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XVII TESI

L’opera napoletana – Alessandro Scarlatti – L’opera buffa e l’opera


sentimentale

PREMESSA

Il XVIII secolo rappresenta un’epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali. Se,


infatti, in precedenza l’aristocrazia traeva potere e benessere dallo sfruttamento delle
classi sociali inferiori, alla fine del secolo con la Rivoluzione Francese, scoppia il
conflitto fra le due classi sociali. Le classi subalterne, avendo preso coscienza, lottano
per l’affermazione della propria dignità e da questo momento in poi si aprirà, come
già detto, un’epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali. I maggiori divulgatori
di tali trasformazioni furono i “ philosophes francesi”. La filosofia dei lumi della
critica e della ragione ebbe in quei pensatori, da Voltaire a D’Alembert da Diderot a
Rousseau, il suo nerbo principale.
Alla propagazione delle innovative idee illuministiche contribuì, in maniera più o
meno elevata, tutta l’intellettualità europea, compresa quella italiana e germanica; ne
prese parte anche una frazione dell’intellettualità nobiliare, non mancando, infatti, “i
principi illuminati”.
Il genere musicale dominante è il melodramma e in particolar modo, il melodramma
italiano che aveva trovato giusta dimora all’interno dei teatri. Si poteva evincere una
differenza tra il teatro pubblico e quello privato o di corte: il primo era un’impresa
economica che si reggeva interamente sulla vendita dei biglietti; il secondo era
sovvenzionato da aristocratici e da principi e il suo pubblico era alquanto ristretto. Il
teatro pubblico doveva essere costantemente all’avanguardia; il teatro di corte era più
cauto nell’accettare novità. I cantanti rappresentavano la maggior attrazione per il
pubblico medio; la voce di soprano era la preferita; ciò favorì l’abitudine a far
interpretare anche le parti maschili ai soprani e soprattutto ai castrati. Ma fu solo nel ‘
700 che il fenomeno dei castrati assunse un’importanza determinante nell’opera ed
essi divennero spesso grandi divi, molto ammirati dal pubblico.
In Europa, l’opera italiana ebbe la massima espansione nel ‘700. Organizzata a
Venezia nelle strutture di spettacolo e definita stilisticamente dai compositori
napoletani, l’opera italiana divenne nel XVIII secolo un genere cosmopolita. Le
radici del cosmopolitismo operistico italiano si trovano nel consenso del pubblico
europeo.
L’opera settecentesca non si differenziava molto da quella veneziana per
l’organizzazione delle stagioni, degli spettacoli e per il ruolo della messinscena. Vi
furono, però, delle importanti innovazioni che toccarono due aspetti primari della
creazione artistica: 1) la struttura del libretto; 2) la definizione della nuova forma
musicale dell’opera. La prima mette in luce l’attività poetica di Zeno, di Metastasio e
di Goldoni; la seconda esalta l’ingegno creativo di Alessandro Scarlatti.

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Riguardo il primo aspetto, in Italia durante il ‘700, il problema che impegnò
maggiormente i teorici, immersi in pieno clima illuministico che poneva in primo
piano la ragione e la parola quale unico tramite per giungere ad essa, fu la riforma del
melodramma e quindi i rapporti tra musica e poesia.
Interessante, a riguardo, appare l’opera di alcuni letterati, teorici musicali e musicisti
quali: il letterato Algarotti, i due gesuiti spagnoli teorici musicali Arteaga ed
Eximeno, il compositore e teorico musicale Padre Martini e il musicista Manfredini.

Francesco Algarotti (1712-1764)


Nel Saggio sopra l’opera in musica riforma l’opera secondo la tradizione francese.
Nato a Venezia e morto a Pisa, collaborò alla stesura di diversi libretti d’opera e alla
realizzazione di spettacoli teatrali, durante il soggiorno alla corte di Federico II di
Prussia.
Il principio estetico sottinteso alla sua critica dell’opera italiana è che la musica può
raggiungere la sua piena espressione solo accompagnando la parola. Per l’Algarotti
l’opera italiana deve ridursi “ad una tragedia recitata per musica” e per riportarla a
questa concezione è necessario che la musica torni ad essere ministra e ausiliaria
della poesia.

Esteban de Arteaga (1747-1799)


Vicino al pensiero dell’Algarotti, pubblicò nel 1783 La rivoluzione del teatro
musicale italiano dalla sua origine fino al presente. Gesuita di origine spagnola, si
trasferì in Italia dopo la soppressione dell’ordine nel suo paese. Secondo l’Artega
l’opera non deve essere considerata come una fusione, ma come l’incontro fra: 1)
momento musicale (rappresentato dall’aria); 2) momento drammatico ( che si
esprime nel recitativo accompagnato); ) momento narrativo ( insito nel recitativo
secco); 4) messinscena. Egli esalta l’opera metastasiana come la più perfetta
realizzazione del dramma per musica e condanna il melodramma a lui
contemporaneo, decaduto per la scissione tra poeta, compositore ed esecutore.
L’Arteaga acutamente riconosce alla poesia del Metastasio quell’intrinseca musicalità
esprimibile solo dalla musica vera e propria; le arie del Metastasio sono un
suggerimento al musicista, un invito ad esprimere attraverso i suoni ciò che il
linguaggio delle parole non è più in grado di comunicare. Il Metastasio è
indirettamente responsabile di aver dato la possibilità agli uomini di considerare la
musica come una lingua inventata dall’arte, al fine di supplire all’insufficienza di
quella donata dalla natura.

I letterati e i teorici, in Italia, si mostrarono poco inclini a riconoscere un valore


autonomo alla “ nuova lingua” citata dall’Arteaga e le uniche voci dissenzienti
rispetto a tale posizione sono, forse, quelle dell’ Eximeno e del Martini.

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Antonio Eximeno y Pujades (1729-1808)
Più giovane del Martini di una generazione, sperava di ottenere da quest’ultimo
l’approvazione ufficiale al suo volume Dell’origine e delle regole della musica, ma
questi non solo gli negò l’approvazione, ma riscontrò in esso idee e principi
totalmente opposti ai suoi che generarono uno scambio polemico tra i due.
L’Eximeno è, infatti, nutrito di cultura enciclopedica e, pertanto, le regole della
musica si fondano sul piacere uditivo e non sulla matematica e la musica stessa ha
una comune matrice con il linguaggio, mentre padre Martini rappresentava la difesa
delle regole come fondamento della musica.

Giovan Battista Martini noto come padre Martini (1706-1784)


Dopo intensi studi di violino, clavicembalo, canto e composizione fu maestro di
cappella in S. Francesco di Bologna. Fu il maggior teorico musicale europeo della
seconda metà del XVIII secolo. Raccolse un’eccezionale biblioteca musicale, che
costituì il nucleo principale della biblioteca del liceo musicale bolognese ( oggi
Conservatorio) a lui intitolato.
Pubblicò un fondamentale trattato di contrappunto, oltre ad una storia della musica
antica ed altre opere teoriche. Fu compositore severo di messe, oratori e musica sacra.
La posizione del dotto bolognese non era molto diversa da quella dell’Arteaga con
l’unica differenza che quest’ultimo osserva il problema dal punto di vista di chi fa
poesia e non musica, come invece il teorico bolognese, anche se entrambi isolano la
musica: l’uno (Padre Martini) deducendola da astratte regole matematiche, l’altro
(l’Arteaga) relegandola ad ornamento del linguaggio verbale.

Contro il pensiero dell’Arteaga, di Padre Martini e dell’Eximeno prese le mosse il


compositore Vincenzo Manfredini.

Vincenzo Manfredini (1737-1799)


Nel 1758 si recò in Russia al servizio di Caterina II e si mise in luce come autore di
musica teatrale e strumentale. Sia nel genere operistico che in quello sacro e
strumentale fu autore estroso; merita un cenno l’opera Difesa della musica moderna
e dei suoi celebri esecutori in cui egli si fa ardito difensore della musica moderna,
contro l’Arteaga, il Martini e in qualche modo l’Eximeno.
Il Manfredini, sempre servendosi del concetto di progresso, difende la musica
strumentale, ritenendo che la separazione di musica e poesia è la conseguenza del
progresso dell’una e dell’altra.
Nelle Regole armoniche (1775) egli parla della polemica contro l’Arteaga, che
sosteneva la superiorità della musica greca perché fondata solo sulla melodia
essendo, ai Greci, sconosciuto il contrappunto.
Stava ormai per tramontare il mito della Grecia classica ed era più logico, quindi,
concepire l’armonia come il frutto di una secolare evoluzione; non era più possibile
concepire la musica senza armonia, e non aveva più senso contrapporre un mitico
mondo antico ad un mondo moderno corrotto dall’armonia.
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La librettistica: Zeno, Metastasio, Goldoni

Nell’ambito della polemica illuministica nei confronti del melodramma e relativa ai


rapporti tra musica e poesia, si leva l’opera di poeti eminenti quali Apostolo Zeno,
prima, e Pietro Metastasio, dopo. Avevano ormai fatto il loro tempo i “mostruosi
stravolgimenti”, in virtù dei quali “ buffoni e servi ” venivano mescolati a re ed eroi
e, contro l’uso precedente, ognuno dei libretti di Zeno, e più ancora quelli di
Metastasio, ebbero lunga vita e furono messi in musica da decine di musicisti.

Apostolo Zeno (1668-1750)


Veneziano, scrisse il suo primo libretto nel 1695. Riscosse grande successo, per cui
fu subito richiesto come prezioso collaboratore dagli impresari della sua città. Nel
1718 fu invitato a Vienna alla corte di Leopoldo I come “poeta cesareo” (poeta
dell’Imperatore) nella cui carica fu poi sostituito da Metastasio, alla corte di
Leopoldo I. Autore di 35 libretti d’opera e 17 di oratori, Zeno restituì al melodramma
autonomia drammatica, riportando logica nell’azione teatrale. Soppresse le scene
comiche e reintrodusse con moderazione i cori. Diede regolarità alla forma avolgendo
le scene con lunghi recitativi e concludendole con le arie. Gli intrecci teatrali dei
libretti di Zeno, erano permeati di un forte senso morale che egli derivò soprattutto
dalle tragedie francesi di Pierre Corneille. Riteneva che i drammi dovessero avere una
funzione educativa e civile e perciò elogiava la virtù ed esaltava l’obbedienza alla
legge. I suoi libretti sono ispirati a soggetti in gran parte classici. Quasi un terzo della
sua produzione fu musicato da A.Caldara (1670-1736). Altri compositori che usarono
suoi testi furono Vivaldi, Pergolesi, Händel, Piccinni.

Pietro Metastasio (1698-1782)


Nato a Roma, iniziò a Napoli l’attività di poeta. Didone abbandonata, il suo primo
libretto, riscosse un tale successo che fece di lui il primo poeta melodrammatico
d’Italia. Nella Vienna di Carlo VI e di Maria Teresa trascorse la restante parte della
sua vita, che fu operosa e feconda, ricoprendo la carica di “poeta cesareo”.
Scrisse 27 drammi per musica, 8 “ azioni sacre” ( oratori), oltre ad un numero
cospicuo di feste teatrali da eseguire nelle ricorrenze celebrative dei reali personaggi.
Metastasio perfezionò gli interventi di Zeno volti a razionalizzare la struttura
drammatica dell’opera e definì il modello che l’opera seria italiana avrebbe seguito
per gran parte del secolo. Formalmente i suoi drammi sono tutti in  atti, con scene
composte da lunghi recitativi conclusi da arie di pochi versi. Le vicende teatrali sono
svolte da pochi personaggi, quasi sempre sei. I recitativi sono condotti con spirito di
chiarezza e il pubblico godeva della sua limpida e umana poesia.
Il solo Artaserse fu musicato un centinaio di volte da autori diversi. Le novità dei
suoi libretti si possono ridurre a pochi elementi ben precisi: 1) riduzione del numero
delle arie; 2) diminuzione dei cambiamenti di scena; 3) scarsa presenza di duetti e
cori. Il livello letterario e poetico dei libretti del Metastasio è infinitamente più alto
rispetto a quello di tutti gli altri librettisti del tempo, e non è meno, l’intreccio della
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vicenda. Egli sapeva adattarsi anche alle esigenze pratiche dello spettacolo: egli
stesso promosse la collocazione dell’aria alla fine dell’episodio narrato, cioè dopo i
dialoghi in stile recitativo, per far si che il cantante, ricevuta la sua dose di applausi,
uscisse di scena e permettesse il cambio dei personaggi presenti. Quale fosse il
messaggio consolatorio che Metastasio affidava alla sua poesia drammatica lo aveva
già capito un suo contemporaneo, il già citato Stefano Arteaga il maggior trattatista
del settecento del teatro musicale italiano. L’Arteaga, come abbiamo già detto,
riconosce alla poesia del Metastasio quell’intrinseca musicalità che non poteva venire
esplicitata che dalla musica vera e propria; le sue arie sono un suggerimento al
musicista, un invito a dire con il linguaggio dei suoni ciò che il linguaggio delle
parole non può più esprimere.
Isometria dell'aria=stesso numero di versi all'interno dell'aria.
Carlo Goldoni (1707-1793)
Fornì copiosi ed importanti contributi all’opera anche se certamente modesto è il
valore dei libretti di 14 intermezzi e di 6 opere serie, documenti del suo
apprendistato. Ben altro rilievo va invece riconosciuto ai 56 libretti di opere comiche
e “ farsette”. Godoni ebbe continui rapporti con il conterraneo Baldassarre Galuppi, il
quale mise in musica 20 libretti, tra i più importanti: Il mondo alla roversa, Il mondo
della luna, Le donne di governo.
I libretti d’opera di Goldoni sono sulla stessa linea delle sue commedie , per quanto
riguarda l’invenzione delle vicende e la coerenza della forma. Nei suoi libretti i
personaggi sono caratterizzati, l’azione si svolge con coerenza in quanto i trapassi
dall’elemento serio a quello comico e viceversa sono operati senza scompensi e in
modo logico. Nei suoi numerosi libretti trasferì i caratteri delle commedie
introducendo un dialogo più libero e sciolto. Scrisse libretti per Galuppi e per
musicisti quali Piccinni, Cimarosa, Traetta, Vivaldi.

L’OPERA A NAPOLI

Premessa
L’opera in musica fu introdotta a Napoli a metà del XVII secolo.
Il viceré spagnolo conte d’Oñate fece venire da Roma una compagnia nomade di
cantanti, i Febi Armonici, i quali presentarono l’opera Didone di Cavallli, alla quale
seguì, l’anno dopo, L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi. Nel 1654 fu aperto al
pubblico il teatro S.Bartolomeo.

L’opera a Napoli nel Seicento prima di Scarlatti


Durante il periodo che precedette l’arrivo di Alessandro Scarlatti, a Napoli si
eseguivano unicamente opere del repertorio veneziano. Esse erano abbastanza spesso
rimaneggiate secondo le esigenze locali, e nel lavoro di adattamento si segnalò
Francesco Cirillo, che era uno dei tenori della troupe dei Febiarmonici.

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Francesco Provenzale (1627 ca.-1707)
Primo operista napoletano fu un musicista di solida formazione tradizionale. Visse
nella città natale, ove fu prima insegnante nei conservatori di S.Maria di Loreto e
della Pietà dei Turchini, poi maestro della cappella reale. Fu tra i primi cultori del
genere melodrammatico a Napoli. Egli rimaneggiò alcune opere veneziane e ne
compose altre. A noi sono pervenute: Il schiavo di sua moglie e Stellidaura
vendicata.
Oltre alla conoscenza del teatro monteverdiano, esse rivelano il gusto per il poetico e
una vivacità comica di stampo popolare.

I Conservatori Napoletani
Intanto i “quadri” dei compositori e dei cantanti, si andavano formando in 4
orfanotrofi che erano chiamati “ Conservatori”.
Essi portavano nomi suggestivi: “ dei Poveri di Gesù Cristo”; “ della Pietà dei
Turchini”; “ di S.Maria di Loreto” e di “S.Onofrio a Capuana”. Essi furono le prime
istituzioni pubbliche in Europa destinate alla formazione professionale dei musicisti.
Erano nati durante il secolo XVI come istituzioni caritative assistenziali con il nobile
proposito di raccogliere l’infanzia abbandonata e gli orfani. Per integrare le entrate
della beneficenza , i “figlioli” ospitati partecipavano alle cerimonie di culto, celebrate
con l’accompagnamento della musica e del canto, nelle chiese cittadine, e queste
prestazioni rese necessario fornire loro una, non rudimentale, educazione nel canto e
nella musica. Queste esigenze stimolarono, tra il 1620 e il 1650, l’istituzione,
all’interno dei Conservatori, di vere scuole di musica le quali a poco a poco assunsero
una definita fisionomia didattica in quanto si insegnavano il canto, gli strumenti a
fiato e ad arco, il clavicembalo e il contrappunto.
La rapida crescita ed affermazione di quella che fu chiamata “ la scuola napoletana”
ha il maggior punto di forza nell’azione proprio in questi 4 Conservatori e
nell’impegno che vi profusero i maestri che vi erano designati.

Francesco Durante (1684-1755)


Fu il caposcuola della scuola napoletana. Maestro a S.Onofrio, ai Poveri di Gesù
Cristo e a S. Maria di Loreto, lasciò una produzione copiosa di musiche religiose e di
composizioni strumentali, per cembalo e per orchestra. Non scrisse opere, ma furono
suoi allievi alcuni dei maggiori operisti napoletani: Pergolesi, Piccinni, Paisiello. La
sua produzione comprende  oratori, 11 messe, varia musica sacra a voci sole e con
strumenti, sonate, toccate e 1 concerto( per clavicembalo) con archi.
La sua opera segna un momento intermedio fra lo stile barocco, di cui conserva
l’atteggiamento sapiente, pur respingendo l’austera magniloquenza, e quello galante,
di cui già conosce l’amabilità espressiva ma non ancora la semplificazione di
linguaggio.

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Alessandro Scarlatti (1660-1725)
Si espresse in tutti generi della musica vocale, senza trascurare la musica strumentale.
La sua importanza storica è definita dal collocarsi nel punto di separazione tra l’opera
veneziana del XVII secolo e l’opera seria del XVIII secolo.
Con la copiosa produzione di opere che si susseguirono in 40 anni di attività, a
cavallo tra il Sei e il Settecento, egli fissò gli elementi e i caratteri dell’architettura
musicale che sarebbe servita da modello agli operisti di almeno due generazioni.
Inoltre, con le numerose opere composte per Napoli e per la cui esecuzione radunò i
migliori cantanti disponibili, egli portò questa città a dividere, con Venezia, il ruolo
di capitale dell’opera.
Nato a Palermo, svolse la maggior parte della sua attività artistica a Napoli e a Roma.
A Roma era arrivato a 12 anni per compiere gli studi musicali e qui compose la prima
opera Gli equivoci nel sembiante ( 1679). Nel 1684 si trasferì a Napoli. Fu nominato
maestro della cappella reale, ma si fece apprezzare soprattutto per le opere che
componeva. Motivi vari di insoddisfazione lo indussero nel 1702 a lasciare Napoli.
Dopo un breve soggiorno a Firenze, presso il principe Ferdinando III dei Medici,
riprese la Strada di Roma. La vita musicale romana era in quegli anni particolarmente
felice: vi operavano Corelli e Pasquini e vi soggiornò anche il giovane Händel. Nel
1707, Napoli passò dalle mani degli Spagnoli a quelle degli Austriaci. Nuovo viceré
fu nominato il cardinale Vincenzo Grimani della celebre famiglia patrizia veneziana,
il quale convinse Scarlatti a ritornare a Napoli. A Napoli egli trascorse il resto della
sua vita ed ivi morì. Furono suoi allievi il figlio Domenico e J.A.Hasse.
Nella sua copiosissima produzione il primo posto spetta alle opere, anche perché
l’attività di compositore teatrale fu quella che assorbì tanta parte del suo ingegno
creativo. Scrisse effettivamente 66 opere nuove ( ma solo di 34 ci è giunta la musica
completa). Di esse 45 furono rappresentate per la prima volta a Napoli, 14 a Roma, 5
vicino Firenze. Tra le più importanti si citano: la citata Gli equivoci nel sembiante; La
statira che è l’ultima fatica teatrale; Il trionfo dell’onore, una delle prima commedie
in musica; La Griselda.
Lasciò anche una copiosa produzione in altri generi vocali e strumentali tra cui si
ricordano: 26 scenate e cantate; 811 cantate ad 1 a 2 voci con basso continuo; 7
oratori in latino; 38 oratori in italiano, composti in prevalenza per Roma, ma anche
per Napoli e Firenze ( l’Oratorio per la passione di nostro Gesù Cristo; La Vergine
addolorata; Il trionfo della S.S. Vergine); 13 messe, alcune con strumenti; 72
mottetti, salmi, inni e composizioni varie; 7 sonate per flauto ed archi, concerti e
sonate.
Le forme adoperate da Scarlatti sono le stesse che egli aveva ereditato dalla
tradizione ( l’aria, il recitativo, gli interventi orchestrali, il basso continuo).
L’aria si stabilizza nella forma detta “col da capo”, procedimento quest’ultimo già
introdotto da Antonio Cesti nelle precedenti opere veneziane ma oggetto di maggiore
sviluppo musicale durante il Settecento. Il da capo doveva servire soprattutto ai
cantanti castrati per mettere in luce le loro doti vocali. La struttura di questo tipo di
aria era abbastanza semplice: le prime 2 parti (A e B), oggetto di elaborazione
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musicale con l’inserimento anche di ritornelli strumentali, si adattavano a 2 strofe
poetiche ben distinte con 2 motivi melodici diversi; dopo la seconda parte (B) veniva
ripetuta la prima (A) e qui il cantante si esibiva con fioriture e improvvisazioni.
Il recitativo si era ormai ridotto, verso la fine del Seicento, al cosiddetto recitativo
secco, accompagnato dal solo basso continuo. Scarlatti, tuttavia, spesso sostiene le
voci con altri strumenti d’orchestra: si tratta di ciò che normalmente viene detto
recitativo accompagnato. Ma un più ricco uso di strumenti, via via che passano gli
anni, Scarlatti lo adotta anche nell’accompagnamento delle arie.
L’orchestra è ormai definitivamente basata sugli strumenti ad arco, ma per gli effetti
speciali vengono anche impiegati i fiati: trombe, flauti, oboi, fagotti. L’uso
dell’orchestra diventa particolarmente significativo nella sinfonia introduttiva che
all’inizio della produzione scarlattiana adottava varie possibilità di struttura. A partire
dagli anni del’ 700 il modello prevalente diventa quello “ dell’ouverture all’italiana”
che consiste in un allegro iniziale seguito da un adagio e da un brillante movimento di
danza conclusivo.

L’opera a Napoli nel Settecento dopo Scarlatti


Per effetto delle guerre di successione che, nella prima metà del XVIII secolo,
sconvolsero l’Europa Napoli cambiò più volte padrone. Dopo un secolo e mezzo di
dominio spagnolo, nel1707 Napoli e il suo territorio furono annessi all’Austria. Ma il
governo austriaco non durò a lungo e nel 1735 Napoli e la Sicilia vennero assegnate
allo spagnolo Carlo VII, già duca di Parma e Piacenza. Nel 1759, egli fu incoronato
re di Spagna con il nome di Carlo III e Napoli e la Sicilia ebbero come sovrano il
figlio di Carlo, Ferdinando di Borbone di Spagna.
Malgrado tali avvicendamenti politici, l’opera napoletana avviò, comunque, la sua
espansione nella prima metà del XVIII secolo e il ruolo importante acquisito dal
teatro in musica è palesato dalla costruzione di una nuova sede teatrale che,
inaugurata nel 1737, prese il nome di S. Carlo, in omaggio al sovrano.

L’opera buffa
Un fatto di grande importanza fu la messa in scena di “ opere buffe”, alcune in
dialetto napoletano, avvenuta all’inizio del secolo. Essa segnò il tramonto
dell’inclusione di scene comiche nelle opere di argomento serio e preparò la
demarcazione in 2 generi: l’opera seria da una parte e l’opera buffa dall’altra.
Nelle opere buffe erano messe in scena vicende plausibili, di ambiente borghese.
All’opera buffa si dedicarono all’inizio musicisti di modesta levatura e la sua
affermazione richiamò l’interesse di musicisti di maggior ingegno che determinò, da
quel momento, la piena fortuna del genere.
Le sedi teatrali napoletane che ospitavano opere buffe furono diverse da quelle
dell’opera seria. Fu inizialmente il teatro dei Fiorentini e ad essi si aggiunsero, nel
1724, il teatro Nuovo e il Teatro Del Fondo.

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I primi musicisti napoletani che si affermarono dopo Alessandro Scarlatti furono
Feo, Porpora, Vinci, Leo e Pergolesi.

Francesco Feo (1691-1761)


Insegnò nei Conservatori di S. Onofrio e dei Poveri di Gesù Cristo. Lasciò una
ventina di opere, rappresentate a Napoli prima del 1740, anno in cui decise di
dedicarsi esclusivamente alla musica sacra. Tra le sue opere si citano: Amor tirannico
ossia Zenobia; Ipermestra, Arsace. Tra le musiche sacre scrisse passioni, magnificat,
messe. Fu in buoni rapporti con Leo e padre Martini.

Nicolò Porpora (1686-1768)


Ebbe grande fama come maestro di canto di alcuni dei più celebri “ musici”
( Farinelli, Senesino) e di note “virtuose” ( Regina Mingotti) del secolo.
Esercitò l’attività in prevalenza fuori Napoli: a Venezia, a Londra (dove fu
antagonista di Händel) a Vienna ( dove ebbe per qualche tempo al suo servizio il
giovane Haydn, anche suo allievo) e in altre città. Scrisse numerose Opere, Oratori,
Cantate e Musiche strumentali. Musicista di vasta e raffinata cultura, Porpora è uno
dei massimi rappresentanti dell’ideale melodrammatico metastasiano. Espertissimo
conoscitore della voce, dedicò particolare cura anche all’accompagnamento
orchestrale delle sue opere. La sua fama è legata alla produzione teatrale che
comprende una sessantina di melodrammi, intermezzi, serenate e feste teatrali. Di
alto livello stilistico sono, infine, le sue composizioni strumentali, comprendenti 6
Sonate a tre, 6 Sonate per due violini e due violoncelli, un Concerto per flauto,
Sonate per cembalo ed organo.

Leonardo Vinci (1690-1730)


Studiò al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, e fu vice-maestro della cappella
reale. Si era fatto apprezzare nel 1719 con un’opera buffa in dialetto napoletano dal
titolo Lo cecato fauso alla quale ne seguirono una decina. Lasciò anche una ventina di
opere serie ( Didone abbandonata, Artaserse), rappresentate a Napoli e a Roma.

Leonardo Leo (1694-1744)


Trascorse tutta la vita a Napoli, dove fu vice-maestro della cappella reale e
insegnante nei vari Conservatori. Molto apprezzato come compositore di musica da
chiesa, scrisse una trentina di opere serie, in prevalenza per Napoli, ma anche per i
teatri di Venezia e di altre città italiane. A Napoli fece rappresentare, inoltre, circa 25
fra commedie musicali e intermezzi. Lasciò anche numerose Serenate, Oratori ( tra
cui La morte di Abele), composizioni strumentali e opere didattiche. Leo eccelse nella
creazione di disegni melodici ora vividi e coloriti, ora mirabili sempre nella loro
espressività lirico-drammatica. Se Demofoonte e L’Olimpiade sono le sue opere serie
più note e fortunate, vanno ricordate anche le opere buffe, come Amor vuol sofferenza
ovvero la finta frascatana.

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Giovan Bttista Pergolesi (1710-1736)
Artisticamente superiore ai precedenti, nacque a Jesi e morì nel convento dei
Cappuccini di Pozzuoli dove si era ritirato per curare una grave tisi.
Iniziati gli studi nella città natale, li proseguì a Napoli nel Conservatorio dei Poveri di
Gesù Cristo. Appena conclusi gli studi, ebbe modo di cimentarsi con il teatro vivendo
e operando sempre a Napoli, se si esclude una breve parentesi romana.
Il grande successo postumo riscosso a Parigi nel 1752 dal suo intermezzo La serva
padrona (rappresentato per la prima volta nel 1733 all’interno dell’opera Il
prigioniero superbo) su libretto di Gennaro Antonio Federico, sembrò aprire nuove
aspettative al teatro musicale: in quella che era allora la città più intellettualmente
viva d’Europa il pubblico vi scoprì maggior vivacità, sottigliezze psicologiche
sconosciute alle opere serie italiane e francesi. Ne nacque un “caso” , “la Querelle des
Buffons”, (che coinvolse i difensori della tradizione francese, fra cui Rameau, e gli
enciclopedisti, fautori dell’opera buffa italiana) e sull’onda dell’entusiasmo generale
a Pergolesi fu attribuita la paternità di molte composizioni di teatro, sacre e
strumentali.
Fortunatamente le ricerche avviate nel 1949 dall’inglese Frank Walker consentirono
di svelare moltissime false attribuzioni e di ridimensionare il catalogo delle sue
produzioni autentiche. Esso comprende soprattutto opere di teatro musicale: 1) la
commedia musicale Lo frate’ nnamorato; 2) Il Prigioniero Superbo di librettista
anonimo tra i cui atti erano inserite le due parti dell’intermezzo La serva padrona; )
Adriano in Siria, su libretto di Metastasio tra i cui atti erano inserite le 2 parti
dell’intermezzo Livietta e Tracollo; L’Olimpiade; la commedia musicale Il Flaminio.
Lasciò anche musica sacra : 2 Oratori, Messe, e il famoso Stabat Mater per due voci
femminili e archi, composto poco prima di morire. Allo Stabat si può avvicinare il
Salve Regina in do minore, il più tardo dei due rimasteci.; in queste composizioni
Pergolesi lasciò numerosi esempi di purezza stilistica e di ricchezza inventiva. Dagli
studi più recenti risultano inoltre 4 sonate ( due per organo, una per violoncello, una
per violino continuo), l’oratorio La Fenice sul rogo ovvero La morte di S.Giuseppe, 2
messe, alcune cantate e solfeggi.
I contrassegni originali della musica pergolesiana sono la dolcezza e la malinconia
che traspare dall’invenzione melodica. Nel genere buffo mostrò, inoltre, una grande
maestria nel caratterizzare le varie situazioni. La sua Serva Padrona costituisce,
infatti, una tappa fondamentale nell’evoluzione del teatro musicale in quanto con essa
l’intermezzo si elevò a opera buffa vista anche la perfezione delle arie della breve
partitura che costituì un modello per i decenni a venire.

Tra gli operisti napoletani delle generazioni che seguirono l’età dei Porpora, Leo
Pergolesi, quelli che acquistarono maggiore fama furono Jammelli e Traetta, oltre
naturalmente Piccinni, Paisiello e Cimarosa dei quali si parlerà con riguardo all’opera
sentimentale.

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Niccolò Jommelli (1714-1774)
Nato ad Anversa e morto a Napoli, grazie alla protezione del marchese G.B.d’Avalos
poté far rappresentare la prima opera, L’Errore amoroso. Il successo gli aprì le porte
dei teatri di Roma, Bologna, Venezia, Vienna. A Vienna. In quest’ultima città
conobbe Metastasio e, entrando in contatto con l’ambiente che auspicava la riforma
del melodramma, diede origine ad opere quali Achille in Sciro, Catone in Utica nelle
quali mirò ad una coesione fra musica e testo poetico superiore a quella riscontrabile
nei melodrammi precedenti.
Il periodo più fulgido della sua attività fu quello trascorso a Stoccarda, quale maestro
di cappella di Karl Eugen duca di Wüttemberg. Per assecondare il gusto eclettico del
duca, combinò insieme la drammaturgia metastasiana e quella francese, immettendo
liberamente nella struttura dell’opera italiana cori, brani d’insieme, balli e dando
rilievo alle parti strumentali ed agli accompagnamenti.

Tommaso Traetta (1727-1779)


Pugliese di Bitonto, fu allievo di Porpora e Durante dedicandosi alla musica sacra e
all’opera conquistando rapida fama nei teatri di Napoli, Roma, Venezia. Nelle opere
Ippolito e Aricia e I tindaridi, su libretti del poeta di corte Carlo Innocenzo Frugoni,
Traetta animò l’azione introducendo brevi cori e danze e irrobustendo i recitativi. I
segni del rinnovamento stilistico si fecero più marcati nelle opere Armida e Ifigenia
in Tauride composte per Vienna.
Unità stilistica e qualità drammatica sono i pregi delle migliori opere serie di Traetta:
il coro non di rado vi ha parte di rilievo e consistente è la presenza del recitativo
accompagnato che sfocia con naturalezza nell’aria, mentre l’orchestra è ricca di
colori adeguati alle circostanze drammatiche.

Con Jommelli e Traetta siamo ormai ai limiti del gusto e dell’estetica metastasiana.
L’uno e l’altro, venuti, infatti, a contatto con ambienti più esigenti di quello della
patria napoletana, sperimentarono tipi di opera che tendevano a forzare i limiti delle
rigide strutture elaborate da Metastasio. Cosicché, negli ultimi 30 anni del secolo,
cioè nell’epoca di Piccinni, Paisiello, Cimarosa, i testi predisposti da Metastasio
venivano ancora musicati, ma dovevano subire rifacimenti e adattamenti mentre,
negli anni Novanta, essi sono ormai decisamente in declino e vengono sostituiti da
nuovi modelli, in gran parte di provenienza francese.

L’opera sentimentale
Una fase evolutiva dell’opera buffa è rappresentata dall’opera sentimentale o
commedia sentimentale o “larmoyante”. Essa pretende di ritrarre la realtà com’è, cioè
mista di comico e di serio, lasciando parte larghissima al patetico, al malinconico,
escludendo la grossolana e convenzionale esuberanza farsesca. Tra gli autori più
importanti si ricordano:

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Nicolò Piccinni (1728-1800)
Nato a Bari e morto a Passy, alle porte di Parigi, iniziò gli studi con il padre e li
completò a Napoli con Leo. Esordì in teatro con un’opera buffa, Le donne dispettose.
A poco più di 30 anni scrisse il suo capolavoro, “ La Cecchina o La buona figliola su
libretto di Goldoni. Nell’opera, primo esempio di commedia sentimentale, si rivela
una mescolanza di grazia e spontaneità. Alla fine del 1776 si trasferì a Parigi, in
quanto era stato chiamato dai sostenitori del gusto italiano, per contrastare il
crescente successo di Gluck il quale propugnava un tipo teatro in cui la musica fosse
a stretto servizio della poesia, mentre nel modello italiano accadeva il contrario.
Scoppiata la rivoluzione francese, Piccinni perdette il posto a corte e nel 1791 tornò a
Napoli ma poco dopo rientrò a Parigi dove morì.

Giovanni Paisiello (1740-1816)


Si consolidò come operista a partire dal1764 nei teatri dell’Italia Settentrionale, in
particolare a Bologna con Il Ciarlone. Tornato a Napoli nel 1766, compose 3 opere
serie: La vedova di bel genio, L’idolo cinese e Lucio Papirio dittatore, che gli
spalancarono le porte degli ambienti culturali della città. Soggiornò a Pietroburgo e
qui fece rappresentare tra gli altri lavori: La serva padrona ( su libretto che era già
servito a Pergolesi) e Il barbiere di Siviglia componendo anche musiche strumentali
(tra cui concerti per clavicembalo e orchestra). Tornò a Napoli come compositore
della corte borbonica e a questo periodo appartengono 2 opere giocose di successo:
La molinara e Nina pazza per amore, altro mirabile esempio di commedia
sentimentale.
Compose un centinaio di opere e oltre a quelle nominate si ricordano: Il mondo alla
rovescia e Socrate immaginario. Non trascurabile risulta infine, la produzione sacra e
strumentale.
Tra le caratteristiche della musica di Paisiello va ricordata la cura della parte
strumentale con l’uso dei fiati a sostegno delle voci, le sinfonie in un solo tempo, il
trapianto dei concertati dalle opere buffe al genere eroico e l’introduzione di cori
nelle arie.

Domenico Cimarosa (1749-1801)


Riscosse il suo primo importante successo con l’opera L’italiana in Londra,
rappresentata a Roma. Nel 1787 fu invitato a coprire il posto di maestro di cappella
presso la corte di Pietroburgo. Vi rimase  anni e durante il lungo viaggio di ritorno si
fermò anche a Vienna, dove scrisse e fece rappresentare il suo capolavoro: Il
matrimonio segreto, melodramma giocoso con connotazioni di commedia
sentimentale. Questo lavoro è ritenuto il momento più alto dell’opera comica.
L’opera presenta una struttura compatta ed unitaria e la vicenda si svolge con
dosaggio sapiente fra le arie e i pezzi d’ insieme. Le melodie sono piacevoli,
scorrevole l’orchestrazione. Le tenere ansie di due trepidanti e giovanissimi amanti
infelici costituiscono le venature liriche della vicenda in un contesto ambientale di
pettegole e zitelle. La musica si spande fluida creando una vitale continuità
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drammatica che assicura a tutti i caratteri una persuasiva dimensione umana. Come
molti fra i suoi contemporanei, Cimarosa fu assai fecondo. Scrisse più di 70 opere,
serie ( tra cui gli Orazi e i Curiazi) e buffe ( tra cui Giannina e Bernardone, I Traci
amanti, Le astuzie femminili), cantate, oratori, messe e mottetti; 87 composizioni per
strumento a tastiera, musiche strumentali.

L’OPERA A VENEZIA

Premessa
Per tutto il XVIII secolo la città lagunare rimase il più vivo centro musicale dell’Italia
Settentrionale. La “macchina” teatrale infatti continuava a girare a Venezia come e
più che nel secolo precedente. I teatri continuavano ad essere un’attività
imprenditoriale lucrosa in mano ad alcune delle famiglie più illustri: 1) i Grimani
(possedevano il S. Mosè e avevano sostituito il teatro dei Santi Giovanni e Paolo con
il teatro di S.Giovanni Grisostomo,); 2) i Tron (che possedevano il S.Cassiano), i
Cappello ( che possedevano il S.Angelo).
C’era, inoltre, concorrenza tra i vari teatri e in alcuni di essi si allestivano solo opere
serie, mentre in altri si rappresentavano anche opere buffe.
I teatri veneziani producevano annualmente spettacoli operistici in numero molto
maggiore che in ogni altra città. Si pensi che tra il 1700 e il 1743 furono rappresentate
in tutto 432 opere diverse. Vi erano bene accolti i maestri forestieri, soprattutto
napoletani, e le loro opere erano ospitate nei vari teatri. Porpora, Jommelli, Traetta,
Sacchini e Cimarosa soggiornarono anche lungamente a Venezia, composero per i
suoi teatri e assunsero anche la funzione di maestri negli Ospedali.

Gli ospedali veneziani


Gli “ospedali Veneziani” furono istituzioni affini ai Conservatori di Napoli ed erano
orfanotrofi situati in 4 parti della città, nei quali si istruivano musicalmente le
orfanelle ( “ fiole”). Tali istituti caritativi erano gli ospedali: 1) degli Incurabili alle
Zattere; 2) dei Mendicanti; ) dei Derelitti ai Santi Giovanni e Paolo; 4) della Pietà
Sulla Riva degli Schiavoni.
Alla guida musicale degli ospedali erano preposti i maggiori compositori, ivi
compresi i maestri e i vice-maestri di S. Marco. Nei giorni festivi le “fiole”
accompagnavano le funzioni religiose con esecuzioni che attiravano gran pubblico di
Veneziani e Stranieri.

Principali operisti
Tra gli operisti Veneziani se ne devono ricordare almeno due: Vivaldi e Galuppi.

Antonio Vivaldi (1678-1741)


Nacque a Venezia e alla formazione musicale affiancò la formazione ecclesiastica.
Nel 1703 fu ordinato sacerdote, ma appena un anno dopo dovette rinunciare a dir
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messa per ragioni di salute. Nello stesso anno 1704 veniva nominato maestro di
violino delle ragazze allevate all’Ospedale della Pietà. Qui rimase praticamente per
tutta la vita, fino al 1740, conferendo grande prestigio a quella Istituzione, soprattutto
per merito delle composizioni sacre e strumentali che Vivaldi scriveva per le giovani
allieve. Egli cominciò ad interessarsi del teatro d’opera quando aveva già 35 anni
anche se comunque non perse tempo: si calcola, infatti, che tra il 1713 e il 1739 abbia
composto una quarantina di opere serie. Ma Vivaldi non si limitava a comporre le
opere e affidarle ai teatri. Egli fu un compositore-impresario, in quanto allestiva in
proprio le sue produzioni e scritturava direttamente i cantanti. Era legato soprattutto
al Teatro S. Angelo, ma produsse opere anche per i teatri di Vicenza, Firenze, Roma,
Milano.
Analizzando la produzione di Vivaldi come operista, si è notato come ad esempio
alcune arie sono trasportate di peso da un’opera all’altra, mentre molti pezzi a causa
della fretta risultano banali. Ma, l’operista Vivaldi non è inferiore al compositore dei
concerti non mancandogli, infatti, né estro né fantasia. Tra le opere da ricordare si
citano: Il Farnace, Orlando, La fida ninfa, L’Olimpiade, La Griselda.

Baldassare Galuppi (1706-1785)


Chiamato il “ Buranello” perché nato nell’isola di Burano, trascorse quasi tutta la vita
a Venezia. Fu vice-maestro e poi maestro della cappella di S.Marco. Fu anche
maestro all’Ospedale dei Mendicanti e poi degli Incurabili e, tra il 1765 e il 1768, fu
a Pietroburgo alla corte di Caterina II.
Compositore fecondissimo, scrisse un centinaio di opere teatrali; tra quelle serie si
ricordano: Adriano in Siria, La Clemenza di Tito, e qui preferì i libretti di Metastasio.
Ma fu nel genere comico dove egli eccelse e fu determinante l’apporto di Goldoni del
quale musicò 20 libretti tra i quali si ricordano: L’Arcadia in Brenta, Il mondo della
luna, Il mondo alla roversa, Il filosofo di campagna. Tali opere e numerose altre,
rivelano qualità di stile e gusto formale diversi da quelli in uso presso i maestri
napoletani. Galuppi ama commentare l’azione, seguire fedelmente il rapporto poesia-
musica evitando il canto fine a se stesso, insistere su temi chiari e netti e
aritmicamente ben sbalzati.
Compose anche 27 oratori, molta musica sacra e varia musica strumentale.

COMPOSITORI D’OLTRALPE

La fortuna goduta dell’opera italiana durante il XVIII secolo presso pubblici di ogni
ceto e condizione è testimoniata dalla sua trionfale diffusione nei teatri di corte e
pubblici d’Italia e di molti parti d’Europa. Molti compositori stranieri scrissero,
infatti, opere in stili italiani. Tra essi, il musicista più integrato nella concezione
dell’opera settecentesca italiana fu un tedesco.

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Johann Adolf Hasse (1699-1783)
Allievo di Alessandro Scarlatti, mise in musica quasi tutti i libretti di Metastasio e
nelle circa 60 opere teatrali si dimostrò uno dei più validi esponenti dell’opera
napoletana, impiegando frequentemente il recitativo drammatico e dedicando attente
cure all’accompagnamento orchestrale.
Considerato il massimo esponente dello stile dell’opera seria italiana del Settecento,
fu uno dei compositori più prolifici del suo tempo: scrisse oltre 50 melodrammi, 11
oratori, moltissima musica sacra e lavori strumentali in genere. In tutte le sue
composizioni si trova una grande abilità nel fondere la severità di linguaggio appresa
in Germania con la vena melodica tipica dell’opera napoletana.

L’elenco della produzione operistica italiana di musicisti stranieri comprende inoltre:


- la ricca attività teatrale di Händel ( Agrippina, su libretto del cardinal Grimani;
Radamisto; Giulio Cesare; Admeto; Rodelinda; Serse; Orlando; Alcina);
- le 11 opere di Johann Christian Bach;
- le opere italiane di Gluck precedenti l’Orfeo ed Euridice (La Caduta dei
giganti, La clemenza di Tito);
- tutte le opere scritte da Haydn per il teatrino a Esterhàz ( si tratta di 13 opere,
prevalentemente buffe, cantate in italiano);
- le opere serie e comiche di Mozart ( serie: Ascanio in Alba, Lucio Silla, La
clemenza di Tito) ( comiche: Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan
tutte).

MATERIALE ANALIZZATO NEL CORSO DELLE LEZIONI

PIETRO METASTASIO, L’Olimpiade.

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