di MICHELE DI MAURO
All’inizio è:
“Enantiodromia For Orchestra”
dall’album The Killing Of A Sacred Deer: Original Motion Picture Soundtrack
VOCE REGISTRATA
V E N E R D I’
UOMO
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E’ per mangiarti meglio.
Così.
Come da metà.
Nessun inizio.
Come dopo un attacco di gioia.
A metà dell’opera.
Come distratti dal senso più vicino.
Nessuna fine prevista.
Da un sapore prossimo.
Liquido.
Di saliva ed erbe aromatiche,
di chiodi,
di garofani,
di legno bagnato,
d’iniziali appuntate su fazzoletti di pizzo.
Nessun mondo intermedio.
Antepongo,
all’antipasto,
l’antiaderenza della mia
sconfinata
voglia
di lei,
che faccio saltare
nella padella del mio senso critico:
inesistente.
Vagheggio,
sorseggiando aria infetta
e deglutisco
rancori di padre
e di compagno,
ascoltando
alla radio
le “Cantique de Jean Racine” opera 11 di FAURÉ.
https://www.youtube.com/watch?v=NzUMfVpugq4
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Dio dell'universo:
dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane,
frutto della terra e del lavoro dell'uomo;
lo ingoiamo,
perché diventi cibo di vita eterna.
Oggi.
Quell’oggi che fa sì che ogni giorno è l’unico,
e non l’ultimo.
Oggi,
che sarà oggi anche in quel
domani e poi domani...
che non ha saputo stare
in quel futuro
presente,
in quell’accidente temporale,
in quel dolore papillare,
in quel supplicare
a giunte mani
l’idiozia
di quell’altare del gusto
e del disgusto,
nel mezzogiorno appena scampanato,
squillo medievale
del palato,
arco del trambusto tracheico,
tromba che dice
a morto
la fuga degli anulari e dei medi,
mentre i mignoli
indicizzano le stazioni,
e alla terza,
cadiamo di schianto,
come nel pineto quella pioggia
che impedisce alle vecchie parole
umane,
d’essere udite,
ma ne accetta di nuove,
che gocciole e foglie
bisbigliano
in lontananza.
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E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre,
gli occhi,
son come polle tra l'erbe,
i denti
negli alveoli
son come mandorle acerbe.
Io mangio la divinità, e la
divinità si lascia mangiare, io,
a te fedele,
mangio te,
mio dio,
che ti sei fatto uomo o
donna, eucaristicamente umana,
carne,
primitiva efferratezza coniugale,
coniugata male! Una Santità
sgrammaticata! Imperfetta,
imperativa,
un’immortalità promessa dove io
muoio, in te,
carne e verbo di salvezza.
Muoio
del tuo morire in me,
ebbrezza insaziabile d’esserti
sprofondato dentro:
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che hai appena sveglio
e il sapore di ruggine
di quando vai a letto.
Io non ti volevo,
con me.
Ti volevo,
in
me.
Volevo essere te
con me come sarcofago.
Come involucro.
Essere il tuo patrioska.
La bambola d’uomo che ti avrebbe contenuta.
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Protetta.
Salvata.
Glorificata.
Ipotecata.
Sparcellizzata.
Santificata.
Comincia il TEMPORALE
(il centurione prende un grosso vaporizzatore per la pioggia da giardino e...)
STAZIONE IX
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio
e gli radunarono attorno tutta la corte.
Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto
e una canna nella mano destra;
intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo.
Poi, mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano:
«Salve, re dei Giudei!».
E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna
e lo picchiarono sul capo.
Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello,
gli fecero indossare i suoi vestiti
e lo portarono via
per crocifiggerlo.
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STAZIONE X
Perché poi…io è un attimo e non sarò più io
non guarderò
né più sarò guardato,
non sentirò
non annuserò
né mai più toccherò
le sacre sponde
del tuo letto
ove il mio corpo con te,
fanciulletto,
giacque e assaporò le gioie sanguigne
dell’amore mestruato,
di quello svogliato,
obbligato,
del guardiamoci un porno
l’ho detto.
e lo farò.
Champagne!
Sciogliere il burro e imbiondire le cipolle e le carote, tagliate fini.
Nello stesso recipiente, mettere l’aragosta tagliata a pezzi,
ancora viva.
Spolverare col ventaglio di spezie scelte.
Versare la bottiglia di champagne in un unico gesto.
Aggiungere il burro...e pepe nero a piacere.
Cottura: mezz’ora circa a fuoco medio_servite subito,
e degustate con calma,
la vostra aragosta alla sibarita,
o anche le carni stanche
della vostra amica,
amante ignara,
che sarebbe stata l’ultima sera della sua vita,
povera,
e sfiduciata,
malcapitata,
sodomita.
STAZIONE X
Sì. Pensavo così. Che l’unico modo per averti davvero, per sempre, fosse quello di
mangiarti completamente. Cominciare per gioco, in un hotel a ore, e restare lì per
qualche giorno o per tutta la vita. L’ho vista, la scena. L’ho sognata. L’ho desiderata.
L’ho pianificata. L’amore sarebbe stato lo stesso di sempre. Di quel sempre rubato al
“niente può essere per sempre”. L’amore di te sotto e sopra di me, l’amore di 2 che si
cercano e si sentono sempre come se fosse la prima e l’ultima volta, di quel mai più
come adesso e poi di nuovo così, e ancora diverso ma uguale per sempre mai!
Cominciando dalle guance.
Morsi come timbri,
come ceralacche medievali!
Morsi come certificati,
come atti notarili.
Morsi come fotoricordo,
come crepe d’infanzia,
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come sbrecciature del chi sei stato,
del chi sei.
Di.
Chi.
Sei.
Se hai deciso d’essere di qualcuno...
di farti assaggiare nei cinema,
negli ascensori,
sulle scale mobili,
davanti alle chiese,
dentro,
gli hotel,
nei cessi pubblici,
negli sgabuzzini,
negli spogliatoi del tennis,
nei camerini
dei grandi magazzini...
STAZIONE XII
E quando ti avrò spolpata via alla vita,
assorbita, via,
inglobata, digerita...
quante stagioni ci vorranno
affinché
i tuoi connotati affiorino
nei miei,
si mischino,
li confondano,
come quando i musi dei cani morti
li rivedi nei tratti dei padroni?...!
Quanti inverni
passeremo,
a vederti di riemergere dai miei occhi,
dalla mia “bocca è per mangiarti meglio”!
dai miei sorrisi sghembi,
vittime dei tuoi,
ruvidi,
sorrisi oscuri,
impantanati in quelli dei tuoi padri,
dei tuoi compagni,
dei tuoi maestri,
dei tuoi fidanzati che non si chiedevano neanche
perché,
non sorridevi mai!
Sorrisi di chi ha già vissuto tutto ciò che serviva per non sorridere più!
Parentesi ribaltate,
d’un’insana voglia
d’essere,
masticate,
deglutite,
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smaterializzate via,
dall’Inevitabile,
che giorno dopo giorno
la vita
ti costringe ad eseguire,
a commettere,
nell’inerziale sentimento opaco
del quotidiano
esserci.
Quante estati passeranno,
prima che la tua pelle
si colori nella mia,
di tramonti e sale,
di notti stellate male,
di aurore dismesse
nel distratto compito di
tornare,
essere presenti,
ricominciare,
dirsi “persona su cui poter contare”,
tu,
che volevi essere poco più
d’un animale,
un’anima latina invertebrale!
Un’alga.
Un graffito.
Uno sberleffo.
Un tatuaggio venuto male.
Un bel soggetto
ma con un brutto finale!
Un attacco di cuore al semaforo.
Un film senza protagonista maschile:
un documentario
sul tragitto
alimentare,
d’un paesaggio
gastrointestinale. gastrointestinale:
L’eco
d’un tradimento
già scritto.
D’un fattaccio
tra i confini plebei,
tatuato
sui bicipiti degli Dei,
un incrocio fatale,
inevitabile:
2 anime intrappolate in corpi offesi,
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in sentimenti confusi
come i visi noti di Strauss,
imbrigliati in valzer senza fiori né sangue:
tormenti in 3/quarti e languori esistenziali.
Ottocenteschi.
Occidentali.
Perversioni di periferia.
Delle scuole medie,
di quell’apatìa, pomeridiana,
vinta solo con gli occhi oltre le siepi,
in quei Natali masturbati nella neve,
e quegli orgasmi
tra le statue dei presepi.
E preghiere e pentimenti e seghe
e pianti,
e comunioni
con tuo padre e con tua madre tra i coglioni!
“Lo vuoi, pane e Nutella?”.
E tu...che piuttosto, avresti voluto...azzannare tua sorella,
o quella sua amica, Clizia, così bella!
Le avresti spalmato il culo, di Nutella,
E poi... una cucchiata proprio lì:
“Leccala, Clizia!...sì, quella...senti com’è dolce, la mia cappella!”...
STAZIONE XIII
Papà!...
Che occhi grandi che hai...
E’ per spogliarti meglio, bambina mia!
Per farti capire subito,
che sarà quello,
che vorranno
da te, piccolina:
metterti i denti in faccia
e strapparti la carne dal collo.
Leccarti via gli anni dal passaporto
a forza di lusinghe e vaghe promesse,
randez-vous tra week-end obbligati
e lunedì rubati
a fine maggio,
sempre con l’intento di addomesticare il tuo cucciolo di iena!
Mi tengo vicine,
le dita che sanno di te.
Un rosario da succhiare.
In bocca,
è quasi un assaggio
di saggezza.
Un’ipotesi di redenzione.
L’idea sovrumana,
d’averti salvata
da una morte dozzinale.
D’averti fatta Regina
d’un Abisso matrimoniale,
d’un regno di Solitudine amorale fatta solo di me
e te,
corpo e anima
del medesimo fango innaturale.
Cassa toracica e costole,
di 2 assenze tenute in piedi
da una sola,
colonna,
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vertebrale.
“ due anime e un solo corpo”
amore mio dissolto,
liquefatto nel mio stesso plasma,
e riplasmato nella mia pelle di mammifero,
stupido
bipede
a sangue caldo,
mia Venere sbocconcellata ad arte
e rinvenuta aldilà delle fattezze,
ancor più rarefatto
esemplare,
di tutte
le umane
bellezze.
IO.
MITICO.
MITIGO
MISTICO.
MASTICO.
E quel rumore...
si fa strada tra la bocca
e le stazioni a venire,
in quest’emblematico
divenire,
estatico...
ineludibile
inchiostro
simpatico,
con cui riscrivere il tuo atto di nascita.
Sputarsi,
l’amore,
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a schifare la coniugazione
del verbo:
sì....mastico,
crude sillabe circostanziali
a violentare
il disfarsi del codice.
Ingoio,
l’avversa tempesta del pensiero,
e piscio
la mia angoscia disadorna,
sulla fronte
increspata
della logica.
Quel rumore...
lo fa solo
l’amore,
quando s’assesta
tra le crepe
del cuore.
Quel sapore,
ce l’ha solo
il disprezzo,
quando s’acquatta,
come un gatto malato,
ai piedi del letto.
DOMENICA
Questa domenica
è scivolata via,
debordando il suo tempo,
rubato all’Angelo del lunedì.
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d’epilogo.
Di “triste…e solitario…finale”.
E con le mani
incrostate
di sangue rappreso…
aspetto…
appaia,
appena decifrabile,
sull’A4 ruvido che è il mio volto.
Aspetto…
che s’intuiscano
le linee parallele
delle nostre labbra,
sovrapposte
per sempre
in un’unica bocca.
E che le narici respirino all’unisono
quell’aria fetida,
che l’essere in due
non può depurare.
Aspetto…
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