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1. L’insulina
9
7. Esiste un cibo o un macronutriente che fa ingrassare più degli altri nel soggetto sano? 28
Come i grassi possono far ingrassare? 29
Come i carboidrati possono far ingrassare? 30
Nel caso di insulino-resistenza cosa succede? 30
8. Strategie per la perdita di grasso corporeo nei soggetti insulino-resistenti 32
Apporto proteico ottimale 32
High Carb Low Fat VS High Fat VS Low Carb 34
Chi è stato studiato in questo trial? 34
Cosa è stato studiato? 36
Quali sono stati i risultati? 36
Cosa ci dice questo studio? 38
Cosa non ci dice questo studio? 39
Sebbene i limiti di assunzione calorica giornaliera non sono stati stabiliti per nessun partecipante, la
maggioranza è stata in grado di perdere peso. Quali strategie sono state utilizzate per raggiungere
questo obiettivo? 40
Conclusioni 41
Grassi saturi VS grassi insaturi: i grassi sono tutti uguali? 42
I diversi tipi di grassi hanno effetti diversi sulla composizione corporea? 42
I diversi tipi di grassi hanno effetti diversi sull’accumulo di grasso ectopico e sulla resistenza
all’insulina? 43
Restrizione Energetica Continua (CER) VS Restrizione Energetica Intermittente (IER) 45
Lo studio 45
Le diete studiate 46
Risultati dello studio 46
9. I dolcificanti artificiali possono aumentare la produzione di insulina? 47
I NNS interferiscono con le risposte metaboliche e nervose che contribuiscono
a controllare l’omeostasi del glucosio e del bilancio energetico 48
I NNS influenzano il microbiota intestinale e inducono intolleranza al glucosio 50
I NNS interagiscono con i recettori del gusto dolce nel sistema digestivo che svolgono un ruolo
La Scienza ha fatto passi da gigante, soprattutto a partire dal Novecento, tuttavia alcune ve-
rità odierne sono il frutto di intuizioni millenarie. nella Medicina Indiana ricorreva il termine
“urina di miele” per indicare il sapore mellito delle urine dei diabetici. Sushruta, un medico
indiano, parlava del madu méhé (diabete) come della malattia dei ricchi, proprio perché que-
sti erano maggiormente colpiti da questa malattia in quanto avevano maggior abbondanza
e disponibilità di cibo, e «non necessitavano di faticare».
La Medicina Cinese chiamava il diabete “malattia della sete”, in quanto i medici del tempo
avevano notato che l’urina dei diabetici era così zuccherina da attirare i cani per strada. Nel
mondo Greco i diabetici erano chiamati Διαβέτικοι e Ippocrate, considerato il “padre della
Il medico greco Areteo di Cappadocia fu il primo a definire la parola diabete (dalle parole dia
= attraverso e baìnein = passare, riferendosi alla necessità di urinare frequentemente) mellito,
cioè dolce, in quanto l’urina dei diabetici era dolce, a tal punto che all’epoca i medici usavano
assaggiare l’urina per formulare la diagnosi di questa malattia, spiegata così:
Per dare un senso al senso di deperimento che si osservava nel diabetico (che oggi sappiamo
avere una carenza di insulina). Inoltre:
Infine, la storia della medicina ci insegna un’altra cosa: il diabete non è una malattia del se-
condo millennio (come in realtà non lo è il cancro), ma è sempre esistito, fin dall’antichità,
e così come il sovrappeso e l’obesità, è sempre stata una malattia associata al benessere
economico e sociale: una malattia dei ricchi. Oggi, queste malattie sono più frequenti, perché
siamo tutti “ricchi”. Tutti beneficiamo di mezzi di trasporto e macchine, per lavorare fisica-
mente meno, e tutti possiamo permetterci di mangiare ciò che vogliamo, quando vogliamo,
nelle quantità che desideriamo.
1. L’insulina
L’insulina è un ormone prodotto e secreto dal pancreas ed è noto come il principale regola-
tore del metabolismo dei carboidrati. L’insulina è l’ormone ipoglicemizzante per eccellenza,
cioè agisce riducendo i livelli di zucchero nel sangue, mentre diversi altri ormoni, antagonisti
dell’insulina, come glucagone, cortisolo, adrenalina, lavorano nel modo opposto: alzano la
glicemia.
A livello del tessuto adiposo, infine, l’insulina ha azione anabolica perché promuove la sin-
tesi di grasso e l’ingresso dei nutrienti all’interno delle cellule, ma ha soprattutto azione an-
ti-catabolica, perché inibisce, quasi completamente, la mobilizzazione dei grassi e l’utilizzo
di questi a scopo energetico (beta-ossidazione), TABELLA 1. In sintesi, possiamo dire che l’in-
sulina agisce in diversi modi, su diversi tessuti, con il fine comune di “spostare” il metaboli-
smo energetico verso un massimo sfruttamento del substrato energetico glucidico (zuccheri)
piuttosto che lipidico.
↓Chetogenesi
↑Glicogenosintesi
Tabella 1 Azioni
anaboliche e cataboliche dell’insulina sui principali tessuti su cui agisce:
tessuto muscolare, tessuto adiposo e fegato.
Una caratteristica dell’insulina è rappresentata dal fatto che è regolata fortemente in risposta
alla dieta e allo stile di vita; sebbene un po’ tutti gli ormoni possono rispondere in qualche
modo all’alimentazione, è bene tener presente che nessuno di questi è reattivo agli interventi
dietetici come lo è l’insulina. Ecco perché è difficile o poco efficace manipolare i livelli degli
ormoni tiroidei, oppure del cortisolo, o degli ormoni gastrointestinali, o della leptina e di altre
adipochine, con la dieta, mentre esistono tantissime strategie che permettono di agire più
efficacemente sui livelli di insulina. Infine, la maggior parte dei pazienti con caratteristiche
della Sindrome Metabolica ha una pressione sanguigna elevata. Tra i fattori che contribui-
scono all’elevazione della pressione vi è anche l’iperinsulinemia (concentrazioni di insulina
superiori alla norma), che aumenta il riassorbimento di sodio (Na +) e attiva anche il sistema
nervoso simpatico (che stimola il surrene a lavorare ulteriormente con secrezione di ormoni
mineralcorticoidi, come l’aldosterone).
Inoltre, il rilascio di fattori dal tessuto adiposo potrebbe stimolare la secrezione di aldoste-
rone indipendentemente dall’angiotensina II, dal potassio (K +) o dall’ACTH (un ormone
coinvolto nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Ancora, la fonte locale di angiotensina II nel
tessuto adiposo può anche essere aumentata in soggetti obesi ipertesi, e ciò suggerisce la
partecipazione del sistema renina-angiotensina del tessuto adiposo nella sindrome da insu-
lino-resistenza.
Tutto ciò suggerisce che alcuni problemi di ritenzione idrica e gonfiore non sono sempre
dovuti a uno squilibrio nell’apporto dietetico di sodio, potassio o acqua, piuttosto da una
condizione di insulino-resistenza sistemica presente alle spalle, dall’obesità in genere, o da
una dieta che stimola eccessivamente l’insulina. Va da sé che in questi casi bisogna agire
sul migliorare la sensibilità all’insulina per migliorare la condizione di ritenzione idrica e, dal
punto di vista della salute, per ridurre l’eventuale ipertensione.
Prima di parlare del fenomeno della resistenza all’insulina, della sensibilità all’insulina e del-
la tolleranza ai carboidrati, che sono tutti concetti simili e dipendenti tra loro, ma differenti,
è necessario che descriva, brevemente, come tecnicamente funziona un ormone, e quindi
come funziona l’insulina.
Bene, partiamo dalla definizione di ormone: un ormone è una sostanza che è prodotta e libe-
rata da un organo e che agisce, però, lontano da quell’organo, cioè, attraverso la circolazione
sanguigna, raggiunge un altro tessuto, e fa sì che accada qualcos’altro. Di fatto, l’ormone
potrebbe essere considerato un “messaggero” che segnala a un tessuto di esercitare una
data funzione. Quello che però è interessante è come, un ormone prodotto da una ghiandola,
riesce a segnalare a un altro organo cosa deve fare.
In merito a questo, esistono delle particolari proteine che hanno una funzione di recettori.
Questi recettori sono presenti sulla superficie della membrana plasmatica della cellula (sono
quindi fuori la cellula), e sono in grado di riconoscere una data sostanza (l’ormone in que-
stione), riconoscono la sua segnalazione, e la inoltrano all’interno della cellula (questa è la
classica definizione semplificata di un recettore di superficie, che è il recettore tipico di un
Esistono in realtà anche recettori cosiddetti nucleari, che sono localizzati all’interno della cel-
lula, e si legano a ormoni di natura lipidica, tuttavia, poiché l’insulina è un ormone di natura
proteica, e il recettore dell’insulina è un recettore localizzato sulla superficie della membrana
cellulare, ci interessa parlare solo del recettore di superficie.
Come potete aver intuito, ogni ormone ha il suo recettore specifico, per cui l’insulina è rico-
nosciuta solo dal recettore per l’insulina, e il recettore per l’insulina funziona solo in risposta
alla presenza dell’insulina, non di un altro ormone. Quando l’insulina si lega al suo specifico
recettore, riesce a segnalare alla cellula – presente in quel tessuto – di esplicare una data
funzione. I recettori per l’insulina sono presenti in tutto l’organismo, in particolare a livello
cerebrale, muscolare, epatico e adiposo – le azioni dell’insulina su questi tessuti le ho già
descritte precedentemente.
Ora, a determinare quanto un ormone funziona bene, e quindi quanto l’insulina riesce a se-
gnalare ai tessuti di esplicare una data funzione, ci sono diversi fattori, ma a noi ne interes-
sano principalmente due:
• La quantità di ormone (di insulina), più le concentrazioni di insulina sono elevate e più
vi è, possibilmente, un effetto amplificato.
• La sensibilità del recettore al suo ormone specifico, quindi, di nuovo, quanto bene ri-
sponde il recettore dell’insulina all’insulina stessa.
E qui arriviamo al punto del discorso. Se c’è molta insulina, questa tende a inviare più segnali
rispetto a quanto ce n’è meno, e viceversa. Quindi più insulina c’è, e più è marcato l’effetto
ipoglicemizzante, così come più è marcata la stimolazione della sintesi proteica a livello mu-
scolare ma anche l’immobilizzazione dei grassi all’interno del tessuto adiposo.
Tuttavia, questo assunto non è sempre vero. Infatti, in alcuni casi, l’elevata presenza di un ormo-
ne sta proprio a indicare il fatto che il recettore per quell’ormone probabilmente non funziona
bene, cioè è poco sensibile ad esso. Ed è da qui che nascono i concetti di sensibilità all’insulina
e resistenza all’insulina.Quando una quantità adeguata di insulina – cioè una quantità fisiolo-
gicamente sufficiente a segnalare un dato effetto, ad esempio al tessuto adiposo, non basta
per esplicare la sua azione, significa che il recettore a livello adiposo non risponde bene all’in-
sulina, cioè è poco sensibile / insensibile e quindi “resistente”. Di norma, l’adattamento princi-
pale e iniziale alla resistenza a un ormone è l’aumento della produzione e secrezione di quello
stesso ormone così da poter esplicare lo stesso l’azione, anche in condizioni di “resistenza”.
Insomma, per fare un esempio meramente numerico, se 5 unità di insulina generalmente
basterebbero per inibire la lipolisi, ma vi è resistenza all’insulina, il pancreas risponde produ-
cendo 7, poi 8, poi 10 unità di insulina, così da esplicare lo stesso l’azione. Questo concetto
è importante, perché suggerisce che l’espressione eccessiva di un ormone, e cioè in questo
caso dell’insulina, è anche l’espressione di una resistenza a quell’ormone. Allo stesso modo,
maggiore è la sensibilità all’insulina, meno insulina complessiva è necessaria per esercitare
quello stesso effetto.
1000
Secrezione insulina
Sedentario
Normale tolleranza
al glucosio
pmol per min
Prediabete
500
Attivo
Diabete tipo 2
0
0 50 50
Sensibilità insulinica
Valore M (µmol/min per kg)
È importante comprendere questi concetti perché sono necessari per capire condizioni –
e quindi risoluzioni – differenti:
Vi sarà una produzione più bassa di insulina perché è necessaria meno insulina per esplicare
una determinata funzione. Chiaramente è questa la condizione da ricercare.
Significa che i nostri tessuti rispondono bene all’insulina. Significa anche che si può osare di
più nell’assunzione di glucidi.
Significa che i nostri tessuti non rispondono bene all’insulina. Significa che vi è una minor
capacità di gestione dei glucidi con la dieta.
Prima di rispondere a questa domanda devo chiarire un ultimo punto: la sensibilità all’insuli-
na va considerata in riferimento a specifici tessuti.
Abbiamo detto che la sensibilità all’insulina indica la quantità di insulina necessaria per espli-
care un’azione, ad esempio permettere l’ingresso di una certa quantità di glucosio nella
cellula. Se si è insulino-sensibili è necessario secernere una piccola quantità di insulina per
permettere l’ingresso nella cellula, se si è insulino-resistenti è necessario, invece, secernere
molta insulina per depositare la stessa quantità di glucosio.
Per nostra fortuna, il tessuto muscolare ha la capacità di prevalere sul tessuto adiposo in una
determinata condizione: quando è in attiva contrazione. Cioè, a prescindere dall’insulina, il
tessuto muscolare può dirottare la maggior parte del glucosio al suo interno – sequestrando-
lo al tessuto adiposo, quando facciamo attività fisica – e nelle ore immediatamente successive
all’esercizio fisico, FIGURA 6.
P P gluT4
PIP2 PIP3 PIP3
P P
P
IRS PI-3K
PTEN
P Akt
Meccanismo
Insulino-indipendente
AMPK
RDS
AS160
NO
CaMK P
Vescicole
Esercizio GLUT
fisico
Dal punto di vista pratico, è favorevole se noi lo sfruttiamo allenandoci e mettendoci a dieta,
instaurando il deficit energetico. Perché accadrà che sarà utilizzato maggiormente il grasso
a scopo energetico, e quindi potremo far sì che il nostro dimagrimento sia rappresentato per
lo più dalla perdita di grasso, e perché, invece, i nutrienti saranno quasi tutti dirottati a livello
muscolare, migliorando le condizioni metaboliche muscolari e riducendo al minimo la perdita
di massa muscolare durante la dieta ipocalorica.
Invece, buona parte dei nutrienti sarà dirottata a livello del tessuto adiposo (soprattutto se
quest’ultimo è meno insulino-resistente). Questo è uno scenario che possiamo osservare nei
soggetti che vengono da un periodo di dimagrimento importante, che tornano a mangiare
• Mantenendo un alto livello di attività fisica – così che il muscolo vinca l’antagonismo
contro il tessuto adiposo, e abbia la possibilità di utilizzare poi l’enorme disponibilità di
energia che ottiene (se il muscolo ha un alto uptake di nutrienti ma non ha la possibilità
di utilizzarli a scopo energetico – cioè, non si pratica attività fisica abbastanza intensa -,
allora ben presto smetterà di essere avido di nutrienti e tornerà, oltretutto, insulino-re-
sistente per accumulo di nutrienti – sotto forma di grassi ectopici – al suo interno.
• Mantenendo o aumentando la massa muscolare (periodi di dimagrimento, anche im-
portanti, in cui non è stata preservata la massa muscolare, rendono sì l’organismo più
insulino-sensibile, e quindi più sano metabolicamente, ma paradossalmente pongono
le condizioni per un peggioramento metabolico ed estetico nel medio-lungo termine,
soprattutto se l’individuo torna alla vita sedentaria, in quanto il periodo di restrizione
energetica e lo “svuotamento” degli adipociti li ha resi esageratamente avidi di nutrien-
ti e sensibili all’insulina).
Si tenga conto che, nonostante l’importanza del tessuto muscolare e adiposo nell’assorbi-
mento del glucosio nel sangue, in realtà più del 60% del glucosio totale che viene assunto
con la dieta giunge primariamente al fegato (per il fruttosio, più del 90% di questo entra pre-
ferenzialmente nel fegato). Dunque, praticamente, quasi tutti i carboidrati che assumiamo
con la dieta devono, fisiologicamente, essere assorbiti principalmente e prioritariamente dal
tessuto epatico.
Il fegato ha una grandissima capacità di uptake del glucosio, che utilizza per produrre gli-
cogeno. Il glicogeno sarà poi utilizzato, attraverso processi di scomposizione, per produrre
a sua volta glucosio, che sarà smistato ai vari tessuti che ne hanno bisogno. Ma cosa succede
se c’è un eccesso di glucosio a livello epatico?
Succede che una volta che le scorte di glicogeno sono esaurite, il glucosio rimanente viene in
gran parte utilizzato per produrre acidi grassi, che saranno poi in parte destinati al tessuto
adiposo, in parte al tessuto muscolare, in parte stazioneranno nel fegato. L’eccesso di accu-
mulo di grassi nel fegato causa insulino-resistenza epatica, Figura.
Steatosi De novo
lipogenesi
Acidi grassi
liberi
Acidi grassi
Grassi
La sensibilità all’insulina da parte del fegato è correlata alla gluconeogenesi, cioè la produzio-
ne di nuovo glucosio. In genere, la presenza di un eccesso di grassi, e i fattori infiammatori,
creano resistenza epatica all’insulina, e se il fegato è resistente, l’insulina non sarà in grado di
segnalare al fegato di bloccare la produzione di glucosio. Di conseguenza, avremo un quadro
che esprime una costante, eccessiva, produzione di glucosio, e un’incapacità dell’insulina di
abbassare adeguatamente la glicemia.
Dalle analisi ematiche vediamo una glicemia a digiuno elevata e un profilo lipidico alterato
(aumento dei trigliceridi e del colesterolo totale e LDL). Bene, chiarito tutto ciò, possiamo pas-
sare alla domanda successiva: quali sono i fattori che influenzano la sensibilità e la resistenza
all’insulina?
Chiaramente l’età è un fattore non modificabile, perché purtroppo (o per fortuna) non pos-
siamo decidere di smettere di far passare gli anni della nostra vita. Tuttavia, un aspetto posi-
tivo è che la capacità di invertire la resistenza all’insulina dell’esercizio fisico non sembra es-
sere differente tra giovani e anziani. Non a caso l’esercizio fisico tende ad essere consigliato
agli individui più anziani proprio per migliorare il metabolismo del glucosio.
Alcuni studi notano anche benefici maggiori nella sensibilizzazione all’insulina nei soggetti
obesi, probabilmente perché questi soggetti partono da condizioni di base peggiori. Insom-
ma, più è grave una condizione, e più è facile notare un miglioramento effettivo (se, chiara-
mente, l’intervento è efficace). Quali sono questi interventi efficaci?
Anche la dieta – una dieta ipo-normocalorica che abbia delle caratteristiche generali ben pre-
cise: aumento di frutta e verdura (aumento principalmente dell’assunzione di fibre e micronu-
trienti utili per la regolazione glicemica), una riduzione dei grassi saturi e trans e un aumento
dei grassi insaturi, un riequilibrio tra assunzione di grassi omega 6 e omega 3, porta anche
all’aumento della sensibilità all’insulina indipendentemente dalla perdita di peso. Dunque,
abbiamo tre macro-fattori che possiamo utilizzare per migliorare la sensibilità all’insulina:
• Perdita di peso.
• Esercizio fisico (sia aerobico sia anaerobico).
• Interventi dietetici.
Questi sono tutti fattori che, indipendentemente l’uno dall’altro, migliorano la condizione di
insulino-resistenza, ma che ovviamente danno il loro meglio quando sfruttati insieme: una
riduzione dello stile di vita sedentario prevedendo sessioni di esercizio aerobico routinario
anche di soli 20-30 minuti e prevedendo sessioni di allenamento anaerobico (ad es. allena
mento con i pesi) per almeno 2-3 sessioni di 50 minuti a settimana, e una correzione delle
abitudini alimentari. Questi interventi, inoltre, possono probabilmente essere sfruttati per
causare anche la perdita di peso (e soprattutto grasso corporeo), e quindi permettere un
ulteriore miglioramento della tolleranza ai carboidrati e della regolazione glicemica.
5. Flessibilità metabolica
Abbiamo detto che l’insulina, fondamentalmente, è un ormone che “decide” che tipo di me-
tabolismo energetico utilizzare prevalentemente. Nello specifico, un innalzamento dell’insu-
lina spinge i tessuti a utilizzare il metabolismo glucidico (quindi a utilizzare il glucosio a scopo
energetico), mentre un abbassamento dell’insulina (e la concomitante elevazione di altri or-
moni e fattori) segnala ai tessuti di utilizzare maggiormente il metabolismo lipidico (quindi
l’utilizzo degli acidi grassi a scopo energetico).
Proprio per questi motivi e per la necessità di dover utilizzare il metabolismo lipidico o gluci-
dico a seconda delle differenti situazioni che si presentano, è importante che il corpo umano
abbia la capacità di passare da uno stato metabolico piuttosto che un altro, cioè, di utilizzare
maggiormente i glucidi in un determinato momento o contesto e lipidi in altre situazioni. Tale
Durante il digiuno
Per quanto riguarda i grassi, invece, ricordiamo che l’effetto più precoce e importante dell’in-
sulina è l’inibizione della lipolisi, quindi la riduzione (quasi totale) della mobilizzazione degli
acidi grassi e, di conseguenza, dell’utilizzo di questi ultimi a scopo energetico. Appare chiaro,
quindi, che l’insulina è l’ormone che decide quale substrato utilizzare in prevalenza:
• Quando le concentrazioni di insulina sono basse, il corpo tenderà ad uno stato metabo-
lico in cui è promossa l’ossidazione dei grassi.
Faccio notare che Soggetti obesi, o con diabete di tipo 2, quindi con insulino-resistenza, sono
spesso metabolicamente inflessibili. Questo significa che l’energia ottenuta dall’ossidazione
dei grassi in condizioni di riposo è inferiore rispetto al normale (rispetto ai metabolicamente
flessibili). Allo stesso modo, i magri sani mostrano una maggior soppressione dell’ossidazio-
ne dei grassi durante la stimolazione dell’insulina (ed è una buona cosa, intendiamoci).
In figura è descritta la differenza della risposta metabolica del muscolo scheletrico all’eleva-
zione dei livelli di insulina su soggetti sani, obesi, e obesi che hanno perso peso. Dal grafico
possiamo notare come gli obesi che non hanno perso peso (e che hanno insulino-resistenza)
mostrano una notevole inflessibilità metabolica: infatti la risposta metabolica non cambia
significativamente, che si parli di digiuno o di fase post-prandiale (elevazione dell’insulina
indotta dall’alimentazione).
1,05
Magri
Obeso
Obesi al plateau
0,95
0,9
0,85
leg RO
0,8
0 Digiuno Stimolazione
dell’insulina
Figura 9 Nel grafico è illustrata la risposta metabolica del muscolo della gamba
all’elevazione dell’insulina, nello stato post-prandiale, e durante il digiuno. Sono
confrontate le risposte in un soggetto obeso, in un soggeto magro ed in un soggetto
obeso che ha perso circa 15 kg. Dal grafico risulta Chiara l’inflessibilità metabolica del
soggetto obeso e l’elevata flessibilità del soggetto magro. Il soggetto obeso che però ha
perso del peso in eccesso, pur avendo una situazione non ottimale a digiuno, reagisce
meglio del soggetto obeso che non è dimagrito. Grafico rielaborato da Project Diet
Volume I e II.
• Se non avete effetti collaterali (es. repentino aumento della sonnolenza, astenia e/o
aumento della fame) ma vi sentite bene, probabilmente avete una buona flessibilità
metabolica.
• Se avete improvvisamente fame o effetti collaterali descritti nel punto precedente, pro-
babilmente avete un certo grado di inflessibilità metabolica.
METODO 2 Fare il digiuno. Parlo della completa astensione dal consumo di cibo in quanto,
nonostante sul web si dica di alimenti che non causano rilascio di insulina, semplicemente
non è così.
• Se riuscite a digiunare per diverse ore senza problemi, probabilmente avete una buona
flessibilità metabolica e siete in grado di utilizzare i grassi endogeni a scopo energetico
in situazioni di assente stimolazione di insulina.
• Se non siete in grado di digiunare per più di 2-3 ore è molto probabile che siate metabo-
licamente inflessibili. Questo si traduce in un’incapacità di utilizzare in modo adeguato
i grassi a scopo energetico.
Chiaro che il digiuno, e quindi anche i protocolli di digiuno intermittente, possono aiutare
a migliorare un aspetto della flessibilità metabolica, ovvero, insegnare al corpo ad utilizzare
maggiormente i grassi in determinate situazioni (appunto nel digiuno e nello stato di riposo).
Invece, per migliorare la capacità del corpo di utilizzare i glucidi nello stato post-prandiale è
necessario per forza di cose agire sulla resistenza all’insulina dei tessuti (ad esempio con l’e-
sercizio fisico, la restrizione calorica, l’aumento di muscolo e la perdita di grasso, soprattutto
viscerale).
Se avete una buona flessibilità metabolica potete permettervi di consumare, di tanto in tan-
to, cibi cosiddetti “non salutari”, o di aumentare, sporadicamente, l’assunzione di cibo senza
alcun effetto collaterale. Un soggetto metabolicamente inflessibile, invece, avrà una certa
resistenza all’insulina e un metabolismo tendente all’utilizzo di glucidi piuttosto che di grassi.
Questo si traduce in una difficoltà nell’utilizzare i grassi a scopo energetico, e quindi, fonda-
mentalmente, in una difficoltà maggiore a dimagrire. Come risolvere?
03. L’insulino-resistenza (IR) adiposa causa un eccesso di FFA nel sangue (perché la
regolazione della lipolisi è alterata)
Tuttavia, la resistenza all’insulina può, in qualche modo, agire sulla composizione corporea
e, soprattutto, sulla capacità di funzionalità del tessuto muscolo-scheletrico e può rendere
più dura la perdita di grasso corporeo e l’aumento di massa muscolare. Quindi, possiamo
sintetizzare schematicamente così:
Se non fosse così troveremmo che anche altri nutrienti, come la vitamina C, che però non è
in grado di generare energia chimica nelle nostre cellule (la vitamina C non apporta calorie),
farebbe ingrassare o dimagrire in eccesso o in difetto, e invece questo non accade. I grassi,
i carboidrati e le proteine sono così importanti proprio perché sono macromolecole che ci
Il motivo per cui molti credono a questa diceria è che guardano solo allo stoccaggio, in acuto
(temporaneo), di grasso nel tessuto adiposo, oppure all’utilizzo di un nutriente a scopo ener-
getico, preso singolarmente, perdendo di vista completamente il quadro generale. Ciò che
invece importa non è lo stoccaggio di grasso o l’utilizzo dei grassi a scopo energetico in un
determinato momento, ma piuttosto il bilancio lipidico totale.
Il fatto che noi durante lo stato post-prandiale abbiamo stoccato una parte dei nutrienti sotto
forma di trigliceridi nel tessuto adiposo, non significa che stiamo ingrassando, perché dob-
biamo guardare anche all’utilizzo successivo di questi grassi. Questo è il motivo per cui un
integratore che aumenterebbe la lipolisi non per forza fa dimagrire, perché oltre alla mobi-
lizzazione dei grassi (lipolisi) dobbiamo guardare al loro effettivo utilizzo (beta-ossidazione)
e anche, soprattutto, allo stoccaggio di grassi nel tessuto adiposo nel resto della giornata.
Una dieta iperlipidica aumenta l’utilizzo dei grassi a scopo energetico, ma aumenta anche lo
stoccaggio di questi nel tessuto adiposo. È sbagliato guardare solo all’aumento dello stoc-
caggio dei grassi e quindi concludere che una dieta del genere faccia ingrassare a prescin-
dere, come è sbagliato pensare che faccia dimagrire a prescindere (o di più di altre diete)
guardando solo al fatto che permette di utilizzare maggiormente i grassi. Ancora una volta si
commette l’errore di guardare solo un lato della medaglia ma non il concetto nella sua inte-
rezza: il bilancio lipidico totale è il risultato della differenza tra entrate di grasso (stoccaggio
Per quanto riguarda i carboidrati, è vero che un pasto iperglucidico sopprime la lipolisi e por-
ta l’organismo a utilizzare maggiormente i carboidrati piuttosto che i grassi a scopo energe-
tico, ma è altrettanto vero che i carboidrati sono solo minimamente utilizzati per sintetizzare
i grassi e quindi lo stoccaggio di grassi nel tessuto adiposo anche è minimo, per cui diminu-
iscono le uscite (grasso utilizzato) ma diminuiscono anche le entrate (grasso sintetizzato/
stoccato nel tessuto adiposo). Il bilancio lipidico, ancora una volta, può essere positivo, neu-
tro o negativo, e ciò dipenderà dal bilancio energetico totale.
Infatti, un muscolo insulino-resistente è un muscolo che non riesce a captare glucosio, e che
quindi non riesce a utilizzare glucosio a scopo energetico. Inoltre, l’insulina ha un’azione
anabolica in quanto, insieme all’IGF-1, stimola la sintesi proteica, e se l’insulina non funziona
bene, la sintesi di proteine muscolari è ridotta.
In poche parole, nei casi di insulino-resistenza bisogna stare attenti nel consumo di eccessi
calorici e nel consumo di glucidi, ma non perché questi si accumulano nel tessuto adiposo
e quindi portano a ingrassare, ma semplicemente perché in presenza di tale condizione me-
tabolica non siamo in grado di gestire una gran quantità di nutrienti – in particolare glucosio,
con conseguenze dannose sullo stato di salute.
L’altra questione urgente è la mancanza di protezione della massa muscolare che ci darebbe
un’insulina funzionante. Potremmo pensare di tamponare il catabolismo muscolare attra-
verso una maggior assunzione di proteine, ma sarebbe in gran parte inutile, perché l’insuli-
no-resistenza comunque neutralizzerà gran parte dei benefici di una maggior disponibilità di
aminoacidi essenziali nel sangue. Ma quindi cosa fare?
• Soggetti obesi con eccesso di grasso corporeo e massa muscolare elevata; in que-
sto caso la strategia ottimale sarà rappresentata da un’ipocalorica che consenta la per-
dita di grasso e mantenga il più possibile la massa muscolare (in genere si raccomanda
un apporto proteico di 1,4-1,8 g/kg di peso corporeo, tranne negli obesi gravi, in cui si
preferisce riferirsi alla massa magra e non alla massa corporea totale).
• Soggetti obesi con eccesso di grasso corporeo e poca massa muscolare (obesità
sarcopenica); di solito si tratta di pazienti anziani e sedentari, e la strategia ottimale è
rappresentata da una dieta normocalorica in sinergia a un aumento dei livelli di attività
fisica (tramite esercizio fisico con i pesi, per stimolare l’aumento di massa muscolare).
L’apporto proteico in questi soggetti deve essere semmai ulteriormente aumentato,
anche 2 g/kg di peso corporeo, perché si ricerca la ricomposizione corporea e l’aumen-
to di massa muscolare, oltre alla perdita di grasso corporeo.
• Soggetti normopeso con poco muscolo e un eccesso di grasso addominale; que-
sti soggetti, i cosiddetti skinny fat, non possono seguire un’ipercalorica perché per la
loro grave insulino-resistenza a livello muscolare (e per la loro bassa massa muscolare
totale) rischierebbero di compartimentalizzare l’eccesso calorico quasi totalmente nel
tessuto adiposo, peggiorando composizione corporea e salute metabolica. La strategia
ottimale è, ancora una volta, un aumento dell’esercizio fisico con i pesi, una normocalo-
rica/leggera ipocalorica, e un aumento dell’apporto proteico (da 1,6 a 2,5 g/kg di peso
corporeo).
Normopeso con bassa massa Soggetto che, sebbene è Necessità di perdere un po’
muscolare classificato come normopeso di grasso addominale ma
(secondo il BMI), ha poco soprattutto di aumentare la
muscolo e un eccesso di massa muscolare
grasso, per lo più addominale
(classico “skinny fat”. Normocalorica con miglior
gestione dei nutrienti (es.
Questo soggetto presenta carboidrati da assumere nel
generalmente le caratteristiche peri-workout)
cliniche (insulino-resistenza,
colesterolo medio-alto, Proteine da 1,6 a 2,5 g/kg
glicemia leggermente alta) di
un soggetto sovrappeso/obeso Allenamento misto fortemente
non diabetico necessario (un paio di sedute
settimanali di allenamento
aerobico e almeno 3 sedute
settimanali di allenamento con
i pesi)
Tabella 2 Classificazione
dei soggetti in funzione del loro grado di sovrappeso, eccesso di
massa grassa e carenza di massa muscolare, e indicative strategie ottimali per ognuna di
queste categorie.
• Trovare strategie ottimali ed efficaci per la perdita di peso (e grasso), che causerebbe
così un miglioramento della sensibilità all’insulina.
• Trovare strategie ottimali ed efficaci per aumentare la massa muscolare, che anche in
questo caso si tradurrà in un miglioramento della sensibilità all’insulina.
Uno studio clinico controllato e randomizzato di un anno (DIETFITS) ha documentato che una
dieta a basso contenuto di grassi e una dieta a basso contenuto di carboidrati producono una
simile perdita di peso e simili miglioramenti nei marcatori di salute metabolica. Pertanto, le
prove fino ad oggi indicano che bisognerebbe scegliere la dieta in base alle preferenze per-
sonali, agli obiettivi di salute e alla sostenibilità. Ma analizziamo meglio lo studio per poter
fare delle riflessioni insieme.
Nel corso dello studio, ogni soggetto ha partecipato a 22 sessioni di consulenza dietetica con
un nutrizionista; la presenza media è stata del 66% per entrambi i gruppi. Durante i primi due
mesi dello studio, il gruppo a basso contenuto di grassi è stato istruito a consumare solo 20
g di grassi al giorno e il gruppo a basso contenuto di carboidrati solo 20 g di carboidrati al
giorno. Tuttavia, non ci si aspettava che rimanessero a questi livelli per un tempo indefinito:
alla fine di questo periodo di 2 mesi, i soggetti hanno iniziato ad aggiungere grassi o carboi-
drati alla loro dieta fino a quando non avevano raggiunto il livello di assunzione più basso che
potevano mantenere in modo sostenibile.
Si noti che nessuno dei due gruppi è stato in grado di attenersi alle assunzioni iniziali molto
basse: entro il terzo mese, infatti, il gruppo a basso contenuto di grassi stava già consuman-
È possibile che alcuni soggetti nel gruppo con basso contenuto di carboidrati possano essere
stati in chetosi durante questi primi due mesi a causa dell’assunzione di carboidrati molto
bassa prescritta. Tuttavia, sebbene il gruppo con basso contenuto di carboidrati è stato in
grado di ottenere un’assunzione ridotta di carboidrati durante lo studio (circa 115 g / giorno),
solo una piccola minoranza ha riferito di consumare ≤50 g / giorno, che è la soglia di assun-
zione tipicamente richiesta per rimanere in chetosi.
Sebbene non siano stati assegnati obiettivi di assunzione calorica (non sono state pre-im-
postate le calorie, ma le persone mangiavano “a sazietà” e in funzione della loro capacità di
controllarsi nelle buone abitudini), entrambi i gruppi sono stati istruiti a consumare cibi e be-
vande di alta qualità. In particolare, i soggetti dovevano “massimizzare l’assunzione di verdura
... ridurre al minimo l’assunzione di zuccheri aggiunti, farine raffinate e grassi trans; e ... concen-
trarsi su cibi interi che sono stati minimamente lavorati, densi di sostanze nutritive e preparati
a casa ogni volta che era possibile.”
Un totale di 12 recall dietetici casuali e non annunciati, di 24 ore, sono stati fatti nel corso dello
studio per valutare l’assunzione di cibo dei partecipanti. Con questo metodo, un intervistato-
re chiede alle persone di ricordare tutti gli alimenti e le bevande che hanno consumato nelle
24 ore precedenti. La compliance alimentare è stata anche corroborata da cambiamenti nei
lipidi nel sangue e nel rapporto di scambio respiratorio (RER - questo parametro può indicare
se si sta principalmente ossidando grassi o carboidrati).
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a screening per 15 genotipi, inclusi 5 genotipi “a bas-
so contenuto di grassi” (quindi ipotizzati per fare meglio con una dieta a basso contenuto di
grassi), 9 genotipi a basso contenuto di carboidrati (ipotizzati per fare meglio con una dieta
a basso contenuto di carboidrati), e 1 genotipo “neutro”.
Altri risultati misurati includevano cambiamenti nella composizione corporea (valutata me-
diante scansione DXA ), livelli di colesterolo, pressione arteriosa, livelli di glucosio e insulina
a digiuno, dispendio energetico a riposo e dispendio energetico totale. I ricercatori hanno
cercato di capire se il genotipo o la produzione di insulina potesse predire la perdita di peso
in una dieta povera di grassi o povera di carboidrati. Altri effetti sulla salute misurati include-
vano il cambio di peso, il grasso corporeo (tramite DXA), il colesterolo, la pressione sanguigna
e la glicemia a digiuno.
Inoltre, l’assunzione di grassi saturi era significativamente ridotta nel gruppo a basso conte-
nuto di grassi, mentre l’indice glicemico (IG) complessivo era più basso nel gruppo a basso
contenuto di glucidi. Inoltre, sebbene entrambi i gruppi hanno visto riduzioni del carico gli-
cemico, il calo è stato molto più grande nel gruppo low-carb (come prevedibile, visto che il
miglior modo per ridurre il carico glicemico è semplicemente consumare meno carboidrati,
piuttosto che guardare all’IG di ogni singolo alimento).
A 12 mesi, il gruppo a basso contenuto di grassi aveva perso 11,7 libbre (5,3 kg) e il gruppo
basso contenuto di carboidrati 13,2 libbre (6,0 kg); questa differenza di 1,5 libbre per 12 mesi
(0,125 libbre / mese) non è né statisticamente significativa né clinicamente rilevante. Inoltre,
all’interno di ciascun gruppo, le differenze nei genotipi o nella secrezione di insulina non
hanno fatto alcuna differenza significativa nel cambiamento di peso. Ciò suggerisce che né il
genotipo testato in questo studio né la quantità di insulina prodotta durante l’OGTT possono
predire il successo della perdita di peso su una dieta a basso contenuto di grassi o a basso
contenuto di carboidrati.
Ironia della sorte, un potenziale fattore di confusione che mascherava un’interazione avrebbe
potuto essere che entrambe le diete erano basate su cibi integrali. Se, per esempio, la dieta
a basso contenuto di grassi fosse stata costituita principalmente da bevande zuccherate e ce-
reali raffinati, piuttosto che da legumi e cereali integrali, la conseguente insulino-resistenza
avrebbe potuto avere un effetto sul cambiamento di peso (non certa, è solo un’ipotesi
).
Il concetto è che a prescindere di quale sia il rapporto tra macronutrienti, può essere
importante valutare anche la qualità della dieta, intesa come fonti di cibo più ricche in
fibre e povere di zuccheri semplici e grassi trans.
Entrambi i gruppi sono stati in grado di migliorare alcuni indicatori di salute (BMI, percen-
tuale di grasso corporeo, circonferenza della vita, pressione sanguigna e livelli di insulina
e glucosio a digiuno), sebbene non siano state osservate differenze significative tra i grup-
pi. A 12 mesi, il colesterolo LDL ( LDL-C ) era significativamente diminuito nel gruppo a basso
contenuto di grassi (-2.12 mg / dL), mentre era aumentato nel gruppo a basso contenuto di
carboidrati (+3.62 mg / dL ).
Tuttavia, il gruppo con basso contenuto di carboidrati ha visto anche un significativo aumen-
to del colesterolo HDL ( HDL-C ) (+2,64, vs +0,40 mg / dL nel gruppo con basso contenuto di
grassi) e maggiori riduzioni dei trigliceridi (-28,20, vs -9,95 mg / dl nel gruppo a basso conte-
nuto di grassi). Nel complesso, entrambi i gruppi hanno ottenuto una simile riduzione dell’in-
dice di rischio cardiovascolare.
Il dispendio energetico a riposo (REE) non era significativamente diverso tra i gruppi. Al
12° mese, il REE era diminuito in modo significativo rispetto al basale per entrambi i gruppi
(-66,45 kcal per il basso contenuto di grassi, -76,93 kcal per il basso contenuto di carboidrati).
Questo è probabilmente il risultato della riduzione del peso corporeo e degli adattamenti alla
dieta ipocalorica, che causano appunto un abbassamento (per la verità minimo, come potete
vedere) del metabolismo.
Inoltre, il dispendio energetico totale (TEE) non era significativamente diverso tra i gruppi o
rispetto al basale. Infine, anche se poco più del 10% di ciascun gruppo ha migliorato la pro-
pria sindrome metabolica durante lo studio, non c’è stata alcuna differenza significativa tra
le diete. In sostanza, non sono state osservate differenze significative di perdita di peso tra
i gruppi a basso contenuto di grassi e a basso contenuto di carboidrati e né la genetica né
la produzione di insulina sono state utili per prevedere il successo della perdita di peso per
entrambi i tipi di diete.
Nel complesso, lo studio DIETFITS replica i risultati di numerosi altri studi controllati,
dimostrando che, quando l’apporto calorico e l’apporto proteico sono entrambi abbi-
nati tra gli interventi dietetici, la proporzione di carboidrati o grassi conta poco per la
perdita di peso e per lo stato di salute.
-25
-30
-35
Low-fat Low-carb
15
10
5
-5
-10
-15
-20
-25
-30
-35
• Nel complesso, i grafici sono abbastanza simili (in termini di distribuzione e perdita /
guadagno di peso).
• Gli studi tentano di discernere un effetto complessivo e spesso non riportano nient’al-
tro - anche quando le risposte individuali sono ovunque differenti.
Alla fine del processo, la stragrande maggioranza non era stata in grado di mantenere livelli
così bassi. I recall dietetici finali hanno riportato un consumo medio giornaliero di grassi pari
a circa 57 g (gruppo a basso contenuto di grassi) e un consumo medio giornaliero di carboi-
drati di circa 132 g (gruppo a basso contenuto di carboidrati).
L’applicabilità dell’intervento dietetico nella vita reale conta molto quando si estrapolano
dei risultati da uno studio. I risultati di questo studio trasmettono un chiaro messaggio che,
quando si sceglie uno stile alimentare, la sostenibilità è un componente la cui importanza
non può essere sottovalutata. Dunque, non esiste una “migliore dieta” in assoluto: sia le
diete a basso contenuto di grassi che quelle a basso contenuto di carboidrati possono fun-
zionare per la perdita di peso; la dieta sana che funzionerà per te è quella a cui puoi aderire.
Le linee guida AHA / ACC / TOS per la gestione del sovrappeso e dell’obesità negli adulti di-
scutono due opzioni per ridurre l’apporto energetico: una restrizione calorica “prescritta”
o una restrizione calorica “ottenuta”. In questo studio i ricercatori non hanno “prescritto”
una specifica restrizione calorica. Si sono concentrati sulla riduzione di cibi ricchi di grassi o
di cibi ricchi di carboidrati, e hanno consigliato ai partecipanti di trovare il livello più basso di
assunzione di grassi o carboidrati che potevano raggiungere senza sentirsi perennemente
affamati.
Dunque, i ricercatori hanno spiegato ai partecipanti che se quello che stavano facendo li
aveva lasciati affamati, allora quando avrebbero raggiunto il loro obiettivo di perdita di peso
o lo studio sarebbe finito, probabilmente avrebbero abbandonato la loro dieta e sarebbero
tornati alle abitudini pre-dieta, e quindi il peso sarebbe probabilmente tornato a salire.
Dunque, forse per la perdita di peso bisognerebbe sempre focalizzarsi su una dieta generica
basata su:
Si noti anche che questi quattro punti sono concordati anche da ogni tipo di dieta (commer-
ciale o meno, che è stata studiata e che ha dimostrato di poter essere efficace per la perdita
di peso): vegana, paleo, basso contenuto di grassi, basso contenuto di carboidrati, mediterra-
nea, ecc. Chiaramente, questa è la base e sicuramente si può fare di meglio, personalizzando
e puntellando i dettagli. Ma prima di preoccuparsi, appunto, dei dettagli, è necessario assicu-
rarsi che la dieta rispetti quanto più possibile i 4 punti di cui sopra.
8.2.7. Conclusioni
Quando si tratta di perdere peso, né una dieta a basso contenuto di grassi né una dieta a bas-
so contenuto di carboidrati sono intrinsecamente superiori. Né la produzione di insulina né
i genotipi testati hanno avuto un effetto notevole sul successo o sul fallimento della perdita di
peso. Dunque, scegli uno stile alimentare che si adatti alle tue preferenze alimentari, obiettivi
di salute, stile di vita. Soprattutto, scegli uno stile alimentare che puoi sostenere nel tempo,
idealmente per tutta la vita.
È risaputo che l’equilibrio calorico (differenza tra calorie ingerite e calorie bruciate) è il più im-
portante determinante delle variazioni del peso corporeo. Tuttavia, ciò non significa che tutti
gli alimenti o i nutrienti avranno esattamente lo stesso impatto sulla composizione corporea.
Ad esempio, recentemente è stato pubblicato uno studio interessante in cui i soggetti hanno
mangiato troppo (750 calorie al giorno di eccesso calorico) attraverso il consumo di cupcakes
con grassi polinsaturi (olio di semi di girasole) o di cupcakes con grassi saturi (olio di palma).
Il risultato è stato che dopo 7 settimane, entrambi i gruppi hanno acquisito quantità simili
di peso. Tuttavia, nel gruppo che consumava cupcakes di grassi saturi circa l’80% del peso
acquisito era costituito da massa grassa. Al contrario, nel gruppo che mangiava cupcakes di
grassi polinsaturi solo circa il 50% del peso acquisito era massa grassa. Inoltre, in quest’ul-
timo gruppo, una percentuale molto più elevata dell’aumento di peso consisteva in massa
magra (50 vs 20%, rispettivamente).
Inoltre, la deposizione di grasso epatico e viscerale (cioè tra gli organi nella regione addo-
minale) era inferiore nel gruppo che consumava grassi polinsaturi. In conclusione, i grassi
L’accumulo di grasso nel fegato, nel pancreas e nell’addome può avere conseguenze meta-
boliche avverse a lungo termine, e creare le condizioni per la genesi di insulino-resistenza
sistemica. Sebbene l’obesità sia una delle maggiori preoccupazioni per la salute, l’obesità
addominale è di maggiore rilevanza clinica.
L’accumulo di grasso epatico, inclusa la malattia del fegato grasso non alcolico (NAFLD), è
presente in circa il 25% degli adulti nei paesi occidentali ed è stato proposto come fattore
causale nello sviluppo di disturbi cardiometabolici e diabete di tipo 2. Nell’obesità, la pre-
valenza della NAFLD è estremamente elevata e può raggiungere il 75%. Pertanto, il grasso
del fegato può essere un obiettivo chiave nella prevenzione e nel trattamento delle malattie
metaboliche.
Perché alcuni individui depositano il grasso del fegato in misura maggiore rispetto ad altri
durante l’aumento di peso non è noto, e probabilmente c’è un’importante componente ge-
netica. Tuttavia, sembrerebbe che diete ad alto contenuto di grassi siano maggiormente in
grado di indurre l’aumento di grasso nel fegato rispetto a diete con basso contenuto di grassi
(dimostrato sia negli esseri umani sia nei roditori).
Alcuni studi confermano quanto detto precedentemente: la composizione dei grassi nella
dieta potrebbe svolgere un ruolo chiave nell’accumulo di grasso nel fegato, con acidi grassi
polinsaturi (PUFA) inversamente e acidi grassi saturi (SFA) direttamente associati con il gras-
so epatico. Ad esempio, nel recente studio HEPFAT, è stato dimostrato che una dieta isoca-
lorica ricca di PUFA somministrata per 10 settimane riduceva il contenuto di grasso epatico
e tendeva a ridurre la resistenza all’insulina rispetto a una dieta ricca di SFA in soggetti con
obesità addominale e diabete di tipo 2.
Pertanto, il tipo di grasso nella dieta sembra essere un nuovo e importante fattore determi-
nante dell’accumulo di grasso epatico, della distribuzione del grasso e della composizione
corporea durante un moderato aumento di peso. Altri studi hanno dimostrato che i pazienti
che seguono una dieta con contenuto di SFA più alto e un consumo di PUFA più basso hanno
un contenuto di grasso epatico aumentato, che è anche in accordo con i livelli più bassi di
PUFA nei fegati grassi.
I meccanismi alla base degli effetti differenziali sulla deposizione di grasso epatico non sono
noti, ma possono comportare differenze nella lipogenesi epatica e / o nell’ossidazione e nel-
la conservazione degli acidi grassi. Nei pazienti con NAFLD, l’aumento della lipogenesi de
novo contribuisce in modo determinante all’accumulo di grasso epatico e alla steatosi. Si noti
che nel presente studio, è possibile un’interazione fruttosio-SFA sul grasso del fegato poiché
i muffin utilizzati nello studio contenevano quantità significative di fruttosio.
I primi dati sugli animali hanno mostrato che la lipogenesi indotta da carboidrati (conversio-
ne degli zuccheri in grasso) è stata inibita aggiungendo acido linoleico (acido grasso insa-
turo), mentre il palmitato (acido grasso saturo) non ha avuto alcun effetto, e gli SFA hanno
aumentato la steatosi e la lipogenesi epatica rispetto ai PUFA. In conclusione, un eccesso di
diversi tipi di grasso sembra avere diversi effetti nel corpo umano.
Nello specifico, il destino degli SFA sembra essere l’accumulo ectopico e l’accumulo di grasso
in generale. Dato il ruolo dannoso del grasso epatico e del grasso viscerale nell’insulino-re-
sistenza, il potenziale della prevenzione precoce del grasso ectopico e della steatosi epati-
ca sostituendo alcuni SFA con PUFA nella dieta dovrebbe essere una misura maggiormente
raccomandata.
Dunque, in sostanza, anche se vengono mantenuti pesi ridotti, molti dei benefici ottenuti du-
rante la perdita di peso, compresi i miglioramenti della sensibilità all’insulina, possono essere
attenuati a causa della non conformità alla dieta o dell’adattamento alla restrizione calorica.
Sono pertanto necessarie strategie di restrizione calorica sostenibili ed efficaci.
Un possibile approccio può essere la restrizione energetica intermittente (IER), con brevi
periodi di grave restrizione tra periodi più lunghi di assunzione abituale di energia (calorie di
mantenimento). Per alcuni soggetti tale approccio può essere più facile da seguire rispetto
a una restrizione energetica giornaliera o continua (CER) e può superare l’adattamento allo
stato di riduzione del peso mediante ripetuti rapidi miglioramenti del controllo metabolico
con ogni singolo periodo di restrizione energetica.
L’effetto della IER sulla prevenzione delle malattie e sulla durata della vita è stato studiato
principalmente in modelli di roditori attraverso una serie di protocolli sperimentali differenti
che vanno dal digiuno a giorni alterni a un protocollo di 3 settimane di restrizione energetica
parziale con refeeding (rialimentazione). In questi studi l’ IER appare uguale o più efficace
della CER isoenergetica per migliorare la sensibilità insulinica.
Di seguito descrivo un recente studio controllato e randomizzato in cui sono indagati gli ef-
fetti della restrizione energetica del 25% attraverso un protocollo di IER rispetto a una dieta
isocalorica (con le stesse calorie totali settimanali) ottenuta attraverso la CER in donne so-
vrappeso o obese per un periodo di 6 mesi.
8.4.1. Lo studio
Sono state studiate 107 donne in premenopausa di età compresa tra 30 e 45 anni con aumen-
to di peso con un indice di massa corporea (BMI) tra 25 e 40 kg / m 2 (soggetti sovrappeso o
obesi). I partecipanti erano non fumatori, che al momento del reclutamento allo studio non
erano a dieta e non stavano dimagrendo, con cicli mestruali regolari e nessuna evidenza di
iperandrogenismo o sindrome dell’ovaio policistico e nessun uso di contraccettivi orali nei 6
mesi precedenti.
• Un protocollo di CER per 6 mesi, la cui restrizione era rappresentata da un taglio calo-
L’adesione agli interventi dietetici a 1, 3 e 6 mesi è stata valutata utilizzando diari alimentari.
Inoltre, al gruppo IER è stato chiesto di registrare se avevano completato con successo la
VLCD di 2, 1 o 0 giorni ogni settimana durante il periodo di studio (questo serviva per capire
se il protocollo era sostenibile, mediamente, dalle persone). Infine, durante il periodo di pro-
va di 6 mesi ai partecipanti è stato chiesto di segnalare qualsiasi effetto fisico o psicosociale
negativo o positivo degli interventi.
Le diete studiate
Entrambe le diete hanno comportato una restrizione energetica del 25% rispetto ai fabbi-
sogni energetici di base stimati. Al gruppo CER è stata prescritta una restrizione giornaliera
del 25% basata su una dieta di tipo mediterraneo (30% di grassi, 15% di monoinsaturi, 7% di
grassi saturi, 7% di acidi grassi polinsaturi, 45% di carboidrati e 25% di proteine).
Al gruppo IER è stato chiesto di intraprendere una VLCD (restrizione del 75%) per 2 giorni
consecutivi e di consumare le calorie di mantenimento del peso per i restanti 5 giorni in base
alla composizione nutritiva di cui sopra. La VLCD ha fornito circa 500 kcal e 50 g di proteine /
giorno e comprendeva 2 pinte di latte parzialmente scremato, 4 porzioni di verdure (circa 80
g / porzione), 1 porzione di frutta, una bevanda salata a basso contenuto calorico e un inte-
gratore multivitaminico e minerale.
I partecipanti sono stati invitati a mantenere i loro livelli di attività durante tutto il periodo di
prova e non hanno ricevuto consulenza specifica per l’esercizio fisico. Le prescrizioni energe-
tiche sono state riviste durante lo studio per tenere conto delle variazioni di peso e dei livelli
di esercizio per mantenere una restrizione del 25% al di sotto dei fabbisogni energetici stima-
ti per il mantenimento del peso.
La IER non ha comportato, in generale, una migliore aderenza rispetto alla CER, tuttavia
può essere prescritta come alternativa equivalente alla CER per la perdita di peso e la
riduzione del rischio di malattia. Di conseguenza, l’IER non è migliore della CER, come
non è peggiore, dipende dall’aderenza individuale del singolo soggetto al tipo di dieta.
Si ritiene generalmente che i dolcificanti acalorici (NNS – da dolcificanti non nutritivi) siano
sostituti sani degli zuccheri perché permettono di dolcificare cibi e bevande senza apportare
ulteriori calorie e zuccheri, e quindi senza scatenare nemmeno un rilevante impatto sulla
glicemia. Attualmente, sei NNS (sucralosio, aspartame, saccarina, acesulfame potassio, neo-
tame e advantame) sono approvati per essere usati come dolcificanti nel cibo, e due (glicosidi
steviolici e estratto di Luo han guo) sono generalmente riconosciuti come sicuri e permessi
per l’uso negli alimenti dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense.
Sebbene questi composti abbiano una struttura chimica molto diversa, hanno tutti in comu-
ne il fatto che attivano molto potentemente alcuni dei molteplici potenziali siti di legame del
ligando del recettore eterodimerico T1R1 + T1R3 in soggetti umani. Deve essere chiaro che
Inoltre, i dati di diversi studi, condotti su esseri umani con e senza diabete, hanno rilevato
che anche dosi estremamente elevate di sucralosio o aspartame (molte volte superiori all’as-
sunzione massima stimata), non hanno influenzato le concentrazioni di glicemia, peptide C
(dosato per valutare i livelli di insulina) o HbA1c. Tuttavia, effettivamente, i dati di numerosi
studi epidemiologici hanno rilevato che il consumo di NNS, non è legato a migliori risultati
di salute.
Infatti, alcuni studi hanno trovato associazioni positive tra il consumo di NNS e l’aumento di
peso, la sindrome metabolica e il diabete di tipo 2, anche se altri studi non hanno mostrato la
stessa associazione. Si noti che almeno due ipotesi, che non si escludono a vicenda, potreb-
bero spiegare l’associazione paradossale tra consumo di NNS e esiti metabolici avversi:
• Causalità inversa, cioè individui che sono suscettibili di sviluppare malattia me-
tabolica o stanno aumentando di peso scelgono di consumare NNS come stra-
tegia per ridurre l’apporto di zucchero e calorie. In questo caso non è che i NNS
sono causa dell’aumento di peso, IR o diabete, ma sono associati a queste condi-
zioni perché chi è a rischio per queste malattie tende a sperimentare il loro uso.
Un po’ come se i fumatori, che hanno un maggior rischio di tumore polmonare, scel-
gono di consumare più frutta. Non è che la frutta sia associata al tumore polmonare
perché fattore di rischio per questa data patologia, ma è associata alla malattia perché
chi è a rischio tende a consumare più frutta come eventuale rimedio. Tutto ciò prende
il nome di “causalità inversa”.
• I NNS non sono fisiologicamente inerti, ma influenzano i processi biologici coinvolti
nella regolazione dell’energia e dell’omeostasi del glucosio. Dunque, effettivamente,
potrebbero avere un ruolo nell’equilibrio endocrino e metabolico.
Prendiamo per buono il secondo punto, e andiamo a vedere perché i NNS potrebbero es-
sere, teoricamente, dannosi per il nostro metabolismo glucidico e per la nostra sensibilità
all’insulina.
Noi tutti sappiamo che in realtà la preparazione del nostro organismo a ricevere e gestire il
cibo (e i nutrienti in esso contenuti) avviene già prima che il cibo venga digerito. Infatti, già
con la vista (del cibo), e poi attraverso la bocca (con la percezione del gusto, che suggerisce la
composizione di un alimento ai centri nervosi), il nostro organismo si prepara nella maniera
migliore per poter ricevere, digerire e metabolizzare i nutrienti che sta per assumere.
Nel loro elegante studio, i ratti vengono esposti, in maniera differenziale, ad un sapore dolce
che predice (glucosio) o non predice (saccarina, acesulfame K o stevia) un aumento di calo-
rie. I dati di una serie di esperimenti mostrano che rispetto ai ratti che consumano una dieta
sempre addolcita con glucosio (cioè zucchero che apporta calorie), quelli che consumano una
dieta in cui il gusto dolce non predice calorie (cioè cibi addolciti con NNS) sono più pesanti,
accumulano più grasso, mostrano una diminuita capacità di compensare le calorie ingerite
nel pasto precedente, e hanno una risposta termica ridotta.
Coerentemente con la loro ipotesi che i NNS indeboliscono le risposte cefaliche, rispetto ai
ratti nel gruppo di controllo (cioè ratti che assumevano cibi dolci che apportavano calorie),
gli animali che consumano una dieta addolcita con NNS hanno risposto con iperglicemia re-
lativa quando sono stati sottoposti a pasti con sapore dolce non ottenuto con NNS, o quando
sottoposti a veri e propri test di tolleranza al glucosio.
È importante notare che questa alterata risposta glucoregolatoria a un carico di glucosio, che
era associato a livelli circolanti ridotti dell’ormone incretinico GLP-1, è stata osservata quando
il carico di glucosio è stato somministrato per via orale, ma non quando il glucosio è stato
infuso direttamente nello stomaco (cioè bypassando la stimolazione del gusto orale).
I primi studi di Deutsch sostengono anche la teoria che nei roditori, l’esposizione a lungo
termine all’ingestione di NNS indebolisce le risposte cefaliche innescate dal gusto dolce. In
seguito a quanto rilevato, l’assunzione di saccarina ha potenziato gli effetti ipoglicemici
dell’insulina somministrata esogenamente. C’è comunque da considerare che l’ipotesi che
l’esposizione a NNS indebolisca le risposte cefaliche al cibo dolce non è stata testata su sog-
getti umani ma solo sui ratti.
Non è una cosa di poco conto. Infatti, ci sono importanti differenze tra umani e roditori sul
tipo di stimoli che suscitano risposte cefaliche. Ad esempio, i liquidi dolci, sia calorici che non
calorici, sono buoni stimoli a suscitare risposte cefaliche nei ratti ma generalmente non pro-
vocano risposte cefaliche negli esseri umani. Tuttavia:
Dunque, esiste un grande potenziale che la teoria di cui sopra, che postula che i NNS, inter
ferendo con le risposte cefaliche, contribuiscono all’alterazione del controllo dell’omeostasi
del glucosio e dell’energia, sia applicabile anche agli esseri umani.
Dati provenienti da studi in vitro, da studi su modelli animali e da un piccolo studio su sogget-
ti umani, suggeriscono che gli effetti di questi NNS non si limitano ad agire sui microbi situati
nel cavo orale, ma si estendono anche a quelli nell’intestino, influenzando così il fenotipo
metabolico ospite e il rischio di malattia. Il lavoro pionieristico del gruppo di Schiffman ha
mostrato che 12 settimane di esposizione a un NNS particolare ha alterato significativamente
la composizione del microbiota intestinale diminuendo i batteri benefici, ed è stato associato
con l’aumento di peso nei ratti.
Una delle scoperte più interessanti degli ultimi anni, nel campo del senso del gusto, è il ri-
trovamento di recettori del gusto in tessuti che, generalmente, non associamo alla capacità
di interpretare i gusti (es. lingua). I dati ottenuti da studi su modelli di roditori sostengono
fortemente l’ipotesi che la subunità T1R3 del recettore del gusto dolce accoppiato al gusto G
alfa-gustducina, sia alla base di almeno uno dei componenti dello zucchero che percepiscono
le cellule intestinali. Infatti, topi privi di alfa-gustducina o T1r3 mostrano una risposta increti-
nica fortemente attenuata alla stimolazione del glucosio.
Le incretine (GLP-1 e GIP) sono ormoni intestinali che una volta rilasciati nel sangue stimo-
lano le beta-cellule pancreatiche a secernere insulina, (si noti che questo è solo uno degli ef-
fetti). Il cosiddetto “effetto incretinico”, descritto per la prima volta negli anni ‘60, si riferisce
al fatto che un carico di glucosio per via orale induce una risposta all’insulina notevolmente
maggiore rispetto a un carico di glucosio per via endovenosa, anche quando entrambi i cari-
Le vie di segnalazione del gusto nell’intestino che intervengono nell’ “effetto incretinico”
sono ulteriormente supportate da due osservazioni. Innanzitutto, il lattisolo, un antagonista
del recettore del gusto dolce umano, blocca completamente il rilascio di GLP-1, negli studi in
vitro, e riduce significativamente la secrezione di GLP-1 in risposta alla somministrazione di
glucosio intraduodenale in soggetti umani.
In secondo luogo, i topi knockout alfa-gustducina (cioè, che non hanno l’alfa-gustducina)
hanno un’alterazione significativa dell’omeostasi del glucosio. Peraltro, oltre alla sua impor-
tante funzione di regolazione della secrezione di GLP-1, le vie di segnalazione del gusto dolce
nell’intestino possono giocare un ruolo chiave nella regolazione dell’assorbimento del gluco-
sio dal lume intestinale agli enterociti.
Inoltre, è stato recentemente scoperto che l’ingestione di sucralosio, l’NNS più comunemen-
te usato, influenza la risposta glicemica a un successivo carico di glucosio orale, e aumenta
sia la concentrazione plasmatica di glucosio che la secrezione di insulina stimolata dal gluco-
sio in soggetti con obesità.
Infine, è stato anche scoperto che l’ingestione di sucralosio tendeva ad aumentare la con-
centrazione plasmatica di GIP e, suggerendo che l’assunzione acuta di sucralosio poteva
promuovere la resistenza all’insulina, è stato riscontrato che circa il 20% in più rispetto alle
normali concentrazioni di insulina erano necessarie per mantenere la stessa glicemia quando
i soggetti obesi hanno assunto sucralosio rispetto a quando hanno consumato acqua prima
dell’ingestione successiva di glucosio. Al contrario, i risultati di studi condotti in adulti sani
magri hanno riferito che il sucralosio non influisce sulle risposte glicemiche o ormonali dopo
l’assunzione di glucosio o di altri carboidrati.
La ragione per la discrepanza tra i risultati di questi studi e i dati precedentemente descritti
non è chiara, ma potrebbe essere correlata all’inclusione di soggetti che erano utilizzatori
abituali di NNS negli studi. In genere, si studiano gli effetti dei NNS principalmente sugli obe-
si perché:
• I NNS sono spesso promossi per aiutare a ridurre l’apporto calorico e facilitare la ge-
stione del peso in questa popolazione.
• La prevalenza dell’uso di NNS è maggiore in questa popolazione rispetto ai soggetti
magri (36% vs 22%).
• i dati provenienti da modelli animali suggeriscono che i soggetti obesi potrebbero esse-
re i più colpiti dal consumo di NNS.
Inoltre, nei dati che suggerivano un’azione dei NNS sulla risposta glicemia successiva post-in-
gestione di glucosio, i ricercatori hanno incluso solo soggetti insulino-sensibili (misurati at-
traverso l’indice HOMA ≤ 2.6), e solo individui che non consumavano regolarmente NNS. Il
controllo dell’uso di NNS quando si valutano potenziali effetti metabolici “acuti” di NNS è fon-
damentale perché, come descritto sopra, esistono prove considerevoli a sostegno dell’ipotesi
che l’ingestione cronica di NNS abbia un’attività biologica adattiva. Infatti, è stato dimostrato
che l’assunzione cronica di NNS:
• Aumenta l’espressione di SGLT1, che a sua volta aumenta il tasso iniziale di captazione
di glucosio in tre diverse specie di mammiferi.
• Aumenta la risposta glicemica a un carico di glucosio orale nei roditori e nei soggetti
Queste osservazioni suggeriscono che gli ormoni funzionali dell’intestino – che influenzano
le concentrazioni e l’attività dell’insulina – sono anche espressi nella lingua dei soggetti uma-
ni. Le somiglianze nei meccanismi molecolari della trasduzione del segnale del gusto nella
lingua e nella trasduzione del segnale dei nutrienti nell’intestino suggeriscono che lo studio
della percezione del gusto può fornire nuove informazioni sui meccanismi di percezione chi-
mica nell’intestino che regolano la funzione metabolica. Ad esempio, individui sani con una
storia familiare di diabete di tipo 2 hanno una compromissione significativa nella rilevazione
del gusto specifica per il glucosio.
Alcuni ricercatori hanno recentemente testato l’ipotesi che le differenze individuali nella per-
cezione della dolcezza del sucralosio siano correlate agli effetti del sucralosio sulle risposte
metaboliche a un carico di glucosio (ad esempio, maggiore è la sensibilità al gusto per rile-
vare il sucralosio, maggiore è l’effetto del sucralosio sulle risposte glicemiche). Per verificare
questa ipotesi, gli autori hanno valutato la sensibilità al gusto dei soggetti per rilevare sucra-
losio e saccarosio.
È importante notare che una soglia di rilevamento è la più bassa concentrazione di stimoli
gustativi che un soggetto può rilevare ed è al di sotto della soglia di un individuo per la per-
cezione cosciente (cioè quando si esegue questo compito, i soggetti rilevano che uno stimolo
gustativo è diverso dall’acqua, ma non riconoscono un sapore dolce quando vengono misu-
rate soglie di rilevamento per saccarosio o NNS).
Pertanto, le soglie di rilevamento del gusto sono resistenti ai bias soggettivi di risposta che
potrebbero essere originati dall’esposizione al sucralosio durante lo studio metabolico. I ri-
cercatori hanno osservato che le soglie di rilevamento del sucralosio erano circa 750 volte
inferiori rispetto al saccarosio, FIGURA 13.
40
30
20
Peak delta plasma glucosio
10
-10
-20
-30
0 0.04 0.09 0.13 0.18 0.22
Soglia di visibilità sucralosio (m)
Figura 13 Correlazione tra le soglie di rilevamento del sucralosio e gli effetti del sucralosio
sulla concentrazione plasmatica del glucosio (ovvero la differenza tra le concentrazioni
plasmatiche del picco di glucosio nel giorno in cui il sucralosio ha preceduto il carico di
glucosio e il giorno in cui l’acqua ha preceduto il carico di glucosio) in 16 soggetti obesi.
Questi risultati sostengono l’ipotesi che maggiore è la sensibilità per rilevare il gusto
del sucralosio (cioè, minore è la quantità di sucralosio che è rilevabile come “un sapore
diverso dall’acqua”), maggiore è stata la differenza nel picco di glucosio tra il sucralosio
e l’acqua (cioè maggiore è l’effetto del sucralosio sulle risposte del picco glicemico in
seguito a un test standard di carico di glucosio).
9.6. Conclusioni
Diversi meccanismi potenziali, che non si escludono a vicenda, potrebbero spiegare l’asso-
ciazione paradossale tra il consumo di NNS e disordini metabolici osservati in molti studi
epidemiologici:
• In primo luogo, secondo la teoria di Pavlov, la dissociazione della dolcezza dalle calorie
potrebbe interferire con le risposte fisiologiche fondamentali che si erano evolute per
controllare l’omeostasi.
• In secondo luogo, il dolcificante acalorico induce cambiamenti nell’ambiente gastro-in-
testinale e quindi del microbiota intestinale, e ciò può influenzare la capacità di tolleran-
za al glucosio e la sensibilità all’insulina.
• Inoltre, il dolcificante acalorico interagisce con i nuovi recettori del gusto dolce scoperti
nei tessuti non associati convenzionalmente al gusto, come l’intestino e il pancreas, che
possono influenzare la secrezione di insulina.
Vi sono poi incongruenze tra i risultati di dati provenienti da modelli animali e soggetti uma-
ni riguardo al fatto che i NNS possono influenzare in modo acuto le risposte glicemiche in
vivo, presumibilmente attivando i recettori del gusto dolce nel sistema digestivo. Le ragio-
ni della discrepanza tra i risultati di diversi studi sono sconosciute, ma potrebbero essere
correlate alle differenze nell’inclusione dei soggetti negli studi (ad esempio, magri vs obesi,
insulino-resistenti vs insulino-sensibili, consumatori abituali di NNS vs individui che non as-
sumono NNS).
Un’altra nota importante da sottolineare è che la maggior parte di queste ricerche su sogget-
ti umani ha valutato gli effetti specificamente del sucralosio (o del sucralosio in combinazione
con l’acesulfame-k), e pertanto, sebbene io abbia spesso parlato di “NNS in generale” i ri-
sultati di questi studi non dovrebbero essere estrapolati a tutti gli NNS ma solo al sucralosio
e all’acesulfame-k.
Tuttavia, i dati di almeno cinque diverse specie di mammiferi (ratti, topi, maiali, mucche, uma-
ni) mostrano che il sucralosio può avere azioni metaboliche rilevanti, pur non apportando ca-
lorie. Pertanto, il vecchio concetto che i NNS, solo perché acalorici o ipocalorici, non abbiano
effetti metabolici, dovrebbe essere quanto meno messo in discussione.
Chiudo riportando le conclusioni degli esperti del Consensus di Lisbona del 2018 che hanno
analizzato e valutato le prove in relazione al ruolo dei NNS nella sicurezza alimentare, la loro
regolamentazione a livello globale e le considerazioni nutrizionali e dietetiche del loro uso in
alimenti e bevande:
• Sicurezza dei NNS: i NNS sono alcune delle sostanze più ampiamente valutate nella ca-
tena alimentare umana. La sicurezza dei NNS attualmente utilizzati è stata rivista e con-
fermata da agenzie di regolamentazione sanitaria di tutto il mondo, come FDA ed EFSA.
• Ruolo dei NNS nella gestione del peso corporeo e malattie croniche: l’uso di dol-
cificanti in programmi di riduzione del peso che sostituiscono il saccarosio o zuccheri
semplici può favorire la riduzione del peso in eccesso e il mantenimento della perdita
di peso nel contesto di piani dietetici ben strutturati. Inoltre, il loro uso nel programma
di controllo del diabete, come sostituti del saccarosio e di altri zuccheri semplici, può
contribuire a un migliore controllo glicemico. Infine, queste sostanze forniscono anche
benefici per la salute dentale.
• Inoltre, alimenti e bevande contenenti NNS possono essere raccomandati per sostituire
alimenti e bevande con zuccheri aggiunti per pazienti con diabete, dislipidemia, obesità
Nella TABELLA 3 e nella TABELLA 4 è riassunto tutto ciò che bisogna sapere sui dolcificanti.
Tabella 3
Fruttosio 1.5 4g 16 /
Dolcificanti artificiali
Sucralosio 600 0 15
Dolcificanti natuali
Fonte: INRAN
Tabella 4 (1): I dolcificanti possono avere azione sinergica, cioè usati in combinazione il
loro singolo edulcorante aumenta. Per questo motivo la quantità necessaria per sostituire
un cucchiano di saccarosio è spesso più bassa di quella riportata in tabella
(2): per i dolcificanti natuali non esiste una dose giornaliera massima raccomandata, ma è
fissato un valore di riferimento pari 20g al giorno per un adulto e 10g per un bambino.
10.1. Cromo
Il cromo è un minerale essenziale, ovvero una sostanza che deve essere necessariamente
introdotta nell’organismo attraverso la dieta. A tal proposito, si trova in tracce nei prodotti
vegetali, in particolare nei cereali. Una carenza di cromo è abbastanza rara, e la si osserva in
genere solo nei soggetti gravemente malnutriti e che non assumono cereali e altri prodotti
vegetali. La caratteristica più studiata del cromo è la sua capacità di regolare i livelli di insulina
nel corpo, quando è presente nelle concentrazioni adeguate.
In questa sede mi focalizzo, ovviamente, sugli effetti degli integratori (tra cui il cromo, in
questo caso) sulla salute metabolica, e in particolare sulla regolazione della glicemia, sulla
regolazione della secrezione di insulina, e sulla sensibilità dei tessuti a questo ormone. In ef-
fetti, spesso si raccomanda l’integrazione di cromo per potenziare gli effetti dell’insulina nei
tessuti insulino-dipendenti. Tuttavia, il cromo non sembra essere sempre utile.
In effetti, quando il cromo è integrato da persone con livelli di cromo normali o elevati, non
si ottiene alcun effetto affidabile. Oltre a una lieve riduzione della glicemia a digiuno, nes-
sun biomarcatore correlato al diabete è migliorato. Il miglioramento della glicemia in questi
soggetti varia da 1 a 5 mg/dl, ovvero un effetto non significativo e non rilevante dal punto di
vista clinico.
Nessun effetto significativo o affidabile nelle persone non diabetiche sulla riduzione della gli-
cemia e sulla sensibilità all’insulina. Infine, non sembra esserci una riduzione significativa né
affidabile della massa grassa anche sia nei diabetici sia nei non-diabetici, a cui è stata studiata
la supplementazione di cromo nelle modalità precedentemente descritte.
Gli omega 3 sono acidi grassi essenziali e appartengono alla categoria degli acidi grassi insa-
turi. I principali alimenti che contengono buone quantità di omega-3 sono il pesce (grasso)
e la frutta secca. Poiché si raccomanda un buon rapporto omega-3 e omega-6 è opportuno
non solo consumare maggiori quantità di grassi insaturi, ma anche tener presente quali sia-
no le proporzioni tra ω-3 e ω-6.
Ad esempio, nel contesto della frutta secca, è bene sapere che solo le noci sono realmente
utili per aumentare l’apporto di ω-3, in quanto contengono pochi ω-6, in proporzione, rispet-
to a altri cibi simili. Si consideri il fatto che si ipotizza che un rapporto ottimale ω-6 / ω-3 è di
1:1 fino a 4:1. Nella tipica dieta occidentale, purtroppo, si osserva un rapporto anche di 10-
15:1, suggerendo che tale dieta sia particolarmente infiammatoria.
Molti studi suggeriscono che i PUFAS possano migliorare l’azione dell’insulina negli organi
Poiché già si utilizzano ligandi sintetici per i PPAR gamma nella terapia farmacologica per
la resistenza all’insulina nella popolazione con Sindrome dell’Ovaio Policistico (PCOS, una
condizione clinica caratterizzata da insulino-resistenza), si può supporre che i PUFAs dietetici
possano svolgere un ruolo simile nella riduzione della resistenza all’insulina. Inoltre gli acidi
grassi ω-3 hanno diversi effetti benefici, inclusi effetti antinfiammatori, antitrombotici e an-
tiaterogenici.
Dosi elevate (generalmente nell’intervallo 12-18 g) sono necessarie per qualsiasi effetto neu-
rologico, mentre dosi più basse (2-4 g) sono sufficienti per gli effetti insulino-sensibilizzanti.
L’azione insulino-sensibilizzante del myo-inositolo sembra essere utile per migliorare le con-
dizioni di fertilità delle donne con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS).
10.5. Magnesio
Il magnesio è un minerale dietetico essenziale ed è il secondo elettrolita più diffuso nel corpo
umano. Le fonti importanti di magnesio sono rappresentate dalla frutta secca, in particolare
noci, mandorle e nocciole, e da altri alimenti vegetali come gli ortaggi a foglia. Inoltre, anche
alcuni legumi, come i fagioli e i piselli, contengono quantità rilevanti di questo minerale.
Sembra che ci sia una certa riduzione della glicemia nei diabetici e nelle persone con glucosio
elevato con integrazione di magnesio, che può essere secondaria a un migliore funziona-
mento dell’insulina dal pancreas. La riduzione del glucosio non è eccessivamente impressio-
nante ed è in qualche modo inaffidabile, ed è stato notato un aumento del glucosio durante
l’esercizio quando il magnesio è integrato in persone sane.
Infine, l’integrazione di magnesio non è molto efficace nel ridurre la massa grassa o i cram-
pi. Ulteriori prove sono necessarie per determinare se l’integrazione di magnesio può au-
mentare le prestazioni dell’esercizio, ma i risultati iniziali non sembrano promettenti.
Gli effetti collaterali gastrointestinali, come la diarrea e il gonfiore, sono più comuni quando
vengono integrati ossido di magnesio o cloruro di magnesio, a causa dei tassi di assorbimen-
to più bassi di queste due forme. In generale, il citrato di magnesio è una buona scelta per
l’integrazione. Il L-treonato di magnesio, invece, può essere utilizzato per il potenziamento
cognitivo e per il trattamento di disturbi mentali (come ADHD e depressione).
Va notato che sebbene ci sia un bel po’ di ricerca che suggerisce forti effetti della berberina
per ridurre i biomarcatori del diabete di tipo II, c’è molta meno ricerca alle spalle della ber-
berina rispetto a molti prodotti farmaceutici, e non è chiaro quali siano i suoi effetti a lungo
termine sulla mortalità e sulle complicanze. Dunque, ovviamente, si raccomanda di non so-
stituire i farmaci antidiabetici di cui sopra semplicemente con l’integrazione di berberina, se
non sotto stretto controllo medico.
• Alte dosi di berberina assunte acutamente, a causa del loro scarso tasso di assorbimen-
to intestinale, possono causare crampi e diarrea; per questo motivo, la berberina deve
essere assunta in dosi multiple durante il giorno.
• È noto che la berberina inibisce CYP2D6, CYP2C9 e CYP3A4, il che può portare a una
serie di interazioni farmacologiche, alcune delle quali possono essere gravi. Per questo
motivo, se si assumono dei farmaci, consultare il medico circa la compatibilità dell’inte-
grazione di berberina.
• La berberina può essere cardiotossica a elevate dosi.
L’uso della berberina nel ridurre la glicemia, secondo la più recente meta-analisi, è parago-
nabile ai farmaci ipoglicemizzanti orali Metformina o Glibenclamide; questo suggerisce che la
berberina sia uno degli integratori più efficaci per la riduzione della glicemia.
La riduzione di HbA1c associata alla berberina, secondo una meta-analisi condotta su dia-
betici che utilizzavano 1.000-1.500 mg di berberina al giorno, era −0,72% in più rispetto al
10.7. Curcumina
10.8. Cannella
La cannella è una spezia popolare in tutto il mondo. Esercita numerosi effetti biologici sul
corpo. La cannella è una spezia che contiene diversi agenti bioattivi. Le cinnamaldeidi con-
feriscono alla cannella il suo aroma, le cumarine contribuiscono al gusto e numerosi com-
posti tra cui i polimeri metilidrossiacalici (MHCP) contribuiscono ai suoi benefici sistemici di
sensibilizzazione all’insulina. Oltre ai tre composti unici elencati, la cannella contiene anche
tannini, flavonoidi, glicosidi, terpenoidi e antrachinoni.
Nella circolazione sistemica (oltre il fegato) la cannella possiede anche effetti anti-diabeti-
ci. Un composto della cannella, un polimero di metilidrossiaclcone (MHCP), funge da insu-
lino-mimetico sugli adipociti. Gli effetti del MHCP come insulino-mimetico dipendono dalla
dose, e agiscono sul recettore dell’insulina (con lo stesso meccanismo dell’insulina stessa).
Tuttavia, i suoi effetti sull’assunzione di glucosio e sul glicogeno, per quanto dipendenti dalla
dose, sembrano ritardati nel tempo. Per intenderci, l’insulina agisce entro 10 minuti dal rag-
giungimento della cellula, mentre gli MHCP impiegano 30-60 minuti, suggerendo un ritardo
dell’effetto a livello intracellulare.
La cannella viene spesso considerata come un composto antidiabetico, poiché riduce la velo-
cità con cui il glucosio entra nel corpo. Non solo aiuta i diabetici a evitare picchi di zucchero
nel sangue, ma migliora anche l’uso di glucosio nella cellula stessa. Infatti, nel tempo, la can-
nella può ridurre la glicemia a digiuno e potenzialmente anche i livelli di colesterolo.
Infatti, quando ingerita in studi sull’uomo, la cannella mostra molte promesse nel ridurre
i livelli di glucosio nel sangue e talvolta marcatori del metabolismo lipidico (LDL-C, trigliceridi,
colesterolo totale). Esistono anche studi di intervento che documentano una migliore sensi-
bilità all’insulina con estratto di cannella.
Stando ai numeri menzionati precedentemente, un essere umano da 100 kg può ingerire cir-
ca 50 g di cannella di Ceylon e raggiungere il TDI di 0,1mg / kg per la cumarina nel peggiore
dei casi. Poiché la dose efficace per ottenere effetti antidiabetici è di 1-6 g/die di cannella non
c’è alcun problema di tossicità utilizzando la giusta forma (cannella di Ceylon).
10.9. Vitamina D
Il corpo produce vitamina D dal colesterolo, a condizione che vi sia una quantità adeguata
di luce UV dall’esposizione al sole e in determinate zone geografiche e periodi dell’anno. La
maggior parte delle persone non è carente di vitamina D, ma non ha nemmeno un livello
ottimale di vitamina D.
A causa dei numerosi benefici per la salute della vitamina D, l’integrazione è incoraggiata se
non sono presenti livelli ottimali nel corpo. Le persone carenti di vitamina D possono anche
sperimentare un aumento dei livelli di testosterone dopo l’integrazione, segno che la vitami-
na D abbia un ruolo anche nella regolazione degli ormoni sessuali.
Si tenga conto che questo è il range di dose efficace più basso. Invece, dosi più elevate, basa-
te sul peso corporeo, sono comprese tra 20 e 80 UI / kg al giorno. Nel caso dei grandi obesi
la Società Italiana di Endocrinologia documenta che potrebbero essere necessari 6000-10000
UI/ giorno per risolvere la carenza.
Cromo No
Omega 3 No
Curcumina No
Cannella Sì
Normopeso 18,5-24,9
bmi
0 10 20 30 40 50
Sottopeso nomapeso Sovrappeso Obeso eccessivamente obeso
<18 18,5 - 24,9 25 - 29,9 30 - 39,9 40>
Figura 14
Dunque, è importante quanto meno classificare gli individui in funzione della massa gras-
sa. Un individuo con una massa grassa superiore al 14-15% (per gli uomini) o > 18-20% (per
le donne) è un individuo che presenta una quantità di grasso accettabile dal punto di vista
clinico, ma che suggerisce una certa direzione d’intervento: non è consigliabile iniziare una
“fase di massa” in queste condizioni (soprattutto se l’accumulo di grasso è per lo più a livello
addominale).
Le donne hanno, in genere, una maggiore quantità di grasso corporeo perché questo si loca-
lizza di preferenza a livello del seno e dei fianchi. Si tratta di caratteri sessuali secondari che
hanno una valenza nell’attrazione del maschio e nella riproduzione e per questo il grasso che
li compone viene comunque considerato essenziale.
In genere si tende a utilizzare l’espressione “ginoide” (o “a pera”) per una distribuzione del
grasso tipicamente femminile, caratterizzata da accumulo di grasso a livello dei glutei e delle
cosce, e “androide” (o “a mela”) per una distribuzione del grasso tipicamente maschile, ca-
ratterizzata da distribuzione addominale del grasso, ma possiamo trovare donne con distri-
buzione di grasso androide e uomini ginoidi.
0,79-0,84 intermedia
0,95-0,99 Intermedio
Se un soggetto presenta tali valori, abbinati a un profilo lipidico alterato, con altri segni e fat-
tori di rischio per la sindrome metabolica/diabete, come l’obesità (soprattutto addominale)
e la familiarità per il diabete, allora potrebbe essere il caso di richiedere un test di tolleranza
al glucosio, che è utile per valutare la risposta all’innalzamento del glucosio (si misura la gli-
cemia ad intervalli di tempo prestabiliti dopo un’importante somministrazione di glucosio in
forma liquida).
405
22.5
Quindi, preso un uomo di 1,80 m, questo assumerà: 1,8 × 1,8 × 700 - 750 = 2268 - 2430 Kcal. A
questa valutazione, molto probabilmente errata (sopravvalutata), segue una “dieta di prova”
che apporti le kcal (seguendo l’estremo basso del range valutato, quindi 2268 kcal). Dopo 14
giorni misuriamo peso e circonferenza vita (e se possibile facciamo anche un paragone tra le
foto di inizio e quelle post dieta di prova) e giungiamo alla conclusione:
Ottenuta la stima dell’apporto calorico ottimale, diciamo 2200 kcal, proseguiamo ripartendo
i macronutrienti in maniera ottimale. La dieta normo-glucidica e normo-calorica prevede un
apporto di circa il 50% dei carboidrati, un apporto proteico intorno a 1,4 - 1,6 g per kg di peso,
e la restante parte ottenuta da grassi, principalmente insaturi. Quindi, nel nostro caso-esem-
pio di un soggetto di 2200 kcal, di 80 kg, che si allenerà per circa 60 minuti 4 volte a settimana,
procederemo in questo modo:
Nel pasto post-work, quindi, da consumare preferibilmente entro le prime 2 ore dopo l’al-
lenamento, è preferibile consumare una quota glucidica importante, in genere almeno 1/3
dell’apporto glucidico totale. Nel nostro caso, quindi, circa 90-100 grammi, ma possiamo
spingerci anche oltre.
Il pasto sarà quindi iperglucidico e povero di grassi. La fonte proteica è a scelta, a patto che
non sia grassa e che non sovraccarichi troppo il sistema digerente (un pasto troppo grande
diventa più difficile da digerire in maniera ottimale). Chiaramente, queste sono valutazioni
anche di tipo soggettivo da fare sulla base della preferenza e della tolleranza ai vari tipi di cibi
e cotture.
Gli obiettivi secondari sono focalizzati sul miglioramento della sensibilità all’insulina e della
composizione corporea. Il miglior ripartizionamento dei nutrienti, attraverso la strategia del
pasto post-work dopo allenamenti depletivi di glicogeno, aiuta a migliorare la capacità di ge-
stione di maggiori quantità di nutrienti e carboidrati. L’apporto proteico adeguato, una dieta
normocalorica o solo leggermente ipocalorica (taglio di circa 300 kcal / die), abbinata all’atti-
vità fisica contro resistenze (con i pesi), aiuta a mantenere o aumentare la massa muscolare
e al processo di ricomposizione corporea.
La ciclizzazione delle calorie e dei carboidrati aiuta a mantenere elevata la sensibilità insulini-
ca e a sfruttarla nel momento di “refeed” direzionando i nutrienti lontano dal tessuto adipo-
so. Chiaramente dopo ogni settimana si ricomincia da capo con la strategia. La durata totale
del programma dipende dall’obiettivo: si considera un deficit totale di circa 9000 - 10000 kcal
per la perdita effettiva di 1 kg puro di grasso, quindi in base all’obiettivo realistico la strategia
può durare generalmente dalle 8 alle 30 settimane.
Settimana divisa in 6 giorni in cui si effettua un taglio calorico di 500 kcal e 1 giorno di rialzo
calorico (normocalorica). Risulterà un deficit di 3000 kcal settimanali.
Settimana divisa in 5 giorni di taglio calorico di 600 kcal e 2 giorni di rialzo calorico (normoca-
lorica). Risulterà un deficit di 3000 kcal settimanali.
Settimana divisa in 4 giorni di taglio calorico di 700 kcal e 3 giorni di rialzo calorico (normoca-
lorica). Risulterà un deficit di 2800 kcal.
• Un giorno di taglio calorico del 50% del TDEE o di 1200 kcal (mai scendere sotto le
1000 kcal).
• Aumento calorico di 200 kcal ogni giorno fino a raggiungere la normocalorica.
WEEK 1-3 6 giorni di ipocalorica a 500 kcal e 1 giorno di rialzo in normocalorica (3000 kcal di deficit
settimanale per un totale di 9000 kcal di deficit)
WEEK 4 5 giorni di ipocalorica a 600 kcal e 2 giorni di rialzo in normocalorica (3000 kcal di deficit)
WEEK 5 4 giorni di ipocalorica a 700 kcal e 3 giorni di normocalorica (2800 kcal di deficit)
WEEK 6 4 giorni di ipocalorica a 500 kcal e 3 giorni di normocalorica (2000 kcal di deficit)
WEEK 7-8 Full diet break (normocalorica)
WEEK 9-10 Taglio calorico drastico di 1200 kcal nel primo giorno e rialzo calorico di 200 kcal per ogni giorno
(4200 kcal di deficit per un totale di 8400 kcal di deficit nelle 2 settimane)
WEEK 11-13 5 giorni di ipocalorica a 500 kcal e 2 giorni di normocalorica (2500 kcal di deficit settimanale)
WEEK 14 5 giorni di ipocalorica a 500 kcal e 2 giorni di normocalorica (2500 kcal di deficit settimanale)
WEEK 15 4 giorni di ipocalorica a 500 kcal e 3 giorni di rialzo calorico in normocalorica (deficit di 2000 kcal)
WEEK 16 Normocalorica
Non dobbiamo fare altro che dividere la settimana in 3 giorni di differente apporto calorico
e glucidico: una giornata di normocalorica, una giornata di estremo cut calorico, riducendo
l’assunzione di carboidrati ai minimi termini, e una giornata di refeed glucidico e calorico,
alzando i carboidrati.
La giornata di cut calorico e glucidico, insieme all’allenamento di tipo glicolitico, aiuterà a ri-
durre adeguatamente le scorte di glicogeno e questo permetterà una migliore compartimen-
talizzazione dei carboidrati assunti successivamente (con il giorno di refeed glucidico) nel
tessuto muscolare, grazie all’avidità delle fibre muscolari per il glucosio, dovuta alla riduzione
dei livelli di glicogeno, e all’aumentata sensibilità all’insulina in seguito a esercizio fisico.
La strategia dietetica più efficace per migliorare la sensibilità all’insulina è anche quella più
banale: la restrizione energetica, che sia continua o intermittente non fa molta importanza. I
meccanismi alla base degli effetti insulino-sensibilizzanti della restrizione calorica sono simili
a quelli sottostanti i benefici dell’attività fisica: la biosintesi di nuovi mitocondri, il migliora-
mento della flessibilità metabolica e l’aumento della capacità delle cellule di captare e utiliz-
zare il glucosio grazie all’aumento dell’AMPK e all’induzione di proteine denominate sirtuine.
Inoltre, la restrizione calorica è fondamentale per indurre una perdita di peso (e grasso)
corporeo, e la riduzione della quantità di massa grassa, soprattutto del grasso addominale,
causa miglioramenti metabolici di tutto rispetto, anche e soprattutto grazie a una riduzione
dell’infiammazione e della resistenza dei tessuti all’ormone insulina. La restrizione energeti-
ca può essere lineare, continua, intermittente, giornaliera o settimanale.
• Miglior controllo (soprattutto a breve termine) della glicemia con una dieta che apporta
pochi carboidrati.
• Perdita di grasso corporeo creando il deficit calorico attraverso la riduzione del conte-
nuto di carboidrati nella dieta (non è l’unica strada, ma è UNA strada).
Soggetto con TDEE a 2000 kcal Dieta ipocalorica di 1500 kcal con circa 120 g / die di carboidrati,
di 70 kg circa 110 g di proteine e circa 65 g di grassi (quantità utile per
raggiungere l’obiettivo calorico)
Alimenti da ridurre
È necessario eliminare o ridurre la quantità degli alimenti energetici ricchi di carboidrati,
ad esempio:
In virtù del fatto che è necessario apportare una quantità glucidica ridotta, le proteine saran-
no ottenute da alimenti principalmente di origine animale, che contengono proteine di alta
qualità in gran quantità, e non contengono quantità di carboidrati rilevanti, ad esempio:
Per quanto riguarda l’apporto in lipidi, la maggioranza dei grassi dovrà provenire da olio
extravergine di oliva, avocado e frutta secca. L’olio di cocco anche può essere consumato.
In generale è comunque preferibile il consumo di alimenti che contengano per lo più grassi
insaturi (mono- e polinsaturi), quindi:
• pesce grasso.
• frutta secca.
• olio extravergine di oliva / altri oli vegetali.
Gruppo 1 Cereali e tuberi (pane, pasta, riso, fatto, avena, orzo, segale,
patate)
Figura 15 Principali
gruppi alimentari e alimenti preferibilmente da evitare (in grassetto)
e alimenti da poter consumare.
Frutta Verdura
Figura 16 Piramide alimentare chetogenica. Preferire gli alimenti alla base della piramide
ed evitare/ridurre il consumo degli alimenti in cima alla piramide.
Si noti che l’utilizzazione delle VLCD dovrebbe essere sotto stretto controllo da parte di un
professionista, per un periodo che va dalle 4 alle 12 settimane, e la sua applicazione è ge-
neralmente limitata a soggetti fortemente obesi che necessitano di un rapido/urgente calo
ponderale (ad esempio soggetti con scompenso cardiaco o respiratorio, o soggetti che si
preparano a sottoporsi a interventi di chirurgia bariatrica). Dunque, si eviti assolutamente il
fai da te, soprattutto in questi casi.
• Aggiungere una porzione di verdura (circa 200 g) al pasto, qualunque esso sia.
Intervento numero 2
• Preferire i legumi, i cereali integrali e gli alimenti glucidici maggiormente ricchi di fi-
bre e abbinare loro un’eventuale ulteriore fonte di proteine (che aiutano a regolare la
glicemia).
• I legumi possono rappresentare sia la fonte glucidica sia la fonte proteica e quindi esse-
re abbinati anche tra loro o con altri alimenti glucidici, come i cereali o le patate.
• Consumare la frutta con la buccia, quando possibile. Masticare bene e mangiare piano.
Intervento numero 4
Intervento numero 5
• Partizionare la maggior parte dei carboidrati della dieta nei pasti post-work nel caso di
soggetti che si allenano.
• Preferire sedute di allenamento a media-alta intensità o particolarmente dispendiose
dal punto di vista glicolitico.
Tabella 11 Caratteristiche
in termini di sensibilità all’insulina dei vari depositi adiposi
e correlazione con la maggiore o minore difficoltà di dimagrimento.
Come possiamo notare, le caratteristiche, anche dal punto di vista delle modificazioni della
composizione corporea, si possono sintetizzare andando ad analizzare la sensibilità di questi
tessuti alle catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e all’insulina. Il deposito viscerale ha in
genere una sensibilità all’insulina molto bassa e alle catecolamine molto alta, inoltre è il tes-
suto più innervato e irrorato, essendo ovviamente quello più profondo all’interno del corpo.
Per un tessuto adiposo, che noi sappiamo essere un tessuto “insulino-dipendente”, es-
sere poco sensibile all’insulina, cioè insulino-resistente, fisiologicamente parlando in-
tendo, che cosa significa? Che azione ha l’insulina? Qual è la sua azione più importante
e precoce?
Per quanto riguarda i depositi sottocutanei, questi li possiamo differenziare sulla base della
loro distribuzione, in quanto è stato visto che differiscono tra loro appunto per le caratteristi-
che che abbiamo preso in esame, e cioè: sensibilità all’insulina, alla lipolisi, flusso sanguigno
e di conseguenza perdita di grasso.
Come possiamo notare, il grasso sottocutaneo che in genere si deposita a livello addominale
ha una sensibilità all’insulina più alta dei depositi viscerali, ma più bassa dei depositi accumu-
lati a livello delle cosce e dei glutei, e questo significa che è più facile perdere del grasso in
queste zone piuttosto che a livello delle cosce e dei glutei. Attenzione che ciò vale, IN GENE-
RE, sia per maschi che per femmine, non a caso anche i body builder professionisti utilizzano
“le righe sui glutei” come parametro di un certo tipo di tiraggio e una percentuale di grasso
corporeo bassa.
Da notare che la sensibilità alla lipolisi è inversamente proporzionale alla sensibilità all’insu-
lina, e ciò è ovvio se consideriamo gli effetti dell’insulina sull’adipocita. In più i depositi più
resistenti all’insulina sono anche quelli solitamente più sensibili alle catecolamine e con un
flusso sanguigno a livello del tessuto adiposo molto elevato, cioè, sono molto irrorati.
Ora, l’importanza di un’importante irrorazione sanguigna a livello dei depositi adiposi, in rife-
rimento alla loro capacità di accumulare e perdere grasso, è vitale, ed è spiegata guardando
al processo di mobilizzazione degli acidi grassi. Abbiamo visto prima che la lipolisi a livello
del tessuto adiposo è quel processo che porta alla scissione dei trigliceridi in acidi grassi
e glicerolo.
Parte del glicerolo andrà al fegato, MA questi acidi grassi, che fine fanno? Dove vanno?
Ma soprattutto COME fanno a raggiungere altri eventuali tessuti e a essere utilizzati
a scopo energetico?
Gli acidi grassi sono sostanze lipofile, cioè idrofobiche, in pratica non possono attraversare il
sangue in maniera così facile e diretta. Ecco perché quando sono rilasciati dal tessuto adipo-
so, si legano a specifiche proteine plasmatiche presenti nel sangue, in particolare parliamo
dell’albumina. Ora, la quantità di FFA nel sangue è dipendente dal loro legame con l’albumi-
na e si stima che il limite massimo sia di 40 mg ogni 100 millilitri di sangue.
Questo è uno dei motivi per cui maggior lipolisi NON significa per forza proporzionalmente
maggior beta-ossidazione e, soprattutto, se vogliamo dimagrire, e dimagrire in salute, non
dobbiamo puntare ad un’eccessiva lipolisi ma anche e soprattutto ad una lipolisi equilibrata
con la capacità di ossidare questi grassi a livello mitocondriale e quindi utilizzarli a scopo
energetico.
Chiariamo che, in genere, in condizioni fisiologiche, tutto ciò è assolutamente già coordi-
nato dai vari meccanismi metabolici del nostro organismo, per cui non avremo sempre un
eccesso di FFA nel sangue; questa condizione si verifica, ad esempio, nell’insulino-resistenza
patologica che, guarda caso, poi porta a diversi disturbi endocrini e metabolici. È il concetto
di lipotossicità.
Tornando a noi, è importante che i depositi adiposi siano ben irrorati perché è così che si
diventa più sensibili alle catecolamine e all’effetto degli ormoni lipolitici, ed è così che è pos-
sibile avere una maggior capacità di trasporto degli acidi grassi dagli adipociti ad altri tessuti,
attraverso il sangue. I tessuti adiposi più difficili da ridurre con la dieta e/o l’esercizio fisico
sono, appunto, quei depositi poco irrorati e poco sensibili alle catecolamine.
Ovviamente questo non vale solo in un contesto di perdita di grasso, ma anche quando vi
sono le condizioni di accumulare e quindi stoccare gli acidi grassi negli adipociti.. cioè, i de-
positi più riccamente irrorati sono anche quelli che, almeno acutamente, sono disponibili per
accumulare un maggior contenuto di grassi dietetici nel periodo post-prandiale.
Da notare che ci sono diverse condizioni, o se vogliamo stimoli, che portano a regolare il
flusso sanguigno a livello del tessuto adiposo. Vediamoli uno per uno, perché magari qual-
Differenza di genere
Allora, innanzitutto il flusso sanguigno è ovviamente regolato, anche attraverso l’azione di al-
cuni ormoni, come l’insulina, nello stato post-prandiale. In contesti di iper-alimentazione au-
menta il flusso sanguigno nei tessuti che possono e devono accogliere i nutrienti in eccesso,
in particolare gli acidi grassi, per cui il flusso sanguigno a livello del tessuto adiposo aumenta.
È stato osservato – soprattutto nelle donne – che nel periodo post-prandiale, vi è un aumento
particolare del flusso sanguigno adiposo a livello del lower body, cioè delle cosce e dei glutei.
Questo significa che è molto più facile, per questi soggetti ( donne), accumulare grasso in
questi distretti. La cosa paradossale è che, come abbiamo visto nella Tabella precedente, in
condizioni normali (e a digiuno), il lower body rappresenta il sito in cui il grasso distribuito
presenta un MINOR afflusso di sangue, per cui è anche il più difficile da ridurre durante il
dimagrimento con una dieta ipocalorica.
Temperatura
Abbiamo anche la temperatura come parametro fondamentale che regola il flusso sanguigno
a livello del tessuto adiposo. In realtà la regolazione del flusso sanguigno è totale e generale,
non solo a livello del tessuto adiposo. Quando fa freddo abbiamo la necessità di riscaldarci
e in particolare di proteggere gli organi interni, per cui uno dei meccanismi, oltre quello di
aumentata termogenesi con l’attivazione degli adipociti bruni, è anche quella di riversare
maggiormente il sangue a livello di questi tessuti e “verso l’interno”.
Non a caso, quando fa freddo, vedete che i muscoli distali, le estremità, ad esempio le orec-
chie
i padiglioni auricolari, le mani, le dita, il naso, i piedi, sono quelli più freddi, perché c’è
minor flusso di sangue. Quando fa caldo abbiamo il problema opposto: dobbiamo disperde-
re calore e il sangue si riversa maggiormente in superficie, per cui abbiamo una situazione in
cui in condizioni di alta temperatura c’è un maggior afflusso di sangue a livello dei depositi
sottocutanei, e quando fa freddo un minor flusso sanguigno.
Stato nutrizionale
Nello stato postprandiale (dopo mangiato) c’è un aumento del flusso sanguigno perché c’è
necessità di direzionare l’eccesso di nutrienti, in condizioni di ipercalorica in particolare pro-
lungata, negli adipociti, che sono deputati allo stoccaggio dell’energia sotto-forma di trigli-
ceridi. In condizioni di digiuno, soprattutto digiuno prolungato, anche c’è un aumento del
flusso sanguigno a livello del tessuto adiposo.
Perché siamo in condizioni di maggior necessità di energia. C’è necessità di utilizzare anche
le riserve adipose a scopo energetico e, come abbiamo detto prima, per far sì che aumenti la
lipolisi e poi l’ossidazione dei grassi nei tessuti che necessitano di energia, c’è bisogno che ci
sia un buon afflusso di sangue per trasportare questi acidi grassi.
Se io fossi molto superficiale, partendo dal presupposto che maggior flusso sanguigno signi-
fica potenzialmente maggior intaccamento dei depositi adiposi, e che questo di conseguenza
significa maggior o miglior dimagrimento, e considerando che l’insulina aumenta il flusso
sanguigno a livello dei depositi adiposi, potrei affermare che stimolare l’insulina aumente-
rebbe l’utilizzo dei grassi a scopo energetico. Ovviamente non è così, perché?
Esatto, perché sappiamo che l’insulina inibisce la lipolisi. Infatti, certo che nello stato
post-prandiale c’è aumento del flusso sanguigno (grazie anche all’aumento dell’insulina),
ma la lipolisi e la beta-ossidazione sono inibite, mentre c’è invece una stimolazione dell’accu-
mulo di nutrienti e di trigliceridi, quanto meno a livello adiposo. Ecco che l’aumento del flusso
sanguigno, in questi casi, non significa miglior capacità di mobilizzare i grassi dal tessuto
adiposo e utilizzarli a scopo energetico ma, al contrario, semplicemente miglior capacità di
accumulare i nutrienti in eccesso proprio nel tessuto adiposo.
Allo stesso modo, state attenti ai vari integratori venduti perché stimolerebbero l’ossido nitri-
co. Spesso, in questi prodotti, nelle informazioni in etichetta c’è scritto: aiutano il dimagrimen-
to. Chiaramente i venditori di integratori fanno leva sul meccanismo dell’aumento del flusso
sanguigno grazie all’ossido nitrico che abbiamo descritto proprio poco fa. In realtà, però,
questi integratori hanno quasi sempre poco a che fare, molto spesso possono essere anche
controproducenti, perché?
Perché l’aumento del flusso sanguigno è sì un parametro importante, ma non è l’unico fon-
damentale per ottenere l’intaccamento del grasso corporeo e ipoteticamente il dimagrimen-
to, in quanto c’è bisogno che ci siano altre condizioni:
• Deficit energetico.
Ciò non accade sempre. Addirittura molti integratori di questo genere hanno un effetto
sull’ossido nitrico proprio perché stimolano l’insulina. L’insulina è infatti un ottimo stimola-
tore dell’ossido nitrico. L’effetto di aumento del flusso sanguigno dell’ossido nitrico è anche
quell’effetto responsabile dell’aspetto “gonfio”, con le vene in vista, dei culturisti in seguito
a una pratica chiamata “ricarica di carboidrati”. Che cosa sta succedendo?
Innanzitutto questi soggetti hanno un’elevata massa muscolare e un’ottima sensibilità all’in-
sulina soprattutto a livello muscolare. Dunque, sfruttano questa caratteristica stimolando
l’insulina attraverso un pasto iperglucidico. L’insulina stimolerà proprio l’ossido nitrico e si
otterrà tale effetto estetico (in realtà ci sono anche altri motivi, e in realtà la “ricarica di car-
boidrati” prevede anche una certa manipolazione dei liquidi e del sale).
Per questo motivo, in sinergia con un percorso di allenamento con i pesi adeguato, che pre-
veda delle progressioni nell’aumento della forza e dell’intensità, oltre che del volume, di alle-
namento, dal punto di vista alimentare si può optare per un surplus calorico particolarmente
generoso, in genere tra 500 e 750 kcal, a carico principalmente di un aumento dei glucidi, una
volta determinato l’apporto proteico (1,6 – 2,2 g/kg di peso corporeo di proteine).
Apporto di proteine
Fabbisogni proteici generali
Il fabbisogno proteico per la popolazione generale è di 0,8-1g/kg di peso corporeo. Per “po-
polazione generale” intendiamo persone mediamente sedentarie, normopeso, che non han-
no alcuna condizioni o necessità particolare, non seguono alcun tipo di dieta particolare (una
semplice normocalorica) e non hanno obiettivi specifici per la composizione corporea.
Un altro caso in cui si consiglia un aumento del fabbisogno proteico rispetto alle RDA per
la popolazione generale è per i soggetti vegani, cioè che assumono solo proteine di origine
vegetale. Sappiamo bene che queste proteine pur riuscendo a soddisfare tranquillamente
i fabbisogni di tutti gli EAA, sono comunque proteine di più bassa qualità ma soprattutto una
più bassa efficienza digestiva, motivo per cui è necessario aumentare l’apporto proteico di
circa il 20% per poter compensare queste caratteristiche deficitarie.
Nel caso degli sportivi, in generale, senza entrare nel merito dello sport, del tipo di attività
fisica e degli obiettivi specifici, il fabbisogno proteico in genere raddoppia e si parla di un ran-
ge che va da 1,4 g/kg a 2g/kg di peso corporeo. Nel caso, nello specifico questa volta, di sog-
getti che si allenano con i pesi e che sono interessati per lo più alla composizione corporea,
e che seguono una dieta normo- o ipercalorica, il fabbisogno sembrerebbe aggirarsi intorno
a 1,6g/kg di peso corporeo.
Parliamo di un apporto molto elevato (2,3 - 3,1 g/kg di massa magra al giorno) nel caso di
soggetti che vogliono massimizzare il mantenimento della massa magra e che si allenano
contro resistenze (con i pesi, ad esempio) durante periodi di dimagrimento (diete ipocalori-
che). Come potete notare il range è molto ampio e questo significa 2 cose:
• C’è una nota elevata variabilità per cui mai ragionare per assoluti ma appunto solo per
concetti e per range indicativi, da personalizzare successivamente.
• Il fabbisogno proteico può variare, anche molto, in base allo stato di composizione cor-
Proteine e dimagrimento
In ambito clinico, nei soggetti obesi o obesi gravi si utilizzano diete a bassissimo apporto ca-
lorico (600-800 kcal/die) ma iperproteiche. Il motivo è molto semplice: se noi instauriamo un
deficit energetico così forte e tassante sull’organismo è importante preservare il più possibile
la massa muscolare. Inoltre, ricordiamo che:
Il punto è che le proteine non fanno dimagrire per motivi particolari e assolutamente non
fanno dimagrire se non si segue una dieta ipocalorica. Il vantaggio delle proteine, sempli-
cemente, è che aiutano appunto a creare il deficit energetico, perché sopprimono la fame
e quindi aumentano la compliance alla dieta e aiutano il soggetto a mangiare meno e perché,
ma questa è probabilmente una speculazione che nel mondo reale è trascurabile, hanno un
effetto termogenico maggiore.
Che le proteine, in eccesso, possono far ingrassare. Ma non perché le stesse proteine si tra-
sformano in grasso, ma perché, semplicemente, potendo essere utilizzate a scopo energetico
(portando alla produzione di glucosio a partire da alcuni AA), possono inibire la lipolisi (mo-
bilizzazione dei grassi) e l’ossidazione degli acidi grassi (quindi l’utilizzo dei grassi a scopo
energetico).
Apporto di carboidrati
In genere, i glucidi alimentari sono inseriti al secondo posto nelle priorità, dopo le proteine,
per quanto riguarda la distribuzione dei macronutrienti. I principali risultati da aspettarsi se
si assumono troppo pochi carboidrati sono i seguenti:
• Peso corporeo e percentuale di grasso corporeo. In genere soggetti con bassa quantità
di grasso corporeo necessitano di quantità maggiori di carboidrati, anche e soprattutto
per un miglior effetto di ritenzione della massa muscolare. Inoltre soggetti con alto
grasso corporeo sono probabilmente in parte insulino-resistenti e poco flessibili meta-
bolicamente, per cui molto probabilmente beneficeranno di un ridotto apporto glucidi-
co a favore di un apporto maggiore di grassi alimentari.
• Volume di allenamento, perché come sappiamo alti livelli di attività fisica non sono facil-
mente permessi da una dieta a troppo basso apporto glucidico.
• Periodo di dimagrimento o di guadagno di massa muscolare.
• Rapporto con gli altri macronutrienti. In genere, in restrizione energetica si definisce
l’apporto proteico, poi si valuta l’importanza dell’assunzione di grassi, se questi riesco-
no a essere assunti in maniera ottimale senza ridurre sotto una certa soglia i glucidi,
bene, altrimenti si sacrificano in genere i grassi per mantenere ottimale l’apporto di
glucidi. In ipercalorica, per l’aumento di massa muscolare, è facile tenere ai livelli otti-
mali tutti e 3 i macronutrienti.
La tabella contiene dei valori solo indicativi, da non prendere alla lettera. Non tiene conto
No workout 1,5-2g/die
Apporto di grassi
In nutrizione sportiva i grassi sono spesso un po’ bistrattati perché, oggettivamente, sono
i macronutrienti relativamente meno importanti per il mantenimento o per l’aumento delle
performance, se paragonati a carboidrati e proteine. Ad oggi si discute ancora di un loro
ruolo sulla prevenzione o sul recupero dagli infortuni muscolari, articolari e/o traumatici, ma
l’evidenza si osserva principalmente per l’adeguato apporto energetico e, in alcuni casi, da
studi meccanicistici sull’integrazione con omega-3.
Nel culturismo o, più in generale, nei casi in cui l’obiettivo è la costruzione di massa muscola-
re, i grassi hanno invece un ruolo sostanziale, che è dovuto a due aspetti principali:
• Il loro alto potenziale calorico – utile nei casi in cui è necessario raggiungere apporti
calorici elevati che siano adeguati per sostenere un dispendio energetico elevato e la
costruzione di nuova massa.
• Il loro ruolo di precursori e stimolatori di ormoni che sono legati ai processi anabolici, in
particolare ci riferiamo al testosterone.
Effettivamente tra i 3 macronutrienti i grassi sono quelli che rispetto agli altri hanno sicura-
mente dimostrato di influire maggiormente sulle concentrazioni di testosterone. In pratica,
assumere quantità adeguate di grassi aiuta a tenere concentrazioni di testosterone più alte
mentre diete troppo basse in grassi riducono la risposta del testosterone, riducendo, even-
tualmente, l’ambiente anabolico.
Ci sono stati diversi gruppi di ricerca che hanno documentato, infatti, che il consumo di una
dieta a basso contenuto di grassi e inoltre la sostituzione dei grassi saturi con grassi polinsa-
turi diminuisce i livelli basali di testosterone. Il testosterone è regolato da molteplici fattori
interni ed esterni. Principalmente:
• I livelli di testosterone, e in generale gli ormoni sessuali, dipendono dal livello energe-
tico cellulare.
• I livelli di testosterone dipendono dalla propria composizione corporea.
• I livelli di testosterone dipendono dalla composizione della dieta.
L’Asse ipotalamo – ipofisi – gonadi è quell’asse endocrino che regola, tra le altre cose, la pro-
duzione e la secrezione di testosterone. Bene, qualunque cosa possa agire su questo asse,
e possa perturbarlo, può quindi agire sui livelli di testosterone. Fisiologicamente, la leptina
stimola la secrezione di ormoni gonadotropinici agendo centralmente sull’ipotalamo per re-
golare l’ormone rilasciante la gonadotropina.
Nei pazienti obesi, che presentano resistenza centrale alla leptina, vi è quindi un malfunzio-
namento della leptina sull’ipotalamo – che è anche uno dei motivi per cui l’eccesso di leptina
che troviamo negli obesi non stimola la sazietà – e quindi c’è un’alterazione dell’asse HPG
che porta a ridotta secrezione di testosterone.
Non solo, se abbiamo un eccesso di grasso corporeo abbiamo una sintesi evidentemente
minore di testosterone, ma esiste un altro meccanismo principe che spiega la relazione tra
obesità, riduzione del testosterone e infertilità / perdita di virilità, che è il meccanismo dell’a-
romatasi. L’aromatasi è un enzima che converte l’ormone prevalentemente maschile (testo-
sterone) in ormone femminile (estradiolo).
L’aromatasi si trova principalmente nel tessuto adiposo – in particolar modo nei depositi
adiposi a livello addominale. Un eccesso di adipe a livello addominale nell’uomo, è associato
spesso ad una maggiore concentrazione di aromatasi, con conseguente aumento della con-
versione del testosterone in estradiolo.
Detto ciò, esistono studi controllati, quindi maggiormente affidabili nei risultati, che
indagano sulla relazione tra consumo di grassi nella dieta e livelli di testosterone?
In effetti ce ne sono, non tantissimi ma abbastanza per giungere a delle conclusioni. Nello
specifico: in letteratura scientifica diete con 20% di grassi hanno ridotto di più il testosterone
rispetto a diete con 40% di grassi, ma anche nell’ultimo caso il testosterone era sotto ai livelli
basali di riferimento
Se necessario, è possibile anche prevedere l’assunzione di pasti liquidi, o per migliorare il ti-
ming post-allenamento oppure anche per rendere più facile il raggiungimento dell’obiettivo
calorico. I pasti liquidi, infatti, sono meno sazianti e quindi sono più facili da consumare in
eccesso; inoltre, rappresentano un carico minore per il tratto gastrointestinale, che può esser
messo a dura prova in un periodo di bulk.