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Introduzione alla Meccanica Quantistica.

A. A. 2006/2007

1 La radiazione di corpo nero


La meccanica quantistica ebbe origine a partire dall’esame di un certo numero di fenomeni
che la fisica classica non consentiva d’interpretare. Il primo problema cui accenneremo
riguarda il cosiddetto corpo nero. Con questo nome si allude ad un corpo ideale in grado
di assorbire una radiazione elettromagnetica che lo investa, quale che sia la frequenza di
questa. E’ l’analogo di ciò che chiamiamo nero nel visibile, ma con l’estensione a qualunque
frequenza. Un modo per simulare un corpo nero è quello di prendere un corpo che abbia
al suo interno una grossa cavità che comunica con l’esterno attraverso un forellino. Una
radiazione che entri nel foro subisce molti processi di diffusione e assorbimento da parte
delle pareti, cosicché prima di riemergere dal foro viene praticamente assorbita del tutto.
Il foro si comporta allora come una porzione di corpo nero.
Senza entrare nei dettagli, diciamo che, in base a soli ragionamenti termodinamici,
Kirchoff dimostrò che la densità d’energia elettromagnetica per unità di volume e di fre-
quenza entro una cavità simulante un corpo nero, mantenuta in equilibrio termodinamico,
doveva essere una funzione universale della frequenza e della temperatura (cioè indipen-
dente dalla natura del materiale delle pareti e dalla forma della cavità). Si pose allora il
problema di determinare la forma esplicita di tale funzione. Un possibile procedimento
è il seguente. Innanzi tutto si determina il numero di modi di oscillazione della radi-
azione nella cavità per unità di volume e di frequenza. Il risultato di questo calcolo (che
è accennato nel prossimo paragrafo) è
8πν 2
. (1)
c3
A questo punto basta moltiplicare il numero trovato per l’energia media di un modo. La
previsione termodinamica classica è che quest’ultima valga kB T , dove kB è la costante
di Boltzmann e T la temperatura assoluta. Si arriva cosı̀ alla relazione secondo la quale
la densità d’energia u(ν, T ) della radiazione elettromagnetica per unità di volume e di
frequenza è
8πν 2
u(ν, T ) = 3 kB T. (2)
c

1
Questa relazione, nota come formula di Rayleigh-Jeans, è manifestamente assurda in quan-
to prevede una densità che cresce senza limite all’aumentare della frequenza (al riguardo
si parlò di catastrofe ultravioletta). La soluzione fu trovata da Planck che, adottando
un’ipotesi rivoluzionaria, derivò una formula che inquadrava perfettamente tutti i risul-
tati sperimentali. La formula di Planck per la densità d’energia della radiazione di un
corpo nero mantenuto alla temperatura assoluta T è la seguente:
8πν 3 h
u(ν, T ) = 3   , (3)
c exp hν − 1
kB T

dove h è una costante, che fu poi chiamata costante di Planck (h = 6.63 × 10−34 Js).
L’ipotesi adottata da Planck per derivare la (3) era che, ad ogni frequenza ν, lo scambio
d’energia fra la radiazione e il materiale costituente le pareti potesse avvenire solo per
multipli di una quantità minima, il cosiddetto quanto d’energia, di valore hν. Benché il
valore numerico di hν risulti estremamente piccolo, dal punto di vista macroscopico, anche
per frequenze elevate come quelle ottiche, questa ipotesi era assolutamente ingiustificabile
secondo la fisica classica. Tuttavia, l’accordo fra la (3) e i risultati sperimentali era
eccellente.
Prima di passare oltre, ci fermiamo un attimo per illustrare alcune caratteristiche
della (3). Il prodotto u dν rappresenta l’energia che, per unità di volume, è compresa
fra ν e ν + dν. Possiamo trasformarla nell’energia fra λ e λ + dλ tenendo presente che
dν = −cdλ/λ2 . Prescindendo dal segno meno, scriviamo allora la formula di Planck per
la densità d’energia per unità di volume e lunghezza d’onda, diciamo v(λ, T , come
8π h
v(λ, T ) =   . (4)
λ5 exp hc − 1
λkB T

Alcune curve della (4) sono riportate in figura, usando unità arbitrarie per le ordinate.

In ascisse x è la lunghezza d’onda in micrometri. La curva più bassa è per una temperatura
assoluta di 3000 K, l’intermedia per 4000 K, la più alta per 5000 K. Si noti come, al

2
crescere della temperatura, il massimo della curva si sposti verso lunghezze d’onda minori.
La lunghezza d’onda in corrispondenza alla quale si ha il massimo può essere cercata
annullando la derivata della v rispetto a λ. Cosı̀ facendo si ottiene l’equazione

1 − e−x = x/5, (5)

dove, per brevità, si è posto x = hc/(kB λT ). Questa equazione trascendente ha (oltre a


x = 0) la soluzione, che si trova numericamente, x = 4.97. Essendo hc/kB = 14.4 × 10−3
m−1 K−1 , si ricava da qui la legge di Wien, detta dello spostamento, secondo la quale il
massimo della densità d’energia si ha quando

λT = 2.9 × 10−3 m K. (6)

Va precisato che Wien aveva mostrato, prima che Planck trovasse la (3), la legge dello
spostamento, ma che la costante a secondo membro doveva essere determinata per con-
fronto con l’esperienza. E’ interessante notare che lo spettro della radiazione solare è
approssimativamente descritto dalla formula del corpo nero assumendo che la temperatu-
ra sia di circa 5700 K. Dalla (6) segue allora che il massimo d’emissione solare si ha nel
verde, intorno a λ = 0.5µm. Non è un caso che l’occhio umano abbia la sua massima
sensibilità proprio intorno a tale lunghezza d’onda.
Un’altra legge di cui era nota la forma funzionale è quella di Stephan-Boltzmann.
Anche qui è presente una costante che, prima di Planck, doveva essere determinata em-
piricamente. Questa legge riguarda l’energia per unità di volume della radiazione di corpo
nero quando si integri su tutte le frequenze. La legge di Stephan-Boltzmann asserisce che
tale energia cresce proporzionalmente alla quarta potenza della temperatura. Integrando
la (3) si può trovare la costante di proporzionalità
Z Z
∞ 8πh ∞ ν3
u(ν, T )dν = 3   dν. (7)
0 c 0 exp hν
−1
kB T

Posto hν/(kB T ) = x, la (7) diventa


Z !4 Z
∞ 8πh kB T ∞ x3
u(ν, T )dν = 3 dx. (8)
0 c h 0 ex − 1

L’integrale può essere calcolato (tramite serie di potenze di e−x ) e vale π 4/15, per cui si
ottiene la relazione Z ∞ !
8π 5 kB
4
u(ν, T )dν = T 4, (9)
0 15c3 h3
in cui il fattore di proporzionalità può essere calcolato in base a costanti universali.

3
2 Derivazione della formula di Planck
In questo paragrafo esamineremo un metodo per derivare la formula di Planck. Consid-
eriamo la radiazione elettromagnetica che esiste dentro una scatola cubica di lato L, in
situazione d’equilibrio alla temperatura assoluta T . Per prima cosa determiniamo i mo-
di d’oscillazione possibile, cioè le configurazioni di campo che possono oscillare in modo
stazionario entro la cavità. Supporremo che le pareti della scatola siano perfettamente
conduttrici. La condizione essenziale per un’oscillazione stazionaria è che il campo elet-
trico della radiazione abbia componente tangenziale nulla sulle pareti. Ciò impone delle
condizioni sui tipi di modo che possono instaurarsi nella cavità. Per rendercene conto,
consideriamo per un momento il caso in cui, invece che in una scatola, il campo elettro-
magnetico sia confinato fra due pareti piane conduttrici (infinitamente estese) disposte
ortogonalmente all’asse x di un opportuno riferimento, a distanza L l’una dall’altra. Quali
onde stazionarie possono oscillare fra tali pareti? Evidentemente quelle formate da due
onde piane monocromatiche contropropaganti (di ugual frequenza e polarizzazione) che
producano dei nodi sulle pareti. Siccome la distanza fra due nodi in una di tali onde
stazionarie è uguale a mezza lunghezza d’onda, dovrà valere la relazione
λ
L=n , (n = 1, 2, . . .), (10)
2
che fissa le possibili lunghezze d’onda. In termini equivalenti, le possibili ondulanze (k =
2π/λ) sono
π
kn = n , (n = 1, 2, . . .). (11)
L
Nel caso della scatola cubica si trova che si hanno tre condizioni del tipo (11), una per
ogni componente del vettore d’onda k,
π π π
kxn = n , kym = m , kzr = r , (n, m, r = 1, 2, . . .). (12)
L L L
Se rappresentiamo i modi consentiti mediante punti in uno spazio kx , ky , kz cade un punto
rappresentativo per ogni volumetto (π/L)3. Tenendo conto che i punti rappresentativi
dei modi si trovano in quella parte dello spazio kx , ky , kz in cui tutte le coordinate sono
positive, possiamo calcolare il numero di modi con |k| compreso fra k e k + dk dividendo
il volume dell’ottante di buccia sferica compresa fra tali raggi e il volumetto detto
1 4πk 2dk 2
3 4πν dν
dN = = L . (13)
8 (π/L)3 c3
Poiché però per ogni onda stazionaria sono possibili due stati di polarizzazione ortogonali,
dobbiamo moltiplicare questo numero per due. In conclusione il numero di modi della
radiazione per unità di volume e di frequenza è
1 dN 8πν 2
= . (14)
L3 dν c3

4
Per avere la densità di energia del campo occorre moltiplicare questo numero per l’energia
media di un modo. Questo calcolo si fa assimilando ogni modo del campo, che oscilla in
maniera stazionaria, ad un oscillatore armonico in equilibrio termodinamico.
Vediamo prima la previsione classica, basata sull’ipotesi che per un oscillatore siano
possibili tutti i valori dell’energia, variabili con continuità fra zero e infinito. Usando la
statistica di Boltzmann (vedi Appendice 1) troviamo
R

E exp [−E/(kB T )]dE
0
Ē = R∞ = kB T, (15)
exp [−E/(kB T )]dE
0

dove kB è la costante di Boltzmann. Moltiplicando la (14) per l’energia media di un modo,


si ottiene la formula di Rayleigh-Jeans già vista.
Le cose cambiano radicalmente se si ammette che l’energia dell’oscillatore sia quan-
tizzata, cioè che possa assumere solo valori discreti. In accordo con l’ipotesi di Planck,
supponiamo che le energie abbiano la forma

En = nE1 , (n = 0, 1, 2, . . .). (16)

L’energia media va allora calcolata come


P

nE1 exp [−nE1/(kB T )]
n=0
Ē = P
∞ . (17)
exp [−nE1 /(kB T )]
n=0

Posto q = exp[−E1/(kB T )] si ha
P

nq n
Ē = E1 n=1
P
∞ , (18)
qn
n=0

in cui l’estremo inferiore della sommatoria a numeratore è stato posto uguale a uno (il ter-
mine n = 0 non contribuisce). Ricordiamo la somma della serie geometrica e deriviamola
rispetto a q

X X∞
n 1 d 1 1
q = ; ( )= 2
= nq n−1 . (19)
n=0 1−q dq 1 − q (1 − q) n=1

Da qui ricaviamo

X q
nq n = . (20)
n=1 (1 − q)2

5
Sostituendo le somme delle due serie nella (18) otteniamo
q exp [−E1 /(kB T )] E1
Ē = E1 = E1 = E1 . (21)
(1 − q) 1 − exp [−E1/(kB T )] e kB T
−1
Per E1 tendente a zero si ritrova il risultato classico. Infatti in questo limite, sviluppando
in serie l’esponenziale e arrestando lo sviluppo al prim’ordine otteniamo
E1 ∼ E1
Ē = E1 = E1 = kB T. (22)
e kB T
−1 (1 + kB T
) −1

Planck aveva trovato empiricamente che i dati sperimentali si adattavano perfettamente


con una formula del tipo
aν 3
u = bν/T , (23)
e −1
con a e b costanti. D’altronde usando la (21) per il calcolo di u otteniamo

8πν 2 E1
u= 3 E1 . (24)
c e kB T − 1

Si vede perciò che affinché la previsione (24) si accordi con la formula empirica (23) si deve
ammettere che E1 sia proporzionale alla frequenza. Detta h la costante di proporzionalità
(la costante di Planck) le formule si accordano ponendo
8π h
E1 = hν; a= ; b= , (25)
c3 kB
e in questo modo si ottiene la celebre formula di Planck per il corpo nero
8πν 2 hν
u= hν . (26)
c3 e kB T − 1

Il valore che si deve dare a h è 6.63 × 10−34 J s. Anche a frequenze ottiche, in cui
ν è dell’ordine di 1015 Hz, il “quanto di energia hν risulta perciò, dal punto di vista
macroscopico, estremamente piccolo.

3 L’effetto fotoelettrico
Parleremo ora di un effetto, detto fotoelettrico, consistente nel fatto che un metallo colpito
da una radiazione elettromagnetica può emettere elettroni. Più precisamente, il processo
ha luogo se la frequenza della radiazione incidente supera un certo valore ν0 , che cambia
da metallo a metallo, detto frequenza di soglia e che tipicamente cade nel visibile o
nell’ultravioletto.

6
Un elettrone che si trovi in un metallo è vincolato a rimanere all’interno di questo
da una sorta di barriera di potenziale che gli impedisce di oltrepassare la superficie.
Perciò, affinché l’elettrone esca dal metallo è necessario fornirgli una certa energia Ee ,
caratteristica del metallo, detta energia (o lavoro) di estrazione. Ora, che tale energia
possa essere fornita tramite una radiazione luminosa non è sorprendente in ambito di fisica
classica. Si può pensare che l’elettrone acquisti energia mettendosi in oscillazione forzata
sotto l’azione del campo elettrico dell’onda incidente. Secondo un modello di questo tipo,
l’energia comunicata all’elettrone dovrebbe dipendere dall’ampiezza dell’onda e quindi
l’effetto dovrebbe verificarsi a qualunque frequenza a patto di aumentare a sufficienza
l’intensità della radiazione. Questa previsione risulta in netto contrasto con l’esperienza,
perché al di sotto della soglia l’effetto non si verifica anche per intensità elevate.
Un’ipotesi che spiegava l’effetto fotoelettrico (e anche altri fenomeni) fu avanzata da
Einstein a titolo euristico. Secondo tale ipotesi, il trasporto d’energia da parte di un’onda
elettromagnetica era affidato ad enti elementari, con caratteristiche simili a quelle di
corpuscoli, ognuno dei quali aveva un’energia hν. Questi quanti d’energia elettromagnetica
vennero più tardi detti fotoni. Mentre è chiaro il collegamento con l’ipotesi di Planck,
va notato che quest’ultimo non aveva ipotizzato che il quanto hν fosse una caratteristica
intrinseca della radiazione, ma solo una quantità che regolava gli scambi energetici fra
materia e radiazione (anzi, Planck si rivelò contrario ad accettare l’ipotesi di Einstein).
Accettando l’ipotesi di Einstein, l’effetto fotoelettrico diventa immediatamente spie-
gabile. Supponendo che con le intensità normalmente disponibili siano molto improbabili
processi in cui l’elettrone interagisce simultaneamente con più di un fotone, si può dire
che il fotone può espellere l’elettrone dal metallo solo se la sua energia hν è almeno uguale
all’energia d’estrazione. Evidentemente la soglia fotoelettrica corrisponde al caso in cui
l’energia del fotone è esattamente uguale a quella d’estrazione e ciò dà la condizione:
hν0 = Ee . (27)
Supponendo invece che la frequenza sia superiore a quella di soglia, si può pensare che la
differenza fra l’energia del fotone e quella d’estrazione sia acquistata dall’elettrone come
energia cinetica con la quale questo esce dal metallo. In altri termini si avrà il bilancio
energetico:
v2
hν = hν0 + m , (28)
2
dove v è la velocità con cui l’elettrone esce dal metallo. Con un opportuno dispositivo,
l’energia cinetica dell’elettrone può essere misurata e si trova che tutta la descrizione
basata sul modello detto si accorda benissimo con l’esperienza. Il ruolo dell’intensità
luminosa è quello di determinare quanti elettroni vengono emessi, per unità di tempo, da
una certa area del metallo. Infatti, se I è l’intensità che illumina (ortogonalmente) un’area
S del metallo, l’energia incidente in un tempo ∆t è IS∆t e a ciò è associato l’arrivo di N
fotoni, con N dato da:
IS∆t
N= . (29)

7
Perciò se aumenta l’intensità della radiazione (con frequenza superiore alla soglia) aumenta
il numero di fotoni incidenti e quindi quello degli elettroni emessi nell’unità di tempo.
Naturalmente non è detto che ogni fotone riesca a interagire con un elettrone, per cui il
numero d’elettroni emessi sarà più basso di quello dei fotoni incidenti. Statisticamente,
tuttavia, ci sarà una proporzionalità fra i due numeri.
Il problema che sorge se si accetta l’interpretazione di tipo corpuscolare proposta da
Einstein è però il seguente. Come si spiegano i fenomeni d’interferenza e diffrazione che
sappiamo essere ben spiegati da una teoria ondulatoria? Che significato ha la previsione
classica per il generico fotone?
Una possibile risposta viene suggerita dall’esame di un tipico fenomeno ondulatorio
come, ad es., l’interferenza a due onde, eseguito con intensità luminose cosı̀ basse che il
numero di fotoni registrati durante il tempo d’osservazione sia piccolo. Si pensi ad es.
ad una registrazione fatta su un’emulsione fotografica. Su di essa si visualizza l’arrivo
di un certo numero di fotoni distribuiti casualmente. Tuttavia, se si ripete l’esperimento
aumentando progressivamente il numero di fotoni raccolti durante l’esposizione, si nota
che i fotoni tendono ad addensarsi nelle regioni in cui l’intensità prevista dalla teoria
classica è più elevata e, per numeri di fotoni molto grandi, si ricostituisce esattamente
la figura prevista dalla teoria classica. Il significato che si può attribuire all’intensità
prevista classicamente, in riferimento all’arrivo di un singolo fotone, è quello di costituire
una grandezza proporzionale alla densità di probabilità (d.d.p.) per il punto d’arrivo.
Aggiungiamo ancora che Einstein fece un’altra ipotesi circa i fotoni, cioè quella che
essi siano dotati, oltre che dell’energia hν, anche di una quantità di moto (o, come spesso
si dice, di un impulso) data da:

p= = h̄k, (30)
c
dove h̄ = h/(2π). Quest’ipotesi, anche se non interviene nella spiegazione dell’effetto
fotoelettrico, risulta essenziale sia per altri effetti, sia per gli sviluppi concettuali di cui
parleremo in seguito.

4 Atomi e spettri atomici


Un altro problema che la fisica classica non permette di risolvere è quello di come siano fatti
e come irradino gli atomi. Un semplice modello, dovuto a Rutherford, assimila l’atomo ad
un minuscolo sistema planetario. Centralmente c’è il nucleo, che porta quasi tutta la massa
dell’atomo. Attorno al nucleo, attratti dalla forza coulombiana, gravitano gli elettroni
che, come i pianeti attorno al sole, si muovono su orbite ellittiche. Purtroppo il modello è
insostenibile. Infatti, secondo l’elettromagnetismo classico, una carica in moto accelerato
irradia energia elettromagnetica. Di conseguenza l’elettrone (che sulla sua orbita avrebbe
almeno un’accelerazione centripeta) dovrebbe perdere progressivamente energia e quindi
compiere un moto a spirale che lo porterebbe a cadere sul nucleo. Ne deriva che gli

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atomi non potrebbero essere sistemi stabili. Inoltre lo spettro della radiazione emessa
dagli elettroni, la cui frequenza di rotazione intorno al nucleo cambierebbe con continuità,
dovrebbe essere di tipo continuo.
Quando, all’inizio del ’900, si discutevano questi problemi, molto era già noto sulle
caratteristiche di emissione da parte di sistemi atomici. In particolare, era noto che lo
spettro emesso da gas monoatomici (con particelle non interagenti) è costituito, come si
usa dire, da un insieme di righe (per l’origine della nomenclatura si veda Elementi di
Ottica, paragrafo 10.6. Nel seguito useremo abbreviazioni del tipo: EO.10.6 o simili ). E’
quanto dire che lo spettro contiene solo un insieme discreto di frequenze (per semplicità,
prescindiamo dal fatto che ogni riga ha una sua larghezza)
Un caso particolarmente semplice è quello dello spettro dell’idrogeno atomico. Infatti,
nell’intervallo del visibile (390-780 nm), esso è costituito semplicemente da una serie di
sei righe. Balmer trovò in modo empirico una regola per calcolare le lunghezze d’onda
corrispondenti. Essa è espressa dalla relazione
 
1 1 1
= RH − 2 ; (n = 3, 4, ....), (31)
λ 4 n
nota appunto come formula di Balmer. La quantità RH , detta costante di Rydberg, può
essere determinata sperimentalmente e vale

RH = 1.1 × 107 m−1. (32)

5 Teoria di Bohr per l’atomo di idrogeno


Nel 1913 il danese N. Bohr presentò una teoria per rendere conto del comportamento
spettrale dell’atomo di idrogeno (che ha un solo elettrone). Tale teoria si basa sul modello
di Rutherford corredato da alcune ipotesi “ad hoc, in virtù delle quali l’elettrone che ruota
intorno al nucleo può percorrere solo certe orbite, sulle quali non si ha irraggiamento. Più
precisamente, le ipotesi di Bohr sono le seguenti:
a) il momento angolare dell’elettrone è quantizzato, nel senso che può assumere solo
valori che siano multipli interi di h̄;
b) quando l’elettrone percorre un’orbita consentita non irradia;
c) nel passaggio da un’orbita ad energia maggiore ad una d’energia minore, l’elettrone
cede la differenza d’energia ∆E sotto forma d’energia elettromagnetica. La radiazione
emessa ha una frequenza dettata dalla condizione di Einstein ∆E = hν. Inversamente,
l’elettrone può saltare da un livello d’energia inferiore ad uno d’energia superiore per
assorbimento di radiazione elettromagnetica di frequenza tale da rispettare la relazione
di Einstein.
Vediamo le previsioni che tale teoria consente di fare. Supponiamo per semplicità che
l’elettrone si muova su un’orbita circolare e ammettiamo che, in virtù del grande rapporto

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fra la massa del nucleo e quella dell’elettrone (circa 1800), il nucleo possa considerarsi
fermo. Detto r il raggio dell’orbita, l’ipotesi a) si scrive:

rmv = nh̄; (n intero), (33)

dove m e v sono la massa e la velocità dell’elettrone. Inoltre, dal secondo principio della
dinamica, abbiamo:
mv 2 e2
= K 2, (34)
r r
dove e è, in valore assoluto, la carica dell’elettrone (e del nucleo) e dove si è posto K =
1/(4π0 ). Dalla (33) ricaviamo:
nh̄
v= . (35)
mr
Scritta la (34) nella forma
e2
mv 2 = K , (36)
r
e sostituendo in questa la (35), otteniamo

n2h̄2
= Ke2, (37)
mr
da cui segue che i raggi delle orbite permesse sono dati dalla formula:

n2h̄2
rn = , (n = 1, 2, ...). (38)
mKe2
L’orbita più interna, corrispondente a n = 1, ha il raggio

h̄2
r1 = = 0.05 nm, (39)
mKe2
noto come raggio di Bohr. Il valore di tale raggio si accorda bene con le stime sperimentali
delle distanze interatomiche in un solido, dell’ordine di 0.1 nm, che erano già note in base
ai fenomeni di diffrazione dei raggi X da parte di reticoli cristallini.
Vediamo ora quali sono le energie associate alle varie orbite. Scriviamo l’energia totale
dell’elettrone, somma di quella cinetica e di quella potenziale coulombiana
mv 2 Ke2 Ke2
E= − =− , (40)
2 r 2r
avendo sfruttato la (36). Le energie possibili si ottengono allora sostituendo r con i valori
consentiti in base alla (38). Ciò fornisce:
!2
1 m Ke2
En = − 2 , (n = 1, 2, ...). (41)
n 2 h̄

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La quantizzazione del momento angolare implica dunque quella dei raggi delle orbite e
quella delle energie associate. Tutte queste grandezze sono individuate dall’unico numero
n, il cosiddetto numero quantico. Sostituendo i valori numerici delle costanti universali
nella (41), si trova che l’energia minima (ottenuta per n = 1) è:

E1 = −13.6 eV. (42)

Passando a valori superiori di n l’energia cresce, tendendo a zero per n che tende a infinito.
In questo limite, siccome il raggio dell’orbita diventa infinito (vedi la (38)), l’elettrone non
è più vincolato a muoversi attorno al nucleo. In pratica, l’atomo è ionizzato. Quindi E1
si può considerare come l’energia che occorre fornire all’atomo per ionizzarlo (energia
di ionizzazione). Tale energia può essere valutata sperimentalmente e risulta in ottimo
accordo con la (42). Si dicono stati legati quelli corrispondenti alle energie (41) con n
finito, mentre nel limite di n che tende a infinito l’elettrone diventa libero.
Consideriamo ora due livelli energetici, individuati dai valori n1 e n2 (> n1 ) del numero
quantico. Se l’elettrone si trova nel livello superiore (n2) e transisce a quello inferiore
(n1 ), in base all’ipotesi c) esso emette la differenza d’energia sotto forma di radiazione di
frequenza: !2 !
En2 − En1 m Ke2 1 1
ν= = − , (43)
h 2h h̄ n21 n22
avendo usato la (41), ovvero con una lunghezza d’onda il cui inverso è dato da:
!2 !
1 m Ke2 1 1
= 2
− 2 . (44)
λ 2hc h̄ n1 n2

Vediamo allora che, scegliendo n1 = 2 e n2 = 3, 4, ... si ottiene una formula identica a


quella di Balmer (vedi (31)) e che la costante di Rydberg risulta data da:
!2
m Ke2
RH = . (45)
2hc h̄

Utilizzando i valori delle costanti universali allora noti, Bohr trovò un valore di RH che
si accordava entro l’1% con quello determinato sperimentalmente dagli spettroscopisti.
Perciò la teoria di Bohr rendeva conto molto bene dello spettro dell’idrogeno. Si può
aggiungere che per n2 > 8 la (44) prevede altre righe della serie di Balmer che cadono
nell’ultravioletto e che si riscontrano sperimentalmente. Inoltre, se si pone n1 = 1 e
n2 = 2, 3, ... si ottiene un’altra serie di righe nell’ultravioletto, nota come serie di Lyman,
e che ulteriori serie di righe, questa volta nell’infrarosso, sono previste dalla (44) se si pone
n1 = 3 e n2 = 4, 5, ... (serie di Paschen) oppure n1 = 4 e n2 = 5, 6, ... (serie di Brackett),
ecc. Tutte queste serie si trovano effettivamente a livello sperimentale e le loro lunghezze
d’onda sono in ottimo accordo con le previsioni della (44).

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La teoria di Bohr fu applicata anche ad atomi più complessi di quello dell’idrogeno,
ma qui i successi furono più limitati. In ogni caso, il problema principale della teoria di
Bohr è che, nonostante il suo successo nel caso dell’idrogeno, le ipotesi su cui si basa sono
prive di giustificazione.

6 Il principio di indeterminazione
Uno dei principi fisici fondamentali della teoria quantistica è il cosiddetto principio di
indeterminazione, che fu formulato da Heisemberg. Il principio fu suggerito a Heisemberg
dall’analisi di un gran numero di schemi sperimentali che, in linea di principio, potrebbero
essere usati per misurare grandezze come velocità e posizione di particelle. Per quanto
tali schemi non fossero generalmente realizzabili in pratica (ragione per cui si parlava di
“esperimenti pensati), l’analisi di quello che sarebbe successo negli apparati evidenzia-
va certe difficoltà ineliminabili dei procedimenti di misura. Per dare un’idea del tipo di
argomentazioni sviluppate nel periodo in cui si discutevano questi problemi (intorno al
1920), consideriamo il processo di osservazione della posizione di una particella. Immag-
iniamo che la particella, per fissare le idee diciamo un elettrone, si stia muovendo con una
certa quantità di moto. Come nel caso di un oggetto macroscopico, per poter osservare
la particella occorre che essa venga illuminata (con una radiazione opportuna), in mo-
do da raccogliere la radiazione che essa diffonde e utilizzarla per formare un’immagine.
La posizione, individuata attraverso l’immagine, sarà affetta da un’incertezza, perché, a
causa della diffrazione, la risposta impulsiva dello strumento non è un punto. Per ridurre
tale incertezza, si può diminuire la lunghezza d’onda della radiazione usata. Occorre però
tenere conto del fatto che i fotoni che costituiscono la radiazione illuminante possiedono
un impulso e che esso aumenta al diminuire della lunghezza d’onda. Mentre per oggetti
macroscopici il trasferimento di impulso dalla radiazione all’oggetto è insignificante, nel
caso di particelle come l’elettrone, l’impulso trasferito può essere paragonabile a quello
posseduto inizialmente dalla particella. Ciò significa che il processo di misura della po-
sizione va ad alterare l’impulso della particella. Anzi, quanto più precisamente si cerca di
individuare la posizione (riducendo la lunghezza d’onda) tanto più viene alterato, in modo
non predicibile, l’impulso. La conclusione è che non è possibile misurare simultaneamente
con precisione arbitraria sia la posizione che l’impulso.
Analisi critiche di questo tipo permettono anche di valutare qual è il limite di precisione
simultanea che non è possibile superare. Con riferimento ad una sola coordinata cartesiana
x e alla corrispondente componente dell’impulso px , indichiamo con ∆x e ∆px le incertezze
(di cui successivamente daremo una definizione più precisa) associate alle due grandezze.
La relazione cui giunse Heisemberg, che esprime il principio di indeterminazione per tali
grandezze, è allora
∆x∆px ≥ h̄/2. (46)
Si noti che il principio non esclude che una delle due grandezze possa essere determinata

12
in modo completo. Il punto è che l’aumento di precisione su una implica un aumento
dell’incertezza sull’altra. Cosı̀ se ∆x tende a zero, ∆px tende a infinito e viceversa.
E’ abbastanza spontaneo pensare che, anche se noi non possiamo misurare x e px si-
multaneamente con precisioni arbitrarie, tali grandezze abbiano, istante per istante, valori
ben definiti. Al contrario, l’interpretazione canonica del principio d’indeterminazione è
che la non definizione simultanea di posizione e impulso sia una caratteristica intrinseca
della particella. Esistono stati della particella in cui l’impulso è perfettamente definito e la
posizione è completamente indeterminata, cosı̀ come esistono stati in cui è completamente
determinata la posizione e completamente indeterminato l’impulso. Non esiste però al-
cuno stato in cui sia la posizione che l’impulso abbiano valori perfettamente definiti. Il
fatto è che l’oggetto microscopico che chiamiamo particella, per es. l’elettrone, ha una
natura molto più complessa di quella che sarebbe suggerita dall’analogia con un oggetto
macroscopico come una pallina. Nulla ci autorizza a trasportare al mondo microscopico
i modelli mentali che abbiamo sviluppato studiando il mondo macroscopico, come è di-
mostrato dai fallimenti della fisica classica (nata dall’indagine dei fenomeni macroscopici)
quando viene applicata ai fenomeni microscopici.
Il principio di indeterminazione non vale solo per posizione e impulso (componente
per componente). Ci sono, più in generale, coppie di grandezze fisiche, o come si dice
di osservabili, soggette allo stesso tipo di limitazione. Per fare un esempio, consideri-
amo una radiazione quasi-monocromatica descritta, in un certo punto dello spazio, dalla
disturbanza:
2 2
V (t) = Ae−2πiν0 t e−t /T , (47)
e chiediamoci qual è l’indeterminazione sull’energia dei fotoni associati. Pensando che
la (47) descriva il comportamento di un singolo fotone, si può dire che la localizzazione
temporale del fotone è dell’ordine di T . D’altronde la modulazione gaussiana del campo
allarga il suo spettro, che sarà ancora una gaussiana, centrata su ν0 e con larghezza del-
l’ordine di ∆ν = 1/T . Ne segue che l’indeterminazione dell’energia dei fotoni è dell’ordine
di ∆E = h∆ν = h/T . Perciò il prodotto delle indeterminazioni sul tempo d’arrivo del
fotone e sulla sua energia è circa:
T ∆E ∼= h, (48)
e questa è ancora una relazione di indeterminazione.

7 Onde di de Broglie
L’idea di Einstein che la radiazione elettromagnetica, normalmente caratterizzata dalle sue
proprietà ondulatorie, potesse in certi casi esibire comportamento corpuscolare, suggerı̀ a
Louis de Broglie che, reciprocamente, enti fino ad allora considerati solo come corpuscoli,
per es. l’elettrone, potessero mostrare anche delle proprietà ondulatorie. Riferendosi a
particelle libere (cioè non soggette a forza), egli ipotizzò che ad una generica particella
fosse associata un’onda (il cui significato vedremo fra breve) e postulò che il legame

13
fra energia della particella e frequenza dell’onda e quello fra impulso della particella e
lunghezza d’onda fossero dello stesso tipo che Einstein aveva assunto per i fotoni. In
accordo con ciò porremo
E p
ω= ; k= , (49)
h̄ h̄
o, equivalentemente,
E 1 p
ν= ; = . (50)
h λ h
L’onda associata ad una particella che si propaga (nel vuoto) con energia e impulso as-
segnati ha la struttura di un’onda piana monocromatica con vettore d’onda collineare
all’impulso. Preso l’asse del moto come asse x, la funzione che descrive tale onda o, come
si dice, la funzione d’onda, è:
ψ(x, t) = Aei(kx−ωt). (51)
Tenendo presente la (49) e osservando che l’energia della particella è tutta cinetica, cioè
della forma:
p2
E= , (52)
2m
dove m è la massa della particella, la (51) diventa:
" !#
p p2
ψ(x, t) = A exp i x− t . (53)
h̄ 2mh̄

Una prima osservazione da fare è la seguente. Scritta la (53) nella forma:


  
p p
ψ(x, t) = A exp 2πi x− t , (54)
h 2m
risulta chiaro che la velocità di fase vf (cioè la velocità con cui si spostano i piani equifase)
è:
p v
vf = = , (55)
2m 2
dove v è la velocità della particella. Quindi la velocità di fase dell’onda di de Broglie non
coincide con la velocità della particella. Inoltre siccome al variare di p cambia la lunghezza
d’onda (vedi la (50)), possiamo dire che la velocità di fase dipende dalla lunghezza d’onda.
Ciò è ben diverso da quello che accade per un’onda elettromagnetica che si propaga nel
vuoto, in cui la velocità di fase è c per qualsiasi frequenza, e somiglia invece a ciò che
succede quando un’onda elettromagnetica si propaga in un mezzo dispersivo, in cui l’indice
di rifrazione (e quindi la velocità di fase) cambia con la lunghezza d’onda. In conclusione,
nella propagazione delle onde di de Broglie si ha un fenomeno intrinseco di dispersione.
Un secondo punto da discutere riguarda il significato da dare a ψ. Qui possiamo an-
cora farci guidare dall’analogia col caso elettromagnetico e sfruttare inoltre il principio
d’indeterminazione. Ricordiamo che nel caso ottico l’intensità classica, cioè il modulo

14
quadro della disturbanza V , si può pensare come proporzionale alla d.d.p. per la po-
sizione del punto d’arrivo del fotone. Si può allora supporre che il modulo quadro di
ψ(x, t) sia proporzionale alla d.d.p. per la posizione della particella, in funzione di x e
t. Ora, calcolando il modulo quadro della (51), si ottiene semplicemente la costante |A|2.
Grossolanamente parlando, ad un generico istante la particella ha la stessa probabilità di
trovarsi in un qualunque punto dell’asse x. In altri termini, la (51) non fornisce alcuna
localizzazione per la particella. Ciò è in perfetto accordo col principio d’indeterminazione,
visto che nella (51) si assume che l’impulso sia perfettamente determinato. Nei prossimi
paragrafi ci interesseremo di forme della ψ che possono corrispondere ad una parziale
localizzazione della particella.

8 Il principio di sovrapposizione
Un altro principio della meccanica quantistica che è radicalmente non classico è quello di
sovrapposizione. Per illustrarlo consideriamo una particella libera che può muoversi lungo
l’asse x, il cui stato sia descritto da una funzione d’onda del tipo

ψ(x, t) = A1 ei(k1 x−ω1 t) + A2ei(k2 x−ω2 t). (56)

Fermiamoci un istante a considerare quale sarebbe il significato della (56) in un contesto


classico, se, ad es., ψ fosse la disturbanza associata ad una certa onda luminosa. In tal
caso la (56) ci direbbe solamente che l’onda contiene due componenti monocromatiche
a frequenza diversa (e di conseguenza si avrebbe un fenomeno di battimento). Vediamo
invece il senso da dare alla (56) quando ψ è la funzione d’onda di una particella. Ciascuna
delle due funzioni esponenziali rappresenta, da sola, la funzione d’onda di una particella
con impulso ben definito o, come si dice, un autostato dell’impulso. Nello stato descritto
dalla (56) invece, l’impulso della particella ha simultaneamente, per cosı̀ dire, sia il valore
h/λ1 che il valore h/λ2 . E’ solo al momento in cui si faccia una misura dell’impulso che
la particella “decide se portarsi nello stato in cui l’impulso è h/λ1 oppure in quello in
cui è h/λ2 . Ha luogo il cosiddetto collasso o riduzione della funzione d’onda che passa
dalla forma (56) a quella di uno solo dei due esponenziali, quello corrispondente al valore
dell’impulso fornito dalla misura. A priori non possiamo sapere quale valore risulterà
dalla misura (non lo sa nemmeno la particella). Possiamo però calcolare la probabilità
che esca un valore o l’altro. Si assume infatti che le probabilità d’uscita dei due valori
dell’impulso siano:
|Aj |2
P (p = pj ) = , (j = 1, 2). (57)
|A1|2 + |A2|2
Le quantità:
Aj
cj = q , (j = 1, 2), (58)
|A1|2 + |A2|2

15
prendono il nome di ampiezze di probabilità.
L’esempio visto si estende facilmente alla sovrapposizione di un qualunque insieme
discreto di autostati dell’impulso. Vedremo fra breve l’estensione anche al caso continuo.
Prima di far ciò tuttavia, consideriamo un diverso esempio di sovrapposizione quantistica.
Si abbia un’onda luminosa, per es. un fascio gaussiano, polarizzato linearmente. Ciò
significa che il campo elettrico dell’onda oscilla sempre lungo una fissata direzione, per
es. lungo una retta che forma un angolo ϑ con l’asse x. Il campo elettrico in un generico
punto può essere scomposto come segue

E = A(t) cos ϑ ux + A(t) sin ϑ uy , (59)

dove ux e uy sono i versori degli assi e A(t) è l’ampiezza in funzione del tempo nel punto
considerato. Supponiamo ora di porre sul percorso dell’onda un polarizzatore lineare (per
es. un Polaroid) orientato lungo l’asse x. Tale dispositivo lascia passare la luce se il campo
elettrico è lungo x. Nel caso del campo (59), una componente viene trasmessa e l’altra
assorbita. Ne segue che l’intensità in uscita ha la forma (legge di Malus):

I = I0 cos2 ϑ, (60)

dove I0 è l’intensità in ingresso.


Supponiamo ora che l’intensità in ingresso sia cosı̀ bassa che, nel tempo d’osservazione,
incida sul polarizzatore un solo fotone. Ci si chiede che cosa emerge dal polarizzatore. In
primo luogo va detto che non si è mai osservato che dal polarizzatore esca una frazione
di fotone. Ci sono solo due possibilità: o il fotone viene assorbito o viene trasmesso. Da
che cosa dipende il fatto che si verifichi un evento o l’altro? La risposta della mecca-
nica quantistica è che il fotone è in uno stato di sovrapposizione di due autostati della
polarizzazione, uno lungo x e uno lungo y. La (59) può essere vista come una funzione
d’onda del fotone e i numeri cos ϑ e sin ϑ sono le ampiezze di probabilità associate. Non
possiamo dire in quale dei due autostati si porterà il fotone. Se si porta nell’autostato di
polarizzazione parallelo a x, supera il polarizzatore, altrimenti viene assorbito. Possiamo
però calcolare le probabilità dei due eventi, che sono cos2 ϑ e sin2 ϑ, rispettivamente.
Insistiamo sul fatto che il non poter prevedere il comportamento del fotone (o, come
nell’esempio precedente, della particella) non è dovuto, come sarebbe in un evento aleato-
rio classico, a una nostra ignoranza sullo stato del fotone. La (59) specifica tale stato nel
modo più completo possibile. L’impossibilità di previsione è legata al fatto che, intrinse-
camente, il fotone si trova in una sovrapposizione dei due autostati della polarizzazione
(quello parallelo e quello ortogonale a x). Si ha qui la manifestazione della rinuncia, da
parte della meccanica quantistica, al determinismo (anche solo in linea di principio), cioè
alla capacità di prevedere in modo esatto l’andamento di un fenomeno fisico una volta
note le condizioni iniziali. Il determinismo è, al contrario, una caratteristica essenziale
della fisica classica.

16
9 Equazione di Schrödinger per la particella libera
Riferendoci ancora alla particella libera, chiediamoci come, nel caso più generale, la sua
funzione d’onda possa essere rappresentata come sovrapposizione di autostati dell’impulso.
La risposta è fornita dall’analisi di Fourier. Sia ψ(x, 0) la funzione d’onda della particella
al tempo t = 0. Ammettiamo che essa sia sviluppabile in integrale di Fourier:
Z ∞
ψ(x, 0) = ψ̃(η, 0)e2πiηx dη. (61)
−∞

Se ora sostituiamo la variabile η con p/h otteniamo:


Z    
p∞ p dp
ψ(x, 0) = ψ̃ , 0 exp 2πi x . (62)
−∞ h h h
Il confronto con la (54) presa a t = 0 mostra che la funzione d’onda ψ(x, 0) appare come
la sovrapposizione di tanti (generalmente infiniti) autostati dell’impulso, ognuno con una
diversa ampiezza complessa. Supponiamo, per fissare le idee, che ψ(x, 0) sia sensibilmente
diversa da zero solo in un certo intorno dell’origine. Dato il significato probabilistico di
|ψ|2, questo corrisponde a sapere che la particella si trova in quell’intorno dell’origine.
Secondo il principio di indeterminazione, la parziale localizzazione della particella implica
un’indeterminazione sull’impulso. Tenendo presenti le proprietà generali della trasforma-
ta di Fourier, possiamo dire che tanto più “restringiamo ψ(x, 0), tanto più si “allarga
ψ̃(p/h, 0). Perciò ψ̃(p/h, 0) gioca, nei confronti dell’impulso, lo stesso ruolo che ψ(x, 0)
gioca nei confronti della posizione. E come |ψ(x, 0)|2 si può pensare proporzionale alla
d.d.p. per la posizione, cosı̀ si può pensare che |ψ̃(p/h, 0)|2 sia proporzionale alla d.d.p.
per l’impulso al tempo t = 0. Più in generale si può pensare che |ψ̃(p/h, t)|2 sia pro-
porzionale alla d.d.p. per l’impulso al tempo t. La legge di evoluzione temporale di ψ̃
sarà ricavata tra poco.
Chiediamoci ora come evolve nel tempo la funzione d’onda. Siccome ogni autostato
dell’impulso entro l’integrale (62) evolve nel tempo secondo la (54), per avere la fun-
zione d’onda al tempo t basta aggiungere nell’esponente il termine dipendente dal tempo.
Otteniamo cosı̀:
Z   " !#
∞p p p2 dp
ψ(x, t) = ψ̃ , 0 exp 2πi x− t . (63)
−∞ h h 2mh h

Perciò, per la particella libera, la (63) consente di ricavare la funzione d’onda a qualunque
istante a partire dalla conoscenza della funzione d’onda al tempo t = 0 (più precisamente
utilizzando la sua trasformata di Fourier). Si può osservare che il procedimento seguito
è del tutto analogo a quello utilizzato per risolvere il problema di propagazione tramite
lo sviluppo in onde piane. Quello che là era lo spettro angolare, qui è la funzione ψ̃ e,
analogamente, quello che era il fattore di propagazione dipendente da z diventa qui il
fattore temporale.

17
Possiamo ora servirci della (63) per evidenziare la legge di evoluzione temporale di ψ̃.
Infatti se scriviamo la ψ al tempo t attraverso la sua trasformata di Fourier:
Z ∞    
p p dp
ψ(x, t) = ψ̃ , t exp 2πi x . (64)
−∞ h h h
e confrontiamo questa con la (63), vediamo che deve essere:
    !
p p p2
ψ̃ , t = ψ̃ , 0 exp −πi t . (65)
h h mh

E’ questa la legge di evoluzione temporale per ψ̃ nel caso della particella libera. Si noti
che il modulo di ψ̃ non cambia nel tempo, per cui la d.d.p. per l’impulso rimane sempre
la stessa. Ciò è in accordo con quello che ci aspetteremmo classicamente. Infatti, non
essendoci forze agenti, la velocità della particella non dovrebbe cambiare.
Abbiamo visto che nella propagazione delle onde di de Broglie si ha un fenomeno di
dispersione e che la velocità di fase associata al generico valore p dell’impulso è la metà
della velocità della particella. In presenza di dispersione, accanto alla velocità di fase si
può considerare la cosiddetta velocità di gruppo, che rappresenta la velocità con cui si
sposta il centro di massa del profilo dell’onda. Tale velocità va calcolata con la regola:

vg = , (66)
dk
dove vg indica la velocità di gruppo (per confronto, si noti che la velocità di fase è ω/k).
Usando la (49) troviamo:

dω d(E/h̄) d(p2 /2mh̄) p


vg = = = = , (67)
dk d(p/h̄) d(p/h̄) m

che è proprio la velocità di una particella avente impulso p. Se abbiamo una ψ la cui
trasformata di Fourier sia centrata su p0 , possiamo pensare che, al passare del tempo, il
profilo della ψ trasli lungo l’asse x con velocità p0 /m. Accanto a ciò però si ha anche
una deformazione del profilo, tipicamente un allargamento. Spesso si dice che il profilo si
disperde. Vedremo un esempio in seguito.
Vogliamo ora ricavare l’equazione differenziale cui soddisfa la funzione d’onda. A
questo scopo, derivando due volte la (63) rispetto a x o una volta rispetto al tempo,
otteniamo Z   " !#
∂ 2ψ 1 ∞ 2 p p p2 dp
2
=− 2 p ψ̃ , 0 exp 2πi x− t , (68)
∂x h̄ −∞ h h 2mh h
Z   " !#
∂ψ i ∞ p
2 p p2 dp
=− p ψ̃ , 0 exp 2πi x− t . (69)
∂t 2mh̄ −∞ h h 2mh h

18
Come si vede, gli integrali che compaiono nella (68) e nella (69) sono identici. Perciò,
a meno di un fattore di proporzionalità, le due derivate sono identiche. In altri termini,
vale l’equazione:
h̄2 ∂ 2ψ ∂ψ
− 2
= ih̄ . (70)
2m ∂x ∂t
E’ questa l’equazione di Schrödinger per la particella libera sulla retta. Essa si generalizza
facilmente al caso bi- o tridimensionale:
h̄2 2 ∂ψ
− ∇ ψ = ih̄ , (71)
2m ∂t
dove ∇2 è il laplaciano in due o tre dimensioni.
Si può osservare che, nel caso bidimensionale, la (71) è matematicamente identica
all’equazione d’onda parassiale. Sfrutteremo più oltre tale analogia.

10 Normalizzazione della funzione d’onda


Il fatto di assumere che |ψ|2 sia proporzionale alla d.d.p. per la posizione richiede che, con
opportuna normalizzazione, l’integrale di tale quantità esteso a tutto l’asse x (nel caso
unidimensionale, con ovvie estensioni per quello bi- e tridimensionale) converga a uno. In
altri termini, si può assumere che |ψ|2 dia direttamente la d.d.p. se, moltiplicando ψ per
un opportuno fattore, si impone la condizione:
Z ∞
|ψ(x, t)|2dx = 1, (72)
−∞

o analoga in due o tre dimensioni. Della (72) ci si serve spesso, come vedremo, per
determinare la costante moltiplicativa che generalmente appare in ψ.
Esistono però dei casi in cui la funzione d’onda non è normalizzabile. L’esempio più
ovvio è quello di un singolo autostato dell’impulso, in cui l’integrale che compare nella (72)
diverge, ma lo stesso accade se si ha la sovrapposizione di un insieme discreto di autostati
dell’impulso. In casi di questo genere la condizione di chiusura per la probabilità si impone
agendo direttamente sui coefficienti dei singoli autostati come si è già visto parlando del
principio di sovrapposizione.
Ricordiamo ora che si è supposto che |ψ̃(p/h, t)|2 sia proporzionale alla d.d.p. per
l’impulso. Per determinare il fattore di proporzionalità basta tenere presente il teorema
di Parseval (EO.SU.15) dal quale segue:
Z ∞ Z ∞
2
|ψ(x, t)| dx = |ψ̃(η, t)|2dη = 1. (73)
−∞ −∞

Sostituendo alla variabile η la variabile p/h, dalla (73) segue


Z Z   2
∞ 1 ∞ p
|ψ̃(η, t)|2dη = ψ̃ , t dp = 1. (74)

−∞ h −∞ h

19
Si vede quindi che, indicando con Dp (p) la d.d.p. per l’impulso, risulta:
  2
1 p
Dp (p) = ψ̃ , t , (75)
h h
perché cosı̀ la (74) assicura che Dp (p) sia normalizzata.
In casi bi- o tridimensionali, lo stesso tipo di procedimento seguito per il caso unidi-
mensionale porta (con notazioni ovvie) alle relazioni:
  2   2
1 px py
;
1 px py pz
. (76)
Dpx py (px , py ) = ψ̃ , , t Dpx py pz (px , py , pz ) = ψ̃ , , , t
h2 h h h3 h h h
La conoscenza delle d.d.p. per posizione e impulso permette il calcolo dei valori attesi di
tali grandezze e delle loro funzioni. Limitandoci al caso unidimensionale, i valori attesi di
x e p, da indicare con parentesi acute, saranno, al generico istante t,
Z ∞
hxi(t) = x|ψ(x, t)|2dx, (77)
−∞
Z  
1 ∞ p 2
hpi(t) = p ψ̃ , t dp. (78)
h −∞ h
Più in generale i valori attesi di due funzioni f (x) e g(p) saranno
Z ∞
hf (x)i(t) = f (x)|ψ(x, t)|2dx, (79)
−∞
 
1Z∞ p 2
hg(p)i(t) = g(p) ψ̃ , t dp. (80)
h −∞ h
Nel caso della particella libera, in virtù della (65), i valori attesi di p e g(p) sono in realtà
indipendenti dal tempo. Tuttavia le formule ora scritte hanno validità anche in casi più
generali in cui tale indipendenza dal tempo non sussiste.
Vale la pena di osservare che i valori attesi di cui abbiamo parlato acquistano signi-
ficato, in relazione agli esperimenti, su base statistica. In altri termini, se, per es., la
particella non è in un autostato dell’impulso, il risultato della misura di quest’ultimo non
è prevedibile, ma ripetendo un gran numero di volte la misura (partendo sempre dallo
stesso stato iniziale della particella) si avrà un insieme di risultati la cui media sarà uguale
(approssimativamente) al valore atteso.

11 Grandezze fisiche e operatori


In questo paragrafo introdurremo uno dei punti fondamentali dell’apparato matematico
della meccanica quantistica. Si tratta dell’idea, che verrà poi assunta come postulato,
che ad ogni grandezza fisica, o, come si usa dire, ad ogni osservabile, sia associabile un
operatore matematico. Il ruolo di tale operatore sarà chiarito strada facendo.

20
Per capire come questa idea possa essere suggerita già dalle cose che abbiamo visto,
riprendiamo in considerazione il calcolo del valore atteso (o valor medio) dell’impulso.
Sappiamo (vedi la (78)) che tale valore atteso è
Z   2
1 ∞ p
hpi(t) =
p ψ̃ , t dp. (81)
h −∞ h
Ci chiediamo come si può calcolare hpi lavorando nel dominio della variabile x anziché
in quello della p. La risposta è che basta usare le proprietà delle trasformate di Fourier.
Scriviamo intanto la (81) nella forma
Z ∞       Z ∞
∗ p p p p
hpi = h ψ̃ ψ̃ d =h ψ̃ ∗(η)η ψ̃(η)dη, (82)
−∞ h h h h −∞

dove, per brevità, abbiamo omesso di indicare la dipendenza dal tempo. Leggiamo l’in-
tegrando come prodotto fra ψ̃ ∗(η) e η ψ̃(η) e ricordiamo il teorema del prodotto scalare
(EO.SU.15) secondo il quale, date due funzioni f (x) e g(x), con trasformate f˜(η) e g̃(η),
vale l’uguaglianza Z ∞ Z ∞
f˜∗ (η)g̃(η)dη = f ∗ (x)g(x)dx. (83)
−∞ −∞

Dal teorema della derivata (EO.SU.15) segue inoltre


Z ∞
i dψ
− = η ψ̃(η)dη. (84)
2π dx −∞

Perciò la (82) può scriversi


Z ∞ d
hpi = −ih̄ ψ ∗(x) ψ(x)dx. (85)
−∞ dx
Questa espressione suggerisce che alla grandezza fisica impulso p sia associato un operatore
di derivazione rispetto a x. Indicheremo gli operatori con un accento circonflesso. Cosı̀,
all’impulso p associamo l’operatore p̂ che, nel dominio delle x, è rappresentato da
d
p̂ = −ih̄ . (86)
dx
Il valor medio di p, secondo la (85), è dato da
Z ∞
hpi = ψ ∗(x)p̂ψ(x)dx. (87)
−∞

Più in generale, possiamo pensare che se ad una grandezza fisica A è associato l’operatore
Â, il valore atteso di A sia Z ∞
hAi = ψ ∗(x)Âψ(x)dx. (88)
−∞

21
Notiamo che, nel dominio delle x, l’operatore x̂ associato alla posizione si riduce alla
moltiplicazione per x
x̂ = x. (89)
Infatti, inserendo la (89) nella (88) otteniamo
Z ∞
hxi = ψ ∗(x)xψ(x)dx, (90)
−∞

che coincide con la (77).


Vediamo ora un altro ruolo degli operatori associati alle grandezze fisiche. Ci chiedi-
amo se, fissato uno di questi operatori, esistono delle funzioni d’onda che, sotto l’azione
dell’operatore, rimangano invariate a meno di una costante moltiplicativa. Con riferimen-
to al generico operatore Â, scriviamo l’equazione corrispondente alla condizione appena
enunciata
Âψ(x) = aψ(x), (91)
dove a è un numero. Ripetiamo il significato della (91). Si cercano le funzioni d’onda
ψ che, sotto l’azione dell’operatore Â, si riproducono, venendo solo moltiplicate per il
numero a.
Per capire il significato di tutto ciò, consideriamo l’impulso. Riferiamoci ad un fissato
istante, per es. t = 0, e supponiamo che  coincida con l’operatore p̂ dato dalla (86). La
(91) diventa allora
d
−ih̄ ψ(x) = aψ(x). (92)
dx
Questa equazione differenziale del prim’ordine si integra immediatamente per separazione
delle variabili e fornisce  
a
ψ(x) = C exp 2πi x , (93)
h
dove C è costante rispetto a x. Confrontando la (93) con la (53) scritta per t = 0, vediamo
che le soluzioni non sono altro che le funzioni d’onda degli stati in cui l’impulso è ben
definito e, precisamente, ha il valore a.
In forma generale, si può assumere che la (91) individui gli stati in cui la grandezza
fisica A ha valore ben definito, o, come si dice, gli autostati di A. Nel generico di essi, il
valore di A è a. Quest’ultimo prende il nome di autovalore associato all’autostato e si dice
che la funzione d’onda che soddisfa la (91) è un’autofunzione della grandezza A (o anche
dell’operatore corrispondente Â). Un’equazione del tipo (91) viene detta un’equazione
agli autovalori.
Chiediamoci come tutto ciò si applichi alla grandezza posizione, cioè alla x. In base
alla (89), la (91) diventa
xψ(x) = aψ(x). (94)
E’ evidente che non esiste alcuna funzione ordinaria che, moltiplicata per x, si mantenga
uguale a sé stessa a meno di una costante moltiplicativa. Se però includiamo fra le forme

22
possibili anche le delta di Dirac, la (94) ammette soluzioni del tipo δ(x − a). Infatti, per
le proprietà della delta (EO.SU.3.13), l’equazione

xδ(x − a) = aδ(x − a), (95)

è soddisfatta. Il significato fisico della (95) è intuitivamente chiaro: se la posizione della


particella è ben definita e la x corrispondente vale a, l’autofunzione della posizione è
necessariamente una delta centrata su x = a.
Si può osservare che una generica funzione d’onda ψ(x) è rappresentabile come una
sovrapposizione di autofunzioni della posizione. Infatti, per le proprietà della delta, si
può scrivere Z ∞
ψ(x) = ψ(a)δ(x − a)da. (96)
−∞

Perciò la ψ si presenta come la somma di una sequenza continua di delta. La generica


delta centrata su a ha ampiezza ψ(a)da.
Per vedere un altro esempio, cerchiamo ora gli autostati della grandezza fisica energia
per la particella libera, cioè dell’energia cinetica. Per prima cosa dobbiamo costruire
l’operatore corrispondente all’energia cinetica, chiamiamola Ec . Essendo classicamente

p2
Ec = , (97)
2m
dove m è la massa della particella, prenderemo come operatore associato ad Ec il seguente

p̂2
Êc = , (98)
2m
dove il quadrato dell’operatore p̂ significa p̂ applicato due volte di seguito. Tenendo
presente la (86) otteniamo allora

h̄2 d2
Êc = − . (99)
2m dx2
Inseriamo ora la (99) nella (91). Ciò fornisce

h̄2 d2
− ψ(x) = aψ(x). (100)
2m dx2
Poiché a in questo caso deve essere positivo (visto che deve dare il valore numerico di
un’energia cinetica), la (100) ha la forma dell’equazione dell’oscillatore armonico classico.
Ne segue che le autofunzioni hanno la forma
√ ! √ !
2ma 2ma
ψ(x) = C1 exp 2πi x + C2 exp −2πi x , (101)
h h

23
dove C1 e C2 sono costanti arbitrarie. Come si vede, in generale, cioè se C1 e C2 sono
entrambi diversi da zero, un autostato dell’energia cinetica è la sovrapposizione
√ di due
autostati dell’impulso nei quali l’impulso ha valori uguali in modulo (p = 2ma) e segno
opposto. Ciò dipende dal fatto che l’energia cinetica dipende dal quadrato dell’impulso.
L’autovalore dell’energia è a = p2 /(2m). Si noti che uno stato del tipo (101) è autostato
dell’energia ma non dell’impulso, a meno che una delle due costanti C1 , C2 non si annulli.
Veniamo ora ad un postulato di base della meccanica quantistica. Consideriamo una
certa grandezza A, cui è associato un operatore Â. Può succedere che la particella si trovi
in un autostato di  e in questo caso la grandezza A ha il valore numerico dell’autovalore
associato all’autostato. Se ciò non accade, la particella si troverà in una sovrapposizione
di autostati di Â, ognuno dei quali avrà una certa ampiezza. Supponiamo ora di misurare
la grandezza A. Il postulato è che, all’atto della misura, la particella si porti in uno degli
autostati di  (collasso della funzione d’onda) e che il risultato numerico della misura
coincida con l’autovalore associato a quell’autostato. A priori non sappiamo in quale
degli autostati si porterà la particella (in termini antropomorfici, non lo sa nemmeno lei).
Possiamo però valutare la probabilità che si porti in un certo autostato. Essa è data
dal quadrato del modulo dell’ampiezza con cui quello stato compare nell’espressione della
funzione d’onda (supponendo di aver fatto le necessarie normalizzazioni).
L’estensione a casi bi- o tridimensionali di quanto visto per casi unidimensionali è
abbastanza immediata. Ad es., se consideriamo l’impulso di una particella nello spazio,
gli operatori associati alle tre componenti cartesiane saranno
∂ ∂ ∂
p̂x = −ih̄ , p̂y = −ih̄ , p̂z = −ih̄ . (102)
∂x ∂y ∂z
Più sinteticamente, possiamo scrivere l’operatore corrispondente al vettore impulso p
come
p̂ = −ih̄∇. (103)
Gli operatori associati alle coordinate y e z coincidono, analogamente a quanto accade
per la x, con la moltiplicazione per y e z.
Come ultimo esempio, esaminiamo la grandezza fisica momento angolare. Per una
particella con vettore di posizione r e impulso p, essa è definita da
L = r × p. (104)
Riservandoci di tornare sull’argomento in modo più completo, ci limitiamo ora a consid-
erare una componente di L, quella lungo z, che vale
Lz = xpy − ypx . (105)
Per trovare l’operatore associato basta sostituire le grandezze classiche a secondo membro
con gli operatori corrispondenti. Si ottiene cosı̀ (vedi la (102))
!
∂ ∂
L̂z = −ih̄ x −y . (106)
∂y ∂x

24
Mostriamo ora che tale operatore non esprime altro che una derivazione angolare. Scrivi-
amo per questo il legame fra coordinate cartesiane (x, y, z) e sferiche (r, θ, ϕ) di un generico
punto
x = r sin θ cos ϕ; y = r sin θ sin ϕ; z = r cos θ. (107)
Osserviamo ora che la derivata rispetto a ϕ può farsi come segue
∂ ∂ ∂x ∂ ∂y
= + . (108)
∂ϕ ∂x ∂ϕ ∂y ∂ϕ
Tenendo conto delle (107), la (108) diventa
∂ ∂ ∂
=− y+ x, (109)
∂ϕ ∂x ∂y
e il secondo membro, a meno del fattore −ih̄, coincide con quello della (106). In conclu-
sione possiamo scrivere

L̂z = −ih̄ . (110)
∂ϕ
La corrispondente equazione agli autovalori, che si scrive
∂ψ
−ih̄ = aψ, (111)
∂ϕ
si integra immediatamente per dare
ψ(r, θ, ϕ) = G(r, ϑ)eiaϕ/h̄, (112)
dove G è una funzione arbitraria di r e ϑ e dove a è una costante. La condizione che tale
autofunzione sia a un sol valore e quindi si riproduca passando dal generico ϕ a ϕ + 2π,
richiede che sia
a = mh̄; (m = 0, ±1, ±2, . . .), (113)
per cui le autofunzioni sono
ψ(r, ϑ, ϕ) = G(r, ϑ)eimϕ; (m = 0, ±1, ±2, . . .). (114)
Il significato delle (113), (114) è che, se la funzione d’onda dipende da ϕ attraverso la
funzione esponenziale exp(imϕ), allora, quale che sia la dipendenza da r e ϑ, la particella
si trova in un autostato di L̂z e il valore di quest’ultimo è mh̄. Questo risultato è asso-
lutamente paradossale dal punto di vista classico. Siccome gli autovalori dell’operatore
associato ad un’osservabile rappresentano i possibili risultati di una misura dell’osserv-
abile stessa, la (113) implica che misurando Lz non si può trovare altro che un multiplo
intero di h̄. La cosa risulta ancora più paradossale se si tiene conto del fatto che l’asse z
può essere scelto ad arbitrio. In altri termini, se scegliamo una retta comunque orientata
e misuriamo la proiezione di L su di essa, troveremo sempre un multiplo intero di h̄. Si ha
dunque la quantizzazione di un’altra grandezza che, secondo la fisica classica, può variare
con continuità.

25
12 Commutatori
Consideriamo due operatori  e B̂ associati a due diverse grandezze fisiche A e B e
prendiamo il loro prodotto ÂB̂. Quest’ultimo è l’operatore che consiste nell’applicare
prima B̂ alla generica funzione d’onda e poi  alla funzione risultante. In generale,
l’ordine in cui si scrivono gli operatori nel prodotto non può essere invertito. In altri
termini, l’operatore ÂB̂ e l’operatore B̂ Â producono un diverso effetto. Per convincerci
di ciò, consideriamo il caso in cui l’operatore  è la moltiplicazione per x e quello B̂ è
la derivazione rispetto a x. Data una generica funzione f (x), l’effetto dell’applicazione di
ÂB̂ a f è
ÂB̂f (x) = xf 0(x), (115)
avendo indicato con un apice la derivata prima. Se invece applichiamo a f (x) l’operatore
B̂ Â, otteniamo
d
B̂ Âf(x) = [xf (x)] = f (x) + xf 0(x). (116)
dx
Come si vede, ÂB̂ e B̂ Â sono diversi.
Quando due operatori  e B̂ sono tali che ÂB̂ = B̂ Â, si dice che essi commutano,
mentre si dice che non commutano se (come nell’esempio appena visto) ÂB̂ 6= B̂ Â. Per
rendere conto della situazione, si introduce una grandezza, detta commutatore di  e B̂
(e che a sua volta è un operatore) indicata e definita come segue
h i
Â, B̂ = ÂB̂ − B̂ Â. (117)

Perciò, i due operatori commutano o non commutano a seconda che il loro commutatore
sia nullo o diverso da zero.
Come esempio, consideriamo il commutatore di x e di d/dx. Sottraendo la (116) dalla
(115), abbiamo " #
d
x, f (x) = −f (x), (118)
dx
da cui segue " #
d
x, = −1. (119)
dx
Ricordando la (86) e la (89), vediamo che dalla (119) segue che l’operatore di posizione x̂
e quello d’impulso p̂ non commutano e che il loro commutatore vale

[x̂, p̂] = ih̄. (120)

Nel caso tridimensionale, analoghe relazioni di commutazione valgono tra y e p̂y e per
z e p̂z . Si osservi peraltro che x, mentre non commuta con p̂x , commuta con p̂y e p̂z .
Analogamente per y e z.

26
Prima di soffermarci sul significato fisico della commutabilità o meno di due opera-
tori, vediamo un altro esempio unidimensionale. Abbiamo visto nel paragrafo precedente
l’espressione (98) dell’operatore associato all’energia cinetica. Usiamo tale espressione,
assieme alla (86), per calcolare il commutatore di p̂ e Êc
! ! ! !
h i d h̄2 d2 h̄2 d2 d
p̂, Êc = −ih̄ − − − −ih̄ = 0, (121)
dx 2m dx2 2m dx2 dx
l’uguaglianza a zero essendo dovuta al fatto che entrambi i termini della differenza si
riducono, a meno di una costante moltiplicativa comune, alla derivata terza rispetto a x.
Veniamo ora al significato fisico della commutabilità o meno di due operatori. Il fatto
che due operatori commutino indica, come si potrebbe dimostrare, che possono esistere
delle funzioni d’onda che sono autofunzioni sia del primo che del secondo operatore. Limi-
tiamoci a vedere la cosa su un esempio, considerando un autostato dell’impulso, del tipo
exp(2πipx/h). Sappiamo che, agendo su tale funzione con p̂, si ottiene la funzione stessa
moltiplicata per il numero p. Analogamente, se agiamo su di essa con Êc , otteniamo
la funzione stessa moltiplicata per il numero p2 /(2m). Perciò exp(2πipx/h) è autofun-
zione sia di p̂ che di Êc . Fisicamente, ciò corrisponde al fatto che nello stato descritto da
exp(2πipx/h) è ben definito l’impulso ed è ben definita l’energia cinetica. (Si faccia atten-
zione però al fatto che, mentre un autostato dell’impulso è anche autostato dell’energia
cinetica, il viceversa non è necessariamente vero, come si è visto alla fine del paragrafo
precedente).
La non commutabilità di due operatori implica invece che non possono esistere stati
che siano contemporaneamente autostati di entrambi gli operatori. Ad es., abbiamo visto
che x̂ e p̂ non commutano. Dunque non può esistere uno stato che risulti autostato sia
della posizione che dell’impulso. Ciò è in accordo col principio d’indeterminazione.

13 Indeterminazioni
Abbiamo usato in precedenza il concetto di indeterminazione di un’osservabile parlando
dell’omonimo principio. Vediamo ora come possano essere definite le indeterminazioni,
facendo riferimento alla posizione e all’impulso.
Cominciando dalla posizione, osserviamo che l’ipotesi che |ψ(x, t)|2 dia la d.d.p. per
la posizione al tempo t, permette di calcolare il valore atteso di x e, più in generale,
di tutti i momenti (che possono variare nel tempo). Si prende allora come misura del-
l’indeterminazione ∆x sulla posizione (relativamente alla x) la deviazione standard. Più
esplicitamente, abbiamo:
Z ∞
[∆x(t)]2 = [x − hxi(t)]2|ψ(x, t)|2dx, (122)
−∞

dove Z ∞
hxi(t) = x|ψ(x, t)|2dx. (123)
−∞

27
In modo analogo si definisce l’indeterminazione ∆p sull’impulso:
Z   2
1 ∞ p
2
[∆p(t)] = [p − hpi(t)] 2 ψ̃ , t dp, (124)

h −∞ h
dove: Z  
1 ∞ p 2
hpi(t) = p ψ̃ , t dp. (125)
h −∞ h
Si può dimostrare (EO.SU.17) che la relazione d’indeterminazione (46) che qui ripetiamo:

∆x∆p ≥ h̄/2, (126)

segue dalle proprietà delle trasformate di Fourier. E’ opportuno fare un commento. Il


fatto che la (126) derivi matematicamente dalle proprietà delle trasformate di Fourier,
non significa che abbiamo “dimostrato il principio d’indeterminazione. E’ vero invece
che, dovendo valere il principio d’indeterminazione, si costruisce la teoria in modo che
essa rispetti tale principio. In sostanza, è per questo che, una volta associata a |ψ|2 la
d.d.p. per la posizione, si prende |ψ̃|2 come proporzionale alla d.d.p. per l’impulso.
Si dimostra poi (EO.SU.17) che la (126) viene verificata per uguaglianza solo se ψ
ha, a meno di un eventuale costante moltiplicativa complessa, forma gaussiana. Il pro-
filo gaussiano per la funzione d’onda è dunque quello che minimizza il prodotto delle
indeterminazioni simultanee su x e p.
Relazioni d’indeterminazione analoghe alla (126) si trovano per ogni coppia di osserv-
abili che non commutano.

14 Equazione di Schrödinger in presenza di forze


Abbiamo già visto come si può giustificare l’equazione di Schrödinger per la particella
libera, cioè non soggetta a forze. Vogliamo ora vedere come l’equazione possa essere
estesa al caso in cui sulla particella agiscano delle forze.
Cominciamo dal caso unidimensionale e osserviamo che, in virtù dell’espressione (98)
dell’operatore associato all’energia cinetica, la (70) può scriversi
∂ψ
Êc ψ = ih̄ . (127)
∂t
Ora, per la particella libera, l’energia cinetica coincide con l’energia meccanica totale. Se
è presente una forza, derivante da un potenziale U (x), l’energia meccanica sarà la somma
di quella cinetica e di quella potenziale. Si può allora pensare che l’equazione da usare in
questo caso sia uguale alla (127) salvo per il fatto di porre a primo membro l’operatore
corrispondente all’energia totale. Si postula perciò che la (127) vada sostituita dalla
h i ∂ψ
Êc + Û (x) ψ = ih̄ , (128)
∂t

28
dove Û (x) è l’operatore associato all’energia potenziale U (x). Si tratta ora di capire
qual è la forma di Û (x). La risposta è semplice. Infatti abbiamo visto che l’operatore x̂
associato alla x coincide con la moltiplicazione per x stesso. Analogamente l’operatore
associato a x2, x3 ,... (cioè l’operatore che consiste nell’applicare successivamente x̂ due,
tre,... volte) sarà la moltiplicazione per x2, x3,... Ora, supponendo che U (x) sia una
funzione sufficientemente regolare, potremo sviluppare l’energia potenziale in una somma
o in una serie di potenze di x. Si pensi, per degli esempi semplicissimi, ai casi di una forza
costante F , in cui l’energia potenziale è −F x o di una forza elastica di costante K in cui
l’energia è Kx2/2. L’operatore Û (x) sarà la somma o la serie degli operatori associati
alle potenze di x. Siccome questi ultimi coincidono con le potenze stesse, si conclude
che l’operatore Û (x) non è altro che la moltiplicazione per U (x). Perciò l’equazione di
Schrödinger (128) si scrive
h̄2 ∂ 2ψ ∂ψ
− 2
+ U (x)ψ(x) = ih̄ . (129)
2m ∂x ∂t
L’estensione al caso bi- o tridimensionale segue argomentazioni simili e dà:
h̄2 2 ∂ψ
− ∇ ψ + U ψ = ih̄ . (130)
2m ∂t
Va osservato che le forze che abbiamo considerato sono conservative, cioè derivabili da un
potenziale U . Resta perciò escluso il caso, peraltro importante, della forza di Lorentz.
In meccanica classica, esistono formulazioni alternative a quella di Newton. In parti-
colare, esiste una formulazione dovuta a Hamilton e basata sull’uso di una funzione, detta
Hamiltoniana, che nella maggior parte dei casi d’interesse coincide con l’energia. A tale
grandezza classica può essere associato un operatore Ĥ (chiamato brevemente Hamiltoni-
ano o ancora Hamiltoniana), che per forze conservative coincide con quello agente a primo
membro della (130), vale a dire
h̄2 2
Ĥ = − ∇ + U, (131)
2m
per cui l’equazione di Schrödinger in presenza di forze conservative si sintetizza come
∂ψ
Ĥψ = ih̄ . (132)
∂t
Si assume che questa forma dell’equazione di Schrödinger valga in generale, quale che sia
la forma dell’Hamiltoniana. In particolare, si può cosı̀ rendere conto anche della forza di
Lorentz che agisca su una particella di carica e. In tal caso si può mostrare che l’operatore
associato all’Hamiltoniana ha l’espressione
!2
1 X ∂
Ĥ = −ih̄ − eAα + U, (133)
2m α=x,y,z ∂α
dove le Aα sono le componenti del potenziale vettore.
Si noti che la (132) regola l’evoluzione temporale della funzione d’onda.

29
15 Stati stazionari
Tra le soluzioni dell’equazione di Schrödinger, hanno particolare interesse quelle che
assumono la forma:
ψ(r, t) = u(r)e−iωt , (134)
dove r è il vettore di posizione, cioè le soluzioni che fattorizzano nel prodotto di una
funzione u dipendente dalle sole coordinate spaziali e di un esponenziale (del tipo di
un’onda monocromatica) dipendente dal tempo. E’ evidente che in questi stati la |ψ|2
non dipende dal tempo e per questo motivo essi vengono detti stazionari. Inserendo la
(134) nella (132) otteniamo
h i
Ĥ u(r)e−iωt = e−iωt Ĥu(r) = ih̄(−iω)u(r)e−iωt, (135)
ovvero
Ĥu(r) = (h̄ω)u(r) = Eu(r), (136)
avendo posto h̄ω = E. Perciò gli stati (134) non sono altro che gli autostati dell’energia.
Se, limitandoci a forze conservative, inseriamo la (134) nella (130) e scriviamo ω come
E/h̄, otteniamo che la parte spaziale u(r) soddisfa l’equazione:
2m
∇2 u + [E − U (r)]u = 0, (137)
h̄2
nota come equazione di Schrödinger per gli stati stazionari o per gli autostati dell’energia.
Le soluzioni di questa equazione agli autovalori, per ogni fissata forma di U , vengono
dette autofunzioni dell’energia e i corrispondenti valori di E vengono detti autovalori
dell’energia.
Abbiamo già notato che, in uno stato stazionario, la d.d.p. per la posizione non cambia
nel tempo. Dato che ψ (espressa dalla (134)) dipende dal tempo solo attraverso un fattore
esponenziale, mentre la dipendenza spaziale rimane invariata, anche la ψ̃ (che si ottiene
trasformando alla Fourier rispetto alle coordinate spaziali) avrà modulo indipendente dal
tempo e lo stesso sarà per la densità di probabilità per l’impulso.
Nella maggior parte dei casi, le autofunzioni dell’energia formano un insieme dis-
creto. Riferendoci al caso unidimensionale, queste autofunzioni verranno indicate con
u0 (x), u1(x), .... e gli autovalori associati con E0 , E1, ... (a volte conviene far partire l’indice
minimo da uno invece che da zero). Si può dimostrare che tali autofunzioni sono mutua-
mente ortogonali, cioè che il prodotto scalare fra autofunzioni distinte si annulla
Z ∞
u∗n (x)um(x)dx = 0, (138)
−∞

se n 6= m. Teniamo poi conto del fatto che un’autofunzione della (137) rimane tale se
la si moltiplica per una costante. Si può approfittare di ciò per normalizzare a uno ogni
autofunzione, cioè per fare in modo che valgano le relazioni
Z ∞
|un (x)|2dx = 1, (139)
−∞

30
per ogni valore di n. Le (138) e (139) si possono sintetizzare nell’unica relazione
Z ∞
u∗n (x)um(x)dx = δnm , (140)
−∞

dove δnm è il simbolo di Kronecker, che vale uno se n = m e zero se n 6= m.


Nel caso della particella libera la situazione è un po’ diversa in quanto le autofunzioni
dell’energia formano un continuo. Abbiamo già visto questo risultato nella (101), ma,
a titolo di controllo, ricaviamolo dalla (137) ponendo in essa U = 0 e riferendoci per
semplicità al caso unidimensionale. La (137) può allora scriversi

d2 u
+ k 2u = 0, (141)
dx2
avendo posto
2mE
k2 =
. (142)
h̄2
La (141) ha la forma di un’equazione di Helmholtz per cui le autofunzioni sono

u(x) = C1eikx + C2 e−ikx , (143)

dove C1 e C2 sono costanti arbitrarie. Queste soluzioni sono del tipo già trovato nella
(101). Come nel caso discreto, due autofunzioni corrispondenti a valori distinti di E hanno
prodotto scalare nullo. E’ facile controllare ciò in base all’ortogonalità delle funzioni del
tipo exp(ikx), per le quali si ha
Z !

−ikx ik 0 x k − k0
e e dx = δ , (144)
−∞ 2π

avendo sfruttato la rappresentazione integrale della delta. E’ poi evidente che le (143)
non sono normalizzabili.

16 Sviluppi in autostati dell’energia


Se la funzione d’onda non coincide con una delle autofunzioni dell’energia, quest’ultima
non ha un valore definito e la particella si trova in uno stato di sovrapposizione. Secondo
un postulato già visto, misurando l’energia, ha luogo il collasso della funzione d’onda.
La particella si porta in uno dei possibili autostati e il risultato della misura coincide
necessariamente con uno degli autovalori dell’energia. Per calcolare la probabilità che
si ottenga un generico autovalore, occorre conoscere la relativa ampiezza di probabilità.
In altri termini, occorre conoscere i coefficienti dello sviluppo della funzione d’onda in
autofunzioni dell’energia. Si assume a livello generale (e nella maggior parte dei casi si

31
può dimostrare) che il sistema delle autofunzioni sia completo, cioè che qualunque funzione
d’onda sia sviluppabile in una serie di tali autofunzioni.
Consideriamo la funzione d’onda al tempo t = 0 e sviluppiamola in autofunzioni
dell’energia

X
ψ(x, 0) = cn un (x). (145)
n=0

Per calcolare i coefficienti dello sviluppo, moltiplichiamo membro a membro per la generica
autofunzione u∗m (x) e integriamo su tutte le x
Z ∞ ∞
X Z ∞
ψ(x, 0)u∗m(x)dx = cn un (x)u∗m(x)dx, (146)
−∞ n=0 −∞

avendo scambiato a secondo membro la serie con l’integrale e avendo preso l’intero asse
x come dominio d’integrazione. Se le autofunzioni fossero diverse da zero solo su un
supporto finito, l’intervallo effettivo d’integrazione coinciderebbe automaticamente con
tale supporto. In virtù della (140), tutti gli integrali a secondo membro sono nulli, tranne
l’m-esimo che vale uno. Pertanto la (146) fornisce la seguente regola per il calcolo dei
coefficienti Z ∞
cm = ψ(x, 0)u∗m(x)dx. (147)
−∞

Una volta noti i coefficienti, la probabilità che la misura porti all’n-esimo autovalore è
semplicemente |cn |2. Si noti che deve perciò valere l’uguaglianza

X
|cn |2 = 1. (148)
n=0

E’ facile vedere che tale uguaglianza segue dalla normalizzazione della funzione d’onda.
Infatti si ha
Z ∞ Z ∞ X ∞
∞ X Z ∞ ∞
X
2 ∗
1= |ψ| dx = ψ ψdx = c∗n cm u∗n um dx = |cn |2 , (149)
−∞ −∞ n=0 m=0 −∞ n=0

avendo sfruttato la (140).


Chiediamoci ora come lo stato della particella evolve nel tempo. L’n-esima autofun-
zione, corrispondente all’autovalore En dell’energia, cambia nel tempo come exp(−iEnt/h̄).
Perciò la funzione d’onda al generico tempo t 6= 0 si otterrà da quella al tempo t = 0
moltiplicando ogni autofunzione per l’appropriato fattore temporale. In formule

X
ψ(x, t) = cn un (x) exp(−iEn t/h̄). (150)
n=0

I coefficienti dello sviluppo in serie, che erano cn per t = 0, sono diventati cn exp(−iEn t/h̄).
La struttura della funzione d’onda cambia perciò nel tempo e lo stesso accade per la d.d.p.

32
per la posizione |ψ|2. Tuttavia il modulo dei cn non cambia, per cui la probabilità di
ottenere un generico autovalore dell’energia è costante nel tempo.
Consideriamo ora il calcolo del valore atteso dell’energia. Secondo la (88) esso va
calcolato come
Z ∞ X ∞
∞ X Z ∞ ∞
X

hEi = ψ Ĥψdx = c∗n cm u∗n Em um dx = Em |cm |2, (151)
−∞ n=0 m=0 −∞ m=0

avendo tenuto conto del fatto che Ĥum = Em um e avendo usato la (140). La (151)
giustifica la (88), in quanto esprime il valore atteso nel modo usuale per una variabile
aleatoria (discreta), cioè come somma dei prodotti dei valori possibili per le rispettive
probabilità. In modo analogo si potrebbe giustificare la (88) per un generico operatore.

17 Rappresentazioni
Nello schema quantistico, si assume che la funzione d’onda ψ rappresenti l’informazione
completa che possiamo avere sullo stato della particella. Ciò implica che certe grandezze
classiche relative alla particella possono non essere determinate. Per es., in virtù del prin-
cipio d’indeterminazione, se la particella è in un autostato dell’impulso non possiamo dire
nulla circa la sua posizione (e, viceversa, se è nota la posizione è totalmente indeterminato
l’impulso). Come già detto, non si tratta di un’incompletezza della nostra descrizione ma
di indeterminazioni intrinseche. Più in generale, le nostre previsioni saranno di tipo prob-
abilistico, e comunque saranno desunte dalla funzione d’onda. Quest’ultima è pensata
come la grandezza che, entro i limiti quantistici, individua completamente lo stato in cui
si trova la particella.
E’ utile pensare che lo stato della particella sia associato ad un ente più astratto, detto
vettore di stato, che trova una sua possibile rappresentazione nella funzione d’onda ψ, un
po’ come un vettore v dello spazio ordinario può essere rappresentato dalle sue compo-
nenti cartesiane vx , vy e vz rispetto ad un certo sistema di riferimento. E allo stesso modo
in cui per un vettore ordinario cambia la terna delle componenti se si cambia il sistema
di riferimento, si può pensare che il vettore di stato possa avere diverse rappresentazioni.
Noi conosciamo già delle alternative. La scelta iniziale è stata quella di riferirci alla ψ,
ma va altrettanto bene se specifichiamo la ψ̃, oppure l’insieme dei coefficienti {cn } dello
sviluppo in serie in autofunzioni dell’energia. Il tipo di rappresentazione che si sceglie
dipende dalla grandezza a cui siamo più direttamente interessati. Cosı̀, se si fissa l’atten-
zione sulla posizione, è spontaneo usare la cosiddetta rappresentazione delle coordinate,
cioè riferirsi alla ψ. Se si è principalmente interessati all’impulso, si userà invece la rappre-
sentazione degli impulsi, in cui la descrizione dello stato viene fatta tramite la ψ̃. Ancora,
se la grandezza cui siamo maggiormente interessati è l’energia, sarà utile usare la rap-
presentazione dell’energia, in cui lo stato della particella è individuato dall’insieme dei
coefficienti {cn }.

33
E’ il caso di osservare che il tipo di rappresentazione scelta si ripercuote sull’espressione
degli operatori. Per rendercene conto, riprendiamo le espressioni già stabilite per gli
operatori x̂ e p̂, date dalle (89) e (86)
d
x̂ = x; p̂ = −ih̄ . (152)
dx
Queste espressioni valgono quando gli operatori devono agire sulla ψ(x). Ci chiediamo
come dobbiamo modificarle se siamo nella rappresentazione degli impulsi, cioè se gli op-
eratori debbono agire su ψ̃(p/h). In base ai noti teoremi per la trasformata di Fourier,
moltiplicare per x in un dominio equivale a fare la derivata nell’altro (moltiplicata per
un’opportuna costante) e, viceversa, derivare nel dominio delle x equivale, nell’altro do-
minio, a moltiplicare per la variabile coniugata (salvo una costante moltiplicativa). Ra-
gionando in questo modo si arriva alle seguenti espressioni per gli operatori x̂ e p̂ nella
rappresentazione degli impulsi
d
x̂ = ih̄ ; p̂ = p. (153)
dp

18 Appendice. Cenno sulla statistica di Boltzmann


In questa appendice vogliamo dare una breve derivazione della statistica di Boltzmann.
Supponiamo di avere una mole di gas perfetto monoatomico in equilibrio termodinami-
co ad una certa temperatura assoluta T . La termodinamica insegna che il gas possiede
un’energia U = 3RT/2, dove R è la costante dei gas, che è di tipo cinetico. Ci chiediamo
come tale energia sia divisa fra le particelle del gas. Lo stato microscopico del gas ad un
certo istante è definito dall’insieme delle posizioni e delle velocità delle singole particelle.
Si osservi che le energie (cinetiche) delle singole particelle possono assumere un continuo
di valori (fra 0 e ∞). Tuttavia, per affrontare il problema possiamo partire da una schema-
tizzazione di tipo discreto. Pensiamo che siano possibili M stati distinti ed equiprobabili
con energie Ei (i = 1, 2, · · · , M), in cui alcune delle Ei possono anche coincidere. Siccome
le particelle si urtano, si avrà un continuo rimescolamento della situazione. Tuttavia me-
diamente si avranno n1 particelle con energia E1, n2 con energia E2 e cosı̀ via. I valori di
n1 , n2 , · · · dovranno rispettare due vincoli. Primo, che la loro somma dia il numero totale
delle particelle NA (numero di Avogadro). Secondo, che la somma delle energie di tutte
le particelle dia U . In simboli
M
X M
X
ni = NA ; ni Ei = U (154)
i=1 i=1

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I vincoli detti non sono sufficienti a determinare l’insieme delle ni . Tanto per fare un
esempio, se ci sono tre livelli con energie 1, 2, 3 (in unità arbitrarie) e otto particelle, tutti
gli schemi di occupazione della figura sottostante soddisfano le (154)
    

 3  3◦
  3 ◦◦
  3 ◦ ◦◦ 
  3 ◦◦◦◦
2 ◦◦◦◦◦◦◦◦ 2 ◦◦◦◦◦◦ 2 ◦◦◦◦ 2 ◦◦ 2 (155)

 
 
 
 

1 1◦ 1 ◦◦ 1 ◦ ◦◦ 1 ◦◦◦◦
Il primo schema può essere realizzato solo in un modo, cioè ponendo tutte le particelle al
livello 2. Per realizzare il secondo dobbiamo scegliere una fra le otto particelle e metterla
al livello 1, il che può farsi in 8 maniere, e fra le sette residue sceglierne una da porre
al livello 3, il che potrà farsi in 7 modi. Perciò il secondo schema può realizzarsi in 56
modi. Senza procedere al calcolo del numero di modi in cui possono realizzarsi gli altri
schemi, calcolo che svilupperemo in forma generale fra un istante, faremo l’ipotesi che la
distribuzione d’equilibrio sia quella che ha maggiore probabilità di realizzarsi, cioè quella
che può realizzarsi nel maggior numero di modi. Calcoliamo adesso il numero di modi
in cui possiamo realizzare la generica distribuzione
  {ni }. Fra le NA particelle, le n1 da
NA
porre a livello E1 possono essere scelte in n1 modi. Delle NA − n1 che restano possiamo
 
scegliere in NAn−n
2
1
modi le n2 da porre a livello E2 , e cosı̀ via. Il numero complessivo di
scelte è allora    
NA NA −n1 NA −n1 −n2
n1 n2 n3
... =

NA ! (NA −n1 )! NA ! (156)


n1 !(NA −n1 )! n2 !(NA −n1 −n2 )!
... = Q
M
ni !
i=1

Vogliamo cercare il massimo di questa funzione delle {ni } sotto le condizioni (154). Pos-
siamo anche riferirci al massimo del logaritmo della funzione, il che semplifica i calcoli.
Usando il metodo dei moltiplicatori di Lagrange si tratta di annullare le derivate rispetto
alle ni della funzione
M
X M
X M
X
ln(NA !) − ln(ni !) − α( ni − NA ) − β( ni Ei − U ) (157)
i=1 i=1 i=1

dove α e β sono i moltiplicatori. Per grandi n (si tenga presente che NA = 6 × 1023 ) vale
la formula di Stirling
ln(n!) ∼
= n ln(n) (158)
Utilizzando questa nella (157) e derivando rispetto a ni si ottengono le equazioni

− ln(ni ) − 1 − α − βEi = 0 (i = 1, 2, . . . , M ) (159)

da cui si deduce che le ni hanno la forma

ni = A e−βEi (160)

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con A e β da determinare in base alle (154). Se diversi valori di Ei coincidono, per avere il
numero delle particelle ad una certa energia si dovranno sommare i corrispondenti valori
ni . In base alla legge dei grandi numeri, si può anche interpretare la (160) dicendo che
la probabilità di trovare una particella, genericamente scelta, nello stato di energia Ei è
proporzionale a exp(−βEi ).
Per passare al caso continuo, possiamo usare la (160) sostituendo la variabile discreta
Ei con una variabile continua E. Dobbiamo inoltre tener conto del fatto che stati fisica-
mente distinti possono avere la stessa energia. Possiamo individuare gli stati disponibili
col seguente procedimento. Consideriamo uno spazio rappresentativo in cui sui tre assi
riportiamo le componenti della velocità vx, vy , vz , e dividiamolo in cellette infinitesime di
volume dvx dvy dvz . Le particelle del gas saranno rappresentate da punti in tale spazio.
Una particella generica ha energia m(vx2 + vy2 + vz2)/2. Tutte le cellette che cadono nella
buccia sferica di raggi v e v + dv rappresentano particelle con la stessa energia. I punti
rappresentativi che cadono nella buccia sono
βm 2
dn = 4πAv 2e− 2
v
dv (161)

Calcoliamo l’energia media di una particella con l’espressione


R
∞ βm 2
4πA m
2
v 4e− 2
v
dv
0
Ē = R
∞ βm 2
(162)
4πA v 2e− 2 v dv
0

dove il denominatore rappresenta il numero totale di particelle. Sviluppando l’integrale a


numeratore troviamo
 ∞ 
Z∞  3 − βm v2 Z∞ 
− βm v2 v e 2 3 − βm v2
v4e 2 dv = −  + v 2e 2 dv (163)
 βm βm 
0 0 0

che inserita in (162) fornisce

3 3 R 3
Ē = = T = kB T (164)
2β 2 NA 2
avendo usato l’espressione esplicita di U e avendo introdotto la costante di Boltzmann
kB . Ne segue che la costante β vale
1
β= (165)
kB T

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