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13 STAZIONI PER UNA SEDUTA DI CANNIBALISMO

di MICHELE DI MAURO

UOMO (tra i 50 e i 70 anni o anche tra i 30 e i 50)


1
Scena: l’Uomo è crocifisso.

Vestito di tutto_punto: camicia/giacca/cravatta,


a piedi nudi,
come un ballerino di Platèl.

L’idea portante della messa in scena


è un asse in equilibrio tra Pasolini e Lanthimos.

La Musica sarà costante_


Orizzontale per tutta la durata del monologo,
ma con delle _Verticali, segnalate costantemente.

All’inizio è:
“Enantiodromia For Orchestra”
dall’album The Killing Of A Sacred Deer: Original Motion Picture Soundtrack

VOCE REGISTRATA

Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio


si fece buio su tutta la terra.
Verso le tre, Gesù gridò a gran voce:
«Elì, Elì, lemà sabactàni?»,
« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano:
«Costui chiama Elia».
E subito uno di loro corse a prendere una spugna e,
imbevutala di aceto, la fissò su una canna
e così...gli dava da bere.
Gli altri dicevano:
«Lascia!...vediamo se viene Elia a salvarlo!».
E Gesù, emesso un alto grido,
spirò.

V E N E R D I’

UOMO
2
E’ per mangiarti meglio.
Così.
Come da metà.
Nessun inizio.
Come dopo un attacco di gioia.
A metà dell’opera.
Come distratti dal senso più vicino.
Nessuna fine prevista.
Da un sapore prossimo.
Liquido.
Di saliva ed erbe aromatiche,
di chiodi,
di garofani,
di legno bagnato,
d’iniziali appuntate su fazzoletti di pizzo.
Nessun mondo intermedio.

Inebriati dalle inclinazioni:


dei volti,
degli occhi,
delle spalle,
delle ginocchia,
delle caviglie.
Della pelle distesa.
Arrugginita dall’arancio del sole
già morto e dissotterrato insieme al 30 e al 31.
D’agosto.
Mesi che bruciano, s’affannano, s’’insabbiano.
L’estate
si sbriciola
nell’ 1-2-3-del mese nuovo:
l’ozio,
svapóra dalle occhiaie:
grammo dopo grammo,
centimetro dopo centimetro,
goccia dopo goccia.
Lacrime e diarrea vocale:
dio!
avrei dovuto crederti quand’ero ancora in tempo.
Merda!
3
(Adesso è troppo tardi anche per far finta d’essermi ricreduto!)

Antepongo,
all’antipasto,
l’antiaderenza della mia
sconfinata
voglia
di lei,
che faccio saltare
nella padella del mio senso critico:
inesistente.
Vagheggio,
sorseggiando aria infetta
e deglutisco
rancori di padre
e di compagno,
ascoltando
alla radio
le “Cantique de Jean Racine” opera 11 di FAURÉ.
https://www.youtube.com/watch?v=NzUMfVpugq4

INEZIE DEL PALATO:


saliva,
olio d’oliva,
vasellina sui fiocchi di neve.
Ordita sentenza
del cuore,
carciofo squarciato
che mostra l’anima sua:
intima esposizione vermiglia,
e collaudata
e sottintesa
e non più presunta...
sverginità!

Montare. Nel bianco dei cuscini. La voglia, di schiuma.


Baciami subito. Baciami e scappa.
Mastica, queste labbra fuoriserie,
d’amianto e d’ortica,
queste labbra che più non diranno,
che non saranno, più.
4
Labbra che sento slabbrare,
consumarsi,
adattarsi alle tue impronte,
nell’esproprio, ovattato,
d’un pomeriggio ermetico,
lunatico,
diabetico.

Senza mai una parola d’amore,


se non d’un amore sordidamente muto
di bestia,
e in esso sei cresciuto,
impotente ai reali richiami del cuore,
nascondendo l’antico,
vergognoso
segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.

E poi...quasi con la rabbia di chi si vendica


o sia stretto da un assurdo assedio:
sopravvivo!!!
Senza mai provare pietà
o rispetto
per nessuno,
Covando nel mio petto 106 su 110
la mia integrità di avvoltoio,
che non ha vergogna a sapersi
– nel suo odio –
addirittura
superbo!
(in questa abbuffata senza dio,
che altro non è
che una elisir di lacrime e sangue).

E’ così che ci appartiene questo mondo:


fratelli
nelle opposte passioni,
nel rifiuto profondo
d’essere diversi:
a rispondere,
del selvaggio dolore
di esser uomini.
5
Così.
Come da tre quarti.
Nessuna fine.
Come il primo quarto d’ora.
La prima volta.
Quella sola.
La prima di tutte le ultime.
La volta che sembrava celeste, tant’era leggera.
Una volta stellata
d’un Giotto di periferia,
di borgata,
una volta che potrebbe essere proprio quella,
l’unica
volta
che hai sentito
il sapore dell’estate
sugli quegli zigomi che avevi appena azzanato.
La volta che tu pensi
è questa,
la volta che svolta,
che corrompe e corrode,
che svuota
e riempie d’angoscia e di gioia:
la volta,
che hai scritto e riletto senza mai dirlo,
senza saperlo:
l’unica volta.
Che si lascia alle spalle l’orrore di ieri,
i cattivi pensieri,
i cattivi desideri,
i propositi crudeli:
un assaggio dei tessuti molli,
saltati in un letto di ciliegie e amianto,
un piccolo sorriso,
un lungo pianto.
Ti rosicchiavi le unghie,
da piccolo?
Leccavi le posate d’argento?
Annusavi, la trielina?...
Ti confessavi
Solo perché ti piacevano le ostie?

6
Dio dell'universo:
dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane,
frutto della terra e del lavoro dell'uomo;
lo ingoiamo,
perché diventi cibo di vita eterna.
Oggi.
Quell’oggi che fa sì che ogni giorno è l’unico,
e non l’ultimo.
Oggi,
che sarà oggi anche in quel
domani e poi domani...
che non ha saputo stare
in quel futuro
presente,
in quell’accidente temporale,
in quel dolore papillare,
in quel supplicare
a giunte mani
l’idiozia
di quell’altare del gusto
e del disgusto,
nel mezzogiorno appena scampanato,
squillo medievale
del palato,
arco del trambusto tracheico,
tromba che dice
a morto
la fuga degli anulari e dei medi,
mentre i mignoli
indicizzano le stazioni,
e alla terza,
cadiamo di schianto,
come nel pineto quella pioggia
che impedisce alle vecchie parole
umane,
d’essere udite,
ma ne accetta di nuove,
che gocciole e foglie
bisbigliano
in lontananza.

7
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre,
gli occhi,
son come polle tra l'erbe,
i denti
negli alveoli
son come mandorle acerbe.

Stacco: il lupo si precipita a casa della nonna,


uccide la vecchia,
ne divora una parte,
ripulisce i resti,
versa il sangue in una bottiglia
e ripone ordinatamente la carne nella dispensa.
Prima di mettersi a letto,
appende le viscere della vittima alla porta
(al posto del catenaccio)
e mette in salvo nella credenza il sangue,
i denti
e la mascella.
Poi,
tutto imbacuccato
va a letto.
Appena arriva,
invita l’ipotetica nipote a preparare la cena
e a gustarsi il delizioso pasto accanto al fuoco.
Prima, però, le fa togliere le mutandine.
Poi...al primo boccone le sussurra:
“Stai mangiando la carne di tua nonna!”.
Ma non è tutto.
Prima di invitarla a ficcarsi sotto le coperte con lui,
le ordina di spogliarsi completamente:
“Getta i tuoi vestiti nel fuoco, bambina; non ti serviranno più”.
“Che occhi grandi, che hai, nonna!!”
Taci.
La verità è come il sangue: ci permette di vivere,
ma non dovrebbe mai venire alla luce.

Io sono ciò che mangio?


E vorrei essere te! Ah...per
questo dunque
ti mangio...
prima con gli occhi (si dice, no?...se la mangiava
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con gli occhi) e poi davvero,
ti mangio,
appena sarò riuscito,
ad addomesticare il tuo cuore di iena.

Io mangio la divinità, e la
divinità si lascia mangiare, io,
a te fedele,
mangio te,
mio dio,
che ti sei fatto uomo o
donna, eucaristicamente umana,
carne,
primitiva efferratezza coniugale,
coniugata male! Una Santità
sgrammaticata! Imperfetta,
imperativa,
un’immortalità promessa dove io
muoio, in te,
carne e verbo di salvezza.
Muoio
del tuo morire in me,
ebbrezza insaziabile d’esserti
sprofondato dentro:

“prenditela, e màngiatela tutta, comincia dalla bocca,


cosicché mentre la sbrani,
può azzannarti anche lei!

Chissà com’è cominciata.


Dove,
questa fame,
vita!
questa golosità,
infinita,
questa smania d’ingoiarti,
di schiantare i miei connotati sui tuoi,
affogare nella tua bocca,
e poi mangiarti le guance,
il collo,
là dove comincia la clavicola,
dove finisce l’infanzia
e respiri l’odore d’ignavia

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che hai appena sveglio
e il sapore di ruggine
di quando vai a letto.

Che occhi grandi che hai.


È per spiarmi meglio?

Che bocca grande!


Che cuore, grande.
Che puttana di merda,
sei,
stata.
Gran troia baldracca senza scrupoli!
Che finta Maddalena,
stupida come una scala a chiocciola.

Che tette grandi, che hai.


è per allattarmi meglio?
Che cosce, grandi.
Che figa che sei!
“Dio, ma quant’è bella, tua figlia!…? sai che me la mangerei!”
Tutta!
cominciando proprio
da quei capezzoli d’albi-cocca.
Tutta!
tette,
di pasta di mandorla
Dita,
candite.
Condite di candide calamite!
Clavicole di pastafrolla.
E poi la lingua,
di liquirizia
e i denti di menta piperita!

Che cuore grande, che hai!


È per mangiarmi meglio, eh?!…
Per putrefare
le ore,
che marciscono
aggrappate
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alle arterie,
al Natale,
alle ferie,
alle serie infinite,
alle partite,
truccate,
alle serate sprecate
a bestemmiare il tuo dio distratto,
disoccupato,
affamato da passioni senza confini,
da confidenze di assassini
sfocati,
d’appuntamenti disattesi,
amanti,
appesi,
matti glorificati e stelle chimiche,
timide,
comete come te,
che si spengono
e scodinzolano
in disparte,
scie di polvere d’oro
vaporizzate ad arte:

Che labbra rosse, che hai!


È per slabbrarti meglio!
Che unghia lunghe,
è per lasciarti dei solchi d’odio
lungo la schiena,
la carriera,
la vita,
la dinastia.
Che occhi belli, che hai!
È per venderli al miglior gioielliere,
come Maria di Woyzek,
come Clelia di Pavese,
come chi cazzo sei? con quei 2 smeraldi
sotto le palpebre?!…
Che lingua lunga!…
è per saltare di verso in verso,
da una stanza d’infanzia
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a un epilogo perverso.
Che rima baciata male,
che male,
questa rima animale,
questo bacio di tigre,
questo orgasmo frontale
(ti verrò  in bocca la notte di Natale),
per compiere l’imcompiuto disinganno.

Comincerò a morderti gli alluci


e da lì
risalirò alle tue
origini
di dea.

Che ore lunghe, che hai…


è per tramontarti meglio!

Che cielo nero che sei...


è per pioverti addosso!

Che voce rotta, che hai...


è per sbrecciarti l’anima.

Che acqua sporca, che sei,


è per affogarti nella melma!

Che pelle liscia, che hai...


è per scivolarti in mano!

Che strada vuota, che sei…


è per allontanarmi meglio!

Per dirti addio.


Addio a quei 55 chili di carne
e ossa
e sangue
e saliva
e capelli
e smorfie
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e sotterfugi
e baci
e ricatti
e alibi
e appuntamenti
e bugie
e chiamami
e stai calma
e lasciami perdere
e fatti pagare
e lasciati guardare
e dammi il cellulare
e toccami
e smettila
e succhia
e mordi
e sputami
e girati
e sorridi
e fottiti
e non ci sei mai
e aspettami
e scopami
e vaffanculo
e ti amo
e mordimi
e mangiami
e inghiottimi
e digeriscimi
e fammi morire!

Io non ti volevo,
con me.
Ti volevo,
in
me.
Volevo essere te
con me come sarcofago.
Come involucro.
Essere il tuo patrioska.
La bambola d’uomo che ti avrebbe contenuta.
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Protetta.
Salvata.
Glorificata.
Ipotecata.
Sparcellizzata.
Santificata.

(Arriva un altro attore vestito da centurione che fa scendere l’Uomo.


Lo fa spogliare fino a che non resta in mutande).

Comincia il TEMPORALE
(il centurione prende un grosso vaporizzatore per la pioggia da giardino e...)

STAZIONE IX
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio
e gli radunarono attorno tutta la corte.
Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto
e una canna nella mano destra;
intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo.
Poi, mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano:
«Salve, re dei Giudei!».
E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna
e lo picchiarono sul capo.
Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello,
gli fecero indossare i suoi vestiti
e lo portarono via
per crocifiggerlo.

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STAZIONE X
Perché poi…io è un attimo e non sarò più io
non guarderò 
né più sarò guardato,
non sentirò
non annuserò 
né mai più toccherò
le sacre sponde
del tuo letto
ove il mio corpo con te, 
fanciulletto,
giacque e assaporò le gioie sanguigne
dell’amore mestruato,
di quello svogliato,
obbligato,
del guardiamoci un porno 

(sì, ma uno di lesbiche che mi eccitano di più)


anche se mai,
t’ avrei detto lesbica,
tu, 
55 chili di pasta della pizza
smatterellati al centro di una piazza
che avrebbe
poi
il tuo nome nel menù
e che come te, 
si chiamerà: 
pizza del mio unico amore mai digerito,
pizza di tutte le pizze, 
Margherita del m’ama non m’ama da un’ora
un giorno
una settimana,
pizza di quella puttana
che s’è fatta montare a neve
in quelle lenzuola a fiocchi,
a palle,
a pupazzi di cazzi e sberle sui fianchi,
di latte condensato, 
fianchi meringati,
levigati in fondo al letto dei tuoi “dammi una data”
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“dimmi quando ci rivedremo”
Dormi...amore mai sazio, 
affamato di promesse,
di parole bisbigliate,
sconnesse, 
parole di poetesse anoressiche, 
amanti perplesse, 
parole circonflesse ma accentate d’odio,
di distanze mai vinte, 
di treni, 
alberghi, 
ritardi, 
messaggi,
telefonate nel cuore della notte, 
di baci, 
di botte, 
lividi,
da nascondere sotto i maglioni scollati a Vu, 
lividi che ti ho fatto io, 
lividi che mi hai lasciato tu,
lividi grossi come pozzanghere d’amore
tatuate sul collo,
in fondo alla schiena,
a bordo inguine, 
lividi violetti come caramelline zuccherate,
acquerellati sul culo,
spennellati dalla mia bocca 
sulle tue clavicole caramellate, 
sui tuoi zigomi vaghi,
sulle tue arcate sopraccigliari, 
sulle tempie, 
sempre parallele al mio sguardo affamato, 
di lupo clandestino, 
di bestia senza stile, i
n questo presente aprile
pasoliniano ed arso, 
un mese dannunziano, 
un solstizio di piacere rimandato, 
tenuto vivo
dal progetto disumano, 
di mangiarti viva:
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evviva!!

l’ho detto.

e lo farò.

Champagne!
Sciogliere il burro e imbiondire le cipolle e le carote, tagliate fini.
Nello stesso recipiente, mettere l’aragosta tagliata a pezzi,
ancora viva.
Spolverare col ventaglio di spezie scelte.
Versare la bottiglia di champagne in un unico gesto.
Aggiungere il burro...e pepe nero a piacere.
Cottura: mezz’ora circa a fuoco medio_servite subito,
e degustate con calma,
la vostra aragosta alla sibarita,
o anche le carni stanche
della vostra amica,
amante ignara,
che sarebbe stata l’ultima sera della sua vita,
povera,
e sfiduciata,
malcapitata,
sodomita.

STAZIONE X
Sì. Pensavo così. Che l’unico modo per averti davvero, per sempre, fosse quello di
mangiarti completamente. Cominciare per gioco, in un hotel a ore, e restare lì per
qualche giorno o per tutta la vita. L’ho vista, la scena. L’ho sognata. L’ho desiderata.
L’ho pianificata. L’amore sarebbe stato lo stesso di sempre. Di quel sempre rubato al
“niente può essere per sempre”. L’amore di te sotto e sopra di me, l’amore di 2 che si
cercano e si sentono sempre come se fosse la prima e l’ultima volta, di quel mai più
come adesso e poi di nuovo così, e ancora diverso ma uguale per sempre mai!
Cominciando dalle guance.
Morsi come timbri,
come ceralacche medievali!
Morsi come certificati,
come atti notarili.
Morsi come fotoricordo,
come crepe d’infanzia,
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come sbrecciature del chi sei stato,
del chi sei.
Di.
Chi.
Sei.
Se hai deciso d’essere di qualcuno...
di farti assaggiare nei cinema,
negli ascensori,
sulle scale mobili,
davanti alle chiese,
dentro,
gli hotel,
nei cessi pubblici,
negli sgabuzzini,
negli spogliatoi del tennis,
nei camerini
dei grandi magazzini...

se hai deciso che decidevi tu, il gusto


la forma
la durata
l’intensità,
il senza pensiero del durante
e il tuttosommato della fine.
Se hai deciso di smettere d’essere amata,
svestita,
guardata,
scopata via internet,
buttata via con una telefonata,
perdonata,
riciclata come fidanzata...
se hai deciso d’essere
indesiderata
musa
d’un’astinenza pianificata!
Vacca,
da cui farsi inondare,
scrofa,
da cui farsi sfondare!
Cagna,
che hai smesso di abbaiarmi sul cazzo
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le tue litanie
di vittima sacrificale,
di martire narcisizzata,
eroina
sniffata via dal suo stesso
rinascimento
genitale.

STAZIONE XII
E quando ti avrò spolpata via alla vita, 
assorbita, via,
inglobata, digerita...
quante stagioni ci vorranno
affinché 
i tuoi connotati affiorino 
nei miei, 
si mischino, 
li confondano, 
come quando i musi dei cani morti
li rivedi nei tratti dei padroni?...!

Quanti inverni
passeremo,
a vederti di riemergere dai miei occhi,
dalla mia “bocca è per mangiarti meglio”!
dai miei sorrisi sghembi,
vittime dei tuoi,
ruvidi,
sorrisi oscuri,
impantanati in quelli dei tuoi padri,
dei tuoi compagni,
dei tuoi maestri,
dei tuoi fidanzati che non si chiedevano neanche
perché,
non sorridevi mai!
Sorrisi di chi ha già vissuto tutto ciò che serviva per non sorridere più!
Parentesi ribaltate,
d’un’insana voglia
d’essere,
masticate,
deglutite,
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smaterializzate via,
dall’Inevitabile,
che giorno dopo giorno
la vita
ti costringe ad eseguire,
a commettere,
nell’inerziale sentimento opaco
del quotidiano
esserci.
Quante estati passeranno,
prima che la tua pelle
si colori nella mia,
di tramonti e sale,
di notti stellate male,
di aurore dismesse
nel distratto compito di
tornare,
essere presenti,
ricominciare,
dirsi “persona su cui poter contare”,
tu,
che volevi essere poco più
d’un animale,
un’anima latina invertebrale!
Un’alga.
Un graffito.
Uno sberleffo.
Un tatuaggio venuto male.
Un bel soggetto
ma con un brutto finale!
Un attacco di cuore al semaforo.
Un film senza protagonista maschile:
un documentario
sul tragitto
alimentare,
d’un paesaggio
gastrointestinale. gastrointestinale:

MENTRE L’UOMO ormai fradicio, mangia un panino succulento


(roba da chiosco S.Rosalia, che gli ha consegnato il centurione...
una VOCE femminile REGISTRATA, dice:
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Il cibo entra in bocca e transita,
fino all’ano,
attraverso gli organi cavi
del tratto gastrointestinale.
Fegato, pancreas e colecìsti,
completano il sistema digerente che,
assistono,
producendo
e immettendovi
succhi
essenziali alla digestione.
Anche la flora intestinale
detta: microbiòma,
e costituita dai batteri del tratto gastrointestinale,
contribuisce alla digestione,
(processo in cui
hanno ruoli essenziali
anche parti dli sistema nervoso e di quello circolatorio).
La combinazione di nervi,
ormoni,
batteri,
sangue
e organi del sistema digerente,
porta a termine, poi,
la complessa attività di digerire,
alimenti e liquidi
consumati
giornalmente.

Ogni boccone un gemito lontano.

L’eco
d’un tradimento
già scritto.
D’un fattaccio
tra i confini plebei,
tatuato
sui bicipiti degli Dei,
un incrocio fatale,
inevitabile:
2 anime intrappolate in corpi offesi,

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in sentimenti confusi
come i visi noti di Strauss,
imbrigliati in valzer senza fiori né sangue:
tormenti in 3/quarti e languori esistenziali.
Ottocenteschi.
Occidentali.
Perversioni di periferia.
Delle scuole medie,
di quell’apatìa, pomeridiana,
vinta solo con gli occhi oltre le siepi,
in quei Natali masturbati nella neve,
e quegli orgasmi
tra le statue dei presepi.
E preghiere e pentimenti e seghe
e pianti,
e comunioni
con tuo padre e con tua madre tra i coglioni!
“Lo vuoi, pane e Nutella?”.
E tu...che piuttosto, avresti voluto...azzannare tua sorella,
o quella sua amica, Clizia, così bella!
Le avresti spalmato il culo, di Nutella,
E poi... una cucchiata proprio lì:
“Leccala, Clizia!...sì, quella...senti com’è dolce, la mia cappella!”...

STAZIONE XIII

Ogni sospiro un sms.


Ogni respiro un s.o.s.
Ogni pensiero ulteriore...un autoritratto d’uomo,
che non ha saputo trasformare il dolore
se non
in un atto
d’orrore,
complemento di gusto e disgusto
d’amore,
che sulla lingua continua a riverberare,
a saltellare come
sopra il Fa sul quinto rigo un grappolo,
d’annerite,
semi-biscrome,
sempre e quando dove,
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risuona
l’acuta melodia degli orgasmi di te fanciulla,
quasi bambina,
quasi rubata,
stuprata via dalla culla.

Papà!...
Che occhi grandi che hai...
E’ per spogliarti meglio, bambina mia!
Per farti capire subito,
che sarà quello,
che vorranno
da te, piccolina:
metterti i denti in faccia
e strapparti la carne dal collo.
Leccarti via gli anni dal passaporto
a forza di lusinghe e vaghe promesse,
randez-vous tra week-end obbligati
e lunedì rubati
a fine maggio,
sempre con l’intento di addomesticare il tuo cucciolo di iena!
Mi tengo vicine,
le dita che sanno di te.
Un rosario da succhiare.
In bocca,
è quasi un assaggio
di saggezza.
Un’ipotesi di redenzione.
L’idea sovrumana,
d’averti salvata
da una morte dozzinale.
D’averti fatta Regina
d’un Abisso matrimoniale,
d’un regno di Solitudine amorale fatta solo di me
e te,
corpo e anima
del medesimo fango innaturale.
Cassa toracica e costole,
di 2 assenze tenute in piedi
da una sola,
colonna,
23
vertebrale.
“ due anime e un solo corpo”
amore mio dissolto,
liquefatto nel mio stesso plasma,
e riplasmato nella mia pelle di mammifero,
stupido
bipede
a sangue caldo,
mia Venere sbocconcellata ad arte
e rinvenuta aldilà delle fattezze,
ancor più rarefatto
esemplare,
di tutte
le umane
bellezze.

IO.
MITICO.

MITIGO
MISTICO.

MASTICO.

E quel rumore...
si fa strada tra la bocca
e le stazioni a venire,
in quest’emblematico
divenire,
estatico...
ineludibile
inchiostro
simpatico,
con cui riscrivere il tuo atto di nascita.

Nel digrignare della ceramica,


l’assedio dentale 
alle ultime carni.

Sputarsi,
l’amore,
24
a schifare la coniugazione
del verbo:
sì....mastico,
crude sillabe circostanziali
a violentare 
il disfarsi del codice.
Ingoio,
l’avversa tempesta del pensiero,
e piscio 
la mia angoscia disadorna,
sulla fronte
increspata
della logica.

Quel rumore...
lo fa solo 
l’amore,
quando s’assesta
tra le crepe
del cuore.
Quel sapore,
ce l’ha solo 
il disprezzo,
quando s’acquatta,
come un gatto malato,
ai piedi del letto.

DOMENICA

Questa domenica
è scivolata via,
debordando il suo tempo,
rubato all’Angelo del lunedì.

Alzo il volume della tv.

È stata il giorno più lungo dell’anno.


24 ore 
sigillate
in un pasto sacrificale,
un’ultima cena 
a due,
che sapeva già,

25
d’epilogo.
Di “triste…e solitario…finale”.

E con le mani 
incrostate
di sangue rappreso…
aspetto…

che il tuo aspetto

appaia,
appena decifrabile,
sull’A4 ruvido che è il mio volto.
Aspetto…

che s’intuiscano
le linee parallele
delle nostre labbra,
sovrapposte 
per sempre
in un’unica bocca.
E che le narici  respirino all’unisono
quell’aria fetida,
che l’essere in due 
non può depurare.
Aspetto…

che un’unica bestia 


mortale,
possa muoversi 
spavalda,
sapendo che ti ho azzannato il cuore
quand’ho capito 
che non me l’avresti
mai 
lasciato
educare.

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