
considera l’individuo dal punto di vista di una geniale fenomenologia degli istituti giuridici).

Piovani distingue lo Hegel dei lineamenti dallo Hegel sistematico.

Piovani riprende anche Vico (Scienza Nuova) osservando come nel pensiero vichiano il diritto sia
presente.

Utilizzando il grande modello della storia di Roma emerge anche il tema della custodia (del diritto)
in Vico, ma non soltanto in Vico, riporta alla questione decisiva in questo ambito della filosofia del
diritto e cioè la giustizia, che è un tema che Piovani affronta verso la fine dell’opera; solleva il tema
perché è un concetto positivo per lui, perché designa le azioni che si possono compiere (556) senza
recare danno agli altri. È un tema che tocca direttamente il diritto, il problema giuridico, il valore
della vita: l’affermazione del giusto, dunque, e soprattutto fissa i limiti dell’azione, della sfera
d’espansione dell’individualità. La giustizia richiama il problema del valore, richiama la questione
secondo cui il Diritto è azione, è attività, e per esser tale deve avere il senso del limite, del giusto,
deve esprimere un criterio di giudizio e, se questo è vero, non c’è un diritto ideale, dunque, non c’è
mai un diritto ideale che fissi una morale pura e intangibile, distinto da un diritto “storico”; Piovani
insiste sulla corrispondenza tra diritto positivo e storico; il diritto positivo è un diritto tout court
storico.

Riprendendo Agostino: il diritto positivo è il diritto della civiltà terrena, è imperfetto, limitato come
tutte le cose del mondo, e questo è l’unico diritto che esiste (non c’è un diritto che precede) questo
diritto però non si chiude nel dato tecnico della legislazione; il diritto – non solo come etica, e
soprattutto se è azione- è un diritto che guarda ai desideri, agli ideali che sono negli uomini che
pongono leggi, decreti, istituzioni, per difendere il loro diritto ( dunque quegli ideali, quelle
speranze).

La positivizzazione, la fissazione del diritto, ha luogo a partire da quella volontà di difesa,


dall’individuo che si incontra con altri nel medesimo sforzo di difesa.

Pagine 564: Si parla di diritti che riguardano anche bisogno, desideri, aspirazioni degli uomini.

Discussione in Italia (ius soli) nasce da un bisogno da un desiderio.

Prima del riconoscimento della legge nella legge c’è un bisogno, un desiderio.

Questo è IUS e non cessa di essere IUS, perché ciò che è veramente IUS è azione che nasce dal
desiderio dalla responsabilità degli uomini. È diritto espresso dall’uomo che incontra gli altri
uomini (dunque il diritto positivo è diritto storico, non si prescinde dai bisogni dalle aspirazioni, ma
anche dagli ostacoli che questi diritti incontrano).

Da questo punto di vista la conclusione anche dell’opera è indicativa e confermativa di una


aspirazione presente nel giovane Piovani, quella di riconoscere fino in fondo, più che destino la
“destinazione” dell’individuo – per togliere il riferimento (dell’individuo) a qualcosa di esterno, un
fine esterno o già dato- sta nella sua espansione libera, e se questo allora è vero, si capisce come la
conclusione stessa è affidata al motivo emerso nel primo testo ( normatività e società) perché
Piovani dice “ Se il diritto positivo è visto nel suo positivizzarsi nella misura in cui gli individui lo
pongono nella storia, la socialità non è un istituto che spetti al diritto per sé stesso ma è già la
socialità rinvenibile in questa azione di espansione dell’individuo; o anche, date tutte le premesse,
l’individuo se vuole adempiere al suo essere soggettivo non può far a meno di essere soggettivo.
Nella socialità egli contempla la sua coerente socievolezza; non la scopre, la trova, la completa; egli
attribuisce al diritto la socialità, non la riceve da esso, mantenendosi fedele al suo essere
individuale.

La socialità si dà, non si riconosce, perché ancora una volta si ribadisce il concetto emerso a
proposito della norma – normatività è società, se questo essere ( no congiunzione) lo abbiamo ben
definito come soggetto che si espande e che si espande perché ha scelto di vivere fino in fondo,
caricandosi di un non-essere, di un de esse; l’espansione individuale in riferimento a questo de esse
a questo non essere; quest’originale persistenza ontologica è molto tra virgolette, perché non è un
ontologia indicativa di una certa tradizione occidentale; è originaria perché dinamica, è espansiva,
ha questo senso di dinamismo, questa è la novità.

Riferimento al Transfert, dunque alla psicologia contemporanea: funzionale a comprendere come


l’espansione di cui parla Piovani sia originale, trasformando il senso del divenire, dell’azione.

La socialità è costitutiva del mio essere come individuale, dunque, del diritto come azione, e allora
NORMATIVITA È SOCIETA’, sottolineando ancora la dimensione non astratta della norma, la
norma come misura; il diritto è attività ma è anche difesa dagli ostacoli che renderebbero
l’espansione anarchica. Questa misura non scopre, ma incontra la socialità. C’è un appartenenza tra
misura, diritto, attività e socialità, dunque alterità.

Lezione

6/05

Punto di Approdo del corso: Principi di una filosofia della morale.

Oggi leggiamo un volume del 1961 ripubblicato di recente: Giusnaturalismo ed etica Moderna.

Questo è stato un testo di svolta all’interno della produzione Piovaniana; riprende alcune linee della
riflessione giovanile, sia di Normatività e soprattutto di Linee di una filosofia del diritto, ma qui
dedica un attenzione particolare al diritto naturale; un autore anche molto noto – più noto di piovani
per tante ragioni- ovvero Bobbio, gli scrisse una lettera nella quale scriveva ( i due si conoscevano e
stimavano molto) in questi toni “ Con questo testo tu hai passato dalla filosofia del diritto alla storia
della filosofia e alla filosofia morale; è un testo che rappresenta una fase particolare della riflessione
di Piovani, e ci renderemo conto di questo, perché questo testo “ isola” un problema o tema che
appartiene alla storia della filosofia del diritto in età moderna, non solo ma soprattutto ( e cioè il
diritto naturale) poi il confronto è diretto con l’etica, dunque è un’opera rilevante.

Questo testo, già al suo esordio, introduce un motivo già emerso per Piovani filosofo del diritto, e
cioè richiama il carattere della civiltà moderna al tema (emerso già) cioè la Pluralità delle filosofie:
La civiltà moderna è segnata dalla presenza di Plurali filosofie della morale e del diritto.

La pluralità delle filosofie – tema già affrontato da Piovani in linee di una filosofia del diritto- vive,
in età moderna, il rimpianto di un’uniformità perduta illusoria!

Il mondo moderno nasce, da un lato, con questa idea della pluralità – non esiste una filosofia
UNICA, ma più filosofie- (sia per ciò che concerne la filosofia della morale che la filosofia del
diritto).

Questa pretesa di unicità cade e con essa, COEREENTEMENTE, cade qualsiasi pretesa
assolutistica, cioè ogni etica moderna – prefazione testo- è incompatibile con la pretesa di
ammettere o fissare un ordine morale assoluto – una morale non plurificata- si tratta di un’antica
pretesa assolutistica che deve cadere nel momento in cui, nella civiltà moderna, si danno plurali
visioni del mondo che riguardano la responsabilità del singolo o la sua partecipazione a dimensione
plurime.

Questa concezione è contrastante con un motivo di fondo del giusnaturalismo aderire ad una visio
uniforme del reale; Il termine (Giusnaturalismo) consente di distinguere i richiami – che pure si
danno non solo nel moderno ma pure nell’antico- al diritto di natura dalle dottrine
giusnaturalistiche.

Questo è un tema rilevante!

Si tratta di accogliere questa distinzione – di metodo e contenuti- studiando Piovani;

Sono ricorrenti nella storia moderna e nell’antica concezioni inerenti il diritto naturale; questa
predisposizione ( QUESTO SENTIMENTO PER IL DIRITTO NATURALE, scrive Piovani) a
richiamare le ragioni del diritto di natura ( diverse dalle dottrine giusnaturalistiche che non hanno
più senso nell’età moderna, l’età dell’individualità) si dà, di fatti, un diritto naturale – in quanto un
attenzione al diritto naturale si dà in tutte le epoche- ma da intendersi come teoria del diritto
naturale, che guarda alle dottrine del giusnaturalismo ( che si disinteressano del sentimento in sé,
sentimento del diritto naturale da intendersi come appello emozionale a un diritto esistente in
corpibus).

Nonostante le concessioni / le simpatie nei riguardi del diritto naturale, un rinnovamento del
giusnaturalismo nella coscienza contemporanea è incompatibile con il carattere dell’etica moderna!

Nel I capitolo: Teoria del giusnaturalismo e sentimento del diritto naturale (si dà un sentimento del
diritto naturale, che pur si evoca; ma altra cosa sono le teorie giusnaturalistiche! Se il sentimento del
diritto naturale si dà in tutte le epoche, non bisogna confondere questa attenzione con le teorie /
teorizzazioni del giusnaturalismo).

Piovani (come abbiamo avuto modo di notare) pone il lettore davanti alla sua tesi dall’inizio,
secondo la quale: l’etica moderna e le teorie del diritto naturale non sono compatibili!

L’etica moderna, nella sua storica e ideale modernità (Piovani, comunque, con i temi trattati,
tratteggia la storia della filosofia. Tout court; non circoscrivendoli all’ambito dell’etica) deve
sovvertire una teoria del diritto naturale.

C’è un appello al diritto naturale – che va ammesso- c’è un sentimento, ma altra cosa è appellarsi a
una TEORIA del diritto naturale, che ha un ché di contrastante con l’etica moderna, e l’etica
moderna come vedremo non può che sovvertire una teoria del diritto naturale!

Piovani descrive come, dopo Tommaso, il giusnaturalismo matura, e infine decade.

Ora chiediamoci: qual è il punto di approdo della riflessione di Piovani (rispetto a ciò di cui stiamo
parlando)?

Tra medioevo e modernità si compie l’ordine antico (dal primo approccio alla religione, alla
politica, alle scienze, ma soprattutto dal punto di vista giuridico) il concetto di legge naturale muta,
e ciò perché mutano i termini!

Il naturale dell’antico (greco e medioevale) non è il naturale dei moderni – neanche dal punto di
vista etico / giuridico. Diritto e morale sono interconnessi; La concezione giusnaturalistica è la
concezione tanto del diritto quanto della morale.

Il giusnaturalismo, che si era perfezionato nel medioevo, a contatto con le nuove realtà, perde
progressivamente coscienza di sé.

Capitolo VI

La traiettoria del giusnaturalismo tra antico e moderno continua, ma solo per compiere la parabola;
non possiamo individuare de facto un momento di fine dell’antico e di inizio del moderno – c’è un
forte elemento di continuità, sia pur nella differenza); è complesso individuare una continuità.
Piovani lo fa guardando al passaggio dall’antico al moderno ( come Eugenio Garin) guardando alla
perturbante presenza del concetto di persona; il concetto nel suo significato classico – maschera-
viene represso dalla cultura occidentale in un momento significativo della cultura medioevale
( personalismo medioevale); anche l’umanesimo si avvale di queste tracce che trasforma guardando
alle sfumature personalistiche che non mancano neppure in Tommaso ( ricorre ancora la dialettica
continuità e differenza). Ciò implica il sovvertimento di un opzione cosmologica che troviamo nel
personalismo di Tommaso (si parla di PERSONA non di INDIVIDUO) che collochiamo entro una
concezione cosmologica, ovvero in riferimento ad un approccio universalistico.

Un concetto chiave per individuare il passaggio medioevo / età moderna è il concetto di persona:
c’è un giusnaturalismo medioevale, ma l’idea di persona è legata ad una concezione di natura
assoluta.

Il passaggio fondamentale in età moderna sta nell’affermazione di una libertà – che è libertà dal
dogma- a partire dalla protesta di Lutero; Lutero indica un concetto nuovo, quello del libero
arbitrio; quest’ultima è proprio la questione che incrina l’ordine morale del medioevo, che segna la
fine dell’unità ecclesiastica, con la conseguente nascita di molteplici chiese-religioni legate al
territorio (abbiamo ora una pluralità di ordini religiosi).

I principi sono i detentori di questa / quella religione; In età moderna sono ricorrenti le lotte
religiose.

Lutero, dunque, apre alla pluralità (di chiese, fedi religiose). Anche in questo contesto abbiamo un
movimento che si muove tra l’antico e il moderno: è presente l’aspirazione all’universale in
concomitanza con la costituzione delle plurali esperienze religiose.

Ci chiediamo, dunque: cos’è che sancisce la nascita del moderno?

La sua apertura alla pluralità! Pur assistita ancora dalla sottointesa concezione della lex naturae o
diritto naturale.

Cos’è il giusnaturalismo? Per giusnaturalismo (anche diritto naturale, dal latino ius naturale, «diritto


di natura»)s'intende la corrente di pensiero filosofica che presuppone l'esistenza di una norma di
condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile, fondata su una peculiare idea
di natura] (ma, come nota Bobbio, «‘natura’ è uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi
nella storia della filosofia»[12]), preesistente a ogni forma storicamente assunta di diritto
positivo (termine coniato dai medievali, derivato dal greco thésis, tradotto in latino come positio; e,
appunto, positivum riproduceva letteralmente il senso greco del dativo thései, riferentesi al prodotto
dell'opera umana; Il diritto positivo (ius in civitate positum) è il diritto – che nasce in società-
vigente in un determinato ambito politico-territoriale e spazio di tempo, creato ed imposto da
uno Stato sovrano mediante norme giuridiche e volto a regolamentare il comportamento dei propri
cittadini.) e in grado di realizzare il miglior ordinamento possibile della società umana, servendo «in
via principale per decidere le controversie fra gli Stati e fra il governo e il suo popolo».

Secondo la dottrina giusnaturalistica il diritto positivo non si adegua mai completamente alla legge
naturale, perché esso contiene elementi variabili e accidentali, mutevoli in ogni luogo e in ogni
tempo: i diritti positivi sono realizzazioni imperfette e approssimative della norma naturale e
perfetta, la quale, da quanto risulta dal manuale settecentesco di Gottfried Achenwall intitolato Jus
naturae in usum auditorum, può servire «in via sussidiaria per colmare le lacune del diritto
positivo». I temi affrontati dai teorici della dottrina del diritto naturale attengono al diritto, perché
pongono in discussione la validità delle leggi, alla morale, in quanto riguardano l'intima coscienza
dell'uomo, e, prevedendo limiti al potere dello Stato, alla politica. 1

Il diritto naturale moderno è la trasfigurazione del diritto naturale classico (segna la morte del
giusnaturalismo con l’affermazione delle individualità autonome) esso si dà / nasce da un esigenza
razionale (ragione moderna) e coincide con la trasfigurazione-nascita delle nuove teorie etico-
giuridiche;

L’etica moderna può guardare alle teorie dei diritti naturali (PLURALITA’); essa non è compatibile
con UNA TEORIA GIUSNATURALISTICA: Non si parla di DIRITTO NATURALE ma di
DIRITTI NATURALI; diritti che preparano quelle dottrine cha rappresentano la garanzia della
libertà nello stato; Il pluralismo dei diritti naturali è un fatto importante; in essi si dà la
trasfigurazione del giusnaturalismo.

Notiamo frammenti di carattere medioevale – anche Tomistico- ma la cornice muta! Ci sono anche
frammenti Patristico-Platonici-Agostiniani: presenti in età moderna; ma, come detto, a mutare è la
cornice complessiva, cioè sorge il tentativo di elaborare un nuovo diritto di natura sula base della
nascita della nuova ragione moderna.

Nuovo conetto di natura (che si libera da vecchi ancoraggi) si esprime in un tema che incontriamo
anche nei manuali di storia della filosofia; si tratta dell’idea di Contratto (CONTRATTUALISMO)

Il contrattualismo moderno accompagna questa trasfigurazione; esso è fondato su esigenze e


prerogative della ragione moderna – vengono recisi i legami con i precedenti giusnaturalismi, anche
cattolici- è il mezzo attraverso cui si tenta di costruire un ordine diverso.

1
Wikipedia
Il momento apice del contrattualismo moderno è il ‘700 francese; ma guardiamo anche prima di
Rousseau, dove è identificabile il momento fondativo di GROZIO che introduce la dimensione che
fonda la società / il potere politico, e teorizza un’idea di ragione salda. Idea di contratto moderno:
essa non è riferita ad una realtà trascendente, ma ad una realtà che l’umano costruisce; quale? Lo
stato! La garanzia del contratto nasce dallo stato – che nasce come stato assoluto, è vero; ma
l’assoluto non è da intendersi come ordine esterno agli individui! Esso è l’esito di una relazione
immanente all’ordine umano).

Il contrattualismo moderno non può dipendere più dalla consacrazione contrattuale del passato, né
può appellarsi alla religio regis; né alla religio naturale. Non ha garanzie di carattere religioso; il
contratto moderno chiede una garanzia mondana e politica. Esso deve incidere nella vita della Polis
(lo stato è il GARANTE) perciò Hobbes è il teorico dello stato moderno; La paura (in Hobbes) è
presupposto perché si riconoscano tra loro gi uomini (ora non più riconosciuti come creati da Dio,
ma come attori nella vita della Polis).

Centralità dello Stato; Il contrattualismo di Hobbes conosce un evoluzione che giunge sino a Locke
(esponente anch’egli del contrattualismo moderno): lo stato non crea i diritti individuali ma nasce
per garantirli. Locke ha idee diverse da Hobbes.

L’individuo si sente creatore dello stato: atto a garantire quel patto di cui Dio non si fa più garante;
muore il vecchio giusnaturalismo, perché crolla una certa concezione della vita reale: si pluralizza
la realtà.

Il riferimento a Locke (di Piovani) è segnale della crisi del vecchio modello naturale.

Con Locke abbiamo la crisi dell’idea di realtà (innatismo, ad es.) diviene centrale l’idea di
esperienza (l’uomo è titolare dei diritti naturali; i diritti sono diritti naturali, ma sono diritti degli
individui non della persona – attraverso il contratto / un patto, rendono effettiva l’esistenza stessa
dei diritti).

Qual è il rischio che si corre? Che si passi da uno stato di persone prive di libertà a uno che sia
garante delle libertà individuali e di un’etica pluralizzata: rischio è quello di diventare uno stato
etico.

La teoria moderna dei diritti naturali deve acquisire la lezione della storia che inaugura il passaggio
dal diritto ai diritti naturali; la storia è magistra vitae ed è vita essa stessa.

La Rivoluzione francese (che stabilisce l’autonomia dell’individuo, insieme alle altre esperienze
storiche di Locke, Hobbes, quelle anglosassoni) rappresenta lo spartiacque: anche prima della
Rivoluzione francese abbiamo alcune esperienze importanti che sono accomunate (e determinano la
fine del giusnaturalismo antico e medioevale.

Lo stato assoluto di Hobbes: i cittadini stabiliscono di delegare il potere assoluto a una figura /
struttura; esso rappresenta l’affermazione moderna del potere racchiuso nelle mani di chi
rappresenta il patto sociale.

La figura/ istituzione detiene Potere assoluto: il sovrano, in quanto delegato ha più forza di ogni
individuo che prende parte al patto stesso; tuttavia, pur nelle diverse formule, tutti partecipano a
questa trasfigurazione, motivo per cui la nuova morale è detta della libertà o dell’autonomia: non
edonistica, ma rigoristica; nell’edonismo si cela un’insidia gravissima (Conclusione cap. VI).

Si tratta di una morale che non si affida alle determinazioni particolari, occasionali; la vita morale
nel moderno è riconosciuta in sé, nasce da un bisogno primario, quale? Quello di affermare
l’autonomia della ragione: questo, un processo che giunge sino a Kant, momento chiave di questo
ragionamento.

La legge morale in Kant si declina attraverso gli imperativi categorici, che non sono ipotetici
proprio perché altrimenti sarebbe stabilita da condizioni altre (particolari).

La categoricità (dell’imperativo) non è un’imposizione dall’esterno: Kant richiama la ragione al suo


uso pratico muovendo proprio da un richiamo di autonomia; perciò, è una morale di libertà non
edonistica; è con Kant che il confronto di Piovani in questo testo assume significato.

Piovani insiste sul processo moderno della ragione da intendersi come processo di umanizzazione
delle diverse nature che adottano misure che rispettano le loro identità; La ragione umana /
umanizzata è ragione storica e ambisce alla conoscenza dell’individuale; rifiutare il giusnaturalismo
è condizione essenziale perché si dia la ragione moderna, che è una ragione individuale (non
particolare) storica.

Piovani è teorico dello storicismo moderno (riprende le tesi di Meinecke) che si allontana dal
giusnaturalismo.

Storicismo: accentuazione del senso storico e dell’individualità.

Il giusnaturalismo è incompatibile (ripetiamo) con l’etica moderna; il G. vuole affermare una


mentalità / visione del mondo che va abbandonata (visione del mondo: Weltanschauung).
Il senso storico distingue – analizza- considerando le realtà del mondo umano con la volontà di
capire – sperimentando.

Ogni realtà vuole essere compresa secondo i propri principi (secondo una ragione compartecipante,
non un motore immobile; in questa “richiesta” c’è assonanza con il modello umanistico-
rinascimentale e la polemica antiaristotelica (Telesio, l’anti aristotelismo di fondo della cultura
moderna).

La storia non è altro dalla scienza; c’è una nuova scienza (dopo la rivoluzione Scientifica) e così
una nuova storia, costruita dalle individualità autonome; cade anche la tesi della “Storia magistra
vitae est” di Cicerone; è la vita che fa la storia! Nel moderno nascono le nazioni, la storia è storia
delle nazioni (dunque dei fenomeni di Plurificazione).

Nasce l’ideale di un nuovo cosmopolitismo fondato sulla pluralità.

C’è un disegno filosofico da Vico a Kant (l’idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico: quanto è moderno il punto di vista? La nascita della prospettiva cambia il discorso;
il punto di vista diviene cosmopolitico. Non c’è un universale natura data.

La storia universale / l’idea di essa, tenta di realizzarsi dal Punto di vista politico; non più un
cosmo-universale, ma un cosmo-politismo); Vico s’interroga sulla natura delle nazioni, sul diritto
delle genti (che non è più quello naturale classico).

Questo discorso in Piovani giunge sino a Kant; Kant ha risolto il problema della coesistenza degli
uomini della libertà.

In Kant si parla di legislazione, non di legge naturale; la ricerca di un universale che vuole la libertà
dentro sé (imperativo categorico).

Salvare le ragioni dell’azione individuale; salvare le ragioni dell’essere normativo (Piovani su Kant)

Ogni azione umana è degna di essere vissuta solo se trova in sé una norma: conquista di Kant in
campo etico-giuridico.

Centralità dell’azione: in essa si cercano le ragioni dell’azione stessa (la legge morale dentro di me).

L’ordine morale universale dipende dalle coscienze che sappiamo far creatrici di quest’ordine;
L’uomo crea ordine morale volendo che la propria azione sia universalizzabile – NON
UNIVERSALE, MA UNIVERSALIZZABILE-
Su Kant: L’imperativo categorico è [...] uno solo, ed è questo: Agisci unicamente secondo quella
massima, in forza della quale tu puoi volere nello stesso tempo che essa divenga una legge
universale.
L’etica kantiana, allora, impone che nessun nostro fine possa servire da fondamento della moralità
che non sia l’uomo stesso, così da non servirsi degli altri quali mezzi per realizzare i
nostri desideri o le nostre pulsioni, come Kant specifica in un’altra sua definizione dell’imperativo
categorico:

Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro,
sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.

Piovani ragiona anche sull’astrattezza di questa universalità, ma ciò che conta è che non c’è spazio
per un diritto naturale esterno antecedente e determinante le azioni.

Il giusnaturalismo è così esautorato dalla sua propria ragione: CADE.

Tuttavia, c’è un limite del kantismo sul quale dobbiamo soffermarci: in sede pratica, la ragione nel
suo uso pratico (kantiano) è costretta a pensare non solo l’uomo – individuo, bensì l’umanità stessa.
La morale kantiana ha una tendenza a pensare la soggettività come protagonista della sua visio
etica; il problema è: come passiamo dall’universale all’individuale;

Sta di fatto che a pensare non sia l’IO ma il noi: non il mio dovere, il nostro dovere (il mio dovere
coincide de facto con il dovere di tutti e dell’umanità! Non è dunque il mio dovere che pongo come
norma dell’azione ma un astratto dovere in qualche modo universale (la libertà considerata da Kant
è libertà non dell’uomo ma dell’umanità).

Il formalismo kantiano: l’etica kantiana non può privarsi di un riferimento ad un NOI.

C’è, sul piano pratico, l’idea di perfezione che si raggiunge sostituendo all’umano l’Humanitas.

Con Kant andiamo a svoltare nell’ambito etico! Siamo dentro un orizzonte che tematizza il
problema dell’eticità come fondamentale per l’uomo moderno (perciò Piovani è studioso e critico di
Kant; ricordiamoci che Kant vive nel ‘700, quindi un residuo di giusnaturalismo, che permane, è
comunque comprensibile).
Lezione

9/05

Oggi proviamo a fissare le linee del discorso di Piovani in relazione alla questione del
giusnaturalismo, riprendendo il discorso dal tema che incide sulla crisi del Giusnaturalismo
moderno e porta Piovani a intervenire sulla filosofia Kantiana con una serie di osservazioni che si
raccolgono in uno degli ultimi capitoli del volume (proprio nel capitolo finale del testo) “Quando
l’individuo stesso è universale” il titolo è esemplificativo dell’itinerario.

Questa questione del rapporto individuale/universale era stato centrale, lo abbiamo visto nelle linee
di una filosofia del diritto, Piovani aveva provato a costruire una storia della filosofia del diritto
muovendo da questa dinamica, questa dialettica ( Universale particolare) e naturalmente questa
dialettica, in questo testo del ’61 dedicato al giusnaturalismo e alla crisi di esso, conduce a pensare a
questo rapporto in termini diversi; non conflittualità o semplice opposizione, ma il tentativo di
riconoscere dentro l’individualità – nuovo tema- ( tema moderno, centrale della filosofia moderna
che si afferma come concezione nuova della individualità) la dimensione universale.

L’universale non si affida più a una struttura trascendente la realtà dell’umano, ma si deve scoprire
e si scopre dentro l’individuale.

Il punto di vista Piovaniano è partito dalle posizioni umanistiche che pure erano parse sintonizzate
su una dignitas homini che era sì indicativa di un percorso ma anche legata ancora ad una
dimensione cosmologica e, la liberazione dalle strutture cosmologiche definitivamente matura in
Kant.

Piovani richiama la presenza di Kant all’esordio del capitolo dicendo che la posizione di Kant è
sintomatica di questo nuovo rapporto tra individuale e universale perché infondo paradossalmente
con Kant per tener fede alla formula “Sii Persona” auspicio kantiano, l’uomo Kantiano “deve
spersonalizzarsi” che significa? L’uomo kantiano si deve liberare dalle passioni e dagli istinti e deve
essere perfettamente ubbidiente al dovere.

Dunque, in qualche modo, questa liberazione dall’istinto, dalle passioni, è la via di accesso alla
legge del dovere (legge morale).

È un problema tipicamente kantiano (valore imperativo categorico) però

Piovani riflette sul Kant della critica della ragion pratica (sul limite dell’uso pratico della ragione
Kantiana) considerando come il rispetto della legge – perfetta- imponga all’uomo di obbedire
(tuttavia, tutte le imperfezioni in questo modo vengono a subordinarsi ad una norma; ecco, questo il
limite)
Limite: quando l’uomo, liberato dalle passioni, invece di essere (l’individuo intero) è l’uomo reso
identico alla rigida norma, soffocato all’astrattezza in cui si potrebbe vedere una rivincita pur
limitata dell’astrattezza giusnaturalistica; questo è il limite del Kant etico (dell’uso pratico della
ragione Kantiana): imposizione della perfetta legge del dovere.

C’è questa corrispondenza Norma – uomo perfetto che può indurre a pensare alla norma come a
qualcosa di astratto; questa, la resistenza giusnaturalistica in Kant (il riferirsi al diritto in senso
astratto).

Ricordiamo che l’uomo non è mica perfetto! Le imperfezioni, però, in Kant, devono tutte
subordinarsi ad una norma!

Esponente scuola neokantiana Windelband (Pagina 116) a proposito dell’ideale etico kantiano;
Windelband commenta l’uso pratico della ragione kantiana: ideale etico, che la legge morale
divenga una legge spontanea della nostra volontà; che i nostri impulsi ci spingano ad un dovere
conforme alla norma.

Piovani cita W. Lui che è stato teorico della norma, però questa citazione viene fatta perché
quest’autore, pur neokantiano, esplicita la posizione di Kant e vede e sottolinea la corrispondenza
tra norma e uomo perfetto. In questo contesto, la corrispondenza è una corrispondenza che può
indurre a pensare alla norma come norma astratta (LIMITE DI KANT E DEL KANTISMO).

Resistenze giusnaturalistiche in Kant: giusnaturalismo, riferimento a un diritto naturale in senso


astratto. Ci sarebbe da corrispondere a un dovere in senso astratto e, se questo si determinasse, una
resistenza giusnaturalistica si darebbe e si dà anche in Kant!

George Simmel, studioso di Kant citato da Piovani (filosofo contemporaneo) contribuisce a mettere
in crisi / denunciare il rischio del formalismo (si rischia di trascurare il sostanziale, il contenuto,
affidando a qualcosa di predeterminato o precostituito valore determinante) etico di Kant: La
problematica in Kant è il chiudere l’io in un soggetto che è più degli altri soggetti; così facendo si
perde il contatto con le vere individualità – pagina 117- (PROBLEMA).

Analisi Kant (di Simmel): Manca il riconoscimento della varietà spirituale.

Parola ricorrente nell’analisi di Simmel su Kant: Distinzione; A Kant (al formalismo K.) sfugge tra
l’io formale originato dall’universale, umanità in ogni uomo, e la singola azione, sfugge il principio
della distinzione su cui insiste Simmel; egli rivendica il bisogno di considerare le varietà espressive
individuali contro questo residuo giusnaturalistico.

L’individualità ha valore in quanto è manifestazione che si distingue tra innumerevoli vite, ha il


suggello della personale distinzione (questo sfugge a Kant).
La morale di Kant è formale, e rischia di perdere di vista la DISTINZIONE.

Il formalismo rischia di essere una struttura che si appella all’umanità che c’è in ogni uomo
(universale) ma che si costruisce su questo appello; a questo appello sfugge la distinzione.

Simmel rivendica il principio della distinzione dal punto di vista spirituale. Simmel rivendica il
bisogno di considerare la varietà delle espressioni individuali e vitali contro questo residuo
giusnaturalistico che anche Piovani ha notato e nota.

L’universale Kantiano rinchiuso nel formalismo corre il rischio di non considerare la distinzione;
Kant tiene conto di essa (esse) ma considera la ragione nel suo uso pratico come fondante
l’universale. La legge formale, per volere, deve essere UNIVERSALE (ed in me, non nell’IO
determinato, ma nell’UMANITA’ in senso proprio).

Kant ha contribuito a mostrare l’esigenza di un riferimento all’universale, ma l’universale Kantiano


rinchiuso nel formalismo rischia di depotenziare le diversità delle diverse individualità; non è tanto
una “mancanza” in quanto Kant tiene conto delle distinzioni ma non può fare a meno di considerare
la ragione, nel suo uso pratico, come ragione che va a fondare l’universale. L’imperativo non è mai
ipotetico, condizionato; la legge morale, per valere, deve essere UNIVERSALE, e deve essere
dentro l’umano (è in me in quanto UMANITA’ non in quanto IO DETERMINATO).

Dice Piovani: se Kant è questo (ed è anche questo) ci sono delle resistenze giusnaturalistiche.

La fine del Giusnaturalismo non si stabilisce storicamente-cronologicamente: ci sono persistenze


nella discontinuità del conoscere storico che vanno rispettate; nelle discontinuità ci sono delle
permanenze.

Queste tracce di Giusnaturalismo persistenti in Kant ci mostrano che si danno quelle permanenze di
cui sopra, e che Kant indirettamente resta un pensatore COMUNQUE – muovendoci noi in fonti del
‘900.

(Simmel, Windelband) del ‘700 (resistenze comprensibili).

Questo tema di tracce di giusnaturalismo ancora persistenti in Kant sono interessanti perché ci
mostrano e confermano anche un'altra tesi, non solo che si danno permanenze nella discontinuità,
ma anche come in fondo Kant sia e resti indirettamente un pensatore del suo tempo;

Dopo Kant questa critica al formalismo – che nasce soprattutto con Kant- conosce protagonisti (non
solo nell’ambito della storia della filosofia morale) della storia della filosofia tout court (che Piovani
considera in Giusnaturalismo ed Etica moderna) divenendo un problema tout court di storia della
filosofia (Non della filosofia del diritto o solo del pensiero politico moderno).

Capitolo finale dell’opera : il mondo del giusnaturalismo classico non è compatibile con l’etica
moderna ma conserva un residuo; il giusnaturalismo c’è anche nell’etica moderna che nasce con
Kant; è anche vero che questa questione del giusnaturalismo è un problema di storia della filosofia,
non è rinvenibile in un settore specifico ( viene da pensare al pensiero politico, alla filosofia del
diritto, ma stiamo vedendo che ci sono dei problemi che toccano la filosofia morale tout court la
storia della filosofia).

Analizziamo altri luoghi di storia della filosofia (luoghi di critica kantiana, di critica a questa
posizione kantiana che va a leggere la vita morale in direzione di una universalità che però è
riscontrabile in ogni uomo ma non ha il senso della determinazione individuale).

Una di queste prime grandi voci che Piovani assume è Hegel.

Piovani e la critica di Hegel al Moralismo Kantiano.

La critica a Kant da parte di Hegel viene impostata a partire da un testo che (come lineamenti di una
filosofia del diritto di Hegel) non si muove nell’area del sistema; il testo è “La fenomenologia dello
Spirito” e non è a caso questa scelta.

Perché Piovani analizza lo Hegel della filosofia dello spirito?

Perché questo Hegel mostra / esprime un avversione al Moralismo legalistico (che è eccessivo
formalismo) kantiano, oltre ad esprimere il un bisogno di eticizzazione dell’azione in sé in quanto
effettualmente è/ si esplica, non perché corrisponda / debba corrispondere ad un puro dover essere.

Hegel non confonde la realtà con la razionalità (tutto cioè che è reale è razionale, ed è razionale
proprio perché è reale) dell’azione; la razionalità dell’agire vuole essere conosciuta in un razionale
reale (non si chiude entro una dimensione formale).

La mia azione che si compie nel dovere è un farsi che nel suo svilupparsi ha un suo essere
doveroso; il suo dover-essere è il suo essere nella fedeltà alla sua individualità svolta, al suo pieno
svolgersi.

La fenomenologia dello spirito (Discorso sul divenire dello spirito per tappe, ovvero guardando al
farsi / al divenire dell’individualità: la radice etica di questa individualità si scopre in una legge che
è lo sviluppo stesso di questo divenire; Hegel critica il Moralismo, non la morale di Kant
(moralismo che è degenerazione della morale)
Hegel NON riduce la realtà della ragione a fattori contingenti; Hegel avverte il superamento
dell’accidentale (che non coincide con il reale; il vero è l’INTIERO); la concezione del reale di
Hegel non si circoscrive a una condizione formale.

La critica Hegeliana esprime un senso di concretezza (che non equivale a accidentalità); misurare
ogni azione dal punto di vista del suo sviluppo / del suo divenire: erosione, questa, di ogni
tentazione giusnaturalistica.

La critica Hegeliana a Kant è una critica ad una purezza deontologica2 dell’etica Kantiana; essa
presenta punti di contatto con Kierkegaard (e la sua avversione rispetto ad ogni etica astratta).

La tesi di Kierkegaard (il Kierkegaard di Out-out) è la scoperta dell’individuo come universale: il


riconoscimento dell’individuale in un rapporto non esteriore con il dovere – richiamo all’interiorità
dell’individualità-.

Il dovere è in una relazione intima con me, mi riguarda; è un compito per la mia individualità (non
richiama l’umanità > Piovani condivide.): SVOLTA MODERNA!

Nasce l’individualità.

Non c’è un età della ragione avulsa da questo problema: questo problema “si comunica” tra
illuminismo e romanticismo – tra Kant e i lettori romantici che hanno il senso della personalità,
sentono forte da Hegel a Kierkegaard il tratto fondamentale della personalità, di questo appello
all’ethos che significa stare nell’etica, penetrare nell’etica- non c’è una vera e propria rottura;

Dicevamo: la concretezza dell’etica (seguendo la svolta moderna) si avverte stando dentro l’etica –
il problema non è formale, coinvolge l’individualità)

Pagina 120: (…) citazione ripresa da Kierkegaard “ Solo quando l’individuale si fa universale
l’etica si lascia tradurre in realtà, è questo il segreto che sta nella coscienza, è questo il segreto che
la vita individuale ha in sé, di essere insieme individuale e universale; perciò il titolo del capitolo “
quando l’individuale si fa universale” ancora una volta, per ritornare all’espressione di Kierkegaard:

2
La deontologia nasce proprio con Kant! È una forma di filosofia incentrata sui principi della morale
Kantiana. La base della deontologia è valutare il carattere di una persona in base a quanto segue le regole
morali, anche se così facendo si verificano risultati tragici. È in diretto contrasto con il consequenzialismo,
una forma di etica che determina la moralità delle azioni dai risultati che producono. Il consequenzialismo
favorisce il bene al diritto, mentre la deontologia sostiene sempre il diritto al bene.

Il modello deontologico dell’etica determina la correttezza di un’azione morale determinando se segue le


norme morali. Non c’è soggettività e una regola morale va sempre rispettata senza alcun pensiero. Per
esempio, Kant ha dato l’esempio che è sbagliato mentire anche se potrebbe salvare la vita di una persona.
l’individuo etico non ha il dovere fuori di sé o sopra: ce l’ha dentro (ma non come Kant che
intendeva l’individuale come umanità) ha l’ideale in sé (astrazione è mantenere fuori di sé la
norma).

Se non si tiene fisso in mente che l’individuo ha l’universale in sé, ciò che sente e dice è astratto;
questo è secondo Kierkegaard il punto di Archimede dal quale si può “sollevare il mondo”.

Piovani accoglie le critiche (Hegel / Kierkegaard, accoglie la tesi dell’individuale che ha in sé le


ragioni dell’universale) ma riconosce che c’è una motivazione che in qualche modo “giustifica
Kant, riporta a Kant, e non soltanto motivazioni soltanto individuali, ma ci sono delle posizioni
morali che infondo riconoscono dentro la struttura formale dell’etica Kantiana un esigenza che è
tipica del mondo – pensiero- moderno e contemporaneo, cioè l’esigenza di riconoscere che
l’individuo in Kant deve salvarsi dalla rischiosa dipendenza eteronoma (dai fattori che non
contribuiscono alla sua autonomia/ non salvaguardano la sua autonomia).

In Kant: C’è un adesione ad una norma / dovere esterno – rischio di neo-giusnaturalismo- ma c’è
anche l’esigenza di tutelare l’intimità dell’individualità richiamando l’ubbidienza alla legge del
dovere sulla base di un principio che è un principio di libertà; questo è un punto interessante
dell’argomentazione di Piovani.

In Piovani non è liquidato il Kant etico sulla base delle critiche / c’è anche il riconoscimento che
Kant ha avuto fortuna nel ‘900 sulla base dell’esigenza – Kantiana- di tutelare l’autonomia delle
individualità con il richiamo ad una legge che però tuteli la libertà dell’individuo stesso.

“Il frequente rifarsi a Kant delle più illuminate posizioni morale moderne si spiega come un
ossequio alla più grandiosa costruzione dell’etica moderna” insomma la fortuna di Kant è un segno
positivo che non va trascurato.

Il kantismo ha svolto una funzione anche in positivo!

Se c’è una condiscendenza possibile verso un residuo di giusnaturalismo presente in Kant, però, il
sacrificio di quella ricchezza che si perde con il riferimento a un dovere esteriore o in qualche modo
estraneo all’individuo, ha per corrispettivo la tutela della libertà dell’individuo: questo il punto! Il
valore della filosofia, soprattutto della filosofia pratica di Kant che si riflette nel suo pensiero
storico-politico, sta nell’esigenza di tutelare la libertà dell’individuo.

Ritornando sulla questione iniziale “essere persona per Kant implica la spersonalizzazione, la
decostruzione della persona, la messa in crisi del valore individuale” se questo è vero, se la mia
azione si salva adeguandosi alla legge morale universale comune all’umanità, sono disposto anche a
spersonalizzarmi, pur di essere liberato dalla preoccupazione di non saper portarla a livello
dell’universale (stiamo leggendo).

Cosa si dà in Kant di complesso?

Il salvataggio dell’individuale avviene mediante l’adeguamento alla legge dell’umanità; l’azione si


salva a patto che non sia la MIA azione, ma quest’azione deve essere funzionale a una legislazione
universale, però, il dato fondamentale è che questo movimento di individuale che ricerca
l’universale, si compie in maniera non eteronoma, ma in maniera autonomia, cioè corrisponde a un
esigenza di libertà dell’individualità.

Parola chiave: ESISTENZA.

Il problema ‘900 che Piovani avverte è questo tema dell’esistenza, l’ek-sistere, l’uscire-da, è un
problema che dev’essere al centro dell’etica contemporanea, non poteva essere un problema sentito
da Kant pensatore del ‘700 che ha in mente uno schema di filosofia della storia, il vecchio modello
‘700 – l’educazione del genere umano, la Bildung, questo ideale di storia universale molto forte,
permanente e pervasivo in Kant, per cui l’esistenza deve essere guadagnata da questo modello; non
c’è un esistenza che fa questo modello.

Questa subordinazione delle ragioni dell’esistenza al modello Kantiano, secondo piovani è residuo
– in Kant- di giusnaturalismo universalistico.

Dunque, il problema è quello di tenere, conciliare (cosa complessa che in Kant non si risolve) la
totalità dei valori umani con la MIA autonomia!

L’uomo moderno è consapevole di dover vivere questo problema, lo vive, anche se ( tratto di
distanza da Kant da parte dell’uomo moderno, l’uomo hegeliano, l’uomo di Kierkegaard, avverte la
distanza dal formalismo Kantiano, però non ignora la forza che ha l’universale kantiano, perché sa
che in quell’universale si esprime tutta la libertà dell’individuo- nell’universale si condensa il
problema kantiano ovvero la riflessione sulla libertà dell’individuo- dunque non può morire questo
tratto fondamentale.

C’è in qualche modo anche questa consapevolezza che l’etica moderna si muove sulla difficoltà di
scoprire l’universale, confonde ancora l’individualità con l’accidentale e bisogna liberarsi da questa
preoccupazione.

La morale moderna deve essere la morale delle plurali individualità; le morali individuali si devono
fondare sul riconoscimento dell’esistenza, non fondarsi su un modello assoluto, e l’individuo deve
scoprire autenticamente la propria individualità distinguendola dalla accidentale singolarità.
Ci sono due aspetti del problema – anche in conoscenza storica e coscienza morale- l’individuo
moderno sa che non gli basta l’ancoraggio a una legislazione universale di tipo kantiano; ma ha
anche il timore di polverizzare l’individualità nella storia – il valore individuale nella storia- sono
due preoccupazioni che si corrispondono; preoccupazione di avere a che fare con un astratto
universale ma, anche altra dimensione preoccupante, cioè di andare a singolarizzare l’individualità,
concepire l’individuale come un singolare.

Bisogna costantemente oltrepassare quella che Hegel chiamava l’accidentalità e liberarsi da essa.
Perciò la paura (pagina 123) di abbandonare il porto sicuro della legislazione universale corrisponde
al timore della polverizzazione delle individualità nella storia. Entrambe le preoccupazioni derivano
dalla mancata consapevolezza del valore delle individualità, che è sé solo se non è particolare o
immediato singolare, solo se si compie l’oltre passamento della sua mera accidentalità.

C’è anche un altro contributo in positivo della legge morale kantiana – non determina il contenuto-;
Kant ancora una volta sente il bisogno (conferma la tesi che c’è un credito che le filosofie
contemporanee hanno dato a Kant e al kantismo: è una legislazione universale sì, ma che
determinerà pure una sudditanza dell’individualità alle legge morale, ma questa sudditanza aiuta a
dare senso all’autonomia alla libertà dell’individuo e ciò accade perché la moralità non fissa i
contenuti.

Il kantismo è stato criticato (la morale kantiana) perché è una legge formale che deve sollevare
l’individualità alla universalità, all’universale come esterno, ma il credito che ancora conosce il
kantismo sta nel fatto che il contenuto non è determinato.

Un azione per essere morale non deve corrispondere a questo o a quel contenuto; un azione è
moralmente valida se ha la possibilità di assurgere a principio della legislazione universale: LA
POSSIBILITA’ (ed è possibile solo se riesce ad esprimere una universalità; tanto più l’azione in
Kant esprime un dovere, quanto più perde le proprie determinatezze).

La mia azione non è valutata sulla base dei contenuti!

Certo si può osservare che questo movimento in Kant è dovuto al fatto che si va verso una forma
dell’universale! È un movimento che il formalismo implica (il formalismo, dunque il valore della
legge universale non tiene conto delle determinatezze) però il credito concesso alla legge morale
kantiana va in questa direzione: aderire a una legge universale significa essere libera. La mia azione
dev’essere mia, non ne devo determinare il contenuto – io devo agire perché l’universale sia dato,
l’azione abbia valore universale- ed è in portante che ciò possa valere per tutte le azioni; non ci sono
azioni il cui contenuto non possa essere proiettato in termini universali. Tutte le azioni possono
valere universalmente. Questo è un tratto rilevante del kantismo, perciò, commenta Piovani
(l’universalità del valore della mia azione e del carattere della mia stessa azione sta nella capacità di
oltrepassare la singolare immediatezza con la sua ansia di universalità).

Qui siamo oltre rispetto alle posizioni di Rousseau, che pure Kant ammira. Non è semplicemente la
volontà generale (di Rousseau, anche se non è la volontà di tutti) qui siamo a un perfezionamento
delle individualità che si universalizzano sulla base di una possibilità non di un contenuto.

Un altro tema da richiamare è quello della universalità che fa rima con la possibilità; non
l’universalità ma l’universabile! L’universabile corrisponde al possibile, e questo movimento che si
dà nella proposta kantiana.

Il Novecento si è scontrato con i residui giusnaturalistici del kantismo ma ha anche naturalmente


valorizzato questa dimensione dell’universalità, questa dimensione formativa della mia azione che
deve, per essere riconosciuta eticamente, superare la singolare immediatezza.

Kant ha dato un contributo fondamentale all’affermazione di un etica dell’individuale che non sia
mai singolare, pur in maniera problematica.

Il contributo di Kant è antropologico (Studi sull’antropologia e sulla pragmatica, le opere postume


di Kant vogliono rendere il rapporto tra universale / universabile – possibile).

La chiarificazione di questo aspetto che è anche nuovo che in Kant si dà, cioè la spontaneità
inesauribile della personalità; perché? Perché anche a partire da Kant, già in Kant, la normatività
(espressione Piovaniana) è riconoscibile dentro ogni ideale! C’è una tensione normativa nel
Kantismo che l’etica del Novecento riprende, e che è chiamata a riconoscere l’idealità in ogni
ideale. Dunque, ogni ideale contiene idealità, cioè tensione che non si sofferma né alimenta della
singolare immediatezza (fortemente superata non in un assoluto astratto, è oltrepassata
riconoscendo che ogni ideale è idealità, è questo divenire / farsi dell’idea). Anche su questo aspetto
insiste Piovani: sviluppando questo Kant e andando al di là di Kant la storia del pensiero
contemporaneo si muove superando la povertà di seduzione del razionalismo intellettualistico di
alcune etiche, perché queste etiche razionali intellettualistiche non sanno e non possono rivolgersi
alla interezza della persona, e perché queste etiche rischiano di ridurre la vita della personalità ad
una forma di esercizio dell’intelletto.

Bisogna superare queste condizioni perché un etica che voglia essere modernamente rispettosa della
varietà delle persone deve riconoscere l’idealità che è in ogni ideale, rilevandone l’intensità
attraverso le manifestazioni storiche che escludono che l’uomo dipenda dalla storia, mostrando che
è la storia a dipendere dall’uomo: APPROCCIO ALLA STORIA (Penultima pagina del testo).

La questione dell’individualità che si riconosce universale, che riconosce in sé l’universale, è


apertura al problema della storia, di una storia che dipende dall’uomo, che non viene prima
dell’uomo, e questo perché noi stiamo pensando in termini diversi con e dopo Kant all’idealità, cioè
al movimento dell’ideale, al divenire dell’Ideale; non c’è più un idea. Qui si sta riformando
radicalmente il Platonismo! Qui si rovescia un certo Platonismo – anche in Platone la questione del
rapporto tra le idee è dinamico; nell’ultimo Platone c’è questa consapevolezza- classico, perché la
morale non è più la corrispondenza a una idea statica del bene, non c’è più riferimento a una
struttura platonica classica; qui è un richiamo all’idealità che è in ogni ideale (c’è un ideale che si fa
e diviene) e lo si conosce soltanto nella storia, perché la storia è fatta per gli uomini. Vedremo come
questa componente apre ad un'altra fonte (VICO); Un certo Hegel (della fenomenologia) e Vico
prima di Hegel testimonia quanto sia complesso il rapporto storico tra l’età dell’illuminismo e l’età
romantica. Vico è ripreso anche nel romanticismo.

Il fascino della posizione kantiana sta nell’essere irriducibile al razionalismo intellettualistico; Kant
non è riducibile a una posizione razionale e intellettualistica.

L’etica Kantiana è in movimento; è un movimento complicato animato anche da resistenze


giusnaturalistiche ma l’etica contemporanea si rifà a quella kantiana che contiene l’approccio
all’universalizzabile e non solo all’universale astratto.

C’è una resistenza Giusnaturalistica (tipica del razionalismo intellettualistico del ‘700) ma ci sono
delle aperture in direzione del realizzabile, dell’universalizzabile che aiutano a capire quando l’etica
moderna abbia bisogno di superare il mero riferimento alla accidentalità immediata; le pagine
conclusive del testo mostrano all’orizzonte un altro incrocio di questioni: la coscienza morale e la
conoscenza storica. È un testo che affronteremo, che Piovani pubblica dopo il testo pubblicato al
giusnaturalismo (nel ’66) ed è un testo rilevante, che ci consente di avvicinare le linee di una
filosofia del diritto, dopo qualche anno comincerà a scrivere questo testo. È un testo che si propone
come raccolta di saggi, scritti tra la fine dei ’50 e i ’60, e che da un lato riprenderà queste questioni
emerse a margine del giusnaturalismo, ma supera de facto la tesi giusnaturalistica, perché interviene
sui tratti che secondo Piovani sono i più significativi della filosofia contemporanea. Uno di questi
tratti è sicuramente la riflessione sul LINGUAGGIO. Anche questo è un motivo sintomatico
dell’aspetto antropologico nel pensiero moderno-contemporaneo.
Questo è un approccio sintomatico e coerente con una certa lettura di Kant e della fortuna di Kant
nel ‘900; aspetto che non verrà fuori ma consideriamo: quando lui va a rifondare per esempio gli
studi vichiani, fonda un centro nel ’70 e anche una rivista dice che vico va ripensato come pensatore
moderno perché si è posto come filosofo del linguaggio. Vico ha volto la verità dell’essere e la ha in
qualche modo ri-orientata (problema della verità) sui fatti (Verum et factum) e che cosa, di che cosa
si è servito? Della filologia, finanche dell’etimologia, ha studiato il linguaggio da filosofo; questa la
modernità di vico che va riproposto e rinnovato. Non è il filosofo puro delle genealogie
neoidealistiche, non è il filosofo di cui si è occupato anche gentile, ma è il filosofo del linguaggio,
che quindi è in piena coerenza con le filosofie del ‘700, europee. È un filosofo che corrisponde a
quella (I Saggio raccolta) vocazione filosofica di inizio secolo (‘900) il Novecento vuole essere un
pensiero che vada a cogliere il valore della vita nel suo farsi. E cogliere il valore della vita nel suo
farsi è aspirare a vedere i valori della vita nel loro individuarsi, nella molteplicità delle azioni
dell’uomo; una logica vivente che non deve essere in contraddizione con una logica del pensiero,
ma deve definirsi una filosofia della vita.

Questo è un tema che non è sfuggito al pensiero contemporaneo, e qui si potrebbe osservare con
Piovani che tra storici, logici, filosofi morali, filosofi della rifondata metafisica, si dà, si sperimenta
un interesse comune, cioè si sperimenta per esempio lui cita Bergson, lo strumentalismo di Dewey,
la filosofia della vita di Dilthey e Ortega y Gasset, la cospirante volontà di opporre la logica del
pensiero dell’agire ALLA LOGICA DEL PURO PENSIERO PENSANTE. Al di là delle varietà
delle posizioni prevale un carattere rappresentativo del pensiero contemporaneo che punta su un
linguaggio NUOVO, che vuole sostenere le ragioni della vita e per farlo deve essere storicizzato,
capace di individualizzare, tener conto del valore della vita; questo linguaggio che vuole
individualizzarsi deve coltivare il senso della individualità.

C’è nei linguaggi del pensiero contemporaneo un intreccio nuovo di CO-SCIENZA (Con-scire) non
è il rinvio a una purezza / struttura assoluta, ma la coscienza il CON-SCIRE, ha bisogno di una
conoscenza che sia STORICA! Che significa?

Significa secondo Piovani comprendere. Conoscenza storica è una comprensione.

La comprensione è un’attività di collegamento, comprendere è uno stare con, avere capacità di


unire, legare, interpretare. Questa comprensione storica, che è la conoscenza di cui la coscienza
contemporanea ha bisogno, è l’alternativa alla logica del concetto.

Non può prevalere una logica del concetto ma una logica del senso e della comprensione storica
(UNA LOGICA DELLA VITA, per dirla con Dilthey).
Perché questo accade? Perché questo linguaggio contemporaneo non vuole cadere nella
generalizzazione e chiede alla coscienza filosofica una conoscenza molto specifica dell’individuale,
addirittura, non si darebbe / non si dà neanche una distinzione tra le scienze della vita le scienze
dello spirito e le scienze della natura, anzi, proprio il pensiero contemporaneo che fa riferimento a
Dilthey si è esercitato su queste connessioni al punto tale che finanche il particolarismo scientifico
del linguaggio matematizzante richiama l’attenzione sulla necessaria sperimentazione che invita ad
allontanarsi dalle generalizzazioni, preparando a nuove formule ( facendo leva sul concreto).

Persino il linguaggio scientifico è un conoscere sperimentale, non può raggiungere una immediata
generalizzazione ma deve assolutamente affidarsi al conoscere minuzioso, microscopico (non
Macroscopico).

Questo linguaggio benefico non nasce tout court nel ‘900; ci sono pensatori che anche in età
moderna hanno valorizzato il riferimento al Microscopico, al particolare non in senso accidentale,
accentuando il bisogno di una conoscenza analitica dell’individuale, proprio per assurgere
all’universale, e la filosofia contemporanea non ha mai dimenticato la lezione di Leibniz.

Qui va già corretta la lettura di Croce che ha fatto di Vico il prototipo dello storicismo
contemporaneo separando Leibniz da Vico, ma c’è in Leibniz una Scienza Nuova perché c’è un
approccio al particolare nuovo, perché Leibniz non a caso è il pensatore che si è preoccupato
dell’infinitesimale matematico non meno di quello logico e morale, e ha posto e si è posto il
problema del valore universale dell’individualità. A suo modo ha valorizzato i rapporti armonici tra
le individualità; come sappiamo ( pagina 17) valorizzando il problema dell’armonia ( La tesi
dell’armonia prestabilita di Leibniz: l’universo è un universo di rappresentazioni, sono prospettive
diverse, l’universale nasce da questa pluralità, che è una rappresentazione di carattere spirituale;
questo universale armonico di Leibniz non può non tener conto delle conoscenze infinitesimali, non
solo matematiche ma anche in ambito logico, anche in ambito di conoscenze, in ambito
antropologico Leibniz si mostra come pensatore attento al particolare non in senso immediato). Se
volessimo anche ricordare che Leibniz è il teorico delle piccole appercezioni, le radici infinitesimali
che stanno dentro l’individualità come centro di appercezione. L’uomo non è soltanto fatto di
percezioni immediate o esplicite ma c’è un bagaglio di piccole appercezioni, c’è un universo
nell’individualità che è fatto di specifici particolari.

L’ulteriore approfondimento della natura e del significato dell’individuale conferma l’intuizione in


Leibniz: l’individualità deve essere compresa nella sua individualità, anche per ciò che concerne
l’esigenza (interna ad essa) di universalizzarsi.
Leibniz, in età moderna, prima di Kant, avvertirebbe questo modello di scienza moderna dell’uomo;
si dà questa scienza dell’uomo intero, che afferma cosa? Il bisogno di pensare all’individualità
integrale, riconoscendo l’esigenza dell’universale, non il riconoscimento di una norma esterna
all’individuale. L’esigenza è dentro l’individuale, e va comunicata e commisurata oltre il
particolare.

Non è trascurabile il fatto che Leibniz è il teorico di una logica dell’infinitesimale; è un logico, è un
pensatore che ha legato la storia della sua fortuna filosofica alla logica, non di tipo cartesiano; però,
non dobbiamo trascurare che Leibniz è stato il teorico di una metafisica rinnovata, e soprattutto un
pensatore impegnato sul piano storico, è stato anche un archivista; è stato erudito, si è occupato
delle grandi genealogie delle case ( esempio D’Este) praticando l’erudizione e la filologia moderna;
è stato corrispondente di muratori, studiando la genesi, le origini delle grandi casate italiane e
tedesche.

Che cosa, perché questo particolare biografico?

Perché risalire alle origini dei fatti significa tentare di approcciare con una logica moderna e nuova
l’individuale che è insieme universale; risalire attraverso la filologia, l’erudizione, a questa
questione fondamentale delle origini, dei particolari, quella che Piovani chiamava l’attenzione al
microscopico (anche nelle scienze naturali c’è) nel Leibniz storico c’è; c’è questa fondazione di una
logica non più analitica ma dell’inventiva, dell’inventiones, una logica che ricerchi.

La storia, la conoscenza contemporanea (dunque dice Piovani alla fine del saggio distingue tra
particolarità e individualità e si avvia a penetrare l’universale dell’individualità approfittando dei
contributi che sul tema provengono dalla storia e dalla natura; per il loro parallelismo storia e natura
possono affiancarsi solo sulle aperte possibilità delle collaborazioni a servizio dell’uomo).

Indagine sulla storia / natura offrono contributi per scoprire le relazioni possibili; scienza della
natura e dello spirito non sono separate – sono distinte ma contributi significativi offrono a una
coscienza, a una comprensione, che per essere tale ha bisogno della conoscenza storica-.

Sia in ambito filosofico che scientifico, questo senso della scoperta dell’individualità si pratica solo
tenendo presente che c’è un universale armonico.

I Due linguaggi della filosofia contemporanea: sono destinati a intrecciarsi! Non c’è un linguaggio
della scienza separato da quello della storia; sono interconnessi.

Incominciamo a vedere il senso della relazione tra conscire e lo storico; non a caso qui il linguaggio
non è chiaramente attenzione a due distinte terminologie! Qui il linguaggio diviene sintomatico di
un rapporto tra il generale e il particolare. Non possiamo più pensare a una scienza della natura che
generalizzi soltanto e a una scienza della storia che individualizzi; finora sono stati pensati in
maniera separata. La filosofia contemporanea allena l’uomo consapevole – studioso, l’uomo
interessato a queste questioni- a un linguaggio che tenga conto del generale e dell’individuale; non
c’è una scienza naturale che non s’interroghi sull’esperienza e sull’individualità che fa l’esperienza;
l’individuo è IN AZIONE! Sia che si occupi della natura, sia che della storia.

Questa correlazione tra i due linguaggi (del generale e dell’individuale) implica anche un esame di
coscienza storiografica (dice Piovani).

La storiografia filosofica nasce nel ‘900 da questa consapevolezza, da questa relazione tra il mondo
delle scienze naturali e il mondo delle scienze dello spirito.

La storiografia che è la riflessione / analisi di storia della filosofia, nasce da questa consapevolezza.

Quando si fa storia della storiografia nel ‘900 bisogna aver presente questo tema fondamentale;

Ciò che ci interessa del discorso fatto in aula è il risvolto etico-antropologico del discorso che fa
Piovani, che va a condurci a principi di una filosofia della morale)

Lezione 13/05

Conoscenza storica e coscienza morale (testo importante per le riflessioni Piovaniane in campo
morale)

Abbiamo già posto l’attenzione sul problema del linguaggio; Piovani all’inizio di quest’opera parla
non del linguaggio, ma dei due linguaggi della filosofia contemporanea, e cioè il linguaggio della
conoscenza scientifica, e il linguaggio storicizzante (termine Piovaniano)

Perché c’è un confronto tra questi due linguaggi?

Hanno una specificità, un’identità e propongono anche una correlazione: il problema della
specificità sta nel fatto che il linguaggio (siamo a pagina 16) storicizzante può compiere opera di
conoscenza solo se non cade nella generalizzazione, e questa è una traccia specifica del linguaggio
storicizzante, il quale si deve e si può avvalere della filosofia purché la filosofia sia conoscenza
sperimentale della individuale.

La filosofia che ha una predisposizione alla ricerca dell’individuale offre contenuti al linguaggio
storico, offre un metodo al linguaggio storico; se il linguaggio storico non vuole essere generico si
deve affidare alla vocazione filosofica che è quella individuale.

Se il linguaggio storico riesce ad uscire dalle generalizzazioni e dalle contraddizioni recupera nella
conoscenza analitica dell’individuale il senso della sua universale identità (sempre pagina 16-17).

L’insegnamento di Leibniz: Leibniz è il matematico che ha teorizzato l’infinito, ma soprattutto


l’infinitesimale sia in campo logico (la logica è il punto di attrazione fondamentale delle riflessioni
di Leibniz) ma anche dal punto di vista morale (è il primo dei filosofi moderni che ha studiato
l’infinitesimale sia dal campo logico che da quello morale).

Perché questa tensione individualizzante?

Perché questa tensione in Leibniz non mira né al particolare empirico né al generale astratto; mira
alla considerazione spirituale del mondo (che ha valore sia in campo gnoseologico che etico).

Egli è il primo grande autore che si pone la questione della conoscenza storica (egli si è occupato di
storia) ha ricostruito storicamente il suo tempo ma anche l’età moderna-medievale, con intento
filosofico; la conoscenza storica già in Leibniz conosce una tensione / vocazione che va oltre il dato
singolo; l’erudizione, in Leibniz, ha un significato di carattere storico filosofico.

Le filosofie dell’esistenza hanno dato un contributo fondamentale nel comprendere le posizioni


relative all’individuale seguendo le intuizioni di Leibniz – leggiamo pagina 17 di conoscenza
storica e coscienza morale: non si dà conoscenza storica senza coscienza morale, ovvero senza la
ricerca del valore dell’individualità che ivi si afferma con principi interni all’individualità, non
esterni; il valore dell’i. non si conquista con l’auctoritas di un principio astratto e trascendente, qui
si costruisce dall’interno (è dall’interno che l’individualità mostra una misura).

L’armonia di Leibniz è la ricerca dell’universale a partire da questo nuovo principio della metafisica
moderna che è interno; Si apre questa prospettiva nel ‘900 avente base antropologica.

Quando Piovani si pone il problema del rapporto tra conoscenza storica e pensiero filosofico, fa
riferimento a un contributo molto noto di Eugenio Garin, pensatore originale, interprete
dell’umanesimo e rinascimento italiani, autori di una Storia della Filosofia Italiana; egli ha
teorizzato in un saggio che piovani (II Cap del volume che leggiamo) commenta; “Che significa
fare storia della filosofia”?
Egli ha messo in crisi quei modelli di storia della filosofia che hanno concepito la presenza, il darsi
la concezione di una filosofia e poi il suo datarsi storico (quasi come la storia fosse un’appendice
della filosofia; per garin non può essere considerata più in questi termini la filosofia; ci sarebbe
un'unica filosofia e poi di questa si darebbero analisi storiche: non è così! Garin rovescia i piani
polarizzando l’attenzione sulla conoscenza storica; non si può fare storia della filosofia se la storia
diviene un ancella del filosofare; si può fare storia della filosofia se si raggiunge la consapevolezza
che la storia della filosofia ha una sua autonomia metodologica e di contenuti: guarda alle realtà
individuali, si definisce come conoscenza storica dell’individuale se il problema è quello di
individuare la dimensione individuale.

Piovani tiene conto di queste osservazioni di Garin contro il modello Hegeliano / Idealistico di fare
storia della filosofia, quasi a voler affidare la storia della filosofia a una idea filosofica mediante cui
poi si narra la storia (intesa come ancella della filosofia) – la storia o è filosofia o non lo è (questa
l’idea contro cui sta Piovani) essa è quasi bollata a dimensione accidentale.

Per Piovani e Garin non si può fare una storia della filosofia se la storia non conquista una sua
autonomia; sennò diventa la storia di un idea, e non delle individualità che contribuiscono a fare
l’idea – salterebbe anche la convinzione di stampo vichiano Verum et factum (cosa non valida per
Modello Hegeliano per il quale viene prima l’idea e poi la storia).

Le filosofie del ‘900 post-idealistiche possono dare un contributo (a Piovani) perché hanno
teorizzato l’autonomia dell’esistenza mettendo in crisi questo paradigma idealistico e neoidealistico
di primo Novecento, confermando l’idea affermatasi nel ‘700 come idea che pare ovvia ma va
marcata l’ovvietà: l’esistenza riguarda gli individui – senso della pluralità dell’esistenza- si parla di
esistenze e di individui. Questa consapevolezza della connessione esistenze-individui viene fuori da
Humboldt, grande linguista e filosofo del linguaggio che ha fondato l’Università di Berlino, che ha
contribuito alle analisi non semplicemente teoriche del linguaggio, ma proprio l’analisi dei
linguaggi (per es. indiano) dunque la storia della filosofia fatta di linguaggi e testi come
testimonianza di questo o quel costume, questo quel linguaggio; commenta Piovani: la ragione si è
fatta ragione storica e si è fatta attraverso il linguaggio.

Il confronto con l’idealismo in qualche modo si complica! Perché non è tanto lo Hegel del sistema,
ma il confronto più serrato è con lo Hegel dei Lineamenti a cui viene associata la lezione di un'altra
grande opera (Historica di Droysen > a questa accentuata dimensione di un’altra grande corrente
che prende piede nel ‘900 Europeo, la dimensione dell’ermeneutica, perché la storia non è solo
storia di battaglie ma anche di analisi e interpretazioni, allora si afferma questo concetto di
Comprensione.
Comprensione storica, di queste individualità che non sono mai singolari e che si devono
riconoscere in una comunitas; questo è un tema che non era marginalizzata; il riferire la conoscenza
storica alla dimensione comunitaria era stato enfatizzato dall’idealismo; nello spiritualismo del
neoidealismo il tema del comune diviene il tema dello stato; perché?

Perché le individualità e i discorsi delle filosofie idealistiche conducono i riferimenti e i richiami


dell’individuale allo stato. A partire dal romanticismo e nei primi del ‘900 lo stato è visto come
luogo dove si realizza la libertà etica dell’individuo.

L’io individuale è ridotto infondo a un deposito, scrive Piovani, transeunte della verità. Esso è
depositario contingente, di passaggio al “Vero” ed è soprattutto e rischia di essere un IO
EMPIRICO, ridotto a ciò che non deve essere, un IO PARTICOLARE, perché il riferimento allo
stato poggia su questo tentativo di ingrandire questa soggettività empirica e particolare; l’IO
Diviene soggetto assoluto/stato e così si soddisfa l’universalismo romantico e neoidealistico. Questa
è la strada opposta a quel conoscere storico che vuole essere conoscere storico-filosofico
dell’individualità. Questa è la strada percorsa da chi teorizza – Hegel e i post-Hegeliani- dove l’io
esige una storia addirittura dell’universo (pagina 26)

L’affermazione dello stato come di un soggetto Super-Individuale: c’è quest’ansia di passare


dall’individuale all’assoluto! Per questa impostazione, una scienza della storia si raggiunge o la
definizione della storia come scienza la si raggiunge solo mediante l’universale teorizzato come
assoluto che fagocita, cioè comprime l’individuale (non esaltandone la carica etico-politica ma
depauperandolo).

Fare una storia dell’universo: perché dell’universo? Perché qui non lo esplicita ma ritorna questa
idea dell’assoluto che non è più e che non può più essere coincidente con l’autentica humanitas, ma
tende a identificare l’assoluto con l’universo; è un’altra forma rinnovata di naturalismo, di aggancio
dell’individuale a una concezione cosmica. Ritorna quell’idea dell’assoluto-natura anche se
trasformata, ri-elaborata; perciò, questo identificare l’assoluto con lo stato significa fare dell’IO
(che è ingrandito dal p.v. empirico) di significato; questo assoluto teorizzato ha i tratti di un
neonaturalismo.

Che questo sia, lo prova la lettura neoidealistica di Vico; Piovani non a caso pubblica un saggio
rilevante – titolo indicativo della posizione- Vico è un filosofo senza natura, e perciò non può essere
letto con gli occhi e attraverso gli occhi di Hegel! Vico ha reciso ogni riferimento al naturale. È il
primo pensatore che con Leibniz coltiva questo senso dell’assoluto, sì, ma l’assoluto non altra
faccia della natura. Se c’è un universale – e c’è un interesse per l’universale in Vico e in Leibniz-
ma è un’armonia che nasce dall’interno e non si impone dall’esterno!

Neoidealismo: nasce da un perdurante Hegelismo. L’io è immediatamente universalizzato e dunque


la storia conquista il suo protagonista solo universalizzandosi.

Questo assoluto e questo universale nel romanticismo e prima del neoidealismo ‘900 trovano un
alleato nella volontà generale di Rousseau; LO STATO SI REALIZZA COME VERA LIBERTA’
ETICA (Lo stato etico di Hegel) che si occupa della libertà ma in funzione di un assoluto che attua
la vera giustizia.

Questo ente assoluto pretende di custodire la libertà dell’individuo; e ancora questa unità, questo
ente unitario e unico si muove con forza centuplicata, senza errori e perplessità, peccato o
pentimento, perché questa è la verità del suo volere; questo IO così universalizzato, proiettato in un
assoluto tanto potente da garantirne il divenire e il fatale progresso.

Non c’è un vero e proprio progredire / divenire, c’è un universale assoluto che presiede alla
filosofia della storia. Qui naturalmente piovani fa riferimento anche al positivismo, la filosofia della
storia, finanche quella di Comte, come quella di Hegel, sono paragonabili perché si affidano a
questa “Cavalcata dell’assoluto” che prescinde dalla identità delle singolari individualità storica.

La vera storiografia, che si connota come ricerca concreta, si libera dalle universalizzazioni del
soggetto come spirito e si conferma nella sua attitudine individualizzante. Da questo punto di vista
la storia come scienza si distingue dalle scienze della natura; pagina 29: Piovani cita e commenta
Dilthey perché la ricerca storica non solo segue e rispetta l’individuale, non estendendolo, non
facendo di esso un soggetto assoluto! Nella vera e propria ricerca storica l’individuale non coincide
mai con l’assoluto. Per Garin la filosofia del rinascimento – filosofia storicamente indagata- non
coincide mai con questo o quel concetto presente nell’umanesimo di Bracciolini o Polizzano, ma
con tutte le manifestazioni particolari e individuali. Non c’è una verità dell’umanesimo che
prescinde da quella dei singoli individui. Questo accade perché la ricerca storica rispetta
l’individuale e insegna che l’individuale non è qualcosa di ripetibile; questa la sua differenza
specifica rispetto alla scienza della natura (che cerca un ordine e ha ben chiaro il meccanismo della
ripetizione, perché nasce dalla capacità di ripetere quello che accade in natura, in sede sperimentale)
questa ripetizione non si dà nella scienza storica. La specificità del conoscere storico sta in questa
dimensione individuale e non ripetibile.

La necessità di riferire e riferirsi ai fatti! La filosofia idealistica quando è divenuta attualismo ha


cercato invano di combattere e contrastare quello che è il limite dell’intellettualismo – invalicabile x
Piovani- concependo la realtà come atto ( contrasta con il significato autentico della conoscenza
storica, che non può MAI prescindere dal fatto e dal divenire; il rischio è che l’atto – che questa
filosofia dell’atto puro- trasformi la storia in Meta-storia; il rischio è quello che si valichi il limite
del divenire, e che si perda un carattere fondamentale del conoscere storico, ovvero la dimensione
ermeneutica, della comprensione.

Droysen ha messo in risalto questo aspetto, che non è un aspetto ma riguarda la funzione decisiva
del conoscere storico: Noi non conosciamo questo o quel fenomeno facendo storia, ma analizziamo
e comprendiamo, dunque c’è una dimensione di arricchimento, estensione continua del campo e di
impronta fondamentale. Per Piovani questa è la conferma della forza di quello che Droysen ha
esplicitamente chiamato il comprendere indagando, che è il programma specifico della scienza
storica (Dice Piovani) che la cultura italiana post-idealistica sente valido e degno di essere seguito
(guardando all’orizzonte delle soluzioni post-idealistiche; questa di Droysen è valida. Nell’indagare
occorre comprendere. La storia non è un museo, la conoscenza storica è viva – non in vitro- è una
forza! Ed è scienza. Perché è anche connessione di queste analisi e di queste comprensioni. Dunque,
la storia, da questo punto di vista si avvale di questo progetto degnamente filosofico che consente
anche di stabilire un confronto anche critico con Garin; Perché?

Perché ci sono alcuni aspetti condividibili e condivisi da piovani – come concezione storico-
filosofico di Garin, il suo modo di fare storia della filosofia, perciò garin entra nei programmi di
storia della storiografia, perché c’è una dimensione filosofica nel fare storia della filosofia- c’è la
dimensione e la consapevolezza delle molteplicità delle filosofie, ognuna diversa dall’altra; non c’è
lo sviluppo di un idea assoluta – e chi la rispetta è ok chi non la rispetta no-.

Il ‘900 di Garin coincide con quello di Piovani perché si dà l’idea di una continuità – non come
mortificazione delle differenze, anzi, o come continuazione di una medesima filosofia; ma la
continuità come scoperta del nuovo, scoperta della differenza. Già garin anche prima di Piovani si
era rifatto a Dilthey nel privilegiare l’individuale e nel connettere le idee alle cose – impostazione
che Garin condivide anche rifacendosi a Vico-

Pagina 45: Da questo punto di vista l’individuale – e con l’individuale- l’individuo è perduto se non
vive nella storia; FOCUS ON parola resistenza* (è molto importante riconoscere questa posizione
dell’autentico individuale che resiste all’idea di continuazione così come deve resistere alla
possibilità tentata confluenza in un ente astratto.

Resistere a che? Alle situazioni.


L’individualità e le sue situazioni; l’individuale piovaniano è un individuale in situazione e in
relazione; non si tratta di svilire né la situazione né la relazione ma di cercare una connessione
VIVA di questo humus.

Dunque, la storia della filosofia va messa al riparo dall’unicità del filosofare, dall’assolutezza del
filosofare, e dunque la storia di questa comprensione delle situazioni e delle relazioni.

La storia della filosofia non si propone di esaminare una filosofia o una verità, ma di mettere in
campo tutte le verità, tutte le situazioni e tutte le relazioni e, per fare ciò, e qui è un punto di “
distinzione di accenti” : se Garin sottolinea come compito specifico della storia della filosofia la
filologia, perché Garin è preoccupato che la filosofia possa coattare la filologia, fare di essa un
mezzo, mentre invece la filologia vuole essere il discorso sulle cose; la storia della filosofia nasce
da questo discorso sulle cose che vanno indagate e comprese sul piano del divenire, anche lessicale
– esprimere coerentemente la storia della filosofia nel rispetto della cosa di cui parlo, dell’essenza
della cosa di cui parlo- debbo avere una attenzione forte nei riguardi del lessico, dei linguaggi, delle
parole. Garin arriva a citare miramoriz (non so come si scrive) asserendo che il compito della
filologia consiste sempre nell’afferrare la personalità; la filologia è lo studio delle personalità, delle
cose che la personalità esprime;

E questa lezione sulla filologia serve a Piovani per:

1) Ribadire ed essere d’accordo con Garin sull’importanza della filologia – deve esprimere rispetto per
ogni individuazione concreta) Bisogna riconoscere che l’appello alla individualità è appello alla
solidarietà delle connessioni che la filologia propone e ha valore soprattutto per Garin che con il suo
combattimento per la storia ha aiutato la filosofia e la storiografia italiana a imboccare la strada per
la individuazione storica dell’alterità: conoscenza dell’altro – non l’altro da me, ma anche l’altro
come oggetto di conoscenza rispettato in sé e per sé- non posso fare storia delle “ idee” della
rivoluzione francese. Devo fare la storia di quanto è davvero altro da me come oggetto del
conoscere, il fatto considerato in sé così com’è.
Con la precisazione che i fatti della storia non sono MAI ripetibili; non posso ri-elaborarli
astrattamente lontano dalle situazioni cui quei fatti appartengono.
Lo stesso umanesimo di Garin è stato qualcosa di più di una semplice indagine di carattere storico-
storiografico; è stato ritrovare rispetto di chi indaga, dell’oggetto indagato.
L’attenzione a Garin e al rapporto tra soggetto e oggetto dell’analisi è ribadita in Piovani anche
nelle pagine seguenti (dopo pagina 27).
Garin ha voluto dare una storia prevalentemente filologica della filosofia; egli ha orientato molte
delle indagine storiche post-idealistiche. È stata una rappresentazione della storia della filosofia
anche molto poetica!
2) Tuttavia, la storia della filosofia per Piovani non si riduce a storia filologica: non si può rischiare di
fare della storia un insieme delle conoscenze; la posizione ultima di piovani sarà quella di coniugare
non tanto filosofia e filologia che pure sono interconnesse – Piovani studioso di Vico > filosofia e
filologia nascono da un unicum. Si tratta di approfondire la tesi e andare verso un altro tipo di
connessione, tra filosofia e storia delle idee. La storia della filosofia non è solo la storia di posizioni
filologiche ma è storia delle idee. Cos’è la storia delle idee? Lo vedremo. La connessione annuncia
l’esigenza di Piovani di pluralizzare il conoscere dell’uomo; conoscere dell’uomo punta al plurale.
La conoscenza storica è conoscenza di plurali individualità in situazioni. Perché la filosofia
moderna è ricognizione dell’individuale.
3) La filosofia come ricognizione: il moderno nasce come maieutica dell’individuale ( Piovani ha in
mente il modello classico di Socrate; la lezione di Socrate anima ancora tutta la cultura occidentale,
e anima una direzione della cultura occidentale ( che parte con Socrate) Il socratismo è assorbito
dalla patristica prima che dal Medioevo, da Agostino – l’io agostiniano è un io interrogante, e da
questo punto di vista c’è tutta una tradizione anche della filosofia come autobiografia che poggia su
Socrate. Se Piovani è un grande lettore di Vico, sa bene che l’autobiografia di Vico si conclude con
un appello alla lezione di Socrate, e si conclude ricordando che la Scienza Nuova è stata finita nel
giorno in cui si celebra agostino; questo per dire che alcuni modelli classici ritornano, Socrate o
Agostino. Ciò perché per dare valore all’individuale bisogna compiere la ricognizione, e i modelli
della ricognizione sono i maestri dello storicismo tedesco – Historismus- che secondo piovani sono
definibili come maestri dello storicismo critico; non hanno più un senso dell’assoluto ( come il
senso dell’unicità astratta dell’essere) hanno abbandonato definitivamente una concezione della
filosofia intesa come concezione avente base naturale-cosmologica; non c’è più un essere che fa
sostanza e che la storia della filosofia dovrebbe rispettare; sono Humboldt nel ‘700, Histormismo
maturo : Droysen Dilthey Meinecke.
Lo Storicismo assoluto viene da questi autori – dello storicismo critico- emarginato perché,
paradossalmente, incarna modelli di storia della filosofia che concepiscono la dualità assoluta e
individuale, non hanno esperito l’essenzialità: la ricerca dell’assoluto nell’INDIVIDUALE, non
come esteriorità; c’è una interiorità. Piovani è stato lettore ANCHE della fenomenologia come
moderna filosofia.
Lo storicismo critico è erede dell’umanesimo, cioè della umanizzazione del LOGOS che
l’umanesimo ha realizzato.
Per questo Historismus, cioè lo storicismo critico, l’indagine storica fornisce i modi della
ricognizione dell’individualità; l’indagine storica è questa ricognizione, è attribuire importanza
fondamentale della dimensione filosofica della storia; questo, il nodo o interesse fondamentale che
questi autori suscitano in Piovani.
Questi autori avevano bisogno di una micro-filosofia che coadiuvasse la conoscenza di una più
approfondita conoscenza dell’umano.
Si abbandona ogni MACRO-indagine; Perché?
Perché la storia della filosofia non è più storia del vero ma guarda alle conoscenze INDIVIDUANTI
L’INDIVIDUALE: quella che anche Humboldt ha definito la scoperta della storia. La logica degli
individuali.
La storiografia è l’epistemologia della scienza storica, è gnoseologia di un nuovo campo di
conoscenza; la storiografia filosofica è conoscenza di una nuova realtà.
La storia in quanto conoscenza dell’individuale diviene indissolubile dalla problematica del
filosofare contemporaneo. Anche la fenomenologia, cita Husserl ma adesso si preoccupa in generale
della F., è in Italia pervenuta grazie alle aperture dell’esistenzialismo, e, conosce elementi rilevanti
(Piovani li definisce elementi polivalenza) che tendono a far uscire il dialogo filosofico italiano da
una LOGICIZZAZIONE feticizzata.
Libera, la fenomenologia, da un logicismo enfatizzato; addirittura, cosa fa?
Piovani denuncia la povertà di un gergo scientistico di filosofi ambiziosi (riferimento anche al
positivismo italiano che ha logorato lo stesso concetto di scienza).
Musil (l’uomo senza qualità)* riferimento di Piovani; in questa prospettiva è importante il
riferimento alla fenomenologia perché vale l’esortazione di Husserl a tematizzare il regno del
soggettivo; fondamentale il richiamo all’opera di Enzo Paci, Diario fenomenologico; una nuova
valutazione dell’esperienza interiore e una centralità che assume il senso della intenzionalità che dà
un contributo alla cultura filosofica italiana, esortandola a mettersi in discussione in ogni sua
pagina, in ogni funambolismo dialettico, x vivere una tensione verso una volontà di comprensione
rinnovata ( non offre formule ma propone un metodo di osservazione, uno stile di indagine,
comprendere indagando, introducendo un nuovo stile).

Pag. 72: l’originaria richiesta di Husserl di soluzioni definitive e neoscentifiche si risolve e corregge
nella ricerca dinamica dell’autentico che vive degli stessi fenomeni: andare alle cose stesse, senza
irrigidire in una struttura generale il mondo della vita – tema della cultura filosofica contemporanea,
di quella fenomenologica-,
Dunque, il richiamo all’autenticità, non alla generalizzazione, non è astratta essenzialità ma essere
profondo di ogni individuo-fenomeno intenzionalmente seguito e compreso.

Nella chrisis, opera di Husserl, si danno nuove possibilità di aderire a tutte le sperimentazioni del
reale e a una nuova “conoscenza del flusso unitario della storicità” I fenomeni storici conoscono
anche attraverso la fenomenologia una evoluzione, perché la scienza nella fenomenologia o la
filosofia x la fenomenologia diviene scienza nuova del COME UNIVERSALE; non si rifà scienza
dell’universale ancora una volta! La fenomenologia è l’opposto di questo farsi scienza universale,
perché vuole interrogare come si costituisce l’universale.

In questa ricerca del come, la fenomenologia aiuta a capire la ricerca come riconoscimento della
identità della persona nella sua autenticità, dunque il richiamo alla vita: QUESTO SPIEGA IL
RICHIAMO AL MONDO DELLA VITA.

Quando mette in campo questo richiamo, ha (Piovani) una predilezione nel riferire questa fortuna
della fenomenologia in Italia alle letture di un autore, fenomenologo francese, che piovani legge e
commenta che è Merleau Ponty; il riferimento è specifico; sì alla krisis di Husserl ma soprattutto a
Ponty. Perché? Perché cita (74) un’opera rilevante dedicata alla fenomenologia della percezione –
lo studio della percezione, la tensione alla percezione (riferimento al moderno, si potrebbe
analizzare il moderno a partire dal segmento della conoscenza affidata alla percezione; il discorso
muoverebbe da Leibniz x giungere a Ponty).

Perché?

Che contributo può dare alla conoscenza storica moderna – conoscenza individuale- il riferimento
alla percezione?

Piovani cita il testo di M. Ponty (Sul testo lo troviamo in francese): una storia raccontata può
significare il mondo con un tratto di profondità, a patto che si tragga la traiettoria filosofia.

Dunque, la profondità della storia del mondo raccontata è trasferita, espressa da un tratto di
filosofia.

Dunque, la filosofia contemporanea ha dovuto o dovrebbe far tesoro della mediazione di Ponty che
ha coltivato tutte le relazioni tra la storiografia e la nuova sociologia; ma, storiografia e linguistica
storica; storiografia filosofia e storia delle idee, dunque ha gettato le basi per quella che è stata
chiamata da Fevr una “storia diversa o altra storia”.
Quindi, questa tematica fenomenologica che richiama la storia del mondo a una profondità che ha
senso filosofico, consente di concepire – alla fine del capitolo- la storia come dinamicamente
fenomenologica.

Cioè quella storia sempre più cosciente del valore e dei valori dell’individualità.

Dunque, la conoscenza storica si fa coscienza SE si mettono in campo queste relazioni e queste


consapevolezze che nascono dall’esperienza fenomenologica che l’esistenzialismo ha introdotto in
Italia.

Talaltro l’autore – Enzo paci- che lui ricorda è stato grande divulgatore dell’esistenzialismo accanto
alla fenomenologia in Italia.

Questo tema, che chiude il Capitolo III, introduce a un altro tema che esplicita quanto già detto,
un'altra tendenza del conoscere storico che la filosofia contemporanea ha ripudiato: la tendenza al
TOTALISMO.

Piovani ribadisce la sua critica all’idealismo, perché l’idealismo italiano ha sacrificato l’individuo
in nome di una prospettiva Totalistica, e, naturalmente, questa prospettiva ha messo in crisi
fortemente il concetto di IO quale era stato già maturo nell’umanismo, indebolendo la definizione di
UOMO (Il totalismo neoidealistico) e ha introdotto un metodo per la sua comprensione che
prescinde dalla sua definizione, e questa per Piovani è una contraddizione insanabile, inconcepibile.

Tutto il pensiero moderno si è preoccupato di questa definizione dell’uomo, e nessuna filosofia


moderna però si può fare contemporanea se non accetti la tormentosa eredità dell’umanesimo e la
svolga in direzione di definire che cos’è effettivamente l’individuo. Qual è stata la lezione che ha
dato l’umanesimo? Ha posto un problema non sempre risolto, quello di come svincolare l’individuo
umano da un ordine. Se ci pensiamo questo rapporto tra individuo e ordine naturale, è un rapporto
talmente forte da resistere in tutte le manifestazioni, non semplicemente quelle storico-filosofiche;
basti pensare alle arti figurative – non è un riferimento di Piovani-: se attraversiamo un museo
europeo, a partire dai musei vaticani – o comunque quadri rinascimentali- in cui ci colpisce la
posizione dell’umano che non prescinde dalla natura, dal paesaggio; è una sovrapposizione di piani
che muta rispetto alla pittura antica, ma l’autonomia conquistata dall’umano non prescinde mai da
una rappresentazione ideale o reale della natura.

Dunque, c’è questo “Sfondo dell’ordine cosmico”: quando si distacca da questo - quando
dall’umanesimo costatiamo la connessione tra autonomia individuale e sfondo naturale, e quando la
SUPERIAMO, la superiamo perché possiamo costatare lo sforzo morale; questo sforzo morale non
è qualcosa che si definisce tout court ma si costruisce; lo sforzo etico non è mai definitivamente
conquistato!

Qui c’è una riflessione che va sottolineata – è molto presente nel saggio del ’72 sui principi di una
filosofia morale-: Quando si supera questa posizione umanistica che già pone il problema relazione
umano-ordine cosmico, si dà che ogni autonomo ente-soggetto deve sempre coesistere con gli altri
autonomi soggetti, senza offenderli nell’individua indipendenza e tuttavia senza affidarsi
nuovamente ad una normatività oggettivamente posta. Di fronte a questo problema – problema della
loro esistenza e sopravvivenza- le individualità fatte distinte si apprestano a riunirsi in qualsiasi
forma di unione che le sollevi da questa minorità insicura; questo accade perché ogni individualità
si avverte in relazione con altre individualità, cioè si pone il problema della COESISTENZA.

Una filosofia morale si dà quando nasce questo sforzo morale, quando cioè l’autonomia dall’ordine
cosmico si stabilisce, nasce e si afferma come autonomia morale. Insomma nasce quando ( Piovani
riprende Simmel dei problemi fondamentali della filosofia) quando tale esigenza di trovare qualcosa
di certo nel mondo era comprensibile in un tempo in cui la concezione della stabilità medioevale del
mondo si era dissolta x dar luogo a un nuovo naturalismo fondato sul dinamismo sulle energie sulle
pure relazioni dei fenomeni; per Simmel il rinascimento è tale non perché si danno artisti,
committenze architettoniche o nuovi progetti politici, ma perché il rinascimento stesso nasce da
questa nuova consapevolezza della direzionalità dell’esistenza, della sua instabilità, e da ciò nasce
l’esigenza di una libertà; l’orgoglio della coscienza personale che si oppone ai vincoli dogmatici di
carattere religioso e sociale, particolarmente rigorosi nel medioevo. Si spezzano i vincoli antichi e si
afferma questo concetto nuovo della personalità come coscienza morale, sino a giungere a Kant, che
abbiamo visto essere oggetto d’analisi di Piovani.

La modernità si conquista attraverso questo senso della personalità e della coscienza in cui
l’autonomia di ciascuno trova la sua norma valida per tutti, ed è questa autonomia, nel profondo
dell’uomo, non tanto nella generalità universalizzata dell’umanità; questo è un problema risolto ma
posto da una filosofia contemporanea: la profondità dell’umano che non è semplicemente generalità
universalizzata dell’umanità: Polarità. Da un lato il Kantismo con i problemi che ha posto il
Kantismo (critiche al formalismo di Kant) Quest’ansia del divenire della personalità che però
abbiamo visto si contraddice quando non è la mia personale individualità ma è l’umanità stessa /
altro progetto che comunque parte da Kant (il Kant di Fichte) in cui tutta la coscienza fenomenicità
rischia di essere elevata a produzione di un soggetto oramai assoluto e assolutizzato.
È a partire da Fichte che si totalizza la coscienza; perciò, questo capitolo ha come titolo Idealismo e
Totalismo; il destino dell’Idealismo post-kantiano a partire da Fichte chiude la coscienza e la
personalità nel totale: totalismo, collettivismo della coscienza, dice Piovani.

Cosa accade? Sino ad Hegel e con Hegel, lo spirito soggettivo si sublima nella perfetta realtà dello
spirito assoluto; questo, il punto d’arrivo dell’idealismo Hegeliano e del neoidealismo italiano.

Naturalmente, qua c’è anche un’annotazione rilevante e molto fine da storico della filosofia (non
solo morale) di Piovani da considerare: quando questo accade si definisce la “Via Kantiana di
Fichte” che non è ignara della tradizione razionalistica occidentale, che però non parte da Cartesio
ma da Spinoza, dal Deus Sive Natura e in modo specifico dalle componenti neo-stoiche dello
Spinozismo.

Questa affermazione è anche molto importante perché ritorna non soltanto il socratismo (in
direzione dell’individuale-individuarsi) come abbiamo visto, cioè l’enfatizzazione della
soggettività, dell’Io, il socratismo e l’agostinismo sono funzionali ad enfatizzare quella maieutica
dell’individuale; tuttavia dobbiamo considerare anche queste correnti neo-stoiche coltivate da
razionalismi come quello di Spinoza, che per contro vanno in direzione dell’individuale
universalizzarsi, in direzione della universalizzazione totalistica dell’IO.

Quest’altra diramazione, questa universalizzazione totalistica dell’io non ha risolto il problema


dell’individualità, lo ha eluso; perché essa è una mitizzazione dell’individuale, ma è anche una
mistificazione dell’individuale.

Non analizza l’individuale nel suo essere, ma lo chiude! E cosa accade?

Non approfondisce quello stile micro-filosofico ma è una MACRO-filosofia ad imporsi! E, invece


di esaminare le possibilità della convivenza delle individualità (coesistenza delle individualità e del
loro comune lavorare ciascuna a suo modo, ad avvicinare il vero secondo le proprie inclinazioni –
indagare i nuovi modi in cui la verità possa apparire) il Totalismo cancella la varietà degli
individuali nella monistica soggettività del SAPERE ASSOLUTO (in cui ogni empirico soggetto
vorrebbe realizzare sé stesso).

Il totalismo cosa fa? Condanna la supposta empiricità, e la confonde con la singolarità! Sarebbe
opportuno eliminare la singolarità a vantaggio dell’individualità, ma non si può confondere la
singolarità con la empiricità. L’empirico è un mondo, fatto anche di relazioni. Empirico non è il
singolo, è il luogo in cui si danno le azioni; l’azione non può fare a meno del riferimento
all’empirico pur non riducendosi ad esso.
Il totalismo vuole elevare questo io-empirico e lo fa privilegiando il modello neonaturalistico,
prendendo spunto da esso / a modello la scienza della natura.

Invece, quando la filosofia non vuole aderire a questa totalizzazione del reale, allora vuole in
qualche modo superare lo scientismo, vuole superare ogni sapere totale, vuole superare ogni
assolutizzazione dell’Io, vuole evitare ogni ingrossamento del soggetto in soggetto assoluto, e vuole
invece contenere l’individuale, non dominare, né eludere. Ancora una volta è esplicito il riferimento
a Hegel (in uno primi paragrafi capitolo sul totalismo e idealismo che stiamo leggendo) “la
prefazione della fenomenologia dello spirito e le ultime pagine conclusive sul sapere assoluto (…)”

Hegel aveva considerato la fenomenologia dello spirito come l’opera adatta a rappresentare
l’apertura della coscienza; tuttavia, le ultime pagine – sul sapere assoluto- teorizzano l’alleanza tra
totalismo della coscienza e totalismo della scienza, che Piovani non condivide.

La vera autentica coscienza morale è quella che si coniuga con il conoscere storico, con la
conoscenza storica. Nel sapere assoluto, per contro, la conoscenza storica è subordinata alla vita
della coscienza in quanto assoluta, e ciò incide sul modo di fare storia della filosofia. Se apriamo la
storia della filosofia di Hegel, vediamo come essa rispecchi questa teoria della totalizzazione,
questo richiamo della scienza storica a una verità assoluta, questa subordinazione della storia a una
verità.

Questa verità ha una sua storia, ma non esistono né le storie, né le verità. Esiste, per Hegel, solo un
percorso che è l’autentico percorso!

Per contro, l’autentico Piovaniano va in direzione dell’autonomia dell’individuale, non del


sacrificio dell’individuale per la coscienza assoluta.

L’individuale vive dentro la storia e ha in sé il senso dell’universale, non si subordina a un


universale esteriore, ma vive co-esistendo. Questo è il problema che, infondo, ha lasciato aperto
l’umanesimo: l’umanesimo vive di questo rapporto problematico tra l’ordine cosmico e l’autonomia
del soggetto, dell’umano. La filosofia contemporanea ha sviluppato questo problema irrisolto
nell’umanesimo, aprendosi alle filosofie europee del proprio tempo: esistenzialismo e
fenomenologia.
Il discorso di Piovani è aderenza solo ad alcuni modelli dell’antico: Socratismo e Agostinismo da
un lato, neo-Stoicismo dall’altro; si tratta di tradizioni accolte a partire da orizzonti distinti, che
hanno concezioni dell’individuale molto distinte.

Lezione

16/05

Testo: Conoscenza storica e Coscienza Morale

Il tema che in queste pagine matura è il tema della storicità insieme con quello dell’esigenza e della
preoccupazione cosmologica (così si esprime Piovani nel capitolo V del testo) perché
preoccupazione cosmologica?

Sembrerebbe un ritorno al passato, a un’istanza antica, che riaffiorava in una concezione di


carattere giusnaturalistico; il discorso riprende, anche in questo senso, perché sia la fenomenologia
sia l’esistenzialismo del ‘900 sono infondo preoccupate: da un lato, di guardare all’individualità,
alle esistenze individuate ( Piovani) ma un certo esistenzialismo ha avuto ( pagina 108) sì il
privilegio di guardare alle esistenze, ma, lo ha fatto tralasciando il dato storico ( qui fa riferimento
alle esperienze di Jaspers e di Heidegger; che agli esordi erano accomunati dalla fedeltà espressa
alla lezione di Dilthey –storicismo- ma poi, entrambi, hanno guardato alle esistenze individuali,
senza porsi il problema della storicità).

C’è invece un altro gruppo di pensatori, e tra questi Karl Lowith e Gadamer (tedeschi) che hanno
provato a mettere insieme / coniugare lo storicismo critico con la caduta, l’assenza, la crisi della
metafisica. Piovani cita anche un altro grande interprete italiano che appartiene alla cultura cattolica
ed è un pensatore molto vicino a Piovani – Alberto Caracciolo- è uno di quei pensatori che si
rifanno sia a Meinecke che a Lowith, i quali hanno concepito la filosofia come prospettiva, dunque
fuori dagli storicismi assoluti; la filosofia, concepita come prospettiva, non è mai circoscrivibile ad
un raggio limitato, ma vive sempre di una tensione, che piovani chiama l’ulteriorità; la filosofia si
concepisce come prospettiva ma soprattutto come possibile ulteriorità; la filosofia non si esaurisce
in un sapere assoluto, definito o predefinito; la filosofia non è più radicalmente scienza dell’essere
ma si converte in scienza del divenire: in questo è il suo legame con l’etica; essendo scienza del
divenire, è consapevole che l’unica oggettività che può sostenere è quella di un universale tensione.

Piovani con una frase d’effetto dice che non c’è più nessun tipo di lettura di carattere aristotelico, la
sola oggettività che l’essere possa conservare è quella dell’universale tendere al nulla liberante.

Non una filosofia dell’essere ma una filosofia del de esse, del non essere (motivo che animerà anche
le pagine de Suoi principi di una filosofia morale).

Allora non è l’essere in sé, ma l’essere coscienzializzato, che si mostra, che appare, che si dà nelle
plurali coscienze; questo diciamo è un essere che accade, che quando si fa attraverso le coscienze, è
un farsi attraverso le altre individualità. Questo è un motivo che Piovani riprende da Alberto
Caracciolo, pensatore cattolico vicino ad alcune tendenze dell’esistenzialismo contemporaneo, che
individua nella morale il terreno del farsi dell’individuo, il luogo in cui si dà questa ulteriorità,
questa dimensione in divenire dell’essere che non è più un assoluto / qualcosa di dato.

Perciò Caracciolo rifiuta gli ISMI (Storicismi, esistenzialismi, in senso Jaspersiano e


Heideggeriano; questi ultimi hanno, per questi ISMI, delle loro teorie, identificato il discorso
sull’essere con il discorso sull’assoluto senza uno scatto, uno smacco) invece la novità di
Caracciolo sta nell’individuare la differenza. Il discorso sull’essere coincide con il discorso sulla
differenza.

Questo esistenzialismo non è più nostalgia dell’essere; non è una metafisica capovolta, ma è una
consapevolezza dell’essere in divenire in quanto coscienza.

Dunque, il problema dell’essere, non è più un problema immediatamente teoretico ma si colloca in


una dimensione morale, perché la morale è il tentativo di farsi dell’essere stesso.

Naturalmente c’è una preoccupazione cosmologica, ma non è più il cosmo tradizionale.

Scrive Piovani: Il cosmo di cui si può parlare può essere inclusivo dell’uomo solo perché è il de-
naturalizzato cosmo, inclusivo dell’umanità; c’è una cornice cosmologica che non riguarda più il
vecchio naturalismo (in accordo con i discorsi fatti relativamente alla Nuova filosofia, la critica al
giusnaturalismo ecc.).
La nuova cosmologia, che è senza natura, può coincidere con la cosmicità Kantiana, perché la
cosmicità Kantiana evita di sfociare nell’assoluto Hegeliano, e afferma una nuova intuizione;
Nuova intuizione di Kant- nonostante i limiti del kantismo-: ritorna sì questa cosmicità Kantiana,
ma solo perché il punto di vista cosmopolitico impegna la diretta relazione tra la personalità e la sua
tensione all’universale cui deve aderire per essere sé medesima nella moralità.

La tensione all’universale si può spiegare solo dal punto di vista morale; il limite di Caracciolo pur
essendo il suo un contributo importante relativamente a questa questione dell’essere, è che si tratta
di un essere che non si chiude in sé ma che trascende; questo è il limite delle posizioni cattoliche, e
si esplica nel fatto che, anche se la cosmicità è ritrovata in questa universalità aperta, questo
ritrovare l’universalità – in senso aperto- accade ed è finalizzata al suo trascendimento; chiaramente
la trascendenza diventa comunque un punto di riferimento ineludibile per un filosofo cattolico.

Dunque: interrogazione dell’individuale – interrogazione sull’universalità dell’individuale sì, ma


per tentare di individuare un significato ultimo – trascendente-.

Caracciolo non potrebbe essere radicale, condividere la tesi radicale di Piovani che è: l’interiorità
cosmica o è la negazione della cosmologia tradizionale o delle individuali esistenze coesistenti
secondo il ritmo della loro intima legge coscienziale; dunque, Caracciolo sembra non definire
queste due vie alternative; in Caracciolo piovani vede percorse entrambe le strade ( interiore
cosmologia che non si libera da una cornice tradizionale e l’attenzione alla legge coscienziale
intima di queste interiorità) per lui bisogna uscire da questa impasse perché la preoccupazione
cosmologica si risolve solo nella coscienza individuale ( che è coscienza morale).

Con Kant, ma già prima di Kant nell’illuminismo europeo, nasce una nuova consapevolezza, perché
si accentua la crisi della coscienza europea (anche qui viene richiamata la crisi della coscienza
europea) e perché si da questa crisi?

Perché il modello di Humanité della cultura Settecentesca non è più soltanto quello europeo; non è
un umanità eurocentrica, già nel ‘700 è un umanità pluricentrica (Piovani insiste sulla dimensione
della pluralità; motivo che si applica alla conoscenza storica, che è pluricentrica).

Il ‘900 ha ripreso dall’illuminismo l’interesse per il pluricentrico, e il pensiero Novecentesco è


diventato molto attento all’uomo, si è posto la domanda che (l’ultimo) Kant indirettamente si era
posto con l’antropologia ma, al che cosa posso sperare (?) Il Novecento raggiunge che cos’è l’uomo
(?) e lo fa con un altro pensatore che ha coniugato l’antropologia con l’etica, ovvero Max Scheler;
nasce nel ‘900 un nuovo interesse antropologico (e l’antropologia Novecentesca che si preoccupa di
guardare alla sua origine Settecentesca si libera dall’idea e dal prototipo di un uomo astratto)
L’antropologia del ‘900 si dedica allo studio di strutture e uomini concreti, ricerca un metodo
scientifico per intrecciare più discipline e, un dato molto importante è che nel Novecento fioriscono
discipline che appartengono alla sociologia (Sociologia delle arti, della letteratura); inoltre,
chiediamoci (Piovani presta molta attenzione alla statistica): Perché questa sociologia così aperta a
varie discipline non può prescindere dalla statistica? O meglio, da una nuova attenzione ai bisogni
individuali?

La sociologia non è più la vecchia sociologia Ottocentesca di stampo e tradizione positivistica, ma


guarda alle richieste degli individui!

Questa realtà della comunità, della nuova comunità: la sociologia studia questa realtà a partire dalla
statistica e mettendo in crisi il vecchio modello di stato, perché infondo lo studio della società
attraverso la statistica è sempre esposto alle insidie dell’imprevisto; l’imprevisto mette in crisi ogni
genealogia, ogni ideale di uomo astratto.

Piovani ha insegnato prima di insegnare filosofia morale in quest’ateneo sociologia, ciò chiarisce
l’attenzione alla sociologia e alla statistica.

Questa scienza della statistica dà concretezza all’indagine storica perché abitua alla sperimentazione
– quello che accade nelle scienze della natura- abitua lo storico alla sperimentazione, a non cadere
nell’errore di considerare scientifica solo la conoscenza del visibile, dello sperimentale, perché c’è
anche il dato nuovo, il novum; la statistica è un calcolare, ma l’esito del calcolare non è già dato.

La statistica serve alla descrizione dei fatti, lo storico descrive i fatti; Piovani insiste sull’aspetto
della pluralità.

Lo storico come il sociologo che si interroga sui fatti deve considerare la loro pluralità; e, infondo,
il centro della questione è questa volontà di concretezza che deve combattere l’abitudine metodica
alla generalizzazione – lo storico così come il sociologo non può affidarsi a spiegazioni generali,
deve lottare contro l’astratto, eliminare le astrattezze, essere diffidente nei riguardi di ogni
metafisica-.

Dunque, l’antropologia della filosofia contemporanea si avvale della storia così come si avvale della
sociologia: l’antropologia contemporanea è un antropologismo attivo.

Dentro questa costellazione di autori e tendenze ce n’è sempre una che pervade, ovvero quella
tendenza a ricercare una garanzia, a ricercare un fondamento, e questo è il limite delle posizioni
esistenzialistiche e fenomenologiche riprese da Piovani (Husserl, Heidegger; i loro riferitori hanno
cercato un fondamento, una garanzia dell’individuale e del possibile) un limite anche di alcune
correnti contemporanee è messo in risalto, in modo particolare per quanto riguarda il
neopositivismo; quale? Quello di aver risolto il discorso scientifico nella ricerca di una nuova
metafisica applicata al metodo; dunque non una metafisica e un metodo, ma una metafisica del
metodo: il neopositivismo ha provato a unificare tutte le metodologie per giungere a una metafisica
del metodo; anche qui prevale un problema che ancora è nostalgia dell’essenza dell’uomo, cioè da
un lato ( Il Neopositivismo) vuole fondare una purezza conoscitiva e dall’altro vuole avere una
nuova presa sul reale ( questo è il limite anche della fenomenologia di Husserl / esistenzialismo
Heidegger) e naturalmente questa tendenza che riproduce una nostalgia dell’essenza dell’uomo non
sfugge ad atteggiamenti tipologizzanti; anche se Scheler era stato citato per il contributo dato al
problema della coscienza e della coscienza morale, infondo sono pensatori ( Scheler e Heidegger)
che non sono MAI stati attenti al problema antropologico, secondo Piovani invece centrale nella
filosofia del ‘900, secondo uno studio scientifico sull’umano nelle sue varianti e possibilità contro
ogni metafisica classica o metafisica del metodo.

Per la pars costruens di questo discorso, Piovani si affida a due pensatori, uno francese l’altro
tedesco: Il Cassirer della filosofia delle forme simboliche (pagina 143) e Bergson; il Bergson di due
fonti della morale e della religione.

Questi due autori sono estremamente diversi tra loro, eppure sono due grandi fonti dell’antropologia
filosofica rinnovata. Perché?

Perché entrambi hanno cessato di credere alla filosofia come filosofia del puro pensiero (o
dell’essere del pensiero).

Se c’è una fonte ripresa è abbandonata è quella Cartesiana; entrambi hanno rinunciato e rinnegato
l’origine cartesiana. Anche Cassirer ha lavorato su Cartesio esprimendo le benevolenze del metodo
cartesiano ma NON LA METAFISICA (Giudizio negativo) perché ripropone ancora un vecchio
modello che deve essere abbandonato!

Qui lo dice Piovani: Queste filosofie, anche quella di Cassirer, hanno abbandonato le filosofie
dell’essere per definire la filosofia come una filosofia di esperienze, di essere pensanti in quanto
viventi, cioè UNA FILOSOFIA DELL’UOMO: ECCO LA SVOLTA RISPETTO ALLA
FILOSOFIA DELL’ESSERE E ALLA FILOSOFIA CLASSICA IN QUANTO METAFISICA;
l’uomo: un esistente in grado di riflettere sulle proprie esperienze.

Passaggio fondamentale (che richiamerà Piovani quando rifletterà su Vico; la filosofia Vichiana
imposta il problema, è anticipatrice; in che termini? è una filosofia anti-cartesiana, coerente con il
discorso; bisogna guardare a questi pensatori, e prima ancora a Vico, perché è abbandonata una
filosofia in quanto filosofia dei concetti, cade la filosofia dell’assoluto, delle essenze, e nasce una
nuova filosofia DELLE CONCEZIONI.

Passaggio radicale che si definisce tra ‘8/’900 è il passaggio da una filosofia dei concetti a una
filosofia delle concezioni; Piovani richiama Dilthey (le visioni del mondo).

Quando questo passaggio matura, allora la filosofia diventa antropologia, diventa cioè discorso
sull’uomo ma NON sull’uomo esteriore, ma a partire da quelle che sono le sue esigenze morali;
perché la filosofia quando non è più filosofia del concetto ma delle concezioni, diventa filosofia
delle formazioni umane.

Tutta la filosofia contemporanea conferma la tesi di Dilthey; il nuovo binomio è esperienza e


idealità, non più ragione e idea.

La nuova antropologia Novecentesca è esperta di queste posizioni; essa non è più l’apologia
dell’uomo astratto (Pagina 148) ma deve assolutamente richiamarsi alle tensioni MORALI!

Dev’essere una nuova organizzazione di pensiero che deve evitare le astrazioni della filosofia dello
spirito, deve consumare ogni riferimento a Hegel e deve evitare le astrazioni della filosofia della
natura.

Hegelismo e positivismo sono datati; un capitolo del testo (Conoscenza storica e Coscienza morale)
si intitola “Antropologismo e antropologismo” – e non è un errore di stampa- c’è un antropologismo
NUOVO che non è più il vecchio.

Dunque, il nuovo antropologismo, si richiama a un individuo che dev’essere riconosciuto in sé


stesso per quello che è, nella sua interezza che non è compiuta MAI, ma che vuole realizzarsi
proprio in virtù di questa incompiutezza che è l’altra faccia della perenne realizzazione.

Non è più l’essere il criterio del divenire, ma è il divenire stesso, cioè l’azione, ciò che questo
soggetto è nell’azione-

Qui devono ritornare alcuni concetti chiave che in questo brano sono raccolti (Pagina 149).

Per sapere cosa sia l’uomo (questa, la domanda della nuova filosofia) nella sua essenza, bisogna
rinunciare alla convinzione che codesta essenza è entità concettualmente localizzabile e in quanto
tale descrivibile logicamente.

L’essere non è più un entità logica, concettuale, questo è il punto fondamentale; se così fosse
riproporremmo un modello assoluto, una filosofia dello spirito in senso Hegeliano; non a caso, in
Hegel, non è un modello che può servire a una consapevole storia della filosofia perché la storia in
Hegel è subordinata alla logica, non ha una sua autonomia.

Se vogliamo fare una nuova antropologia – che deve presentare senso storico- questo senso storico
non si può ricavare dall’assoluto né dev’essere subordinata (l’antropologia) a una logica.

La sua logica è la sua vita.

Qua si dà un rapporto tra VITA E STORIA; si esaurisce il modello classico Ciceroniano, ora
capovolto!

La vita come criterio di storicità (non la logica, non l’essere).

Naturalmente se questo è vero, la vita è fatta di pluralità, di plurali esperienze, e perciò le esigenze
del pluralismo contemporaneo aiutano a capire che l’uomo non è entificabile in un concetto o
ideale, perché egli è sé in qualsiasi forma sia pronto a riconoscersi, non realizzandosi mai in un
definitivo essere, ma sempre in un perfezionarsi. Non c’è una meta perfetta da realizzare o in cui
realizzarsi ma c’è un continuo perfezionamento.

L’uomo è un complesso farsi, da capire e penetrare; la scienza dell’uomo non può essere colta se
non nelle documentazioni del mondo umano. Abbiamo bisogno di documentare questo farsi:
alleanza nuova antropologia, scienza dell’uomo, storicità.

Il brano a pagina 50: la scienza dell’uomo si coglie (…) vichianamente la gnoseologia dell’umanità
è la storia in cui essa conosce conoscendosi; solo la storia è autentica Antropo-gnoseologia (Piovani
gioca con il linguaggio, coniugando questo neologismo).

Qui sta il senso del volume (CONOSCENZA STORICA E COSCIENZA MORALE)

Dunque: esclusione di ogni entificazione e ripresa anche delle esperienze tedesche; ritornano
Dilthey, Meinecke, e con F. Meinecke ritorna la polemica con lo storicismo Crociano; lo storicismo
di Croce è di stampo assolutistico, perché in Croce la storia resta identificata con lo spirito
onnisontore; il rischio è quello di teologizzare la storia, conferire alla storia un assoluto, sacralizzare
la storia, vanificare il problema storico, il problema del conoscere storico, riportandolo ad una
SCIENZA ASSOLUTA.

La teoresi e la pratica storiografica in Croce non sono spesso coerenti (Piovani)

C’è un altro problema che si pone in questa nuova e moderna antropo-gnoseologia che attanaglia
tutta la filosofia del ‘900 (la filosofia della crisi, ma per meglio dire la filosofia della crisi dei valori,
a partire da Nietzsche per arrivare a Troeltsch) si pone un problema, analizzato nell’ultimo capitolo
del volume che dà titolo all’opera.

La questione della crisi dei valori riprende un discorso introdotto da Troeltsch, cioè il problema di
considerare ogni individualità come rivelazione dell’umanità, dunque di guadagnare da questa
prospettiva il valore in positivo del relativo, ciò perché lo storicismo classico di matrice Hegeliana
esprimeva attraverso il richiamo all’assoluto un giudizio assoluto sul senso del relativo, invece
questo storicismo anti-idealistico, questa confluenza di ragione-vita deve dare nuovo significato al
senso del relativo, e Piovani cita Troeltsch, cita moralisti francesi ( Labertonniere, il quale con
Troeltsch afferma e teorizza il senso del relativo come il senso stesso della vita) l’accusa di
relativismo dunque cade: non si tratta di sostenere che i valori sono relativi e non sono punto di
riferimento per la coscienza morale e storica, si tratta di capire che ogni prospettiva individuale è la
prospettiva stessa della vita e che l’individualità non è MAI l’individualità, il relativo non scade a
SINGOLO ASPETTO in grado di contraddire il divenire, la tensione al vero; il relativo, per contro,
è proprio questo senso del particolare vitale che non è singolare, che non ha un aspetto negativo,
tutt’altro.

Scrive Piovani ( pagina 166) che quando l’individualità si afferma nella sua vitalità, quando la vita
delle individualità si compie e si accetta come incompiutezza da compiersi all’infinito, allora si
raggiunge la condanna della singolarità particolare; l’individuo, esso stesso, è, solo a condizione di
non pretendere di rimanere chiuso nella sua immediatezza singolaristica, dunque a condizione di
accettare il dovere di azione insito nel suo vero essere: c’è un essere nell’individuo che non è più
sostanza, essere chiuso, indipendente, ma è un essere aperto, che accetta il dovere dell’azione!

Il dovere dell’azione ( ci soffermammo a proposito di Piovani filosofo del diritto che aveva detto il
suicidio è coerente, ma se si sceglie di vivere si ha il dovere di perseguirla ( la scelta) sino in fondo,
consapevoli che non ci siamo voluti, ma se viviamo, la dobbiamo perseguire fino in fondo,
riconoscendo il valore dell’azione nella responsabilità dell’azione; ora la r. dell’azione è
consapevolezza di essere in situazione, l’IO è un esserci ( Heideggeriano) perché è un essere in
azione, in divenire, allora questo io non può sperimentarsi come incomunicante, deve aprirsi alla
vita! Paradossalmente, anche rispetto a Cartesio, l’IO è pensiero, ma l’IO più che essere pensiero,
esso è, e vuole essere PENSANTE! Cambio di linguaggio nel ‘900: l’essere non è pensiero perché
non è una sostanza pensante. L’Io cartesiano nel ‘900 non si può riproporre perché non si può
riproporre come res cogitans, ma solo come attività di pensiero; non è sostanza pensante, ma è
pensiero in divenire.
Questo pensiero in divenire ha bisogno però di agire! Dunque, non c’è più la relazione tradizionale
res cogitans-extensa, perché il dato che scombina il problema della relazione (al centro del pensiero
di Cartesio) è l’agire! Quella pratica! Cartesio aveva parlato di morale provvisoria – non
provvisorietà- perché, diceva: “stiamo costruendo un nuovo edificio, dobbiamo avere un luogo dove
provvisoriamente convivere con questa novità”; qui invece si va al di là della provvisorietà.

La morale non è più provvisoria, ma è autentica perché l’essere stesso del nuovo individuo che
agisce, e questo individuo sa di essere ANIMA FRA LE ANIME, ha un impulso a vivere tra gli
uguali, accomunati gli uguali da questo condiviso Con-sentire (perché la filosofia si afferma come
filosofia che si fa con altri, con la realtà esterna).

Piovani filosofo del diritto si era soffermato sul contrattualismo moderno, aveva elogiato questa
formula moderna (individui usciti dalla singolarità attraverso il contratto; Hobbes, Locke, il
contratto diventa strumento fondamentale, ma non un artificio; esso è espressione di questo Con-
sentire. Quell’antropologia moderna nasceva sulla base di questa esigenza -Con-sentire-).

Nel ‘900 questo elemento è fondamentale.

Anche il richiamo all’anima tra le anime non è richiamo alla sostanza o alla vecchia definizione di
anima, perché l’anima del soggetto individuale è modernissima unione di coscienza e conoscenza –
perciò l’opera si chiama conoscenza storica e coscienza morale; l’alleanza è tra conoscenza e
coscienza; tra gnoseologia ed etica; la moderna individualità nasce da questa alleanza ( Pagina 169)
che è attitudine potenziale degli umani a mediare pensieri ed azioni, nel rispetto di una energia
universalizzante.

Esigenza di MEDIAZIONE: ancora una volta sia la coscienza che la conoscenza sono MEDIUM!

Se cade l’essere, se cade l’ontologia, la filosofia dell’assoluto, dei concetti, allora la conoscenza,
come le azioni, sono mediazioni, non si pongono il problema di riflettere la vera realtà; cade
universale, cade metafisica aristotelica, ma anche la metafisica classica platonica!

Non c’è la vera realtà solo in quanto copia dell’idea; manca rapporto di mimesis (la realtà che vale
non è quella opinabile, la doxa, ma è quella che rispecchia (termini platonici) l’idea.

Siamo oltre ogni forma di tecnico platonismo! Semmai abbiamo visto un ritorno del platonismo
attraverso una forma moderna, di socratismo e agostinismo, dell’introspezione, perché socratismo e
agostinismo approfondiscono il momento introspettivo di questa soggettività!
Manca il platonismo in quanto valore mimetico.

Pensieri e azioni si mediano non si riflettono più non c’è una res cogitans che fa da criterio alle
azioni.

Questa mediazione ha uno scopo fondamentale: rispettare non più l’universale assoluto dato, ma
questa energia universalizzante, che significa?

Che le individualità sono centri plurali di attività, di energia, e questa attività tende alla creazione di
moderni assoluti; dunque, questi moderni assoluti fanno la formazione della personalità; c’è una
fonte (Pagina 170) che Piovani cita, e che sarà ripresa a dimostrazione del maturo interesse anche
per la psicologia contemporanea: JUNG.

Quando?

Quando Piovani deve constatare la nascita della personalità nella filosofia contemporanea si rifà
allo studio di Jung sul divenire della personalità, che non è più la persona in senso premoderno,
medioevale, ma la massima realizzazione di un determinato essere vivente; è l’atto della più alta
volontà di vita, è la massima affermazione dell’esistente individuale, e per questa affermazione vale
la storia.

La storia è luogo in cui si rivela questa personalità, non c’è più una struttura che garantisca questa
personalità se non la storia.

Questa storia contribuisce a rafforzare il valore dell’individualità; quando ciò accade, la storia può
riscattare dallo scandalo del suo presupposto relativismo; la storia è luogo in cui il senso della vita
si afferma come senso del relativo, in senso positivo! (pagine 170-171) La storia si riscatta dal
presunto scandalo del relativismo convertendosi in una certificazione della moralità;
CERTIFICAZIONE DI MORALITA’: Non si realizza una moralità indefinita, ma questa moralità
va certificata, ci devono essere i documenti di questa moralità che è fatta di azioni e situazioni!

Così si incontra il conoscere storico con la coscienza morale; si incontrano da questo punto di vista,
perché la moralità senza le prove, i documenti, i dati storici, non ha valore, perde di senso.

Questo discorso si richiama a Kant contro gli assoluti Hegeliani e post-hegeliani, è sempre pero
attento ad alimentare un discorso che nasce da Kant ma non si risolve con Kant, perché in Kant c’è
sì l’esigenza di certificazione morale- il soggetto della storia non è l’individuo ma la specie morale;
la storia offre documenti perché si dia progresso morale- però in Kant c’è sempre la tensione a non
riconoscere l’individuo per ciò che è in sé ma in quanto umanità.
In Kant ci sono ambo i discorsi; Piovani riconosce e riproduce questo doppio binario nei discorsi su
Kant.

È con Kant e con l’illuminismo kantiano che nasce questa nuova moralità ( Antropologia
pragmatica scritto dell’ultimo Kant; è un problema aperto in Kant quello di riconoscere la
fondatezza della domanda che cos’è l’uomo, domanda che Piovani riprende, da orizzonti ANCHE
kantiani ma anche distanti da Kant, con la ripresa di Cassirer, esempio, in riferimento anche alla
questione della totalità della storia: la storia non è intesa come museo o archivio, ma che ambisce
anche a un senso totale; ma questo senso totale non è MAI acquisito, mai perfetto, mai stabile, è
sempre in perfezionamento, altra parola chiave della riflessione di Piovani su conoscenza storica e
coscienza morale; non c’è il perfettismo così come manca l’assolutismo in ambito etico; non c’è
una morale assoluta, ma c’è il perfezionamento.

Questo non significa che l’attimo storico, il momento storico non sia riconoscibile anche come
VETTORE di possibili valori, anzi! L’individuale e la logica moderna, attuale, che non è quella
dell’idealismo ma è dell’individualità moderna, dell’esistenza individuale, che non può che
corrispondere a un bisogno di infinito.

Allora per trarre conclusioni: in questa individualità convergono il relativo in senso buono (non
relativismo) cioè il relativo in quanto prospettiva e anche l’infinito in quanto prospettiva. Il bisogno
di infinito.

Un autore (moderno) che Piovani richiama accanto a Kant Spinoza ecc. è Pascal.

In questa definizione dell’individualità come convergenza di relativismo e assoluto, Piovani legge


Pascal, la sua inquietudine dell’uomo moderno, inteso da Pascal come Misero e Grande; l’uomo
moderno è un uomo esposto all’inquietudine di una natura che non gli parla più; l’io di pascal è
nascosto, non si rivela; eppure, questo bisogno di infinito nel finito Es Gibt ( si dà) perché
l’individuo resta inquieto, drammaticamente; non c’è salvezza, solo la grazia può intervenire ma la
fede è qualcosa che si deve conquistare.

Cosa cade?

Già in Pascal cade l’idea tradizionale di Provvidenza; Piovani concorda con questa caduta del
significato tradizionale della provvidenza perché il polo del discorso si dà attraverso
l’immanentizzazione della Provvidenza, che non deve essere più concepita come fuori dalla storia!

La provvidenza, il richiamo ad essa, non può correre i rischi del provvidenzialismo (Pagina 184).
Quali? Che sia infondo una storia, sì orientata attraverso le azioni, ma che infondo poi conosce una
salvezza; questo orizzonte di salvezza non può più essere dato e scontato. Invece l’ordine moderno,
per l’individualità moderna, dev’essere immanentizzato.

L’alleanza tra metafisica e fisica sancita dall’aristotelismo e anche dall’aristotelismo medievale


viene contraddetta perché un nuovo ordine storico, che nasce da quella consapevolezza
antropologica esaminata, le accoglie insieme ( metafisica e fisica) ma trasforma entrambe; dunque,
in questa accoglienza le funzioni di metafisica e fisica sono assunte ma senza più una logica
unificante di tipo Hegeliano, in cui non si dava una netta distinzione tra naturalità e storicità, ma si
dà una sussunzione di natura e storia alla vita dello spirito.

Per riprendere le parole (Lo scritto uno studio sulla storia) di uno storico come Burckhardt, Piovani
ne ripropone una definizione importante della storia: per B. la storia è la rottura con questa natura
(antica) mediante il crescere della coscienza; il crescere della coscienza rompe il rapporto di
sudditanza di natura e storia.

Con questa approfondimento della differenza tra natura e storia si rafforza l’universalizzazione
della stessa natura, senza più residui di naturalismo; Diventa la coscienza ( scrive Burckhardt) il
vero punto di riferimento della storicità e della natura; non a caso, accanto al testo di Burckhardt,
Piovani cita Nietzsche ( considerazioni inattuali sulla storia di N.) dove leggiamo: “ L’universalista
storico ti tiene alto il filo sulla piramide del processo universale (…) mettendo sopra quello la pietra
finale della sua conoscenza; noi siamo la meta, siamo l’adempimento della natura” scrive il
naturalista storico secondo Nietzsche! È l’uomo la meta della natura, non il contrario; noi siamo
l’universale storico meta della natura! Il rapporto si rovescia!

Anche in questo brano di Nietzsche (capace di disorientare e orientare il lettore) si dà o si riprende


si porta a compimento il disegno Kantiano; se apriamo le pagine del saggio sull’idea di una storia
universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant si interroga sul piano della natura, non per
subordinare ad esso il destino dell’umanità, ma per richiamare l’attenzione al fatto che il piano della
natura è invito a costruire l’autentico destino dell’umanità. Anche per Kant, nessun
provvidenzialismo, ma la capacità di agire per stabilire la confluenza tra piano naturale e piano
umano.

Dopo Kant si è scoperto, anche grazie a Nietzsche, che, l’universalista storico (per parafrasare
l’opera di Nietzsche) non può fare a meno delle concretizzazioni storiche; la storia della filosofia
così come quella della morale si pluralizza: delle morali, delle filosofie. Perché si guarda alle
esperienze, alle concretizzazioni nella storia, alle esistenze alle azioni storiche; non c’è un perfetto
storico, una perfezione della storia, c’è una originaria ricettività esistenziale e ci fa parlare di
perfezionamento della conoscenza storica non di assoluta perfezione della storia.

Questo secondo Piovani, coincide con la moderna – contemporanea definizione dell’etica intesa
come scienza storica, perciò conoscenza storica E coscienza morale; quella congiunzione è
l’affermazione della sintonia tra le due, perché il ‘900 esperisce questa nuova attenzione alla
scienza della storia come Antropo-gnoseologia, e perché l’etica come scienza storica, veramente
scopre l’autentica libertà; la libertà è libertà dell’individuo che nasce dalla responsabilità, finanche
dall’interrogarsi sulla natura imperfetta dell’uomo, che ha una vita.

Da questo punto di vista, anche il problema del MALE, del non-essere, della caduta (Fichte
idealismo ecc.) si risolve in questa accettazione vitale!

Questa consapevolezza del valore del relativo, non semplicemente la scoperta del relativo in quanto
particolare non singolare, ma la scoperta del valore del relativo in quanto RE-LAZIONE: L’azione
è azione con-altri, verso, e nei confronti degli altri; io agisco e scelgo nella storia, rifiutando ogni
sostanzialismo, ogni ontologismo.

Questo punto di approdo - di Piovani (1966) - ha il suo itinerario; egli ha oltrepassato quei residui
ontologici richiamati a partire dal discorso su Normatività e società; noi dicemmo che c’era un
residuo di ontologia, diversa dalla tradizionale, negativa, un richiamo a una misura, un richiamo
dinamico ad una norma-azione; i primi testi Piovani tradivano ancora una dimensione “ontologica”!
O meglio, era caduta un’ontologia dell’individuo perché è un ossimoro dire ontologia e individuo,
l’individuo non era più pensato dentro una cornice cosmologico-classica, no, ma c’era ancora
fiducia in una norma e azione collocate in un ambito a carattere ontologica; negli anni ’60, ogni
ontologia viene a cadere, perché se restasse ancora una cornice ontologica per questo individuo,
tutto il discorso – sul perfezionamento, sulla libertà di scelta, sulla capacità di agire- verrebbe a
cadere, e verrebbe a cadere finanche il riferimento alla dimensione / verità interiore Homine,
dell’individualità, che era stata l’eredità agostiniana che non si era persa.

Il problema del fondamento – il problema classico dell’ontologia che qui cade- viene coniugato con
la questione della libertà!

È un nuovo fondamento che viene evocato, e non va mai confuso con il problema dell’essere né con
la pretesa all’universale.

Non l’universale astratto ma la tensione all’universalità delle coscienze.


Il senso dell’esistenza sta nella VITA, dice Piovani, e il senso della vita sta non in una oggettività
data, ma nell’intenzionalità, parola / uso dove ritornano i contributi della filosofia contemporanea
(intenzionalità Husserliana della coscienza e il senso d’esistenza della coscienza); l’essere è oramai
Heideggerianamente un esser-ci in quanto ermeneutica di sé che deve interpretare il proprio sé per
orientarlo.

Dunque, la storia è veramente la dimensione costituiva dell’esserci, che però resta, de facto, anche
un mistero (la storia) – non in senso teologico; non si danno più teologie della storia- mistero
dell’individuo nella storia perché l’individuo resta un volente che non si è voluto, resta un de esse, è
privo di essere, è deficitario-

Come si fa a costruire una storia assoluta e totalizzante se il soggetto della storia è un de esse?

Il testo che stiamo leggendo matura all’interno di una costellazione filosofica contemporanea; i
linguaggi della filosofia contemporanea vanno in una direzione specifica; le osservazioni sono
rilevanti per capire come i principi di UNA filosofia morale ( testo successivo) non nascano da una
supposta svolta, ma dal momento fondamentale di un itinerario che progressivamente ha fatto i
conti col totalismo, con una filosofia dell’essere, con critiche di carattere relativistico e sente il
bisogno di ancorare l’individualità contemporanea a un progetto che sia anche tensione e
collegamento; non un individuale singolarizzato ma esperito.

Il senso dell’esperienza lo ha la scienza storica – fatta di concretezza, che condivide con la


sociologia, con la statistica, da intendersi quest’ultima non come un computo di dati, ma in grado di
prefigurare anche delle possibilità; la statistica le propone, non le anticipa, ma è prospettiva; in
prospettiva “può” accadere questo, non ti dice che è accaduto o che accadrà.

La statistica è veritiera, in quanto scienza, ma non è “assoluta” segue un ciclo possibile di vita, ma
dice Piovani queste scienze sono le più vicine alla vita, perché la vita è un insieme di possibilità, un
insieme di plurali possibilità, non è un dato assoluto, né definito, né certo.

L’unica cosa certa è che è certo il mondo plurale, perché è il mondo che abbiamo scelto (che
potevamo non scegliere, con coerenza, si veda la coerenza del Suicidio per Piovani) ma accettando
la vita, dunque facendo un'altra scelta, la vita è questa certezza di possibili universabili.

Domanda: potrebbe chiarire il riferimento alla cosmologia Kantiana?

Piovani dice: non dobbiamo introdurre equivoci; un antropologia, una qualunque, potrebbe far
pensare a una posizione nostalgica, cioè potrebbe essere richiamata questa dimensione cosmica;
dimensione che fa riferimento anche a Kant; ma si tratta di una dimensione cosmica che ha stravolto
la cosmologia tradizionale, Perché?

Il cosmo come cosmo naturale è un cosmo superato, perché quello Kantiano – che è un
cosmopolitismo-riguarda tutti gli individui. Il punto di vista di Kant è cosmopolitico, riguarda la
vita nelle polis, riguarda la vita politica, gli uomini in comunità, viene – a partire da Kant- esclusa la
possibilità che la cornice cosmologica sia NATURALE.

Di naturale non si dà più nulla (Ci muoviamo nell’ambito consapevole della differenza fenomenico
– noumenico, ovvero tra pensiero e conoscere, e nel campo del pensiero non agisce più UNA
NATURA, bensì agisce una natura dell’uomo che è la smentita di ogni naturalismo, che è
affermazione dell’azione; Sul valore della libertà, dice Kant prima di Piovani “ non mi occupo della
libertà empirica ma del suo valore morale” quando Piovani parla di esperienze, queste vanno intese
in senso morale; sono cosmiche perché questo cosmo è un cosmo-politico, antropologico! Non
cornice naturale. Non l’uomo in quanto riflesso del naturale, ma è la natura dell’uomo a sentirsi
libera ed essere libera nelle azioni, nelle situazioni; è una lezione che Piovani riprende, per
l’antropologia contemporanea è fondamentale (nonostante le critiche espresse da Piovani allo stesso
Kant)

Lezione del 18/05


Oggi iniziamo la lettura e il commento dei Principi di una filosofia della morale (1972). Questo
testo rappresenta il passaggio di Piovani alla filosofia morale. Nel testo ci sono molti riferimenti alla
filosofia del Novecento, nonché alle sue opere precedenti. Il problema di quest’opera è quello di
passare alla filosofia morale, di trovare una filosofia morale. Nel 1977 scrive una voce etica per
l’Enciclopedia del Novecento: il Novecento è un tempo di rinnegamenti, problematizzazioni,
ripensamenti. In questo secolo bisogna trovare una nuova etica. C’è il problema di trovare dei
principi etici, partendo dal soggetto. Già in Normatività e società Piovani aveva avvertito il
problema etico. La morale è socialitaria, una morale della storia. Di solito, l’itinerario filosofico di
Piovani viene così riassunto: filosofo del diritto, filosofo della morale, umanologia. Il percorso di
Gianbattista Vico è simile: dal diritto alla storia. Riflettiamo sui titoli dei capitoli dei Principi di una
filosofia della morale:

a. Il volente non volutosi;


b. L’alternativa esistenziale;
c. Coesistenza dell’esistenza;
d. L’instaurazione personalitaria: non una filosofia della persona ma della personalità; l’uomo è un
incompiuto che non si compie mai;
e. Espansione e prevaricazione: qui tornano i temi del diritto;
f. Assenza e valorazione: concetto di de-esse; non è un’etica del valore ma della valorazione.

La filosofia di Piovani è una filosofia del movimento, non si compie mai. È sempre un tendere, un
andare. Piovani vuole salvaguardare il concetto di “comune”. Con Blondel ribadisce il diritto
dell’universale attraverso il concetto della norma, che è una presenza metafisica nell’uomo. La
norma è il principio metafisico, il concetto universale che permette all’uomo di andare oltre sé
stesso. Solo grazie all’esigenza di universalizzarsi si ha il superamento dell’egoità solitaria. L’uomo
tende a universalizzarsi perché deve superare la sua egoità, la sua solitudine. Grazie alla norma,
l’uomo esce dalla sua egoità e si può realizzare come individuo. Ma la presenza metafisica veniva
concepita già come presenza di un’assenza. Dopo l’excursus sul diritto, esce fuori un individuo in
cui è presente un’assenza. Se sento il bisogno di universalizzarmi è perché manca qualcosa. Già la
presenza metafisica è vista come presenza di un’assenza, di un non essere, di qualcosa che non è. La
norma indica ciò che non è ma che deve essere, a cui deve tendere l’esistente. Essendo un
incompiuto, tendo alla perfettibilità. La presenza metafisica della norma è anche ciò che rende
possibilità la storicità dell’essere umano: dal piano metafisico torniamo sul piano storico. La
presenza della norma è la dichiarazione di un’assenza. Nei Principi Piovani dà più spazio alla
fenomenologia della soggettività. Alla fine di Normatività si trova l’individuo che si deve realizzare
nella storia ed è manchevole di qualcosa; adesso l’attenzione è rivolta, nei Principi, sull’individuo.
Siamo nell’ambito etico, ma anche in quello storico: la morale è morale socialitaria. L’uomo è
calato nella storia e nella socialità. Piovani analizza l’individuale, cosa che lui definisce
“smontaggio dell’io”: è una prova di dimestichezza. Il primo capitolo parte dall’Umanesimo, poi
per Cartesio e arriva alla psicanalisi. L’uomo è talmente sicuro di sé che lo smontaggio dell’io è
quasi una dimestichezza. È capace di smontarsi perché si sente padrone di sé stesso. l’Umanesimo è
stato approfondimento del valore dell’uomo. La scoperta dell’individualità dell’Umanesimo è
rappresentata dai Saggi di Montaigne. L’Umanesimo è l’uomo che inizia a guardare sé stesso:
manifesto dell’Umanesimo è il De dignitate di Pico della Mirandola. L’Umanesimo rappresenta il
punto dove l’uomo comincia a formarsi da solo.

L’Umanesimo è il punto di inizio, secondo Piovani, dell’uomo padrone di sé stesso. L’uomo si


scopre “volente non voluto”. La modernità realizza il passaggio da una morale cosmologica a una
morale umanologica. Nell’Umanesimo si tratta di scoperte reticolari. L’individuo di Montaigne è
l’individuo dell’Umanesimo.

L’individuo di Sant’Agostino è compiuto (fa un percorso dal peccato alla redenzione), mentre
quello di Montaigne è incompiuto perché si tratta di un’interiorità in lotta, che si deve compiere. I
Saggi di Montaigne sono espressione della metodologia del tendere (i Saggi vengono ripubblicati
tantissime volte).

Piovani scopre un paradosso gnoseologico: l’attività conoscitiva del soggetto non teme il contatto
con l’oscuro ineliminabile. Tutta l’introspezione nell’interiorità ha smantellato il cielo dei concetti,
il razionalismo puro cartesiano. Il gesto di presunzione della psicanalisi è gestire la parte più oscura
di sé. Dall’Umanesimo diventiamo sempre più coscienti e padroni di noi stessi. Con la psicanalisi
riesco addirittura a gestire il mio inconscio. Qui avviene lo smontaggio dell’io. Torna il motivo
della non volontà di essere, che è strettamente legata all’irrazionalità che precede la razionalità. A
furia di conoscermi non mi sono voluto, non trovo più il fondamento. Arrivo alla consapevolezza
che in principio non mi sono voluto. Una volta che non mi sono voluto, devo fare una scelta: il
suicidio o la scelta dell’esistenza. Mi devo costruire una morale, in base al principio di
responsabilità. Non devo più dire “penso, dunque sono” ma: “mi esperisco, dunque esisto”. Se mi
esperisco, mi trovo in un piano di storicismo esistenziale. È uno storicismo di matrice diltheyana.

Le vite speculative di Vico e Piovani sono molto simili. Siamo in uno storicismo esistenziale che ci
porta all’umanologia. Il percorso va dalla soggettivazione all’oggettivazione.
Quando mi sono conosciuto nel mio nudo esistere e mi sento “come un sasso tra i sassi”, mi devo
soggettivare.

Mi devo riconoscere come esistente.

L’uomo è un non volutosi, un dato tra i dati, ma deve soggettivarsi. Come ci soggettiviamo? Qui
entra in gioco la morale.

Ci soggettiviamo attraverso il farci. Se in Normatività la norma parte da una mancanza che l’uomo
non ha, nei Principi la mancanza, l’assenza mi deve portare a verificare. Devo colmare la mia
mancanza: io sono, in principio, un essere che non si è voluto. E mi devo verificare facendo.

Qui arriva la critica all’epochè fenomenologica. Piovani dice che la fenomenologia pretendeva
anche il distacco dalla coscienza. La coscienza è sempre in situazione. Non ci si può distaccare dal
mondo, ma ci si può esperire e conoscere solo nel mondo. Il problema che Piovani si pone è: come
avviene il passaggio dall’irrazionalità dell’esistenza alla razionalità? Dallo stato di oggettivazione ci
si soggettivizza con l’azione (ecco perché i riferimenti a Blondel). Il fondamento non è inesistente
ma solo perduto. Devo ritrovare il mio fondamento. Ma questo fondamento, quando lo trovo, è
irrazionale. L’io, che era diventato padrone di tutto, quando scopre l’irrazionalità iniziale si scopre
stratificato e non entità monolitica. Freud, paradossalmente, non ha frantumato l’unità dell’io ma
l’ha espansa, includendovi la dimensione oscura, inconscia.

Quali sono le fonti del primo capitolo?

Lo Jaspers della Psicologia delle visioni del mondo, Kierkegaard (le radici filosofiche della scelta
dell’esistenza Piovani le ritrova in questo autore), Husserl, Heidegger (Piovani ne apprezza
l’analitica esistenziale, ma critica la nuova ermeneutica heideggeriana e il ritorno all’Essere)
Dilthey.

Queste sono le fonti filosofiche citate nel primo capitolo dei Principi. La novità del primo capitolo,
rispetto alle filosofiche dell’otto-novecento, è il paradosso gnoseologico e il passaggio di un essere
irrazionale che deve cogliere la razionalità (il razionale non sta più dietro, a fondamento, ma sta
davanti, devo raggiungerlo). Il razionale si costruisce attraverso una morale storica.
Lezione del 20/05

Leggiamo il II capitolo dei Principi di una filosofia morale: L’alternativa esistenziale.

Nietzsche è una fonte fondamentale di Piovani per l'esigenza che ha piovani di de-ontologizzare la
metafisica (o meglio l’uomo metafisico).

Parliamo della metafisica morale, della stessa presenza metafisica nell'uomo – la norma – del
concetto che la norma sia la presenza metafisica nell’uomo stesso.

Nietzsche è presente in questo testo, e sarà presente sempre in maniera più forte.

Tutto ciò che viene definito come percorso per arrivare all'umanologia (alla morale
UMANOLOGICA) verrà poi teorizzato come filosofia morale, come umanologia.

Il Nichilismo nietzschiano è attivo, perché l'uomo deve ricrearsi, rifondarsi, con nuovi valori –
trasvalutazione dei valori – che troverà il corrispettivo delle trasformazioni etiche Piovaniane.

Con Nietzsche abbiamo la tematizzazione e teorizzazione del negativo. Nel momento in cui piovani
abbraccia la teoria nietzschiana, nasce la coscienza storica -LEGGI DA SLIDE- l’uomo come
costruttore di nuovi significati di vita.

Attraverso Nietzsche piovani DEONTOLOGIZZA LA FILOSOFIA E NASCE


L'UMANIOLOGIA. Anche per Nietzsche l'individuo comincia dalla non logica - Genealogia della
morale- Pe Nietzsche iniziamo dal punto che poi era lo stesso punto di Darwin ed è lo stesso di
Piovani, cioè dall'animalità. L'irrazionalità è l'animalità.

In origine è zoon, non è il vivente che ha la parola, non uno zoon che ha parola, ma è la fiera,
l'animale proprio al rischio dell'inesistenza.

Attenzione quindi: qui entrerà in gioco il concetto del tempo.

Irrazionalità Nietzschiana è l’istintualità animalesca. Che tipo di animale è questo irrazionale?

Un animale che piovani definirà INFECTUM, definizione che si trova in oggettivazione etica e
assenzialismo.
Slide 3: Osservando i suoi comportamenti, l'animale ha una temporalità che piovani teorizza come
cristallizzata, quella dell'uomo no.

Irrazionalità dell'animale; egli cosa fa in realtà? Agisce per sfamarsi o difendersi, quindi gioca la
propria azione in rapporto tra vuoto e causa. L'animale, l'istintualità dell'animale porta l'animale
immediatamente ad agire o x sfamarsi o difendersi – NO AZIONE MEDIATA-.

L’animale non agisce, è agito.

L’animalità dell’uomo risulta diversa dall’animalità dell’animale, come la temporalità che la


costituisce; l’animale è costituito da una temporalità che gira in tondo in un circolo caratterizzato,
Nietzschianamente, da un eterno ritorno dell’uguale.

Passaggio da stimolo a risposta è nell'animale in apparenza immediato.

Nell'uomo c'è una sorta di incertezza: Il margine d’incertezza, già presente in piccolissima misura
nell’animale, si allarga diventando più ampio.

Il binomio stimolo-riflesso o risposta allo stimolo, presenta al centro una distanza molto più ampia.

Quando l'uomo si rende conto che è oggetto tra gli ogg, assenza di de-oggettivizzazione, già
contiene un invito alla solidarietà. Tra stimolo e risposta c'è un margine di tempo nell'uomo diverso
rispetto all’animale.

LA TEMPORALITA' DELL’UOMO è MAGMATICA; QUELLA DELL’ANIMALE è


CRISTALLIZZATA.

Quando Piovani definisce l’Uomo come animale infectum, volente non volutosi, questa sorta di
deficienza dell'uomo consiste nel fatto che nell’uomo la temporalità non si chiude in un circolo
perfetto bisogno-risposta, perché interviene una inattitudine a rispondere immediatamente.

Animale: stimolo e risposta immediata.

L’uomo che è un volente non volutosi, ha un tempo diverso; l'uomo si deve evolvere, passare da
stato di oggettivazione originario ad uno di soggettivazione.

Analizzandomi, mi trovo oggettivo (originariamente) dato, non-volutomi, ma il fenomeno di questa


oggettività è modificato dal mio stesso esaminare. Non c’è oggetto che non sia soggettificato dal
suo essere conosciuto, e dunque, anche il mio conoscermi dato nell’accoglimento di procedimenti
analitici volti a cercare la più remota esperienza di me, felicemente sottostà a questa modificazione.
Entra anche in Vico e Piovani tema della solitudine: Sei un solo… “erravano in cotal solitudine dice
vico”.

Due grandi fonti in Piovani: Nietzsche e Vico.

Quando io capisco che il fenomeno della soggettività è modificato dal mio stesso esaminare, mi
rendo conto che non posso cambiare IMMEDIATAMENTE: Io devo fare un processo; è un
processo lungo quello che prevede il passaggio alla soggettivazione.

Il deficere negativo è così una negatività positiva, si trasforma in positività.

IL PROCESSO DA SOGGETTIVAZ A OGGETTIVAZ È TEMPORALE, NON È IMMEDIATO


COME QUELLO DELLE FIERE.

Passaggio da irrazionale a razionale: in questo passaggio non può non esplicarsi uno dei temi
fondamentali, e non solo della filosofia, quello del tempo, che nell’uomo non può essere
cristallizzato (Stimolo e risposta)

CONFRONTO CON CAPOGRASSI

Nell’analisi dell’individuale Piovani è debitore a Capograssi!

Piovani condivide con Capograssi l’idea che la filosofia è comprensione della vita; è nel diritto e dal
diritto che è scritta la vita degli individui e dei popoli.

Un diritto pervenuto alla consapevolezza di sé come riconoscimento – accettazione della finitudine


dell’individuo nonché conseguente esigenza di redimere la volontà da ogni spinta particolaristica
che chiude il soggetto nella sua accidentalità, soffocando la sua aspirazione universale.

Piovani sottolinea l’esigenza della Norma: Il Diritto serve per uscire dalla singolarità, per l’accadere
dell’incontro tra la singolarità e l’universalità.

Se l’uomo sceglie di vivere deve uscire da questo stato di oggettivazione; come? Attività!

Ritorna il concetto di Blondel - Vita activa.

L'attività è il farsi, l'azione.

Se io sto lì e la vita scorre per i fatti suoi, rinuncio all'azione, alla libertà di agire.

Ogni forma di oggettivismo puro è ingiustificata.

L'uomo non può che condurre una vita attiva.


Queste concezioni, che Piovani eredita e rielabora da Capograssi, avvicineranno Piovani a Jaspers
ma anche Capograssi presenta nella sua filosofia una venatura esistenzialistica che potrebbe cercare
affinità nella rivolta di Jaspers contro l'insensibilità esistenziale dell'idealismo hegeliano.

“NON c'è oggetto che non sia soggettificato...” Piovani ri-prende da Jaspers la condizione per la
quale l'oggettività, anche se è all'origine del processo, nel momento in cui l'ho riconosciuta, non è
più l'origine del processo.

Esistenza alternativa alla datità: io non mi son voluto. C'è all'origine una irrazionalità.

Questo è il dato di partenza. Supero questa condizione conoscendo; Conoscenza è riconoscimento,


qui c'è il risvolto di carattere psicologico. Svolta esistenziale: avviene attraverso il riconoscimento.

Questa datità originaria elude una sorta di soggettivismo! Perché? Perché mi mette insieme agli altri
come oggetto! Io, però, riconoscendomi, mi conosco come soggetto!

Conoscere è insieme un riconoscersi.

Se io rinuncio al suicidio, io sono in una condizione alternativa a questa scelta radicale che è quella
della fine, io stesso sono dato.

Riconoscendomi nella mia oggettività, io me ne approprio, la deo-ggettivizzo!

La liberazione dalla mia datità originaria avviene attraverso il riconoscimento.

Nel momento in cui l'individuo si scopre individuo, si soggettivizza e agisce, ma non agisce da solo,
bensì sempre in una situazione – SITUAZIONALITA’- con l'altro, in una società, perciò la morale
è socialitaria.

Il processo non avviene tra me e me, tra me e me non potrebbe avvenire. Non possiamo scindere
l'individualità dall'azione e dunque non possiamo scinderla dalla società.

Molte filosofia e molte psicologie contemporanee possono convenire con una opinione espressa da
Jaspers nella Psicologia delle visioni del mondo: Soggetto e oggetto non sono due punti stabili e
definitivi, sono infiniti e impenetrabili nel loro fondo; sono l’ombra l’uno dell’altro, e determinati
l’uno dall’altro.

Piovani segue Jaspers e lo sviluppa tornando al punto di partenza: la datità del soggetto, e osserva
che la datità scoperta è una datità mutata, soggettificata.

Il riconoscimento del dato è la più energica trasformazione del dato! L’oggetto, scoperto nella sua
significazione, chiarificato, si rivela come qualcosa di non-dato, non si impone o pone, è posto da
chi si cercava e si trovava originariamente come non postosi; dunque, l’oggettività non è più
originaria, pur essendo all’origine del processo.

Nell'umanizzazione non c'è né possibilità della cristallizzazione del tempo.

La tutela dell’individualità in Piovani non coincide col solipsismo, anzi è l'opposto perché
l’individuo per formarsi deve agire e per agire deve essere in una situazione, con altri individui.
Queste sono le prime fonti Piovaniane che abbiamo analizzato.

Altra fonte è il saggio sull'uomo di Cassirer “C’è differenza palese tra azioni umane e risposte
umane (quasi stessa cosa di Piovani), nel primo caso replica diretta, nel secondo risposta ritardata
per un lento e complicato processo. I Riflessi umani son più lenti”.

SLIDE 9 il concetto della storia è quasi esistenza; Dipintura, quadro “la materia incerta informe
oscura di questa scienza sono le tenebre in fondo alla dipintura. Le tenebre sarebbero l'esistenza.

Anche per Vico l'origine dell'uomo è irrazionale. Paura di cadere nell'illibertà primaria è fortissima
in Piovani, e arreca all’uomo angoscia.

Libertà: dovere esistenziale, quando accetto l'esistenza non posso rinunciare a esser libero.

Slide 13 devo aver coscienza dei limiti.

L’Uomo è un incompiuto che non si compie mai, deve oltrepassare i propri limiti, anche sensazioni
angosciose.

Slide 14: Io ho deciso di esistere. Anche il suicidio è un agire; io agisco scegliendo di non-esistere
(tensione si placa con morte) il suicidio come azione. Piovani non accetta il suicidio, rispetta la
scelta del suicidio però. L’uomo che decide di non esistere è comunque un uomo che sfida perfino
Dio. Supera l'animale in quanto a differenza dell'animale può suicidarsi, ma supera persino Dio.
Agostino e Kant condannano il suicidio.

Il Suicidio come rifiuto esistenziale è giustificato da Piovani, perché viene visto come azione.

Incontrare l'alterità vuol dire conoscere o non riconoscere sé stesso. Il suicidio avviene nella storia.
Anke suicidio non è una scelta solipsistica paradossalmente ma scelta storica. In queste pagine
abbiamo anche il passaggio dall’esistenzialismo alla filosofia morale:

Scelte esistenziali: Se rifletto sul suicidio mi trovo ancora nell’ambito del pieno esistenzialismo, ma
se scelgo di vivere, nell’ambito della filosofia morale: nella fedeltà alla decisione di esistere, in
questa accettazione vitale e nelle sue implicazioni consiste per Piovani il comportamento morale.
A fondamento della morale e del diritto si rivela essere l’istanza alteristica.

La moralità fa del dovere del rispetto il criterio ordinatore dell’esistenza universale; il diritto
risponde all’esigenza di affermare la possibilità della soggettività di REALIZZARSI come
personalità di fronte alla ricorrente tentazione singolaristica, di fronte alla minaccia
dell’atteggiamento prevaricatore!

Diritto e morale son connessi in Piovani come abbiamo visto.

(Diversamente era per Machiavelli).


Lezione del 23/05

Integrazione Slide della Prof.ssa

Da pagina 23 / chiarimento pagina 44, Giuseppe Cacciatore.

Per una Filosofia della morale formato digitale.

Onirismo solipsismo e attivismo rappresentano tre forme di arresto del pensiero, ovvero
l’impossibilità di diventare una struttura, ma non prevedono una totale SOLITUDINE.

Onirismo- tenta di arrestare il sognare al sogno

Solipsismo- tenta di arrestare il pensare a questo pensiero

Attivismo –tenta di arrestare l’agire a questa azione

Piovani cerca di smontare coloro che hanno definito anche l’idealismo una forma di solipsismo; il
soggetto assoluto dell’idealismo può essere tutto tranne che solipsistico – non è una ipostatizzazione
del soggetto empirico- come può l’io fichtiano essere accusato di essere un io solipsista?

Rappresenta una soggettività comune, dunque non può.

Il solipsista pretende di dire “io sono e non c’è nessun altro oltre me”; nel momento in cui dice io
sono solo, già fa una distinzione “ rispetto ad altri”; Piovani cerca di smontare le formule che hanno
cercato di difendere la singolarità rispetto all’universalità, anche in maniera a-storica, e questo lo fa
facendo un percorso lungo, muovendo da Cartesio e arrivando a una delle definizioni che
probabilmente è la più consona per il solipsismo; dice: io non posso trascendere l’esperienza, e
quest’ultima deve trascendere la mia esperienza, da ciò segue che nulla esiste oltre l’io ( i suoi stati
rappresentano l’esperienza).

La maggiore difficoltà sta nel fissare i connotati per ciò che il solipsismo possa essere.

Io sono solo può essere una forma contraddittoria per definire il solipsismo; anche il solipsista non
può trascendere l’empiricità. Il solipsismo viene ad essere una corrente filosofica e di pensiero che
non può avere un fondamento. Non si può prescindere dalla propria storicità.

«C’è in me qualcosa di altro da me», «nella mia stessa struttura esistenziale». «In quanto esistente,
sono alterizzato, non sono pura soggettività», nel che si riassume il dovere del volere esistere.
«L’uomo che implicitamente o esplicitamente accetta di esistere, non si limita ad essere necessitato
a coesistere, perché modifica il fatto della coesistenza vedendolo umanamente come dovere».
Orbene – ecco il punto – questo dover essere «non è l’opposto dell’essere, bensì (…) la
consapevolezza dell’essere», giacché senza esso neppur l’essere sarebbe, perdendo il requisito della
coesistenza, giacché l’essere non può non coesistere. Non solo. Il conoscimento della condizione
umana, che diventa situazione dell’uomo nella sua coesistenza, è ulteriore consapevolezza che
«l’essere della condizione umana non è statico. Il dovere è trasformazione e trasfigurazione
dell’essere. L’uomo non è quello che è ma quel che si fa».

Il soggetto deve coesistere per esistere perché l’individuo è un io che per essere deve scoprire il suo
tu (un altro io), nel che è la scoperta della «personalità». Il coesistente non è «semplicemente
astante con la sua compresenza», è «colui che possa stare come me» Pagina 24.

Anche il penso, dunque, esisto, prevede un momento in cui io mi riconosco come pensiero, e ciò
porta con sé un movimento; io sto agendo, mi riconosco come pensiero, ciò porta con sé una
dualità.

“Io sono solo” – l’io di Steiner- io sono solo rispetto a cosa?

Al mondo, agli altri (discorso esistenzialista).

Piovani fa un percorso ontologico, di solipsismo ontologico inteso come Weltanschauung;


Io sono solo (impostazione seneriana, pronta a voler cambiare, avere la necessità di cambiare
qualcosa; il soggetto è pronto ad agire, all’azione. Il solipsismo cade nell’attivismo, portato alle
estreme conseguenze).

Anche nel solipsismo già c’è un’alterità interna. Il solipsista non può non riconoscere una forma di
alterità.

Già io, quando mi pongo come pensante, già c’è un alterità, un io in me, ce lo insegna S. Agostino
nelle Confessioni, considerate il primo monologo interiore, crea questa dualità tra l’io e il me; io
parlo con me, mi confesso; nella scoperta dell’interiorità già c’è l’alterità. Io parlo con me, mi
racconto; ciò vale per tutte le espressioni letterarie e filosofiche che portano avanti teorizzazioni di
solipsismo; si chiamano impropriamente così, dato che esiste già un alterità in me (da sempre).

La normatività: qual è il principio normativo che usa il solipsista? A me stesso devo dire la verità; il
parlare con me, tra me e me, mi impone il principio normativo più grande, che è quello che mi
impone il concetto di verità. Non mi posso ingannare da sola.

La verità trascende il soggetto che l’ha pensata, è più grande di me, è il momento della nostra auto-
confessione, quando siamo tra noi-noi, ed è logico che è più grande, che trascende, perché è
qualcosa a cui io mi sto riferendo solo con me! Questo qualcosa è la più alta forma di normatività.

Dal testo: La conclusione del solipsismo, o meglio le conclusioni che Piovani trae dalle sue
riflessioni sul solipsismo, sono da leggere insieme a Normatività e società. Perché?

Perché nel solipsismo il punto di riferimento diventa la verità – che trascende il pensiero- noi non
possiamo leggere il solipsismo escludendo Normatività e società.

La conclusione del solipsismo è normatività e società; la teoria di Piovani / la conclusione sul


Solipsismo, che cos’è: in sé, come teoria dell’essere solo, prevede un alterità; quest’alterità è
rappresentata dalla normatività. Qual è la sua conclusione? Che l’alterità è alla base, c’è sempre un
alterità.

Si parte sempre da un alterità; quest’alterità è in riferimento ad un io-me, ad una norma, che è la


norma della verità.

Vedremo come il solipsismo etico cade nell’attivismo.


Quando noi ci troviamo ad affrontare la critica al solipsismo come singolarismo, la conclusione è: si
parte da un alterità, che è io e me, alterità prevede una normatività, una norma (presenza metafisica
che è nell’uomo, aspetto universale dell’uomo) che è la verità.

Il solipsismo etico portato alla massima potenza cade nell’attivismo, Piovani ne critica un tipo; alla
base di tutto il problema di Piovani c’è la ricerca del valore universale dell’individualità – per farlo
muove da qualcosa che preveda una dualità all’origine; dunque, il solipsismo) che Piovani trova
criticando il solipsismo; il valore universale è dato dalla verità, intesa come norma che trascende il
pensiero.

Novità pensiero di Piovani: legare il solipsismo alla normatività, facendo il tipo di ragionamento di
cui sopra (vedi slide).

Pagina 713.

L’obiettivo di Piovani qual è? Quello di trovare un soggettivismo eticamente responsabile, dunque


la coesistenza, che prevede il concetto di responsabilità (primo atto che facciamo quando scegliamo
l’alternativa esistenziale, già sottoscriviamo un patto di responsabilità con noi stessi e con gli altri) e
un universalismo che sia anche solipsistico, perché l’universalismo non può essere astratto –
sarebbe senza valore- ma quest’universale si coglie a partire dall’individuale; l’u. deve essere calato
nella realtà storica!

Il solipsismo, nel momento più alto delle sue teorizzazioni, sfocia nell’attivismo (puro attivismo).

Non confondiamo il concetto di Filosofia dell’azione con l’attivismo; la filosofia dell’azione è alla
base della riflessione di Piovani. Inoltre, Piovani condanna una forma di Attivismo;

Già nelle linee di una f. del diritto, Piovani scrive: l’attivismo assoluto non ha nozione dell’agire
(superamento della singolarità immediata dell’agente in comportamenti in cui si compie senza
esaurirsi).

Nei principi di una filosofia della morale, Piovani si sofferma su un pensatore: Adolfo Levi, caso
esemplare per quanto riguarda l’attivismo.

Levi: fautore del solipsismo metafisico, pensatore italiano.

Chi dubita per quanto dubiti non può dubitare di sé che dubita.
Questo grande teorico del solipsismo, a un certo punto, nella sua teorizzazione del Solipsismo, non
può fare a meno di trovarsi – nella sua solitudine, nella sua più profonda riflessione su di sé, di
fronte si trova comunque la coscienza morale-. Nel momento in cui sono da solo, in ogni caso mi
trovo sempre con un me, con una verità che trascende me stesso.

Pagina 865: Il solipsismo che prima cade nell’irrazionalismo, nel disordine coscienziale, poi cade
nell’attivismo che Piovani condanna: l’azione per l’azione. Ovvero, un azione per sé stessa.

L’azione per l’azione non è possibile; sarebbe tale solo se il singolo potesse compiere l’azione
senza essere io agente, essendo unicamente io empirico, estraneo a sé stesso. L’azione per l’azione
non può essere agita, si è esclusa dall’agire; l’azione è tale solo se esiste un criterio logico che la
metta in moto e la giustifichi.

Viene condannata l’azione dell’io steineriano: io sono solo, se sono solo devo fare qualcosa anche
per cambiare questa situazione; questo qualcosa assume la forma de: “l’azione per l’azione” mossa
non da una spinta razionale, ma empirica. Ma l’azione per l’azione, dunque senza una “motivazione
effettiva, etica” ma con una motivazione impulsiva, empirica, mossa non da una spinta razionale,
eticamente razionale. L’attivismo da questo punto di vista non ha valore!

L’attivismo empirico non può essere una soluzione, per il semplice motivo che l’uomo non può
essere “agito dalla vita” ma deve agire; l’azione per l’azione è un azione nella quale la vita è agita
dall’azione.

Quando noi compiamo azioni non pensate, immediate, sappiamo che non hanno ragion d’essere
perché non realizzano l’uomo; perché l’uomo deve consapevolmente agire.

P.865: analisi capograssiana rielaborata in Piovani; lo stesso Capograssi – filosofo del diritto- aveva
sostenuto che esiste solo l’azione come azione, perché calata nella trama dell’esistenza.

Le sue riflessioni sono sempre più storico-giuridiche che gnoseologiche.

Capograssi si ferma nel condannare quest’immoralismo dell’azione; Piovani ri-elabora le fonti


(Capograssi); la sua riflessione supera la definizione di immoralismo; l’immoralismo / l’azione per
l’azione è immorale / per Piovani è tale in quanto nega la formazione della persona! È tale perché
l’uomo non si può fare agire dalla vita, dall’azione; non esiste l’uomo che si fa agire dalla vita
perché avendo preso una determinata scelta esistenziale (alternativa al suicidio) abbiamo la
responsabilità di agire.

L’individuo moderno senza riposo, un movimento senza fine; le parole di Capograssi e Piovani
sono attualissime!

La modernità è un’ansia di fare che diventa un movimento fine a sé stesso

Solipsismo in campo etico/ gnoseologico: non parliamo di solipsismo; già c’è l’alterità –
trasposizione campo etico; l’alterità diviene un “io voglio cambiare qualcosa”: irrazionalismo; io
sono solo faccio subito qualcosa (istintiva): azione per l’azione.

Leggiamo pagina 543.

L’azione per l’azione è immorale nei riguardi di sé; c’è solo un caso (l’azione per l’azione può
avvenire solo nell’ambito empirico) dove è riscontrabile, in persone affette da schizofrenia; sono
forme di esistenza mancata. Solo in questo caso è possibile o può essere considerata l’azione per
l’azione, in altri casi va condannata.

L’attivismo laddove è etico (l’azione come azione) è positivo!

AGIRE, AGIRE, AGIRE! Tutte le espressioni Piovaniane vogliono esprimere il movimento,


l’azione, la logica dell’azione nel senso dell’agire nell’esistenza – l’incompiuto che non si compie
mai; l’uomo deve continuamente compiersi- (p.545)

Per ogni capitolo di Piovani ci sono una pars destruens, una costruens: abbiamo distrutto le visioni
singolaristiche, ora cominciamo a costruire l’obiettivo del capitolo, la coesistenza (Nome del
capitolo: COESISTENZIALITA’ DELL’ESISTENZA, Cap III pagina 535 formato digitale).

Coesistanzialità: neologismo funzionale a comprendere la necessità del movimento, l’urgenza del


movimento, la logica dell’azione; solo l’azione del demente è ferma.
Inizia la pars Costruens del discorso di Piovani (relativamente al cap. III)

Ogni Dasein è un Mit-Sein (un con-esserci)

Siamo a pagina 548.

L’esistenza è necessariamente co-esistenziale.

Non solo affrontiamo la co-esistenzialità, ma questa co-esistenzialità porta con sé, prevede, un
attività che è MORALE, etica!

Nascere qui o là, da questi genitori o da quelli, ha un’importanza fondamentale per innumerevoli
effetti.

Eppure, la mia posizione umana di volente non volutosi ha rilievo soprattutto in queste situazioni
originariamente involontarie in cui mi trovo, mi sono trovato.

Porto con me per tutta la vita elementi di me totalmente estranei alla mia deliberazione.

Posso recidere con taglio brusco molti di questi vincoli, ma non posso interamente liberarmene;
anzi, alcuni dei più condizionanti sono i meno sradicabili.

Ogni figlio (perfino il parricida; soprattutto, a suo modo, il parricida) reca con sé, finché viva,
qualcosa del padre. Le più rigide programmazioni eugeniche ugualitaristiche riescono a immaginare
di correggere, nel migliore dei casi, questo dato, non di annullarlo.

La pretesa unicistica è negata già nella costituzionale struttura del soggetto.

Solo a contatto con l’altro il soggetto può farsi individualità, persona; il fatto del coesistere, per
l’uomo, diviene il dovere del coesistere. Perciò la coesistenza ha in sé rilevanza morale.

Il soggetto ha il dovere di essere, di formarsi (studiosi che hanno interpretato il pensiero di Piovani).

A partire dai principi, e arrivando a Oggettivazione, queste tematiche ri-tornano in tutta la loro
compiutezza, completezza.

Alla fine del testo c’è anche il lavoro di Capograssi, utile a comprendere le fonti di Piovani; è
consigliato leggere il testo (lavorare sul testo) per comprendere il pensiero di Piovani.

Pagina 489, sulla coesistenza;


Ora parliamo del Mitsein, del mio esistere-con e della sua relazione con l’ambiente; l’ambiente è lo
spazio psicologico dell’evoluzione di ciascuno; pagina 549.

Piovani è un conoscitore di tutti i nuovi momenti fondamentali perché anche il concetto di ambiente
come cultura si sviluppa intorno ai ’40-50 in Italia; è interessato alla Psicologia.

Una serie di studi di Psicologia permette a Piovani di capire che l’ambiente – culturale non sociale-
possa formare l’individuo, qui il chiaro riferimento a Cassirer e al concetto dell’Animale
Symbolicum.

È l’atto creativo del simbolo a costituire e a favorire la prima vera azione dell’uomo che sta
incamminandosi nel lungo viaggio verso la civilizzazione. «L’atto con cui l’uomo pone il simbolo è
un atto decisivo nella storia di lui perché è il primo atto degno del nome di azione: per la prima
volta il singolo si fa attivo perché rapportando la sua azione ad una misura, trasforma il discontinuo
agire, privo di senso, in una attività, unitaria pur nella diversità dei suoi momenti ed aspetti, e tutta
riducibile alla qualità di attività umana che, specificandola, la differenzia».

L'etica dunque va intesa, secondo Piovani come scienza storica, come scienza della storia in quanto
collaudo delle individualità libere; È in coerenza con l'intero itinerario del suo pensiero che assume
rilievo prima rio nell'ultimo Piovani, in Oggettivazione etica ed essenzialismo, il riconoscimento
della coesistenzialità, capace di giungere ad una finale affermazione di valore dei percorsi
dell'individualità all'interno di un rinnovato orizzonte universalistico-concreto. Un orizzonte che
renda manifesta la possibilità della conciliabilità tra una vita ben vissuta sul piano individuale e
l’affermazione della personalità umana nella dimensione della vita sociale, eticamente orientata al
rispetto dell’altro. La rivelazione della coesistenzialità consente che il pensiero di Piovani, se le
filosofie dell'esistenza possono anche incorrere in rinnovate «pretese ontologiche», si ponga come
filosofia degli esistenti, cosicché «la coesistenza non rappresenta un limite per l'individualità, ma un
suo potenziamento».

Proprio perché il mio esistere è esistere-con, sono sensibilissimo al mio ambiente di vita e alle sue
dimensioni e forme, specie se riguardino i momenti in cui io, tra quelle dimensioni e forme, mi sia
formato. L’ambiente è lo spazio psicologico dell’evoluzione di ciascuno.

Le più progredite correnti della psicologia, della pedagogia, della sociologia, della antropologia
hanno ragione di tendere a presentare l’ambiente non più in esclusivi termini di natura, ma anche in
termini di cultura, mostrando come l’uomo non abbia ambientazioni che non si muovano su uno
sfondo già umanamente modificato, essendo propria dell’uomo la trasformazione e l’innovazione
creativa dell’habitat: mutamento che, o rudimentale o raffinato, è per se medesimo,
antropologicamente, un fenomeno di cultura

Riprende una concezione della Gestalt3 – teoria olistica del tutto- che in quegli anni si affacciava in
Italia.

Vedi concezioni sistemico-relazionali / ambiente inteso dal p.v. olistico-sistemico: non lo


schizofrenico, ma la famiglia di schizofrenici.

Saggio sull’uomo di Cassirer: non animal rationale, ma Symbolicum, perché nel farsi si
oggettivizza attraverso i simboli.

Allorché Cassirer osserva che «invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe
definirlo come un animal symbolicum» tiene conto, in questa osservazione, non soltanto dei
principî della sua filosofia, ma anche dei progressi delle scienze umane, indicando inoltre, con la
sua proposta, quanto sia lontana la dottrina novecentesca del conoscere da quella di Aristotele.

La razionalità non appare più l’applicazione di un congegno logico naturalmente predisposto per
consentire il funzionamento del meccanismo del conoscere; è, invece, la funzione stessa nel suo
farsi: non essenza, ma attività. L’uomo è tale in quanto si umanizza. Il suo essere uomo è essere
capace di realizzarsi in un dato modo caratterizzante. Il simbolo, così, veramente simbolizza
l’attitudine mediatrice per cui l’uomo è sé medesimo in quanto oltrepassa l’immediatezza
trasformandola, trascendendola. Incapace di soggettività integrale, l’uomo si soggettivizza
oggettivandosi: superamento dell’intellettualismo attualizzante; questo è il passo che conduce alla
vita morale.

L’ultimo Cassirer, quello del saggio sull’uomo, studia il mito, simbolo di un determinato momento
dell’esistenza, il linguaggio è un’altra forma simbolica.

Noi arriviamo al simbolo e andiamo a capire che la dignità umana è calarsi in una condizione
sottospecifica; il simbolo cosa ci testimonia?

3
Il tutto è superiore alle singole parti, o meglio: La prospettiva olistica che permea l’approccio della Gestalt
è dovuta all’influenza esercitata sugli studi di Perls dal pensiero di Jan Smuts (1926) secondo cui ogni
esperienza “non coinvolge soltanto sensazioni e percezioni, ma anche concetti di carattere più complesso,
sentimenti e desideri relativi all’ obiettivo da raggiungere, e scelte rispetto all’azione pianificata; e tutti
questi elementi sono uniti e mescolati all’interno di un unico scopo, che è quindi inserito nell’azione o
esecuzione”
Ogni gruppo è un insieme di parti; la parte influisce sul tutto.
Quando noi attingiamo a questa dimensione simbolica siamo confermati nella centralità della
soggettività come soggettività attiva; non l’azione per l’azione!

Superiamo ogni forma di irrazionalismo. Perché il simbolo quale dimensione esprime? Quale
dimensione nel senso, che cosa il simbolo attesta?

Quando il soggetto è un soggetto che fa l’azione per l’azione, diventa una immediatezza che è la via
d’accesso all’irrazionalità; Piovani, nella sua concezione, vuole mettere in crisi ogni immediatezza,
irrazionalità, e dunque, attraverso l’azione simbolica, non agisce per agire, l’uomo, ma MEDIA,
incontra gli altri; questo è molto importante, è molto importante che si dia una condizione di VITA
MORALE, vita attiva nel senso forte, non l’azione per l’azione, ma l’azione per la VITA! Il
problema è che il polo attivo sia la vita, mediata dalla ragione che si scopre come ragione simbolica:
non l’azione per l’azione! Perciò entra in gioco il simbolo nella filosofia del ‘900.

Il Movimento: Oggetto – soggetto- Oggetto; Non voluto – soggettivazione- oggettivazione


dell’oggetto non voluto, dove?

Nella vita morale.

Il movimento dell’oggettivazione nasce da un'altra riproposizione del rapporto soggetto-oggetto.

La soggettivazione non si può porre in maniera chiusa, solipsistica; le posizioni solipsistiche


Piovani le ha teorizzate per mostrare che il soggetto moderno, all’altezza cartesiana, è un soggetto
che il ‘900 ripensa perché non è più né chiuso in sé stesso, né più il soggetto onirico, ma è il
soggetto APERTO!

Questa apertura presuppone un processo di oggettivazione, cioè il riconoscimento che la stessa


soggettività è un ente tra gli enti, appunto tra gli enti, non posto lì e chiuso in sé, ma è un ente il cui
significato e dunque valore etico nasce dall’oggettivazione, dall’essere insieme oggetto che, in
quanto si conosce come tale, è un soggetto che deriva da questo processo di oggettivazione; la
conoscenza del soggetto che matura attraverso l’azione è l’esito di una relazione; dunque si
modifica il rapporto soggetto-oggetto; non più il s. chiuso in sé, ma soggetto che si conosce
attraverso IL CON, la relazione, e questo processo, viene fuori anche da quei pensatori che hanno
portato alle estreme conseguenze le posizioni scettiche ( Si veda Levi, citato da Piovani).

Pure se si dà uno scetticismo, un solipsismo, questo s. rimanda al valore della coscienza; questo
rimando è una accentuazione della soggettività che non è soggetto moderno, chiuso, cartesiano, ma
è un soggetto attivo, che nasce addirittura “ dalle pulsioni sociali” che sono intuibili attraverso
finanche i riferimenti alla psicanalisi e a Freud; infondo questo soggetto è tanto più aperto alla
civilizzazione quanto più interiorizza la coercizione esterna, questo ci viene fuori dalle indagini
della psicanalisi di Freud, contributo fondamentale per la riflessione Piovaniana: c’è un gioco tra
interno, esterno, mondo interiore ed esteriore, e questo gioco è il gioco dell’esistenza, che non è
semplicemente apertura agli altri; l’esistenza è, nella sua stessa definizione, una Co-esistenza; non
c’è un esistente, e poi gli altri. L’esistente è già una relazione con gli altri.

C’è una soggettificazione dell’oggettività, c’è un oggettivazione dell’io che è essenziale all’io. La
soggettività non si può pensare senza un oggettivazione (ETICA).

Cos’è che rende una cosa oggettiva? Nasci oggetto, ti riconosci come soggetto (da solo non puoi
stare) ti sei riconosciuto come soggetto, e per farlo ti riconosci con gli altri, come?

Sul piano etico, con gli altri soggetti (anche da solo) COESISTENZA!

L’Io contemporaneo non si afferma come IO ASTRATTO; esso scopre i limiti del soggetto
moderno cartesiano, che rischia di essere e restare chiuso, perché non conosce / scopre il momento
dell’azione.

Questo io che è insieme soggetto e oggetto ha scoperto il mondo dell’azione, ma non dell’azione
per l’azione ma di un azione che conosce il limite, la mediazione: il simbolo, la cultura, la
interiorizzazione di questa mediazione attraverso la psicanalisi. Il soggetto contemporaneo ha
questa eccentricità, questa complicazione. Non prima il soggetto e poi l’oggetto, ma insieme
soggetto-oggetto.

L’unità concreta del soggetto contemporaneo esclude la divisione netta soggetto / oggetto.
PAGINE 553-554: Il soggetto contemporaneo.

Per essere soggetto attivo devo in qualche modo provare l’azione (Esser-CON altri); la coesistenza
è parte di una individualità - personalità aperta, non ne è la conseguenza.

L’etica dev’essere universalizzata, oggettivata, altrimenti non avrebbe nessun valore; in quanto non
parliamo di un etica personale, di un relativismo; il SIMBOLO diviene la prima forma di
universalizzazione di tutte le società, ma l’oggettivazione (terzo momento) è il momento
dell’oggettivazione etica; riconoscersi in un etica universale; dove la troviamo?

Nell’individuo!

Piovani cerca l’universale nell’individuo.

È l’atto creativo del simbolo a costituire e a favorire la prima vera azione dell’uomo che sta
incamminandosi nel lungo viaggio verso la civilizzazione.

«L’atto con cui l’uomo pone il simbolo è un atto decisivo nella storia di lui perché è il primo atto
degno del nome di azione: per la prima volta il singolo si fa attivo perché rapportando la sua azione
ad una misura, trasforma il discontinuo agire, privo di senso, in una attività, unitaria pur nella
diversità dei suoi momenti ed aspetti, e tutta riducibile alla qualità di attività umana che,
specificandola, la differenzia.

In sé e per sé, ipoteticamente considerata, la prima delle azioni umane è azione perché normativa e
normativizzante» siamo a pagina 54 del testo.

Le filosofie dell’esistenza possono avere pure qualche pretesa ontologica, la filosofia di Piovani –
dato che si compie nell’astoria- è una filosofia degli esistenti; non empirico puro!

L’universalità è scovata all’interno dell’individuo storico.

Fine III Capitolo: «La soggettività è ciò che è soltanto nell’intersoggettività».


«Anche se nel mio campo percettivo non c’è nessuno, esistono altri uomini reali, che noi
conosciamo, oppure che, in quanto costituiscono un orizzonte aperto, possiamo incontrare.

Io sono, di fatto, in un presente co-umano e nell’orizzonte aperto dell’umanità io mi sono di fatto in


legame generativo, nel flusso unitario della storicità»; questa, la conseguenza più radicale della
fenomenologia Husserliana riconoscendo l’influsso della storicità.

Lezione del 27/05

Abbiamo visto tutta la critica all’onirismo, al solipsismo, all’attivismo puro;

Convengo: Riferimento ad un testo citato da Piovani, critica ad un testo di Steiner relativamente al


Solipsismo che ci introduce questo capitolo, è rilevante, perché Piovani sostiene che non si può né
sostenere il solipsismo gnoseologico né quello etico.

Quando dico “Io sono solo” già sto operando (solipsismo gnoseologico; penso dunque esisto  già
è un dualismo) dal punto di vista sociale (Solipsismo sociale non può sussistere; per dire “Io sono
solo” vuol dire che io sono solo rispetto a qualcosa; passaggio a cosa? All’attivismo, azione per
l’azione. Io sono solo, mi trovo solo in questa società – non ne condivido i valori- devo fare
qualcosa, se devo fare qualcosa cado nell’attivismo (l’azione per l’azione)

Dopo che ha smontato solipsismo, onirismo e attivismo in sé (PURO, non etico e morale) non
l’azione per l’azione ma l’azione come azione, entra nella CO-ESISTENZA. Entrato nella co-
esistenza, il fatto di entrare nella co-esistenza è un dovere, io ho il dovere di co-esistere, ho fatto
una scelta esistenziale!

Già la co-esistenza avendo il sé il concetto del dovere è etica, è morale: Nella fedeltà alla decisone
di esistere, a questa accettazione vitale e alle sue implicazioni consiste per Piovani il
comportamento morale. A fondamento della morale e del diritto si rivela essere l’istanza alteristica.

La moralità fa del dovere del rispetto il criterio ordinatore dell’esistenza universale. Il diritto
risponde all’esigenza di affermare la possibilità della soggettività di realizzarsi come personalità di
fronte alla ricorrente tentazione singolaristica, di fronte alla minaccia dell’atteggiamento
prevaricatore (Passaggio dall’esistenzialismo alla filosofia morale: l’uomo viene gettato etc.
(Esistenzialismo) superamento esistenzialismo: IO CO-ESISTO, ma c’è qualcosa in più rispetto alla
visione esistenzialistica; io trasformo l’esistenza. Il dovere è un dovere dinamico. Io ri-conoscendo
la co-esistenza la modifico! L’uomo è un uomo che agisce.
Il fatto del coesistere diventa il dovere del coesistere. Il passaggio da questo fatto a questo dovere è
una trasformazione che è già una valutazione: la radice di ogni morale

Malgrado il riproporsi ostinato della tentazione solipsistica, «l'esistenza è necessariamente co-


esistenziale», perché l'esistente scopre nella sua stessa soggettività l'altro da sé: Anche qui in
consonanza con la tradizione esistenzialistica, Piovani afferma la strutturale coesistenzialità
dell'esistenza, scoprendone però tematicamente la rilevanza morale.

La risoluzione per l'alternativa esistenziale comporta la scelta del coesistere, perché solo a contatto
con l'altro, riconosciuto come altro, il soggetto, differenziandosi, può farsi individualità e persona
(siamo ancora con il termine persona qui, il concetto di istaurazione personalitaria è successiva).

Non si tratta però di un mero fatto, perché per l'uomo «il fatto del coesistere diventa il dovere del
coesistere».

Il riconoscimento della situazione la modifica; il soggetto la fa propria, l'assume come termine di


una scelta e di una decisione, come valore.

COESISTENZA-DOVERE DI CO-ESISTERE- FATTO DI CO-ESISTERE: I tre termini


interconnessi.

Solipsismo non esiste; devo co-esistere, solo co-esistendo mi riconosco come soggettività e
riconosco l’altro come altra soggettività, e mi ritrovo in una situazione morale, perché il
riconoscimento dell’altro è morale, ha in sé l’eticità (non è gnoseologico).

Così il dovere si presenta nel suo aspetto etico profondo: quale assunta consapevolezza di una
necessità. Se esisto non posso fare a meno di coesistere; ma, se assumo coscienza di questo mio
non-potere-fare-a-meno-di, modifico il fenomeno stesso che constato: più avanti vedremo la
filosofia della Gestalt.

In questa situazione della co-esistenza, e in questa concezione del dovere, Piovani mette in evidenza
un dovere che è etico: DISTACCO DA KANT!

Non il dovere per il dovere (per Kant il dovere è la parola sublime per eccellenza, l’etica di Kant è
l’etica del dovere, imperativo categorico: TU DEVI) ma poi lo recupera questo Kant.
In Piovani questo dovere ora non esiste (non è così).

Ora azione non si dà se non si stabilisce la relazione con ciò che è fuori dall’individuo, l’altro e gli
altri. Condizione, e non solo conseguenza dell’azione, è il rispetto degli altri.

Dice Piovani che “la necessità dell’alterizzazione dell’io è che gli altri mi sono necessari: come tali
devo (cioè non posso fare a meno di) rispettarli”; ecco, dunque, la prima forma dell’attività, il
dovere, ossia la moralità e l’eticità della mia azione che per essere deve essere voluta, con crescente
responsabilità e distesa razionalità. Il dovere è la trasfigurazione dell’essere (ricordiamo che la
filosofia di Piovani esalta non l’essere ma l’esistere).

Questo dover essere “non è l’opposto dell’essere, bensì (…) la consapevolezza dell’essere”

Il dovere già prevede la modificazione dell’azione, perché non si applica come un comando
dall’alto, dal di fuori o a-priori, ma è un dovere che si trasforma, che agisce; io non rimango fermo,
devo agire! Se io agisco modifico la situazione in cui mi trovo. Non è un dovere statico, passivo. Il
dovere è trasformazione e trasfigurazione dell’essere.

L’uomo non è quello che è ma quel che si fa.

Il soggetto deve coesistere per esistere perché l’individuo è un io che per essere deve scoprire il suo
tu (un altro io) che è la scoperta della “personalità”.

Il coesistente non è “semplicemente astante con la sua compresenza”, è “colui che possa stare come
me”.

Si tratta un rapporto dinamico (quello della co-esistenza) che prevede la trasformazione dell’essere;
superamento di una serie di filosofie, una trasfigurazione dell’essere.

Il primo dovere è la co-esistenza.

Già partiamo da una dualità (il solipsismo non può esistere)

Passo indietro: Io non mi sono voluto, mi scopro oggetto, mi ri-conosco come tale, mi soggettivo in
questo modo (fase soggettivazione) e per riconoscermi come soggetto mi rendo conto che non posso
riconoscermi come soggetto singolo, ma come soggetto co-esistente, con altri; questa co-esistenza è
una co-esistenza etica; perché?

Perché non è una coesistenza dal p.v. gnoseologico o razionale, è un riconoscimento etico, è un
fatto e diviene un DOVERE, un dovere morale, non un comando.
Piovani, riprendendo i suoi lontani interessi jaspersiani, si colloca sulla via del ripensamento
dell’esistenzialismo e del costruttivismo storicistico dell’individualità anti-solipsistica, centro della
sua riflessione della pratica.

“Nella vita, che è sempre ‘vita di relazione’, l’individualità si compie realizzando la personalità nel
superamento della singolarità, nell’accogliere e far sue le conseguenze che discendono
dall’impossibilità di pensare e di agire singolaristicamente. L’individualità che così voglia e sappia
fondarsi è, dunque, il contrario della singolarità particolaristica: la supera in quanto le si oppone: è il
suo vero opposto”.

In una frase della sua Autobiografia filosofica, Jaspers esprime un vissuto principio della sua etica
allorché scrive: «L’uomo non accede a sé stesso che attraverso gli altri uomini. Noi non diventiamo
noi stessi che nella misura in cui l’altro è sé stesso; non diventiamo liberi che nella misura in cui
l’altro è libero».

Dovere della co-esistenza: consapevolezza di stare in società, perché implica il riconoscimento


dell’altro.

Come l’uomo anche la società è un volente non-volutosi che ha poteri enormi, tranne che quello di
conoscersi nel suo radicale farsi; anche l’uomo non ha il potere di conoscersi pienamente, nell’atto
in cui si pone.

Dalla riflessione del “singolo uomo “senza pensare al singolarismo; apre a Piovani ora la situazione
sulla società:

Io non co-esisto perché mi è conveniente!

La necessità, convenienza di istituire un patto, un contratto (Giusnaturalismo)

Hobbes: senza contratto non ci sarebbe genere umano; ma anche con Rousseau: La necessità di
istituire un contratto, per necessità!

Ma la co-esistenza non è un fatto di necessità! Io non coesisto perché mi è conveniente.

La coesistenza è un fatto, che modifico prendendone atto; non è un patto.

L’uomo non la crea; la trova; vi si trova.

Distanza razionalismo di età moderna: Patto Hobbesiano; i soggetti che sono nel patto con Hobbes
sono individui che rischiano, se isolati, di morire per morte violenta; il patto lì interviene sulla base
di una antropologia specifica, i soggetti sono soggetti che si recano l’un l’altro la morte. La
premessa non può essere il riconoscimento di una individualità morale che si ri-conosce attraverso il
patto. Il patto non serve alla mia co-esistenza perché io devo co-esistere. La co-esistenza non è un
fatto di unione, ma è necessaria per sopravvivere.

“Non è necessario il patto” perché non lo implica proprio – il riconoscimento-

Quando dice che la società è anticipata da questo Co-esistere verrebbe a pensare a un altro modello,
un'altra forma di giusnaturalismo (che pure non gli sta bene) quella di Locke: La società è già nella
natura, non c’è bisogno del patto, ma le componenti di quella società naturale sono individui
empirici non morali! Anche il Giusnaturalismo di Locke, anche se intreccia la natura con la
questione individuale non sta bene a Piovani; qui parliamo di INDIVIDUO MORALE.

Qui la co-esistenza non è un fatto naturale, ecco perché Piovani rompe col Giusnaturalismo
(posizioni che presuppongono cornice naturalistica che viene meno per l’uomo
CONTEMPORANEO).

Piovani rifiuta Kant critica ragion pura, rifiuta il giusnaturalismo kantiano ma riprenderà comunque
Kant (recupero Kant-etico morale con riserva; la riserva è nel dovere solo per il dovere. Kant è
figlio di una madre pietista, ha una formazione pietista che si riversa nell’etica Kantiana. Pietismo:
aspetto più rigido dei protestanti; i Pietisti hanno il senso del dovere radicato. Per Kant il concetto
del dovere come comando ha in sé già un aspetto etico! La parola dovere per Kant ha già in sé un
forte senso etico. L’etica Kantiana è un etica del dovere; è stata tacciata come vuota, formale etc.
ma andiamo a vedere cos’è il dovere per Kant).

GIUSNATURALISMO: Crea stato razionale;

Il patto per i giusnaturalisti è un patto di necessità razionale, una co-esistenza verrebbe dopo il
patto.

I giusnaturalisti teorizzano uno stato razionale, ma la questione in Piovani è etica.

Noi siamo nella co-esistenza poi dopo possiamo fare tutti i patti che ci pare, ma noi siamo esserci,
esser-con, in situazione, già lo siamo!

Ritorna critica al giusnaturalismo: il massimo errore del giusnaturalismo è quello di aver


considerato il diritto positivo come espressione degli egoismi individuali e collettivi.

*diritti naturali (diventano positivi dopo il patto per riconoscenza dallo stato) *

Il giusnaturalismo è destinato al fallimento, perché appellandosi alla sola ratio, elude il problema
dell’esperienza giuridica e della società.
La co-esistenza Piovaniana è etica non è basata solo sulla ragione!

La co-esistenza nasce dall’esistenza, con essa; se l’una è l’altra non può non essere, il dovere di co-
esistere riconosce questo fatto, ma non lo crea! L’uomo deve co-esistere perché co-esiste, non
viceversa!

La co-esistenza non è un patto, è un fatto: l’uomo non la crea, vi si trova; chi voglia socialmente
unirsi, è già unito.

Critica obbligazionismo morale – contrattualismo su basi etiche: Io dice Piovani, non mi obbligo ad
esistere.

Anche se l’obbligazionismo morale prevede l’aspetto morale che interessa a Piovani, ma Piovani
non condivide proprio l’obbligo; l’obbligazione anche se su basi etiche porta con sé il concetto del
vincolo!

Devo coesistere, come non vuol dire che mi accordo per coesistere, non vuol dire nemmeno che mi
obbligo a coesistere. Fratello logico del contrattualismo sociale, l’obbligazionismo morale ne
riproduce difetti e contraddizioni, nel suo campo. Poco vale discutere, sulle tracce di Bentham e di
J. S. Mill, se esista o no un elemento comune che consenta di assimilare l’obbligo morale
all’obbligo giuridico. In ogni caso, l’obbligazione postula l’accettazione di un vincolo, a cui
l’obbligato si assoggetta con una dichiarazione esplicita o implicita che ha funzione di una
promessa di fare o non fare. In ogni caso, il concetto stesso di obbligo deriva da obligatio e risente
della importanza data al problema dal diritto romano: richiede precise sanzioni per gli inadempienti;
ma tale richiesta è inammissibile là dove manchi un sistematico circostante ordine di precetti con
relative, previste sanzioni. Tutta la vita morale è fatta più di implicazioni che di dichiarazioni: il
fatto della coesistenza in sé è tipicamente un’esperienza in cui l’esistente si trova invischiato,
qualunque sia la sua dichiarata volontà di obbligarsi.

Pagina 560 formato digitale.

L’uomo non può obbligarsi a coesistere, perché sta nella coesistenza già prima di assumere alcuna
obbligazione: se potesse obbligarsi, non sarebbe già obbligato. Invece, coesistendo, lo è. Senza
dubbio, ha ragione N. Hartmann nel sostenere che qualsiasi comportamento di ognuno verso l’altro
«è già una promessa e come tale viene avvertita»; ma, se è così, niente è più sottinteso di questo
tipo di promessa sottintesa, che può essere tutto, tranne una dichiarazione che regga
un’obbligazione a un determinato comportamento.

Torniamo alle critiche:


CONTRO IL GIUSNATURALISMO: tutto il contrattualismo sociale è roso da una difficoltà di
fondo: i contraenti, per essere, devono essere tali prima del loro convenire: eppure, possono
convenire solo se già coesistono.

Le varie forme di contrattualismo sociale, nonostante i loro meriti (che trovano la loro sintesi nel
tentativo di guardare il reciproco rispetto come risultato di un'attività individuale), nonostante
l'intelligenza di molte loro tesi, commettono lo sbaglio di voler sottoporre a condizione ciò che è
incondizionato, ed è condizionante la libertà del soggetto.

“Io devo rispettare la tua sfera della libertà ma non per un movimento etico, ma perché altrimenti
faccio un torto; è previsto che il rispetto venga vincolato a leggi”.

Invece il rispetto è in sé la co-esistenza.

Non devo rispettare perché ho paura, perché è un atto coercitivo etc.

Le innumerevoli specie di ipotesi contrattualistiche partono dal concetto che il mio rispetto degli
altri possa essere, appunto, oggetto di contrattazione, quasi che io possa o non possa accordarlo per
l'utilità altrui, quasi che gli altri (ognuno nella sua individualità) possano essere sé stessi senza
rispettare me. Invece la presenza dell'altro da me e degli altri da me è essenziale al soggetto: è
essenziale alla soggettività mia e altrui.

Il dovere di stare con gli altri non si risolve in un imperativismo; non è un TU DEVI.

Il Tu-Devi Kantiano alla fine è un “Io devo” non è una morale eteronoma, è autonoma; già questo è
un recupero dell’etica kantiana.

Inizia la riflessione sulla PERSONA

ISTAURAZIONE PERSONALITARIA: Ognuno sta con un altro in maniera diversa (non è come
stare con un albero o con una pietra).

Ogni persona che entra in un gruppo cambia le dinamiche del gruppo; ogni persona che sta con me
sta in maniera diversa (Ripresa GESTALT).

La co-esistenza è istaurazione personalitaria! Il rapporto co-esistenziale è personalitario!


Adesso Piovani smonta il concetto di persona per arrivare a quello di istaurazione personalitaria.

ITINERARIO (Pagine 564-570 fino alla ripresa di Kant)

Una storia / riflessione sui grandi nomi della filosofia che si sono occupati della persona

La persona: La storia del concetto di persona da Boezio a Kant, tra “ambiguità” e resistenze,
dimostra come i rischi di chiudersi nell’ordine naturale del destoricizzato e destoricizzante
personalismo non sussistono nel processo di formazione della persona capace di vincere quanto le si
oppone.

Noi dobbiamo capire come dalla persona si debba arrivare alla personalità, perché la persona (nelle
considerazioni) scade nel personalismo (cosa che dobbiamo evitare) perciò parliamo di personalità.

Complesso e moralmente impegnativo è il processo di formazione della personalità, che per


Piovani, fine conoscitore delle teorie psicologiche delle personalità, non ammette alcun fondamento
in una «ontologia della persona» ed è perciò un processo empirico e storico, aperto a tutte le
modificazioni richieste dal suo compiersi in situazioni concrete varie e mutevoli, e sempre esposto
al rischio di indietreggiare o di interrompersi.

Con la «psicologia del divenire» di Gordon W. Allport, Piovani condivide la convinzione che «nel
formarsi l'uomo cerca di diventare “qualcosa di più di una riproduzione stereotipa della specie”»,
così come della pretesa esemplificazione di «qualità razionali universalmente stabilite
nell’inserimento dentro l'ordine metafisico».

Grazie ad Allport (Padre psicologia della personalità) Piovani corregge anche Allport; Piovani esce
dalle forme ontologiche del concetto di persona, si fa aiutare dalla psicologia (Allport) e supera
Allport; Allport parla di personalità, Piovani di Personalitaria, di istaurazione personalitaria.

Non basta affrontare il problema della personalità (altrimenti ri-proporrebbe la sua psicologia)

VICO, pagina 564: Giambattista Vico, nella Scienza nuova, in una delle sue fantasiose etimologie,
pretende di far derivare persona da un presunto personari, «vestir pelli di fiere», foggia lecita, in età
primitive, solo a eroi coperti, visibilmente, materialmente, di gloria venatoria, dunque, così, per
questi inusitati indumenti, personali, mascherati sotto il simbolo capace di segnare, attraverso la
foggia di un uomo, in seguito, tutta una famiglia o un gruppo.
Il concetto di maschera che risale a Vico e viene ripreso da Nietzsche “tutto ciò che è profondo ama
la maschera”.

Piovani sta ri-percorrendo l’evoluzione del termine persona (a partire dalla maschera).

Vediamo:

Che la persona appaia le prime volte in veste di mascheramento sembrerebbe dar letteralmente
ragione a Nietzsche: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera». Quasi simbolicamente, il
personale si disvela storicamente nel «personatus». Alla ricerca del profondo, mai disvelamento,
nella sua genesi, apparve più coperto: il tema davvero si presterebbe a variazioni sia in chiave
vichiana sia in chiave nietzschiana, in un alternarsi di letteralità e di metafora. Ma, in questa sede,
assai più dimessamente, il semplice ricordo di un’origine vuole soltanto mettere in evidenza
l’opportunità di cogliere le prime esperienze morali della persona nell’ambiente latino. È vero che,
in generale, ogni precedente dell’autonomia della personalità va cercato in Grecia, o che si debba o
che non si debba risalire, per l’etimo di persona a ; ma, senza voler rivangare famose discussioni sui
carattere dell’etica greca, bisogna, anche in particolare, tener conto di specifiche nomenclature
romane, questa volta davvero giuridiche (sempre Vico avverte: «Persona iuris vocabulum est») per
individuare i momenti del trasfigurarsi della persona da maschera a facies, a fisionomia morale e
psicologica caratterizzante una soggettività umana giudicata destinataria di diritti.

Tommaso d’Aquino nella Summa theologica preferisce rifarsi all’indicazione proveniente da


Boezio, consacrata dalla successione di consensi sostanziali, con una accettazione che è riduzione:
«Omne individuum rationalis naturae dicitur persona». L’accorta semplificazione (riduzione) di
Tommaso è una accettazione apparente che cela una serie di modificazioni reali del concetto, il
quale, terminologicamente chiarito fino all’estremo, è, però, subito utilizzato per l’inserimento
dentro una cosmologia gerarchica grandiosa, globale. Come non mai, la persona, nel pensiero
tomistico, è incapsulata in un ordine universale indissolubilmente fisico e metafisico: «Persona
significat id quod est perfectissimum in tota natura»

Tommaso la inserisce in una gerarchia cosmologica (ordine fisico e metafisico) che fa capo a Dio;
Piovani deve de-ontologizzare il concetto di persona per arrivare a quello di istaurazione
personalitaria, non può accettare questa definizione!

così, la persona non è più un arduo problema da meditare, ma una chiara soluzione da commentare:
è solo l’apprezzabile grado di uno sviluppo cosmico che teleologicamente attesta la bontà di Dio
distribuita nel creato. Da questo momento il destino speculativo della persona è segnato; la sua
autonomia è perduta: per salvarla, il concetto non potrà che lavorare a rompere l’armonia
cosmologica in cui si trova grandiosamente rinchiuso. Da questo momento la diffidenza filosofica
verso la nozione di persona è giustificata. L’umanesimo si occupa di de-costruire le concezioni
della scolastica; “come galileo ha ridisegnato le menti degli uomini” dice Koyré su Galilei, che ha
ridisegnato il cosmo scolastico, chiuso.

Piovani fa una cosa del genere dal punto di vista della persona!

L’uomo dal De Homine dignitate riprende la sua libertà; ritorna il concetto di dignità della persona!
Piovani fa un salto e giunge all’Illuminismo (Kant).

La stessa apologia rinascimentale della dignitas hominis, più che dar luogo a una rielaborazione
teoretica del problema filosofico della struttura e del valore della persona, prepara e stimola un
interessamento nuovo per tutto quanto compete all’uomo e al cittadino come tali. Ad essi
prevalentemente si rivolge l’illuminismo nelle sue manifestazioni più caratteristiche, sebbene non
manchino in documenti molto rappresentativi della cultura illuministica accenni precisi alla
persona, valutata in termini sia tradizionali sia appassionatamente rinnovati (non per niente, in una
delle pagine più famose del nostro Beccaria è scritto: «Non v’è libertà ogni qual volta le leggi
permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi d’essere persona e diventi cosa»). Nel complesso, se
da un lato è l’uomo come cittadino che si pone quale protagonista del discorso, da un altro lato la
ripresa filosofica del concetto di persona, ogni volta che è tentata, è frenata dal ricordo delle
distinzioni della Seconda Scolastica, fattesi tanto sottili da risultare speculativamente fragili; quindi,
sfornite della vigorosa duttilità di quelle di Tommaso.

Arriviamo a Kant

In fondo, in età moderna, in un solo classico il grande tema filosofico della persona è davvero
ripreso con adeguata risonanza: in Kant. Ma proprio a Kant tocca, involontariamente, di mettere in
evidenza i limiti insuperabili di una impostazione. Pur nella diversità, ovviamente radicale, delle
posizioni, Kant e Tommaso, di fronte alla persona, hanno in comune l’intenzione di considerarla
soltanto nella sua compiutezza razionale; Critica al Kant della critica ragion pura, al Kant che vede
la persona dal punto di vista della compiutezza razionale / Recupero Kant dell’etica, della
metafisica.
In Tommaso essa rappresenta il culmine di perfezione di ciò che nella natura possa essere perfetto:
così l’apporto dato alla elaborazione del concetto dalla esemplarità del Dio sofferente nell’umanità
è singolarmente accantonato. In Kant essa è, per eccellenza, l’organo della ragione (Nel Kant della
ragion PURA).

In Kant la persona coincide con l’essere razionale, in Piovani la ragion d’essere della persona è nel
suo faticoso farsi, non nella cristallizzazione di un soggetto razionale, una persona che diviene in
qualche modo “mezzo per attuare la conoscenza”.

Mi va bene riconoscere il Kant etico – RAGION PRATICA- ma stiamo attenti che il Kant della
critica della ragion pura considera la persona come strumento della ragione (DIFFIDENZA)

Rinuncio all’IO PENSO (aspetto statico) kantiano, perché è passivo, non agisce; ma anche tutte le
filosofie esistenzialistiche, del ‘900 non riescono a uscire da questa visione ontologica e metafisica
della persona!

La persona della critica della ragion pura è mezzo, strumento, non è persona.

Piovani critica esistenzialismo: Ontologizzante. L’esistenzialismo sostituisce l’assoluto con il Nulla


(vedi Heidegger) andando a entificare il nulla.

«L’uomo considerato come persona, vale a dire come soggetto di una ragione moralmente pratica, è
elevato al di sopra di ogni prezzo, perché come tale (homo noumenon) egli deve essere riguardato
non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno i suoi propri, ma come un fine in
sé». Questo fine in sé, in quanto attuarsi della volontà buona, compimento dell’universalità,
soggettivarsi della razionalità, è, tuttavia, pur con strumentalità nobilissima (perché la persona è fine
a sé) il mezzo della ragione (resta comunque mezzo, è de-umanizzata, non ha contatto con l’uomo
fenomeno).

Teleologismo critica ragion pratica.

Anche nei confronti del Kant della critica della ragion pratica (alla quale non rinuncia) Piovani è
critico!

La persona di Kant è l’uomo come ragione: la sua umanità e la sua razionalità. In codesta
elevazione ammirevole, la persona esiste solo in quanto elevata all’umanità razionalizzata.

Altre critiche: Max Scheler da pagina 571 in poi.


Torniamo a Kant (Fondazione della metafisica dei costumi)

È nella fondazione della metafisica dei costumi che il primato della ragion pratica incontra un
principio d’azione; è un testo rilevante.

La tormentata elaborazione delle formule dell’imperativo categorico, dichiarata da Kant nella


Fondazione della metafisica dei costumi, potrebbe essere anche interpretata come una specie di lotta
per l’egemonia teoretica tra ragione e azione ( perché ci sono le formule) «Agisci in modo che la tua
volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale» è formula che
controlla sì l’azione legandola alla necessaria invenzione di una legge possibile e distinguendola dal
capriccio e dall’arbitrio; però muove dall’azione considerata nella sua decisione personale, che deve
lavorare a farsi razionale; non è semplice emanazione di razionalità, mero organo della ragione.

Così, la persona si vede restituita la possibilità di ritrovare la propria individua personalità.

La parola fondamentale è AZIONE!

La lotta egemonica tra ragione e azione è presente; l’azione è intrisa di finalismo (voler realizzare
attraverso la persona l’universalismo) ma è presente l’azione che nella metafisica dei costumi non
c’è!

Piovani supera Kant, ma nella fondazione trova equilibrio tra l’aspetto universalistico della persona
(aspetto gnoseologico Kantiano, metafisica costumi) perché individua il concetto dell’azione –
sempre subordinata al raggiungimento dell’universalismo. In Piovani l’azione dipende dalla norma
e dalla presenza metafisica dell’uomo (universale all’interno dell’individuale, ma l’universale non è
ontologico e metafisico) Piovani non rinuncia all’universalità, ma ci sono delle differenze. In Kant
abbiamo un uomo noumenico, l’uomo fenomenico deve congiungersi ad esso, realizzare l’uomo
noumenico; dunque, anche l’azione è per l’uomo noumenico che in Piovani manca, perché l’uomo è
etico, morale, dove nella stessa eticità si realizza l’universalità.

La ragione (in Tommaso è naturale, garantita dalla natura di Dio) qui la garanzia è l’azione, il fatto
che sia – la persona – dinamicamente un farsi, perciò c’è questa “Competizione”.

La norma è l’azione!

La metafisica dei costumi è un opera che vive di questo dinamismo (che Piovani ricerca).

La metafisica dei costumi è pubblicata nel 1786 anno in cui Kant lavora agli scritti di filosofia della
storia, e prima della pubblicazione della critica della ragion pratica (’88). Questo la dice lunga
sull’operazione di divenire del rapporto ragione-azione, poi, naturalmente il problema della ragion
pratica è diversa, per cui il rapporto ragione-azione / norma-azione si “risolve” a vantaggio della
legge dominante, e in quel Kant (ragion pratica) per Piovani si chiude questa “competizione”
Norma-azione a vantaggio dell’imperativo categorico, ma questo vale per l’HUMANITAS, non per
questa o quella azione! Il valore della personalità va in direzione dell’universale, perciò il discorso
di Kant è complesso:

Dinamismo legge-azione: metafisica costumi.

Esigenza (nel Kant della critica ragion pratica) di polarizzare la persona attorno alla dimensione
dell’imperativo categorico.

INSISTERE SULLA PERSONALITA’ E DIFFIDARE DELLA NOZIONE DI PERSONA

La ragion d’essere della persona è nel suo faticoso farsi.

Se non può cogliersi in questo farsi, il suo intimo essere personale è superfluo; l’autentico essere
della persona va cercato nel farsi che è la formazione della personalità.

Al centro del mondo morale, quindi, per Piovani, piuttosto che la persona, va posta la personalità,
che non è unità, ma unificazione, «energia» volta a «tenere insieme», a «equilibrare» i diversi moti
e stati psichici e i diversi aspetti dell’esperienza.

Il concetto di personalità – osserva Piovani – «si presenta non in termini di metafisica, ma in


termini di psicologia».

In Kant «la persona […] coincide con l’essere razionale», è compiuta assoluta, «manifestazione
[…] della volontà buona», e perciò più che essere fine in sé, sembra essere mezzo della
realizzazione della ragione.

Malgrado il perentorio riconoscimento che Piovani fa della irrinunciabilità del criticismo e del
«primato della ragion pratica» per la riflessione moderna sull’etica, si conferma anche nel confronto
con il pensiero di Kant «la diffidenza verso la persona», che «è diffidenza verso la persona come
“strumento della ragione” per usare un’espressione kantiana di Fichte».

Più in generale, è diffidenza verso un concetto di persona coincidente con un’essenza statica.

Neppure le filosofie contemporanee più sensibili a una concezione dinamica e individuale -


esistenziale- sono riuscite secondo Piovani a sfuggire alla inclinazione ontologico-metafisica e
statica che la tradizione ha imposto al termine persona.
Tutto sommato, la kantiana persona come fine, intangibilmente garantita nella sua incontaminabile
dignità morale, è tuttavia il mezzo della ragione realizzantesi.

In questo motivo più o meno esplicitamente ontologistico va cercato il vizio d’origine di ogni
tentata filosofia della persona, da Tommaso a Kant.

La diffidenza di Piovani verso il termine persona deriva appunto dall’irrigidimento che il processo
del farsi persona, dell’«instaurazione personalitaria», ha sperimentato, a suo avviso, nella
concezione della persona sia nella tradizione tomistica, sia in quella kantiana, perdendo il carattere
di «mobile punto d’incontro» che essa poteva ancora avere «dentro le riflessioni teologiche e
filosofiche pre-tomistiche». In Tommaso «l’inquietante concetto [di persona], collegante, attraverso
le discussioni cristologiche e trinitarie, l’umano e il divino, viene sistemato dentro una cornice
aristotelico-stoica», sicché la persona viene «incapsulata in un ordine universale indissolubilmente
fisico e metafisico». In Kant «la persona […] coincide con l’essere razionale», è compiuta.

Specialmente dagli anni intorno al 1936, a cui risale il cosiddetto Manifesto personalista di
Emanuele Mounier, la concezione della persona è stata contrapposta con accentuata polemica a
quella di individuo.

Su questo sfondo, la persona da Maritain è prospettata quale «spiritualità dell’uomo», da Marcel


quale «partecipazione al mistero ontologico», da Mounier quale «inserimento comunitario e
cosmico».

Anche quando nasce il termine della personalità e viene affrontato il concetto di persona,
rispettivamente gli autori non hanno concentrato la loro attenzione sul formarsi della persona,
inserendola in un’atmosfera spiritualistica, non-etica!

In questo senso Piovani sviluppa la sua critica non solo alla filosofia della persona del
“personalismo” di impostazione cristiana e spiritualistica, di Maritain e Mounier, o di Marcel e
Lavelle, ma anche, con diverse motivazioni, alla filosofia della persona di impostazione
fenomenologica, come nel caso delle riflessioni husserliane sulla persona, dell’etica materiale dei
valori di Max Scheler e dell’etica di N. Hartmann.

La conclusione delle argomentazioni critiche dedicate a Scheler e Hartmann è fin troppo netta e
conduce a una rivalutazione del formalismo kantiano: «La critica acuta alla depersonalizzazione
kantiana diventa qui pressoché incomprensibile […].

L’unicità spirituale della persona di Scheler, nei confronti della esistenzialità delle persone umane
individuali, è astrazione spersonalizzante e ipostatizzante ben più della razionalità kantiana (è
ancora peggio della razionalità Kantiana, laddove c’è uno spiraglio all’azione, che qua manca) che
[…] lascia intravedere almeno una via aperta all’azione personale».

Chi aiuterà Piovani a trovare una soluzione?

Come Piovani afferma ancor più chiaramente in Oggettivazione etica e assenzialismo, la riflessione
contemporanea, proprio in quanto rivolta alla individualità e alla storicità dell’esistenza, non può
prescindere dal valore del «formalismo etico» che solo è in grado di garantire l’effettiva libertà e
mobilità delle azioni e delle oggettivazioni.

Rifacendosi alle critiche avanzate al personalismo / concezioni della persona più negative rispetto a
quelle Kantiana (concezioni della persona ipostatizzate) Piovani recupera Kant ei l formalismo
kantiano.

Cosa? il concetto della norma, di cui già aveva avuto sentore negli scritti precedenti.

Il concetto della norma Kantiana è un recupero (se la leggiamo legata all’azione)

Recupero formalismo come norma, a dispetto di queste nuove filosofie.

Chi aiuterà Piovani nella costruzione del concetto di Istaurazione personalitaria?

A leggere contributi come, per esempio, la Teoria dinamica della personalità di Kurt Lewin o i libri
dedicati da Gordon W. Allport ai fondamenti di una psicologia della personalità (tra cui, per il
filosofo, emerge quello intitolato sintomaticamente Becoming, Divenire) si avverte come, nella più
evoluta letteratura psicologica, la discrezione dello scienziato sia il segno di una raggiunta
sensibilità conoscitiva e metodologica matura.

Di fatti, la psicologia, malgrado le pur ricorrenti generalizzazioni e tipologizzazioni, si mantiene


molto più prossima alla concretezza dell’esistente di quanto non abbia fatto o faccia la riflessione
filosofica. Perciò nella determinazione del concetto di personalità egli dimostra una grande
attenzione per il contributo che la psicologia può dare e di fatto ha dato ad una filosofia della morale
che voglia muoversi nell’orizzonte dell’analisi esistenziale.

Di qui, in queste pagine dedicate alla personalità, i riferimenti significativi, a Koffka e la psicologia
della Gestalt, a Jung, a Freud, ad Alfred Adler, e soprattutto a Gordon W. Allport, il cui studio sui
“Fondamenti di una psicologia della personalità”, Becoming (Divenire), gli offre più di un
suggerimento decisivo per la concezione della personalità Oggettivazione etica e Assenzialismo.

Il testo di Allport era tutto annotato da Piovani; lui lo “cita” ma è stato un grande studioso di
Allport, per cercare di trovare gli strumenti che gli consentissero di fondare la sua instaurazione
personalitaria.

Riflessioni su Allport “rilevanti” da pagina 490 in poi.

Freud Jung e Allport sono le tre grandi personalità della psicologia contemporanea.

La personalità si espande creando intorno a sé – nell'incontro con gli altri – «una serie di legami che
la oggettivizzano [...], stabilendo forme di connessione, foggiando strutture».

Si formano così «abiti e costumi», si forma una rete di relazioni oggettivate che sono la dimensione
del sociale, delle istituzioni, del diritto, l'ethos come «banco di prova non per l'essere originario che
arcanamente si disveli, ma per l'esistere che concretamente si rivela nel suo divenire», come luogo
della «valorizzazione» di ogni valore, Oggettivazione etica e Assenzialismo.

L’elemento decisivo per la comprensione della persona come personalità è il riconoscimento del
carattere dinamico della persona. Il suo «tratto veramente essenziale» è la «dinamicità»: è «un
personalizzarsi», una «complessa instaurazione, che reagisce alle ambientali esperienze circostanti
rendendosi conto di quelle esperienze […] accogliendole e modificandole» in una storia di vita che
ha il suo criterio, la sua regola, nell' «accettazione vitale», cioè nell'essersi accettato e nel continuare
ad accettarsi del soggetto come esistente e coesistente.

La personalità - scrive Piovani in Oggettivazione etica e assenzialismo - «non è un ente, bensì un


dinamico sistema di equilibri».

Ed è per questo dinamismo, per questa capacità della personalità di modificarsi e riconoscersi nelle
modificazioni, che «il personalitarismo mette al bando il personalismo» “Oggettivazione etica e
Assenzialismo”.

Nella prospettiva dello «storicismo esistenziale» l’individuo empirico non è il singolo privo di
relazioni, chiuso nella sua immediata e insignificante singolarità, ma è l’esistente che da sé stesso,
per la sua stessa originaria accettazione dell’esistenza, si apre alla relazione con l’altro, alla
mediazione del proprio immediato esserci.
È in Oggettivazione etica che Piovani dirà che la personalità trova attorno a sé legami, stabilisce
forme di connessioni, forgia strutture che la oggettivizzano (universalizzano).

Leggiamo:

Piovani in Oggettivazione etica e assenzialismo scrive– «non è un ente, bensì un dinamico sistema
di equilibri».

Ed è per questo dinamismo, per questa capacità della personalità di modificarsi e riconoscersi nelle
modificazioni, che «il personalitarismo mette al bando il personalismo». La personalità si espande
creando intorno a sé – nell’incontro con gli altri – «una serie di legami che la oggettivizzano (…),
stabilendo forme di connessione, foggiando strutture».

Si formano così «abiti e costumi», si forma una rete di relazioni oggettivate che sono la dimensione
del sociale, delle istituzioni, del diritto, l’ethos come «banco di prova non per l’essere originario che
arcanamente si disveli, ma per l’esistere che concretamente si rivela nel suo divenire», come luogo
della «valorizzazione» di ogni valore.

Soffermiamoci su questo: La personalità si espande!

Non il conoscere sé per riscattare la verità, ma c’è di più: la dimensione dell’organizzazione. Il


conoscere non è la riproduzione dell’oggetto.

L’io si conosce organizzando sé nel rapporto con gli altri: evoluzione concetto “conosco me stesso”
non mi conosco solo più come soggetto dato che non si è voluto. Qui il conoscere diviene non
“riflettere il dato” ma organizzare il dato, il mio io sulla base delle relazioni-con altri. Il mio io ora è
REALMENTE un CO-ESISTERE! Il mio io non si apre alla co-esistenza ma è radicalmente co-
esistente.

Siamo nel pieno dello Storicismo esistenziale di Piovani in Oggettivazione etica e assenzialismo.

La personalità, comune a me e all’altro uomo, stabilisce tra noi un rapporto coesistenziale che
contiene un vincolo di comunione. Non si tratta di volerlo o no, di contrattarlo come più o meno
utile: è un nesso che trovo connesso all’esistere appena io mi metta a considerare che cosa sia
richiesto dal mio coesistere. Qualunque cosa possa pensarne, comunque possa giudicarla, è una
realtà radicata nella stessa coesistenzialità dell’esistere. Proiettato nell’esistenza, rimastoci con la
mia accettazione vitale, vedo allargare intorno a me, con i miei rapporti di vita, le necessità di
riconoscimenti a cui sono tenuto. Sono, appunto, tenuto ad essi se la vita mi tiene. Lo stare di
ognuno nell’esistenza dilata il vivere: in contrasto con questa dilatazione coerente, la restrizione
sarebbe contraddizione. L’esistenza è il contrario della resistenza particolaristica alle implicazioni
che il vivere comporta. Fine capitolo IV

In Oggettivazione etica e assenzialismo Piovani riesce a concludere il suo percorso (dove l’esistere
concreto si rivela nel suo divenire).

Lezione del 30/05

Oggi ci dedichiamo ancora al penultimo capitolo, il V (584) Espansione e prevaricazione ella lettura
dell’introduzione Oggettivazione etica e assenzialismo (Pagina 658 formato digitale)
Nei principi non c’è mai il concetto della morte, intesa come fase dell’esistente, che invece è
presente in Oggettivazione.

Diapositiva 1: Espansione e Prevaricazione; c’è anche la figura della morte nel quadro.

Abbiamo II capitoli. Non c’è materiale di commento per quanto riguarda l’ultimo capitolo.

La visione dinamica della personalità toglie di mezzo la possibilità di una ontologia della persona;
la persona non è che nel personalizzarsi del soggetto. Esso è, in quanto si forma; espandersi è la sua
vocazione.

Siamo nel campo della filosofia morale, è finita ogni forma di ogni ontologia della persona, l’ha de-
ontologizzata, dunque storicizzata: ci si espande nella storia.

Per realizzarsi la persona deve espandersi, e può farlo in maniera infinita.

La sua stasi è morte! Lo abbiamo visto nei riferimenti a Binswanger: nelle forme di patologia e con
la morte finisce il processo di espansione della personalità.

Allport: gli approfondimenti di queste forme di psicologia hanno permesso a Piovani di


abbandonare gli aspetti ontologici e filosofici, e di abbracciare Grazie a Dilthey, ad Allport ecc., e
fondare una filosofia della persona libera da ogni forma di ontologia.

Non ci si potrà più rifare alla storia della filosofia ma ai riferimenti psicologici; Allport è padre
della psicologia della personalità.

Psicologia del divenire di Allport: nel formarsi l’uomo cerca di divenire qualcosa di più di una
ripetizione stereotipata della specie; la formazione della persona avviene nell’espansione,
l’espansione accade nella co-esistenza – l’uomo è Mit-Sein, e attraverso la psicologia del divenire;
noi parleremo di una sorta di “ morale della tensionalità; la tensione è ciò che ci spinge, una sorta di
tensione in continuo divenire, farsi, sempre rifacendosi all’inattuale Nietzschiana, per la quale
l’uomo è un incompiuto che non si compie mai, cerca di superarsi”.

L’atteggiamento morale è filantropico, letteralmente esclude l’avversione a ogni uomo come uomo,
perché rimane potenzialmente aperto.

La filantropia: non parliamo di una filantropia come un andare a inneggiare le capacità dell’uomo,
è una filantropia basata sul concetto di rispetto; non vuole inneggiare l’essere umano come le
vecchie scuole filantropiche, ma vuole andare a sostenere il rispetto reciproco; si parla di
espansione che non prevede preclusione; dal punto di vista pratico è normale lo scontro ( come
Piovani dice in Filosofia del diritto) il superare determinati limiti, però alla base di tutto, la morale è
filantropica perché permette un’apertura che non prevede assolutamente chiusura, perché la
chiusura porterebbe a quel singolarismo solipsistico che non è la categoria del singolo
Kierkegaardiana; categoria singolo Kierkegaard: Singolare sa di non poter essere il singolo di
Kierkegaard, la Kierkegaardiana Categoria del singolo riconosce di essere un contenuto etico,
implica una possibilità universale accessibile a tutti; diviene singolo l’uomo che sa accogliere e
cercare la solitudine, una solitudine tutt’altro che solipsistica perché aspira a trovarsi di fronte a
Dio, e si realizza in questa aspirazione, che attraverso l’angoscia supera l’angoscia.

Resta la critica al solipsistico, gnoseologico ed etico, ma c’è la ripresa alla categoria di Kierkegaard,
quella del singolo ma non singolare, l’uomo non resta chiuso nel suo microcosmo: non può esserci
un solipsista, così come non è accettato eticamente un singolo chiuso in una categoria ristretta.

La filosofia del singolo (in Kierkegaard) si definisce nella possibilità e nella scelta, una scelta
radicale e libera. Vediamo quanto Piovani riprende da questa categoria; TEMA DELLA SCELTA,
presente in Piovani.

Nella scelta il singolo mette in gioco la sua intera esistenza, con la scelta egli si determina come
SOGGETTIVITA’.

Ripresa Piovaniana: differenza è che il singolo di Kierkegaard è il singolo davanti a Dio; la scelta è
scelta di una vita teologica (Timore e Tremore; il singolo e Dio sono in rapporto con l’esclusione
degli altri).

Piovani riprende Kierkegaard ma lo ri-visita.

Kierkegaard, nella descrizione dell’angoscia di Abramo, che per tre giorni deve stare in silenzio,
non può esprimersi, si percepisce nel testo (Timore e Tremore) lo stato d’angoscia di Abramo!

Differenza con Agamennone: può giustificare, può dire perché deve sacrificare la figlia Efigenia.

Lui può essere compreso, Abramo no, ma Abramo sa che deve andare.

Fino a quando, poi, Abramo supera l’angoscia (Salto ballerino della fede) e si rende conto che
qualcosa accadrà, lui si abbandona alla fede. Distacco con Piovani: se ci rifacciamo alla categoria
del singolo, Piovani la recupera! Ma il singolo di Kierkegaard fa un salto nella fede, che non può
essere concetto universalistico di una norma universalistica Piovaniana.

Inoltre, con Kierkegaard abbiamo la grande scissione tra la fede e la morale!


Il senso della scelta, dell’angoscia (Kierkegaard precursore esistenzialismo) li ritroviamo in
Piovani, quando l’individuo si rende conto di essere un volente non volutosi.

In sede psicopatologica: il rifiuto, nel momento in cui non scelgo, quando rimango fermo, o mi
trovo di fronte alla morte, o cedo alle lusinghe di Thanatos, scelgo di non scegliere, non compiere il
salto.

Quando scelgo, compio un atto responsabile; l’espansione è accettazione di responsabilità, che porta
l’azione ad essere MEDIABILE. L’azione è MEDIABILE. Qualunque azione che valga a
espandersi nell’ambiente circostante, a svilupparsi, non è un semplice atto, è qualcosa di più! Se
vuole cercare di perseguire uno scopo – non immediato- deve essere MEDIABILE; L’agire privo di
un riferimento è rescritto al campo dell’immediatezza.

L’azione non deve essere immediata, come abbiamo visto: concetto di AZIONE PER L’AZIONE
(IMMEDIATA).

L’uomo è un animale imperfetto, gli manca l’immediatezza, è un anymal symbolicum perché ha


bisogno di mediare; dunque, possiamo già parlare di una morale umanologica, termine che usa
Piovani per definire la sua morale. Il soggetto Piovaniano ha come suo requisito di caratterizzazione
il facere, il suo essere pensante, esplicativo, nel suo essere agente e non viceversa. Non un essere
che pensa e basta, ma il pensiero è l’azione come Facere, come il compiersi nell’espansione
personalitaria: caratteristiche del soggetto Piovaniano; ecco giustificato il rifarsi a Vico, la filosofia
Vichiana, del fare, della capacità dell’uomo di fare, cre-arsi, che poi ha le sue origini
nell’umanesimo Pichiano (Pico).

L’uomo è uomo che si crea, discorso Pichiano (De dignitate) ereditato da Vico in chiave
storicistica, e da Piovani, passando attraverso lo storicismo e l’esistenzialismo – aspetti angoscia,
morte, assenti in Vico; lui passa per Heidegger e lo supera, calandosi in uno storicismo di tipo
esistenzialistico fondando la morale UMANOLOGICA).

Perrucci – Vico / Capograssi- Piovani: L’esistente non si riconosce né esaurisce in un potere


intellettuale capace di estendere le sue conoscenze in un progressivo allargamento della verità
ottenuta. La verità è il prodotto dell’attività inventiva dell’uomo, uomo che si crea, che si fa.

Alla base di tutto deve esserci il RISPETTO, parola totalmente diversa dalla tolleranza
(concessione; v. Agostino) il rispetto è rispettare da AMBO le parti.

Che passaggio nella maturità di Piovani stiamo affrontando?


Quello in cui Piovani entra a gambe e braccia nello storicismo, salutando la filosofia del
comprendere. Non c’è altro modo d’intendere l’esistenza se non come inquietudine, tensione
inesauribile. È una filosofia della tensione, è una morale storicista che Piovani condivide in pieno.

Studi su Dilthey e storicismo tedesco: lo hanno convertito, aiutato nella creazione di questa morale
UMANOLOGICA.

Nei momenti più decisivi che P. opera con storicismo ed esistenzialismo matura la consapevolezza
che la responsabilità etica rimane tutta sulla gente, sull’uomo!

L’uomo è responsabile del suo STARE nell’esistenza.

Richiamo all’IO kantiano: manca però la possibilità di universalizzare annullandosi in una ipostasi.
Superamento dell’io Kantiano.

Deve trovare con l’io kantiano la forza di ascendere a un principio di universalità, che è LA
NORMA METAFISICA DENTRO DI NOI; è un principio che non si realizza / annulla in una
ipostasi, qualcosa di razionalmente astratto, ma in un UNIVERSALE CONCRETO.

Distacco Kant: compiuto.

Anche Dilthey si rifà al criticismo kantiano e supera il c. Kantiano similmente, proprio perché
l’elemento storico, della storia che si FA, concreta, viene ad essere la realizzazione dell’universale.

Dove si realizza l’universale?

Nella storica concreta; non c’è un IO noumenico. C’è un noumeno storicizzato, se vogliamo
definirlo kantianamente.

I Temi dello storicismo

L’intenzionalità etica: intenzione che si realizza nel suo tendere, una tensione che è già un agire.

L’intenzionalità etica: elemento fondamentale etica Piovaniana, interconnesso col tema


dell’intenzionalità, interconnessa alla tensione (erede Husserl).

L’agire si realizza nella storia, la personalità si espande nella storia.

Osservando come agisce la gente, è possibile coglierne l’essenza.


Anche l’azione come azione non rimane strettamente legata al singolo, bensì viene fatta perché c’è
un riferimento normativo etico-metafisico DENTRO DI NOI (Norma, principio metafisico del
soggetto) ma anche come viene vissuto dagli altri, nella piena STORICITA’.

Dunque: qual è la fonte di questa teoria, di questa realizzazione dell’azione nel vissuto storico-
concreto? Sono temi che Piovani ha molto approfondito, e li ha approfonditi attingendo a Dilthey:
ripresa Erlebnis, esperienza Vissuta, concetto divenuto nodo della riflessione psicopatologica.
Questo è il principio Diltheyiano. In tedesco abbiamo due termini per dire l’esperienza: il primo è
tecnico, e si riferisce all’esperienza generica; il termine Erlebnis è più specifico, si riferisce
all’immediatezza della vita così come viene esperita.

Erlebnis: Vissuto; l’esperienza vissuta, prevede la presenza dell’altro.

Usare il termine Erlebnis è un modo per sottolineare la co-esistenza, e Piovani eredita questo
concetto da Dilthey.

Saluta con entusiasmo nell’età matura lo storicismo tedesco, trovando molte soluzioni; parzialmente
attinge alle nuove forme della psicologia – della forma, del divenire, della personalità- e dall’altra
parte, per ciò che concerne le fonti filosofiche, Piovani resta filosofo) c’è lo storicismo, in particolar
modo quello Diltheyiano (il Dilthey delle Scienze dello spirito, Erlebnis, che piovani inserisce nel
concetto di espansione personalitaria)

Verstehen: La Comprensione.

Il vissuto immediato determina già la natura del nostro comprendere noi stessi, gli altri.

Pagine 588-589 (Digitale)

L’Esistere, coesistere, il comprendere, sono termini che ritroviamo nella filosofia di Piovani, con
nuove accezioni– L’erlebnis- eticità e rispetto: termini della morale umanologica ereditati da
Dilthey-

L’erlebnis – La parola contiene anche il termine Leben, vita, una vita dinamica, in fieri, che non è
l’esperienza in senso statico (Erfahrung)-.

Inoltre, la comprensione è una forma di vita.


Rivisitazioni dello storicismo Diltheyiano: se non sono da solo e non sono solo devo pormi il
problema degli altri, non ne posso fare a meno.

L’immoralità è la mancanza del rispetto, il dis-conoscimento, il non-riconoscersi.

Il rispetto è preliminare ad ogni cosa, il rispetto è GIUSTIZIA.

La natura del rispetto sembra omissiva, in contraddizione col carattere espansivo della personalità:
se andiamo ad analizzare la parola rispetto, essa sembra OMISSIVA, perché io per rispettare altri
devo limitarmi, come se mi dovessi limitare, e quindi a un certo punto Piovani ha questo problema
serio; la natura del rispetto sembra omissiva, contraddizione del carattere (…) ma non è così.

Perché?

Condizione dell’azione è il rispetto degli altri; gli altri mi sono necessari, e come tali non posso fare
a meno di rispettarli! Se offendo il co-esistente, offendo me nel coesistente; frase scritta da Piovani
di suo pugno sull’edizione che ha la prof.ssa, che era nella Biblioteca di Piovani. Rileggeva i testi
che pubblicava e, segnava vicino ai testi a margine, come se volesse fare edizioni specifiche.

Dunque, il rispetto non può essere OMISSIVO, non può pre-cludere!

Io non posso essere completamente libero se devo rispettare gli altri, ça va?

Però non è così, come abbiamo visto.

Io appartengo alla CO-ESISTENZA (vedi quadro della prof.ssa) fatta di INTRECCI.

Io mi espando nell’atto stesso in cui io modello il mio agire in modo da rispettare quello sviluppo: il
mio stesso limitarmi, la parte che dovrebbe essere OMISSIVA, non è un diminuirmi, io continuo ad
espandermi! Io non mi limito perché l’altro si espande, mi espando prendendo in considerazione lo
sviluppo della sua personalità, io modello il mio agire, viceversa se offendo il co-esistente offendo
me. Prendere in considerazione l’altro come mio co-esistente non è un limitare la mia espansione
personalitaria, è un arricchire.

Fonti per il costituirsi in Piovani di una Morale UMANOLOGICA.

Fonte storicismo Diltheyiano.


Fonte Max Weber, per ciò che concerne la critica di quest’ultimo all’etica dell’intenzione, più
aderente alla visione Kantiana, propria di chi opera unicamente sulla base delle intenzioni –
indipendentemente dall’esito delle intenzioni-.

WEBER: Etica responsabilità - mi sento responsabile della mia azione, valuto le conseguenze della
mia azione razionalmente- (che sostituisce a quest’ultima) è una delle fonti di Piovani; è quella in
cui prima di agire si valutano conseguenze delle proprie azioni – agire razionale rispetto allo scopo-.

L’etica dell’intenzione è quella Kantiana – il COME SE kantiano-.

Weber critica e ripropone un etica della responsabilità che, in ogni caso, Piovani rivisita, perché
l’etica Piovaniana non è solo un etica della r. singolaristica; il di più che Piovani aggiunge all’etica
della responsabilità di Weber asserendo: Io guardo non razionalmente ma STORICAMENTE, nella
co-esistenza, le conseguenze della mia azione (DIFFERENZA: invece che razionalmente egli valuta
ETICAMENTE).

Non etica dell’intenzione, ma etica dell’intenzionalità, attività coscienziosamente rivolta a tendere-


a.

Tendere-a, internazionalizzarsi, sono legati a termini quali l’esistenza, la storia, la co-esistenza.

Domanda: quali sono le fonti dell’etica Umanologica Piovaniana?

Dilthey – Weber-Husserl

Percorso compiuto da Piovani nel testo: ha smontato l’Io fichtiano, Hegeliano, Kantiano, ri-
costruendo su nuove basi.

Abbandoniamo la filosofia dei concetti, e abbraccia la psicologia, lo storicismo – D, Weber-


esistenzialismo – Kierkegaard e superamento Jaspers, Heidegger; Piovani compie scelte particolari
di esistenzialismo.

È tutto calato nel fare degli uomini, nella co-esistenza.

Altro grande autore che Piovani cita è Whitehead – legge le nuove scoperte della fisica e della
matematica comprendendole entro una nuova immagine del mondo- (si pronuncia tipo Waited, però
la t è muta), matematico che scrive con Russell i principi matematici;
Non scrive solo di fisica, ma di filosofia della fisica, e il testo Processo e realtà del 1929, tradotto
nel ’65.

Quanto c’entra la nuova fisica in queste cose?

Moltissimo!

Whitehead – un fisico-matematico, allarga il discorso sull’oggettivarsi sociale delle volontà,


insistendo sul rapporto idee-istituzioni.

La realtà è dinamica, fatta da e di processi; la stabilità è un intervallo entro un continuum


inarrestabile, sfuma non appena si tenti di tematizzarla; posizione eraclitea, visione dinamica del
reale: differenza rispetto alla posizione classica, non preferenza di un ambito metafisico rispetto ad
un altro, ma siamo a una “resa dei conti filosofica”.

Il concetto della concrescenza, termine che suggerisce un capovolgimento del tutto in un processo
che abbraccia i processi parziali mostrandone l’interdipendenza, la correlazione.

Piovani ri-elabora completamente determinate filosofie che ha studiato.

Siamo su un piano profondamente etico: de-ontologizzazione; recupero e superamento etica


responsabilità di matrice weberiana.

Dopo cita Hegel: riprende l’analisi dello stato H. affermando che non è possibile uno stato etico, ma
una eticità dello stato. Lo stato etico appare chiaramente come il contrario dell’eticità dello stato,
che per essere ha bisogno che lo stato si riconosca come forma di oggettivazione delle volontà
associatesi, destinate ad esistere come tali solo se rispettate e garantite così come sono.

Lo stato (deformandole) nega le permesse di ogni sua possibile eticità.

La prepotenza distrugge le ragioni del potere.

Ricordiamo che il capitolo di cui stiamo trattando si chiama ESPANSIONE E


PREVARICAZIONE, quest’ultima – sia del singolo, che è immorale, o di uno stato- blocca
l’espansione-.

Lo stato etico darebbe norme da seguire, sarebbe prevaricatore; eticità dello stato: lo stato che
condivida l’eticità dei contraenti lo stato, è l’unico che può realizzare la morale UMANOLOGICA.

Piovani non cita gentile; lo cita solo in Linee di una filosofia del diritto; si tratta di una scelta
politica; ricordiamoci gli anni in cui vive, dove vive, la posizione politica in quest’università –
nostra- in quest’Italia dove c’è un neoidealismo dominante, ci sono scelte forti).
Una volta che abbiamo fatto la scelta esistenziale – di vivere- abbiamo compiuto un gesto di
responsabilità, la morale è coerenza ed è tensione, non si compie MAI, si fa continuamente.

La razionalità profonda della moralità non è una razionalità astratta, è dentro la moralità, la
tensionalità.

Il concetto dell’immoralità – che è contraddizione- con la filantropia di vecchia maniera, la


filantropia dell’esaltazione delle capacità umane, non come amore per la coesistenza e per il
prossimo.

QUADRO ULTIMA SLIDE: Assenza e Valorazione.

Keith Haring, il quadro è definito anche come l’urgenza di un nuovo umanesimo.

Quest’ultima denominazione ci aiuta a concludere il percorso Piovaniano; Piovani si pone


domande, come il Banfi della scuola milanese.

Qual è il ruolo dell’intellettuale, cosa deve fare in questa società? Siamo molto avanti rispetto alla
grande crisi.

L’esperienza umana è irrazionale (…) l’artista contemporaneo deve opporsi alla disumanizzazione
della nostra cultura, questa è la sua responsabilità, dice Haring in una intervista.

Quali i temi del capitolo ESPANSIONE e PREVARICAZIONE?

Morale dinamica, la conoscenza è MEDIAZIONE, il concetto di FUNZIONE, la filosofia deve


diventare funzione (abbandono filosofia dei concetti, filosofia dell’essere; che riprende da Cassirer)
l’ASSENZA, passa dal MONISMO al fenomenico alla SOSTANZIOSITA’, non più una filosofia
della deduzione ma della coordinazione, l’incompiutezza, il bisogno, l’inquietudine, i nuovi valori
che sono la VALORAZIONE; ASSENZA E VALORAZIONE (I momento assenza, II momento
Valorazione. Il doppio titolo dei capitoli è indicativo della presenza di una part destruens e di una
costruens.

Il compimento dell’esistenza avviene nella complessità della valorazione, non nella semplicità della
volizione.

L’esistente si dà come governato da una dialettica negativa; ripresa Nietzsche. Si realizza nel “più”
non nel niente. Il suo essere ha valore come tensione al futuro.
La valorazione è la stessa personalità individuale come protezione verso un provvisorio stato di
compiutezza del suo vivere.

La valorazione è l’atto coerente con la scelta originaria singolaristica, che accettando di vivere non
è sottratto alla fatica permanente del liberarsi dell’esistere; Piovani ritorna al punto della scelta
esistenziale.

Tutto il processo da noi fatto porta ad una VALORAZIONE DEI VALORI; Fuori di me manca un
valore di riferimento, ma c’è un continuo costituirsi di valori, valori che si formano nella storia che
vivo, nella mia ERLEBNIS, insieme agli altri, nella COM-PRENSIONE degli altri. Non sono valori
fissi, ma è VALORAZIONE.

La stessa filosofia di Piovani è ermeneutico-fenomenologica, si co-struisce.

Superamento concetto assenza: è relazione tra l’esistente e l’azione che egli deve compiere nella
storicità. Tra azione da compiere e valore dell’azione.

Nel momento in cui l’esistente agisce, egli agisce perché gli manca qualcosa – ASSENZA come
DOPPIA RELAZIONE-.

È relazione tra l’azione che si compie e il valore dell’azione che si compie: il valore dell’azione che
si compie non è mai conclusivo, è assenza.

Ontologia negativa della tensionalità di Piovani, non va a piangere sul povero volente non volutosi,
sulla sua angoscia; si tratta di una ontologia NEGATIVA – prendo atto che mi manca qualcosa, c’è
un assenza che è tensione-. Abbiamo de-ontologizzato l’uomo ma viviamo in una ontologia
negativa. Parliamo di questo!

Ontologia (…) della Tensionalità: la tensione non si attenua, o sopisce; allo sforzo non corrisponde
una meta. Lo sforzo è perpetuo, fino a quando, con la morte, la tensione si sopisce.

L’esistere è un continuo mediarsi, ininterrotto processo di conservazione di finito nell’infinito.

In Piovani abbiamo una Concezione della morale che vede la normatività del volere individuale
inserita in un rapporto dialettico con sé stessa.

Parliamo di RE-LAZIONISMO di valori, non relazione (di valori cristiani, politici) perché è il
riferimento VALORATIVO che diviene il riferimento assiologico di Piovani.

ASSIOLOGIA
La vera assiologia deve tener conto della assiologicità immanente al vivere: l’attività morale non
appartiene soltanto a momenti-limite, in cui possa culminare, talvolta, una dubbiosità costretta a
risolversi in una decisione ardua o dolorosa, ma domina il quotidiano, continuamente operando per
differenziare le indifferenze, per allarmare le inerzie. L’inquietudine del valore sta dentro l’opacità
della giornata più comune; s’insinua improvvisa nell’automaticità di una routine; incrina lo spessore
più fitto di un comportamento ottuso; turba, inattesa, la sonnolenza del conforme o s’inserisce tra le
sue pieghe. In ogni momento, un nostro atteggiamento prende posizione decidendo fra valori,
determinando valori. Anche senza notarlo, noi non facciamo che esperire valori, viverli
rispettandoli od offendendoli, nel piccolo e nel grande (ammesso che, in tal caso, simili misure
abbiano senso).

L’assiologia non è riferimento a valori FISSI, Assiologici, ma è un riferimento a valori che si fanno
in continuazione, che sono nella nostra vita continua; ogni individualità appare saldamente fo

L’apparente formalismo, palese tributario della morale kantiana, riconosce dignità etica a qualunque
azione che abbia in sé la forza di espandersi in un’oggettivizzazione che attesti una tensione
universalizzante: si rivela, così, come il solo metodo di conoscenza e comprensione della varietà
infinita dei contenuti nella loro polimorfa esistenza. Solamente il formalismo etico può diventare
contenutismo reale, storicizzato nel suo tentativo di penetrare, comprendere qualunque forma in cui
si sostanzi l’attivo desiderio dell’uomo di soddisfare il suo insaziabile bisogno di valori in una
valorazione che lavori a colmare un’assenza creando, col suo espandersi, col suo realizzarsi,
formazioni che coerentemente confermino la coesistenzialità dell’esistere oggettivando il
soggettivo, fermando il fuggevole in produzioni etiche documentanti, nella vita di un ethos, la
moralità dell’uomo.

Ripresa di Piovani del formalismo etico (Kantiano) calato però nella storia

Dunque, quali sono questi principi di una filosofia della morale?


Essi hanno radici e basi in una serie di autori sopracitati, rivisitati da Piovani in una chiave
storicistica; dunque, lo stesso formalismo perde parte di razionalismo astratto perché è importante
avere riferimenti FORMALI; I riferimenti alla norma sono rilevanti, ma la norma deve essere calata
nella storia, si tratta di una norma DINAMICA, che si evolve nella storia degli uomini.

Abbiamo un riscatto del formalismo etico kantiano, all’interno di una visione storica, storicismo di
stampo diltheyiano passando per l’esistenzialismo -Il formalismo kantiano è stato accusato dal
neoidealismo di essere vuoto – non lo è- il concetto della morale autonoma in Kant è carico di
contenuti, per il suo essere (di Kant) di formazione pietista, protestante) –.

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