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L'intelletto oscuro. Inconscio e autocoscienza in Kant

Chapter · January 2007

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Claudio La Rocca
Università degli Studi di Genova
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Claudio La Rocca
L’INTELLETTO OSCURO.
INCONSCIO E AUTOCOSCIENZA IN KANT1

1. Kant dimenticato
Tra i pregiudizi intorno alla filosofia di Kant che sopravvivo-
no ancora, a oltre duecento anni dalla sua morte, vi è quello che ri-
guarda la nozione di inconscio. Le indagini storiche volte a rico-
struire l’emergere dell’inconscio prima di Freud, l’autore al quale si
usa legare la irreversibile fortuna di questo concetto (che pure ha
visto una prima fioritura nell’epoca del Romanticismo), non man-
cano di citare, in relazione alla filosofia moderna, il nome di Leib-
niz. Attraverso la teoria delle petits perceptions (piccole percezioni)
o perceptions insensibles (percezioni inavvertibili) Leibniz avrebbe
aperto la strada all’esplorazione del concetto di rappresentazioni
inconsce e all’idea di una attività rappresentativa inconscia. Nel li-
bro di Frank Tallis Hidden Minds, che offre una brillante storia dei
diversi modi di concepire l’inconscio, i Nouveaux Essais di Leibniz
vengono celebrati come «il primo vero ingresso del concetto di
funzionamento mentale inconscio nell’ambito della riflessione filo-
sofica»2. I meriti di Leibniz sono indiscutibili, anche se la frase ci-

1 Riprendo in questo saggio in modo più ampio temi trattati in alcuni interven-
ti precedenti: in particolare in una conferenza a Trier (in corso di stampa con il titolo
Unbewußtes und Bewußtsein bei Kant, in Kant-Lektionen. Zur Philosophie Kants und zu
Aspekten ihrer Wirkungsgschichte, hrsg. v. M. Kugelstadt, Königshausen & Neumann,
Würzburg), e nella relazione al Kant-Kongress di São Paulo 2005 (Der dunkle Verstand.
Unbewusste Vorstellungen und Selbstbewusstsein bei Kant, in corso di stampa negli atti
del congresso). Ho affrontato la problematica delle rappresentazioni oscure, in relazione
però con la prospettiva estetica, anche in Das Schöne und der Schatten. Dunkle Vorstel-
lungen und ästhetische Erfahrung zwischen Baumgarten und Kant, in: Im Schatten des
Schönen. Die Ästhetik des Hässlichen in historischen Ansätzen und aktuellen Debatten,
hrsg. v. H. Klemme - M.L. Raters - M. Pauen, Aisthesis-Verlag, Bielefeld 2006, pp. 19-
64. Ringrazio coloro che hanno contribuito alle discussioni a Trier e São Paulo e gli stu-
denti del Dottorato di Ricerca in Filosofia di Genova che hanno partecipato ad un semi-
nario su questi temi.
2 F. TALLIS, Hidden Minds. A History of the Inconscious, New York 2002, trad. it
di A. RANIERI - M. LONGONI, Breve storia dell’inconscio, Il Saggiatore, Milano 2003, p. 15.
64 Leggere Kant

tata forse sopravvaluta il suo contributo, dal momento che già nella
filosofia postcartesiana l’attività inconscia della mente – costituita
dai cosiddetti «pensieri ai quali non si pensa», les pensées impercep-
tibles – rappresentava un tema non secondario se non della ricerca,
almeno della discussione di principio3. In ogni caso, nel contesto di
queste ricostruzioni storiche Kant non viene quasi mai citato, o, se
ciò avviene, viene ricordato solo di passaggio e «a causa della sua
grande influenza, più che per una originalità particolare »4. Dire
che il ruolo di Kant è sottovalutato è dire poco quando si legge che
Kant non avrebbe potuto neanche concepire, per motivi logici, l’e-
sistenza di rappresentazioni inconsce, perché avrebbe affermato
che l’“Io penso” deve accompagnare tutte le rappresentazioni5.
Eppure l’importanza della trasformazione nella concezione
delle attività inconsce della mente che si compie tra Leibniz e Kant
– passando per Wolff, Baumgarten, Meier – non può essere sotto-
valutata. Il contributo di Kant non consiste tanto in una indagine
approfondita della logica del rappresentare inconscio e delle sue
regole particolari – che l’inconscio non sia semplicemente una
mente non consapevole, ma segua piuttosto una sua logica peculia-
re è un’idea che soltanto con Freud emerge con chiarezza. L’impor-
tanza della sua teoria delle rappresentazioni inconsce sta invece
nell’aver reso possibile, ponendo le basi per ogni ulteriore analisi
delle profondità nascoste dell’animo umano, una indagine dell’in-
conscio come sfera autonoma che abbraccia molteplici eventi e
processi mentali. Nel nuovo orizzonte aperto dalla riformulazione
kantiana del concetto di «rappresentazioni oscure» ciò che non era
possibile in un orizzonte leibniziano si trasformò in un compito
concreto. Il lato oscuro dell’anima cessò di essere una terra fanta-
stica, a proposito della quale potevano narrarsi storie favolose e
dubbie, per diventare all’improvviso una regione della quale si pos-

3 Cfr. G. LEWIS, Le problème de l’inconscient et le cartésianisme, Paris 1950.


4 L.L. WHYTE, The Unconscious before Freud, Basic Books, New York 1960,
trad. it. di F. CARDELLI, L’inconscio prima di Freud, Astrolabio, Roma 1970, p. 96. Cfr.
anche Y. BRÈS, L’inconscient, Paris 2002, pp. 2002, S. 22-28, che nel trattare del passag-
gio «de Leibniz à Fichte» non trova alcun posto per Kant. Tallis non cita mai Kant.
5 M. FERRARIS, Good-bye, Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura,
Bompiani, Milano 2004. Ma già prima di lui P. GUYER, Kant and the Claims of Knowled-
ge, Cambridge 1987 attribuisce a Kant l’idea che «una rappresentazione inconscia è una
contraddizione» (p. 141).
L’intelletto oscuro 65

sedeva una prima mappa, forse rozza, ma verificabile nel prosieguo


dell’esplorazione.
Dal punto di vista storico l’influsso diretto della concezione
kantiana della rappresentazioni inconsce sulla fioritura romantica
dell’inconscio non è stato rilevante (le trattazioni esplicite di questo
tema si trovano principalmente, anche se non esclusivamente, nei
testi che riproducono le lezioni universitarie di Kant e in appunti
postumi, piuttosto che nelle opere principali): più importanti sotto
questo punto di vista sono ad esempio Schelling o Schopenhauer.
Ma nella graduale scoperta delle particolari forme e dei diversi
contenuti dell’inconscio si lavora di fatto sul terreno preparato da
Kant.
L’intento della pagine che seguono non è prevalentemente
quello di una ricostruzione storica, ma piuttosto quello di ripro-
porre, sullo sfondo della contrapposizione tra inconscio e coscien-
za, la questione della natura dell’autocoscienza in Kant. Su questo
sfondo questioni spesso discusse possono forse diventare più chia-
re, anche se si tratterà anzitutto di dipanare alcuni problemi ulte-
riori che la presenza e l’importanza di un teoria del rappresentare
inconscio in Kant fanno emergere. Affinché la novità della posizio-
ne kantiana sia ben visibile, essa dovrà essere però esaminata attra-
verso un breve confronto con le teorie della scuola leibniziana, che
costituiscono il punto di partenza allontanandosi dal quale la sua
visione di questo complesso problematico viene a definirsi.

2. Rappresentazioni oscure e coscienza. Da Leibniz a Meier


L’idea leibniziana delle petites perceptions viene sviluppata in
particolare nei Nouveaux Essais. Ma anche la Monadologia afferma
chiaramente che la «percezione» va distinta dalla «appercezione o
coscienza». Leibniz prende così le distanze da Cartesio e dai suoi
seguaci: «su questo punto i Cartesiani hanno commesso un grave
errore, in quanto hanno ritenuto inesistenti le percezioni di cui non
si ha coscienza»6. Le petites perceptions sono appunto quelle che

6 G.W. LEIBNIZ, Monadologie, trad. it. a cura di S. Cariuat, con testo francese a
fronte: Monadologia, Bompiani, Milano 2001, p. 64 (§ 14): «L’état passager qui envelop-
pe et représente une multitude dans l’unité ou dans la substance simple n’est autre cho-
se que ce qu’on appelle la Perception, qu’on doit distinguer de l’apperception ou de la
conscience, comme il paroîtra dans la suite. Et c’est en quoi les Cartésiens ont fort man-
66 Leggere Kant

sono troppo piccole per essere notate di per sé: esse hanno il loro
effetto in connessione con altre rappresentazioni e sono percepibili
come complesso7. Inconscio è qui ciò che si sottrae all’attenzione
della mente e per questo non viene notato. Bisogna guardarsi per-
ciò dal pensare, in relazione a questo tipo di rappresentazione non
conscia, a rappresentazioni che mancherebbero di autocoscienza ri-
flessiva: si tratta piuttosto di rappresentazioni che non giungono fi-
no alla coscienza, che si sottraggono ad essa, che appunto non ven-
gono notate. Notare significa a sua volta, in questo contesto, poter
distinguere. Il non conscio non viene dunque definito dalla man-
canza di una componente metacognitiva, dal darsi come rappresen-
tazione “con-saputa”, ma attraverso una caratteristica negativa, una
manchevolezza del conoscere. Nella Acroasis logica di Alexander
Baumgarten è definita come chiara quella rappresentazione del cui
oggetto siamo consapevoli8. Non è dunque la consapevolezza della
rappresentazione ciò che conta in prima istanza.
È la connessione del concetto di coscienza con la capacità di
distinguere qualcosa da qualcos’altro (e così di riconoscerlo) ciò
che collega in Leibniz la teoria delle petites perceptions con la sua
classificazione gnoseologica delle rappresentazioni. L’ammissione
dell’esistenza di rappresentazioni non consce, che si compie contro
Cartesio, ma anche contro Locke, crea uno spazio particolare per
le cosiddette repraesentationes obscurae, che vengono contrapposte
alle clarae, le quali si dividono a loro volta in soltanto clarae ed in
clarae et distinctae (possiamo qui prescindere dalle pur importanti
ulteriori suddivisioni). In Leibniz le due sfere concettuali delle peti-
tes perceptions, come vengono viste nei Nouveaux Essais, e delle
rappresentazioni oscure non coincidono perfettamente. Ma nella
scuola di Wolff si prescinde necessariamente dai Nouveaux Essais,

qué, ayant compté pour rien les perceptions dont on ne s’apperçoit pas». Le traduzioni
citate dei testi di Leibniz, Locke, Wolff, Kant sono talvolta da me modificate, senza che
ciò venga segnalato ogni volta esplicitamente.
7 G.W. LEIBNIZ, Nouveaux Essais sur l’Entendement humain (1765), in G.W.L.,
Die Philosophischen Schriften, hrsg. v. C.J. Gerhardt, V. Band, Berlin 1882 (ristampa
anastatica, Hildesheim-New York 1965), p. 47, trad. it. di M. MUGNAI, Nuovi saggi sul-
l’intelletto umano, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 48.
8 A.G. BAUMGARTEN, Acroasis logica. In Christianum L.B. de Wolff dictabat
Alexander Gottlieb Baumgarten, Halle 1761 (ristampato in CH. WOLFF, Gesammelte
Werke, Abt. III.5., Hildesheim-New York 1973), § 14: «Cognitio, cuius obiecti conscii
sumus, clara; non clara, obscura est».
L’intelletto oscuro 67

pubblicati solo nel 1765, e l’idea di rappresentazioni inconsce vie-


ne sviluppata principalmente in relazione alla classificazione delle
repraesentationes, che Leibniz aveva formulato già nelle Meditatio-
nes de Cognitione, Veritate et Ideis del 1684. In questo scritto la
rappresentazione (propriamente la notio) oscura viene definita co-
me quella che non è sufficiente a riconoscere la cosa rappresentata
(«Obscura est notio, quae non sufficit ad rem repraesentatam agno-
scendam»)9. Questa definizione logica o gnoseologica connette l’i-
dea dell’oscuro con l’atto di distinguere. Essa porterà però nella
scuola wolffiana a difficoltà riguardo alla possibilità di concepire
l’ambito dell’oscurità come sfera di attività mentale positiva.
La possibilità di una rappresentazione oscura ha in Leibniz
una fondazione metafisica. La monade come vis repraesentativa
universi rispecchia sotto una certa prospettiva l’intero universo,
con la limitazione appunto che non ogni perceptio, ogni rappresen-
tazione, è anche una apperceptio, una rappresentazione cosciente.
Le petites perceptions, scrive Leibniz nei Nouveaux Essais, abbrac-
ciano anche le impressioni che esercitano su di noi i corpi che ci
circondano: esse contengono in sé l’infinito, e istituiscono così la
relazione che ogni ente intrattiene con tutto il resto dell’universo10.
Se si vuole concepire invece le rappresentazioni oscure prescinden-
do da questa fondazione metafisica, in un ambito puramente gno-
seologico o psicologico, ci si imbatte in problemi che in Leibniz
non si presentavano. Se la coscienza viene definita attraverso il
“notare” legato all’attenzione, ovvero attraverso il distinguere, che
a sua volta viene fatto equivalere alla «chiarezza», il suo rovescio,
cioè l’oscuro o non conscio, verrà visto come una manchevolezza,
qualcosa che possiede un senso solo in rapporto con le rappresen-
tazioni chiare. Questo avveniva in parte anche in Leibniz: le petites
perceptions sono avvertibili, come si ricordava, solo in un assembla-
ge11, come quelle qualità che sono «chiare nell’insieme, ma confuse
nelle parti»12. Tuttavia in Leibniz ciò che appare dal punto di vista

9 Di converso «clara ergo cognitio est, cum habeo unde rem repraesentatam

agnoscere possim» (G.W. LEIBNIZ, Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis, in Die


Philosophischen Schriften, hg.v. C.J. Gerhardt, IV. Band, Berlin 1880, reprograph. Nach-
druck, Olms, Hildesheim-New York 1978, p. 422).
10 G.W. LEIBNIZ, Nouveaux Essais, p. 48, it. p. 49.
11 Ibid., p. 47, it. p. 48.
12 Ibid., p. 49, it. p. 49.
68 Leggere Kant

gnoseologico come una mancanza, è, dal punto di vista metafisico,


addirittura il fondamento dell’armonia del mondo.
Considerando la notio obscura come quella rappresentazione
che contiene componenti (note) insufficienti (notas insufficientes)13,
Wolff riprende la definizione leibniziana delle Meditationes. Coe-
rentemente con ciò nella cosiddetta Deutsche Metaphysik si legge
che «la chiarezza sorge dalla osservazione (Bemerkung) della distin-
zione (Unterscheides) nel molteplice; l’oscurità, invece, dalla man-
canza di questa osservazione»14. La rappresentazione non cosciente
viene concepita in fin dei conti come defectus, privatio15. L’”osser-
vazione” della distinzione, del differenziarsi, è il Bemerken, più pro-
priamente il “notare” qualcosa, il rendersene conto. Il correlato di
tale atto è appunto il Merckmal, la nota. In relazione alla quantità di
note che vengono appunto “notate” si può avere una gradazione
dell’oscuro: noi possiamo infatti «a volte ricordarci, nel caso di un
oggetto presente, di molte note» che erano comuni anche ad altri
oggetti (utilizzandole come mezzi per un processo di riconoscimen-
to), oppure possiamo ricordarci «a volte di pochissime» note16. Al
concetto oscuro manca qualcosa che possa contribuire in modo po-
sitivo al processo cognitivo, e al concetto più oscuro manca ancora
di più: «Per esempio nel caso della pianta sconosciuta, noi ci ricor-
diamo che l’altra, di cui abbiamo un concetto oscuro, aveva foglie

13 CH. WOLFF, Philosophia rationalis sive Logica, methodo scientifica pertractata

et ad usum scientiarum atque vitae aptata, Frankfurt-Leipzig 1728 (ristampa dell’ed.


1740, hrsg. v. J. École, in CH. WOLFF, Gesammelte Werke. Abt. II.1.1-3, Hildesheim
1983), § 80.
14 CH. WOLFF, Vernünfftige Gedancken von Gott, der Welt und der Seele des

Menschen, auch allen Dingen überhaupt (Deutsche Metaphysik), Halle 1720, ristampa
dell’ed. 1751 in CH. WOLFF, Gesammelte Werke, hrsg. von J. École - H.W. Arndt - Ch.
A. Corr - J.E. Hofmann - M. Thomann, I. Abteilung, Deutsche Schriften, Bd. 2, Olms,
Hildesheim-Zürich-New York 1983, § 201, S. 112, trad. a cura di R. Ciarafardone: Me-
tafisica tedesca, testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano, 1999, p. 191. In seguito quest’o-
pera è indicata con la sigla DM.
15 CH. WOLFF, Psychologia empirica, Frankfurt-Leipzig 1732 (ristampa in CH.

WOLFF, Gesammelte Werke, Abt. II.5. Hildeshei, 1968), § 36. In seguito quest’opera è
indicata con la sigla PE.
16 CH. WOLFF, Vernünftige Gedancken von den Kräften des menschlichen Ver-

standes und ihrem Richtigen Gebrauche in Erkäntniss der Wahrheit (Deutsche Logik),
Halle 1713 (Neuausgabe hrsg. von H.W. Arndt, in CH. WOLFF, Gesammelte Werke,
Abt. I.1., Hildesheim 1965), § 10, p. 127, trad. it. della edizione del 1754, a cura di R.
CIAFARDONE, Logica tedesca, Pàtron, Bologna 1978, p. 37. In seguito quest’opera è indi-
cata con la sigla DL.
L’intelletto oscuro 69

così lunghe, appuntite e dentate come quella presente; ma non ci


verrà in mente se essa anche nelle altre parti si presentava così […].
Ora, a seconda se ci possiamo ricordare di molte o di poche di tali
note, il nostro concetto è poco o molto oscuro»17.
Come si vede, l’oscuro, in quanto non-cosciente, è avvertibile
soltanto come assenza, come un non voler venire in mente. Nel ca-
so delle parole, spiega ancora Wolff, noi abbiamo concetti oscuri
quando esse, nonostante noi non «conosciamo bene» il loro signifi-
cato, tuttavia «non ci lasciano senza pensieri»18. Questo accenno
sembra alludere ad una attività di pensiero inconscia positiva, ma
in realtà non è sufficiente ad attestare la presenza di una tale assun-
zione in Wolff. Lo mostra un altro esempio wolffiano, secondo il
quale chi ha un concetto oscuro di “virtù” da un lato chiama molte
cose virtuose, altre non virtuose, è in grado quindi di distinguere;
dall’altro lato però può accadergli di «prendere vizi per virtù e
virtù per vizi»19. L’oscurità implica dunque che non tutte le note
che devono contribuire al riconoscimento siano coscienti e dunque
siano possibili degli errori. Il concetto è parzialmente oscuro, per-
ché – in relazione al suo contenuto semantico possibile – manca
qualcosa. Se dunque si dice che in occasione di concetti oscuri ab-
biamo ancora «pensieri»20, questi non sono costituiti da ciò che è
oscuro (dunque nient’affatto nel senso di un pensiero inconscio),
ma dalla chiarezza residua (ad es. nel caso delle note, dalla circo-
stanza che, come dice Wolff, esse ci sono «note (bekandt) per il
suono»)21.
Osserviamo ora più da vicino la connessione tra la nozione di
rappresentazione oscura e quella di coscienza. Sia nella definizione
baumgarteniana dell’Acroasis logica che in Wolff abbiamo constata-
to questo nesso. Chiarezza e possibilità di distinguere e riconoscere
(di “notare” in questo senso) sono correlate. È in Georg Friedrich
Meier, l’autore che rappresenta il termine più diretto di confronto

17 Ibid. (Ciafardone traduce fremd, che rendo con “sconosciuta”, con “esotica”).
18 Ibid.
19 DL, § 11, p. 127, it. p. 37.
20 È bene ricordare che la nozione di Wolff di pensiero (Gedancke) non va iden-

tificata con quella odierna e già kantiana Secondo Wolff il «Gedancke» (cogitatio) è
«quell’atto dell’anima mediante il quale noi siamo consapevoli» («diejenige Würkung der
Seele, wodurch wir uns bewust sind») (DL., § 2, p. 123, it. p. 33; cfr. anche PE, § 26).
21 Ibid.
70 Leggere Kant

per Kant, che troviamo la connessione tra chiarezza e coscienza


formulata nel modo più netto:
Chiamiamo chiara una rappresentazione quando siamo coscienti di
essa, oppure quando conosciamo la sua differenza da altre. Questa diffe-
renza si basa sempre sulle note o parti di una rappresentazione, che prese
insieme contengono quel fondamento sufficiente della coscienza, che è
contenuto nella rappresentazione stessa. Una rappresentazione di cui non
siamo coscienti è oscura. La rappresentazione oscura dunque non contiene
note sufficienti che possano causare la coscienza22.

In questa equiparazione tra chiarezza e coscienza è opportu-


no notare che non soltanto la prima e il suo contrario vengono de-
finiti attraverso la coscienza, ma anche viceversa: la coscienza è de-
finita dalla chiarezza. Come si diceva, non bisogna muovere impli-
citamente da un concetto di coscienza che tematizzi esplicitamente
una direzione riflessiva, una autocoscienza – e dunque anche il
non-cosciente non va concepito in relazione e opposizione ad una
tale coscienza. Un concetto di coscienza caratterizzato originaria-
mente dalla riflessività non è operante nella scuola leibniziano-
wolffiana. Ancora in Meier si trova la seguente definizione:
Nella conoscenza chiara conosciamo la cosa insieme alla sua diffe-
renza, in quella oscura al contrario ci rappresentiamo bensì la cosa, ma non
la sua differenza23.

Qui non va sottolineata soltanto l’affermazione anticartesiana,


che si trova già con insistenza in Wolff, secondo la quale un rappre-
sentare che non è capace di differenziazione (dunque resta oscuro)
è tuttavia ancora un rappresentare; bisogna sottolineare piuttosto
l’identificazione dell’inconscio con un grado diminuito di conoscen-
za (vista nel quadro di una intentio recta riferita all’oggetto) e non
con una mancata operazione metacognitiva, con l’istituzione di un
rapporto riflessivo con sé. La direzione tematizzata in primo luogo è
quella verso l’oggetto e il suo coglimento: la coscienza consiste prin-
cipalmente in un notare o in un ricordarsi di qualcosa. (Si pensi alla
definizione baumgarteniana dall’Acroasis logica, secondo la quale è

22 G.F. MEIER, Anfangsgründe aller schönen Wissenschaften, Hemmerde, Halle

1754, ristampa anastatica, Olms, Hildesheim-New York 1976, § 33, p. 55.


23 G.F. MEIER, Vernunftlehre, Halle 1752; ristampa a cura di G. Schenk, Halle-

scher Verlag, Halle 1997, § 155, p. 168.


L’intelletto oscuro 71

chiara quella cognitio del cui oggetto siamo coscienti).


Ciò non significa che in Wolff e nella sua scuola il sapere di
sé, il rivolgimento riflessivo non sia incluso nel significato (e nell’e-
laborazione teorica che ne consegue) del concetto di coscienza, co-
sa che non sarebbe affatto possibile in un orizzonte teorico ancora
condizionato dalla filosofia cartesiana. La tematizzazione di questo
aspetto segue però per così dire la strada della facoltà di distingue-
re, di discriminare, dal momento che anche la riflessività viene con-
cepita come un distinguersi da altro. Questa connessione è delinea-
ta con molta chiarezza in Wolff: «Se prestiamo attenzione a noi,
troveremo che siamo coscienti di molti enti come esterni a noi. Ma
li vediamo fuori di noi riconoscendo che essi sono distinti da
noi»24. Dunque il distinguere diretto agli oggetti implica, come sua
prima condizione minima il differenziare l’oggetto dal conoscente
stesso, e con ciò anche una coscienza di sé. L’intenzionalità come
direzione verso qualcosa di diverso sorge dunque attraverso l’atto
di differenziare tra sé e le cose, che coincide con la rappresentazio-
ne di qualcosa come “fuori di sé”. È interessante che Wolff veda in
ciò anche la differenza tra una ipotetica macchina che avesse rap-
presentazioni (ma in sé) e il pensiero umano (l’anima) che si rap-
presenta «le cose a cui pensa come fuori di sé»25.
In ogni caso l’atto del differenziare è appunto più originario
della autocoscienza in quanto tale, perché quest’ultima sorge da
una divisione originaria tra ciò che è nel soggetto e ciò che si trova
fuori di esso, il cui carattere di essere “esterno” è istituito dalla sua

24 DM, § 45, p. 24, it. 89. Cfr. la Psychologia rationalis (Frankfurt-Leipzig 1725,

in CH. WOLFF, Gesammelte Werke, hg. von J. École, II. Abteilung, Lateinische Schriften,
Bd. 6, Olms, Hildesheim-New York 1972; citata in seguito con la sigla PR), § 21, che af-
ferma l’implicazione reciproca di coscienza di sé e coscienza delle cose fuori di sé: «Quan-
do anima sui rerumque perceptarum conscia est, eas extra se invicem atque extra se perci-
pit et contra». Su questo punto si veda P. PIMPINELLA, Sensus e sensatio in Wolff e Baum-
garten, in Sensus - Sensatio, a cura di M.L. Bianchi, Olschki, Firenze 1996, pp. 471-498.
25 DM § 740, p. 472; cfr. nel § 752, p. 468 il paragone tra il rappresentare con il

pensiero e la rappresentazione pittorica: anche i quadri (come eventualmente delle mac-


chine) rappresentano cose «in sé» (cfr. anche PR § 90). Così come Wolff non esclude
una attività rappresentativa che si svolga in macchine, e attribuisce non solo anima, ma
anche coscienza agli animali, Meier assume in modo coerente la possibilità anche di gra-
di superiori del rappresentare (intelletto) negli animali (vgl. G.F. MEIER, Versuch eines
neuen Lehrgebäudes von den Seelen der Thiere, Hemmerde, Halle 1749), cosa che Wolff
però rifiuta (DM, § 892). Il rappresentare meccanico, corporeo, è in Wolff decisivo per
la concezione del rappresentare inconscio, come vedremo in seguito.
72 Leggere Kant

differenza. La sfera della coscienza, per quanto comprenda una im-


plicata componente riflessiva (distinguere sé da altro), è costituita
tuttavia dall’atto del Bemerken, del notare distinguendo26. L’auto-
coscienza richiede poi condizioni più complesse, che Wolff – pren-
dendone in considerazione la dimensione temporale – identifica
negli atti di Überdenken e nella memoria27. Wolff distingue espres-
samente, probabilmente sotto l’influsso di Locke, tra conscium esse
rerum aliarum extra se (che corrisponde als sensus externus) und
sui ipsius coscium esse (che corrisponde al sensus internus)28.
Un passo significativo in direzione di una concezione positiva
del non-cosciente viene compiuto in Baumgarten non solo attraver-
so l’assunzione di un fundus animae29 (già Wolff aveva parlato di
tenebrae dell’anima)30, ma soprattutto concependo le rappresenta-
zioni oscure come componente necessaria delle rappresentazioni
chiare ma non distinte. La concezione di Wolff si rivolgeva sempli-
cemente al risultato cognitivo di un processo rappresentativo, e po-
teva così aggirare l’idea di una presenza positiva dell’oscuro. Una
rappresentazione è chiara quando consente la sua distinzione da al-
tre rappresentazioni, è distinta se è possibile anche una distinzione
interna delle sue componenti, delle notae. Ma così resta non consi-
derato che cosa una chiarezza che non è distinzione (il caso della
conoscenza sensibile) contenga in sé di diverso rispetto ad una rap-
presentazione distinta. La risposta di Baumgarten è qui univoca, an-
che se non priva di problemi: la presenza dell’oscuro. La differen-
ziazione esterna (da qualcosa d’altro) deve avvenire tramite qualco-
sa di interno: se l’interno è però nel suo complesso chiaro, abbiamo
la distinzione. Dunque all’interno della rappresentazione chiara ma
confusa (e non semplicemente in ciò che abbiamo dimenticato o
nell’estensione potenziale del concetto) deve essere contenuto

26 Cfr. DM § 201, p. 112, dove l’oscurità è ricondotta al mancare dell’ «osserva-

zione della differenza (Bemerckung des Unterscheides)».


27 Uberdenken e Gedächtnis (cfr. DM, § 732 sgg., pp. 457 sgg., it. pp. 587 sgg.).
28 PE, § 23, § 26. Cfr. K.J. GRAU, Die Entwicklung des Bewußtseinsbegriffes im

XVII. und XVIII Jahrhundert, Niemeyer, Halle, 1916 (Nachdruck Olms, Hildesheim
/New York, 1981), pp.186-187.
29 A.G. BAUMGARTEN, Metaphysica, Halle 1739 (ristampa anastatica della 7a edi-

zione, Halle 1779: Olms, Hildesheim-New York 1969), § 511. Cfr. H. ADLER, Fundus ani-
mae - der Grund der Seele. Zur Gnoseologie des Dunklen in der Aufklärung, in Deutsche
Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 62, 1988, pp. 197-220.
30 PE, § 36.
L’intelletto oscuro 73

qualcosa che conviene conosciuto in modo chiaro31.


Baumgarten aggiunge ulteriori elementi a questo quadro, che
qui non possono essere presi in esame32, come la differenziazione
tra chiarezza intensiva e chiarezza estensiva, che consente di conce-
pire la presenza e l’azione di note (e anche di una gran quantità di
esse) anche là dove una rappresentazione diventa sì più chiara, ma
non più distinta in forza di una discriminazione intellettuale. Al
contempo utilizza la sua idea del fundus animae – della cui novità
teoretica è consapevole33 – nell’ambito della sua teoria dell’ impe-
tus aestheticus, quel particolare entusiasmo dell’anima attraverso il
quale essa rivolge la sue forze e le sue capacità all’ ipsum pulcre co-
gitandi actum e le fa convergere nel consensus della conoscenza
sensibile, producendo effetti molto più intensi. Questo rafforza-
mento dell’attività dell’anima ha luogo mettendo in gioco tutto ciò
che essa abbraccia e in particolare la facoltà conoscitiva inferiore,
risvegliando per così dire il fundus animae. Il processo che Baum-
garten descrive assomiglia molto ad un divenire cosciente di qual-
cosa che era nascosto, ma coinvolge anche un aspetto in cui l’ani-
ma viene spinta dalle sue forze oscure34.
Anche in Wolff si possono trovare alcune tracce di una con-
cezione positiva del non-conscio, in particolare in relazione alla
rappresentazione corporea che ha luogo nel sogno senza sogni. La
forza che in questo ancora agisce di «rappresentarsi il mondo in
conformità alle modificazioni che avvengono negli organi di
31 A.G. BAUMGARTEN, Metaphysica, cit., § 522: «repraesento mihi quaedam ita,

ut aliqui eorum characteres clari sint, aliqui obscuri. Eiusmodi perceptio, qua notas cla-
ras, distincta est».
32 Cfr. C. LA ROCCA, Das Schöne und der Schatten. Dunkle Vorstellungen und

ästhetische Erfahrung zwischen Baumgarten und Kant, in Im Schatten des Schönen. Die
Ästhetik des Hässlichen in historischen Ansätzen und aktuellen Debatten, hrsg. v. H.
Klemme - M.L. Raters - M. Pauen, Aisthesis-Verlag, Bielefeld 2006, pp. 19-64.
33 «A multis adhuc ingnoretur, etiam philosophis», si dice nel § 80 dell’Aesthetica

(A.G. BAUMGARTEN, Aesthetica, ristampa anastatica dell’edizione Frankfurt a.O. 1750,


Olms, Hildesheim-New York 1961; trad. it. di F. CAPARROTTA - A. LI VIGNI - S. TEDE-
SCO, L’estetica, a cura di Salvatore Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000). Nel Kollegium
über die Ästhetik (pubblicato in B. POPPE, A.G. Baumgarten. Seine Bedeutung und Stel-
lung in der Leibniz - Wolffischen Philosophie und seine Beziehungen zu Kant. Nebst
Veröffentlichung einer bisher unbekannten Handschrift der Ästhetik Baumgartens, Noske,
Borna-Leipzig 1907) si legge: «La nostra anima è così fatta che (cosa che prima del mi-
glioramento della psicologia non si notava) una stupefacente quantità di rappresentazio-
ni restano oscure » (§ 80, p. 116).
34 Aesthetica, § 80. Cfr. su questo C. LA ROCCA, Das Schöne und der Schatten, cit.
74 Leggere Kant

senso»35 si presenta come una possibile candidata per una attività


inconscia positivamente caratterizzata.
Esiste per Wolff un’attività attraverso la quale ci rappresentia-
mo i corpi, e che egli chiama Empfindung, sensazione. Le sensazioni
possono rappresentare solo entità composte, dunque appunto entità
corporee; questa operazione si svolge però nel «semplice» (nell’ani-
ma), dunque non in quanto rappresentare «materiale (materiali-
sch)», che costituirebbe invece una rappresentazione del composto
nel composto. Rappresentazioni «del composto nel composto» sono
per Wolff raffigurazioni materiali quali quadri e statue, o le «rap-
presentazioni materiali»36 che ipotizza come possibili nelle macchi-
ne. Se qualcosa viene rappresentato tramite sensazione nell’anima
(semplice), di esso non si è necessariamente coscienti: a tal fine deve
aggiungersi il riflettere e la memoria. Anche se si compie in un’ani-
ma, il sentire è condizionato dalla corporeità: le rappresentazioni
degli altri corpi si basano sul corpo proprio, che proprio attraverso
ciò viene riconosciuto come “nostro”. Le modificazioni nel corpo
(ideae materiales)37 corrispondono alle differenze nelle cose corpo-
ree e nei pensieri dell’anima. Wolff ha palesemente difficoltà a con-
cepire le sensazioni come qualcosa che deve appartenere all’anima e
dunque essere non corporeo. Egli cerca di sostenere questa conce-
zione riconducendo le sensazioni alla coscienza, cosa però che deve
subito venir limitata per non abbandonare la tesi anticartesiana se-
condo la quale è possibile e reale un rappresentare inconscio. Così
egli assume da un lato le sensazioni in un significato «in certo qual
modo mutato»38 della parola, secondo il quale anche le modificazio-
ni del corpo sono sensazioni (che devono «essere trattate nella fisi-
ca»); dall’altro lato però tratta in seguito – in modo non del tutto
coerente – le sensazioni come rappresentazioni che accadono sì «nel
semplice», ma non sono ancora pensieri, e spiega come esse possa-
no diventarlo39. Qui ci interessa però soltanto ciò che egli delinea, e

35 DM, § 795 (it. p. 633).


36 DM, § 751, p. 467, it. p. 599; § 740, p. 462, it. p. 593.
37 Cfr. anche PR, §§ 112 ff. L’idea materialis è uguale alla imago materialis come

repraesentatio compositi in composito (PR, § 87).


38 DM § 222, p. 124, it. p. 205.
39 DM, § 752. La differenza tra «rappresentazioni materiali» e sensazioni (Emp-

fidungen) vere e proprie sembra consistere nel fatto che le ultime possono «diventare
pensieri», cosa che le prime non possono «mai» (§ 740, p. 462). Nella macchina la distin-
zione tra “in sé “ e “fuori di sé” (quindi la coscienza che rende le rappresentazioni pen-
L’intelletto oscuro 75

non la sua tenuta teorica. Se dunque le sensazioni rappresentano


qualcosa di corporeo, allora l’anima rappresenta con esse «una par-
te del mondo, o tanto del mondo, quanto ne assume (leidet) la posi-
zione del suo corpo nel mondo». Questo rapporto corporeo (per
quanto sfociante nell’anima) col mondo, che dipende dalla partico-
larità della situazione dell’individuo nel mondo stesso, può giungere
alla coscienza, ma non diviene cosciente nella sua interezza. Nella ca-
pacità dell’anima attraverso la quale essa si rappresenta il mondo, ri-
siede «il fondamento di tutto ciò di mutevole che si svolge nell’ani-
ma». Se noi sottraiamo da questa sfera – cosa che Wolff non fa
esplicitamente – ciò che raggiunge il grado della chiarezza, abbiamo
un ambito di rappresentazioni che sono positivamente tali (non un
grado manchevole del conoscere), ma non sono coscienti.
In generale però, nonostante questi spunti, domina in Wolff –
e anche in G.F. Meier, che è con Baumgarten l’autore con cui Kant
più direttamente dialoga su questi temi – la tendenza a pensare il
rappresentare oscuro come qualcosa di non completamente oscu-
ro, poiché una rappresentazione totalmente oscura, anche se (come
tutto ciò che è inconscio) può essere inferita logicamente40, è diffi-
cile da concepire in questo quadro teoretico, almeno dal punto di
vista psicologico e gnoseologico41. L’oscuro si presenta quindi pre-

sieri) non può aver luogo. Le sensazioni però anzitutto non sono pensieri; la loro diffe-
renza dalle «rappresentazioni materiali» consiste allora solo nel fatto che esse si presen-
tano nell’anima semplice. La semplicità viene però derivata – con una certa circolarità –
dall’incapacità dei corpi di pensare (di essere coscienti) (§ 742). Dunque le sensazioni so-
no rappresentazioni non ancora consce in un ente che può diventare cosciente. L’incon-
scio viene sempre in linea di principio concepito come provvisoriamente inconscio.
40 Cfr. DM § 193, it. p. 187: «Qualora, infatti, si trovi in noi più di quanto siamo

coscienti, dovremmo ricavarlo mediante ragionamenti, e precisamente partendo da ciò


ci cui siamo coscienti».
41 Cfr. G.F. MEIER, Vernunftlehre, cit., § 156, p. 170: «Una conoscenza è del tut-

to oscura se non la distinguiamo in nessun modo da nessun altra, se non ne siamo affat-
to coscienti e non pensiamo affatto al suo oggetto. A queste appartengono le rappresen-
tazioni di tutte le cose che non ci vengono neppure in mente (in die Gedanken) e ognu-
no vede che qui non sono in grado di citare alcun esempio»; Wolff ammette perceptiones
totaliter obscurae, che però sono note per dimostrationem, cioè per inferenza; cfr. PE, §
200. Va notato anche che il riferimento all’oggetto sembra essere stabilito attraverso la
chiarezza, il che rende problematico concepire un rappresentare che contenga intenzio-
nalità senza coscienza. Così in Wolff l’intenzionalità di pensieri oscuri è concepita come
una sorta di intenzionalità complessiva indeterminata: nello stato di pensieri oscuri, scri-
ve, «non distinguiamo proprio nulla, e nell’intero pensiero, che abbraccia ogni cosa a
cui pensiamo contemporaneamente, non vi sono né chiarezza né perspicuità» (DM, §
213, it. p. 199). Un tale pensiero dovrebbe essere però inconscio (cfr. DM, § 731), dun-
76 Leggere Kant

valentemente come qualcosa di nebbioso, nel quale i contorni sono


sfumati, dove regna caos e confusione, piuttosto che come una au-
tonoma attività non cosciente. Perché diventi possibile concepire
un ambito inconscio in cui operino rappresentazioni positivamente
caratterizzate deve esser spezzata la connessione tra l’idea della
chiarezza e della coscienza e la capacità di distinguere e riconosce-
re delle note. In questo modo viene anche superata l’equivalenza
tra ciò che è inconscio e ciò che è confuso e dunque sensibile,
aprendo la porta all’idea di una attività intellettuale inconscia. È
precisamente ciò che avviene in Kant.

3. Kant e le rappresentazioni oscure


Kant si occupa delle rappresentazioni oscure in modo decisa-
mente più approfondito e più vario rispetto agli autori con in quali
ha condotto un fruttuoso colloquio critico su questo tema. Il tema
delle rappresentazioni era lì affrontato in ambito sia psicologico
(all’interno della metafisica), che logico (ovvero di teoria della co-
noscenza). Il confronto su questi temi si svolge allora in particolare
con gli autori che Kant commenta nelle sue lezioni su queste due
discipline: Alexander Gottlieb Baumgarten, la cui Metaphysica
Kant in generale utilizzava per le lezioni appunto di metafisica, e
Georg Freiderich Meier, le cui due opere, la Vernunftlehre prima e
l’Auszug aus der Vernunftlehre poi, Kant utilizza per le sue lezioni
di logica. Della Metaphysica di Baumgarten Kant utilizza però an-
che in particolare la psychologia empirica, che finisce per costituire
la base per le sue lezioni di una ulteriore disciplina, l’antropologia.
Kant analizza, commenta e critica per anni la psychologia empirica
di Baumgarten42. È così nelle lezioni e delle annotazioni di Kant in

que a rigore nient’affatto un pensiero (cfr. §§ 194-195, dove «Gedancke» viene identifi-
cato con il rappresentare cosciente; Wolff tuttavia non si mantiene sempre coerente con
la decisione terminologica lì presa, come avviene appunto anche nel § 213).
42 Cfr. R. BRANDT - W. STARK, Einleitung, in Kants gesammelte Schriften, Bd.

XXV, Vorlesungen über Anthropologie, bearb. v. R. Brandt u. W. Stark, de Gruyter, Ber-


lin, 1997, pp. VII sgg. La Akademie-Ausgabe (Kants Gesammelte Schriften, herausgege-
ben von der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902 ff.) viene citata in
seguito con la sigla AA e l’indicazione del volume in numeri romani. Su Baumgarten e
Kant in relazione alle rappresentazioni oscure cfr. M. OBERHAUSEN, Dunkle Vorstellun-
gen als Thema von Kants Anthropologie und A. G. Baumgartens Psychologie, in «Aufklä-
rung», 14, 2002, pp. 123-146.
L’intelletto oscuro 77

ambito di logica e di antropologia che si possono rintracciare molti


materiali per una definzione della teoria kantiana delle rappresen-
tazioni oscure, che nascono come osservazioni sulla Metaphysica di
Baumgarten e sull’ Auszug aus der Vernunftlehre di Meier43.
Se questo riferimento stabilisce un nesso diretto con la rifles-
sione della scuola wolffiana, va detto però che l’interesse di Kant per
le rappresentazioni oscure va ben al di là di una ripresa di tematiche
tradizionali: il tema dell’oscuro e dell’inconscio si presenta in molti
luoghi della sua opera e ad esso viene data una direzione nuova.
Kant muove inizialmente da un posizione leibniziana44, che
però viene ben presto superata da un approfondimento della pro-
blematica. Una particolare importanza ha il confronto con Meier,
perché è anche attraverso di esso che vengono poste le basi gnoseo-
logiche per una nuova concezione dell’inconscio.
In una delle definizioni del concetto di “nota”, poi superata o
compresa in altre, che si trova in un appunto abbastanza antico (da-
tato da Adickes in un arco di tempo ampio, che va dal 1760 al 1775)
Kant la indica come «ciò di una cosa (an einem Dinge) di cui io sono
cosciente»45. È una definizione che si riallaccia a Georg Friedrich
Meier, pur non ricalcandolo; ma in realtà da Meier Kant si distacca
su un punto importante. Se per Meier la nota è, nella conoscenza o
nelle cose, «la ragione (Grund) per cui noi ne siamo coscienti»46,
Kant, a dispetto della definizione prima citata, non riconosce un
rapporto di implicazione reciproca tra nota e coscienza. Un appunto

43 Cfr. rispettivamente AA XV e AA XVI, e per l’antropologia AA XXV.


44 Si può vedere il passo della Nova dilucidatio del 1755, AA I 408, trad. it.
Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica, in Scritti precritici, a cura di
P. Carabellese, riv. da R. Assunto e R. Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 40, do-
ve si parla della «percezione infinita – quantunque affatto quanto oscura – dell’intero
universo sempre presente all’interno dell’anima».
45 R 2276, AA XVI 297.
46 G.F. MEIER, Auszug aus der Vernunftlehre, Halle 1752, § 115 (l’Auszug di

Meier è ristampato nel vol. XVI della Akademie-Ausgabe; cfr. qui AA XVI 296): «Una
nota, un carattere della conoscenza e delle cose (nota, character cognitionis et rei) è ciò
nella conoscenza o nelle cose che, se viene conosciuto, è la ragione per cui noi ne siamo
coscienti; ovvero esse sono gli elementi di differenziazione della conoscenza e dei suoi
oggetti. Dove dunque v’è una coscienza, là vengono conosciute delle note». Nella Logik
Busolt (databile tra il 1788 e il 1790) Kant riferisce a Wolff l’idea della nota come rap-
presentazione distintiva (Unterscheidungs Begrif) e ne prende parzialmente le distanze,
in quanto la nota può segnalare anche una somiglianza tra cose: esistono dunque note
dell’identità e note della diversità (AA XXIV 633-634).
78 Leggere Kant

tra i primissimi (1758-1759) suona come osservazione critica a Meier


su questo punto, e recita: «Quando vi è coscienza vi sono note. Ma
dove vengono rappresentate note, là non vi è sempre coscienza»47. È
possibile dunque una rappresentazione “oscura” che sia tuttavia già
una rappresentazione di note48, e abbia dunque una funzione positiva
nell’ambito della conoscenza. Per Meier una dunkle Erkenntnis non
è un Gedanke (cogitatio), ovvero una rappresentazione cosciente;
parlare di rappresentazione o conoscenza oscura49 vuol dire caratte-
rizzarla in negativo. Pur riconoscendo, ad esempio, che la conoscen-
za oscura può essere anche vera50, Meier non riesce a indicare una
funzione in positivo delle rappresentazione oscure, che sono sempli-
cemente ciò che (ancora) sfugge – per la natura della cosa o l’insuffi-
cienza delle forze soggettive – al fuoco attenzionale della coscienza,
o l’inerte «grumo grezzo di materia»51 elaborato dalla forza creativa
dell’anima. L’oscurità ha un carattere “privativo”, consiste nella
«mancata conoscenza (Unwissenheit) di note sufficienti»52. La fun-
47 R 2275, AA XVI 296.
48 Per Meier è possibile una conoscenza oscura, ma non una nota oscura, nel
senso di un elemento rappresentativo. Dove si parla di «conoscenza oscura» (dunkele
Erkenntnis) di note, il riferimento è alle note come elementi delle cose, degli oggetti rap-
presentati (cfr. G.F. MEIER, Vernunftlehre, cit.). Simile è il discorso in Baumgarten, dove
la perceptio di note riguarda in rappresentazioni oscure il cogitatum (cfr. Metaphysica,
cit., § 510). D’altra parte la coscienza, che «sorge dalle note (aus den Merkmalen ent-
steht)», è anche passibile di diversi gradi, come Meier afferma nel § 153 della Vernunf-
tlehre (ma v. anche Auszug, § 122). Nella stessa opera le note sono definite «la fonte del-
la coscienza» (§ 146; il nesso tra note e coscienza è trattato anche nel § 153). Un’altra
differenza rilevante con Meier è l’idea di Kant che il Merkmal sia una parte solo della
rappresentazione, non anche della cosa. Cfr. p.es. Logik Busolt AA XXIV 633, contro
quanto scrive Meier, Auszug § 115 (cfr. Vernunftlehre, § 146, 147).
49 È bene ricordare che Erkenntnis o cognitio non ha in Meier il senso pregnan-

te dell’odierno termine “conoscenza”, e neppure il senso forte che ha Erkenntnis o


Erkennen in Kant. Erkenntnis/cognitio è per Meier «un insieme di molte rappresenta-
zioni» o, in senso dinamico, «quell’azione attraverso la quale viene prodotta la rappre-
sentazione di una cosa» (Auszug, § 11, AA XVI 76-77; Vernunftlehre, § 25). Come Meier
stesso sottolinea, Erkenntnis equivale nella sostanza a rappresentazione: «Si può anche,
senza commettere un errore rilevante, considerare equivalenti rappresentazioni e cono-
scenza» (Auzug, AA XVI 77).
50 Auszug, § 130, AA XVI 324.
51 Vernunftlehre, § 159, ed. cit. p. 176.
52 Vernunftlehre, § 155, ed. cit. p. 167. Note sufficienti sono quelle che consen-

tono la coscienza; cfr. ibid., § 150. Il carattere “privativo” della conoscenza oscura in
Meier è estremo nel caso della conoscenza «del tutto oscura», che corrisponde a quelle
rappresentazioni che semplicemente non abbiamo (cfr. ibid., § 156, p. 170). Tuttavia
Meier nega, non senza fatica, vista la definizione di oscurità ricordata, l’identità tra co-
noscenza oscura e Unwissenheit (§ 159, p. 175).
L’intelletto oscuro 79

zione che Meier arriva a riconoscere alla rappresentazione oscura


non va al di là di quello di «materia» o «materia originaria (Urstoff)»
per la costruzione dell’edificio della conoscenza: se da un lato è vista
come imprescindibile, dall’altro è però un «male necessario»53. In
Kant vi è invece un ambito distinto dell’operare soggettivo, ad un li-
vello precedente la coscienza, che elabora Merkmale in diversi modi.
L’oscuro non è il non (ancora) chiaro, un residuo eventualmente
commisto alla chiarezza, ma una dimensione positiva del rappresen-
tare. Questo fonda la possibilità di tutta una serie di operazioni
“oscure” che contribuiscono ai giudizi empirici54.
Sulla base di questa poco appariscente ma decisiva presmessa
gnoseologica Kant può estendere indefinitamente la sfera in cui
operano le rappresentazioni oscure. Il primo tratto generale della
concezione kantiana che va sottolineato è appunto che in essa il
campo della rappresentazioni oscure non soltanto si presenta come
amplissimus55 (come importante dal punto di vista quantitativo),
ma abbraccia inoltre tutti i generi di rappresentazione. Non costi-
tuisce più un primo strato profondo dell’attività rappresentativa,
che deve essere superato, ma una dimensione pervasiva, i cui effetti
si sentono in ogni ambito dell’attività mentale. È quanto viene
espresso in modo netto nelle lezioni della Anthopologie Friedländer:
«Le rappresentazioni oscure contengono le molle segrete di ciò che
avviene alla luce »56.
In Wolff come si è visto delle rappresentazioni oscure intese in
senso “positivo” possono essere intese colo come un primo grado,
condizionato dal corpo, del rappresentare. Concetti oscuri sono rap-
presentazioni o già originariamente insufficienti, oppure che sono

53 Cfr. Vernunftlehre, § 159, p. 176, § 161, pp. 179, 180.


54 Si noti che in un orizzonte leibniziano un operare oscuro dell’intelletto non è
concepibile, in quanto sono i caratteri di oscurità, chiarezza e distinzione che definisco-
no cosa è sensibile e cosa è intellettuale, e nulla di oscuro può essere intellettuale (così
come nulla di distinto può essere sensibile). Kant, com’è noto, contesta questo criterio
di classificazione; un attacco particolarmente chiaro e deciso si trova nelle lezioni Me-
taphysik L1, (AA XXVIII 229-230; la Metaphysik L1 è tradotta parzialmente in I. KANT,
Lezioni di psicologia, trad. di G.A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1986, qui pp. 56-57).
55 «Obscurarum perceptionum campus est amplissimus», recita già la R 176, AA

XV 64, databile tra il 1764 e il 1769. Ma questa tesi è ripresa nella Anthropologie in
pragmatischer Hinsicht (1798) (in seguito citata con la sigla Anthr.), AA VII 136; trad. it.
di P. Chiodi: Antropologia dal punto di vista pragmatico, TEA, Milano 1995, p. 18: «Nel-
l’uomo, il campo delle rappresentazioni oscure è il più vasto».
56 AA XXV 479.
80 Leggere Kant

parzialmente riaffondate nell’oscurità attraverso la dimenticanza57.


In Baumgarten l’oscuro rappresentare della vis repraesentativa uni-
versi è sì un rispecchiare che avviene nel «fondo dell’anima», ma
non costituisce un processo di elaborazione intellettuale. Kant già
molto presto concepisce l’oscuro come qualcosa che coincide sì con
il non cosciente, ma non per questo con un livello basso dell’operare
mentale. Così riprende il caso paradigmatico del sonno “profondo”
o senza sogni – che costituiva in Leibniz e nei suoi successori un
punto cruciale del confronto con Cartesio e Locke – per ammettere
almeno in via ipotetica la presenza in esso della attività mentale più
elevata, senza porre limiti alla sua qualità. «La maggior parte dei fi-
losofi come esempio di concetti oscuri indica quelli che abbiamo
quando dormiamo profondamente (im tiefen Schlafe)»: questi po-
trebbe essere, per Kant, sia oscuri perché non si ha coscienza di
averlo o perché non si ha coscienza di averli avuti. In ogni caso, si
può pensare che «forse nel sonno più profondo l’anima potrebbe at-
tingere il massimo delle sua capacità nel pensare ragionevolmente»,
cosa che rappresenterebbe «un gran segreto della natura»58. Non
viene qui riconosciuta direttamente un’attività inconscia di pensiero
razionale, perché le rappresentazioni potrebbe esser state «chiare e
coscienti durante il sonno» e poi dimenticate; ma si concede già un
ipotetico primato a qualcosa che comunque non rientra nel quadro
dell’esperienza cosciente «desta» e che ad essa non si ricollega.
Ma la tesi che vi sia un primato almeno quantitativo di un in-
telletto oscuro, non cosciente, viene affermata in modo più netto in
un appunto degli anni 1764-1769: «la maggior parte di ciò che fa
l’intelletto avviene nell’oscurità»; «tutti gli actus dell’intelletto e
della ragione possono avvenire nell’oscurità»; si cade dunque in in-
ganno quando «molte cose che sono un giudizio costituito da rap-
presentazioni oscure vengono attribuite alla sensazione»59. Perfino
«una gran parte dei pensieri filosofici è stata già preparata prima

57 Il concetto o notio non è definito in Wolff dalla attività intellettuale (dunque

in opposizione alla sensibilità), ma dalla coscienza («concetto» è «qualunque rappresen-


tazione di una cosa nei nostri pensieri» e «pensiero» è «l’azione dell’anima attraverso al
quale siamo coscienti») (DL, §§ 4, 2, it. pp. 33-34). Così vi sono tanto concetti sensibili
quanto concetti intellettuali, a seconda del grado di chiarezza e distinzione.
58 I. KANT, Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen

Theologie und der Moral (1764), AA II 289-290, trad. it. Indagine sulla distinzione dei
principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, cit., p. 254.
59 R 177, AA XV 65.
L’intelletto oscuro 81

nell’oscurità»60. Bastano questi pochi riferimenti per mostrare co-


me la tesi secondo la quale un inconscio logico sarebbe emerso so-
lo in John Stuart Mill è palesemente infondata61.
Il campo dell’inconscio viene trasformato dunque in un luogo
di operazioni molteplici, il cui livello non è limitato. Non soltanto
non si tratta più di una caratteristica negativa, una manchevolezza,
ma neanche di un livello basso, per quanto ricco, della vita mentale.
Le rappresentazioni oscure definiscono un campo di complessi atti
rappresentativi ai quali manca solo la supplementare proprietà del-
la coscienza (riflessiva), senza che la qualità degli atti (anche se in
certi casi la loro portata)62 ne venga compromessa. Così il concetto
di coscienza viene sciolto presto dal legame con la contrapposizione
sensibilità-intelletto: «Le rappresentazioni sensibili restano sempre
sensibili, anche se si è coscienti di esse, e quelle intellettuali intellet-
tuali, anche se avviene il contrario. La coscienza non va confusa con
queste due facoltà»63. Baumgarten aveva preparato l’idea che il fon-
do dell’anima – anche se solo in relazione al valore estetico specifi-
co della «pregnanza» o della «vita» – possa essere altrettanto o an-
che più efficace del rappresentare cosciente, ma soltanto all’interno
di una “divisione del lavoro” di principio tra la sensibilità (alla qua-
le soltanto viene attribuito l’oscuro) e intelletto (visto come regno
della luce), secondo la quale il primo può svolgere delle funzioni
che il secondo non è in grado di compiere – e viceversa. Il kantiano
obscurarum perceptionum campus si estende invece a ciò che è laten-
te nella memoria, o a sensazioni che chiameremmo “subliminali”,
ma anche a concetti morali o metafisici, a motivazioni inconsapevo-
li dell’azione, e in generale ad attività inconsce di ogni tipo64. Se vo-

60 Ak XXV 479.
61 Cfr. E.R. REED, From Soul to Mind. The Emergence of Psychology from Era-
smus Darwin to William James, Yale University Press, New Haven-London 1997, pp.
131 sgg.
62 Il controllo cosciente in particolare degli atti conoscitivi ha per Kant una fun-

zione indispensabile, come mostra l’esempio dei «giudizi provvisori» (che fanno parte
anche delle rappresentazioni oscure, cfr. AA XXV 481): essi possono aver luogo senza il
processo che Kant chiama «riflessione (Überlegung)», ma degenerano necessariamente
in pregiudizi.
63 Anthropologie Collins, inverno 1772/73, AA XXV 31-32.
64 Sulle diverse rappresentazioni oscure cfr. anche V. SATURA, Kants Erkennt-

ninspsychologie, Bouvier, Bonn 1971; P. MANGANARO, L’antropologia di Kant, Guida,


Napoli 1983.
82 Leggere Kant

lessimo provare a raggruppare le rappresentazioni inconsce po-


tremmo indicare i seguenti tipi principali.
1) Sono possibili rappresentazioni oscure di tipo sensibile,
come ad esempio la percezione di innumerevole piccole parti di un
oggetto che può esser colto solo nel suo complesso, come la Via
Lattea; qui evidentemente il riferimento a Leibniz è più diretto65. 2)
Vi sono apparenti sentimenti, come il sentimento morale, o senti-
menti di tipo estetico, o pretese “sensazioni” come il «presentimen-
to», che in realtà consistono in atti inconsci di riflessione66. 3) C’è
anche una attività oscura di riflessione, non solo nascosta in pretesi
sentimenti, che può assumere diverse forme67. 4) Vi sono inoltre
rappresentazioni oscure di tipo complesso, come i concetti morali o
metafisici, che ogni uomo possiede in sé68 e che possono venire
chiariti attraverso il procedimento che Kant negli anni ‘70 chiama
«filosofia analitica». 5) Vi sono inoltre processi rappresentativi in-
consci di tipo immaginativo che svolgono un ruolo importante a li-
vello dell’immaginazione o della fantasia involontaria, cosa che por-
ta Kant a dire che noi siamo spesso «un gioco di rappresentazioni
oscure»: che sono le immagini a giocare con noi e non viceversa69.
6) Alle rappresentazioni oscure appartengono infine anche rappre-
sentazioni dell’intelletto (e persino della ragione) di tipo diverso.
Non possiamo esaminare qui a fondo tutti questi aspetti del-

65 Si veda ad. es. Anthr. AA VII 135-136, it. p. 18.


66 Cfr. per esempio Anthropologie Collins, AA XXV 22: «Se però molte cose
che vengono chiamate “sentire” non sono altro che riflessioni oscure, è aperto al filosofo
un grande campo di lavoro per esplicitare queste riflessioni oscure» (qui Kant fa l’esem-
pio della bellezza e dell’ elemento umoristico di uno scherzo). Cfr. Menschenkunde, AA
XXV 869, dove si parla a proposito dei «cosiddetti sentimenti» di «fondamento scono-
sciuto in noi». Sul «presentimento» (Ahndung) vedi Anthr., AA VII 187, it. p. 70.
67 Come nota R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in prag-

matischer Hinsicht (1798), Meiner, Hamburg, 1999, anche se il concetto di riflessione è


utilizzato in prevalenza per indicare una attività mentale cosciente, (cfr. Anthr. AA VII
141, it. 24: «…riflessione (reflexio), quindi coscienza dell’attività di unificazione …») si
trovano formulazioni che parlano di processi di riflessione inconscia: «… senza consape-
volezza degli atti che hanno luogo all’interno dell’animo» (AA VII 140, it. 22; cfr. AA
VII 145, it. p. 27 dove si parla di «oscure riflessioni dell’intelletto»).
68 Metaphysik L1: «Tutto ciò che si insegna nella metafisica e nella morale, ogni

uomo già lo sa; soltanto che non ne era cosciente; e chi ce lo spiega ed espone cose non
ci dice propriamente nulla di nuovo che ancora non sapessimo, ma egli fa sì soltanto che
io prenda coscienza di quanto era già in me» (AA XXVIII 227, it 54).
69 Anthr., AA VII 136-137, it. p. 19. Su questo cfr. C. LA ROCCA, Das Schöne

und der Schatten, cit.


L’intelletto oscuro 83

l’idea kantiana di rappresentazione oscura, ma vediamo più da vici-


no alcuni di essi, in particolare quelli che possono essere più im-
portanti per un confronto con la nozione kantiana di coscienza, ov-
vero quelli legati ad una attività inconscia intellettuale.
Già nei Sogni di un visionario si legge che «molti concetti sca-
turiscono per mezzo di inferenze segrete e oscure (geheime und
dunkele Schlüsse) in occasione di esperienze». Che questi concetti
siano «surrettizi» non modifica il fatto che delle inferenze inconsce
possono contribuire alla conoscenza: questi concetti «in parte sono
anche veri, giacché ragionamenti anche oscuri non sempre erra-
no»70. Nella Logik Pölitz si parla esplicitamente di un operare oscu-
ro dell’intelletto («è un fatto particolare che l’intelletto spesso lavo-
ra nell’oscurità»), o di una riflessione oscura71. Ma anche la compo-
nente euristica e inventiva del conoscere viene vista come preparata
necessariamente a livello inconscio: «Tutte le conoscenze razionali
(le invenzioni) sono preparate nell’oscurità»72. Anche la Kritik der
Urteilskraft riconosce un operare dell’intelletto non consapevole:
l’«intelletto comune» o sensus communis logicus è quello che opera,
con concetti, secondo «principi rappresentati in modo oscuro»73.
Nella Antropologia dal punto di vista pragmatico si parla, come si è
visto, degli «atti di riflessione» che l’intelletto opera nell’oscurità74.
È da notare che il campo di ciò che è di pertinenza dell’intel-
letto viene anche esteso al di là di quanto solitamente riconosciuto,
poiché spesso rappresentazioni che venivano interpretate come di
tipo sensibile o sentimentale vengono ricondotte invece da Kant ad
una attività intellettuale che si svolge in modo non consapevole.
Nella Antropologia il «presentimento» di qualcosa di futuro, spac-
ciato appunto per un sentimento, nasconde in realtà «giudizi tratti
da concetti oscuri concernenti rapporti causali» (cioè «riflessione
sulla legge di successione degli eventi»), che possono essere in linea
di principio esplicitati75. Nella stessa opera la «decisione» rimessa
«ai princìpi di determinazione del giudizio che si nascondono nel-

70 AA II 320,trad. it. in Scritti precritici, cit., p. 352.


71 AA XXIV 536.
72 R 1482, AA XV 665.
73 Kritik der Urteilskraft § 20, AA V 238, trad. it. a cura di di L. AMOROSO, Cri-

tica della capacità di giudizio, con testo tedesco a fronte, Rizzoli, Milano 1995, p. 241.
74 Anthr. AA VII 144-145. it. p. 27.
75 AA VII 187, it. p. 70.
84 Leggere Kant

l’oscurità dell’animo» viene rappresentata come qualcosa la cui ef-


ficacia nel conoscere supera di gran lunga quella dei «princìpi ela-
borati artificiosamente», e ciò in forza di una operazione non con-
sapevole nella quale «la riflessione si rappresenta l’oggetto in molti
aspetti e giunge ad un risultato esatto senza consapevolezza degli
atti che hanno luogo all’interno dell’animo»76.
Un operare oscuro dell’intelletto è presente anche là dove
non si tratta, come nell’esempio ora citato, della «soluzione di un
problema»77, ma di comprendere qualcosa, come un discorso o una
poesia. Qui Kant confronta il processo inconscio con la sua ripresa
e chiarificazione consapevole: se la riflessione inconscia procede
senza problemi, l’intelletto ha invece difficoltà quando deve riela-
borare lo stesso contenuto a livello conscio. La ricchezza di pensie-
ri che è qui in gioco e che viene presentata «di colpo» mette infatti
l’intelletto «spesso in imbarazzo nel suo uso razionale»: esso «cade
spesso in confusione quando deve rendere distinti e analizzare gli
atti di riflessione che compie qui realmente ma oscuramente»78.
C’è infine un altro tipo di attività intellettuale che rientra per
Kant nell’operare inconsapevole dell’intelletto, ovvero quella costi-
tuita dai cosiddetti «giudizi provvisori». Kant ne parla come di un
«procedimento segreto dell’anima»79, e in una lezione di antropo-
logia essa è annoverata tra le «rappresentazioni oscure», tra proces-
si mentali non consapevoli, «i fili nascosti di ciò che avviene alla lu-
ce»80. Si tratta di una attività giudicativa preliminare e provvisoria
per Kant necessaria, che precede molte forme di giudizio e anche si
accompagna al decorso delle percezioni, guidando la formulazione
di un giudizio determinante. Nella lezioni sull’enciclopedia filosofi-
ca viene descritta in questo modo:
È meraviglioso come ad ogni giudizio determinante preceda un giu-
dizio provvisorio. Quando leggiamo, anzitutto compitiamo. E così agiamo
in tutti i casi. Non giudichiamo mai subito in modo determinante, perché
per ciò si richiede un concetto completo dell’oggetto, di come esso sia.

76 AA VII 140, it. p. 22.


77 Ibid.
78 Anthr., AA VII 144.1545, it. p. 27.
79 Così si esprime la Anthropologie Friedländer (AA XXV 481).
80 Anthropologie Friedländer (1775-76), AA XXV 481, 479. Sui giudizi provvi-

sori cfr. C. LA ROCCA, Giudizi provvisori. Sulla logica euristica del processo conoscitivo, in
Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia 2003, pp. 79-119.
L’intelletto oscuro 85

Questo però non lo abbiamo alla prima osservazione. Prima di ottenerlo,


dobbiamo anzitutto considerare l’oggetto da tutti i punti di vista e ricerca-
re ciò che corrisponde a tutti i modi di manifestarsi81.
Il nostro giudicare empirico è costantemente accompagnato
da una attività di anticipazione presuntiva che è concettuale, anche
se si presenta talvolta strettamente intrecciata con i processi intuiti-
vi, e dunque non viene avvertita come tale: «noi esercitiamo questo
atto di riflessione non appena abbiamo impressioni dei sensi. At-
traverso l’abitudine questa riflessione ci diviene naturale (geläufig),
così che non notiamo che stiamo riflettendo; e allora crediamo che
ciò stia nell’intuizione sensibile»82.
Lo stesso compitare che è evocato nell’esempio della casa ha
un particolare rilievo nel contesto problematico delle rappresenta-
zioni oscure. In una lezione sulla antropologia leggiamo: «la maggior
parte del tesoro di conoscenze [dell’anima umana] risiede nell’oscu-
rità, ad esempio quando l’uomo legge, l’anima fa attenzione alla let-
tera (Buchstabe), poi compita (buchstabiert), poi legge, poi fa atten-
zione a ciò che legge. Di tutto ciò l’uomo non è cosciente»83. La let-
tura è per Kant un esempio significativo dell’intervento di attività in-
tellettuali non consapevoli, come veniva sottolineato già nel Tentati-
vo di introdurre il concetto di grandezze negative in filosofia del 1763:
«Quale meraviglioso lavorio si nasconde nelle profondità della no-
stra mente che nel pieno della sua attività non riusciamo a notare,
per il fatto che le azioni sono tante e che ciascuna di esse non viene
rappresentata che assai oscuramente. Le dimostrazioni di questo so-
no note a tutti; tra di esse basta considerare tutte quelle azioni che,
non avvertite, avvengono in noi mentre leggiamo, per stupirci di
ciò»84. L’immagine del compitare tornerà poi in una espressione
molto interessante presente nella prima Critica e nei Prolegomeni85.
***
81 Vorlesung über philosophische Enzyklopädie (1775), AA XXIX1 24.
82 Metaphysik L1, AA XXVIII 233-34, it. pp. 61-62.
83 Anthropologie Friedländer AA XXV 479.
84 Cfr. Versuch, den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzufüh-

ren (1763), AA II 191, trad. it. Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle
quantità negative, in Scritti precritici, cit., p. 275.
85 KrV A B 370-71: «…compitare i fenomeni conformemente all’unità sintetica

per poterli leggere come esperienza»; Prolegomena § 30, AA IV 312: i concetti puri del-
l’intelletto servono solo a «compitare (buchstabieren) i fenomeni, per poterli leggere co-
me esperienza».
86 Leggere Kant

Tutto quanto abbiamo finora osservato sulla rivalutazione,


anzi quasi istituzione kantiana dell’attività inconscia della mente,
almeno per quanto riguarda le più complesse operazioni intellet-
tuali e razionali, conduce senza dubbio ad alcune questioni che è
utile porre o riproporre. Una è quella principale, certo non nuova:
che rapporto vi è tra questa “psicologia” kantiana e la sua teoria
delle funzione trascendentali, in particolare la teoria dell’Io penso
o appercezione trascendentale?86 Un’altra questione, con questa
connessa, ma più direttamente sollevata dalla nostra ricostruzione è
anche: in che misura la coscienza è essenziale per ogni operare in-
tellettuale, come la sua posizione centrale nella teoria trascendenta-
le e alcune affermazioni di Kant suggeriscono, ma come sembre-
rebbe smentito dalla psicologia della conoscenza che abbiamo rico-
struito? A queste questioni si congiunge quella della natura dell’o-
perare trascendentale: si tratta di un costruire o di un costituire
“inconscio”, in uno almeno dei sensi possibili di questo termine, o
di che genere? La natura “logica” delle strutture trascendentali che
rapporto ha con i processi psicologici?
Può forse essere d’aiuto il porsi anzitutto un’altra domanda,
meno diretta, chiedendosi a quale disciplina appartengano le consi-
derazioni di Kant sulle rappresentazioni oscure. La domanda non è
così esteriore, perché l’inclusione nell’una o nell’altra disciplina di
una certa considerazione filosofica si accompagna in Kant automa-
ticamente ad una definizione dello status delle conoscenze in gio-
co. Di fatto, abbiamo visto che considerazioni sulle rappresentazio-
ni oscure ricorrono in Kant tanto nell’ambito di scritti e lezioni di
“logica” quanto in ambito antropologico e estetico, e anche talvolta
in ambito metafisico. La definizione dello status di ognuna di que-
ste discipline (per di più nelle diverse fasi del pensiero kantiano)
costituirebbe un tema a sé, ed estremamente complesso. Possiamo
affrontare però la questione anche alla rovescia, per così dire, os-
servando che l’ambito dove meno ricorrono considerazioni sulle
rappresentazioni oscure è quello della critica o della filosofia tra-
scendentale in quanto tale. Vedremo però che i pochi rimandi fatti
en passant o tra le righe nell’ambito di considerazioni di tipo tra-

86 «How can something be part of an actual process and yet be merely logical?»

(W.H. WALSH, Philosophy and Psychology in Kant’s Critique, «Kant-Studien», LVII,


1966, pp. 186-198).
L’intelletto oscuro 87

scendentale alla problematica che abbiamo esaminato hanno


senz’altro una loro funzione chiarificatrice proprio se le si intende,
come faceva certamente Kant, sullo sfondo della teoria delle rap-
presentazioni oscure.

4. Processi inconsci nella Critica della ragion pura


Le rappresentazioni oscure vengono inserite da Kant nello
schema generale delle rappresentazioni presentato all’inizio della
Dialettica trascendentale, ma vengono lì solo citate e non esplicita-
mente discusse87. Un luogo interessante nell’ambito della prima
Critica è invece il passo della prima edizione (conservato però an-
che nella seconda) dove si indica la sintesi come un mero effetto
della immaginazione – cosa che non manca di suscitare problemi
interpretativi, sui quali non possiamo ora soffermarci – e si aggiun-
ge, a proposito di questa facoltà, che essa costituisce «una funzione
cieca, seppure indispensabile dell’anima88 senza la quale noi non
avremmo in generale alcuna conoscenza, ma della quale però rara-
mente siamo coscienti»89. È probabile che Kant stia pensando qui
ad una funzione trascendentale, trovandoci nell’ambito del § 10 in
cui – con la cosiddetta deduzione metafisica della categorie – si
prepara la deduzione trascendentale delle categorie. Kant aggiunge
un inciso («come vedremo in futuro») a proposito del fatto che la
sintesi sia funzione dell’immaginazione, rimandando a parti succes-
sive della sua trattazione. Il rimando è, naturalmente, anzitutto alla
prima edizione (e vedremo i passi più interessanti di questa), ma la
ripresa più diretta della problematica della sintesi è nella seconda
edizione, dove, com’è noto, molti interpreti ritengono si sia com-
piuto almeno uno spostamento di accenti – se non qualcosa di più

87 Kritik der reinen Vernunft A 320 B 376-377; cito quest’opera con la sigla KrV

e le pagine della prima e della seconda edizione originale (A e B), indicate anche nelle
traduzioni italiane di P. Chiodi (TEA, Milano 1986) e di C. Esposito (Bompiani, Milano,
2004). Faccio riferimento prevalentemente a quest’ultima traduzione. Sulla “scala” delle
rappresentazioni nella prima Critica e in genere sulla nozione di rappresentazione in
Kant in rapporto alle sue fonti cfr. P. RUMORE, Paola Rumore, L’ordine delle idee. La ge-
nesi del concetto di‘rappresentazione’ in Kant attraverso le sue fonti wolffiane (1747-
1787), Le Lettere, Firenze 2007.
88 Kant correggerà in una annotazione nella sua copia della Critica: «… dell’im-

maginazione, una funzione dell’intelletto» (AA XXIII 45).


89 KrV A 78 B 103, corsivo mio.
88 Leggere Kant

radicale – a favore dell’intelletto nei confronti dell’immaginazione


(Heidegger parlava del «ritrarsi» di Kant di fronte all’immaginazio-
ne trascendentale)90.
Nella seconda edizione si dice in effetti – cosa che sembra
contraddire quanto abbiamo visto affermare nella prima edizione –
che «alle Verbindung […] ist eine Verstandeshandlung», ogni col-
legamento (o congiunzione, conjunctio; sintesi) è una azione dell’in-
telletto. Ma più interessante per la nostra problematica è l’inciso
presente in questa frase, che riprende in qualche modo l’accenno
alla natura inconscia dell’immaginazione della prima edizione:
«ogni congiunzione, ne diveniamo coscienti o meno (wir mögen
uns ihrer bewußt werden oder nicht), è una operazione dell’intellet-
to, sia che si tratti di una congiunzione del molteplice dell’intuizio-
ne (sensibile o non sensibile) o di diversi concetti, operazione che
in generale potremmo denominare sintesi, anche per avvertire, con
ciò, che noi non possiamo rappresentaci nulla di congiunto nell’og-
getto senza averlo prima congiunto noi stessi»91.
Di questo passo straordinariamente importante ci interessa ora
anzitutto appunto l’inciso, meno frequentato del resto, dove si dice
che ogni collegamento, ne diveniamo coscienti o meno, è un atto di
congiunzione. Sembra ripetersi qui – e in relazione non ad un qua-
lunque atto dell’intelletto, ma a quello costitutivo di ogni conoscenza
(si parla di collegamento del molteplice dell’intuizione come di con-
cetti come pure dell’intuizione non-empirica), e soprattutto quello in
gioco nella costituzione categoriale del mondo fenomenico – quanto
Kant diceva a proposito della funzione “cieca” dell’immaginazione.
In entrambi i casi si tratta di incisi, che sono però se non rive-
latori senz’altro tali da porre, quando non vengano trascurati, alcu-
ni problemi essenziali. Due questioni almeno emergono, anche alla
luce di quanto abbiamo già visto. Anzitutto: è possibile affermare
che l’operare a priori delle categorie è un atto inconscio? In secon-
do luogo: come si concilia questa possibilità, ma già anche soltanto
l’idea di processi intellettuali e cognitivi inconsapevoli, difesa come
si è visto da Kant, con la tesi fondamentale della filosofia critica se-
condo la quale a fondamento di ogni operare intellettuale (e della

90 M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di M.E. Reina,

Laterza, Roma-Bari 1981, p. 140.


91 KrV B 130.
L’intelletto oscuro 89

conoscenza oggettiva che esso rende possibile e produce) starebbe


l’autocoscienza nella sua forma più eminente, l’appercezione tra-
scendentale?
Prima di cercare di rispondere ad entrambe queste domande,
è bene raccogliere ancora un po’ dello scarso ma interessante mate-
riale che ci offre a questo proposito la Critica della ragion pura. Un
ulteriore elemento è offerto di nuovo da un inciso. Nel § 16 della
deduzione trascendentale delle categorie della seconda edizione,
dove si tratta proprio della unità sintetica originaria dell’appercezio-
ne, per giustificarne la necessità Kant introduce questo argomento:
Infatti le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa in-
tuizione non sarebbero nel complesso mie rappresentazioni, se esse non
appartenessero nel complesso ad una autocoscienza, cioè in quanto mie
rappresentazioni (sebbene io non sia cosciente di esse in quanto tali) devo-
no essere tuttavia necessariamente conformi alle condizioni sotto le quali
soltanto possano sussistere insieme (zusammenstehen) in una autocoscien-
za universale92.

Qui Kant, va notato subito, non sta pensando a rappresenta-


zioni non coscienti, ma al fatto se io sia o meno cosciente di rap-
presentazioni in quanto mie. Anche se io non sono cosciente delle
rappresentazioni in quanto mie, esse tuttavia devono essere confor-
mi alle condizioni, qui non esplicitate, in base alle quali esse posso-
no appartenere tutte insieme ad una (un’unica) coscienza. Comin-
cia a venire in luce qui una distinzione fondamentale, sulla quale
Kant altrove sarà più esplicito, ma che raramente viene colta in
quanto tale, tra la coscienza e l’autocoscienza viste come dati di fat-
to e le stesse intese in quanto possibilità strutturali sottoposte a rego-
le (o condizioni). Non è l’autoconsapevolezza come atto fattuale
(l’autocoscienza empirica, possiamo dire con i termini di Kant) ciò
che conta, ossia un evento psicologico, ma il riferimento a condi-
zioni valide per qualunque atto autoconsapevole e dunque ad una
possibile coscienza di tali condizioni.

5. Io penso, coscienza empirica, coscienza oggettiva


Su questo torneremo in seguito. Cerchiamo anzitutto di esa-

92 KrV B 132, corsivo mio.


90 Leggere Kant

minare con maggior attenzione, seppure solo per alcuni tratti gene-
rali, la presentazione kantiana del tema dell’appercezione trascen-
dentale.
Il passo più celebre sulla appercezione trascendentale è la tesi
sull’“Io penso” che apre il § 16 della deduzione trascendentale nel-
la seconda edizione:
L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni,
poiché, se così non fosse, in me verrebbero rappresentato qualcosa che
non potrebbe affatto essere pensato: il che vuol dire, in altri termini, o che
la rappresentazione sarebbe impossibile, o che essa - almeno per me - non
sarebbe nulla93.

È stato spesso notato94, ma forse non sempre abbastanza ap-


profondito95, il fatto che Kant qui non sta affermando che ogni
rappresentazione è sempre accompagnata da coscienza. Quest’ulti-
ma è piuttosto la tesi di Locke:
È impossibile per ciascuno di percepire senza percepire che perce-
pisce. […] Poiché la coscienza accompagna sempre il pensiero, ed essen-
do quella che fa sì che ciascuno sia quel che chiamiamo io e in tal modo
distingua se stesso da tutti gli altri esseri pensanti, è solo in questo che
consiste l’identità personale, ossia l’identità di un essere razionale96.

93 KrV B 131-132.
94 Si veda ad esempio H.F. KLEMME, Kants Philosophie des Subjekts. Systemati-
sche und entwicklungsgeschichtliche Untersuchungen zum Verhältnis von Selbstbewußt-
sein und Selbsterkenntnis, Kant-Forschungen Bd. 7, Felix Meiner Verlag, Hamburg
1996, pp. 195 sgg.; H. ALLISON, Kant’s Trascendental Idealism. An Interpretation and
Defense, revised and enlarged edition, New Haven-London 2004, pp. 163 sgg.; P. KEL-
LER, Kant and the Demands of Self-Consciuousness, Cambridge 2001, pp. 67-69.
95 Per la verità qualcuno non l’ha notato, o non ne ha tenuto conto; cfr. M. FER-

RARIS, op. cit., che su questo punto è contestato dagli autori che discutono con lui in A.
FERRARIN (a cura di), Congedarsi da Kant? Interventi sul «Goodbye Kant» di Ferraris,
Edizioni ETS, Pisa 2006. Ma anche secondo P. GUYER, Kant on Apperception and A
priori Synthesis, «American Philosophical Quarterly» 17, luglio 1980, pp. 205-212, Kant
difenderebbe la tesi che ogni rappresentazione implica coscienza ed ogni coscienza au-
tocoscienza (pp. 209 sgg.). Come sopra ricordato, secondo Guyer in Kant l’idea di rap-
presentazione inconscia è contraddittoria (cfr. sopra, n. 5); egli deve perciò sottovaluta-
re, là dove riconosce la relazione kantiana con la concezione delle petites perceptions, la
teoria di Kant delle rappresentazioni oscure (P. GUYER, Kant and the Claims of Know-
ledge, cit., pp. 143-144.; cfr. anche Kant on Apperception, p. 210).
96 J. LOCKE, An Essay concerning Human Understanding, ed. by P.H. Nidditch,

Oxford 1975, II.27.9, trad. it. a cura di V. CICERO - M.G. D’AMICO, Saggio sull’intelletto
umano, Bompiani, Milano 2004, pp. 605-607. Secondo Patricia Kitcher l’affermazione
L’intelletto oscuro 91

Rispetto a Locke, Kant afferma nella Critica della ragion pura


soltanto la possibilità che ogni rappresentazione sia accompagnata
dall’atto “io penso”. Questa differenza è tanto più significativa in
quanto si trova anche la formulazione che potremmo chiamare
lockiana, anche se in un testo non del tutto affidabile: nelle lezioni
di antropologia note come Meschenkunde Petersburg, databili al-
l’inverno 1781/82, in un periodo dunque coincidente con la prima
edizione della Critica della ragion pura: «Questo Io accompagna
tutte i nostri pensieri e le nostre azioni»97. Si tratti o meno di una
annotazione imprecisa di chi scriveva, tanto più significativa è la
precisa ed enfatica formulazione della Critica della ragion pura, an-
che se lo stesso enunciato della lezione in realtà, visto nel suo con-
testo, non può essere inteso in senso lockiano: Kant sta parlando
dell’importanza dell’Io come di ciò che rende l’uomo persona, e
l’”accompagnare” qui evocato sembra più il riferimento ad una ca-
pacità che ad un atto psicologico di autocoscienza.
Dunque nella Critica della ragion pura Kant non sta afferman-
do che qualunque atto rappresentativo è allo stesso tempo un atto
di pensiero cosciente, ma piuttosto che qualunque contenuto rap-
presentativo deve essere anche un contenuto pensabile e pensabile
nell’ambito di un atto autocosciente. Alla pensabilità si riferisce la
prima eventualità considerata ed esclusa («o che la rappresentazio-
ne sarebbe impossibile…»), al riferimento ad una (medesima) co-
scienza la seconda eventualità esclusa («…o che essa - almeno per
me - non sarebbe nulla»). Il riferimento alla pensabilità non è affat-
to secondario, visto che tale presupposto fonda la connessione ne-
cessaria a priori tra intuizione e concetto, sensibilità e intelletto (la
pensabilità dell’intuizione è il suo far parte del lo spazio logico del-
le ragioni, come direbbe J. McDowell)98; tuttavia il cuore della pro-
blematica dell’autocoscienza è naturalmente il riferimento all’io.
La rappresentazione “io” è prodotta dall’appercezione pura o

di Kant in KrV B 133 sul carattere disperso della coscienza che accompagna le rappre-
sentazioni è da vedere come una critica a Locke. Cfr. P. KITCHER, Kant’s Trascendental
Psychology, New York-Oxford 1990, p. 126.
97 AA XXV 859. Anche nella R 5653 AA XVIII 306 c’è una analoga frase senza

il “können”: «…das transscendentale Bewustseyn unserer selbst, welches die Sponta-


neität aller unserer Verstandeshandlungen begleitet…».
98 Cfr. J. MCDOWELL, Mind and World, Harvard University Press, Cambridge

MA 19962, trad. it.di C. NIZZO, Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999.


92 Leggere Kant

originaria e il suo carattere fondamentale è quello dell’unità che ga-


rantisce l’identità di ogni singolo atto di “io penso”. Si tratta di
comprendere bene questo punto, che è quello che aiuta anche a di-
stinguere l’autocoscienza qui in gioco da ogni coscienza empirica.
Ciò che fattualmente accompagna determinate rappresenta-
zioni è la coscienza empirica, di cui Kant dice, nella Critica della ra-
gion pura, che è «in sé dispersa e senza relazione all’identità del
soggetto»99. In cosa consiste tale coscienza, il fatto che «accompa-
gno ogni rappresentazione con la coscienza»?100 Potremmo dire
che essa è in qualche modo paragonabile alla coscienza “primaria”
che abbiamo trovato in Wolff, ossia alla distinzione originaria di sé
da altro? Su questo non si trovano indicazioni molto chiare in
Kant, che si diffonde sulla coscienza empirica di sé (ossia il senso
interno, esplicitamente contrapposto alla appercezione trascenden-
tale), ma non sembra tematizzare e approfondire un senso preciso
in cui si può intendere una coscienza empirica vista come semplice
coscienza intenzionale di oggetti. Una distinzione netta in questo
senso si trova però nelle già citate lezioni di antropologia Me-
schenkunde Petersburg, dove si distinguono due sensi del termine
“coscienza”, inteso da un lato come «coscienza di noi stessi», «del
nostro proprio soggetto» e dall’altro come coscienza «di altri og-
getti», «delle cose di cui ci occupiamo»101. Nelle lezioni di antro-
pologia dell’inverno 1784/85 (Anthropologie Mrongovius) i termini
usati per la stessa distinzione sono subiectives o obiectives Bewußt-
seyn, coscienza soggettiva e coscienza oggettiva102.
Il punto interessante in questa distinzione, che non viene, co-
me si diceva, approfondita particolarmente, è il fatto che queste
due forme di coscienza vengono intese, soprattutto nella Men-
schenkunde, in opposizione tra di loro, non solo nel senso che sia-
no concettualmente distinte, ma nel senso che dove c’è l’una dimi-
nuisce l’altra: esse sussistono cioè in proporzione inversa tra di lo-
ro. L’osservazione di sé viene concepita – come già dalle primissi-
me lezioni di antropologia – come qualcosa di faticoso e dannoso, e

99 KrV B 133.
100 Ibid.
101 AA XXV 862.
102 AA XXV 1219. Cfr. le lezioni di metafisica Metaphysik L1, AA XXVIII 227,

dove la «coscienza soggettiva» è vista come «un osservare rivolto a se stessi; non è di-
scorsiva, ma intuitiva».
L’intelletto oscuro 93

ad essa viene contrapposta la coscienza di oggetti esterni: «quanto


più però siamo fuori di noi, e ci occupiamo di altri oggetti, tanto
più risparmiamo (schonen) la nostra capacità psichica (Seelenk-
raft)»103. Questo essere fuori di sé nella coscienza intenzionale è
particolarmente interessante perché smentisce anch’esso ogni lettu-
ra psicologica dell’autocoscienza che può accompagnare le rappre-
sentazioni: più rappresentiamo il mondo esterno meno siamo co-
scienti di noi stessi, sta dicendo Kant, e dunque quando parla della
possibilità di accompagnamento delle rappresentazioni da parte
della coscienza non può intendere un atto di riflessione su di sé.
Un testo abbastanza chiaro su questo punto, anche se prece-
de l’elaborazione matura della prima Critica, è la lezione di metafi-
sica Metaphysik L1, che introduce una diversa distinzione termino-
logica, ma argomenta in senso simile:
Il mio rappresentare è rivolto o ad oggetti oppure a me stesso. Nel
primo caso sono cosciente di altre conoscenze [di conoscere altro]; nel se-
condo ho coscienza del soggetto che io sono. Per esempio, un uomo che
sta contando, ha coscienza dei numeri; ma nel mentre che egli conta, non è
affatto cosciente di sé come soggetto. Questa è la conscientia logica, distin-
ta dalla conscientia psychologica in cui si è coscienti solo di sé come sogget-
ti. La coscienza oggettiva ossia il conoscere oggetti coscientemente è una
condizione necessaria per aver conoscenza di un qualunque oggetto104.

Torniamo dunque alla coscienza empirica. Non si può dare


per scontato che si tratti di una coscienza della propria soggettività,
e non di una coscienza intenzionale o oggettiva. Abbiamo visto che
– con le notevoli messe a punto che abbiamo esaminato – Kant co-
munque riprende la connessione wolffiana (legata alla chiarezza del-
la rappresentazione) tra coscienza e capacità di distinguere, di
erkennen105. Se tuttavia una precisa fenomenologia della coscienza

103 AA XXV 862.


104 AA XXVIII 227, tradotta parzialmente (pp. 221-301) in I. KANT, Lezioni di
psicologia, trad. it. di A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1986, qui p. 53. La stessa distinzio-
ne si trova anche nelle lezioni di antropologia: cfr. Menschenkunde Petersburg AA XXV
862 (inverno 1781-82); Anthropologie Mrongovius, AA XXV 1219 (inverno1784-85).
105 Il passo in cui il legame con la visione wolffiana su questo punto – pur in una

generale riformulazione dei concetti – è più stretto è quello in KrV B 414, dove Kant di-
scute i concetti di oscurità e chiarezza in relazione a quello di coscienza, e sembra iden-
tificare la coscienza con la capacità di «fare distinzione (Unterschied machen)». Il passo
meriterebbe un ulteriore approfondimento, che qui non possiamo svolgere. Sul nesso
94 Leggere Kant

“oggettiva”, intenzionale, manca, ciò sembra dovuto al fatto che la


mera coscienza empirica, ossia una coscienza oggettiva “puntuale”
(non il senso interno, la coscienza empirica di sé) è nei fatti una me-
ra astrazione teoretica. Lo stesso rapporto intenzionale scaturisce
dalla sintesi, e da una sintesi tributaria dell’unificazione dovuta al-
l’appercezione trascendentale. In Kant concettualità e intenzionalità
(riferimento della coscienza ad altro da sé, ad un oggetto) sono
strettamente correlate. La concettualità richiede una serie comples-
sa di presupposti, e dunque il semplice riferirsi ad altro da sé consi-
derato isolatamente non è propriamente concepibile. In questa dire-
zione va ciò che Kant scrive in una lettera a Marcus Herz del 1789:
Se possiamo dimostrare che la nostra conoscenza di cose, anche
quella dell’esperienza, è possibile solo sotto quelle (e solo quelle) condi-
zioni allora non solo tutti gli altri concetti di cose (che non sottostanno al-
le stesse condizioni) sono per noi vuoti e non possono servire ad alcuna
conoscenza, ma anche tutti i data dei sensi per una esperienza possibile
senza di esse [condizioni] non rappresenterebbero mai oggetti, anzi non
giungerebbero mai nemmeno a quella unità della coscienza che è richiesta
per la conoscenza di me stesso (in quanto oggetto del senso interno). Io
non potrei neppure sapere che io li ho e di conseguenza essi non sarebbe-
ro per me, in quanto ente conoscente, assolutamente nulla.

Il sottostare a determinate condizioni – le categorie – è un


presupposto perché si rappresenti qualcosa di esterno, e ancor pri-
ma un presupposto della coscienza di esse in quanto rappresenta-
zioni. Detto questo, Kant non rinuncia all’esperimento mentale di
pensare come potrebbe esser una rappresentazione animale, ovve-
ro una rappresentazione non concettuale e non cosciente. Prosegue
infatti:
mentre essi [i dati dei sensi] (se io nel pensiero faccio di me un ani-
male) in quanto rappresentazioni che sarebbero collegate secondo la legge
empirica dell’associazione, avendo così anche influsso sul sentimento e
sulla facoltà di desiderare, potrebbero pur sempre portare avanti in me il
loro gioco in modo regolare, mentre io non sarei cosciente della mia esi-
stenza (posto che io fossi cosciente di ogni singola rappresentazione, ma
non del riferimento di essa all’unità della rappresentazione del suo oggetto

con le teorie della scuola wolffiana si veda F. WUNDERLICH, Kant und die Bewußtsein-
stheorie des 18. Jahrunderts, De Gruyter, Berlin-New York 2005, che non dà però parti-
colare peso al concetto di rappresentazione oscura.
L’intelletto oscuro 95

per mezzo dell’unità sintetica dell’appercezione); tutto ciò senza che io at-
traverso questo gioco conoscessi minimamente qualcosa, neanche questo
mio stato106.

La rappresentazione animale è un rapporto regolato dall’as-


sociazione di rappresentazioni che possono aver influsso sul senti-
mento e la facoltà di desiderare (in termini non kantiani: possono
dar luogo ad azioni o reazioni correlate alle esigenze vitali dell’or-
ganismo) senza che si dia un vero erkennen, e quindi non solo co-
scienza di sé, ma neppure coscienza di un oggetto in quanto tale:
un conoscere che si svolga attraverso, per così dire, un livello mini-
mo di unificazione del rappresentato. L’animale in altri termini può
kennen – come si dice in alcune lezioni di logica – ossia “avere no-
ta”, o aver notizia di elementi che regolano poi il suo relazionarsi
col mondo, ma non erkennen107: la vera conoscenza – il rappresen-
tare qualcosa in quanto qualcosa, direbbe Heidegger108 – e con ciò
una intenzionalità della rappresentazione in quanto tale, non può
sorgere senza il plesso concettualità-coscienza che solo garantisce,
come abbiamo letto nel passo citato, che i data dei sensi rappresen-
tino oggetti.
Va notato in questa lettera, e in particolare nella prima parte
del passo citato, la posizione anticartesiana che in Kant è costante è
fondamentale: l’idea che la rappresentazione “interna” sia aproble-
matica, e che il problema sorga dunque nel momento del riferi-
mento della rappresentazione “interna” ad altro da sé, è radical-
mente rifiutata, in base all’argomento di fondo, che ritorna in più
sfumature, che la coscienza delle rappresentazioni in quanto pro-
prie (e dunque la coscienza di sé) non richiede meno, ma più con-
dizioni rispetto alla coscienza oggettiva di altro, ed è comunque di-
pendente da questa. L’appercezione trascendentale rende possibile
la coscienza dell’oggetto109 e quindi anche la coscienza di sé. Paral-

106 AA IX 51-52.
107 Cfr. Logik, AA IX 58.
108 Nello scritto Die falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren (AA II

59; trad. it. a cura di S. Marcucci: La falsa sottigliezza delle quattro figura sillogistiche,
Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2001, p. 38) Kant identifica la
distinzione (Deutlichkeit) di un concetto – e con esso la capacità rappresentativa umana
– non nella rappresentazione chiara di una nota, ma nella rappresentazione chiara di es-
sa in quanto nota di una cosa.
109 «La forma di ogni giudizio consiste nell’unità oggettiva della coscienza dei
96 Leggere Kant

lelamente – in senso antiempirista – si afferma che i dati dei sensi


non acquisiscono autentica forza rappresentativa se non attraverso
la concettualità autocosciente.
La (mera) coscienza empirica in quanto “coscienza-di” pun-
tuale è dunque, come si diceva, un’astrazione teorica («posto che io
fossi cosciente di ogni singola rappresentazione, ma non del riferi-
mento di essa all’unità della rappresentazione del suo oggetto per
mezzo dell’unità sintetica dell’appercezione», scriveva Kant, ma è
chiaramente una possibilità che esclude: in modo simile il «sé mul-
ticolore» di cui parla nella Critica della ragion pura è anch’esso
un’ipotesi teorica cui nulla corrisponde)110. I singoli atti di rappre-
sentazione accompagnati da coscienza non costituiscono il riferi-
mento ad una identità soggettiva stabile, bensì appunto qualcosa di
“in sé disperso”. Essi in realtà non producono neanche una co-
scienza dell’oggetto; e di converso, sottolinea Kant, senza l’unità –
trascendentale – della coscienza non vi è neppure un’autocono-
scenza rinchiusa in una sfera tutta soggettiva, come quella del sen-
so interno. Conoscenza di sé e conoscenza del mondo esterno, in-
tenzionalità riflessa ed intentio recta nascono insieme, sulla base di
condizioni che sono quelle dell’unità sintetica dell’appercezione.
Non vi è un atto cosciente che possa accompagnarsi ad un rappre-
sentare puntuale e che sia già un conoscere, rendendo la rappre-
sentazione da oscura chiara: è solo la sintesi che dà origine alla
chiarezza111, e non vi è sintesi senza appercezione trascendentale.
È certamente è possibile ipotizzare che la «coscienza empiri-
ca» coincida con singoli casi di coscienza riflessa quali quelli che
hanno la struttura “io penso che x” (p.es. “io penso che questo
corpo è pesante”)112, ma anche in questo caso si tratta di una astra-
zione filosofica: l’appercezione trascendentale non risulta dalla
composizione di singoli casi già in quanto tali sussistenti, ma, al

concetti dati, cioè nella coscienza che essi devono appartenere l’uno all’altro, e attraver-
so di ciò designano un oggetto, nella cui (completa) rappresentazione essi devono essere
sempre rinvenuti insieme» (R 5923, AA XVIII 386).
110 KrV B 134.
111 Cfr. su questo C. LA ROCCA, Come sono possibili i giudizi sintetici a posterio-

ri?, in Soggetto e mondo, cit., pp. 130 sgg.


112 Cfr. K. AMERIKS, Apperzeption und Subjekt. Kants Lehre vom Ich heute, in Pro-

bleme der Subjektivität in Geschichte und Gegenwart, hrsg. v. D.H. Heidemann, Stuttgart
2002, p. 81.
L’intelletto oscuro 97

contrario, ogni singolo caso è possibile sulla base del presupposto


dell’appercezione trascendentale113. Ogni ipotesi diversa fa dell’au-
tocoscienza trascendentale un risultato, un costrutto, ricade in altri
termini in un modello “humiano”.
Non vi è però soltanto una coscienza empirica “dispersa”.
Kant parla, in particolare nel § 18 della seconda edizione della Cri-
tica, di «unità empirica della coscienza» o di «unità empirica del-
l’appercezione»114. Qui Kant ha presente quella unificazione – del-
la quale si dice che è del tutto casuale (zufällig) – costituita dal pre-
sentarsi insieme nel senso interno di rappresentazioni: la «unità
empirica della coscienza tramite associazione delle rappresentazio-
ni»115. Nel senso interno si può presentare del molteplice come
contemporaneo o successivo (si pensi al famoso esempio kantiano
dell’apprensione di una casa)116 in maniera del tutto legata alle
«circostanze o condizioni empiriche»117. I modi di contiguità in
una coscienza di fatto, ma anche i meccanismi più complessi non di
semplice compresenza, ma di ri-unificazione in una coscienza (il
meccanismo dell’associazione) sono privi di regole universali. Non
per questo però si può vedere in tale «unità soggettiva della co-
scienza» un atto «ancora più primitivo»118, ossia un primo strato di
soggettività su cui si innesterebbe un secondo. Che l’unità empirica
della coscienza possa essere considerata un livello precedente e più
primitivo rispetto all’autocoscienza trascendentale mi sembra
escluso da Kant dove dice che l’unità empirica dell’appercezione è
«anche soltanto derivata» dall’unità oggettivamente valida data
dalla sintesi dell’intelletto119.

113 «Ogni coscienza empirica ha una relazione necessaria a una coscienza tra-

scendentale (che precede ogni esperienza particolare)», KrV A 117.


114 KrV B 139-140.
115 KrV B 139.
116 KrV B 235-236.
117 KrV B 139.
118 K. AMERIKS, op. cit., p. 81. Secondo Ameriks il termine di unità empirica del-

la coscienza è fuorviante perché si identifica con il senso interno, ma rischia di cancella-


re la distinzione chiara tra questo e l’appercezione. Ciò sarebbe rafforzato dal fatto che
comunque esisterebbe in Kant un livello che costituisce un «grado intermedio del men-
tale, che significa più di mera passività» (p. 82).
119 «L’unità empirica dell’appercezione – che in questa sede non prendiamo in

esame, e che d’altronde è semplicemente derivata dalla prima sotto determinate condi-
zioni in concreto – ha solo una validità soggettiva» (KrV B 140). Inoltre il grado inter-
medio, «l’atto di rappresentare complesso che non intende un accordo con il mondo
98 Leggere Kant

6. L’appercezione trascendentale
Vediamo ora meglio – seppure per tratti essenziali – in cosa
consista l’operare dell’appercezione trascendentale, per poi poter
riproporre il problema del rapporto con l’operare inconscio ma in-
tellettuale di cui Kant riconosce l’esistenza.
La stessa possibilità di chiamare “mie” delle rappresentazioni
presuppone la possibilità di riferirle ad un io identico. Da dove na-
sce la conoscenza o coscienza di questa entità identica – numerica-
mente identica, sostiene Kant – sottintesa ad ogni attribuzione di
“appartenenza” delle rappresentazioni? Kant si è lasciato ormai alle
spalle la sua idea degli anni ’70 secondo cui sarebbe possibile coglier
tale entità identica tramite intuizione (conoscendo poi così anche –
ma questo non è ora importante – una sostanza, semplice e immate-
riale)120. L’identità viene rappresentata ora non preliminarmente, ma
contestualmente all’atto di “inclusione” in una coscienza.
Cosa significa riconoscere come “mie” delle rappresentazio-
ni? Non che io sia cosciente di esse come tali, ma che possano ap-
partenere tutte insieme (insgesamt, durchgängig) alla mia coscien-
za121. Ma cos’è, se si prescinde dalla metafora apparentemente
comprensibile della proprietà o della coscienza come “contenito-
re”, questa appartenenza? Non il fatto che ogni rappresentazione
sia “accompagnata” da una coscienza, né fatto che ogni rappresen-
tazione sia “contenuta” in essa, perché accompagnatore e conteni-
tore non sono identificabili separatamente, non abbiamo un modo
per identificarli. Manca, dice Kant, «il riferimento alla identità del
soggetto». E aggiunge il passo decisivo:
Questo riferimento non avviene dunque ancora per il fatto che io

esterno» – identificato da Ameriks con l’attenzione, ma anche con giudizi di “apparen-


za” come i Wahrnehmungsurteile (giudizi di percezione), in genere con giudizi che pre-
tendono solo che qualcosa «a qualcuno realmente appare» (p. 82) – presuppone, come
riconosce lo stesso Ameriks, una comprensione di sfondo dell’oggettività, ovvero, direi,
la costituzione della distinzione oggettività/apparenza soggettiva, che è possibile solo
sulla base dell’autocoscienza trascendentale.
120 Cfr. H. KLEMME, op. cit., p. 107.
121 «Le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione non sa-

rebbe tutte quante (insgesamt) mie rappresentazioni, se tutte quante non appartenessero
ad un’unica autocoscienza: vale a dire che esse, in quanto rappresentazioni mie (sebbene
io non sia cosciente di esse in quanto tali), devono poter essere però necessariamente
conformi alla solo condizione per cui possono coesistere in un’autocoscienza universale,
perché in caso contrario non apparterrebbero tutte (durchgängig) a me» (KrV B 132).
L’intelletto oscuro 99

accompagno ogni rappresentazione con la coscienza, ma che io aggiungo


una rappresentazione all’altra e sono cosciente della loro sintesi. Dunque
solo per il fatto che io posso congiungere un molteplice di rappresentazio-
ni date in una coscienza è possibile che io mi rappresenti l’identità della co-
scienza in queste rappresentazioni122.

Il passaggio è qui molto delicato, e vedremo fra un attimo


una distinzione delicatissima che conviene mettere in rilievo. Ma
procediamo con ordine. Kant sta dicendo che non è la semplice
presenza di un quid, di un atto psicologico o altro ciò che possa ga-
rantire il sussistere di una identità; in altri termini: le rappresenta-
zioni non appartengono ad una identica coscienza perché manife-
stino tutte la stessa proprietà (quella dell’essere accompagnate da
X, dell’essere associate ad un atto con una certa qualità), così come
un albero rientra nel concetto di albero per il fatto di presentare
tronco, foglie, ecc. Questo tipo di identità, dovuta al riconoscimen-
to di una proprietà comune, è quella che si può chiamare, che Kant
chiama identità (unità) analitica. Non è questo il tipo di riconosci-
mento che è in gioco nel costituire l’identità del soggetto. Io piut-
tosto «pongo in aggiunta» (hinzusetze), io compongo rappresenta-
zioni di per sé irrelate, stabilisco in altri termini relazioni, che in
quanto tali non costituiscono mai un dato. La coscienza di questa
sintesi di rappresentazioni è il fondamento (nel senso della ratio co-
gnoscendi) dell’identità. Ma non nel senso della ratio essendi, come
se l’atto di unificazione fosse ciò che causa l’identità, istituisse cioè
di volta in volta ad una unità/identità, che sarebbe così sempre un
costruzione in progress. Si tratterebbe allora di una versione intel-
lettuale del bundle, del fascio di percezioni humiano, che non
avrebbe differenze davvero sostanziali con esso. Per Kant io cono-
sco l’identità con l’atto della sintesi, non la costruisco di volta in
volta, per motivi che diremo subito e che si possono riassumere nel
fatto che un tale processo costruttivo è quello di una identità psicolo-
gica, la quale precisamente non è ciò che è qui in questione. Dunque
la coscienza della sintesi “scopre” l’identità, non la costituisce.
Io sono cosciente della sintesi «di esse», delle rappresentazio-
ni, scrive Kant. L’accento va decisamente sulle rappresentazioni, e
sul senso soggettivo del genitivo: è la loro sintesi, il loro collega-

122 KrV § 16, B 133.


100 Leggere Kant

mento ciò di cui sono cosciente - coscienza oggettiva - e con ciò e


attraverso ciò sono cosciente (ma non necessariamente in senso psi-
cologico) dell’unità dell’appercezione. La frase successiva mette in-
sieme unità analitica e unità sintetica dell’appercezione, ma la si
può leggere anche come una presentazione congiunta, tra le righe,
dell’autocoscienza psicologica e di quella logico-trascendentale,
nella loro differenza. Kant dice:
Il pensiero: “queste rappresentazioni date nell’intuizione apparten-
gono nel loro complesso a me” non significa dunque* altro che io le unifi-
co in una autocoscienza, o le posso almeno unificare in essa, e sebbene ta-
le pensiero non sia ancora la coscienza della sintesi delle rappresentazioni,
tuttavia ne presuppone la possibilità, cioè solo per il fatto che io possa
comprendere il molteplice delle rappresentazioni in una coscienza le chia-
mo nel complesso mie rappresentazioni123.

Il pensiero dell’appartenenza a me delle rappresentazioni è


l’unità analitica dell’autocoscienza: il riconoscere un insieme di
rappresentazioni come unificate da un carattere comune (il fatto
che io le penso, che l’“io penso” le accompagna). Questo carattere
comune è in realtà possibile sulla base di un atto che non semplice-
mente accompagna – come una etichetta comune – le rappresenta-
zioni, ma le unifica, le pone insieme, le sintetizza. Esse sono mie
perché ciò che le collega è stato istituito, si è compiuto cioè un atto
di sintesi. Quest’atto viene presupposto nell’autocoscienza psicolo-
gica, che però, abbiamo letto, non è ancora la coscienza della sintesi
delle rappresentazioni. Piuttosto, appunto, la presuppone. Quando
dico che queste rappresentazioni mi appartengono, sto dicendo lo
stesso che “io le unifico in una autocoscienza”, ma non necessaria-
mente so di stare dicendo la stessa cosa. Kant anzi, si sarà notato, ag-
giunge qualcosa di più: il dire che le rappresentazioni mi apparten-
gono equivale a dire che le unifico o le posso almeno unificare in
una autocoscienza. Qui è importante fare attenzione ad ogni parti-
colare. Le posso unificare in essa, così come l’io penso può accom-
pagnare: sia nella prospettiva sintetica (l’unificare) sia in quella
analitica (l’accompagnare) non è la realtà psicologica ciò che è pro-
priamente in gioco. Lo sottolinea anche un secondo particolare:
Kant non dice che posso unificare nella mia coscienza, ma in una

123 KrV B 134.


L’intelletto oscuro 101

coscienza. “Una” coscienza è identificata in quanto tale non da una


realtà psicologica, ma dalle condizioni che rendono possibile qua-
lunque coscienza. È abbastanza chiaro a chi legga bene la prima
Critica, ma è detto in modo esplicito, ad esempio, in un appunto:
La rappresentazione del modo in cui concetti diversi (in quanto tali)
appartengono ad una coscienza (in generale, non soltanto alla mia), è il
giudizio. Esse appartengono ad una coscienza in parte secondo le leggi
dell’immaginazione, dunque in modo soggettivo, oppure secondo leggi
dell’intelletto, ossia in modo valido oggettivamente per ogni essere che
possiede un intelletto. La connessione soggettiva dipende dalla particolare
situazione del soggetto nell’esperienza124.

7. Coscienza e consapevolezza
La coscienza sintetica che sta strutturalmente dietro a quella
analitica (psicologica) non è però in quanto tale psicologicamente
consapevole. Ciò non toglie che essa sia ogni volta anche un atto, la
cui natura trascendentale è data però non dal fatto di svolgersi
“prima” o in una dimensione pura separata dall’accadere empirico
e psicologico-empirico, ma dal rispondere a delle necessità struttura-
li e riconoscerle (poterle riconoscere come tali). Riprendiamo la let-
tura del § 16. L’autocoscienza analitica, che consiste nel chiamare
“mie” delle rappresentazioni, è vista da Kant come fondata sul dar-
si delle rappresentazioni stesse. La sua struttura di fondo è “io pen-
so x”, non è mai “io penso me”: l’Io è sempre quello determinante,
dirà Kant nei Paralogismi, mai determinato: in altro termini l’Io
non prende mai se stesso come oggetto. L’aspetto riflessivo (quello
espresso dal prefisso “auto-)” dell’autocoscienza pone a Kant pro-
blemi intricati, soprattutto nella definizione del suo status ontologi-
co ed epistemico. Ma in sede di deduzione trascendentale delle ca-
tegorie Kant non è interessato ad altro che a sottolineare la neces-
sità ineludibile dell’appercezione trascendentale, e questa viene
identificata con la coscienza di una sintesi operata dall’intelletto,
non con l’identificazione di un “io”. In altri termini: è l’io psicolo-
gico, quello che trova espressione nel possessivo (le “mie” rappre-
sentazioni), a svelare come propria condizione l’io logico – come

124 AA XVI 633, R 3051, corsivo mio. Le parole in parentesi sono aggiunte da

Kant in una fase successiva.


102 Leggere Kant

vedremo lo chiama Kant – che non è propriamente la coscienza di


un sé, ma di un atto rappresentativo rivolto ad altro, intenzionale:
l’unificazione del molteplice dell’intuizione. Nel § 16 Kant dice che
«l’unità sintetica del molteplice delle intuizioni, in quanto data a
priori, è dunque il fondamento dell’identità dell’appercezione stes-
sa, che precede a priori tutto il mio pensare determinato»125. L’i-
dentità dell’io non precede, come l’identità di un ente, la sintesi del
molteplice, ma si fonda – possiamo dire: è – tale sintesi, ovvero è la
sua legge funzionale: non è altro che una forma di unificazione, che
non può essere ricavata da un qualche atto determinato di pensie-
ro, perché ogni atto di pensiero si compie attraverso di essa. La co-
scienza della sintesi su cui Kant insiste in tutto il § 16 e in seguito, è
coscienza delle regole di un atto di unificazione del molteplice rico-
nosciuto come atto onnicomprensivo, che riguarda cioè l’intero
ambito rappresentativo che costituisce l’esperienza di oggetti («le
rappresentazioni non sarebbero nel loro complesso mie…», scrive-
va Kant)126. La loro unità è riconosciuta derivare da un atto di uni-
ficazione, e questo è possibile solo sulla base della coscienza onni-
pervasiva (durchgängig) delle modalità di collegamento. L’io – «o
egli, o esso (la cosa)»127 – che pensa, dice Kant nei Paralogismi, è il
«veicolo delle categorie»128.
Dunque la (auto)coscienza psicologica – come identità non di
un ente-soggetto, ma di una serie di atti rappresentativi – scopre la
coscienza della sintesi129, e questa consiste nella consapevolezza
della capacità di collegamento: «io esisto come intelligenza che è
cosciente soltanto della sua capacità di collegamento (Verbindungs-
vermögen)»130.
L’identità dell’io è dunque tributaria della coscienza di una
capacità di collegamento. Conviene precisare ancora che l’identità
dell’io non risulta dal fatto che si è coscienti riflessivamente del
processo di costruzione di una identità soggettiva; in altri termini,

125 KrV B 134.


126 KrV B 132.
127 KrV A 346 B 404.
128 KrV A 348 B 406.
129 «Questa identità transitiva dell’appercezione di un molteplice dato nell’intui-

zione contiene una sintesi delle rappresentazioni ed è possibile solo tramite la coscienza
di questa sintesi» (KrV § 16, B 133).
130 KrV § 25, B 158.
L’intelletto oscuro 103

l’identità dell’io non è l’identità personale, che per Kant viene sta-
bilita attraverso una unificazione continua, per la quale non è suffi-
ciente un’appercezione, ma serve la memoria (una memoria dotata
di continuità) dei propri stati e delle proprie azioni: la memoria
della propria “storia” empirica131. C’è una riflessione curiosa e un
po’ enigmatica, anche perché forse da correggere dal punto di vista
testuale, che può esser interessante per il nostro tema. Discutendo
dello status post mortem, commentando la metafisica di Baumgar-
ten, Kant scrive:
Che un ente dopo la morte sia tale da essere cosciente di tutte le no-
stre determinazioni della vita e si attribuisca queste a sé come passate, non
dimostra ancora, che questo ente sono io. Qui sembra che la coscienza
debba essere [in]interrotta, almeno che abbia continuato [come] attraver-
so il periodo di trapasso e di ottundimento che si ha al risveglio. Il senso
interno deve durare in modo ininterrotto (secondo la sensazione) sebbene
la coscienza secondo la riflessione è interrotta132.

Come si vede, seppure nell’ambito di un’ipotesi metafisica,


anzi soprannaturale, viene qui richiesta per l’identità personale una
continuità ininterrotta, che si ipotizza possa essere tale da non con-
sistere di una autocoscienza intellettuale, ma una sorta di sensazio-
ne di sé tra il sonno e la veglia, uno stato di semi-coscienza come
quello del risveglio. La personalità basata sulla continuità serve poi
a dimostrare, nel prosieguo della riflessione, l’indipendenza dell’a-
nima (che qui comprende senso interno e sensazione) dal corpo.
Lo stesso tema, in un modo forse più chiaro, è ripreso da una
riflessione proveniente dallo stesso contesto e degli stessi anni:
Se successivamente qualcuno divenisse cosciente di se stesso e fosse

131 In un appunto Kant sembra ricondurre la possibilità dell’identità personale

alla presenza di una componente morale. Cfr. R 5646, AA XVIII 295: «L’io. Sulla base
dei fenomeni del senso interno (così come di quello esterno) non ci si può mai conside-
rare come un sé identico, neppure secondo il carattere sensibile. Solo in relazione alla
moralità, che è la pura coscienza di noi stessi indipendentemente da una determinazione
nello spazio o nel tempo, lo stesso soggetto delle azioni libere sotto le stesse leggi è in
ogni momento in cui noi siamo coscienti di noi stessi, e in questo caso il tutto delle no-
stre azioni viene considerato come unità» (cfr. R. BRANDT, Kritischer Kommentar, cit., p.
74). La datazione di questa Reflexion oscilla tra il 1776 e il 1788.
132 R 4559, AA XVII 593-594 (1772-76). Nel testo si legge unterbrochen (inter-

rotta) ma dal senso della frase mi sembra indubbio che Kant abbia voluto scrivere unun-
terbrochen (ininterrotta).
104 Leggere Kant

cosciente anche di tutte quelle azioni, di cui noi ci ricordiamo, allora sa-
rebbe me stesso. Dunque l’identità della persona non riposa sulla concor-
danza dell’appercezione, ma sulla continuazione di essa, sia pure in uno
stato di rappresentazioni oscure (unter dunklen vorstellungen)133.

Cito questa Reflexion anche perché è interessante per il no-


stro tema l’accenno finale. L’identità è di nuovo attribuita a qualco-
sa di più dell’autocoscienza, ovvero alla continuità della coscienza
dei ricordi della vita passata, e questa continuità sembra pretende-
re anche un filo fattualmente ininterrotto di flusso psichico, per co-
sì dire, che potrebbe esser anche di tipo inconscio. Questa posizio-
ne non è particolarmente rappresentativa del pensiero kantiano
maturo, ma esprime bene però la differenza, sottolineata anche in
questo periodo, tra appercezione e identità personale. Quest’ulti-
ma può essere affidata persino a rappresentazioni che mantengano
una continuità di fatto, ma inconsapevoli. L’appercezione è invece
una questione di “concordanza”: di conformità a regole.
Si diceva allora: l’identità dell’io non risulta dalla coscienza
riflessiva dell’atto di costruzione di una identità soggettiva; in altri
termini, l’identità dell’io non è l’identità personale. L’identità è
quella di un atto logico, che consiste nel collegare e (ma è lo stes-
so) portare sotto l’unità dell’appercezione. Tale unità è il focus
imaginarius di ogni unificazione logica. Una volta assunta la sua
teoria del giudizio, questa unità è per Kant derivabile in modo
analitico:
La congiunzione non risiede negli oggetti, […] ma è solo una ope-
razione dell’intelletto, che non è esso stesso altro che una facoltà di col-
legare a priori e portare il molteplice dell’intuizione sotto l’unità dell’ap-
percezione134.

Qui alla funzione logica in senso stretto si aggiunge la più va-


sta e complessa tesi del collegamento che riguarda anche il molte-
plice intuito: il punto centrale resta però sempre che collegare vuol
dire unificare in una coscienza. Ma, questo è l’elemento decisivo, si
tratta di collegare in una coscienza necessaria (quello sopra citato
viene chiamato subito dopo «il principio della unità necessaria del-
l’appercezione»). Tale principio – «il supremo in tutta la conoscen-

133 R 4562, AA XVII 594 (1772-76).


134 KrV B 134-5, § 16.
L’intelletto oscuro 105

za umana» – è di per sé analitico: è una tautologia dire che la con-


giunzione risiede nell’intelletto e che solo tramite congiunzione è
possibile conoscenza. Kant esprime nel § 17 questa tautologia an-
che sostenendo: «essa non dice altro che tutte le mie rappresenta-
zioni in qualsiasi intuizione data devono sottostare alla condizione
sotto la quale soltanto io possa attribuirle come mie all’identico sé
e possa dunque, come congiunte sinteticamente in una appercezio-
ne, riassumerle attraverso l’espressione io penso»)135. Questa tauto-
logia però manifesta «come necessaria una sintesi del molteplice
dato nell’intuizione»136: ed è questa sintesi che rende possibile pen-
sare l’identità dell’autocoscienza.
La mossa kantiana, nella sua apparente ripresa di certezze
cartesiane, è in realtà anticartesiana: l’autocoscienza, la certezza di
sé di una identica res cogitans, non è affatto il primo principio - ov-
vero lo è soltanto nel senso di una ratio cognoscendi, di qualcosa
che però rivela altro, un fondamento del tutto differente. L’autoco-
scienza, nel senso limitato dell’identità di un io (un x non più so-
stanziale ma ancora per così dire “incapsulato” in se stesso) rivela -
come necessario, ovvero come presupposto ineludibile della stessa
autocoscienza - il vero principio, che è l’atto di sintesi del moltepli-
ce, una coscienza intenzionale del molteplice, che però non può
non essere anche coscienza della propria necessità, ovvero delle re-
gole di unificazione fatte valere.
La strategia argomentativa è dunque di assumere sì l’autoco-
scienza come indubitabile, ma di mostrare che essa presuppone
dell’altro, ovvero un operare oggettivo sui fenomeni, che si rivela
più originario di ogni coscienza di sé come identità, perché presup-
posto da questa. L’identità rinvia alla sintesi, che è una sintesi di al-
tro. Con questa è data la deduzione dell’oggettività, e se dal punto
di vista epistemico-argomentativo la certezza di sé cartesiana è una
via di accesso, essa si rivela subordinata ad un atto che non può es-
ser inteso in nessun modo in senso cartesiano, perché è autotra-
scendente, oltrepassa la sfera in sé conchiusa della coscienza carte-
siana. Tutte le diverse forme di argomentazione anticartesiana, dai
Paralogismi alla Confutazione dell’idealismo alle più tarde posizioni
quali quelle delle Reflexionen che riprendono la tematica della con-

135 KrV B 138.


136 KrV B 135.
106 Leggere Kant

futazione, fino al frammento Vom inneren Sinn non sono che svi-
luppi di questa impostazione di fondo137.

8. Appercezione e coscienza di sé
Veniamo ora al problema sollevato dal confronto con la teo-
ria “psicologica” della rappresentazioni oscure. È ancora autoco-
scienza l’appercezione sintetica originaria?
Ridotta ad una frase, la teoria kantiana, della cui complessità
abbiamo cercato di mostrare alcuni aspetti, dice che la coscienza di
sé come identità (e solo come identità) presuppone una coscienza
dell’atto di sintetizzare il molteplice. La autocoscienza psicologica ha
come sua condizione (che aiuta a manifestare) la possibilità di una
coscienza intenzionale, la quale – è la scoperta di Kant più decisiva –
non è un atto puntuale di relazione di un singolo stato ad un singolo
oggetto, ma è originariamente complessa, ossia presuppone la costitu-
zione di un intero mondo conoscibile da una coscienza: presuppone
la dimensione che Kant chiama dell’«esperienza possibile»138.
Uno dei luoghi nei quali è più chiaramente ripetuto che è ca-
rattere proprio dell’appercezione quello di essere coscienza di fun-
zioni di unificazione d’altro – il carattere formale dell’appercezione
trascendentale come fondamento dell’intenzionalità – è il § 3, dedi-
cato alla sintesi della ricognizione nel concetto della prima versione
della deduzione trascendentale delle categorie, la deduzione A.
Qui viene chiaramente affermato che l’oggetto – il correlato inten-
zionale, potremo dire in termini non kantiani – della rappresenta-
zione scaturisce dalla coscienza della necessità della sintesi operata:
la rappresentazione può “uscire da sé” grazie alla coscienza di esse-
re il risultato di una regola necessaria.

137 Cfr. C. LA ROCCA, Soggetto e mondo, cit., pp. 53 sgg. Sulla tematica delle con-

futazioni dell’idealismo cfr. L. CARANTI, Kant e lo scetticismo, Marco Editore, Cosenza


2004.
138 R 5923, AA XVIII 386 (1783-4): «La coscienza della percezione riferisce tut-

te le rappresentazioni solo a noi stessi come modificazioni del nostro stato; esse sono al-
lora separate l’una dall’altra, e sopratutto esse non sono conoscenza di una qualche cosa
e non si riferiscono ad alcun oggetto. Esse non sono ancora esperienza, la quale deve
contenere sì rappresentazioni empiriche, ma al contempo come conoscenza degli oggetti
dei sensi». In altri termini, non è sufficiente che vi siano rappresentazioni empiriche per-
ché vi sia esperienza, ma devono darsi rappresentazioni in grado di riferirsi ad oggetti
fuori di sé.
L’intelletto oscuro 107

È chiaro che, dal momento che abbiamo a che fare con il molteplice
delle nostre rappresentazioni, e quella X che corrisponde loro (l’oggetto),
poiché deve essere qualcosa di diverso da tutte le nostre rappresentazioni,
non è nulla per noi, […] l’unità che l’oggetto rende necessaria non possa
essere altro che l’unità formale della coscienza nella sintesi del molteplice
delle rappresentazioni139.
L’unità formale della coscienza presuppone, dice Kant poco
dopo, che l’intuizione si stata prodotta «secondo una regola», che
rende «a priori necessaria» la riproduzione del molteplice e possibi-
le un concetto in cui tale molteplice si unifichi. È questo l’elemento
autoriflessivo nell’appercezione trascendentale: l’identità logica cui
“appendere” il giudizio e la stessa unificazione percettiva non è la
sussistenza di un ente, del soggetto inteso come un ente, ma la co-
stante necessità di una regola di unificazione («l’io costituisce il so-
strato per una regola in generale», scriveva Kant già nel Duigsburg-
Nachlass, prima della stesura della Critica)140. In questo senso per-
ché identità da un lato e oggettività dall’altro siano possibili non è
necessario che io sia cosciente di me stesso, ma è necessaria “co-
scienza” - possiamo tradurre: la applicazione unitaria ed intercon-
nessa, e controllata - di regole vincolanti, che sono quelle che con-
sentono la distinzione di ciò che è oggettivo da ciò che non lo è. È
evidente come una tale “coscienza” meriti le virgolette, meriti cioè
che venga sottolineata la sua assoluta peculiarità rispetto ad ogni
coscienza psicologica di un sé personale, rispetto alla quale Kant
ha parole chiare che conviene ricordare, perché lo mostrano più
“postmoderno” – o forse semplicemente più moderno – di Locke o
Hume:
La coscienza di se stesso, secondo le determinazioni del nostro stato
nella percezione interna è meramente empirica, costantemente mutevole:
non si può dare in questo flusso di apparenze interne alcun sé stabile o
durevole, e tale coscienza viene chiamata abitualmente il senso interno o
la appercezione empirica141.
Non è ad un tale fondamento che si può appendere alcuna
funzione logica o conoscitiva, eppure la coscienza dell’identità nel
pensare è un fatto, certo un fatto anch’esso peculiare, dato da una

139 KrV A 105.


140 R 4676 AA XVII 656.
141 KrV A 197.
108 Leggere Kant

possibilità strutturale: quella enunciata all’inizio del § 15, che ogni


rappresentazione debba poter essere accompagnata dall’atto “io
penso”. Vediamo un altro modo in cui Kant ne presenta la neces-
sità nella deduzione A:
Questa unità trascendentale dell’appercezione fa di tutte le possibili
apparenze, che possano mai essere insieme in una esperienza, una inter-
connessione di tutte queste rappresentazioni secondo leggi. Infatti questa
unità della coscienza sarebbe impossibile, se l’animo nella conoscenza del
molteplice non potesse divenire cosciente dell’identità della funzione attra-
verso la quale essa congiunge sinteticamente il molteplice stesso in una co-
noscenza. Dunque l’originaria e necessaria coscienza di se stesso è allo
stesso tempo una coscienza di una altrettanto necessaria sintesi di tutte le
apparenze secondo concetti, ossia secondo regole, che le rendono non sol-
tanto riproducibili in modo necessario, ma determinano in tal modo an-
che un oggetto per la loro intuizione, cioè il concetto di qualcosa in cui es-
se necessariamente sono connesse: infatti l’animo non potrebbe pensare (e
a priori) l’identità di se stesso nella molteplicità delle proprie rappresenta-
zioni, se non avesse davanti agli occhi l’identità della propria azione, che
sottopone ogni sintesi dell’apprensione (che è empirica) ad un’unità tra-
scendentale, e rende possibile in primo luogo la loro interconnessione se-
condo regole a priori142.

L’identità delle proprie azioni ovvero delle regole delle pro-


prie azioni: che rapporto ha questa autocoscienza trascendentale
con il processo di consapevolezza? Vi sono interpreti che conside-
rano la soggettività trascendentale come «l’unità del cosciente e
dell’inconscio», secondo un movimento di pensiero che porta ver-
so l’idealismo fichtiano e poi schellinghiano143. Nello stesso § 3 sul-
la ricognizione dei concetti Kant, dopo aver affermato che lo stesso
concetto scaturisce da una medesima coscienza che unisce una rap-
presentazione ciò che è stato man mano intuito e riprodotto, affer-
ma che «questa coscienza può spesso essere soltanto debole, così
che noi la connettiamo solo nell’effetto, non nell’atto stesso, ossia
immediatamente, con la produzione della rappresentazione»144.
Questa frase, non chiarissima, può significare che è l’effetto – il
darsi di una rappresentazione unitaria – a implicare che vi sia stato

142 KrV A 108.


143 B. TUSCHLING, Begriffe, Dimensionen, Funktionen der Subjektivität: Leibniz
versus Locke, in Probleme der Subjektivität in Geschichte und Gegenwart, cit., p. 62.
144 KrV A 103-104.
L’intelletto oscuro 109

un atto di coscienza inteso come atto di identificazione di moltepli-


ci percetti come costituenti una sola entità; non l’immediato accom-
pagnarsi – contestuale all’atto cognitivo – di una esplicita consapevo-
lezza. In altri termini, la coscienza necessaria perché sia dia la pos-
sibilità di concetti empirici non ha a che fare con il grado di consa-
pevolezza in gioco. Kant prosegue: «a prescindere da queste diffe-
renze, si dovrà sempre trovare una coscienza, per quanto gli man-
chi la spiccata chiarezza, e senza di essa i concetti, e con essi la co-
noscenza di oggetti, sono del tutto impossibili»145. Questo cenno
alla mancanza di chiarezza – seppure non completa – è ripreso nel-
la stessa sezione: «ogni conoscenza richiede un concetto, possa es-
sere imperfetto oppure oscuro quanto voglia: questo è però quanto
alla sua forma sempre qualcosa di universale e che serve da
regola»146. Chiarezza della coscienza e chiarezza del concetto sono
ovviamente parallele: nessuna delle due è assolutamente indispen-
sabile al conoscere, se è garantito un livello minimo dato dalla pos-
sibilità di applicare regole che consentano con l’unità sintetica un
riconoscimento. Questo livello minimo non è un livello minimo di
autoconsapevolezza, ma un livello minimo di ordine strutturale -
regolarità - che possa tradursi in possibilità (solo possibilità) di au-
tocoscienza completa, ossia di coscienza degli oggetti e insieme delle
regole della loro unificazione.
Le precisazioni più chiare a questo riguardo sono di nuovo
nella prima edizione della deduzione trascendentale delle catego-
rie. Kant ribadisce anzitutto il «principio trascendentale dell’unità
del molteplice delle nostre rappresentazioni», in questi termini:
Tutte le intuizioni non sono nulla per noi, e non ci riguardano mini-
mamente, se non possono venire assunte nella coscienza, che vi conflui-
scano direttamente o indirettamente, e soltanto attraverso di essa la cono-
scenza è possibile. Noi siamo coscienti a priori dell’identità costante di noi
stessi riguardo a tutte le rappresentazioni che possano mai appartenere al-
la nostra conoscenza come di una condizione necessaria della possibilità
di tutte le rappresentazioni (poiché queste rappresentano in me qualcosa
soltanto per il fatto che appartengono con tutto il resto ad un’unica co-
scienza, e dunque vi devono almeno poter essere connesse)147.

145 KrV A 104.


146 KrV A 106.
147 KrV A 116 (corsivo mio).
110 Leggere Kant

Tre punti sono da notare in questo passo:


1) La nostra coscienza dell’identità è intesa qui come coscienza
di una condizione necessaria; è chiaramente una coscienza per
così dire metacognitiva, più che psicologica o personale: è la
coscienza della necessaria integrazione delle rappresentazioni
in un tutto perché possano essere elementi di una conoscenza.
2) Viene ribadita, tra parentesi ma con una certa chiarezza, la
circostanza che la relazione intenzionale delle rappresentazio-
ni con altro da sé è funzione di una complessità regolata delle
rappresentazioni stesse, che il riferimento intenzionale che
abbiamo chiamato puntuale non sussiste e non è possibile.
3) L’inciso sull’assunzione diretta o indiretta delle intuizioni po-
trebbe riferirsi alle rappresentazioni oscure, che secondo
Kant noi possiamo conoscere appunto in modo indiretto, in-
ferendole dai loro effetti148. Precisato questo, vediamo come
Kant chiaramente affronta il problema della relazione di que-
sta autocoscienza con la coscienza empirica e poi con la con-
sapevolezza psicologica:
Tutte le rappresentazioni hanno un riferimento necessario ad una
coscienza empirica possibile: infatti, se non l’avessero, e fosse del tutto im-
possibile, divenire coscienti di esse, sarebbe come dire che esse non esisto-
no affatto. Ma ogni coscienza empirica ha un riferimento necessario ad
una coscienza trascendentale (che precede ogni esperienza particolare),
cioè la coscienza di me stesso in quanto appercezione originaria. È dun-
que assolutamente necessario che nella mia conoscenza ogni coscienza ap-
partenga ad una coscienza (di me stesso). […] La proposizione sintetica
secondo cui ogni diversa coscienza empirica deve essere congiunta in un’u-
nica autocoscienza, è il principio assolutamente primo e sintetico del no-
stro pensiero in generale149.
Come si vede, la relazione di tutte le rappresentazioni ad una
coscienza è di nuovo affermata come possibilità: dunque non come
dato di fatto psicologico, ma come conformità a condizioni che
consentano l’assunzione in una coscienza, in modo diretto quanto

148 Cfr. Anthr., AA VII 135, it. p. 17: «Avere rappresentazioni senza esserne co-

scienti sembr contraddittorio; infatti come potrmmo sapere di averle se non ne fossimo
coscienti? Si tratta dell’obiezione già sollevata da Locke che ne traeva la conseguenza
del’inesistenza di queste rappresentazioni. Ma noi possiamo essere coscienti mediata-
mente di avere una r+ anche se non ne siamo coscienti immediatamente».
149 KrV A 118.
L’intelletto oscuro 111

indiretto. Perché qualcosa divenga componente di un processo co-


noscitivo deve poter essere parte di un unico contesto che è retto
dalla unificazione in una coscienza. Ma la precisazione più essenzia-
le segue il passo citato:
Non è però da trascurare che la mera rappresentazione Io in riferi-
mento a tutte le altre (la cui unità collettiva essa rende possibile) è la co-
scienza trascendentale. Ora, questa rappresentazione può esser chiara (co-
scienza empirica) oppure oscura, ciò non conta qui nulla (daran liegt hier
nichts), non conta nemmeno la sua realtà; ma la possibilità della forma lo-
gica di ogni conoscenza riposa necessariamente sulla relazione con questa
appercezione in quanto facoltà150.

La forma logica di ogni conoscenza riposa sulla possibilità di


entrare in relazione ad una facoltà – l’io penso deve poter accompa-
gnare tutte le mie rappresentazioni. Questa facoltà è individuata co-
me la coscienza della conformità a condizioni universali delle opera-
zioni di riferimento intenzionale, quelle senza le quali non vi sarebbe
oggettività per una coscienza in generale, per, come scrive una volta
Kant, «ogni ente in generale che sia cosciente di sé»151. Non è neces-
sario che io sia psicologicamente cosciente dell’atto – in questo sen-
so la sintesi dell’immaginazione può esser cieca, lo schematismo può
esser un’arte celata nel profondo, ecc. – ma nell’atto di sintesi di dati
ho certamente fatto valere regole di connessione senza le quali il co-
stituirsi di una esperienza strutturata non sarebbe stato possibile.
Quest’esperienza è l’esperienza “cosciente”: io posso avere processi
mentali e giudizi inconsci, ma ciò che definisce la mia esperienza nel
senso oggettivo di dimensione dell’esperienza possibile è l’inserirsi
delle rappresentazioni del mondo in un contesto interconnesso se-
condo regole e della cui interconnessione si è consapevoli.
Il Selbst- nell’espressione Selbstbewußtsein, ciò che rende la
coscienza autocoscienza, è dunque la coscienza dell’unità di regole.
Rispetto ad una identità empirica o personale è qualcosa di evene-
scente e spettrale, davvero the ghost in the machine, per usare un’e-
spressione famosa; soltanto intendendone questa natura si può co-
gliere un altro aspetto fondamentale, quello per il quale autoco-

150 Ibid. Cfr. A 123: «L’io stabile e permanente (della appercezione pura) costi-

tuisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni, nella misura in cui è meramente


possibile divenire coscienti di esse».
151 AA VII 399.
112 Leggere Kant

scienza e intersoggettività in Kant non si escludono, ma piuttosto


coincidono. È utile a questo proposito una annotazione degli anni
1783-84, molto chiara:
La categoria è la rappresentazione della relazione del molteplice
dell’intuizione ad una coscienza universale (alla universalità della coscien-
za, la quale [la coscienza] è propriamente oggettiva). La relazione delle
rappresentazioni alla universalità della coscienza, di conseguenza la tra-
sformazione dell’unità empirica e particolare della coscienza, che è mera-
mente soggettiva, in una coscienza che è universale e oggettiva, appartiene
alla logica. Questa unità della coscienza, nella misura in cui è universale e
può essere rappresentata a priori, è il concetto puro dell’intelletto. Questo
dunque non può essere altro che l’elemento universale dell’unità della co-
scienza, che costituisce la validità oggettiva di un giudizio152.

9. L’autocoscienza e l’inconscio
Abbiamo ora molti elementi per rispondere alle domande
formulate circa il rapporto tra le rappresentazioni oscure e l’auto-
coscienza e la compatibilità delle due teorie kantiane, quella della
prevalenza cognitiva delle rappresentazioni oscure e della condizio-
ne necessaria dell’autocoscienza.
Tra gli interpreti che hanno dato risalto a questa questione
sono state proposte alcune soluzioni. Heiner Klemme, uno dei
non molti autori che si sono posti questa domanda, e uno dei mi-
gliori studiosi della coscienza in Kant, sostiene che si può parlare
in un senso ampio di “mie” rappresentazioni, un senso tale da non
escludere le rappresentazioni oscure, che potrebbero «stare pari-
menti secondo Kant sotto l’unità oggettiva dell’autocoscienza co-
me quelle che accompagniamo con la coscienza»153. Questa tesi
viene giustificata solo con l’osservazione di principio – corretta –
che la distinzione rappresentazioni oscure-rappresentazioni chiare
è di tipo empirico, non trascendentale. Tuttavia dire genericamen-
te che una rappresentazione inconscia è cosciente in senso tra-
scendentale rischia di non chiarire molto la problematica. Resta
oscura la relazione tra l’autocoscienza trascendentale e la nostra
effettiva capacità di avere stati mentali autocoscienti. Anche con-
cependo la soggettività trascendentale come «l’unità del conscio e

152 R 5927, AA XVIII 388-389.


153 H.F. KLEMME, op. cit., pp. 191-192.
L’intelletto oscuro 113

dell’inconscio»154 non si raggiunge, mi sembra, un comprensione


in positivo della natura dell’appercezione trascendentale.
Un’altra soluzione è quella di identificare le operazioni trascen-
dentali della soggettività, l’applicazione delle categorie, con opera-
zioni compiute dal cervello al livello non cosciente, simili alle «infe-
renze inconsce» di cui parlava Helmholtz155. In particolare la sintesi
può essere intesa in questo quadro come una operazione precon-
scia156 o inconscia157. Per quanto una tale interpretazione sia interes-
sante e “attuale”, rischia di trascurare la funzione fondante dell’auto-
coscienza nell’ambito della teoria kantiana. Una variante anch’essa
interessante di questa posizione è quella che considera l’autocoscien-
za come l’accesso a informazioni relative a stati ed a requisiti cogniti-
vi che non comporterebbe una coscienza esplicita da parte del sog-
getto conoscente158. Un’altra lettura, infine, cerca di superare la ten-
sione tra la concezione kantiana dell’Io penso come autocoscienza e
la negazione della necessità di una sua presenza effettiva distinguen-
do la rappresentazione di se stessi dalla coscienza di se stessi159.
La rappresentazione oscura non raggiunge un grado di consa-
pevolezza empirica, può tuttavia (in linea di principio) svolgersi se-
condo regole di unificazione tali da produrre oggettività – si pensi
al caso credo molto indicativo dei giudizi provvisori: in modo oscu-
ro, cogliendo talvolta il vero e talvolta errando, io giudico di ogget-
ti. Se giudico, devo far uso dell’unità oggettiva dell’autocoscienza?
Una risposta possibile, è che i giudizi provvisori appartengano allo
stesso strato intermedio di consapevolezza cui apparterrebbero i
giudizi di percezione, qualcosa di non del tutto soggettivo ma nep-
pure oggettivo. Io non credo, come già ho accennato, che questa

154 Il già ricordato B. TUSCHLING, Begriffe, Dimensionen, Funktionen der Subjek-

tivität: Leibniz versus Locke, cit., p. 62.


155 F. TALLIS, op. cit., pp. 57 sgg.
156 R.O. WOLFF, Kant’s Theory of Mental Activity, Cambridge, Mass. 19692,

p. 131.
157 P. KITCHER, Kant’s Trascendental Psychology, New York-Oxford 1990, p. 83.

Di «non-conscious processes» parla anche N. KEMP SMITH, A Commentary to Kant’s


Critique of Pure Reason, New York 1962, p. 273: «Mental processes, in sofar as they are
generative of experience, must fall outside the field of consciousness».
158 P. KITCHER, Kant on Some Functions of Self-Consciousness, in Proceedings of

the Eight International Kant Congress, ed. by H. Robinson, Milwaukee 1995, vol. I, pp.
645-659.
159 A. BROOK, Kant and the Mind, Cambridge 1994, pp. 231-232.
114 Leggere Kant

ipotesi sia sensata e difendibile. Come è possibile dunque giudicare


in modo inconsapevole? Per farlo, devo mettere in gioco la co-
scienza oggettiva di regole di unificazione, che qui, nell’ipotesi di
mancanza di consapevolezza (una mancanza tale che il soggetto,
specifica Kant, non sa di giudicare ma valuta il suo atto come “sen-
timento”) sembra priva di ogni elemento di auto-coscienza. Se l’au-
tocoscienza è rigorosamente logica160 (“fantasmatica”) una coscien-
za di regole che non si traduca in consapevolezza psicologica po-
trebbe esser concepibile (è un po’ la soluzione cui pensa Klemme).
Questo scollerebbe però forse eccessivamente l’appercezione tra-
scendentale da ogni senso psicologico, ovvero la renderebbe un’o-
perazione del tutto inconsapevole, come i cenni nella Critica della
ragion pura che abbiamo visto potrebbero suggerire. Io credo che
questa ipotesi paradossalmente rischia di intendere di nuovo in
senso psicologico l’appercezione trascendentale: la identifichereb-
be infatti con il complesso di quelle operazioni inconsce che la no-
stra mente svolge per costruire un mondo, ma ciò che condurrebbe
queste operazioni sarebbe un altro ente, ovvero un facoltà in certo
modo “sostanzializzata”. Se si mantiene invece la lettura più corret-
ta e credo produttiva, l’appercezione trascendentale non è un altro
io, ma l’insieme di regole strutturali che devono essere consapute
da qualunque io empirico nell’atto del suo operare e che l’io empi-
rico non può ricavare né da sé né da altro, ma deve presupporre
per poter identificare sia sé stesso che altro da sé.
Se si mantiene questa immanenza dell’appercezione trascen-
dentale, che ne fa la struttura logica di operazioni effettive, allora il
fantasma deve esser in qualche misura visibile, non può nascondersi
troppo dentro nella macchina: fuor di metafora, un qualche peso la

160 «Gli psicologi prendono comunemente per sinonimi le parole senso interno e

appercezione, a dispetto del fatto che il primo deve indicare soltanto una coscienza psi-
cologica (applicata), la seconda però solo una coscienza logica (pura)» (Anthr., AA VII
142, it. 25). Carattere logico e formale della appercezione vanno insieme. Nella cosid-
detta Rostocker Anthropologenachschrift Kant scrive ad esempio: «L’io in ogni giudizio
non è né una intuizione né un concetto e niente affatto una determinazione di un qual-
che oggetto, bensì un atto intellettuale del soggetto determinante in generale; e la co-
scienza di se stesso, l’appercezione pura stessa è dunque appartenente alla logica (senza
alcuna materia o contenuto)» (AA VII 398). «L’io della riflessione», si dice nella Antro-
pologia pragmatica, «non contiene in sé alcun molteplice, ed è in tutti i giudizi uno e me-
desimo, perché contiene soltanto questo elemento formale della coscienza (dieses Förm-
liche des Bewußtseins)» (AA VII 141-142, it. 24).
L’intelletto oscuro 115

consapevolezza effettiva deve conservarlo nell’appercezione tra-


scendentale. Questo può significare che le rappresentazioni oscure
come realtà psicologica possono far parte dell’esperienza in forza
del carattere formale, di pura possibilità dell’appercezione, in quan-
to è la possibilità di essere accompagnate da coscienza ciò che con-
ta. Questo potrebbe coincidere o meno con la possibilità effettiva di
diventare coscienti quale è suggerita da una Reflexion: «la facoltà
della coscienza è quella superiore. Per questo vi sono rappresenta-
zioni intellettuali che sono oscure, ma che possono diventare chia-
re»161. In altri termini, una rappresentazione oscura è parte di una
conoscenza oggettiva se è compatibile con le condizioni di una co-
scienza intenzionale, non sé è già per così dire “controllata” in que-
sta sua natura. D’altra parte, l’oggettività si crea nell’unico contesto
complessivo dello sfondo intenzionale della esperienza possibile:
come mostrano proprio i giudizi provvisori, essi restano preliminari
e riflettenti, restano sospesi in una soglia precedente la determina-
zione, se non passano attraverso il processo di Überlegung, di rifles-
sione. È solo questo, un processo che riconduce le rappresentazioni
alle proprie fonti legittime e ne individua dunque riflessivamente i
fondamenti, che fa sì che un giudizio acquisisca la solidità che gli
consente di rientrare nel contesto unitario esperienza162. A contare
qui non è tanto la fondatezza dal giudizio, ma il suo status: l’inserir-
si nell’esperienza cosciente e nelle sue regole ne fa un componente
del quadro dell’esperienza condivisa, quella che può riguardare una
coscienza universale qual è l’appercezione.
Dunque la rappresentazione oscura può orientare la cono-
scenza, può entrare in processi cognitivi di cui Kant riconosce e
sottolinea la complessità, ma costituisce esperienza nel momento in
cui viene sottoposta a regole di unificazione che sono in quanto tali
(dunque non psicologicamente, ma operativamente) consapevoli,
sono effettivamente fatte valere da una coscienza empirica che le
usa come proprie regole. Solo questo può spiegare il fatto che Kant
esclude la possibilità di giudizi da parte di enti che non hanno la
possibilità di principio dell’autocoscienza, come gli animali. La rap-

161 AA XV 663, R 1482 (1776-1791).C’è un’altra sottile distinzione nella R 1482:

«Coscienza delle rappresentazioni e coscienza del proprio stato di rappresentazione;


quest’ultimo può essere chiaro e tuttavia contenere rappresentazioni oscure» (AA XV
666). Uno stato di consapevolezza può essere permeato di rappresentazioni inconsce.
162 Cfr. C. LA ROCCA, Giudizi provvisori, cit.
116 Leggere Kant

presentazione oscura nell’animale non è diversa da quella umana,


presa in sé, ma quella umana può e deve rientrare nel contesto di
una rappresentazione accompagnata da coscienza, altrimenti la
possibilità strutturale, la regola indicata dall’appercezione trascen-
dentale non conterebbe nulla.
“Autocosciente” in un senso legato all’appercezione trascen-
dentale è allora non chi riconosce ad esempio nessi causali nella co-
noscenza di oggetti, ma chi può dire che un certo oggetto viene co-
nosciuto perché è inserito in un certo nesso causale. La coscienza
della sintesi su cui come abbiamo visto Kant tanto insiste è questa
coscienza attualizzabile dell’applicazione di regole che rendono
possibile l’esperienza, non certo il synthesis watching, l’osservazio-
ne psicologica di processi soggettivi che si stanno compiendo o si
sono appena compiuti, che Patricia Kitcher ha giustamente critica-
to163 (questo tipo di “accompagnamento” introspettivo non è né
quello che avviene di fatto né quello che Kant ha in mente). Nella
costruzione di una scena concettuale utilizzo regole che non “co-
nosco” letteralmente, che però riconosco nel mio modo di proce-
dere. Ad esempio so che qui c’è una casa, perché essa non si muo-
ve, si lascia identificare nello spazio, è in generale inserita in un
contesto causale e presenta certe caratteristiche. Non posso del tut-
to “ignorare” questi fondamenti del mio giudicare, perché attraver-
so di essi sono giunto a formulare quei giudizi. L’esperienza co-
sciente è quella che in linea di principio può esibire, per così dire
“al bisogno”, i propri fondamenti. Solo le rappresentazioni che
possono appartenere a questa sfera contribuiscono a costituire un
mondo obiettivo e condiviso. Questa possibilità formale – che per
Kant porta a legittimare particolari prefigurazioni dell’esperienza,
le categorie – è compatibile da un lato con l’esistenza di processi
intellettuali inconsci, dall’altro con l’assegnazione di un ruolo cen-
trale alla forma autocosciente dell’esperienza nella sua costituzione.
La maggior parte della nostra vita cognitiva, morale, estetica
si svolge nell’oscurità. Ma la nostra comune esperienza e la possibi-
lità di intendersi a suo riguardo dipende dalla nostra capacità di
avere accesso al piccolo punto illuminato che si trova in questo
spazio oscuro, e che chiamiamo coscienza, osservando da questo
luogo, angusto ma privilegiato, il mondo che ci circonda.

163 P. KITCHER, Kant’s Trascendental Psychology, cit., pp. 126 sgg.

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