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Aldo Stella
Università degli Studi di Perugia e Università per Stranieri di Perugia
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All content following this page was uploaded by Aldo Stella on 19 October 2015.
Riassunto: Prendendo spunto da due articoli, scritti da Bottaccioli e Villani, vengono discussi il modello riduzionista e il modello
sistemico e si cerca di evidenziare che essi devono venire integrati, piuttosto che contrapposti, se si tiene conto del concetto di
relazione. La relazione, che viene valorizzata dal modello sistemico, si pone solo poggiando sui termini, che vengono valorizzati dal
modello riduzionista, e questi ultimi, però, per presentare un’identità determinata non possono non relazionarsi, giacché determinare
è differenziare. Così intesa, cioè come costrutto mono-diadico, la relazione si rivela tuttavia un circolo, perché si costituisce
presupponendo quegli stessi termini che la presuppongono. Si conclude affermando la necessità di intenderla non come uno status,
ma come l’atto del riferirsi di ogni determinato, così che anche l’integrazione dei due modelli indicati va intesa non come una
relazione che mantiene i termini, ma come il loro reciproco superarsi in un’unità di senso che li ricomprenda e risignifichi.
Parole chiave: Modello riduzionista, modello sistemico, relazione, costrutto, integrazione, atto.
Abstract: Reductionist or systemic model? Some cues for a reflection. Starting from two articles written by Bottaccioli and Villani we
discuss the reductionist and systemic models and we highlight how they need to be integrated, rather than opposed, when we take
into account the concept of relation. The relation which is used in the systemic model is established only by relying on its terms,
which in turn are appreciated by the reductionist model, these terms however in order to represent a determined unity cannot but be
in a relation, because to determine is to differentiate. Thus interpreted, i.e. as a mono-dyadic construct, relation appears to be a circle,
because it is constructed by presupposing those very terms by which it is presupposed. Therefore we conclude by affirming the need
for interpreting the relation not as a status but as the act of referring of every determined being, in such a way that also the integration
of the two models must be understood not as a relation which maintains its terms, but as their reciprocal overcoming in a unity of
meaning which comprises them and gives them a new meaning.
Key-words: Reductionist model, systemic model, relation, construct, integration, act.
1. Introduzione
La presente ricerca intende riflettere sul modello riduzionista e sul modello sistemico-relazionale, che
costituiscono i due principali modelli su cui si basano le odierne scienze empiriche e sperimentali. Per
svolgere l’analisi, prenderemo spunto da due lavori, comparsi nel numero 1 del Volume 37 della Rivista
“Epistemologia” e scritti da Francesco Bottaccioli e Giovanni Villani.
Il modello riduzionista non può non venire trattato senza fare riferimento al metodo analitico di indagine
nonché alla prospettiva naturalista, la quale, nella sua versione più estrema, si traduce nella concezione del
monismo materialistico. Il modello sistemico-relazionale è un modello complesso, perché fa valere il primato
del sistema sui suoi elementi e il valore delle interazioni che sussistono tra di questi. Tale modello nasce in
ambito fisico con l’affermarsi del concetto di informazione, che consente di intendere i sistemi non più come
chiusi, ma in continua comunicazione gli uni con gli altri. Con l’opera Teoria generale dei sistemi (1968),
Ludwig von Bertalanffy pone i concetti fondamentali del nuovo modello, che viene poi proposto
all’attenzione generale da Gregory Bateson (1972) e da Edgar Morin (1990). Morin, in particolare, parla di
pensiero complesso e, soprattutto, di unitas multiplex, per indicare la necessità di intendere anche l’unità in
senso dinamico. Del resto, lo stesso concetto era stato espresso ancora prima da Emanuele Severino (1958),
il quale aveva parlato di struttura originaria, per intendere un fondamento che sia in sé dinamico e
articolato: l’unità di un molteplice.
Il modello della complessità incontra sempre maggiori consensi e, in particolare, le scienze umane fanno
ricorso alle teorie sistemiche per fornire una lettura pregnante della dialettica che caratterizza la vita di
ciascun soggetto. Le stesse scienze biologiche e mediche, che inizialmente avevano sposato il modello
riduzionista, come sottolinea Bottaccioli, recentemente si stanno aprendo ad una diversa prospettiva, cioè al
modello bio-psico-sociale, volto a sottolineare la necessità di intendere la stretta interconnessione che
sussiste tra la dimensione biologica, quella psichica e quella sociale.
La nostra ricerca intende stabilire se i due modelli debbano effettivamente venire contrapposti o se,
invece, essi si pongano a condizione di integrarsi reciprocamente. Ciò implica la necessità di svolgere
*
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università per Stranieri di Perugia; Piazza Fortebraccio 4, 06123, Perugia,
Italia; tel. 335-7027281; e-mail: aldo.stella@unistrapg.it
un’analisi del concetto di relazione, che risulta centrale sia che si valorizzi il suo sciogliersi nei termini che la
costituiscono (modello riduzionista) sia che si valorizzi il suo congiungerli (modello sistemico).
2. Il modello riduzionista
A proposito del modello riduzionista, così scrive Bottaccioli (2014, p. 6): «Un paradigma basato sulla
grande illusione di poter ridurre a determinanti semplici e quindi a conoscenze incontrovertibili la
complessità della vita». Ebbene, il fondamento di tale modello è precisamente il metodo analitico, che
caratterizza la ricerca scientifica. Aggiunge, infatti, Bottaccioli, che si occupa della scienza medica: «La
ricerca delle cause, nel paradigma meccanicista, segue la procedura analitica che consente di scendere dal
complesso al semplice con l’obiettivo di trovare a questo livello i determinanti molecolari della condizione
fisiopatologica analizzata» (p. 9).
Analizzare significa “scomporre” e ciò è testimoniato dall’etimo stesso della parola: ana-lyein, infatti,
indica lo “sciogliere un vincolo”. Da un punto di vista teoretico, è da rilevare che l’analisi, di qualunque tipo
di analisi si tratti, per essere pienamente intelligibile deve richiedere come condizione a parte ante l’intero,
perché solo quest’ultimo non è esito di un processo analitico. Se non che, nel suo esercitarsi essa trasforma
l’intero e lo riduce a composto, perché solo il composto può venire analizzato senza venire alterato, cioè
senza perdere quell’interezza che non gli appartiene. Il composto, quindi, è bensì ciò che l’analisi
presuppone, ma, valendo come unificazione di elementi, a sua volta presuppone l’analisi, in un circolo che
risulta vizioso.
L’irriducibilità dell’unità che caratterizza l’intero alla sintesi del composto è indicata dallo stesso
Aristotele e Guido Calogero (1968) non manca di rilevarlo, nel momento in cui distingue due modi di
intendere l’unità del sinolo:
La teoria che caratterizza la concezione aristotelica del reale nel suo rapporto con l’ideale è, come è noto, quella
per cui l’uno e l’altro, come materia e forma, raggiungono, al di là della loro astratta separazione, il loro vero
essere nell’unità del sinolo. Dottrina fondamentale nel sistema aristotelico in quanto, coincidendo la materia con
la potenza e la forma con l’atto (come actum), il concetto di sinolo s’identifica con quello mediante cui si risolve
principalmente, in quel sistema, l’aporia platonica del divenire. Nei testi aristotelici si trova d’altra parte espressa
anche una diversa veduta, che si sostituisce alla prima (o le si aggiunge, ma in modo che il primo termine finisce
poi per essere dimenticato e trascurato) e in forza della quale l’unità dinamica del sinolo viene trasformata in
un’unità di mera giustapposizione, per cui il reale si presenta come nesso di una substantia e di vari accidentia
(pp. 3-4).
Se, insomma, l’unità è autentica, allora deve essere pensata come irriducibile alla semplice sommatoria
dei costituenti, giacché quest’ultima configura una relazione, una sintesi. Facendo valere un punto di vista
meno teoretico e più operativo, è possibile ravvisare il limite dell’analisi nel fatto che la scomposizione si
compie applicando una forza che deve superare la forza unificante. Allorché si cerca di ricomporre l’unità,
tale vis deve venire considerata come componente essenziale, anche se non è facile determinarla. La fisica
contemporanea, proprio per la ragione addotta, allorché intende ricostituire l’unità non considera solo i
componenti elementari, ma anche i coefficienti di interazione. In tal modo, si supera bensì la semplice
giustapposizione, ma non si torna però all’unità dell’intero.
Non di meno, la conoscenza degli elementi viene ordinariamente considerata come il coglimento della
struttura intrinseca dell’oggetto (fenomeno). Pervenire all’elemento costituisce l’obiettivo dell’analisi, perché
solo di fronte ad esso l’analisi può considerarsi effettivamente compiuta. Tuttavia, conoscere un fenomeno
(oggetto) significa non solo individuare le relazioni intrinseche che, vincolando i suoi costituenti,
configurano la sua struttura, ma altresì individuare le relazioni estrinseche che vincolano il fenomeno
considerato ad altri fenomeni, che ne costituiscono le cause o i fattori che concorrono al suo prodursi.
Del resto, lo stesso processo della spiegazione può venire pensato come poggiante sulla relazione tra lo
explicandum (explanandum), ossia ciò che domanda di venire spiegato, e lo explicans (explanans), ossia ciò
che consente di spiegare. La relazione riveste, dunque, un ruolo fondamentale nel processo conoscitivo,
inteso nelle modalità più significative del suo configurarsi.
La questione, però, è se i fattori individuati possano davvero venire considerati gli unici ad avere un ruolo
nella produzione del fenomeno esaminato o, nell’altro caso, se il fenomeno, inteso nella sua interezza, possa
venire ridotto alla sommatoria delle sue componenti e, inoltre, se gli elementi individuati siano davvero
atomici, cioè non ulteriormente divisibili. Si pensi, ad esempio, alla fisica atomica. L’atomo, che si intende
valga come l’indivisibile (a-tomos), risulta tale solo in riferimento agli strumenti in forza dei quali si cerca,
di volta in volta, di dividerlo. Ciò che, pertanto, risulta indivisibile a muovere da determinati strumenti, può
risultare divisibile se si usano strumenti più sofisticati. Se non che, l’analisi non può accettare un progressus
in indefinitum. Essa è costretta a postulare, di volta in volta, di essere pervenuta a qualcosa che funga da
elemento, perché solo l’elemento può giustificare l’arresto dell’analisi.
La difficoltà a reperire l’elementare ha comportato la necessità di procedere sempre avanti nella
scomposizione, così che la ricerca scientifica si è caratterizzata per la tendenza ad “esasperare” l’analisi.
L’oggetto del conoscere viene così frantumato, quasi polverizzato, senza che si riesca mai a legittimare, in
forma definitiva, né ciò che viene assunto come indivisibile né la sintesi degli elementi, alla quale l’unità
originaria del fenomeno non può mai venire ridotta, almeno in un modello ideale di conoscenza.
Quanto è stato affermato vale anche per la scienza medica, che ha scelto l’individuo come suo oggetto di
ricerca, come ci fa notare Bottaccioli che del modello medico principalmente si occupa. L’individuo, inteso
nel senso di persona, è l’elemento su cui poggia quell’insieme che viene definito “società” e vale come
indivisibile per la scienza che di quell’insieme si occupa. Non per niente, la parola “individuo” indica
precisamente questo: non diviso. Tuttavia, se vale come indivisibile per la scienza che si occupa della
società, ciò nondimeno esso diventa divisibile per quella scienza che progetta di coglierne la struttura.
Si impone qui una importantissima precisazione: la dualità di mente e corpo, che molti considerano il
retaggio della cultura idealistica, inaugurata da Platone, o del razionalismo cartesiano, è in effetti non altro
che l’esito della iniziale scomposizione dell’individuo, scomposizione che è la possibilità stessa che esso
venga conosciuto, secondo il modello scientifico del conoscere. Conoscere l’individuo significa
precisamente ridurlo alle sue componenti, le quali vengono connotate, in prima approssimazione, come
“mente” e “corpo” proprio per il fatto che il conoscere trova in esso un elemento attivo, che si esprime nella
stessa attività conoscitiva, e un elemento passivo, che è ciò su cui l’attività si esercita e che viene definito
corpo – o materia – perché, almeno inizialmente, risulta soggiacere totalmente all’attività, come qualcosa di
inerte.
Ogni ulteriore conoscenza dell’individuo si pone a muovere dall’assunzione del corpo e della mente come
oggetti di ricerca successiva. Intendiamo dire che, dopo la prima scomposizione, è possibile procedere
analizzando sia la mente che il corpo, i quali, ancorché reciprocamente vincolati, una volta che sono stati
sciolti dal vincolo possono venire assunti separatamente l’uno dall’altro e su ciascuno di essi è possibile
esercitare l’attività analitica. Con questa conseguenza: il corpo viene smembrato in una molteplicità di
organi, gli organi vengono opportunamente analizzati e risolti in una molteplicità di cellule e le cellule in
elementi sub-cellulari, secondo una progressione che aspira a pervenire all’atomo biologico, ma che si trova
di fronte sempre e soltanto un elemento che può, a sua volta, venire ulteriormente scisso.
Questo sviluppo iper-analitico della ricerca ha comportato, sul piano operativo, la iper-specializzazione
delle competenze scientifiche, in generale, e mediche, in particolare, dando luogo altresì ad uno sviluppo
impetuoso delle conoscenze specifiche e specialistiche, ma anche alla perdita del senso di unità che vincola
ciascuna parte al tutto. Ad un analogo destino, del resto, è andata incontro la mente, la quale è stata anch’essa
scomposta in una molteplicità di funzioni, variamente configurate e variamente espresse e riprodotte in forma
computazionale, alla ricerca di quello che potremmo definire lo “psicone”, ossia di quell’atomo psichico che
possa in qualche modo venire assimilato al neurone e svolgere, a livello della psiche, la funzione elementare
che il neurone svolge a livello del sistema nervoso.
In un simile universo teorico, la parte rischia di non essere colta come parte-di-un-tutto, ma come una
realtà che possa in una qualche misura venire considerata autonoma e autosufficiente. Questo, a nostro
giudizio, costituisce il limite principale della concezione riduzionista: l’attenzione è stata rivolta
essenzialmente all’elemento, così che si è finito per dimenticare quel vincolo che intrinsecamente lo connette
all’insieme degli altri elementi. Ciò ha comportato, da un lato, il perdere di vista il significato che la parte ha
all’interno del sistema; dall’altro, il non considerare la peculiarità dei cosiddetti “sistemi complessi”, che
sono tali per la ragione che presentano proprietà emergenti. Tali proprietà, infatti, non sono riducibili a
quelle dei loro costituenti elementari:
Negli anni Ottanta il filone della biologia teorica che propone nuove soluzioni non meccaniciste si arricchisce
della ricerca sulle proprietà emergenti nei sistemi complessi, proprietà quindi che non sono presenti in quanto tali
nei costituenti il sistema, ma che sorgono come novità dalle interazioni tra questi elementi (Bottaccioli, p. 11).
3. Riduzionismo e monismo
Per la presente ricerca, non risulta essenziale considerare l’aspetto per il quale il riduzionismo si è spesso
accompagnato al determinismo. Ci interessa sottolineare, però, che in taluni casi esso si è saldato con una
forma di naturalismo fisicalistico sempre più radicale, così che quella concezione che è stata definita
“monismo materialista” può venire oggi considerata la forma più estrema di riduzionismo.
Tale estremizzazione, va rilevato, è in contrasto con la concezione dello stesso Willard Van Orman Quine
(1969), cui si deve il progetto di naturalizzare l’epistemologia, che ha creato le condizioni per il processo di
naturalizzazione della mente. Quine non intende fare riferimento ad un modello riduzionista e per questo
sottolinea non solo la sottodeterminazione delle teorie empiriche, ma altresì il vincolo tra linguaggio e teoria
e, pertanto, la necessità di far valere la tesi olistica, che impone di assumere ogni teoria in stretta connessione
con tutte le altre, senza poterne assumere alcuna come unica e definitiva (1975).
Del resto, anche il fisicalismo non sempre si è associato ad un monismo radicale, come testimonia la
prospettiva delineata da Donald Davidson (1970). Davidson propone un monismo anomalo, perché il
rigoroso fisicalismo sul piano ontologico non comporta, come in molti altri casi, la completa riduzione della
mente alla dimensione fisica e materiale. Per questo motivo, si tratta di un “fisicalismo non riduttivo”.
Non di meno, in molte altre concezioni, che associano naturalismo e fisicalismo, l’esito è quel monismo
materialistico che, a nostro giudizio, costituisce la forma più radicale di riduzionismo. In tale prospettiva,
infatti, viene bandita ogni forma di dualismo, perché ritenuta contraria alla concezione scientifica del mondo.
Il dualismo, questo è il cuore della questione, viene considerato con sospetto in ogni sua forma, proprio
perché contrasta con la riduzione dell’oggetto di indagine alla realtà fisica, considerata appunto l’unica realtà
veramente esistente.
In quell’ambito di ricerca, che viene definito “Filosofia della mente”, la concezione monista ha
comportato il rifiuto della stessa distinzione di mente e corpo. Infatti, pensare la mente come una sostanza,
una sostanza che pensa, per dirla con Cartesio, e contrapporla alla sostanza corporea, cioè alla materia, viene
considerato dalla maggioranza dei ricercatori un errore, come esplicitamente afferma Antonio Damasio
(1994), e l’errore consiste nell’attribuire realtà alla mente, cioè a qualcosa che non è fisico, dunque materiale.
Daniel C. Dennett (1991) esprime in forma esemplare la concezione monista, usando queste parole:
Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che egli chiamava “il dogma cartesiano dello spettro
nella macchina”, i dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il
materialismo: esiste un solo tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui si occupano la fisica, la
chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve la mente è il
cervello (trad. it., p. 45).
L’aspetto che ci sembra interessante considerare è questo: se Ryle rifiuta il principio della soggettività,
Dennett fa proprio questo rifiuto, perché l’io cosciente gli sembra un concetto del tutto estraneo ad una
concezione scientifica del mondo. Muovendosi all’interno di quest’ultima, il complesso deve venire
ricondotto-ridotto al semplice, in modo tale che l’intelligenza deve risultare il prodotto di un insieme di
operazioni elementari inintelligenti e la coscienza il risultato di una molteplicità, per altro estremamente
complessa, di processi inconsci.
Così procede Dennett nella sua argomentazione: «Secondo i materialisti, possiamo […] dare una
spiegazione di ogni fenomeno mentale usando gli stessi principi fisici, le stesse leggi e gli stessi materiali
grezzi che ci bastano per spiegare la radioattività, la deriva dei continenti, la fotosintesi, la riproduzione, la
nutrizione e la crescita» (Ibidem). Il contesto in cui Dennett ritiene di dover porre lo studio della mente è
quello di ogni altra scienza naturale, e cioè mantenendo fermo l’assunto del monismo ontologico, cui non
può non far seguito quello del monismo metodologico. Come giustificare l’assunto? In questo modo:
Benché siano delle entità o sostanze distinte, la mente e il cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non
abbiamo (per ora) la minima idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo neanche immaginare (per
ora) come possa essere influenzata dai processi fisici che provengono in qualche modo dal cervello, quindi
ignoriamo per il momento questi segnali ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli che vanno dalla
mente al cervello. Questi, ex hypothesi, non sono fisici; non sono onde elettromagnetiche o onde acustiche o
raggi cosmici o fasci di particelle subatomiche. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi. Come
riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali ad essi collegate? (pp. 45-47).
Il punto su cui a noi qui interessa riflettere è il seguente: come è possibile giustificare la differenza in un
contesto di radicale monismo? Anche se i sostenitori della concezione monista non possono non ammettere
la molteplicità degli enti, è da domandarsi tuttavia come tale molteplicità possa venire giustificata da un
punto di vista teoretico-concettuale.
In una concezione autenticamente monista, infatti, non è ammissibile una differenza di sostanza, giacché
il monismo afferma che la sostanza non può non essere unica. Deve trattarsi, dunque, di una differenza di
forma, come accade, ad esempio, agli esseri umani, i quali sono fatti tutti della stessa materia, ma sono
molteplici in virtù della forma che li specifica. Con questa inevitabile conseguenza: per legittimare la
differenza il monista deve ammettere almeno un dualismo, quello che distingue la forma dalla sostanza.
D’altra parte, se il modello riduzionistico si vincola al metodo analitico, almeno nel senso che l’analisi
riduce-riconduce il composto ai suoi costituenti, allora esso non può non postulare la relazione come suo
punto di movenza. Se non che, nella misura in cui il punto di approdo del riduzionismo è il monismo, allora
il processo della riduzione si configura come la negazione del suo stesso punto di movenza, rappresentato
appunto dalla relazione. Quest’ultima, infatti, non può non implicare la differenza dei termini relati e ciò
vale, in un certo senso, per la stessa relazione di identità, come icasticamente afferma Aristotele:
L’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una
molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene
considerata appunto come due cose (trad. it., p. 236).
In effetti, alcuni studiosi, come per esempio John R. Searle (1997, 2004), pur parlando di monismo di
sostanza, ammettono un dualismo di proprietà e in ciò mostrano di riconoscere il problema. Se non che, nel
momento in cui al sostantivo “monismo” viene aggiunto l’aggettivo “materialistico” si finisce per
determinare quel monos che, invece, è autenticamente uno solo nella misura in cui è assoluto, cioè sciolto da
ogni relazione, da ogni vincolo ad altro da sé. De-terminare, infatti, significa de-limitare e cioè porre un
limite, il quale identifica ciò che è limitato (A) solo in quanto lo riferisce a ciò che lo limita (non-A). La
relazione torna così a riproporsi come essenziale e pretendere di relegarla nell’ordine fenomenico, che
domanda di venire superato, contrasta con il fatto che essa costituisce intrinsecamente proprio l’ordine
sostanziale, perché rappresenta precisamente ciò che consente di identificare la sostanza come “materiale”,
differenziandola da ciò che materiale non è: la non-materia è postulata dalla stessa materia.
Che è come dire: se si ammette un’unica sostanza aut la si intende come l’assoluto stesso, ma allora non
la si può determinare, aut la si determina, ma allora si nega per ciò stesso la possibilità di considerarla
autenticamente unica, così che l’espressione “monismo materialistico” si rivela, a rigore, un’antilogia.
4. Il modello sistemico-relazionale
Il modello sistemico-relazionale, invece, mette in primo piano la relazione e ne enfatizza il ruolo. Così
scrive Bottaccioli, a proposito dell’affermarsi del modello sistemico: «Insomma siamo dentro un epocale
cambiamento del paradigma della biologia molecolare: nel micro mondo della vita, dove sembrava
obbligatorio il dominio dell’approccio riduzionista, emerge con forza dirompente l’approccio sistemico» (p.
11). E aggiunge: «Quello che conta quindi è l’interazione tra gli elementi, non semplicemente la loro analisi.
Comprendere come interagiscono tutti gli elementi significa darsi una rappresentazione del sistema che
opera» (p. 12).
Ciò che si impone come imprescindibile è dunque l’esigenza del recupero di una visione d’insieme, di
una sintesi che sappia ricomporre la molteplicità degli elementi in una configurazione unitaria. A muovere
dalla Teoria generale dei sistemi, che costituisce il manifesto del nuovo programma della fisica teorica,
anche le altre scienze, incluse le scienze mediche e psicologiche, sono sempre più diventate scienze di
relazioni. La consapevolezza, che ha fondato l’autentica rivoluzione epistemologica rappresentata dai
modelli della complessità e dell’olismo, è precisamente quella che coglie la determinazione come
intrinsecamente connessa a tutte le altre, giacché queste ultime sono essenziali al suo porsi come “quella”
determinazione.
Come abbiamo cercato di indicare, senza la relazione, cioè senza il limite, nessuna identità potrebbe porsi
in forma determinata; ma quella identità, che viene posta in forza del limite, è un’identità che si vincola
inscindibilmente alla differenza e solo astrattamente può venire separata da essa. La scienza, dopo il suo
enorme sviluppo analitico, tende ora a dispiegarsi in forme altrettanto compiute sul versante della sintesi,
cioè della ricomposizione di ciò che è stato diviso.
Si potrebbe così affermare che, se la spiegazione vale come esplicitazione della genesi di un fenomeno, la
genesi tuttavia non può esaurirsi, ingenuamente, nella individuazione di una causa unica. Parlare di “causa”
comporta il riferirsi, almeno implicitamente, al concetto di “concausa”. Il modello multifattoriale, in tal
modo, viene progressivamente ad imporsi in virtù della consapevolezza del valore della relazione, che
consente di porre in essere un tipo di spiegazione sempre più aperta, perché non dogmatica, non più basata,
cioè, sulla valorizzazione esclusiva di un elemento, di una causa, di una teoria.
Si prenda, come esemplificazione, il modello bio-psico-sociale. Questo nuovo modello di spiegazione, in
grado di far interagire sistemi teorici diversi – oltre che diverse sezioni di esperienza, che a quei sistemi si
riferiscono –, è più comprensivo, nel senso che è in grado di cum-prehendere una molteplicità di fattori che
entrano in gioco nel prodursi di un fenomeno, anche somatico.
Più in generale, ogni evento può venire effettivamente conosciuto solo perché viene colto nella fitta rete
di rinvii che lo vincola ad altri eventi, in quel tessuto che è appunto l’esperienza, la cui concretezza deve
venire intesa nel senso del cum-crescere degli eventi, cioè del porsi e dell’evolversi di ciascuno in
riferimento a tutti gli altri. Questa molteplicità di riferimenti determina un’influenza reciproca tra gli eventi,
così che valorizzarne uno soltanto, promuovendolo a causa unica, equivale a porre in essere una autentica
astrazione, ossia un abs-trahere, un tirare fuori un dato dalla catena dei riferimenti che lo vincola agli altri
dati.
Se il riduzionismo preso in esame in precedenza aveva messo capo, se estremizzato, ad una concezione
rigidamente fisicalistica e materialistica, il modello complesso produce una concezione funzionalistica, la
quale, in una qualche misura, determina una nuova forma di riduzionismo: un riduzionismo funzionalistico,
piuttosto che materialistico. La concezione funzionalistica, infatti, consente bensì di andare oltre l’aspetto
ingenuo del determinismo e del meccanicismo e abbandona la pretesa di definire le essenze ultime dei
fenomeni, giacché si accontenta di descriverli nei termini di processi funzionali, tuttavia la conoscenza viene
risolta in termini computazionali: conoscere una cosa significa ormai conoscere i rapporti che la vincolano a
tutte le altre cose, così che il calcolo diventa la forma ideale di una descrizione che è soprattutto quantitativa
e misurazionistica. Come esemplificazione potremmo indicare il funzionalismo computazionale in cui si
esprime il modello cognitivo classico o simbolico.
Precisamente per le ragioni addotte la matematica costituisce il paradigma essenziale di ogni scienza
empirica, configurando la modalità più precisa per formalizzare e calcolare i nessi che sussistono tra le
determinazioni. Ciò comporta, però, la valorizzazione del solo aspetto sintattico e la messa in parentesi
dell’universo dei significati. Ma la dimensione del significato non può venire eliminata, giacché costituisce
l’elemento qualitativamente più rilevante almeno di una funzione, della funzione psichica. In questo senso,
parliamo di riduzionismo funzionalista, per l’incapacità che questo modello denuncia nel trattare il tema
della coscienza, che è intrinsecamente vincolata alla dimensione semantica.
Villani, nel suo saggio, per sottolineare il ruolo avuto dal modello sistemico-relazionale nella definizione
del concetto di vita, parla di «complessità sistemica» (2014, p. 34) e scrive:
Lungo la storia della biologia, l’alternativa è sempre stata […] tra una visione “passiva” della materia e con
proprietà (come la vita) generate dalla sua organizzazione (meccanica) spaziale e una visione “attiva” della
materia (come quella chimica), ma le cui proprietà (compresa la vita) dovevano essere inglobate negli elementi
costitutivi, fossero essi le particelle vive o una materia organica specifica (p. 35).
L’opposizione quindi, tra proprietà e organizzazione, tra materia attiva e passiva, è eliminata dicendo che è vero
che le caratteristiche originali dei costituenti (le loro proprietà e la loro attività) preesistono al sistema, ma esse
sono modificate per avere nuove proprietà e attività dall’organizzazione che, tuttavia, non va intesa come
semplice organizzazione spaziale e meccanica. In pratica, abbiamo sistemi che, interagendo, costituiscono nuovi
sistemi (Ibidem).
Abbiamo parlato di “riduzionismo funzionalista” per sottolineare che la contrapposizione tra il modello
riduzionista e quello sistemico non ci convince. A noi sembra infatti che, se il modello riduzionista tende a
valorizzare gli elementi, mettendo in secondo piano le relazioni che li vincolano e li strutturano, altrettanto il
modello sistemico-relazionale tende a valorizzare le relazioni, mettendo in secondo piano i termini sui quali
pure esse poggiano. Entrambi, insomma, sono segnati da un certo riduzionismo e per questa ragione si
impone la necessità di integrare i due modelli, piuttosto che contrapporli. Del resto, il dibattito sul primato o
meno della relazione non costituisce di certo una novità. Martin Heidegger, prima, e John Dewey, poi,
avevano affermato proprio questo primato, laddove Nicolai von Hartmann aveva riproposto una concezione
ontologista, volta ad affermare il primato dei termini. Di tale dibattito intendiamo ora dare rapidamente
conto, per evidenziare che la questione non è stata risolta e, forse, non può venire risolta fino a che la
relazione viene pensata come medio tra estremi.
Il primato della relazione sui relati ha indotto John Dewey e Arthur F. Bentley a introdurre il concetto di
transazione, che viene compiutamente tematizzato nell’opera Conoscenza e transazione (1946).
Prendendo in esame le molteplici forme del “conoscere” e il loro rapporto con i “conosciuti”, i due autori
precisano che «qualsiasi conoscere [knowing] o qualsiasi conosciuto [known] si stabilisce o meno
unicamente attraverso una continua e infaticabile ricerca, e mai sulla base di un qualche presunto
“fondamento”, “premessa”, “assioma” o ipse dixit estrinseco» (trad. it., p. 62). Qui il concetto di “ricerca”
non fa che anticipare il concetto di “transazione”, giacché con esso si intende indicare la necessità di
valorizzare il primato della relazione conoscitiva sui termini di cui essa si compone, e cioè sul conoscere e
sul conosciuto: «i conoscere [knowings] sono sempre dunque inseparabili da i conosciuti [knowns]: essi sono
aspetti gemelli di un fatto comune» (p. 68).
L’istanza transazionale indica dunque, come giustamente osserva Aldo Visalberghi (1958), «qualunque
processo dove il corso delle attività in giuoco non sia riducibile a qualcosa di “accidentale” fra entità
“sostanziali”, ma al contrario ci si mostri tale da costituire o ricostituire di continuo i suoi propri termini» (p.
274). Ciò comporta una critica radicale di ogni ontologismo, inteso come sussistenza di una res che funge da
fondamento del rapporto:
1) in qualunque genere di ricerca dobbiamo tener presente che le distinzioni, determinazioni e specificazioni
introdotte hanno valore funzionale rispetto ai problemi del caso, e non ontologico […]; 2) in qualunque genere di
ricerca dobbiamo tener presente che le realtà che studiamo sono strettamente interdipendenti ed interconnesse,
non solo fra loro ma anche con altri aspetti del reale lasciati necessariamente ai margini dell’indagine in atto (pp.
282-283).
Difficile non riconoscere in questa concezione un modello circolare, e cioè un modello nel quale si
intenderebbe valorizzare il rapporto, considerandolo prioritario rispetto ai termini, senza però che questa
valorizzazione significhi il considerarlo “fondamento”, giacché quest’ultimo viene considerato, da Dewey e
da Bentley, ma anche da Visalberghi, che sul pensiero di Dewey e Bentley riflette, una ipostasi, una
sostantivazione di matrice ontologistica.
Chi, invece, ripropone il punto di vista ontologico, contrapponendosi in particolare a Martin Heidegger
(1927) – che parla di «circolo ermeneutico» e di «apertura originaria», proprio per valorizzare il ruolo della
relazione –, è Nicolai von Hartmann (1935), il quale accusa di vuoto relazionalismo il circolo sussistente tra
la relazione e i suoi relati. Hartmann evidenzia che la concezione volta ad affermare il primato della
relazione, se pure vorrebbe superare la presupposizione dei dati, in effetti non può non riproporla allorché la
relazione viene intesa come medio. Se, infatti, i dati sono impensabili senza la relazione, e per questa ragione
vengono definiti “termini”, a sua volta la relazione è impensabile senza i termini, i quali si trovano a
presupporre quella relazione che li presuppone, riproponendo quel regressus in indefinitum che invece si
vorrebbe evitare.
È proprio per questa ragione che il circolo si rivela vizioso e Hartmann non manca di rilevarlo: «Si
risolvono in relazioni i sostrati del rapporto. E non ci si accorge che si finisce così nel vicolo cieco del vuoto
relazionalismo» (trad. it., p. 84). Poco più avanti, Hartmann definisce «argomento correlativistico»
l’affermazione del primato della relazione nella costituzione sia del soggetto sia dell’oggetto, ma tale
argomento può venire esteso alla costituzione di ogni determinazione, in quanto questa si configura in forza
del rapporto con altra determinazione:
Ma dietro questo disconoscimento del problema c’è ancora una considerazione che è molto più antica e che
domina, come fonte d’errore con estese conseguenze, anche la critica della ragion pura. La si può chiamare
l’“argomento correlativistico”. Esso afferma che non c’è alcun oggetto di conoscenza senza un soggetto di
conoscenza; che non si può separare l’oggetto dalla coscienza, che l’oggetto in generale è tale solo “per” la
coscienza (p. 92).
A tale argomento Hartmann oppone la sua concezione, che propone un ritorno alla ontologia tradizionale:
a differenza dalla rappresentazione, dal pensiero, dalla fantasia, l’essenziale nella conoscenza è che il suo
oggetto non si risolve nel suo essere oggetto per la coscienza. Ciò a cui la conoscenza si rivolge effettivamente,
cercando di comprenderlo e di sondarlo sempre più, ha un “essere” superoggettivo. Esso è ciò che è,
indipendentemente dal fatto che una coscienza lo faccia o no suo oggetto, e indipendentemente anche dal grado
maggiore o minore in cui essa lo fa tale. Il suo essere oggetto è in esso, in generale, qualcosa di secondario
(Ibidem).
A nostro giudizio, quando Hartmann pretende di affermare che il fondamento oggettivo va inteso nella
forma di una molteplicità di enti, i quali dovrebbero essere irrelati, ma anche determinati, egli ripropone un
concetto ingenuo di realtà, nel quale le determinazioni avrebbero una loro identità autonoma e
autosufficiente, dunque esibirebbero un’immediatezza che invece è tolta proprio dal loro reciproco riferirsi.
Da un lato, dunque, non si può non concordare con Hartmann nel riconoscere che la soluzione transazionale
non perviene ad una autentica fondazione, ma semplicemente al circolo della presupposizione infinita, al
diallele: se i termini presuppongono la relazione, a sua volta la relazione presuppone i termini. Dall’altro, se
si cerca di assumere la res come un’ipostasi, cioè nella forma dell’immediatezza, si dimentica il suo
intrinseco carattere relazionale, ossia il fatto che essa si determina solo in virtù del suo differenziarsi.
Come uscire allora dall’aporia? A nostro giudizio, solo intendendo la relazione non più come costrutto,
ma come atto.
Ordinariamente, quando si parla di relazione si intende un costrutto formato da due termini estremi (A e
B) e un nesso (r) che li vincola. È precisamente per questa ragione che si è soliti parlare di costrutto mono-
diadico.
Il costrutto relazionale, ancorché svolga una funzione insostituibile, si è rivelato un costrutto
problematico. Se, infatti, la relazione è pensata come intercorrente tra A e B, allora essa si propone come un
nuovo termine: il termine medio. Quest’ultimo, da un certo punto di vista unisce A e B; ma, da un altro punto
di vista, divide A da B. Se lo indichiamo con la lettera C, allora si vengono a configurare due nuove
relazioni: quella intercorrente tra A e C e quella intercorrente tra C e B, così che dalle due nuove relazioni
originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Ebbene, proprio l’inconcludenza di un regressus in indefinitum viene evidenziata da Platone nel
Parmenide (130e-132b), allorché l’Eleate prende in considerazione la relazione che intercorre tra i modelli
ideali e le cose. Aristotele, nella Metafisica, accenna più volte all’argomento del terzo uomo, intendendo il
carattere aporetico del concetto platonico di «partecipazione» (I, 9, 990b, 1-18), in quanto esso – ci sentiamo
di aggiungere – viene ridotto al concetto ordinario di relazione.
In epoca più recente Francis H. Bradley ha efficacemente essenzializzato il circolo cui mette capo il
concetto di relazione:
Una relazione indipendente dai suoi termini è un’illusione. Se essa deve essere reale deve esserlo in un certo
senso a spese dei termini o, per lo meno, deve essere qualcosa che si manifesta in loro o a cui essi appartengono.
Una relazione tra A e B implica realmente un fondamento sostanziale in loro. […] La nostra conclusione sarà, in
breve, la seguente: la relazione presuppone la qualità [i termini], e la qualità la relazione; nessuna delle due può
esistere indipendentemente dall’altra né in sua compagnia e il circolo vizioso nel quale entrambe si avvolgono
non può essere l’ultima parola sulla realtà (trad. it., pp. 160-163).
Se Bradley intende la relazione come intrinseca al dato, di contro Georg E. Moore (1903) e Bertrand A.
W. Russell (1903, 1910 e 1956) ne affermano il carattere estrinseco, perché paventano che la relazione
intrinseca possa sottrarre consistenza ontologica al dato stesso. A noi sembra che proprio questo sia il tema e,
per argomentare su di esso, aggiungiamo una ulteriore considerazione.
La relazione intesa come costrutto mono-diadico, da un lato, postula l’identità dei relati (A e B) e la
postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita e cioè tale che tanto A quanto B
risultano ciascuno identico con se stesso e per questo differente da ogni altro. Dall’altro, richiede che
l’identità dell’uno non sia chiusa, cioè autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità dell’altro, onde
giustificare il loro vincolo. Ma è bene il vincolo che non si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso
che, se A è A perché è autonomo, nel momento in cui entra in relazione con B perde la sua autonomia e,
dunque, cessa di essere A. Se non venisse meno come A, nessuna relazione si sarebbe instaurata.
La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità distinte e autonome (A non è B),
ma, insieme e contraddittoriamente, come se l’un termine si fondasse sull’altro (A c’è perché c’è B; A non
può stare senza B). Che è come dire: il costrutto mono-diadico concilia l’indipendenza dei termini con la loro
reciproca dipendenza e, cioè, concilia ciò che è in sé inconciliabile.
Per uscire dall’antilogia, la relazione deve venire pensata come intrinseca alla determinazione e non come
disponentesi tra le determinazioni. Riconoscere il valore intrinseco della relazione non decreta, tuttavia, la
dissoluzione del dato, ma impone invece di coglierlo nel suo incessante trasformarsi. Reciprocamente, la
relazione cessa di valere come un’ipostasi, un quid medium che la irrigidisce a status, e viene a coincidere
con quell’atto del riferirsi, che costituisce l’essenza del determinato e lo spinge di continuo a trascendere la
propria immediatezza.
In tal modo, si supera una visione sostanzialistica dell’esperienza e si approda veramente ad una sua
visione dinamica e vitale. Ogni determinazione si rivela un segno, che vive nel suo rinviare ad ogni altra
determinazione (segno), così che il sistema non è tanto l’insieme statico delle determinazioni, ma l’unità che
va oltre la sintesi perché indica quell’universo di senso in cui il segno si specifica nel suo autentico
significato, senza irrigidirsi in una determinazione che non sia, ancora, il suo inarrestabile oltrepassarsi
(Stella, 1995).
In questa prospettiva è possibile superare l’unilateralità del modello riduzionista e del modello sistemico e
così si evita il rischio di cadere tanto nel riduzionismo materialistico, che è poi sostanzialistico, quanto nel
riduzionismo funzionalistico, che è poi correlativistico. L’integrazione dei due modelli, pertanto, deve venire
pensata oltre la loro semplice giustapposizione, lasciando emergere un senso di un’unità che li ricomprenda e
risignifichi.
Riferimenti bibliografici