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Se è vero che, come ci dice il filosofo austriaco Karl Popper, “dovremmo rivendicare, nel nome
della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti.”, allora si dovrebbe affermare che
sconfiggere un male con il suo stesso strumento sia pure corretto. Questo, tuttavia, equivale a porsi
sullo stesso piano di colui che lo compie, diventando in prima persona colpevoli, nonché, di
conseguenza, perseguibili dal prossimo. Si genera così inevitabilmente una serie infinita di misfatti
e soprusi. Pertanto la tolleranza è indiscutibilmente da difendere come valore fondante della nostra
società.
Il problema della tolleranza è storicamente legato a quello della politica religiosa ed è dibattuto in
età moderna, dagli Essais (1580) di Montaigne al Trattato sulla Tolleranza (1763) di Voltaire.
“Tollerare” significa ammettere che nella comunità civile esistano forme di culto, fedi e
interpretazione dei dogmi differenti da quelle approvate dallo stato ufficialmente. La sostanza del
problema sta nel distinguere se ciò sia utile o nocivo per la società; se sia compatibile o meno con lo
spirito autentico della religione cristiana; se sia infine razionalmente accettabile, condannabile o
consigliabile. Nonostante sporadici accenni nel pensiero antico, paleocristiano e medievale, la
questione della tolleranza non acquista una vera dignità teorica, politica e pubblicistica prima del
sedicesimo secolo, in cui si sovrappongono Riforma, Controriforma, costituzione degli stati assoluti
e lotte per il predominio europeo. È infatti fondamentale avere consapevolezza del periodo storico
in cui vivono filosofi quali Hobbes, Spinoza, Locke e Rousseau per comprendere il loro approccio
al problema. La definitiva frantumazione di ciò che rimaneva dell’universalismo medievale, dovuta
alla nascita di chiese diverse da quella cattolica e al tracollo del tentativo asburgico di fare
dell’Impero la forza egemone in Europa, fa tramontare la tendenza all’omogeneità ideologica
dell’età di mezzo. L’Umanesimo, culminante nella figura di Erasmo, critica i modelli imposti dalla
cultura ecclesiastica e afferma che, al di là dell’esteriorità delle forme di culto, la sola vera religione
è quella che aspiri a imitare Cristo nell’animo e nei rapporti col prossimo. Nel frattempo, la stessa
cultura umanistico-rinascimentale scopre, con Machiavelli, il significato ideologico-politico della
religione come forma di controllo e asservimento delle masse allo stati. Dal Principe al De Cive di
Hobbes una cospicua parte della teoria e prassi politica accoglie questa immagine strumentale della
religione. In questo contesto, il problema della tolleranza diviene centrale, in particolare in Francia
e in Inghilterra, in cui il radicalizzarsi del conflitto tra le confessioni e lo stato investirà la sessa
riflessione sul senso, i limiti e le prerogative dell’autorità pubblica.
Nella Francia del XVII secolo, l’affermarsi del razionalismo, del pensiero critico e della mentalità
scientifica dà importanti sviluppo alle idee di tolleranza e libertà di coscienza. Molto più che
soluzioni transitorie del sovrano per garantire la sicurezza dello stato, esse appaiono fondamenti
inderogabili della prosperità sociale e uniche garanzie della piena e libera espansione dello stato
stesso.
Pierre Boyle rappresenta la mentalità scientifica e cartesiana applicata all’analisi della cultura e
della storia, e, conseguentemente, l’esigenza di vagliare criticamente qualunque tradizione.
Considerando il suo aspetto di convenienza civile, politica ed economica, la tolleranza diviene
ragionevole scelta di progresso da parte dello stato. È vano pensare che i vincoli religiosi
consentano un più facile controllo delle coscienze e dell’ordine pubblico. La storia delle comunità
dominate dall’autoritarismo religioso è egualmente violenta e sanguinosa. Solo l’esame storico-
critico del fatto religioso può discernervi ciò che è razionale e accettabile dalle molte confusioni e
arbitrarietà interpolatevi dall’ignoranza umana. La coscienza morale deve farsi giudice della
religione, con metodo severo e confronto continuo con gli altri uomini. Libertà di coscienza e
tolleranza sono dunque anche necessità intrinseche della stessa moralità della persona. In generale
la verità presentata mediante fede di sottrae a ogni dimostrazione razionale. E’ quindi impossibile
giungere alla verità oggettiva in materia religiosa.
Come ci mostra nel suo Trattato teologico-politico il filosofo olandese Spinoza, in un libero stato è
lecito a ciascuno pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa, e ogni alienazione radicale dei diritti –
come per esempio quella teorizzata da Hobbes- è nociva e fonte di pericolo per lo Stati.
Sarebbe assurdo, d’altro canto, limitare la libertà di coscienza professione e ricerca: tanto più che
infiniti vizi, quali l’invidia e l’avarizia, vengono tollerati perché e le leggi non possono impedirli.
Come è certo che da tali vizi vengono molti mali per lo stato, ma li si tollera, così in ogni materia si
dovrà concedere quella libertà di espressione e giudizio, che favorisce il progresso delle scienze,
delle arti, e quindi la prosperità sociale.
La tolleranza è il più efficace e produttivo strumento per garantire la crescita della società, mentre
l’intolleranza è il segno dell’utilizzazione della fede come strumento di governo e sottomissione dei
popoli. Intolleranza e tirannia si accoppiano, e accanto all’intolleranza di trovano sempre anche la
mancanza di ragionevolezza dell’idolatria, l’ignoranza in cui i despoti tengono pervicacemente le
masse, la discordia che, come ci dice Voltaire, “è il peggior male del genere umano”, a cui solo la
tolleranza può porre rimedio.
Spinoza pone solo due limiti alla libertà: il primo riguarda la limitazione del diritto di agire contro
lo Stato, e di pervertire sediziosamente le leggi con l’inganno e seminando odio; il secondo consiste
nel divieto di professare teoria che dissolvano il patto sociale. A questo proposito Spinoza sostiene
che tali sentimenti nascono dall’odio, dall’ignoranza e dalla superstizione, e che solo la chiara
razionalità del pubblico esame può dissiparli: quindi limitare la libertà d’opinione e ricerca significa
distruggere e non favorire la conservazione dello Stato.
In Inghilterra, la questione risentì della contraddizione tra le spinte verso l’assolutismo e le esigenze
di autonomia e libertà di coscienza delle confessioni riformate.
Nel 1689 viene pubblicata la Lettera sulla tolleranza di John Locke. Limita il potere civile in
materia religiosa, ritenendo che valga solo laddove le credenze e i culti comportino un possibile
danno per lo stato. Diversamente dall’agire politico e sociale, che ha rilievo pubblico, la sfera
interiore della coscienza è insindacabile affare privato: il culto rientra nella giurisdizione della sola
coscienza, che è politicamente indifferente; la religione non riguarda il magistrato, chiamato a
essere esclusivamente arbitro tra uomo e uomo.
Inoltre, Cristo ha chiesto l’esercizio della ragione e la disponibilità alla carità e alla comune ricerca,
senza fondare egli stesso una dogmatica astrusa e autoritaria. La tolleranza è quindi un dovere
dettato dal cristianesimo fin dalle sue vere origini. Se la carità è il segno distintivo del buon
cristiano, l’agire virtuoso, che è necessario per il conseguimento della salvezza, comporta il rifiuto
dell’esercizio della forza.
È impossibile accertare in maniera definitiva quale sia la vera religione e quale le false, ossia
distinguere oggettivamente la verità ortodossa da ciò che non lo è: le controversie religiose non
possono mai avere vincitori.
Dal momento che il vero cristianesimo coincide con un atteggiamento più che con una dottrina, la
tolleranza è anzitutto obbligo di ragione e religione, come riconoscimento della fallibilità dell’uomo
e sensata accettazione dei limiti delle nostre capacità di giudizio.
La tolleranza con Spinoza non è più graziosa concessione del sovrano, instrumentum regni o
privilegio di un gruppo sociale, ma è conseguenza della stessa struttura dello stato, il cui fine è la
libertà.
È necessario, per la sicurezza e la prosperità dello stato, che la libertà di esame e di giudizio di
ciascuno sia esercitata e contribuisca al miglioramento della vita e delle leggi.
Il fondamento teorico di Spinoza è l’analisi razionale della natura umana. L’uomo non può mai
sottomettere completamente ad altri la propria facoltà di sentire e giudicare, e altrettanto è
impossibile che non esterni ciò che sente. Tale naturale inclinazione comunicativa può essere
repressa solo con un “imperio violentissimo” e quindi contravvenendo al fine ultimo dello stato, che
è la piena e libera espressione di tutte le potenzialità umane, sia morali sia fisiche. La libertà va
ristretta solo laddove si esprimano opinioni e si copiano azioni che possano minare lo stesso patto
sociale che assicura la libertà a ciascuno.
Il tutti gli altri casi leggi arbitrarie hanno l’effetto di condurre l’uomo alla dissimulazione, e quindi
al vizio e conclusivamente alla rovina dello stato.
A tal proposito Spinoza nel suo Trattato teologico-politico sostiene che, “se fosse egualmente facile
comandare così agli animi come alla lingua, senza pericolo regnerebbe ogni Re, e non vi sarebbe
nessun imperio violento perché ogni suddito vivrebbe secondo l’indole degli imperanti, e soltanto a
loro decreto giudicherebbe ciò che è vero o falso, buono o cattivo, giusto o ingiusto. Senonchè [...],
non può mai essere che l’animo si sottometta completamente a diritto altrui”. Nessuno può trasferire
in un altro, né può esser costretto a farlo, la propria facoltà di liberamente ragionare e di giudicare,
il proprio “diritto naturale”, intorno a qualsivoglia argomento. Non può dunque che essere giudicato
violento quell’imperio che si impone sugli animi e, se la “somma maestà” prescrive ad ognuno ciò
che egli debba riconoscere per vero e ciò che debba invece rigettare come falso, e da quali opinioni
l’animo di ciascuno debba esser mosso alla devozione verso Dio, allora sta compiendo ingiuria ai
sudditi ed è da considerarsi usurpatrice del loro diritto. Infatti i sentimenti dell’animo fanno parte
del diritto di ciascun uomo e nessuno potrebbe, anche se lo volesse alienarli. Come ci dice Spinoza,
le passioni sono connaturate all’uomo e non possono essere represse.
Poniamo anche il caso che le somme potestà abbiano diritto su tutto; esse non potranno, tuttavia,
mai agire in modo tale che gli uomini non giudichino, in qualsiasi circostanza, secondo la proprio
disposizione, e che non siano influenzati da questo o quell’evento. Anche se potessero, con diritto,
considerare nemici tutti coloro che non convengano con loro stesse, regnare in maniera
violentissima, mandare a morte costoro, tuttavia nessuno potrebbe negare che questo non potrebbe
avvenire senza il crearsi di grave pericolo per lo Stato. Per questo, un tale atteggiamento si sottrae al
“giudizio della retta ragione”, e ci porta a dire che non solo esse non abbiano l’assoluto potere di
compiere azioni simili, ma anche l’assoluto diritto.
Se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare e cederla ad
un’altra persona, ma, anzi, per quello che Spinoza definisce “sommo diritto di natura”, è padrone
dei propri pensieri, allora non si può tentare, se non incorrendo poi in naturale insuccesso, di proibir
loro di pensare e nemmeno, qualora pensino in maniera contraria, di farli pronunciare secondo i
termini prescritti dalle somme potestà. Ciascuno di noi deve aver ormai compreso che è propria
dell’uomo la caratteristica di non saper tacere, e anche quando sarebbe necessario farlo, di non
riuscire a non confidare ad un altro i propri pensieri. Per questo, negare a ciascuno la libertà di
parlare e di insegnare ciò che pensa è una violenza assoluta.
Poiché il libero giudizio di ciascun uomo è oltremodo differente, ed essendo impossibile che tutti
convengano sulle medesime opinioni e parlino con una sola bocca, c’è la necessità che, al fine di
vivere pacificamente, ciascuno di essi rinunci al diritto di agire per sola decisione della sua mente.
Quindi, è secondo diritto che ciascuno rinunci ad agire per propria volontà, ma non è secondo diritto
che egli rinunci a pensare e a giudicare secondo la propria disposizione. Nessuno, quindi, può agire
contro i decreti delle somme potestà, ma ha del tutto il diritto di pensare, giudicare, parlare, e
Spinoza annovera anche quello di insegnare, purché faccia ciò con l’ausilio della sola ragione, e non
con dolo, ira, odio, volontà di sovversione autoritaria. La libertà di pensiero e di opinione devono
quindi essere tolleranti, e non devono imporre il proprio punto di vista con la forza o con la frode.
L’intolleranza, che è solita manifestarsi in forme violente e di uso della forza, appare sempre
insensata in quanto né confisca dei beni, né prigionia, né tortura possono ottenere tanto da condurre
gli uomini a mutare l’intimo giudizio che essi hanno maturato sulle cose. Ogni uomo è qualificato
ad ammonire, esortare, convincere il prossimo, tentando di condurlo alla propria opinione, ma solo
ed esclusivamente con il ragionamento e l’argomentazione, non con la forza delle leggi o delle
armi. Sanzioni e offese sono del tutto inadeguate a operare la persuasione, azione lecita ma che,
comunque, non può avere pretese. Infatti, nessun castigo è in grado di instillare nell’animo una
convinzione.
La tolleranza è imprescindibile e fondamentale in qualsiasi società; non solo è necessario saper
tollerare le differenze tra gli individui e i gruppi, bisogna anche saperle accettare di buon grado al
fine di poterle considerare, poi, un arricchimento della nostra esistenza. “E’ questa l’essenza della
vera tolleranza”, disse lo scienziato della relatività generale, "senza una tolleranza intesa in questa
accezione più vasta non si potrà parlare di vera moralità”.