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CAPITOLO 1: Definizione del diritto internazionale.

Precisazioni terminologiche

*Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della “Comunità degli Stati”. Tale complesso di norme si
forma al di sopra dello Stato scaturendo dalla cooperazione con gli altri Stati, e lo Stato stesso, con proprie norme, si
impegna a rispettarlo. Le norme internazionali si indirizzano in linea di massima agli Stati, creando cioè diritti ed obblighi
per questi ultimi. La caratteristica più rilevante del diritto internazionali odierno è data dalla circostanza che esso non
regola solo materie attinenti a rapporti interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli Stati (e raramente agli
individui), tende a disciplinare rapporti che si svolgono all’interno delle varie comunità statali. Simili rapporti interni
erano un tempo di quasi esclusiva pertinenza dell' ordinamento statale, mentre il diritto internazionale si occupava
prevalentemente di materie esterne: il diritto internazionale era insomma un diritto per diplomatici. La vita moderna è
dominata dall’internazionalismo; sul piano giuridico tale caratteristica si traduce nella tendenza a trasferire dal piano
nazionale a quello internazionale la disciplina dei rapporti economici commerciali/sociali. Il diritto internazionale è
sempre meno un diritto per diplomatici e sempre più un diritto destinato ad essere amministrato e applicato dagli
operatori giuridici interni, in primo luogo dai giudici internazionali.

* Il diritto internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in contrapposizione al diritto
internazionale privato. Col diritto internazionale privato non siamo più al di sopra dello Stato, ma al di sotto, nell’ambito
dell’ordinamento statale. Il diritto internazionale privato è formato da quelle norme statali che delimitano il diritto
privato di uno Stato stabilendo quando essa va applicato e quando invece i giudici di quello Stato sono tenuti ad
applicare norme di diritto privato straniere. Le norme di diritto internazionale privato italiane, sono state riformate
dallaL.128/1995, e molte di esse sostituite con norme prodotte dal diritto dell’UE. Contrapporre il diritto internazionale
pubblico al diritto internazionale privato ha scarso senso: non si tratta di due rami del medesimo ordinamento ma di
norme che appartengono ad ordinamenti totalmente diversi, l’ordinamento della comunità degli Stati il primo,
l’ordinamento statale il secondo. E’ vero che il diritto internazionale pubblico tende a regolare anche rapporti interni
allo Stato ed anche rapporti oggetti del diritto privato: ma ciò significa soltanto che lo Stato ha l’obbligo di tradurre le
norme internazionali che di simili rapporti di occupano in norme interne. Non essendovi omogeneità tra i due diritti, la
qualifica di pubblico, data al diritto della comunità degli Stati è superflua, se non addirittura erronea.

CAPITOLO2:Funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto internazionale

*Importante è distinguere tra funzione normativa, funzione di accertamento del diritto e funzione di attuazione coattiva
delle norme. Per quanto riguarda la funzione normativa occorre distinguere tra diritto internazionale generale e diritto
particolare, cioè tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano una ristretta cerchia di soggetti, di
solito i soggetti che direttamente hanno partecipato alla loro formazione. Alle norme di diritto internazionale generale fa
riferimento l’art.10 Cost. Tali norme generali sono le norme consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità
internazionale attraverso l’uso: di queste norme può affermarsi l’esistenza solo se si dimostra che esse corrispondono ad
una prassi costantemente seguita dagli Stati. La caratteristica della consuetudine è che essa ha dato luogo ad uno scarso
numero di norme. A parte le norme strumentali non sono molte le norme consuetudinarie materiali, ossia le norme che
direttamente impongono diritti ed obblighi agli Stati. Sebbene esistano anche consuetudini particolari, le tipiche norme
di diritto internazionale particolare sono quelle poste da accordi internazionali e che vincolano solo gli Stati contraenti.
Esse sono assai numerose e costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. Infatti è con i trattati che oggi
si tende a regolare molti rapporti della vita sociale. L’accordo internazionale è subordinato alla consuetudine così come
nel diritto statale il contratto è subordinato alla legge. Il fatto che gli accordi internazionali, che perseguono la
collaborazione tra gli Stati, sono molto più numerosi delle consuetudini dimostra che la comunità internazionale già
nelle norme giuridiche, già nella produzione di esse, ha particolarità del tutto diverse dalle comunità statali. Al di sotto
degli accordi si trova un’altra fonte di norme internazionali: i procedimenti previsti da accordi, detti anche fonti di terzo
grado. Tali procedimenti previsti da accordi, detti anche fonti di terzo grado. Tali procedimenti costituiscono fonti di
diritto internazionale particolare. Essi traggono la loro forza dagli accordi internazionali che li prevedono. E vincolano
soltanto gli Stati aderenti agli accordi medesimi. Il quadro delle fonti non comporta sempre l’inderogabilità delle norme
prodotte dalla fonte superiore da parte delle norme prodotte dalla fonte inferiore. La categoria delle fonti previste da
accordi riveste particolare importanza nel diritto internazionale odierno perché in essa si possono collocare molti degli
atti delle organizzazioni internazionali, ossia delle varie unioni fra Stati (ONU,UE ecc.). Il problema principale che esse
pongono è quello della sistemazione dei loro atti tra le fonti internazionali. In realtà le organizzazioni internazionali non
hanno di solito poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri: lo strumento di cui normalmente si servono è la
raccomandazione che ha appunto carattere di mera esortazione. Non mancano però casi in cui le organizzazioni
emanano decisioni vincolanti. Forza vincolante hanno tra l’altro proprio gli atti dell’UE. Le decisioni vincolanti degli
organi internazionali si trovano nella gerarchia delle fonti al di sotto degli accordi, in quanto proprio da un accordo (il cd.
Trattato istitutivo) ciascuna organizzazione prende vita.

* Passando alla funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, bisogna dire che essa è in prevalenza una
funzione di carattere arbitrale. L’arbitrato anche nel campo del diritto statale poggia sull’accordo tra le parti, accordo
diretto a sottoporre la controversia ad un determinato giudice. Anche la Corte internazionale di giustizia, il massimo
organo giudiziario nelle Nazioni Unite, ha funzione essenzialmente arbitrale. Non mancano peraltro tribunali
permanenti istituiti da singoli trattati, ed innanzi ai quali gli Stati contraenti possono essere citati da altri Stati contraenti
o anche da singoli individui. Anche in questi casi il fondamento della competenza del giudice resta pattizio, nel senso che
solo gli Stati che hanno accettato in un modo o nell’altro della competenza possono essere convenuti in giudizio: la
differenza col diritto statale, dove la sottoposizione alla funzione giurisdizionale è imposta dalla legge, è evidente.
Occorre però subito sottolineare che queste istanze giurisdizionali internazionali si sono andate enormemente
moltiplicando negli ultimi tempi; inoltre alcune Corti internazionali, come le Corti per i crimini commessi nella ex
Jugoslavia e in Ruanda, somiglino in tutto e per tutto alle Corti penali interne. Cosicché la comunità internazionale
manca di giudici, comincia a corrispondere sempre meno alla realtà.

*Per quanto riguarda i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperato per assicurare coattivamente l’osservanza
delle norme e per reprimerne la violazione, occorre riconoscere che siffatti mezzi sono quasi tuti riportabili alla categoria
dell’autotutela. Quella che è una eccezione in diritto interno diventa la regola nel diritto internazionale.

* Si discute se il diritto internazionale si un vero e proprio diritto. Lo scetticismo che si manifesta sia a livello scientifico
sia a livello dell’uomo della strada pone l’accento sulla mancanza di mezzi idonei a costringere i singoli Stati al rispetto
delle norme internazionali e delle stesse sentenze dei giudici internazionali che hanno un maggiore coefficiente di
osservabilità. Nessuno nega che delle norme si formino al di sopra dello Stato; ciò che si nega è che si tratti di un vero e
proprio fenomeno giuridico, capace di imporsi al singolo Stato. Una soluzione del problema dell’obbligatorietà non può
non passare attraverso gli operatori giuridici interni, cioè coloro che nell’ambito delle singole comunità statali hanno
istituzionalmente il compito di applicare e far rispettate il diritto, in primo luogo i giudici ed i pubblici funzionari di ogni
ordine e grado. Gli ordinamenti statali prevedono che il diritto internazionale sia osservato al pari del diritto interno: in
Italia i trattati stipulati sono normalmente oggetto di una legge ordinaria che ne ordina l’applicazione. Così stando le
cose, l’osservanza del diritto internazionale riposa sulla volontà degli operatori giuridici interni diretta ad utilizzare, fino
al limite massimo di utilizzabilità, gli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza, e quindi
a far prevalere per questa via le istanze internazionalistiche su quelle nazionalistiche. Il rispetto del diritto internazionale
è assicurato nei limiti in cui si determina tra gli operatori giuridici interni dei vari paesi quella solidarietà internazionale
che tanto spesso manca a livello dei Governi. Tutto ciò non è altro che una formulazione in termini moderni della tanto
critica tesi sostenuta dalla dottrina positivistica tedesca del XIX secolo la quale considerava il diritto internazionale come
il frutto di un’autolimitazione del singolo Stato. Nulla è in grado di negare l’eterna verità insita nella teoria
dell’autolimitazione e cioè il fatto che la comunità internazionale nel suo complesso non dispone dimezzi giuridici per
reagire efficacemente ed imparzialmente in caso di violazione di norme internazionali. Ciò che occorre superare è l’idea
dell’arbitrio del singolo Stato insita nella teoria dell’autolimitazione e perfettamente conforme del resto alle concezioni
politiche correnti in Germania all’epoca in cui la teoria venne formulata. L’applicazione del diritto internazionale
adopera dei giudici italiani è riscontrabile mediante una scorsa ai repertori di giurisprudenza. Non mancano lacune ed
errori spesso frutto di una scarsa conoscenza sia degli strumenti giuridici interni adoperabili per raggiungere soluzioni
internazionalistiche sia di norme internazionali appropriate. L’applicazione del diritto internazionale non può essere
spinto all’interno dello Stato fino al punto di compromettere valori fondamentali della comunità statale, di solito
costituzionalmente garantiti.

*La cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare compiutamente al diritto internazionale il suo valore
e la sua forza in quanto fenomeno giuridico. Ma il diritto internazionale può essere anche considerato avendosi riguardo
esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale, al livello delle relazioni internazionali. Da
questo punto di vista esso appare piuttosto come un punto di riferimento e di sostegno di una sana diplomazia. Il diritto
internazionale nell’esplicazione di una simile funzione, si presenta come una sorta di morale positiva internazionale.

CAPITOLO 3: Stato come soggetto di diritto internazionale. Altri soggetti e presunti tali

*Per quanto riguarda la definizione dello Stato, e più precisamente dello Stato come soggetto o destinatario di norme
internazionali, come membro della comunità internazionale, l’unica alternativa utile ai fini dell’individuazione dello
Stato come soggetto internazionale è quella tra Stato-comunità, da una parte, e Stato-organizzazione, o Stato-apparato
o Stato-governo, dall’altra. Da un lato si pensa ad una comunità umana stanziata su di una parte della superficie
terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita (Stato-comunità), dall’altro s’intende l’insieme dei governanti,
dall’insieme cioè degli organi che esercitano ed in quanto esercitano il potere di imperi o sui singoli associati (Stato-
organizzazione o Stato-governo). Entrambi questi fenomeni sono reali. Una visione complessiva della vita di relazione
internazionale porta ad avallare la tesi secondo cui la qualifica di soggetto di diritto internazionale spetti allo Stato-
organizzazione. E’ infatti all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la soggettività internazionale
dello Stato al criterio della effettività, ossia dell’effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi statali che
partecipano alla formazione delle norme internazionali; e sono infine gli organi statali che, con la loro condotta, possono
generare la responsabilità internazionale dello Stato. Quando si parla di organi statali si intende far riferimento a tutti gli
organi, e quindi a tutti coloro che partecipano dell’esercizio del potere di governo nell’ambito del territorio: non si tratta
dei soli organi del Potere esecutivo e neppure dei soli organi del potere centrale. Anche le amministrazioni locali o gli
enti pubblici minori che, hanno di solito una personalità giuridica distinta da quella dello Stato, sono invece considerati
per consuetudine come componenti l’organizzazione dello Stato in quanto soggetto di diritto internazionale. In ogni caso
la partecipazione all’esercizio del potere di governo che contraddistingue la qualità di organo deve trovare comunque il
suo fondamento nell’ordinamento giuridico statale o in un ordinamento da questo derivato.

*Il requisito della effettività è essenziale. I Governi che non governano non hanno da gestire interessi di rilievo sul piano
internazionale. Va pertanto negata la soggettività dei Governi in esilio (fenomeno che ebbe le sue manifestazioni più
significative durante la seconda guerra mondiale) nonostante ai loro componenti siano unilateralmente riconosciute
dallo Stato ospitante, per motivi politici, certe prerogative sovrane. Analogo fenomeno è quello delle organizzazioni, o
fronti, o comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero. Tipico esempio di Comitato di
liberazione all’estero è stato per tanti anni l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La soggettività della
Palestina è ancora dubbia oggi, dopo i vari accordi intervenuti tra l’OLP ed Israele per il graduale passaggio di buona
parte dei territori palestinesi occupati da Israele sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Altro caso di soggettività
dubbia è quello della Somalia la quale dal 1991 è dominata per singole zone da “signori della guerra” ed è retta oggi da
un debole governo federale provvisorio.

*Altro requisito necessario è quello dell’indipendenza o sovranità esterna. Occorre cioè che l’organizzazione di governo
non dipenda da un altro Stato.[In quanto difettano del requisito dell’indipendenza, non sono da considerare come soggetti di diritto
internazionale gli Stati membri di Stati federali. Lo Stato federale, che è uno stato unico legislativamente e amministrativamente decentrato, non
va confuso con la confederazione">Confederazione, che è un’unione (internazionale) fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani, creata per
scopi di comune difesa è caratterizzata da un organo assembleare (talvolta detto Dieta), rappresentativo di tutti i membri, con ampi poteri in
materia di politica estera. La Confederazione è un fenomeno che appartiene prevalentemente al passato e lo stadio confederale ha spesso
costituito la fase di passaggio verso la formazione di uno Stato federale. E’ più difficile che si verifichi il contrario. Ciò perché la confederazione è
pur sempre dotata di un organo che ha ampi poteri decisionali nei confronti degli Stati membri in materia di politica estera e di difesa; ed è poco
probabile che dei soggetti che hanno appena deciso di sciogliersi intendano comunque restare sottoposti ad un potere decisionale comune sia pure
in settori limitati].
Come regola generale non può che farsi leva su di un dato formale: è indipendente e sovrano lo Stato il
cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non dall’ordinamento
giuridico, dalla Costituzione di un altro Stato. Ciò spiega perché non influisca sulla soggettività la dimensione dello Stato:
il dato formale non può invocarsi, e deve cedere difronte al dato reale, quando in fatto l’ingerenza da parte di un altro
Stato nell’esercizio del potere di governo è totale, e quindi il Governo indigeno è un governo “fantoccio” e come tale
privo di soggettività internazionale. Non indipendente è da considerare il Kosovo nonostante la Dichiarazione di
indipendenza proclamata dalla maggioranza albanese nel 2008, dichiarazione per altro contestata da vari paesi.

*L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale diviene
soggetto internazionale in modo automatico. Non è infatti necessario che esso sia riconosciuta dagli altri Stati. Per il
diritto internazionale il riconoscimento è un atto meramente lecito, e meramente lecito è il non-riconoscimento:
entrambi non producono conseguenze giuridiche. Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica; esso rivela
null’altro che l’intenzione di stringere rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanze mediante la conclusione di
accordi. La maggiore o minore intensità che si intende imprimere alla collaborazione viene di solito sottolineata
rispettivamente con la formula del riconoscimento de jure, cioè pieno, e quella del riconoscimento de facto. Quando si
nega al riconoscimento valore giuridico si viene a respingere soprattutto la tesi che esso sia costituito dalla personalità
internazionale. Si viene cioè a respingere la tesi secondo cui gli Stati preesistenti possano esercitare nei suoi confronti,
appunto mediante il riconoscimento, una sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale. Gli Stati
preesistenti tendono a giudicare se lo Stato nuovo “meriti” o meno la soggettività, ancorando il loro giudizio ad un
certo valore o ad una certa ideologia; in epoca attuale si tende da varie parti a ritenere che non siano da riconoscere
come soggetti i Governi affermatisi con la forza, ma tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali per il
semplice motivo che gli Stati divergono poi sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto. I requisiti necessari affinché
lo Stato acquisti la personalità internazionale sono quelli dell’effettività e dell’indipendenza. Resta da chiedersi se sono
anche sufficienti oppure se ne occorrono altri. Dobbiamo limitarci ai requisiti che oggi più frequentemente ricorrono, e
cioè che lo Stato nuovo non costituisca una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, goda del consenso del
popolo, espresso attraverso libere elezioni, e non violi i diritti umani. Questi requisiti se svincolati dal riconoscimento, se
considerati non come requisiti ai quali uno Stato preesistente subordina l’instaurazione di rapporti di amicizia con una
Stato nuovo ma come presupposti della personalità internazionale, e quindi come presupposti che devono sussistere
non solo affinché la personalità si acquisti ma anche affinché la personalità non si perda, non trovano alcun riscontro
nella realtà.

*Una volta chiarito che un’organizzazione di governo diviene automaticamente soggetto quando esercita in modo
effettivo ed indipendente il proprio potere su di una comunità territoriale, resta anche risolto il problema della
soggettività del Governo insurrezionale. Gli insorti non sono certo soggetti di diritto internazionale, ma sudditi ribelli nei
confronti dei quali il Governo legittimo può prendere i provvedimenti che considera più opportuni. La dottrina
tradizionale tendeva a limitare la soggettività del Governo insurrezionale sia nel senso di subordinarla al riconoscimento
da parte degli Stati terzi sia nel senso di circoscriverla alle norme del diritto internazionale di guerra.

*Oltre agli Stati esistono altri soggetti di diritto internazionale, infatti, la più gran parte della dottrina contemporanea
parla di una personalità degli individui, persone fisiche o giuridiche. L’opinione si ricollega strettamente alla tendenza
del diritto internazionale odierno ad occuparsi di materie interne alle singole comunità statali, ed anche a proteggere
l’individuo nei confronti del proprio Stato. Essa trae spunto soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali
che obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo. Si deve dire che sempre più spesso l’individuo può
ricorrere, se non vede riconosciuto il diritto, ad organi internazionali appositamente creati; alla tutela dell’interesse
individuale si accompagna così l’attribuzione all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto consuetudinario
fornisce ampia materia per sostenere la personalità internazionale degli individui: si pensi ai crimina juris gentium,
categoria in sui si fanno rientrare tra l’altro i crimini di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e dunque quei
reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente assegnatigli. La tesi che
promuove l’individuo a soggetto di diritto nell’ambito della comunità degli Stati non è proprio da tutti accolta. Per
quanto riguarda i diritti e gli obblighi che discendono dai trattati istitutivi e dagli atti delle organizzazioni internazionali ivi
compresa l’Unione europea, non si nega che di essi siano effettivamente titolari gli individui, ma se ne contesta la natura
di veri e propri diritti ed obblighi internazionali. Per quanto riguarda invece i diritti e gli obblighi che non si ricollegano al
fenomeno dell’organizzazione internazionale, se ne contesta la stessa titolarità da parte degli individui. Destinatari delle
norme consuetudinarie o pattizie sarebbero sempre e soltanto gli Stati. Gli obblighi che sugli Stati graverebbero di
trattare in un certo modo l’individuo sussisterebbero sempre e soltanto nei confronti degli altri Stati: di tutti gli altri
Stati, se si tratta di diritto consuetudinario, o degli altri Stati contraenti, se si tratta di diritto convenzionale. Solo
nell’ambito degli ordinamenti dei singoli Stati si produrrebbero le situazioni giuridiche individuali corrispondenti a
quanto previsto sul piano interstatale. Molte norme internazionali, o di origine internazionale, si prestano ad essere
interpretate come regole che si indirizzano direttamente agli individui. E’ innegabile inoltre che la protezione di interessi
individuali comporta in vari casi un potere di azione innanzi ad organi internazionali ed è vero anche, però, che la
comunità internazionale resta ancora strutturata come una comunità di governanti e non di governati, che gli individui
continuano ad essere in larga misura sottoposti allo Stato e che la collaborazione degli apparati statali è ancora
indispensabile perché gli obbiettivi che le norme sull’individuo si propongono siano raggiunti. Molto dipende
dall’importanza che si attribuisce al fatto che l’individuo non ha la possibilità di avvalersi direttamente di mezzi coercitivi
internazionali per costringere gli Stati a rispettare i suoi diritti.

*Numerose sono anche le norme internazionali che tutelano le minoranze assurgano a soggetti di diritto internazionale,
sia pure limitatamente ai diritti loro riconosciuti. Lo stesso deve dirsi di quella particolare specie di minoranza costituita
dalla popolazione indigena, presente in vari Paesi con varie rivendicazioni. Sempre più spesso si parla di “diritti dei
popoli” all’autodeterminazione a disporre liberamente delle proprie risorse naturali, diritto di tutta l’umanità a sfruttare
le risorse dei fondali oceanici, ecc. Per la maggior parte di questi diritti, il termine popolo è usato solo in modo enfatico e
può essere tranquillamente sostituito dal termine Stato. Qui il popolo potrebbe venire in rilievo dal punto di vista
giuridico solo se si partisse dall’idea che lo Stato come soggetto di diritto internazionale non sia lo Stato-apparato, ma lo
Stato-comunità, non si identifichi con i governanti ma con i governati. Il discorso è diverso quando di un diritto dei
popoli di parla in relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, o dei governati come
contrapposti ai governanti, che tendono a tutelare il popolo rispetto all’apparato che lo governa. A parte i diritti umani
l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di autodeterminazione dei popoli. Il principio di
autodeterminazione è oggi una regola di diritto internazionale positivo. Esso non solo è contenuto in testi convenzionali,
come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma ha acquistato carattere consuetudinario attraverso una prassi che si è
sviluppata ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta dell’ONU sia incerte solenni
Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione, come la Dichiarazione del 1960 sull’indipendenza
dei popoli coloniali e quella del 1970 sulle relazioni amichevoli tra gli Stati. Anche la CIG ne ha riconosciuto l’esistenza
come principio consuetudinario sia in alcuni pareri, tra cui il parere sulla Namibia, sul Sahara occidentale e sul Kossovo,
sia in una sentenza dove lo ha definito addirittura come “uno dei principi essenziali del diritto internazionale
contemporaneo”. Il principio di autodeterminazione non ha ancora oggi un ampio campo di applicazione. Esso si applica
soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale, in
secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza. L’autodeterminazione comporta il diritto
dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti, di associarsi od integrarsi con altro Stato
indipendente, di scegliere comunque liberamente il proprio regime politico. Affinché il principio di autodeterminazione
sia applicabile, occorre inoltre che, salvo il caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non risalga oltre l’epoca
in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda
guerra mondiale. Non può dunque parlarsi di un diritto alla autodeterminazione dei territori che furono oggetto di
occupazioni od annessioni in seguito alla prima guerra mondiale. Neppure poteva parlarsi di un diritto di questi Paesi
all’autodeterminazione. [L’applicazione del principio di autodeterminazione presenta poi notevoli difficoltà quando si tratta di territori nei
quali il Governo straniero si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di “aiuto” più o meno fraterno. In questo
caso, anche quando la presenza del Governo straniero non sia tale da far scadere il Governo locale a mero Governo fantoccio, il principio di
autodeterminazione si applichi nel senso di imporre ad entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. A proposito
dell’autodeterminazione dei territori coloniali, occorre anche tenere conto di una regola che si è formata nell’ambito dell’ONU e che attribuisce
all’Assemblea generale la competenza a decidere, con effetti vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte dei territori medesimi. L’assemblea deve
però conformarsi al principio di autodeterminazione; altrimenti la sua decisione è illegittima e senza efficacia. Il principio di autodeterminazione dei
territori coloniali deve poi coordinarsi con il principio dell’integrità territoriale, e la necessità del coordinamento si impone anche all’Assemblea
generale dell’ONU nelle sue decisioni. In base al principio dell’integrità territoriale occorre tenere conto dei legami storico-geografici del territorio
da decolonizzare con uno Stato contiguo formatosi anch’esso per decolonizzazione. La sfera di applicazione di questo principio è piuttosto incerta:
il principio di autodeterminazione deve cedergli il passo solo quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma “importata” dalla
madre patria. In ogni caso dalla combinazione dei due principi non nasce l’obbligo dello Stato detentore di trasferire il territorio allo Stato contiguo,
bensì quello di concordare una soluzione orientata verso la decolonizzazione ].E’
da escludere invece che l’autodeterminazione possa
essere intesa nel significato che ad essa si attribuisce dal punto di vista politico. Bisogna guardarsi dal ritenere che il
diritto internazionale richieda che tutti i Governi esistenti sulla tessa godano del consenso della maggioranza dei sudditi
e siano da costoro liberamente scelti (autodeterminazione interna). E’ innegabile che la grande maggioranza degli Stati
tenda a considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia intesa nel senso di legittimazione democratica
dei Governi. In effetti, le prese di posizione a favore della democrazia non sono seguite da una seria e generalizzata lotta
contro i Paesi non democratici. In più, una genuina inclinazione della comunità internazionale per la democrazia
dovrebbe di per sé comportare una democratizzazione della stessa comunità; questa, invece, è come sempre dominata
da una oligarchia, che sceglie i Paesi a cui chiedere, o imporre con la forza, la democrazia a seconda dei propri interessi.
Occorre poi guardarsi dall’interpretare il principio di autodeterminazione come capace di avallare le aspirazioni
secessionistiche di regioni, province o circoscrizioni etnicamente distinte dal resto del paese. Come è stato dimostrato
però, non ha giuridicamente fondamento la secessione come rimedio da praticare quando una minoranza è sottoposta a
discriminazioni intollerabili o simili. Il diritto internazionale generale impone dunque allo Stato che governa un territorio
non suo di consentirne l’autodeterminazione. Può anche sostenersi che, di fronte alla violazione del principio, gli altri
Stati siano tenuti ad adottare delle misure di carattere sanzionatorio, come il disconoscimento di ogni effetto
extraterritoriale agli atti di governo emanati nel territorio. Lecito è poi considerato l’appoggio fornito ai movimenti di
liberazione nazionale. In realtà come nel caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale intercorrono in modo
esclusivo tra gli Stati. E’ nei confronti di tutti gli Stati o della comunità internazionale nel suo complesso, che l’obbligo
per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste; è nei confronti della comunità internazionale che
gli Stati hanno l’obbligo di negare efficacia extraterritoriale agli atti di governo compiuti nel territorio dominato; è nei
rapporti tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti di liberazione non può essere
considerato come illecito. Il principio di autodeterminazione è legato ad una determinata epoca storica, l’epoca
dell’indipendenza dei Paesi in sviluppo. Esso è servito ad assicurare il dominio di ciascun popolo sul, e nell’ambito, del
proprio territorio.

* Non si può negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle associazioni fra Stati dotate di organi
per il perseguimento degli interessi comuni. La personalità delle organizzazioni è un dato non più discutibile della prassi
internazionale odierna relativa agli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività: tali
accordi vengono considerati come produttivi di diritti ed obblighi proprio delle organizzazioni, restando senza effetti
sulla sfera giuridica degli Stati membri. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è stata nettamente
affermata dalla CIG nel parere sull’interpretazione dell’accordo tra l’OMS e l’Egitto. [ Non bisogna confondere la personalità
internazionale delle organizzazioni con la personalità di diritto interno delle organizzazioni medesime. Se un’organizzazione internazionale acquista
immobili e contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di questo Stato a stabilire entro che limiti essa ha la capacità per farlo.
Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi
ordinamenti, e spesso dettano norme anche con riguardo sia al contenuto ed ai limiti di siffatta capacità sia agli organi competenti a rappresentare
l’organizzazione nei rapporti di diritto interno; se invece il problema sorge in uno Stato terzo, come tale non vincolato dal trattato istitutivo,
occorrerà far capo alle norme che nell’ordinamento di quello Stato regolano la capacità giuridica degli enti collettivi stranieri, ed al diritto
internazionale cisi potrà riferire solo se, siano eventualmente applicabili norme di diritto internazionale generale.]Altro ente del tutto indipendente
dagli Stati, ed attivo nell’ambito della comunità internazionale, è la Chiesa cattolica. Ad essa la personalità internazionale è stata sempre per
tradizione riconosciuta e si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali ma anche in tutte le situazioni giuridiche che
presuppongono il governo di una comunità territoriale.[Una parte della dottrina italiana, seguita dalla giurisprudenza del nostro Paese, riconosce
qualità di soggetto internazionale anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. In effetti
esso intrattiene rapporti diplomatici con molti paesi del Terzo mondo e, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia, con i Paesi
dell’Europa orientale. L’Ordine di Malta ha anche ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite, qualità che condivide con altri numerosi
Enti di rilievo internazionale. L’attribuzione di un diploma di soggetto internazionale all’Ordine di Malta non farebbe male a nessuno se esso non
fornisse in Italia la giustificazione per il riconoscimento all’Ordine di tutte le immunità che spettano agli Stati stranieri ed ai loro organi. Soprattutto
essa ha consentito all’Ordine di sottrarsi al Fisco, in relazione ai beni posseduti in Italia, nonché alla giurisdizione civile italiana per le controversie
relative ai rapporti con i propri dipendenti, con la conseguente compressione di diritti individuali costituzionalmente garantiti].

LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI


CAPITOLO 4: Dir. Internazionale generale. Le consuetudini ed i suoi elementi costitutivi

*Le norme di diritto internazionale generale che vincolano cioè tutti gli Stati, hanno natura consuetudinaria. La nozione
di consuetudine secondo il diritto internazionale non differiscono dalla nozione di consuetudine elaborata dalla teoria
generale del diritto ed utilizzata anche nel diritto interno. La consuetudine internazionale è costituita da un
comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della
necessità del comportamento stesso. Due sono dunque gli elementi che caratterizzano questa fonte: la diurnitas e
l’opinio juris sive necessitatis. Una simile concezione dualistica, non ha avuto però unanimità di consensi in dottrina. Si è
sostenuto da parte di più autori che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola prassi, in quanto, ammettendosi la
necessità dell’opinio juris, si arriverebbe inevitabilmente a considerarla nata da un errore. L’opinio juris non sarebbe
dunque uno degli elementi bensì l’effetto psicologico dell’esistenza della norma, presupponendo pertanto che questa si
sia già formata. La critica alla concezione dualistica della consuetudine ha il difetto di fondarsi su argomenti soprattutto
logici. Se da un punto di vista detti argomenti possono anche essere convincenti, determinante in senso contrario ci
sembra l’osservazione della prassi internazionale. Se si esaminala prassi dei tribunali internazionali, si può avere
conferma della tesi secondo la quale entrambi gli elementi debbono venire in rilievo. Anche la giurisprudenza interna è
favorevole alla concezione dualistica. A parte poi la prassi giurisprudenziale, sempre gli Stati si sono pronunciati nel
senso che l’opinio juris fosse indispensabile per l’esistenza della consuetudine. Molto spesso gli Stati, per evitare che la
sola prassi crei diritto, si affrettano a dichiarare che un certo comportamento che essi intendono tenere è dettato da
mere ragioni di cortesia, oppure non può essere considerato come capace di “creare un precedente” ai fini della
formazione di una norma consuetudinaria o dell’abrogazione di una norma preesistente. Non bisogna sopravvalutare
l’obiezione secondo cui ammettendosi l’opinio juris, la consuetudine riposerebbe sull’errore. In realtà si parla di opinio
juris sive necessitatis: l’obbligatorietà si confonde così con la necessità, cioè con la doverosità sociale. Se non si facesse
leva sull’opinio juris sive necessitatis, mancherebbe la possibilità di distinguere tra mero “uso”, determinato ad es. da
motivi di cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche. Si è a ciò obiettato che la
distinzione riposerebbe su altri elementi e precisamene sul fatto che il mero uso consisterebbe di contegni poco
importanti dal punto di vista sociale, come tali inidonei a produrre norme giuridiche. Ma si può controbbiettare che certi
usi dettato da motivi di cortesia in consuetudini giuridiche, lo si deve proprio e soltanto alla circostanza che gli Stati non
sono convinti della loro obbligatorietà. L’esistenza o meno dell’opinio juris sive necessitatis è poi il colo criterio
utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale. Se si esamina la giurisprudenza interna,
ci si rende conto che i trattati costituiscono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella ricostruzione di una regola
consuetudinaria internazionale. Ma i trattati possono essere interpretati sia come conferma di norme consuetudinarie,
sia come creazione di norme nuove e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo una indagine
sull’opinio juris sive necessitatis può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di tratti come prova
dell’esistenza di unanorma consuetudinaria. L’elemento dell’opinio juris sive necessitatis serve infine a distinguere il
comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, dal comportamento che
costituisce invece mero illecito internazionale. Il tema è assai importante e può essere riallacciarlo ad un dibattito
dottrinale che si è svolto negli Stati Uniti, originato da alcuni casi giurisprudenziali nei quali si era tra l’altro posto il
problema se le Corti statunitensi potessero censurare l’eventuale violazione di norme di diritto consuetudinario
internazionale da parte del Governo. Il problema si risolve se si tiene presente che il procedimento di formazione del
diritto consuetudinario necessita dell’opinio juris sive necessitatis. E’ chiaro cioè che l’Esecutivo può violare il diritto
consuetudinario se dimostra che detta violazione sia sorretta dal convincimento della sua doverosità sociale.

*Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas, il problema del tempo di formazione della consuetudine non si presta
a soluzioni precise ed univoche. Se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della norma è necessario, e se vero
che certe norme consuetudinarie hanno carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel
volgere di pochi anni. In realtà il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri
della comunità internazionale; esso resta però un fattore ineliminabile, essendo le consuetudini istantanee, non solo
una contraddizione in termini ma anche un fenomeno che non può generare norme giuridiche per la mancanza di quel
carattere di stabilità che è insito nel diritto non scritto.

*A proposito invece degli organi dello Stato che concorrono nel procedimento di formazione della norma
consuetudinaria, si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione da parte di tutti gli organi statali e non dei
soli organi detentori del potere estero, Possono concorrere pertanto non solo atti esterni degli Stati, ma anche atti
interni. Nella formazione di certe norme consuetudinarie è la giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo come
nel campo delle immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile o delle immunità degli agenti diplomatici e degli
altri organi statali ai quali pure limitare immunità degli Stati dalla giurisdizione civile o delle immunità degli agenti
diplomatici e degli altri organi statali ai quali pure limitate immunità spettano. L’attuale norma sulla immunità degli Stati
dalla giurisdizione civile, che vieta l’esercizio della giurisdizione relativamente agli atti di natura pubblicistica ma
l’ammette per quelli di natura privatistica, si è andata formando a partire dalla prima guerra mondiale proprio ad opera
della giurisprudenza divari Paesi e sotto la spinta iniziale della giurisprudenza italiana e belga. Anche nel campo delle
cause di invalidità e di estinzione dei trattati la giurisprudenza può contribuire all’evoluzione del diritto consuetudinario;
ed è loro compito promuoverne la revisione. Spesso non c’è sintonia, nell’ambito dello stesso Stato, tra il
comportamento delle corti e quello che il potere esecutivo tiene sul piano internazionale. La mancanza di sintonia
cresce via via che le corti interne si liberano della dipendenza dai Governi dei loro Paesi.

* La consuetudine crea diritto generale e come tale si impone a tutti gli Stati, abbiano o meno questi ultimi partecipato
alla sua formazione. Secondo l’insegnamento comune le norme consuetudinarie si impongono anche agli Stati di nuova
formazione. Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione, i
quali costituiscono la maggioranza degli attuali membri della comunità internazionale. Secondo loro il vecchio diritto
internazionale si è formato in epoca coloniale, rispondendo ad esigenze ed interessi del tutto diversi da quelli del nostro
tempo, e non può pretendere pertanto di vincolare uno Stato che nasca oggi con esigenze ed interessi opposti. Da qui la
pretesa di rispettare soltanto quelle norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettate. Il problema della
contestazione del diritto consuetudinario va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione provenga da un
singolo Stato o da un gruppo di Stati. Nel primo caso, la contestazione sembra irrilevante e a maggior ragione non
occorra la prova della accettazione della norma consuetudinaria da parte dello Stato nei cui confronti questa è invocata.
Se tale prova fosse necessaria la consuetudine dovrebbe configurarsi come accordo tacito. Ma verrebbe a negarsi la
stessa idea di un diritto internazionale generale e comune ai vari soggetti internazionali, idea invece senta nell’ambito
della comunità internazionale. Diversa è invece la soluzione nel secondo caso: quando la contestazione proviene di un
gruppo di Paesi, essa non può essere ignorata. La disgregazione del gruppo socialista semplifica le cose. Ma quando una
regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più gran parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non
solo non è opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola
consuetudinaria. E’ opportuno notare che i Paesi in sviluppo tendono a sopravvalutare l’importanza di tutta una serie di
risoluzioni delle organizzazioni internazionali a carattere universale, particolarmente dell’Assemblea generale delle
Nazioni Unite. Formalmente dette risoluzioni non hanno forza vincolante e le norme in esse contenute possono
acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali oppure se vengono trasfuse in
convenzioni internazionali. Non a caso si dice che le risoluzioni delle organizzazioni internazionali appartengono al diritto
morbido, termine con il quale si salva la loro non obbligatorietà. Il che non esclude che il soft law, e soprattutto le
raccomandazioni degli organi delle Nazioni Unite possono costituire l’avvio alla formazione di norme consuetudinarie o
la premessa della conclusione di accordi internazionali, dal contenuto corrispondente.

*Oltre alle norme consuetudinarie generali si afferma di solito l’esistenza di consuetudini articolari, cioè vincolanti una
ristretta cerchia di Stati; l’esempio classico è costituito dalle consuetudini regionali o locali. La figura della consuetudine
particolare è da ammettersi e la sua applicazione più rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi a
modifica o abrogazione delle regole poste da un determinato trattato: è possibile, ed in fatto avviene, che le parti
contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. La idoneità delle norme
consuetudinarie può suscitare qualche riserva solo allorché si tratti di organizzazioni internazionali che comprendono un
organo giurisdizionale destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo. Anche la consuetudine particolare è per
definizione un fenomeno di gruppo, come tale non scomponibile in relazione ai singoli Stati. In altri termini, la
consuetudine regionale risulta pur sempre dai contegni rilevabili in seno ad un gruppo di Stati, senza che sia necessario
indagare o provare che tutti gli Stati appartenenti al gruppo abbiano effettivamente contribuito a formarla.

*Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia, da intendersi come una
forma di interpretazione estensiva, consiste nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede, ma i cui
caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto. Nell’ambito del diritto consuetudinario il ricorso all’analogia
ha senso soprattutto con riguardo a fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicare a rapporti
della vita socialeche non esistevano all’epoca della formazione della norma.

CAPITOLO 5: I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili

* L’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia annovera tra le fonti i “principi generali di diritto
riconosciuti dalle Nazioni civili”. Secondo l’interpretazione che si dà all’art.38 si tratterebbe di una fonte utilizzabile là
dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto
costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario, ed andrebbe
effettuato prima di concludere che obblighi internazionali non sussistono in ordine ad un caso concreto. L’art. 38
codificherebbe una prassi sempre seguita nei rapporti internazionali e rilevante appunto un uso più o meno ampio di
principi generali, particolarmente di quei principi di giustizia oppure soltanto di logica giuridica. Senza dubbio ogni
ordinamento giuridico ammette il ricorso ai principi generali in mancanza di norme specifiche e non si vede perché lo
stesso debba ammettersi nell’ambito dell’ordinamento internazionale; qui il problema è però complicato dalla
circostanza che i principi non sarebbero ricavati per astrazione dalle stesse norme internazionali, ma prelevati dagli
ordinamenti degli Stati “civili”. Sono due le condizioni o requisiti che debbono sussistere perché principi statali possano
essere applicati a titolo di principi generali di diritto internazionale. Occorre anzitutto che essi esistano e siano
uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati: in secondo luogo occorre che essi siano sentiti come obbligatori
o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei
comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul piano internazionale.
Così intesi, i principi generali non costituiscono altro che una categoria sui generis di norme consuetudinarie
internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati
all’interno dei rispettivi ordinamenti. Per quanto riguarda l’opinio juris necessitatis, essa è presente nelle vecchie regole
di giustizia e di logica giuridica: sono regole intese da tutti gli organi dello Stato come aventi un valore universale ed
applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e quindi anche in quello internazionale. Per ogni altra regola uniforme di
diritto interno occorrerà volta a volta accertare l’opinio juris dal punto divista internazionale. Nell’accertamento
dell’opinio juris a livello internazionale è necessario molto rigore, onde non pervenire alla conclusione che qualsiasi
uniformità di norme generali statali crei diritto internazionale generale. Con questa riserva, la categoria dei principi
generali di diritto comuni agli ordinamenti statali è idonea ad aprire prospettive interessanti di ricostruzione di norme
internazionali. A parte le vecchie regole di giustizia e di logica giuridica, essa può costituire una delle strade per
affermare la natura internazionalistica di quei principi che mirano a salvaguardare la dignità umana e ad attuare una
migliore giustizia sociale. Lo Stato, mentre ha una serie di obblighi circa il trattamento degli stranieri, è
internazionalmente libero di trattare i propri sudditi come meglio crede. Questa opinione corrisponde sempre meno alla
realtà se riferita alle norme convenzionali che si occupano ormai di tanti aspetti della vita che si svolge all’interno della
comunità statale. La stessa opinione è ancora vera per il diritto consuetudinario, salve talune eccezioni.[ Il ricorso ai principi
generali di diritto è particolarmente attuato nella materia della punizione di crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali, in
particolare dei tribunali per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda, i quali vi hanno fatto ricorso per colmare lacune delle norme
internazionali assai vistose nella materia. Ciò è avvenuto in tema di cause di esonero dalla responsabilità o per affermare regole universali di
giustizia].Nella
prospettiva qui delineata, i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali finiscono col perdere
la loro caratteristica di principi destinati soltanto a colmare le lacune del diritto internazionale; il loro rapporto con le
vere e proprie norme consuetudinarie viene ad essere il normale rapporto tra norme di pari grado.

*Uno dei requisiti per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia
uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati. Ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può
consentire al giudice di uno Stato di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esita nell’ordinamento
statale; ciò sempre che l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale.

*Oltre alla constatazione che un principio sia uniformemente seguito nella più gran parte degli ordinamenti statali e che
al contempo esso sia sentito internazionalmente come obbligatorio, non sembra vi siano altre condizioni o limiti alla
ricostruzione di un principio generale di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili. Non sono configurabili come tali i principi
che disciplinano situazioni tipiche del diritto interno. Una simile limitazione quanto al contenuto dei principi generali sia
inammissibile in una moderna concezione del diritto internazionale.

CAPITOLO 6: Altre presunte norme generali non scritte. L’equità

*Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categoria di norme generali non scritte, i
principi. Il più vigoroso sostenitore della categoria dei principi è il Quadri. Secondo l’illustre autore i principi
costituirebbero le norme primarie del diritto internazionale, sarebbero espressione immediata e diretta della volontà del
corpo sociale, e comprenderebbero quelle norme volute e imposte dalle forze prevalenti in un dato momento storico
nell’ambito della comunità internazionale. Tra i principi alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si limiterebbero a
istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente
rapporti fra Stati. I principi formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda. L’osservanza delle
consuetudini e degli accordi si spiegherebbe in quanto voluta e imposta dalle forse prevalenti nell’ambito della
comunità internazionale. In tal modo consuetudine ed accordo sarebbero entrambi fonti di secondo gradi. Dalla dottrina
comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali, la consuetudine è considerata invece come fonte primaria,
mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza dalla consuetudine, cioè che la norma pacta sunt
servanda sia una norma consuetudinaria. La concezione del Quadri ci sembra non accettabile. Non sono i principi formali
a suscitare riserve: se l’esame della prassi internazionale porta a constatare la formazione, al di sopra dello Stato, di
norme consuetudinarie e di norme pattizie, questo fenomeno può anche descriversi, ponendo sia l’una che l’altra fonte
sullo stesso piano e riportandole entrambe a due super-principi; il fatto, poi, che certe norme consuetudinarie hanno
carattere cogente, ossia non derogabili mediante accordo, potrebbe anch’esso spiegarsi sostenendosi che
l’inderogabilità sia sancita da un principio superiore. Ciò che non convince e porta a respingere l’intera categoria dei
principi del Quadri è la possibilità di ricostruire principi materiali indipendentemente dall’uso, e di ricostruirli fino alle
estreme conseguenze. Un gruppo di Stati, e magari anche un solo Stato, potrebbe imporre la propria volontà a tutti gli
altri membri della comunità internazionale. E’ evidente che in questo modo gli esempi di principi potrebbero
moltiplicarsi: via via si verrebbero a creare delle norme generali. Senza dubbio gli abusi si commettono; ma viene da
chiedersi come è possibile legittimarli dal punto di vista giuridico, connaturato con l’idea di diritto c’è sempre un
elemento di stabilità. La concezione del Quadri non è avallabile nemmeno dal punto di vista di un operatore giuridico
interno che dovendo stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia si dovrebbe chiedere volta a
volta se non vi siano imposizioni da parte delle forze dominanti nella comunità internazionale. E’ vero che alla base di
una norma non scritta vi è spesso una imposizione; ma la norma intanto esiste in quanto si traduce nei comportamenti
reiterati degli Stati, accompagnati dal convincimento della doverosità sociale dei comportamenti medesimi. In altri
termini, se alla iniziale imposizione non fanno seguito stabilità e continuità, non è possibile ammettere l’esistenza di un
principio.

* Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il comune sentimento del giusto e dell’ingiusto ed
in particolare ci si chiede se all’equità possa ricorrere il giudice internazionale o interno che sia chiamato a risolvere una
questione di diritto internazionale. A noi sembra che, a parte la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente
interpretativo, ed a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale sia espressamente autorizzato a giudicare la
risposta debba essere negativa. L’equità svolge un ruolo importante nell’ordinamento inglese sia per quanto riguarda il
diritto materiale sia per quanto riguarda il diritto processuale, di quello ordinamento. E’ da escludere non solo l’equità
contra legem, contraria cioè a norme consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare le
lacune del diritto internazionale: se il diritto internazionale è lacunoso gli Stati non hanno obblighi da osservare o diritti
da pretendere, e l’equità non può essere idonea a crearli. L’equità deve essere inquadrata nel procedimento di
formazione del diritto consuetudinario. Spesso il ricorso all’equità si atteggia come una sorta di opinio juris sive
necessitatis, in quanto ha luogo nel momento in cui una norma si va formando o modificando. Per quanto concerne la
giurisprudenza interna, considerazioni di equità sono ad es. alla base dei vari mutamenti di indirizzo avvenuti nel campo
dell’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione. Considerazioni di equità sono anche alla base di numerose
decisioni di tribunali internazionali, che, alle prese con frammenti di regole consuetudinarie, non hanno esitato a farne
applicazione. Quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto consuetudinario,
essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine: le decisioni dei Tribunali interni costituiscono infatti
una delle categorie più importanti di comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta,
ma relativa, trattandosi di una decisione che proviene da un singolo Stato. Il discorso è diverso per le decisioni dei
Tribunali internazionali. Qui l’influenza è indiretta, ma assai incisiva. Quanto poi a pronunciarsi è l’organo giudiziario
principale delle Nazioni Unite l’influenza è massima.

CAPITOLO 7: Inesistenza di norme generali scritte. Valore degli accordi di codificazione

* Importante è anche capire se esistano o no norme internazionali generali scritte. Anzitutto con riguardo alle grandi
convenzioni di codificazione promosse dalle Nazioni Unite.[ Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale ha
iniziato alla fine del secolo XIX. Fino alla prima guerra mondiale furono le norme del diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi
scritti].Tentativi
di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma senza risultati, E’ invece con
le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso slancio, traducendosi in una serie di trattati multilaterali.
Ovviamente il trattato è l’unico strumento adoperabile per la trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.

* L’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che l’Assemblea generale intraprenda studi e faccia raccomandazioni
per incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. Sulla base di questa disposizione
l’Assemblea costituì la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite che, composta da esperti che vi siedano
a titolo personale, ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie
relative a determinate materie, predisponendo così progetti di convenzioni multilaterali internazionali che vengono
adottai e aperti alla ratifica e all’adesione da parte degli Stati stessi. La Commissione ha finora predisposto varie
convenzioni di codificazione, coprendo quasi tutti i settori del diritto internazionale. Le principali convenzioni sono: la
Convenzione di Vienna del1961 sulle relazioni ed immunità diplomatiche; la Convenzione sulle missioni speciali del
1969; la Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari; le quattro Convenzioni di Ginevra del 1958 sul diritto
del mare; la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati; la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei
trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; la Convenzione di Vienna
del 1978 sulla successione degli Stati nei trattati; la Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di Stati in materia
di beni, archivi e debiti di Stati; la Convenzione del 1997 sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua
internazionali a fini diversi dalla navigazione; la Convenzione del2004 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro
beni. La Commissione non è l’unico organismo che predispone progetti di accordi di codificazione. L’Assemblea in alcuni
casi ha convocato conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato affidata ad organi sussidiari
dell’Assemblea. Sebbene queste convenzioni non contengano molte norme riproduttive del diritto internazionale
consuetudinario, contribuiscono allo sviluppo progressivo del diritto internazionale generale e sono, pertanto,
inquadrabili nel tema della codificazione. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione di diritto
internazionale la loro particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di individui che esprimono
opinioni personali ma di individui che rappresentano gli Stati e devono seguirne le istruzioni.

*Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati contraenti. Sebbene però sia
fuor di dubbio la grande importanza del contributo che, con l’opera di codificazione, le Nazioni Unite danno
all’affermazione del Diritto dell’ambito della comunità internazionale, occorre esser molto cauti nel considerare gli
accordi di codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario generale e quindi nell’estenderli agli Stati non
contraenti. Ciò per vari motivi. Innanzitutto non è il caso di riporre un’illimitata fiducia nell’opera di codificazione svolta
dalla CDI, in cui spesso influisce la mentalità dell’interprete e di coloro che sono chiamati a far parte della Commissione
in qualità di esperti. La seconda considerazione attiene al fatto che gli Stati stessi fanno quello che sempre si fa in sede di
trattative per la conclusione di accordi internazionali; cioè cercano di far prevalere le proprie convinzioni e di assicurarsi
soprattutto la salvaguardia dei propri interessi. C’è poi un terzo motivo riguardante da vicino la lettera dell’art. 13 della
Carta delle Nazioni Unite, che parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale.
Per introdurre norme che erano abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale generale. Si può quindi affermare
che gli accordi di codificazione valgono solo per gli Stati che li ratificano e costituiscono un valido punto di partenza per
l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, nella materia disciplinata dall’accordo medesimo;
l’interprete dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare che le norme contenute
nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati. E solo se la verifica risultasse positiva potrà applicare la norma
dell’accordo di codificazione a titolo di diritto generale. Bisogna aggiungere che alcune grandi Convenzioni, come quella
di Vienna del 1969 o la Convenzione di Montego Bay del 1982 sono state ratificate da un larghissimo numero di Stati;
altre, come la Convenzione di Vienna del 1978 o del 1986hanno visto una partecipazione assai esigua. Naturalmente la
verifica sarà più necessaria per le convenzioni di codificazione non ratificare da un gran numero di Stati o di norme
codificate il cuitesto fu oggetto di contrasti tra gli Stati che lo redassero. Altro tema importante è quello del
ricambio delle norme contenute nell’accordo. Infatti, ammesso che l’accordo di codificazione corrisponda
perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua redazione, è possibile che in epoca
successiva il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della mutata pratica degli Stati. Una simile
eventualità è scarsamente presa in considerazione dagli stessi accordi di codificazione, però il fenomeno
dell’invecchiamento della convenzione di codificazione diviene sempre più attuale in un mondo che evolve
continuamente del diritto dei trattati e nel settore del diritto internazionale marittimo. La possibile evoluzione del diritto
consuetudinario dopo la redazione dell’accordo di codificazione costituisce un ulteriore motivo per respingere ogni
semplicistica equiparazione del diritto codificato al diritto generale. Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza
di un’autorità nell’ambito della comunità internazionale impedisce che vi si instauri quel rapporto tra diritto
consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del
primo nei settori dove esiste il secondo. Consuetudini e accordi internazionali sono in linea di principio tra loro
derogabili, e nulla vieta che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore. Lo stesso con riguardo
alle norme contenute negli accordi di codificazione, dato che lo scopo principale di simili norme consiste in un certo
senso proprio nel bloccare la tradizione in omaggio alla certezza dei rapporti giuridici. L’interprete deve essere
estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice e deve tra l’altro
dimostrare che la consuetudine si è formata con il concorso degli Stati contraenti e che questi l’intendano come
applicabile anche nei rapporti inter se.

CAPITOLO 8: Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU

*Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni
contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti tra Stati ma il più spesso riguardano rapporti interni alle
varie comunità statali.[Tra le varie dichiarazioni ricordiamo, oltre alla famosa Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo: quelle sul
genocidio, sui diritti del fanciullo, sull’indipendenza dei popoli coloniali, sul divieto dell’uso di armi nucleati e termonucleari, sulla eliminazione delle
discriminazioni contro la donna, sull’asilo territoriale, sul progresso e lo sviluppo sociale, sulle relazioni amichevoli e la collaborazione fra gli Stati,
sulla soluzione pacifica delle controversie, sulla protezione dei detenuti, sulle misure per eliminare il terrorismo internazionale. Particolare
menzione meritano anche la Dichiarazione e il Programma di azione per l’istaurazione di un nuovo ordine economico internazionale, la Carta dei
diritti e doveri economici degli Stati, la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, la Dichiarazione sul 50°
anniversario delle Nazioni Unite, la Dichiarazione del Millennio, la Dichiarazione sull’AIDS ].Le
Dichiarazioni di principi non costituiscono
una autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi
mondiali e il carattere non vincolante delle sue risoluzioni è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi
membri (se l’Assemblea avesse poteri legislativi, i Paesi del Terzo Mondo, che detengono la maggioranza in seno ad
essa, disporrebbero del diritto internazionale generale).

*Le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale, e del suo
adeguamento alle esigenze di solidarietà e di interdipendenza. Non si tratta di accordare loro una forza vincolante che di
per sé non hanno; si tratta di riconoscere il contributo che l’Assemblea dell’ONU dà alla formazione del diritto
internazionale, sia pure nel quadro delle fonti tipiche di tale diritto, quali la consuetudine e l’accordo. Passando al diritto
pattizio, si può ritenere che certe Dichiarazioni, o parti di esse abbiano valore di veri e propri accordi internazionali. Ci
riferiamo a quelle Dichiarazioni che non solo enunciano un principio ma in modo espresso ed inequivocabile ne
equiparano l’inosservanza alla violazione della Carta. Poiché l’Assemblea non ha il potere di interpretare le norme della
Carta in modo obbligatorio per i singoli Stati, anche le Dichiarazioni in parola restano delle mere raccomandazioni. Ci
sembra però che equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, si utilizza un espediente
verbale per sancire puramente e semplicemente che quel principio è ormai obbligatorio; dal che risulta lecito presumere
che gli Stati i quali partecipano col loro voto favorevole all’atto intendano obbligarsi. Delle due l’una: o si ammette una
simile presunzione oppure bisogna concludere che le Dichiarazioni di principi del tipo in esame rappresentino delle
dichiarazioni non serie o rese con riserva mentale. La situazione non muta nel caso che la Dichiarazione consideri
l’inosservanza di un principio come violazione del diritto internazionale generale anziché della Carta. Anche in tal caso è
legittimo presumere che sussista una sincera volontà di obbligarsi.[ Tra le Dichiarazioni che equiparano l’inosservanza dei principi
dichiarati alla inosservanza della Carta o del diritto internazionale generale, ci sono le risoluzioni sul genocidio, sull’indipendenza dei popoli
coloniali, sul divieto di armi nucleari e termonucleari, sulla sovranità sulle risorse naturali.] Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi
vanno propriamente considerate come accordi informa semplificata.

CAPITOLO 9: I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare

*Per indicare l’accordo, la terminologia usata è assai varia, parlandosi indifferentemente, di trattato, di convenzione, di
patto, ecc. A parte poi vanno considerati i casi in cui un certo nome è dato in vista della materia di cui l’accordo si
occupa o della procedura che si segue nella conclusione: ad es. usa il termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali; scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche ecc. Ad ogni
modo, la natura dell’atto non muta ed è quella propria degli atti contrattuali: l’accordo internazionale può essere
definito come l’unione o meglio l’incontro delle volontà di due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di
rapporti riguardanti questi ultimi. Né è da accogliere la distinzione fra trattati normativi, o trattali-legge, e trattati-
contratto o trattati-negozio. I primi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche,
sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la condotta di un numero rilevante di Stati;
essi comprenderebbero gli accordi di codificazione, gli accordi istitutivi di organizzazioni internazionali, gli accordi
contenenti dichiarazioni solenni degli Stati. Nei secondi, che sarebbero fonti di diritti e di obblighi, ossia di rapporti
giuridici, e non di norme, le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni
più o meno corrispettive; ciò caratterizzerebbero, ad es. gli accordi di stabilimento, gli accordi commerciali, i trattatati di
alleanza, di cessione territoriale ecc. La distinzione fra trattati normativi e trattati-contratto non ha senso, non avendo
senso la contrapposizione tra norma e rapporto giuridico. Né ha senso il dire che in certi accordi le parti sono
contrapposte e in altri sono unite. In realtà si tratta di una distinzione anacronistica. L’utilizzazione del concetto di
accordo normativo ebbe motivazioni prevalentemente di teoria generale, derivando dal convincimento che solo la
volontà dello Stato fosse idonea a creare diritto, e che pertanto anche nel diritto internazionale si dovesse ricostruire
qualcosa di simile alla legge, qualcosa che attuasse una unione, a fini legislativi, della volontà di più Stati; i primi trattati
solenni conclusi nella seconda metà del secolo scorso offrirono il materiale per una simile ricostruzione. I trattati, come
tutte le fonti di norme giuridiche, possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente disciplinano i
rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti, sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si
limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi che istituiscono fonti acquistano oggi grande
importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali.

*Come i contratti nel diritto interno sottostanno alla legge, così i trattati internazionali sottostanno ad una serie di
norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità e di efficacia. Tale
complesso di regole forma il diritto dei trattati, a cui è dedicata una delle grandi convenzioni codificazione promosse
dalle Nazioni Unite ed elaborate dalla CDI, la Commissione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Oltre alla
Convenzione del 1969 vanno menzionate altre due convenzioni di codificazione, concluse anch’esse a Vienna,
rispettivamente nel 1978 e nel 1986. La prima riguarda i trattati stipulati tra Stati e organizzazioni internazionali o tra
Organizzazioni internazionali. Caratteristica di quest’ultima convenzione è che riproduce pedissequamente la
Convenzione del 1969. Il che si spiega col fatto che le norme sulla nascita, la vita e l’estinzione dei trattati sono
sostanzialmente simili sia che a concluderli siano gli Stati, sia che ad essi partecipino organizzazioni internazionali.

*Il diritto internazionale lascia la più ampia libertà in materia di forma e di procedura per la stipulazione e quindi un
accordo può risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli Stati purché di identico contenuto e purché
dirette ad obbligarli. L’accordo può così realizzarsi istantaneamente oppure aversi al termine di complicate procedure,
può essere scritto o orale e così via. Quando si descrive dunque il procedimento di formazione dei trattati, non solo non
ci si può riferire a precise e vincolanti norme giuridiche, ma neppure si può dare alla descrizione carattere tassativo,
dovendosi necessariamente limitarsi a quelle procedure che più delle altre sono praticate dagli Stati. Ancor oggi il
procedimento normale o solenne di formazione del trattato ricalca quello già seguito alcuni secoli fa, all’epoca delle
monarchie assolute. A tale epoca, la stipulazione del trattato era materia di competenza esclusiva del Capo dello Stato;
era negoziato dagli emissari del Sovrano, definiti plenipotenziari, che predisponevano il testo dell’accordo e lo
sottoscrivevano. Seguiva poi la ratifica da parte del Sovrano, con la quale questi accertava se i plenipotenziari si fossero
effettivamente attenuti al mandato ricevuto e occorreva infine che la volontà ultima del Sovrano fosse portata a
conoscenza delle controparti attraverso lo scambio delle ratifiche. Le fasi descritte sono ancora in uso nella prassi
internazionale anche se è venuta meno la posizione di preminenza del Capo dello Stato. La fase della negoziazione è
tanto più complessa quanto più numerosi sono gli Stati che partecipano alla negoziazione medesima e importante è la
materia da regolare. Secondo una prassi sempre più seguita nell’ambito delle conferenze internazionali, la vecchia
regola dell’unanimità va cedendo il passo al principio di maggioranza, oppure talvolta le due regole si combinano. I
negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. Nel procedimento normale, o solenne, la firma non
comporta ancora alcun vincolo per gli Stati; essa ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma
definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi negoziati. La manifestazione di volontà
con cui lo Stato si impegna, si ha invece con la fase successiva della ratifica. La competenza a ratificare è disciplinata da
ogni singolo Stato con proprie norme costituzionali. La ratifica rientra tuttora nelle attribuzioni del Capo dello Stato, ma
la competenza di quest’organo, quando non si riduce ad una competenza a dichiarare la volontà di altri organi, concorre
sia con quella del Potere esecutivo, sia per ampie categorie di trattati. Per quanto riguarda l’Ordinamento italiano, l’art.
87 della Cost. dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattai internazionali previa autorizzazione delle
Camere; a sua volta l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle Camere è necessaria quando si tratti di trattati che
hanno natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle
finanze o modificazioni di leggi. Le due norme vanno poi combinate con la regola dell’art. 89 Cost. secondo cui nessun
atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la
responsabilità. La ratifica rientra tra gli atti che il Presidente della Repubblica non può rifiutarsi di sottoscrivere una volta
intervenuta la delibera governativa ma di cui può soltanto sollecitare il riesame prima della sottoscrizione; il che
dimostra che in Italia il potere di ratifica è nelle mani dell’Esecutivo e insieme del potere esecutivo e di quello legislativo.
Non sempre le Costituzioni usano il termine ratifica, ma spesso vengono impiegati altri termini, come approvazione,
conclusione, ecc. Trattasi di termini in tutto e per tutto equivalenti, per i quali vale ciò che si è fin qui detto per la ratifica.
A quest’ultima è anche da equiparare l’adesione che si ha quando la manifestazione di volontà diretta a concludere
l’accordo promana da uno stato che non ha preso parte ai negoziati. Perché una simile volontà abbia efficacia occorre
ovviamente che il rattato si aperto. L’adesione è insomma nient’altro che la ratifica di un accordo predisposto da altri.
Ratifica, adesione, approvazione, accettazione e simili sono posti sullo stesso piano dalla Convenzione di Vienna. Una
volta formatasi la volontà dello Stato, il procedimento di formazione dell’accordo si conclude con lo scambio o con il
deposito delle ratifiche. Nel caso dello scambio, l’accordo si perfeziona istantaneamente. Nel caso del deposito,
l’accordo si forma tra gli Stati depositanti; di solito però si prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in
vigore, finché non si raggiunga un certo numero di ratifiche. Allo scambio e al deposito si aggiunge la notifica agli Stati
contraenti o al depositario.

*Questo è il procedimento normale o solenne. Può darsi però che gli Stati seguano un procedimento diverso, Le
procedure alternative possono distinguersi a seconda che sfocino comunque nella ratifica, oppure si caratterizzano per
un differente modo di manifestazione della volontà da parte degli Stati. Tra le prime sono inquadrabili le numerose
variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della firma. Per quanto riguarda le procedure nelle quali la
manifestazione di volontà dello Stato diretta ad incontrarsi con quella degli altri Stati non consiste nella ratifica, occorre
richiamare l’attenzione sul fenomeno degli accordi in forma semplificata. L’accordo in forma semplificata è quello che è
concluso con la sola sottoscrizione de testo da parte del rappresentante dello Stato, e che si ha quando risulti che le
medesime hanno appunto inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. Il consenso
di uno Stato ad essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a) quando il
trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati
abbiano convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale effetto alla firma
risulta dai pieni poteri del suo rappresentante è stata espressa nel corso della negoziazione.[ L’accordo può anche essere
misto, cioè esser concluso in forma semplificata da alcuni Stati e mediante ratifica da parte di altri. La CGI ha ribadito che una dichiarazione di un
organo statale non può considerarsi vincolante se non è fatta in chiari e specifici termini. ]Alla
categoria degli accordi in forma
semplificata dono da riportare anche gli scambi di note diplomatiche di altri strumenti simili. La categoria comprende
in definitiva tutti gli accordi che gli organi del Potere esecutivo stipulano senza ricorrere alla procedura della ratifica. Per
aversi un accordo in forma semplificata non è sufficiente che la fase della ratifica sia saltata ma è anche necessario che
dal testo dell’accordo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi. Ciò perché la prassi internazionale
conosce numerosi casi di intese tra Governi, ma che certamente non hanno natura di veri e propri accordi in senso
giuridico. Simili intese, non pretendono di avere natura giuridica, valgono finché valgono. La competenza a concludere
accordi in forma semplificata è regolata da ciascuno Stato con proprie norme costituzionali. In altri termini il diritto
costituzionale di ciascuno Stato stabilisce fino a che punto l’Esecutivo possa concludere un accordo senza ricorrere alla
procedura della ratifica. Da un punto di vista comparativo può dirsi che una siffatta possibilità copra almeno gli accordi
settoriali e specifici in materie tecnico-amministrative rispetto alle quali l’Amministrazione medesima disponga di poteri
normativi propri. Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, appare convincente la tesi secondo cui la stipulazione in
forma semplificata sarebbe assolutamente da escludere sono quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui
all’art. 80; in tutti gli altri casi il Potere esecutivo sarebbe libero di decidere se dare all’accordo forma solenne e far
quindi intervenire la ratifica da parte del Capo dello Stato, oppure stipulare direttamente. Tale tesi viene ricavata da
un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 della Costituzione, e sembra confortata dai lavori dell’Assemblea
Costituente durante i quali si ribadì il principio che non tutti gli accordi dovessero essere sottoposti a ratifica. La prassi
degli accordi in forma semplificata si è andata estendendo in modo impressionante a partire dal secondo dopoguerra.
Numerosi sono gli accordi del genere conclusi dagli Stati Uniti: trattasi particolarmente degli executive agreements sono
stipulati dal Presidente, o comunque sotto la sua responsabilità che hanno per oggetto materie tecnico-amministrative.
La sfera degli executive agreements tende a dilatarsi ma ovviamente non è senza limiti. Anche in Italia la stipulazione in
forma semplificata è assai diffusa e tende a superare i confini delle materie tecnico-amministrative, o meglio delle
materie che rientrano nella potestà regolamentare dell’Esecutivo, per invadere la sfera coperta dall’art. 80.

* Sia nel caso che si segua il procedimento normale, sia nel caso degli accordi in forma semplificata il problema
fondamentale in materia di formazione dell’accordo internazionale è il seguente: se l’organo che stipula l’accordo, cioè
manifesta la volontà dello Stato di aderire al trattato, non ha competenza o comunque non segua forme o procedure
previste dal diritto interno, quali conseguenze ne derivano sul piano internazionale. Il problema della competenza a
stipulare cominciò a porsi nel secolo scorso, quando si andò affermando il principio che le assemblee legislative
dovessero intervenire nelle decisioni concernenti la ratifica di determinati trattati, con la conseguente limitazione dei
poteri del sovrano, un tempo assoluti in materia. In epoca più recente, i termini del problema sono andati mutando e la
discussione di concentra sui rapporti tra Potere esecutivo ed organi legislativi e sugli accordi conclusi dal primo senza il
concorso dei secondi. La discussione riguarda insomma gli accordi in forma semplificata. Il problema ha molta
importanza in Italia perché non mancano i casi in cui il nostro Governo ha usato la forma semplificata di stipulazione
anche per accordi che chiaramente rientravano nelle categorie previste dall’art. 80della Cost. e per i quali occorreva
quindi l’intervento del Parlamento e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica. Tra gli esempi più significativi
ricordiamo: la domanda di ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite; il Memorandum d’intesa per Trieste del 1954; la
Dichiarazione finale della Conferenza di Tangeri del 1956. La maggior parte degli scrittori che si sono occupati delle
teorie sulla validità o invalidità degli accordi conclusi in violazione di norme interne sulla competenza a stipulare
concordano nell’escludere soluzioni radicali sia in senso internazionalistico, sia in senso internistico: si esclude così, da
un lato, che per il diritto internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso validi; e si
esclude, dall’altro, che qualsiasi vizio, qualsiasi irregolarità procedurale dal punto di vista del diritto interno possa
inficiare la validità internazionale dell’accordo. Secondo alcuni il diritto internazionale si rifarebbe nella materia alla
ripartizione di fatto delle competenze esistenti all’interno dello Stato al momento della stipula dell’accordo, oppure
rinvierebbe alla Costituzione vivente, quale si forma attraverso la prassi, o terrebbe conto delle prospettive che per
l’accordo concluso dall’organo incompetente sussistono di ricevere ciò nonostante esecuzione; altri fanno leva invece
sulla buona fede, sostenendo che l’accordo sarebbe valido ogni qualvolta la violazione del diritto interno non sia
riconoscibile dalle altre parti contraenti. Una soluzione abbastanza vicina a quella puramente internazionalistica, è
contenuta nell’art. 46 della Convenzione di Vienna, che stabilisce: 1) il fatto che il consenso di uno Stato ad esser
vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno sulla competenza a
stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia
manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale; 2)Una violazione è manifesta
se è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede.
Alcuni dati che emergono dalla prassi sono abbastanza significativi al fine di accertare lo stato del diritto
consuetudinario. Il primo è che, quando i Governi si impegnano sul piano internazionale per materie che rientrano nella
sfera di competenza di altri organi e in particolare dei Parlamenti, la puntuale osservanza dell’impegno non può
prescindere dall’uso di strumenti giuridici interni che sfuggono alla disponibilità dei Governi medesimi. Un altro dato è
che, di fronte ai casi in cui vengono avanzate sul piano diplomatico richieste di esecuzione o denunce di violazioni di
accordi conclusi esclusivamente dall’Esecutivo, è estremamente difficile stabilire se ciò avviene con la convinzione di
sollecitare il rispetto di veri e propri impegni di carattere giuridico, o solo per motivi politici di propaganda. Un ultimo
dato è costituito dalla giurisprudenza interna, ed in particolare dalla massa di sentenze, provenienti da Stai diversi, che si
rifiutano di applicare trattati conclusi dai rispettivi Governi in violazione di norme interne fondamentali sulla
competenza a stipulare. Così stando le cose l’art. 46 della Convenzione di Vienna corrisponde al diritto internazionale
generale quando codifica il principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di
competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato. Una violazione del genere si abbia quando sull’accordo non si
sia pronunciato uno degli organi cui la Costituzione assegna un potere decisionale effettivo nel procedimento di
stipulazione, quando, sia mancato il concorso del Parlamento. Sembra che l’art.46 non corrisponda al diritto
consuetudinario nella parte in cui enuncia il principio della buonafede: l’accordo concluso senza la relativa competenza
costituzionale è piva di carattere giuridico e che vale finché vale. Una simile intesa acquista il valore di vero e proprio
accordo internazionale in senso giuridico nel momento in cui l’organo messi da parte manifesti esplicitamente o
implicitamente il suo assenso. L’assenso del nostro Parlamento si ebbe, ad es. nel caso dell’ammissione alle Nazioni
Unite o nel caso del Memorandum per Trieste. Sarebbe difficile negare, sia che simili accordi siano divenuti vincolanti
per l’Italia in seguito all’assenso del Parlamento, sia che quando tale assenso non si è avuto, o non si è avuto sotto forma
di legge così come prescritto dalla Costituzione, ci si trovi di fronte ad impegni che il diritto internazionale ci impone di
rispettare. Spesso si hanno accordi che subordinano la propria entrata in vigore non allo scambio o al deposito delle
ratifiche, ma alla comunicazione che sono state adempiute le procedure previste dal diritto interno per rendere
applicabile nel territorio dello Stato l’accordo medesimo. Simili accordi non possono considerarsi come accordi in forma
semplificata dato che non dichiarano di voler entrare in vigore per effetto della sola firma. Trattasi di figure intermedie
tra gli accordi in forma semplificata e gli accordi conclusi in forma solenne.

*Nell’ambito dell’ordinamento italiano si pone la questione se anche le Regioni possano concludere accordi
internazionali. La questione ha avuto origine da certe iniziative prese da alcune Regioni e dirette a concordare con Stati,
Regioni o altri enti territoriali stranieri forme di collaborazione in settori di rispettiva competenza. La Corte
Costituzionale, chiamata a pronunciarsi su ricorsi per conflitto di attribuzione con il Governo centrale, prese in un primo
tempo una posizione drastica affermando l’incompetenza degli organi regionali in tema di formulazione di accordi con
soggetti propri di altri ordinamenti. La materia venne poi regolata dall’art. 4 del DPR 1997, che riservava allo Stato le
funzioni relative ai rapporti internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di
svolgere attività promozionali all’estero senza il preventivo assenso governativo. Dopo tale intervento legislativo la Corte
costituzionale tornò altre volte sull’argomento. La materia è ora regolata dall’art. 3 della Legge cost., il quale prevede la
competenza della Regione, nella materia di sua competenza, a concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali
interni ad altro Stato. A parte gli accordi internazionali, i quali non possono non impegnare lo Stato, c’è da chiedersi se le
iniziative regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri siano effettivamente concepite e da considerare come
iniziative dirette a concludere veri e propri accordi retti dal diritto internazionale. La risposta ci sembra negativa. In
realtà si tratta sempre di intese, o meglio di programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una mera
occasione per l’adozione di atti legislativi o amministrativi da parte delle Regioni interessate, e che possono solo servire
da punto di riferimento ai fini dell’interpretazione degli atti medesimi. A noi pare che ad aver rilievo per il nostro
ordinamento siano esclusivamente gli atti legislativi o amministrativi regionali che danno attuazione alla collaborazione
concordata. Simili atti devono sottostare soltanto alle norme che presiedono alle competenze regionali comprese le
norme sulle funzioni statali di coordinamento. Diffuso è anche il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni
internazionali sia fra loro, sia con Stati membri oppure con Stati terzi. Il potere di concludere accordi è anzi da
considerare come la manifestazione più saliente della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni. A siffatti
accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati fra Stati e organizzazioni internazionali e fra
organizzazioni internazionali, che riproduce la Convenzione di Vienna del 1969. Allo statuto di ciascuna organizzazione
occorre far capo per stabilire quali sono gli organi competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è
attribuita. In analogia può dirsi che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare comporti
l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo sono modificabili per consuetudine, la
competenza a stipulare può anche risultare da regole sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di
prassi certa, ossia seguita dagli organi e accettata dagli Stati membri; ciò sempre che non vi sia un organo giudiziario
destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel qual caso fattore determinante diviene la giurisprudenza.
Tutto ciò trova conferma nell’art. 46 della citata Convenzione di Vienna del 1986, che, riproducendo l’art. 46della
Convenzione del 1969, considera come causa di invalidità la violazione di una delle norme dell’organizzazione sulla
competenza a stipulare di importanza fondamentale. A sua volta l’art. 2precisa che per norme dell’organizzazione
devono intendersi le norme statutarie le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base delle norme medesime, e la prassi
consolidata dell’organizzazione. Esiste però una gran massa di accordi conclusi dalle organizzazioni internazionali non
presenta grande interesse per il giurista. Come gli accordi di collegamento che le organizzazioni stipulano tra loro per
coordinare le rispettive attività; trattasi di intese di cui può addirittura mettersi in dubbio la natura giuridica, e che
comunque non intraducibili in termini di diritti ed obblighi delle parti contraenti. Vi è invece tutta una serie di trattati
conclusi dalle organizzazioni, che in nulla differiscono dai normali accordi giuridici internazionali. Alcuni di essi si
propongono di assicurare alle organizzazioni medesime la necessaria libertà di azione nei territori statali in cui sono
destinate ad operare. Altri invece hanno per oggetto la disciplina dei rapporti che di rettamente si ricollegano alle
materie di competenza dell’organizzazione.

CAPITOLO 10: Inefficacia dei trattati verso gli Stati terzi. Incompatibilità tra norme convenzionali

*Le norme pattizie si distinguono dalle norme di diritto internazionale generale proprio perché valgono solo per gli Stati
che le pongono in essere. Il trattato internazionale fa legge tra le arti e solo tra le parti. Diritti ed obblighi per terzi Stati
non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi Stati al trattato
medesimo. Può darsi che il trattato sia aperto, contenga cioè la clausola di adesione o accessione, la quale prevede la
possibilità che Stati diversi dai contraenti originari partecipino a pieno titolo all’accordo mediante una loro dichiarazione
di volontà: in tal caso la loro posizione in nulla differisce giuridicamente da quella dei contraenti originari e l’unica
differenza fra Stati aderenti o contraenti originari sta nel fatto che i primi non hanno partecipati alla elaborazione
dell’accordo. Può darsi invece che una clausola di adesione manchi o che venga in rilievo solo la possibilità che singoli
diritti a suo favore o singoli obblighi a suo carico discendono dalla convezione medesima. In questo dovrà di mostrarsi
che il trattato contenga comunque un’offerta e che dallo Stato terzo provenga un’accettazione, così determinandosi
quell’incontro di volontà caratteristico dell’accordo. Fuori di simili ipotesi si applicherà il principio dell’inefficacia dei
trattati nei confronti degli Stati non contraenti. Le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere
comportamenti che risultano vantaggiosi per i terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione sui fiumi, canali e stretti
internazionali che pur intercorrendo tra un numero limitato di Paesi, sanciscono di solito la libertà di navigazione per le
navi di tutti gli Stati, o almeno di tutti gli Stati rivieraschi. Altri esempi sono forniti dai trattati che garantiscono l’integrità
territoriale o particolari status a determinati Paesi, quando il Paese interessato non partecipi all’accordo. Tali vantaggi
finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo all’accordo, possono sempre essere revocati
dalle parti contraenti, a testimonianza del loro carattere meramente riflesso per quanto riguarda il terzo. Né vale
l’obiezione secondo cui il fatto che i vantaggi derivanti al terzo possano essere revocati non toglierebbe ad essi la natura
di veri e propri diritti, così come non si può dire che, nell’ordinamento statale, il legislatore non crei diritti per i cittadini
dato che esso, con leggi successive, può annullarli. Le parti contraenti del trattato, se vogliono negare al terzo i vantaggi
pattuiti, non hanno bisogno di stipulare un successivo trattato che formalmente abroghi o modifichi il primo, ma
possono negare detti vantaggi in ordine a casi concreti, possono negarli in alcuni casi e riconoscerli in altri; la legge non
può invece essere disapplicata in ordine a singoli casi Anche la Convenzione di Vienna del 1969sul diritto dei trattati si
forma al principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi e alla conseguente regola per cui una qualche forma
di accordo è necessaria perché il terzo benefici di veri e propri diritti o sia colpito da obblighi. L’art. 34 sancisce che un
trattato non crea obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso. Un obbligo può derivare da una disposizione
di un trattato a carico di un terzo Stato se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo Stato
accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo. Un diritto può nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo
vi consenta ed il consenso si presume finché non vi siano indicazioni contrarie e sempre che il trattato non disponga
altrimenti; il che sembra segno di eccessiva indulgenza verso il terzo. Tale indulgenza è controbilanciata dalla severità
dell’art 37, che autorizza i contraenti originari a revocare quando vogliono il diritto accettato dal terzo, a meno che non
ne abbiano previamente stabilita in qualche modo irrevocabilità.

*Di grande importanza è l’incompatibilità fra norme convenzionali. Premesso che un trattato può essere modificato o
abrogato, in modo espresso o implicito, da un trattato concluso in epoca successiva fra gli stessi contraenti. Può darsi
che uno Stato si impegni mediante accordo a tenere un certo comportamento e poi si obblighi a tenere il
comportamento contrario; oppure può darsi che alcuni tra gli Stati vincolati da un trattato multilaterale ne modifichino,
con un accordo successivo, tutte o determinate disposizioni, e che la modifica o l’abrogazione tocchi anche i rapporti
con le altre parti del trattato multilaterale. In questi casi la soluzione non può che discendere dalla combinazione del
principio della successione dei trattati nel tempo e dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di
entrambi i trattati, il trattato successivo prevale; nei confronti degli Stati parti di uno solo dei due trattati, restano
invece integri tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si troverà in
definitiva a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure a quelli assunti col secondo accordo;
operata la scelta non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile verso gli Stati
contraenti del secondo oppure del primo accordo. Questa soluzione favorevole alla piena validità ed efficacia di
entrambi gli accordi incompatibile è sostenuta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza. Poco credito
riscuotono i tentativi diretti a ricostruire principi ad hoc che regolino la materia dell’incompatibilità tra norme
convenzionali in modo diverso da quanto risulta combinandosi i principi della successione dei trattati nel tempo e
dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi. Il riferimento è alla tesi secondo cui dovrebbe ammettersi l’invalidità
del secondo trattato. [Un discorso a parte va fatto per l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce la prevalenza degli obblighi
derivanti dalla Carta sugli obblighi derivanti da qualsiasi altro trattato internazionale. Da un punto di vista formale non p da escludere che duo o più
Stati possano convenire la prevalenza non valga nei loro confronti. In realtà è considerato da tutta la comunità internazionale come una norma al di
sopra degli accordi e può ritenersi che ad esso corrisponda ormai una norma consuetudinaria ].Dalla
soluzione accolta non si discosta la
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che all’art.30 si occupa dell’applicazione dei trattati nel tempo, dopo aver
sancito la regola che fra due trattati conclusi tra le medesime parti, il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui
le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore. Per quanto riguarda l’art. 41, esso è inserito nella
parte relativa agli emendamenti e alle modifiche dei trattati multilaterali, e stabilisce che duo o più parti di un trattato
del genere non possono concludere in accordo mirante a modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciproci, quando la
modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti contraenti o ancora è
incompatibile con la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme. L’espressione non possono è
assai ambigua e potrebbe far pensare che l’art. 41 avvolga la tesi dell’invalidità dell’accordo successivo ogni qualvolta
questo non possa essere assolutamente eseguito. Se nonché una interpretazione del genere è smentita sia dai lavori
preparatori, sia dalla circostanza che la contrarietà dell’accordo parziale all’accordo multilaterale nei casi previsti
dall’art. 41 non figura tra le cause di invalidità dei trattati nella relativa parte della Convenzione di Vienna, sia dal fatto
che, se con l’art. 41 fosse effettivamente voluto adottare una soluzione così radicale, si sarebbe dovuto adottare un
testo che la indicasse in termini inequivocabili. In realtà la preoccupazione degli Stati di evitare situazioni del genere è
abbastanza diffusa, ed è rispecchiata da certe clausole che con sempre maggiore frequenza vengono inserite nei trattati
onde salvaguardare i rapporti giuridici derivanti da altri accordi. Frequenti sono le dichiarazioni di compatibilità o di
subordinazione contenute in un trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati, ad es. di tutti i trattati
preesistenti che vincolino una delle parti. Alla dichiarazione di subordinazione, quando essa riguardi trattati preesistenti,
può accompagnarsi l’impegno delle parti ad intraprendere tutte le azioni idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili,
come la denuncia alla scadenza o l’apertura di negoziati per la revisione degli accordi relativi. Proprio il negoziato
costituisce lo strumento cui più di ogni altro si fa ricorso a fini di armonizzazione di norme convenzionali tra loro
incompatibili. Problemi di compatibilità si pongono tra gli accordi conclusi in seno all’OMC e le convenzioni multilaterali
sulla protezione dell’ambiente. Clausole di compatibilità o di subordinazione sono adoperate anche nella Convenzione di
Nairobi sulla biodiversità, che prevede le disposizioni della presente convenzione non influiscono sui diritti e gli obblighi
derivanti da accordi internazionali esistenti, ad eccezione del caso in cui l’esercizio di tali diritti ed obblighi siano in grado
di causare seri danni o pericoli per l’ambiente. A parte la condizione contenuta in detta clausola, la subordinazione è
evidente. Trattasi peraltro di una materia in cui il negoziato si rivela strumento di grande importanza ai fini
dell’armonizzazione di norme tra loro incompatibili. Si consideri infatti che gli accordi OMC vengono spesso rinegoziati
ed aggiornati nella consapevolezza della necessità di integrare le misure di liberalizzazione del commercio internazionale
con quelle idonee a preservare l'ambiente.

CAPITOLO 11: Le riserve nei trattati

*Sul tema delle riserve nei trattati vi è stata, a partire dal secondo dopoguerra, una sensibile evoluzione della prassi
internazionale. Di questa vi è ampia traccia negli articoli che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati dedica alla
materia; ma la stessa Convenzione di Vienna è stata sopravanzata dalla prassi successiva. [ Ciò ha spinto la CDI a riprendere nel
1995 lo studio della materia, sia pure dichiarando di voler assumere le norme della Convenzione di Vienna come base di partenza della nuova
opera di codificazione.]La
riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con
talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione; cosicché tra lo Stato autore della riserva e gli altri
Stati contraenti, l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente
applicabile tra gli altri Stati. La riserva ha senso nei trattati multilaterali, soprattutto in quelli stipulati da un numero
rilevante di Stati. Nei trattati bilaterali lo Stato che non vuole assumere certi impegni non ha che da proporre alla
controparte di escluderli dal testo. Secondo il diritto internazionale classico la possibilità di apporre riserve doveva
essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato
predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno Stato non avesse altra alternativa che quella di
ratificare o meno il trattato. Due erano i modi attraverso i quali si prevedeva la possibilità di apporre riserve: od i singoli
Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo del trattato si
faceva menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al momento della
ratifica o dell’adesione, ed in tale momento ciascuno Stato decideva se avvalersi o meno di una simile facoltà. Era
tuttavia necessario, anche nel secondo caso, che il testo specificasse quali clausole, quali articoli potessero formare
oggetto di riserva. Secondo il diritto internazionale classico, dunque, non era ammissibile la ratifica di un trattato
multilaterale accompagnata da riserve non previste dal testo del trattato stesso in uno dei due modi sopraindicati. La
formulazione di riserve non previste nel testo impediva la formazione del consenso, comportava pertanto l’esclusione
dello Stato autore della riserva dal novero degli Stati contraenti ed equivaleva alla proposta di un nuovo accordo. Oggi
si è verificata una notevole evoluzione nella disciplina dell’istituto, per renderlo più duttile e quindi più idoneo allo scopo
di facilitare la partecipazione degli Stati agli accordi multilaterali. Una tappa fondamentale in siffatta evoluzione fu
segnata dal parere della CIG, reso su richiesta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed avere per oggetto la
Convenzione sulla repressione del genocidio. L’Assemblea chiese alla Cortese gli Stati potessero ugualmente procedere
alla formulazione di riserve al momento della ratifica. Nel rispondere, la Corte affermò un principio che da alcuni fu
considerato come rivoluzionario, ma che è oggi del tutto consolidato come principio consuetudinario: una riserva può
essere formulata all’atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato
purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Comunque un altro Stato contraente può contestare
la riserva, sostenendone appunto l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato non può ritenersi esistente neo
rapporti tra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva. Il parere della Corte ha ispirato gli articoli sulle riserve
contenuti nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati; anzi, la Convenzione persegue in modo più marcato lo
scopo di favorire la maggiore partecipazione possibile agli accordi multilaterali. La Convenzione di Vienna codifica
anzitutto il principio che una riserva può essere sempre formulata purché non sia esclusa dal testo del trattato e purché
non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo. La Convenzione di Vienna stabilisce che la riserva
possa essere contestata da un’altra parte contraente, ed aggiunge che, se tale contestazione o obiezione non è
manifestata entro 12 mesi dalla notifica della riserva altre parti contraenti, la riserva si intende accettata. Molto
importante è poi la norma secondo la quale perfino l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i suoi
effetti tra lo Stato che la formula e lo Stato obiettante non abbia espressamente manifestato l’intenzione di impedire
che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. In altre parole, lo Stato che obietta deve dirlo espressamente.
Seguono infine varie norme di dettaglio, come quelle sulla revoca delle riserve e sulla forma in cui sia le riserve che le
revoche vanno redatte. Le quali però devono essere portate alla conoscenza degli altri Stati. Anche dopo la Convenzione
di Vienna la disciplina delle riserve ha continuato ad evolversi. La prassi internazionale successiva ha anzitutto
confermato la norma ricavabile dagli artt. 20 e 21, ammettendo che le obiezioni alle riserve possano avere gli effetti più
vari, da quello, più radicale, fino ad un effetto meramente precauzionale o soltanto morale. Altra innovazione riguarda
la possibilità che uno Stato formuli riserve in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato
purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine, è stato prima fissato in 90 giorni e poi
portato a 12 mesi in seguito alle poteste degli Stati a causa della sua brevità. Ma la tendenza innovatrice più significativa
rispetto al diritto internazionale classico è quella che si ricava dalla giurisprudenza della CEDU e dalla prassi del Comitato
istituito dal Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite: trattasi della tendenza a ritenere che tale ammissibilità non
comporti l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà pertanto
ritenersi come non apposta. E’ chiaro che non è più questione di facilitare la partecipazione agli accordi multilaterali ma
di ridurre a poco più che niente gli effetti tipici delle riserve. La giurisprudenza della Corte europea e del Comitato
riguarda però trattati sui diritti umani che tutelano fondamentali diritti degli individui. Ogni estensione ad altri tipi di
trattati è dunque prematura. Non manca chi ritiene che, anche nella materia dei diritti umani, domini ancor il principio
consensualistico, dato che la stessa giurisprudenza della Corte europea sono oggetto o di contestazione, o di mera
acquiescenza, da parte degli Stati interessati. Va infine osservato che gli Stati che vi si oppongono possono essere indotti
al limite, sottrarsi all’impegno assunto per trattato.

*Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più organi, può darsi che
l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri. Se a concorrere sono il Potere esecutivo e il
Potere legislativo, il Governo può non tenere conto di una riserva decisa dal Parlamento oppure formulare una riserva
però dal Parlamento mal voluta.[ La seconda ipotesi si è spesso verificata nella prassi italiana anche a proposito di trattati di grande rilievo,
come la Convenzione europea dei diritti umani e il Patto sui diritti civili e politici promosso dalle Nazioni Unite. Nel primo caso, la riserva aggiunta
dal Governo riguardava il divieto di impedire ai cittadini di rientrare nel territorio del proprio Stato, e ne escludeva l’applicabilità agli exre, alle loro
consorti e ai discendenti maschi, di casa Savoia ].La
reciproca delimitazione dei poteri tra l’Esecutivo e il Legislativo in ordine
alla formulazione delle riserve dipendono dal sistema costituzionale vigente in ciascuno Stato. Nel sistema italiano
questa prassi ha dato luogo a contrastanti giudizi dottrinali, sostenendosi alcuni che il Governo possa, da altri che il
Governo non possa formulare riserve non previste dalla legge di autorizzazione. I sostenitori della prima tesi di ispirano
al fatto che il Governo sia il gestore dei rapporti internazionali; d’altro canto, così come il Governo può non procedere
alla ratifica di un trattato nonostante l’autorizzazione parlamentare, così pure può restringere, attraverso le riserve, la
portata degli obblighi che lo Stato va ad assumere. I sostenitori della seconda tesi muovono da posizioni più garantiste, e
dalla necessità che la collaborazione tra Parlamento e Governo sia effettiva. Non sempre però, è chiaro quale significato
si dia all’affermazione che il Governo non possa aggiungere riserve, il problema si risolve solo se si tiene ne presente la
distinzione fra formazione e manifestazione della volontà dello Stato, da un lato, e responsabilità del Governo di
fronte al Parlamento, dall’altro. Sotto il primo profilo, non c’è dubbio che una riserva sia valida sia che essa venga
formulata autonomamente dal Parlamento, sia che essa venga formulata autonomamente dal Governo: nell’un caso e
nell’altro, infatti, si deve tenere conto del fatto che uno degli organi non vuole una parte dell’accordo, e arrivare così alla
conclusione che la manifestazione di volontà dello Stato si forma solo per la parte residua. Unica alternativa sarebbe
quella di ritenere che il mancato concorso di volontà dei due organi sulla riserva renda invalida l’intera
manifestazione di volontà dello Stato, tesi però poco credibile in presenza di una prassi che depone in senso
esattamente contrario. Il discorso è diverso per quanto riguarda il profilo della responsabilità politica del Governo, e dei
suoi membri, di fronte al Parlamento: se il Governo decide di discostarsi in tema di riserve da quanto deliberato dal
Parlamento, se la decisione non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato, e se infine non si tratta di riserve dal
contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è certamente materia perché scattino i meccanismi di controllo del
Parlamento sull’operato dello Esecutivo. Da questo punto di vista vi è solo da auspicare che il Parlamento attivi il proprio
interesse in tema di stipulazione e di vicende degli accordi internazionali più di quanto faccia normalmente. E’ chiaro che
per il diritto internazionale non presenta alcun interesse il profilo della responsabilità del Governo ma solo quello della
formazione della volontà dello Stato. La riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto del deposito della ratifica,
essendo valida per il diritto costituzionale, lo sarà anche per il diritto internazionale. Nel caso di riserva contenuta nella
legge di autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto e non dichiari all’atto del deposito della ratifica, troverò
applicazione la regola relativa alla competenza a stipulare: per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una
violazione grave del diritto interno e dovrà quindi ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il
Parlamento non revochi la riserva.

CAPITOLO 12: L’interpretazione dei trattati


*La tendenza oggi prevalente in materia è nel senso dell’abbandono del metodo subbiettivistico, mutato dal regime dei
contratti nel diritto interno ed in base al quale si renderebbe necessaria una ricerca della volontà effettiva delle parti
come contrapposta alla volontà dichiarata. Si ritiene invece che debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese
dal suo testo, che risulta dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo. In una concezione del
genere, i lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può ricorrersi solo in presenza di un testo ambiguo e
lacunoso. In pratica i lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può ricorrersi solo in presenza di un testo
ambiguo e lacunoso. In pratica i lavori preparatori servono soprattutto per avallare e rafforzare interpretazioni
desumibili almeno in una certa misura dal testo del trattato. A favore del metodo obiettivistico si pronuncia anche la
Convenzione di Vienna, che regola l’interpretazione stabilendo come regola generale che un trattato deve essere
interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contest e alla luce
dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo; che occorre tener conto anche del contesto in cui il trattato si situa; e
che occorre tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti nell’applicazione del trattato, nonché di
qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile tra le parti. A parte il ricorso al metodo obiettivistico,
valgono per l’interpretazione dei trattati internazionali quelle regole che la teoria generale ha elaborato con riguardo
alla interpretazione delle norme giuridiche in genere e che possono considerarsi come vigenti più o meno in tutti gli
ordinamenti; nell’ordinamento internazionale esse vigono in quanto principi generali di diritto. Un particolare accento
va posto sulla possibilità che l’interprete ricorra ad un’interpretazione estensiva di un trattato, ed anche a quella specie
di interpretazione estensiva costituita dal ricorso all’analogia. E’ quindi da abbandonare l’opinione secondo cui i trattati
dovrebbero sempre essere interpretati restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della sovranità e
libertà degli Stati. Questa tesi dell’interpretazione restrittiva trova ormai scarso credito presso i giudici internazionali, i
quali nell’interpretazione di certi trattati tendono a cadere nell’eccesso opposto.

* Quanto detto circa il ricorso ai normali mezzi di interpretazione compresa l’analogia, vale anche per i trattati istitutivi
di organizzazioni internazionali, ad es. per la Carta delle Nazioni Unite e per i trattati dell’Unione europea. Nessuno
disconosce ciò in linea di principio: ma da più parti si tenta di ricostruire regole particolari, applicabili sia alla Carta delle
Nazioni Unite sia agli accordi istitutivi di organizzazioni internazionali. Questo riflette la concezione per cui tali accordi
non andrebbero tanto riguardati come trattati quanto come costituzioni. La CGI si è posta per questa strada allorché ha
fatto uso della teoria dei poteri impliciti, in base alla quale ogni organo disporrebbe non solo dei poteri espressamente
attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi. La CGI,
nell’applicare tale teoria ne ha addirittura ampliato la portata finendo col dedurre certi poteri degli organi direttamente
ed esclusivamente dai principi sui fini dell’Organizzazione che si distinguono per la loro indeterminatezza. La teoria dei
poteri impliciti si colloca all’estremo opposto rispetto alla vecchia tendenza all’interpretazione restrittiva dei trattati
internazionali in quanto strumenti limitativi della sovranità degli Stati. Essa appare però eccessiva. L’analogia tra organi
statali ed organi delle organizzazioni internazionali è assai discutibile ove si pensi alla mancanza nei secondi di quella
effettiva capacità d’imporsi ai consociati che è propria dei primi. Per quanto riguarda la teoria dei poteri impliciti, essa
può essere anche utilizzata nei confronti dei primi qualora resti nei limiti di una interpretazione estensiva o analogica
per garantire ad un organo il pieno esercizio delle funzioni che il trattato istitutivo dell’organizzazione gli assegna.
Dilatarla oltre misura è non solo poco giustificabile dal punto di vista giuridico, ma anche suscettibile di risultare
controproducente dal punto di vista politico. Alcuni dei pareri della CGI che hanno applicato la teoria dei poteri impliciti,
sono rimasti lettera morta.

*La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni unilateralistiche dei trattati. Sembra da escludere cioè che una
norma contenuta in un accordo internazionale possa assumere significati differenti a seconda dello Stato contraente al
quale debba volta a volta applicarsi. Due regole della Convenzione sono indicative al riguardo. Una è quella che in testi
non concordanti redatti in più lingue ufficiali, impone un’interpretazione che concili tutti i testi, rifiutando la vecchia tesi
secondo cui per ciascuno Stato varrebbe il testo redatto nella sua lingua. L’altra, secondo cui, nell’interpretare un
trattato, occorre anche tenere conto di altre norme internazionali, tra le quali sono incluse le norme di diritto interno,
proprie di ciascuno Stato contraente contro tutte le tendenze interpretative unilateralistiche che non siano autorizzate
dalle disposizioni dello stesso accordo da interpretare contro quelle che rinunciano a ricercare un significato unico per
ogni clausola dell’accordo, occorre reagire. Infatti esse mal si conciliano con l’idea stessa di trattato e muovono dalla
presunzione che la volontà di ciascuno Stato sa nel senso di obbligarsi in modo conforme al proprio diritto, ossia da
un’interpretazione di tipo subbiettivistico spinta all’eccesso.[ Il problema dell’interpretazione di termini tecnico-giuridici interni, può
porsi per i trattati conclusi nelle più disparate materie, dagli accordi commerciali a quelli che tutelano i diritti umani. Il campo però in cui esso si è
posto in modo più frequente è quello degli accordi di diritto privato, uniforme, ossia degli accordi con cui gli Stati si impegnano a regolare allo
stesso modo certi settori del diritto privato e del diritto internazionale privato, e degli accordi bi- o multilaterali di diritto processuale, sulla
competenza giurisdizionale e il riconoscimento reciproco delle sentenze in materia civile. L’esigenza di evitare interpretazioni unilateralistiche è
stata avvertita in sede di redazione di alcune convenzioni di diritto privato e processuale. Un esempio è dato dalla Convenzione di Bruxelles sulla
competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale completata dal Protocollo di Lussemburgo, affidandosi ad
un giudice unico il compito di sciogliere i dubbi interpretativi con efficacia vincolante all’interno degli Stati contraenti, l’unicità nella interpretazione
delle clausole convenzionali è assicurata alla radice. Una soluzione meno radicale è fornita dalla Convenzione di Vienna relativa ai contratti di
vendita internazionale di merci che stabilisce: “Le questioni concernenti le materie regolate dalla presente Convenzione e che non sono da essa
espressamente risolte, saranno regolare secondo i principi generali a cui si ispira.” L’interprete dovrà comunque rifarsi esclusivamente al proprio
diritto se non vi è autorizzato dallo stesso accordo. Esso dovrà sforzarsi di stabilire quale sia il significato unico ed obiettivo della disposizione
convenzionale, significato che potrà coincidere con quello ricavabile da un determinato ordinamento interno, oppure dedursi dai principi generali
cui la convenzione si ispira o ancora dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati contraenti; questa sembra la soluzione da preferire in caso di
assoluta ambiguità del testo].A
parte la necessità di evitare interpretazioni unilateralistiche; ed i casi in cui un giudice
internazionale è esclusivamente competente ad interpretare un trattato e le sue fonti derivate, deve rivendicarsi ai
giudici interni la massima libertà dell’interpretazione del diritto internazionale analogamente a quanto avviene per
l’interpretazione del diritto interno. La subordinazione dei giudici, in questa materia, va scomparendo e comunque va
combattuta come ogni altra forma di subordinazione all’Esecutivo in tema di applicazione del diritto internazionale.

CAPITOLO 13: La successione degli Stati nei trattati

* La sostituzione dello Stato ad un altro Governo può avvenire per le cause e nei modi più vari. Può darsi che una parte
del territorio di uno Stato passi sotto la sovranità di un altro Stato già esistente, oppure si costituisca in Stato
indipendente; può darsi invece che il cambiamento di sovranità riguardi l’intero territorio dello Stato, e cioè che l’intera
comunità territoriale sia incorporata o si fonda con un altro Stato, oppure si smembri e dia luogo a più Stati nuovi, o
infine venga a trovarsi sotto un apparato di Governo radicalmente diverso. Tali vicende sono costituite da circostanze di
fatto, ossia dall’affermarsi, ritrarsi ed espandersi della sovranità territoriale, anche quando la vicenda è conseguenza di
un trattato, dato che producono soltanto effetti obbligatori e che pertanto, se alla sua stipulazione non segue il ritrarsi,
l’espandersi o l’affermarsi della sovranità territoriale in conformità alle sue clausole vi sarà sì la violazione di un obbligo
ma le cose, per quanto riguarda l’assetto del territorio coinvolto, resteranno al punto di prima. Sul piano giuridico il
problema che si pone è se, una volta verificatosi in fatto un cambiamento si sovranità, i diritti e gli obblighi internazionali
che facevano capo al predecessore passino allo Stato subentrante; chiaro è che i diritti e gli obblighi internazionali
eventualmente oggetto della successione, non possono che essere quelli pattizi, essendo che il diritto consuetudinario si
rivolge comunque a tutti gli Stati. La materia della successione nei trattati non esaurisce la problematica della
successione tra Stato e Stato: si discute infatti se, ed entro quali limiti, il diritto internazionale imponga una successione
in diritti ed obblighi di natura interna.

* Alla successione degli Stati rispetto ai trattati è dedicata una Convenzione di codificazione firmata a Vienna nel 1978.
La Convenzione è entrata in vigore nel novembre del 1996 ma non ha avuto molta fortuna, essendo stata ratificata a
tutt’oggi soltanto da 22 Stati. La Convenzione usa il termine successione come equivalente a quello di sostituzione e di
Stato successore come equivalente a quello di Stato che subentra ad un altro nel governo di un territorio. Il termine
quindi indica la mera circostanza di fatto della sostituzione a prescindere dalla questione se e quanto lo Stato successore
succeda anche in senso giuridico.[ Secondo la Convenzione, questa si applica alle successioni fra Stati che siano intervenute dopo l’entrata in
vigore della Convenzione; non è richiesto invece che lo Stato successore sia già parte contraente al momento della successione. Quindi se uno
Stato successore aderisce alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la successione è avvenuta, sempre se la
Convenzione era già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è
uno Stato nuovo, e che pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi qualora si pretendesse che lo Stato successore fosse già parte contraente
al momento della successione. Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler applicare la Convenzione ad una successione intervenuta
prima della stessa entrata in vigore di quest’ultima. Ma una tale dichiarazione varrà solo nei confronti di quelle parti contraenti che abbiano
dichiarato di accettarla. Sarà comunque necessario tenere distinta la sfera degli Stati contraenti da quella degli Stati non contraenti e, nell’ambito
della prima, quella degli Stati la cui successione sia avvenuta dopo l’entrata in vigore della Convenzione o che abbiano fatto le dichiarazioni
previste].

* Lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di una comunità territoriale, è vincolato dai
trattati, o dalle clausole di un trattato di natura reale o territoriale, o localizzabili, cioè dai trattati che riguardano l’uso di
determinate parti di territorio, conclusi dal predecessore. Rientrano qui i trattati che istituiscono servitù attive o passive
nei confronti di territori di Stati vicini; gli accordi per la concessione in affitto di parti di territorio; i trattati che
prevedono la libertà di navigazione di fiumi, canali ed altre vie d’acqua; i trattati che impongono la smilitarizzazione di
determinate aree. Di solito si riportano alla medesima categoria i trattati che fissano le frontiere tra Stati vicini, ma i
dubbi che alcuni avanzano circa il loro inquadramento nella materia sono più che giustificati. In realtà l’accordo di
delimitazione esaurisce i suoi effetti nel momento in cui la frontiera è determinata, dopo di che a dover essere rispettato
non è l’accordo ma il diritto di sovranità territoriale che ciascun Paese esercita al di qua e al di là del confine e che
discende da un autonomo principio consuetudinario sussiste nei confronti di tutti, indipendentemente da qualsiasi
ipotesi di successione dei trattati. La successione nei trattati localizzabili incontra un limite che riguarda accordi che
abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente legati al regime vigente prima del
cambiamento di sovranità. In realtà, più che di un limite autonomo, trattasi dell’applicazione alla materia successoria del
principio generale rebu sicstantibus, secondo il quale un trattato o determinate clausole di un trattato si estinguono se
mutano in modo radicare le circostanze esistenti al momento della conclusione. La regola fondamentale da assumere
come punto di partenza per i trattati non localizzabili è la regola della tabula rasa. Lo Stato che subentra nel governo di
un territorio non è vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore. La prassi è tendenzialmente orientata in senso
contrario alla successione, sia la prassi più antica che la prassi più recente relativa alla formazione di nuovo Stati
nell’ambito di territori già sotto dominio coloniale. Se la regola fondamentale è nel senso della tabula rasa, c’è una
particolarità della Convenzione del 1978 che appare assai strana ed è tale comunque da indurre a concludere che varie
norme della Convezione non corrispondano al diritto consuetudinario vigente. La Convezione distingue la situazione
degli Stati sorti dalla decolonizzazione dalla situazione di ogni altro Stato che subentri nel Governo di un territorio; e
mentre per la prima assume come regola fondamentale la regola della tabula rasa, per la seconda assume come regola
fondamentale quella della continuità dei trattati. Un simile trattamento non trova corrispondenza nel dritto
consuetudinario, data la saldatura che sussiste tra la prassi relativa agli Stati sorti dalla decolonizzazione e quella degli
altri Stati, sia nel senso che entrambe depongono in linea di massima, per il principio della tabula rasa, sia nel senso che
esse sono equamente distribuite nell’una e nell’altra prassi.

*Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del territorio di uno Stato. Può
darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga al territorio di un altro Stato preesistente. In tal caso gli accordi
vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di aver vigore con riguardo al territorio distaccatosi. A questo si
estendono invece in modo automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il territorio. Si ha una ritirata degli
accordi dello Stato predecessore e un’avanzata degli accordi dello Stato subentrante. La dottrina parla di mobilità delle
frontiere dei trattati enunciata dalla Convenzione del 1978, che si applica a tutti indistintamente i trasferimenti di
territorio da Stato a Stato. Può darsi invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi. Anche in questo
caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di aver vigore con riguardo al territorio che acquista
l’indipendenza. Gli Stati nuovi hanno in ogni tempo preteso e ottenuto l’applicazione del principio della tabula rasa,
fossero essi ex colonie oppure no. Pertanto la Convenzione del 1978 non corrisponde al diritto consuetudinario. [ Sul
problema della successione non influiscono gli accordi di devoluzione. Con l’accordo di devoluzione, che intercorre tra la ex madrepatria e lo Stato
di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già conclusi dalla prima. L’accordo però pone soltanto l’obbligo per la ex
colonia di compiere i passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati anche tacitamente ].L’applicazione
del principio della tabula
rasa agli Stati nuovi formatisi per distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore e
vigenti nel territorio distaccatosi. Simili trattati potranno continuare ad avere valore solo se rinnovati attraverso un
apposito accordo con la controparte, accordo che potrà anche essere tacito, ossia risultare da fatti concludenti.
Egualmente per i trattati multilaterali chiusi, ossia i trattati che non prevedono la partecipazione, mediante adesione, di
Stai diversi da quelli originari; anche in tal caso occorrerò un nuovo accordo con tutte le controparti. Per quanto
riguarda i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce
un temperamento. Lo Stato di nuova formazione può procedere alla notificazione di successione, con cui la sua
partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza: mentre l’adesione ha effetto ex nunc, la
notificazione di successione ha carattere retroattivo. Questa facoltà ha cominciato ad affermarsi all’epoca della
decolonizzazione ma può ritenersi ormai riconosciuta dalla consuetudine come dimostra la prassi relativa allo
smembramento dell’Unione Sovietica, della Jugoslavia e della Cecoslovacchia. In realtà si tratta di una regola sulla
stipulazione dei trattati. La Convenzione del1978 contiene una disciplina dettagliata distinguendo fra trattati già in
vigore e trattati non ancora in vigore alla data della successione.

* Affine all’ipotesi della formazione di uno o più Stati nuovi per secessione è quella dello smembramento. La
caratteristica dello smembramento, sta nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano due o più Stati
nuovi. L’unico criterio idoneo a distinguere le due ipotesi è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo
preesistente. Un esempio tipico di smembramento e non di distacco, è quello dell’Impero austro-ungarico dopo la prima
guerra mondiale, dato che nessuno degli Stati su di esso formatisi, compresa la Repubblica austriaca, conservò la
medesima organizzazione di governo dell’Impero. Altro esempio è quello della formazione della Repubblica federale
tedesca e della Repubblica democratica tedesca, sulle rovine del Reich hitleriano, dopo la seconda guerra mondiale e
fino al 1990. Altri esempi ancora sono dati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, della Jugoslavia e della
Cecoslovacchia agli inizi degli anni ’90. Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al distacco.
Agli Stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile il principio della tabula rasa, temperato però
dalla regola che prevede la facoltà di procedere ad una notificazione di successione. Anche la Convenzione del 1978
unifica le due ipotesi nella parte relativa agli Stati nuovi che non siano ex territori coloniali sottoponendole però
entrambe al principio della continuità dei trattati. Tale soluzione non trova però un pieno riscontro nella prassi recente
la quale rivela una certa tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le obbligazioni pattizie dello Stato smembrato
dividendosi pro quota i debiti contratti con Stati esteri e con organizzazioni internazionali. Si ritiene comunque che
siffatta prassi non sia idonee a porre nel nulla la regola della tabula rasa. Anzitutto tale accollo risulta di solito da accordi
tra gli Stati nuovi tra loro e c’è poi da notare che, allorché si tratta di debiti pecuniari, l’accollo sembra perseguire il fine
pratico di evitare che il flusso dei crediti dall’estero s’interrompa. Ciò che in definitiva depone più di ogni altra cosa a
favore della regolare della tabula rasa è il grande numero delle notificazioni di successione da parte di tutti questi Paesi,
notificazioni accettate dai depositari dei relativi trattati multilaterali e dalle altre Parti contraenti. Di esse non ci sarebbe
bisogno se la successione fosse automatica.[ Nel caso dello smembramento dell’Unione Sovietica, la Dichiarazione di Alma Ata prevede
che “gli Stati membri della Comunità di Stati indipendenti garantiscono il rispetto degli obblighi internazionali derivanti dai trattati e dagli accordi
conclusi dalla ex ERSS. Con una decisione adottata lo stesso giorno, il Consiglio dei capi di Stato della CSI si dichiarava a favore della successione
della Russia nei diritti di membro dell’ONU già spettanti all’Unione Sovietica, impegnando la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia a sostenere
l’ammissione delle altre Repubbliche all’ONU e ad altre organizzazioni internazionali. E’ chiaro che accordi e dichiarazioni del genere devono
incontrare l’accettazione degli Stati terzi. Nel caso della ex Jugoslavia, una dichiarazione di accollo di tutti gli obblighi si era già avuta ad opera della
Repubblica Jugoslavia nel 1992, all’atto della proclamazione di tale Repubblica. Singole dichiarazioni di successione si erano anche avute da parte di
altre Repubbliche, ad es. la Bosnia-Erzegovina. Sia questa specifica dichiarazione sia quella più generica della Repubblica serbo-montenegrina sono
state ritenute sufficienti dalla CIG per considerare i due paesi come Parti di detta Convenzione. In tale caso la Corte, che doveva decidere se avesse
competenza a giudicare delle accuse di genocidio rivolte dalla Bosnia-Erzegovina alla Repubblica serbo-montenegrina, non ha preso alcuna
posizione sulla questione della natura automatica o meno della successione in caso di smembramento. Sulla necessità dell’accettazione dell’accollo
da parte degli Stati terzi è interessante la presa di posizione del Dipartimento federale svizzero per gli affari esteri relativamente alle relazioni
convenzionali con la Croazia e la Slovenia nonché con le Repubbliche ex sovietiche. Il Dipartimento riserva alla Svizzera ed agli Stati nuovi la libertà
di mantenere in vigore le convenzioni concluse rispettivamente dalla ex-Jugoslavia e dall’Unione sovietica.]

* Opposte al distacco e allo smembramento, sono l’incorporazione e la fusione. La prima si ha quando uno Stato,
estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato; la seconda quando due o più Stati si estinguono tutti e danno vita ad
uno Stato nuovo. Il criterio di distinzione tra le due figure non può che riferirsi all’organizzazione di governo: l’ipotesi
dell’incorporazione va preferita a quella della fusione ogni qualvolta vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di
uno degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. All’incorporazione di applica
tradizionalmente la stessa regola che si applica ai trasferimenti di territori da uno Stato ad un altro, ossia la regola della
mobilità delle frontiere dei trattati. I trattati dello Stato che si estingue cessano di aver vigore mentre al territorio
incorporato si estendono i trattati dello Stato incorporante. Per i trattati dello Stato incorporato vale insomma il
principio della tabula rasa. Lo stesso regola i casi di fusione: lo Stato sorto dalla fusione, sempre che sia effettivamente
uno Stato nuovo che non presenti alcune continuità, nasce libero da impegni pattizi. Un’eccezione al principio della
tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate o fuse, conservino un notevole grado di autonomia
nell’ambito dello Stato incorporante o nuovo, quando a seguito dell’incorporazione o della fusione, si instauri un vincolo
di tipo federale. In tal caso la prassi si è orientata nel senso della continuità degli accordi, con efficacia peraltro limitata
alla regione incorporata o fusa e sempre che una simile limitazione fosse compatibile con l’oggetto e lo scopo
dell’accordo. Passando alla Convenzione del 1978, questa adotta il principio della continuità dei trattati quali che siano
le caratteristiche della riunione e quindi senza distinguere tra incorporazione e fusione e tra sussistenza o meno di un
vincolo di tipo federale tra le entità riunitesi. La Convenzione si discosta in tal modo dal diritto consuetudinario.

*Un problema di successione nei trattati si pone anche nel caso si verifichi un mutamento di governo nell’ambito di una
comunità statale, senza che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni. Quando il mutamento avviene
per vie extra legali deve ritenersi che muti la persona di diritto internazionale. Infatti lo Stato, in quanto soggetto di
diritto internazionale, si identifica con l’apparato di governo. La prassi sembra orientata ad una successione del nuovo
governo nell’obblighi e nei diritti contratti dal predecessore, incompatibili con il nuovo regime. L’eccezione è comune a
tutte le ipotesi in cui il diritto internazionale ammette la trasmissione dei diritti e degli obblighi pattizi. Più che di
un’eccezione, si tratta dell’applicazione nella materia successoria del principio rebus sic stantibus, per cui i trattati
comunque si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento della loro conclusione.

*E’ importante anche comprendere se vi sia una successione internazionalmente imposta, in situazioni giuridiche di
diritto interno. L’argomento più importante è quello della successione nel debito pubblico, argomento che non rientra
sistematicamente nel diritto dei trattati. Può darsi però che il debito non sia stato contratto dal predecessore
nell’ambito del proprio diritto interno, ma abbia formato oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro
Stato o con una organizzazione internazionale. In questo secondo caso il principio generale è quello della tabula rasa,
salvi i debiti localizzabili. Anche per i debiti non localizzabili, la prassi recente è nel senso di una equa ripartizione
concordata tra gli Stati sorti dallo smembramento e tra questi Stati ed i soggetti creditori. La ripartizione è ispirata dalla
necessità pratica di continuare a godere del credito internazionale più che dalla convinzione di applicare precise regole
di diritto internazionale generale. Non è escluso che essa possa essere interpretata come avvio alla formazione di norma
non scritta limitatamente agli accordi di mutuo. Ciò che non è certamente oggetto del diritto non scritto neppure in
formazione è la determinazione dei criteri adoperabili nella ripartizione

CAPITOLO 14: Cause di invalidità e di estinzione dei trattati

*Varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle proprie dei contratti. La loro
disciplina è prevista non solo e non tanto da norme consuetudinarie ad hoc quanto da quella particolare categoria di
norme consuetudinarie costituita da i principi generali di diritto. Come cause di invalidità ricordiamo i classici vizi della
volontà: l’errore essenziale, che nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati definisce come l’errore circa un “fatto
o una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento in cui il trattato è stato concluso e che costituiva una
base essenziale del consenso di questo Stato…”; il dolo, cui può ricondursi la corruzione dell’organo stipulante; la
violenza, fisica o morale, esercitata sull’organo stipulante. Come cause di estinzione ricordiamo: la condizione risolutiva;
il termine finale; la denuncia o il recesso, ossia l’atto formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di
sciogliersi dal trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente o implicitamente prevista
dallo stesso trattato; l’inadempimento della controparte; la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione; l’abrogazione
totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo successivo tra le stesse parti.

*Tra le cause di invalidità, insieme ad errore e dolo c’è anche la violenza esercitata sull’organo stipulante il trattato. La
Convenzione di Vienna considera come causa di invalidità anche la violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso,
ossia quella particolare forma di violenza che si concreta nell’uso della forza, stabilendo all’art. 52 che è nullo qualsiasi
trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in violazione dei principi della Carta delle
Nazioni Unite. Tale art.52 della Convenzione di Vienna corrisponde al diritto internazionale consuetudinario come
riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando della comunità internazionale. Un tempo era diffusa
la tesi che la violenza sullo Stato fosse irrilevante, portandosi come argomento il fatto che i trattati di pace sono
normalmente considerati come validi. Non ci sembra si tratti di un argomento decisivo, ove si consideri: che il trattato di
pace interviene di solito in un momento in cui non c’è più la pressione delle armi; che rappresenta un componimento di
interessi nel quale sia i vincitori che i vinti si fanno reciproche concessioni. Quando si parla di violenza sullo Stato come
causa di invalidità dell’accordo, si ha riguardo alla minaccia o all’uso della forza armata, non vi sono elementi che
ricomprendono nella violenza pressioni di altro genere, come le pressioni politiche o economiche ancorché illecite. La
dottrina concorda su ciò salvo qualche voce dissenziente di chi ritiene che a simili pressioni potrebbe applicarsi per
analogia la norma sulla violenza armata, cosa però che si sembra da escludere perché tra pressione delle armi e
pressioni politiche ed economiche non vi è somiglianza ma profonda diversità. Resta il fatto che, in sede di redazione
della Convenzione di Vienna, molti paesi di nuova indipendenza si batterono perché l’art. 52 facesse riferimento alle
pressioni politiche ed economiche; la proposta venne però ritirata in cambio di una dichiarazione di condanna che figura
come allegato all’atto finale della Conferenza di Vienna ma che non costituisce parte integrante della Convenzione.
Quindi la violenza sullo Stato è da configurare come causa di invalidità e i trattati solo entro limiti assai ristretti, Il
problema dei trattati ineguali, ossia dei trattati rispetto ai quali una parte non abbia disposto di un ampio margine di
potere contrattuale, non si risolve sul piano della validità, ma può trovare una correzione solo attraverso una
interpretazione restrittiva relativamente agli obblighi gravanti sulla parte più debole.

*Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la clausola rebus sic stantibus. Si ritiene cioè
che il trattato di estingua in tutto o in parte per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della
stipulazione, purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o ad
una sua parte. Si parla di clausola rebus sic stantibus perché la dottrina classica riconduceva questa causa di estinzione
alla volontà dei contraenti: essa riteneva che il trattato si estinguesse per effetto del mutamento delle circostanze di
fatto in quanto era da presumere che i contraenti medesimi subordinassero l’efficacia del trattato al permanere di
quelle circostanze. La clausola rebus sic stantibus veniva quindi ridotta ad una condizione risolutiva tacita. Infatti, se le
parti, espressamente o implicitamente, manifestano una volontà in questo senso, siamo di fronte ad una condizione
risolutiva e quindi non c’è un problema autonomo di effetto del mutamento delle circostanze. Il problema sorge quando
i contraenti non hanno previsto il mutamento delle circostanze come causa di estinzione del trattato. Anche in tal caso,
in virtù di una norma generale la cui esistenza è stata sempre riconosciuta nella prassi internazionale, il trattato si
estingue. La Convenzione di Vienna conferma siffatta norma, ma la esprime in termini restrittivi stabilendo che possa
trovare applicazione solo se le circostanze mutate costituivano la base essenziale del consenso delle parti, se il
mutamento sia tale da avere radicalmente trasformato la portata degli obblighi ancora da seguire e se il mutamento
medesimo non risulti dal fatto illecito dello Stato che lo invoca. Il principio rebus sic stantibus ha una sfera di
applicazione abbastanza ampia in quanto varie regole del diritto dei trattati ne costituiscono una specificazione: così la
regola secondo cui, in tutti i casi di successione di una Stato ad un altro nei diritti e negli obblighi pattizi, cadono gli
accordi incompatibili col nuovo regime o quella relativa agli effetti della guerra sui trattati. Anche la sopravvenuta
impossibilità della prestazione è una forma di mutamento radicale delle circostanze.

*Per quanto riguarda la guerra come causa di estinzione dei trattati, ovviamente, fatti salvi certi trattati i quali sono
stipulati proprio in vista della guerra e che appartengono pertanto al diritto internazionale bellico, gli accordi conclusi
dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione finche durano le ostilità. Il problema di comprendere
se la guerra determina soltanto la sospensione dei trattati oppure li estingue definitivamente si è posto in Italia in
relazione alla seconda guerra mondiale. Ad esso venne data una soluzione soltanto parziale con l’art. 44 del Trattato di
pace del 1947, il quale stabilì che le Potenze vincitrici avrebbero notificato all’Italia, entro sei mesi dall’entrata in vigore
del Trattato, quali accordi bilaterali intendessero mantenere in vigore o far rivivere, e che gli accordi non notificati
sarebbero stati considerati come abrogati. La norma non comprendeva gli accordi multilaterali e, usando la formula
mantenere in vigore o far rivivere, lasciava impregiudicata la questione se gli accordi bilaterali dovessero ritenersi
vigenti o estinti. La disciplina della materia secondo il diritto consuetudinario generale, ossia la regola classica, si è
andata affievolendo nel corso di questo secolo e soprattutto negli ultimi tempi. La prassi si è sempre più orientata a
favore di eccezioni: si è così negato l’effetto estintivo della guerra in ordine ai trattati multilaterali; ma, più in generale, si
è manifestata nella giurisprudenza interna, compresa la giurisprudenza italiana, la tendenza a considerare estinte
soltanto quelle convenzioni incompatibili con lo stato di guerra. A questo punto è il caso di negare la stessa autonomia
della disciplina degli effetti della guerra e riportare la materia a quella coperta dalla clausola rebus sicstantibus, cioè si
dovrà verificare volta a volta se la guerra abbia determinato un mutamento radicale delle circostanze esistenti al
momento della conclusione del trattato.

*Lo stato del diritto consuetudinario in materia di estinzione o d’invalidità, è oggetto di controversia in dottrina.
Nessuno disconosce che certe cause operino automaticamente; né che l’automaticità sia per definizione esclusa per
quella particolare causa di estinzione che consiste proprio nella facoltà di denuncia che un trattato eventualmente
attribuisca a ciascuno Stato contraente. La discussione è aperta, e mentre vi è chi propende per l’automaticità, altri
sostiene che sia sempre necessario un atto di denuncia notificato agli altri Stati contraenti, altri addirittura che il trattato
continui a restare in vigore finché la causa di invalidità o di estinzione non sia accertata in modo imparziale. Non è chiaro
se vi sia e quale sia un criterio idoneo a distinguere le cause ad effetto automatico dalle altre. L’impressione è che
l’orientamento sia tendente ad escludere l’automaticità quando la causa invalidante/estintiva consista in fatti difficili da
provare o di dubbia interpretazione. La materia è insomma piuttosto ingarbugliata, si intreccia con quella della soluzione
delle controversie fra Stati e risente più di ogni altra della mancanza di una funzione giurisdizionale istituzionalizzata. A
complicarla contribuisce anche la Convenzione di Vienna, che da un lato introduce modalità e termini per far valere
l’invalidità o l’estinzione ignoti al diritto consuetudinario, dall’altro non prevede un sistema di soluzione delle
controversie realmente capace di evitare gli abusi. L’automaticità va in linea di massima riconosciuta, ma in un senso
ben circoscritto. Chiunque debba applicare un trattato non può non decidere se il trattato sia ancora in vigore o se
viceversa essi sia affetto da una causa di invalidità o di estinzione. Una simile decisione fa arte integrante di quella
diretta a verificare l’applicabilità del trattato. Il fatto che essa sia consentita è testimoniato dalla prassi giurisprudenziale
interna, che rivela la tendenza dei giudici nazionali a risolvere nelle loro sentenze le questioni di invalidità e di estinzione
dei trattati, sia autonomamente sia in conformità all’opinione degli organi preposti agli affari esteri, comunque
prescindendo dai formali atti di denuncia sul piano internazionale. Trattasi però di una decisione che vale solo per il caso
concreto, non è vincolante negli altri casi successivi decisi da altri giudici o dallo stesso giudice, così come è valida solo
nel caso concerto l’applicazione di una qualsiasi norma giuridica. E’ chiara la decisione circa l’invalidità o la estinzione,
sebbene limitata al singolo caso, può avere conseguenze di carattere internazionale, dando luogo a proteste e misure di
ritorsione da parte di quegli Stati contraenti i quali ritengano che il trattato sia invece perfettamente valido e in vigore.
Così l’intesa, l’automaticità non è alternativa alla procedura della denuncia. La denuncia serve a scopi diversi. L’atto
formale di denuncia, notificato alle altre Parti contraenti o al depositario del trattato, implica la volontà dello Stato di
sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale. Una simile manifestazione di volontà, quando si fonda su di
un’altra causa di invalidità o di estinzione, non è indispensabile; se lo Stato vi ricorre è per fare risaltare in modo certo e
definitivo che il trattato non è applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto. Alla domanda se la
denuncia è sufficiente a produrre la cessazione del vincolo, la risposta può essere data in termini relativi. Se si ha
riguardo agli organi dello Stato denunciante e a tuti coloro che, all’interno di esso dovrebbero osservare e far osservare
il trattato, non vi è dubbio che la denuncia vincoli alla disapplicazione; unica condizione a tal fine è che essa promani
dagli organi competenti a manifestare la volontà dello Stato in ordine ai rapporti internazionali. Se si ha riguardo invece
agli altri Stati contraenti, è in dubbio che questi non siano vincolati dalla unilaterale manifestazione di volontà dello
Stato denunciante; cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa di invalidità o di estinzione, il
trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano internazionale che potrà essere caratterizzata da ritorsioni e dalla
quale potrà uscirci solo con un nuovo accordo oppure con la sentenza di un giudice internazionale. In questo quadro
vanno inserite le regole che la Convenzione di Vienna dedica alla materia. Lo Stato il quale invoca un vizio del consenso,
o altro motivo riconosciuto dalla Convenzione come causa di estinzione o di invalidità, deve notificare per iscritto la sua
pretesa alle altre Parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine che non può essere inferiore a tre
mesi salvo il caso di particolare urgenza, non vengono manifestate obiezioni, lo Stato può definitivamente dichiarare con
un atto comunicato alle altre parti, e che deve essere sottoscritto dal Capo dello Stato, o dal Capo del Governo o dal
Ministro degli Esteri, o comunque promanare da persona munita di pieni poteri, che il trattato è sa ritenersi invalido o
estinto. Se delle obiezioni vengono sollevate, lo Stato che intende sciogliersi e la Parte o le Parti obiettanti devono
ricercare una soluzione della controversia con mezzi pacifici quali negoziati, conciliazione, arbitrato, ecc. La soluzione
deve intervenire entro 12mesi, Trascorso inutilmente tale termine, ciascuna parte può mettere in moto una procedura
conciliativa che fa capo ad una commissione formata nell’ambito delle Nazioni Unite, e che non sfocia però in una
decisione obbligatoria ma solo in un rapporto avente mero valore di esortazione; una decisione obbligatoria è prevista
soltanto per l’assai eccezionale caso che la pretesa invalidità si fondi su di una norma di jus cogens. Se il rapporto della
Commissione di conciliazione, che eventualmente si pronunci per l’invalidità o l’estinzione del trattato, viene respinto
dalla o dalle Parti contro interessate. La pretesa all’invalidità o all’estinzione resta paralizzata in perpetuo. E’ questa una
conseguenza molto grave che trae origine da un preciso schieramento della maggior parte degli Stati in seno alla
Conferenza di Vienna contro la predisposizione di un sistema di arbitrato obbligatorio; ed è una conseguenza che
contribuisce a far apparire abbastanza artificioso tutto il complesso di termini e modalità procedurali ora descritto. Le
norme degli artt.65 ss. Della Convenzione di Vienna mirano a disciplinare la materia della denuncia dei trattati e non
codificano il diritto internazionale consuetudinario. Nei rapporti tra i Paesi che aderiscono alla Convenzione la procedura
di cui agli artt. 65 ss. Si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia di un atto posto in essere senza l’osservanza di
particolari forme, termini e modalità; ciò a meno che la sostituzione non sia esclusa o contemplata, dallo stesso trattato
oggetto della denuncia, in deroga alla Convenzione di Vienna. La sostituzione comporta che chiunque sia chiamato ad
applicare il trattato, non potrà mai considerare come avvenuto un simile scioglimento e non potrà considerare come
efficace l’eventuale atto di denuncia unilaterale, finché le condizioni poste dagli artt.65 ss. non siano soddisfatte e finché
ogni controversia relativa allo scioglimento medesimo non sia risolta con un accordo o con una sentenza internazionale.

CAPITOLO 15: Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite

*I trattati possono contenere non solo regole materiali, ma anche regole formali o strumentali che istituiscono ulteriori
procedimenti o finti di produzione di norme. L’esempio più importante è fornito dal settore dell’organizzazione
internazionale: in tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato che le dà vita ad emanare
decisioni vincolanti per gli stati membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo. Il compito delle organizzazioni
internazionali non è quello di emanare norme quanto quello di facilitare la collaborazione tra gli Stati membri. L’attività
delle organizzazioni, anche l’attività dell’ONU, si svolge il più spesso in una fase che ha scarso valore giuridico,
consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni che gli Stati membri sono poi liberi di tradurre o no in
norme giuridiche attraverso la ratifica delle Convenzioni medesime. Altra attività svolta dalle organizzazioni
internazionali è costituita dall’emanazione di raccomandazioni, cioè di atti che hanno valore di esortazione e che come
tali non vincolano gli Stati con cui si indirizzano. Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono normalmente
essere prese a maggioranza, magari qualificata. Poiché per altro la maggior parte delle organizzazioni è composta di
Stati, e poiché gli Stati non amano sottostare alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è andata poi
diffondendo la pratica del consensus, che consiste nell’approvare una risoluzione senza una votazione formale, di solito
con una dichiarazione del Presidente dell’organo la quale attesta l’accordo tra i membri.

*L’ONU fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le Potenze dell’Asse, e
prese il posto della disciolta Società delle Nazioni. La Conferenza di San Francisco ne elaborò nel1945 la Carta che venne
ratificata dagli Stati fondatori. Successivamente ne sono via via divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo. L’art. 7
della Carta considera come organi principali: l’Assemblea generale, il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio economico e
sociale, il Consiglio di Amministrazione fiduciaria, la Corte Internazionale di Giustizia ed il Segretariato. Tra questi hanno
importanza fondamentale il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale. Il Consiglio di Sicurezza è composto di 15
membri, di cui 5 siedono a titolo permanente (Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna e Francia, godendo del diritto di veto, cioè
del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale;
gli altri 10 membri sono eletti per un biennio dall’Assemblea. Il Consiglio di Sicurezza è l’organo di maggior rilievo nello
ambito dell’Organizzazione, sia per importanza delle questioni in sua competenza, sia perché dispone in taluni casi di
poteri decisionali vincolanti. Nell’Assemblea sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di voto. Il Consiglio
economico e sociale è composto da membri eletti dall’Assemblea per 3 anni; sia esso che il Consiglio di Amministrazione
fiduciaria sono in posizione subordinata rispetto all’Assemblea generale in quanto sono tenuti a seguirne le direttive ed
in certi casi il loro compito si limita addirittura alla preparazione di atti che vengono poi formalmente adottati
dall’Assemblea. Il Segretario generale che ne è a capo, e che è nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di
Scurezza, è l’organo esecutivo dell’Organizzazione. La Corte Internazionale di giustizia, composta da 15 giudici, ha sia la
funzione di dirimere controversie fra Stati sia una funzione consultiva in quanto può dare pareri su qualsiasi questione
giuridica dell’Assemblea generale o al Consiglio di Sicurezza oppure ad altri organi su autorizzazione dell’Assemblea; i
pareri non sono però né obbligatori né vincolanti. Consiglio di Sicurezza, Assemblea generale, Consiglio economico e
sociale e Consiglio di Amministrazione Fiduciaria sono organi composti da Stati. Ciò significa che gli individui che con il
loro voto concorrono a formare la decisione collegiale sono organi del proprio Stato, manifestano la volontà del proprio
Stato. Il Segretario generale e la CGI sono invece organi composti da individui, nel senso che il Segretario ed i giudici
assumono l’ufficio a titolo puramente individuale, con l’obbligo di non ricevere istruzioni da alcun Governo. Gli scopi
dell’Organizzazione sono quanto mai ampi se non indeterminati. Assume rilievo a tal riguardo la norma dell’art. 2 della
Carta, in base alla quale le Nazioni Unite non devono intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla
competenza interna di uno Stato. L’ampiezza e l’indeterminatezza appare dalla elencazione che ne fa l’art. 1 della Carta,
sulla base della quale possono comunque individuarsi tre grandi settori di competenza dell’ONU: il primo è quello del
mantenimento della pace; il secondo è quello dello sviluppo delle relazioni amichevoli fra Stati fondati sul rispetto del
principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli; il terzo è quello della collaborazione in campo
economico, sociale, culturale ed umanitario. All’ampiezza dei fini dell’Organizzazione non corrispondono però dei poteri
vincolanti nei confronti degli Stati membri. L’attività principale dell’ONU è costituita dalla emanazione di
raccomandazioni e dalla predisposizione di progetti di convenzioni. Lo stesso Consiglio di Sicurezza del resto ha tutta una
serie di competenze che sfociano ancora e soltanto nell’emanazione di raccomandazioni.

*A proposito dei rari casi di decisioni vincolanti dell’ONU, per quanto concerne l’Assemblea generale, un caso molto
importante è dato dall’art. 17, che attribuisce all’Assemblea il potere di ripartire tra gli Stati membri le spesso
dell’Organizzazione, ripartizione che vincola tutti gli Stati. A tale caso deve aggiungersi quello della competenza
dell’Assemblea a decidere circa modalità e tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio
coloniale. Le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono quelle previste da talune disposizioni del Cap. VII della
Carta intitolato “Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione”. Il nucleo
centrale del Cap. VII è costituito dagli artt. 41 e 42 riguardanti le misure non implicanti e quelle implicanti l’uso della
forza contro uno Stato che abbia anche soltanto minacciato la pace. A parte l’art. 42, merita attenzione l’art. 41 che
prevede le sanzioni e attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di decidere quali misure non implicanti l’uso della
forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro uno Stato che minacci o abbia violato la pace. Anche un
comportamento meramente interno di uno Stato può indurre il Consiglio a ricorrere alle sanzioni previste dall’art. 41
soprattutto allo scopo di tutelare la popolazione civile. Durante la guerra fredda il Consiglio, paralizzato dal diritto di
vero, emise raramente decisioni vincolanti per gli Stati ai sensi dell’art. 41, limitandosi piuttosto a raccomandare misure
riportabili all’art. 41 e quindi lasciando liberi gli Stati di adottarle o meno. Dopo la fine della guerra fredda il Consiglio,
liberato dai veti incrociati dei due blocchi, ha potuto intensificare la sua azione in base all’art. 41

CAPITOLO 19: Le raccomandazioni degli organi internazionali

*La raccomandazione è l’atto tipico che gli organi delle Nazioni Unite hanno il potere di emanare. Non è vincolante e
precisamente non vincola lo Stato o gli Stati, a cui si dirige, a tenere il contegno raccomandato; essa dunque non
propriamente da annoverare tra le fonti previste da accordi. Trattasi di un atto che ha soltanto valore esortativo. Una
tesi sostenuta è quella secondo cui la raccomandazione produrrebbe un effetto di liceità: non commette illecito lo Stato
il quale, inosservanza di una raccomandazione, venga meno ad obblighi precedentemente assunti nei confronti di altri
Stati membri dell’organizzazione raccomandante; ciò purché la raccomandazione sia legittima, ossia non fuoriesca dalle
competenze proprie degli organi e da ogni altro limite che il trattato istitutivo ponga all’azione degli organi medesimi.
Dobbiamo dunque riconoscere che le raccomandazioni appartengono puramente e semplicemente al soft law.

*Taluni ritengono che sia illecito il comportamento dello Stato il quale rifiuti di osservare tutta una serie di
raccomandazioni. Ciò equivale a dire che le raccomandazioni diverrebbero obbligatorie. La tesi è inaccettabile in quanto
il principio della cooperazione tra gli Stati membri non può essere spinto fino al punto di sovvertire la caratteristica
fondamentale dell’atto che è quella di non vincolare il destinatario al contegno raccomandato.

CAPITOLO 20: La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente. L’unitarietà dell’ordinamento
internazionale

*Al vertice della gerarchia si situano le norme consuetudinarie, tra esse compresa quella particolare categoria di norme
consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni. La consuetudine è dunque
fonte di primo grado, ed è l’unica fonte di norme generali, come tali vincolanti tutti gli Stati. Il secondo posto della
gerarchia spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria, il fondamento della sua obbligatorietà. Il terzo
posto è occupato dalle fonti previste da accordi, particolarmente degli atti delle organizzazioni internazionali. Per
quanto riguarda i rapporti fra queste tre fonti, cominciamo da consuetudine ed accordo, è il caso di notare che il fatto
che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie non significa di per sé inderogabilità di queste
ultime da parte delle prime. Una norma di grado inferiore può derogare alla norma di grado superiore se quest’ultima o
consente. Il nostro problema consiste pertanto nel chiederci se le norme consuetudinarie internazionali siano così
fortemente vincolanti da non poter essere derogate mediante trattati. In linea generale la soluzione da dare al problema
è negativa. Le norme consuetudinarie sono caratterizzate dalla loro flessibilità, e quindi dalla loro derogabilità mediante
accordo. E’ opinione comune che esista un gruppo di norme di diritti internazionale generale le quali eccezionalmente
sarebbero cogenti. L’art. 53 della Convenzione stabilisce infatti che è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua
conclusione, in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale, dovendosi intendere per norma
imperativa del diritto internazionale generale, una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli
Stati nel suo insieme come norma alla quale non può essere apportata nessuna deroga e che non può essere modificata
che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo carattere. Del diritto cogente si occupa
anche l’art. 64 della Convenzione, che afferma che se una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale di
forma, qualsiasi trattato esistente che sia in contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue. La Convenzione di
Vienna non indica quali norme internazionali siano imperative dicendo che la norma cogente è quella che non può
essere derogata, d’altro canto all’epoca della Convenzione del 1969, la nozione di diritto cogente era abbastanza
avveniristica. L’interprete dovrà anzitutto stabilire se una norma trova riscontro negli elementi della diuturnitas e
dell’opinio juris sive necessitas; ma dovrà altresì stabilire se la più gran parte degli Stati considera detta norma come
superiore alle comuni fonti internazionali in quanto ispirata a valori fondamentali ed universali. La nozione di diritto
cogente ha così carattere storico, potendo mutare da un’epoca all’altra, soprattutto nel senso del suo ampliamento. Allo
stato da un esame della dottrina e della giurisprudenza interna ed internazionale possa ricavarsi che allo jus cogens
appartengono il nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto dell’uso della
forza fuori del caso di legittima difesa e, il diritto allo sviluppo. Alla lista va aggiunta la norma dell’art. 103 della Carta
delle Nazioni Unite che sancisce l’inderogabilità degli obblighi scaturenti dalla Carta e dalle decisioni vincolanti degli
organi dell’ONU. Detti obblighi sono considerati da tutta la comunità internazionale come assolutamente inderogabili.
Anche la giurisprudenza interna è orientata in tal senso. Dottrina e prassi sono prodighe nel ricostruire norme che in
linea di principio debbano considerarsi come imperative. Per quanto riguarda le possibili applicazioni di una norma
internazionale imperativa anzitutto, la conseguenza principale dovrebbe essere la nullità del trattato contrario a lo jus
cogens. Una applicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in termini di mera superiorità o
prevalenza della norma di jus cogens rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai trattati ed alle fonti derivanti dei
trattati. Da questo punto di vista la norma internazionale contraria ad una norma imperativa resta valida ma è
inapplicabile; insomma il rapporto tra le due categorie di norme è da esprimere in termini di inderogabilità e non di
nullità. Si prendano ad esempio le norme consuetudinarie sull’immunità degli organi statali e degli Stati stranieri, da un
lato, e la norma imperativa che vieta la tortura ed i trattamenti disumani e degradanti, dall’altro: la superiorità di
quest’ultima non intacca la vigenza della prima ma ne sancisce l’inapplicabilità al caso dello Stato o dell’organo
torturatore. Proprio in tema di rapporto tra immunità degli Stati e degli organi statali stranieri e gross violation dei diritti
umani sia la giurisprudenza internazionale, sia quella interna non si è mostrata molto sensibile al tema dello jus congens,
arroccandosi sull’applicazione delle vecchie norme relative alle immunità. A trovare maggiormente applicazione è stato
proprio l’art.103 della Carta. Nelle sentenze nazionali, le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sul congelamento
dei beni di individui presunti terroristi, messe a confronto con le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
hanno finito per prevalere, dopo un bilanciamento degli interessi in gioco.

*Sempre sul tema di rapporti tra consuetudini e accordi, e di derogabilità o inderogabilità delle prime ed opera dei
secondi, occorre capire se le norme che regolano le cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono o non sono
derogabili, se possono gli Stati stabilire in un trattato che qualsiasi mutamento delle circostanze non sarà considerato
causa di estinzione del trattato medesimo e se possono gli Stati stabilire in un trattato che qualsiasi mutamento delle
circostanze non sarà considerato causa di estinzione del trattato medesimo. E’ chiaro che siamo di fronte a norme
inderogabili, Il fato che queste norme generali regolano la struttura dell’accordo, le pone per forza su di un piano
superiore, anche nel senso della forza formale, al trattato.

* Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, il problema dei limiti entro i quali essi possono derogare
alle norme dei trattati che ne prevedono l’emanazione va ovviamente risolto caso per caso. In ogni trattato istitutivo di
un’organizzazione internazionale possono trovarsi norme sia derogabili che cogenti; tra queste ultime vanno classificate
le norme le quali prescrivono le maggioranze necessarie per l’adozione degli atti. Anche il diritto internazionale generale
di impone alle organizzazioni internazionali, sempre che l’accordo istitutivo non vi deroghi, come il caso della Carta delle
Nazioni Unite.

*Il diritto internazionale si presenterebbe come frammentato in sistemi di norme autosufficienti create con un trattato o
un gruppo di trattati, istitutivi e non di organizzazioni internazionali. Rientrerebbero così in tale categoria le norme sulla
tutela dei diritti umani, sul diritto del mare, sul diritto dell’ambiente, sul commercio internazionale e chi più ne ha più ne
metta, norme tutte caratterizzare da mezzi di accertamento e dà garanzie autonome. Altra caratteristica di questi
blocchi di norme è che contestabile la tendenza di queste ultime a sostenere la completezza del blocco. La tesi della
frammentazione trova scarso riscontro nella prassi in un’epoca come la nostra, dove la comunità internazionale è
caratterizzata da organizzazioni internazionali universali, prima fra tutte le Nazioni Unite. Mettere in discussione
l’unitarietà dell’ordinamento giuridico internazionale non ha senso. I rapporti tra norme sono caratterizzati dalla grande
flessibilità delle sue fonti, in particolare della consuetudine, fatta salva la rigidità dello jus cogens. I sistemi autonomi di
norme costituiscono nient’altro che il diritto particolare che prevale sul diritto internazionale generale.

IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI


CAPITOLO21:Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale ed interna
degli Stati

* Il diritto internazionale materiale, sia consuetudinaria che pattizio, si snoda tutto intorni ad un filo conduttore
informato ad un’idea direttrice secondo cui il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti
all’uso della forza da parte degli Stati. Ora di tratta di limiti che riguardano l’uso della forza da parte degli Stati. Ora si
tratta di limiti che riguardano l’uso della forza diretta da parte degli Stati. Ora si tratta di limiti che riguardano l’uso della
forza diretta verso l’esterno, sotto forma di violenza di tipo bellico, nei confronti degli altri Stati. Ora si tratta di limiti che
riguardano l’uso della forza diretta verso l’esterno, sotto forma di violenza di tipo bellico, nei confronti degli altri Stati
(forza internazionale) e si tratta di limiti che concernono l’uso della forza verso l’interno, nei confronti degli individui,
persone fisiche o giuridiche, e dei loro beni (forza interna). Per forza internazionale intendiamo la violenza di tipo
bellico, o comunque qualsiasi atto il quale implichi operazioni militari, come l’attraversamento della frontiera da parte di
truppe regolari o di bande armate assoldate dallo Stato, il bombardamento di parti del territorio, l’attacco contro navi o
aerei militari, il blocco delle coste o l’installazione di campi minati al largo delle medesime. Più complesso è dare la
definizione di forza interna, intesa come potere di governo esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni. Quella di
potere di governo, secondo il diritto internazionale, è una nozione che è stata studiata soprattutto con riguardo al
potere esercitato dallo Stato nell’ambito del suo territorio; ma essa va considerata da un punto di vista più generale,
come nozione utilizzabile con riguardo al potere d’imperio dello Stato ovunque esplicato. Non si può identificare detto
potere con l’esercizio della coercizione in quanta forza materiale e sostenere quindi che rilevanti per il diritto
internazionale siano soltanto le azioni di polizia, l’esecuzione delle condanne penali. Sebbene una parte della dottrina
sostenga questa tesi sebbene sia il potere coercitivo materiale quello che normalmente viene in rilievo per il diritto
internazionale, non sembra che si possa sostenere ce una violazione del diritto internazionale derivi sempre e soltanto
dall’effettivo esercizio della coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice o una legge che contenga un
provvedimento concreto possono costituire un comportamento illecito. Escluso che il potere di governo si identifichi
con la coercizione materiale, bisogna anche guardarsi dal riportargli ogni manifestazione della sovranità dello Stato, e
quindi anche la mera attività normativa astratta, sia essa esplicata attraverso leggi oppure atti amministrativi. Finché al
comando astratto non segue la sua applicazione ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di una violazione
del diritto internazionale. L’attività normativa astratta non interessa il diritto internazionale neppure quando essa forma
l’oggetto specifico di una convenzione internazionale. Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa
dunque a metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio della coercizione materiale. Non basta la semplice
emanazione di comandi concreti, legislativi, giurisdizionali o amministrativi, in quanto è questa, la tesi di quella parte
della dottrina anglosassone la quale sostiene che il diritto internazionale ponga già limiti alla cosiddetta jurisdiction to
prescribe legislative jurisdiction. Ad ogni modo, alla luce di una complessiva valutazione della prassi l’attività di mero
comando, anche se indirizzata a persone determinate e vertente su questioni concrete, non ha di per sé rilievo per il
diritto internazionale se non è accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per farla
rispettare. Può concludersi che il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale, o la jurisdiction dello
Stato nel senso del diritto internazionale, sia costituito da qualsiasi misura concreta di organi statali, sia avente essa
stessa natura coercitiva sia in quanto, e solo in quanto, suscettibile di essere coercitivamente attuata.

*Si tratta della forza internazionale o della forza interna, ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre l’azione
esercitata dallo Stato su persone o cose. Certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che
non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato. Anche in questi casi, punto di
riferimento della disciplina internazionalistica restano le persone e le cose; i diritti e gli obblighi internazionali di cui lo
Stato è titolare presuppongono sempre la sua possibilità di governare le attività umane.

*Tenuto conto del fatto che un principio fondamentale di diritto internazionale vieta il linea generale l’uso della violenza
di tipo bellico, la materia dei limiti all’uso della forza viene in rilievo soprattutto sotto l’aspetto dell’eccezione a siffatto
divieto, ossia della legittima difesa.

CAPITOLO 22: La sovranità territoriale

* La prima norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità
territoriale. Essa si affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero ed in cui conseguentemente cessò ogni
forma di dipendenza anche formale delle singole entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale venne
allora concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per oggetto il territorio;
anche il potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio. Il potere dello Stato sulle
persone e sulle cose non era che una manifestazione, una derivazione del potere sul territorio. Era così connaturata
all’idea di potestà di governo quella di territorio che, per giustificare l’esercizio del potere di governo oltre il territorio, si
diceva che si trattava pur sempre di territorio. Per quanto riguarda la natura giuridica internazionale del territorio: c’è
che ancora afferma trattarsi dell’oggetto di un diritto reale dello Stato, simile alla proprietà; chi viceversa ritiene che il
territorio non venga in rilievo come un bene in senso patrimonialistico ma segni soltanto l’ambito entro il quale si
esplica la potestà di governo dello Stato, potestà di governo che costituirebbe erra il vero oggetto del diritto di sovranità
territoriale; chi infine mescola variamente le due tesi. Trattasi di una disputa esclusivamente teorica e piuttosto sterile;
la sostanza delle cose non muta, non muta cioè il contenuto della norma internazionale sulla sovranità territoriale. Può
dirsi che la norma attribuisca ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua
comunità territoriale, cioè sugli individui che si trovano nell’ambito del territorio. Ogni Stato ha l’obbligo di non
esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo, ossia di non svolgersi con i propri organi azioni di natura
coercitiva o comunque suscettibili di essere coercitivamente attuate. In ogni caso la violazione della sovranità territoriale
si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata dell’organo straniero nel territorio. In linea di principio il potere di
governo dello Stato territoriale non solo è esclusivo rispetto a quello degli altri Stati ma è anche libero nelle forme e nei
modi del suo esercizio e nei suoi contenuti. In linea di principio, cioè, lo Stato è libero nel suo territorio di fare ciò che
vuole, di disporre come crede delle proprie risorse naturali, si seguire i criteri che crede nel governo della comunità
territoriale. Quasi tutte le norme internazionali che si sono venute formando fino ad oggi comportano né più né meno
che una serie di limiti sempre più fitti al potere di governo esplicato nell’ambito del territorio; cosicché se è vero che il
principio è ancora che lo Stato può comportarsi nel suo territorio come meglio crede, nel dubbio, è sempre questo
principio a doversi applicare, anche se mancano le eccezioni derivanti dal diritto consuetudinario, i limiti alla libertà dello
Stato sono in massima parte l’effetto di norme convenzionali, e quindi di norme che gli Stati hanno comunque
liberamente accettato. Le eccezioni che per prime si sono andare affermando, sia sul piano del diritto consuetudinario
che sul piano del diritto pattizio, sono costituite dalle norme che gli Stati hanno comunque liberamente accettato. Le
eccezioni che per prime si sono andare affermando, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto
pattizio, sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento agli stranieri, soprattutto degli agenti
diplomatici, e degli stessi Stati stranieri. I limiti che da queste norme derivano al potere dello Stato non sono oggi i più
importanti; anzi, la loro specificità si è andata molto attenuando sia perché essi sono confluiti per una certa parte nelle
norme che tutelano tutti gli essere umani, sia perché per un’altra parte nelle norme che tutelano tutti gli esseri umani,
sia perché per un’altra parte essi si sono assai affievoliti.

* [La sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata ancheda un altro principio fondamentale del diritto
internazionale, vale adire che dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nei rapporti internazionali. Tale
divieto riguarda principalmente le azioni di tipo bellico rivolte contro il territorio dello Stato e pone in primo piano
proprio la necessità di proteggere l’integrità territoriale degli Stati].*Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità
territoriale, cioè del diritto ad esercitare in modo esclusivo ed indisturbato il potere di governo, vale il criterio della
effettività: l’esercizio effettivo del potere di governo fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo
medesimo. Molti aspetti della problematica dell’acquisto della sovranità territoriale, hanno ormai perso quasi del tutto
attualità; essi erano infatti legati all’esistenza di territori di nessuno o magari non ancora scoperti. Territori del genere
non esistono oggi, né la sovranità territoriale può acquistarsi negli spazi cosmici scoperti o da scoprire. Attuale è invece il
problema degli acquisti di territori effettuati in violazione di norme internazionali di fondamentale importanza.
Nonostante i tentativi fatti per limitare la portata del principio di effettività e disconoscere l’espansione territoriale che
sia frutto di violenza o di gravi violazioni di norme internazionali, la prassi sembra ancora oggi sostanzialmente orientata
nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato comporti
l’acquisto della sovranità territoriale. Nel caso della sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di
controversie tra gli Stati confinanti, la CGI ha più volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo
giuridico, come un precedente accordo tra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti, e salvo che una delle
parti non abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra, basate sull’effettività.

CAPITOLO 23: I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del dominio riservato e il rispetto dei diritti
umani

* I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come crede nell’ambito del suo territorio sono costituiti
dalle norme internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali, che perseguono valori di giustizia, di cooperazione e
di solidarietà tra i popoli. Trattasi di norme attraverso le quali si manifesta la tendenza del diritto internazionale ad
ingerirsi nei rapporti interni alle singole comunità statali, di norme che riguardano l’intera comunità statale, senza
distinzione tra cittadini e stranieri o apolidi. Con l’affermarsi dei limiti si è andato progressivamente erodendo il dominio
riservato o competenza interna dello Stato, espressione con cui si intende per l’appunto indicare le materie delle quali il
diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente
libero da obblighi. Tradizionalmente venivano fatti rientrare nella competenza interna i rapporti tra lo Stato ed i propri
sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica e sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic
jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il suo significato per
quanto concerne il diritto convenzionale. L’azione dei Governi nel settore delle iniziative internazionali dirette a
promuovere la tutela della dignità umana si è tradotta nella conclusione di numerose convenzioni. Ricordiamo: su scala
regionale, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Carta dei
diritti fondamentali dell’UE, resa vincolante dal TUE, la Convenzione interamericana sui diritti umani e la Carta africana
dei diritti dell’uomo e dei popoli. Tutte queste convenzioni, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro
osservanza, contengono un catalogo dei diritti umani che spesso risulta assai dettagliato ed avanzato di quello che
normalmente le Costituzioni, anche le più moderne, prevedono. Assai estesi sono i diritti che gli Stati sono obbligati a
riconoscere a tutti gli individui sottoposto al loro potere, senza distinzione di sesso, razza, religione ed opinione politica:
i diritti economici comprendono il diritto al lavoro, ad un equa retribuzione, alle assicurazioni e alle altre forme di
assistenza e di sicurezza sociale, il diritto di formare sindacati liberi e il diritto di sciopero; per quanto concerne i diritti
civili e politici, il consueto catalogo delle libertà individuali risulta ampliato con i divieti che formano oggetto anche del
diritto consuetudinario, come il divieto di praticare la tortura, di sottoporre l’individuo a trattamenti disumani e
degradanti.

* La materia dei diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle norme consuetudinarie. A
differenza delle convenzioni, le quali contengono cataloghi assai dettagliati, il diritto consuetudinario si limita peraltro
alla protezione di un nucleo fondamentale ed irrinunciabile di diritti umani. Trattasi del divieto delle gross violations,
ossia delle violazioni gravi e generalizzate di tali diritti. Sulla contrarietà di siffatte pratiche al diritto generale, anzi allo
juscogens internazionale, concordano tutti gli Stati, si è anche pronunciata la CIG ed esiste una significativa ed
abbondante prassi conforme delle Nazioni Unite. [ Nonostante le tante dichiarazioni e norme che le condannano, le gross violation
continuano purtroppo ad essere praticate. Quelle ricorrenti su larga scala sono soprattutto la tortura ed i trattamenti disumani e degradanti. Con
tortura si indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore e sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine
segnatamente di ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa ha commesso di intimorirla o di far pressione si di lei. Come la
CEDU ha più volte indicato, la tortura si distingue dai trattamenti disumani e degradanti solo per la maggior intensità delle sofferenze fisiche
opsichiche inflitte, tutte dovendo peraltro raggiungere una soglia minima di gravità ].L’obbligo
degli Stati di rispettare i diritti umani è
fondamentalmente un obbligo negativo, o di astensione. Gli organi statali sono tenuti ad astenersi dal ledere siffatti
diritti e, per quel che riguarda il diritto consuetudinario, dal compiere atti qualificabili come gross violation. Ma il
rispetto dei diritti umani costituisce anche l’oggetto di un obbligo positivo o di protezione. Lo Stato deve vagliare
affinché violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino sul suo territorio. Esso è
pertanto tenuto a prendere tutte le misure di polizia, giudiziarie, ecc, idonee a prevenire e reprimere dette violazioni.

*Le norme sui diritti umani vengono anche in rilievo con riguardo alla protezione delle minoranze, definibili come
gruppo numericamente più esiguo del resto della popolazione dello Stato al quale esso appartiene ed avente
caratteristiche culturali, fisiche o storiche, una religione o una lingua diversi da quelli del resto del paese, la necessità
della loro protezione si è esposta a partire dalla fine della prima guerra mondiale. A causa della frantumazione
dell’Impero austro-ungarico e di quello ottomano, e si è riacutizzata dopo la caduta del muro di Berlino con la
dissoluzione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia. La protezione delle minoranze è esclusivamente affidata al diritto
convenzionale e norme sulla materia si trovano in quasi tutte le convenzioni sui diritti umani. Le convenzioni
multilaterali che invece si occupano specificamente della materia non sono molte. Spesso le norme su una determinata
minoranza si trovano in accordi bilaterali tra lo Stato al quale la minoranza etnicamente appartiene e lo Stato al quale
essa è sottoposta. Il tema della tutela delle popolazioni indigene è di grande attualità ed in vari Stati dell’Africa e delle
Americhe, le rivendicazioni, da quelle relative al godimento delle terre, e delle relative risorse, che gli indigeni
tradizionalmente possedevano, a quelle relative al diritto alla conservazione e protezione dell’ambiente, al diritto al
mantenimento della propria identità culturale, delle proprie tradizioni e dei propri costumi, il diritto a vivere in piena
libertà e sicurezza, al diritto a sviluppare forme di autogoverno, insomma il diritto a tutti ciò che per secoli i colonizzatori
hanno negato o compresso. In realtà le norme internazionali vincolanti che si occupino specificamente della materia
sono poche. Vero è che la materia attiene piuttosto al diritto costituzionale dei Paesi dove il problema esiste che al
diritto internazionale. O meglio, il diritto internazionale possono fornire argomenti a sostegno di una protezione che per
l’appunto si ricava dal diritto costituzionale.

*Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Trattasi di una regola mutata
dalle norme internazionali in tema di trattamento degli stranieri: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti
umani non può dirsi consumata finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per
eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo offeso una congrua riparazione. Tutte le convenzioni sui diritti umani,
le quali prevedono organi di controllo sul rispetto di tali diritti contengono la regola del previo esaurimento.

CAPITOLO 24: La punizione dei crimini internazionali

*Il tema della punizione dei crimini internazionali s’intreccia con il tema del rispetto dei diritti umani. Caratteristica delle
norme, generali e convenzionali, che disciplinano siffatti crimini è che esse danno luogo ad una responsabilità propria
delle persone fisiche che li commettono; trattasi di norme che possono essere considerate come regole che
direttamente si indirizzano agli individui, concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi.
La comunità internazionale sta tentando oggi di attuare la punizione dei crimini internazionali individuali attraverso
l’istituzione di tribunali internazionali. La punizione è quindi in larga parte affidata ai tribunali interni, nell’esercizio della
sovranità territoriale.[La categoria dei crimini internazionali individuali è abbastanza recente. Qualche precedente esisteva anche prima, ma
con fattispecie disciplinate in modo non proprio simile a quanto avviene oggi. Crimine internazionale era considerata a pirateria. Un altro
precedente era quello dei crimini di guerra che attualmente costituiscono una importante componente dei crimini internazionali; ma l’elenco dei
crimini di guerra era assai poco esteso, la punizione dei criminali era limitata agli Stati belligeranti e si riteneva che dovesse comunque cessare con
la cessazione delle ostilità].
I crimini internazionali individuali possono essere distinti in crimini contro la pace, crimini contro
l’umanità e crimini di guerra. Un elenco dettagliato è contenuto degli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale
internazionale. Lo Statuto prevede quattro tipi di crimini: il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il
crimine di aggressione. Per quanto riguarda il genocidio, viene ripresa la definizione tradizionale, secondo cui è tale la
distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziare o religioso. Ai crimini contro l’umanità vengono
riportati i seguenti atti, purché perpetrati come parte di un esteso o sistematico attacco diretto contro una popolazione
civile: omicidio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato di popolazione, tortura, violenza carnale,
prostituzione forzata ed altre forme di violenza sessuale di eguale gravità, sparizione forzata di persone, apartheid, altri
atti disumani. Tra i crimini di guerra lo Statuto, oltre a riprodurre crimini già inclusi tra quelli contro l’umanità, si
riferisce a tutta una serie di atti specifici del tempo di guerra, come la violazione delle Convenzioni di Ginevra sul diritto
umanitario di guerra, l’arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la presa di ostaggi, gli attacchi diretti contro
popolazioni ed obbiettivi civili. Anche tutti questi atti, per poter essere considerati come crimini internazionali
individuali, devono far parte di un programma politico o aver luogo su larga scala. Circa i crimini contro la pace, ossia
l’aggressione, questa è stata definita dall’Assemblea degli stati parti dello Statuto successivamente all’entrata in vigore
di questo ed in modo più o meno corrispondente alla definizione a suo tempo data da una risoluzione dell’Assemblea
generale dell’ONU. Si tratta di crimini individuali che sono tali anche per il diritto internazionale consuetudinario. Con
riguarda all’aggressione non esiste una prassi significativa. In realtà la condanna risentì del carattere apocalittico con
cui la guerra di aggressione si era presentata. Si può concordare con l’opinione secondo cui l’aggressione è qualificabile
come crimine internazionale individuale solo quando è scatenata su larga scala o produce conseguenze assai gravi.
Normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del proprio Stato o di un’entità di tipo
statale. Soltanto gli Stati infatti, sono normalmente in grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una
popolazione civile. Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro crimine contro l’umanità di guerra,
ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello Stato e dell’individuo organo. Trattasi peraltro di due forme
di responsabilità diverse tra loro: quella individuale consiste nella punizione del colpevole; quella dello Stato è molto più
labile. Normalmente i crimini internazionali sono commessi da individui-organi, perché non è escluso che possano
essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di uno Stato determinato. E’ questo il caso degli atti di
terrorismo commessi negli ultimi anni dal gruppo di Al Qaeda facente capo al terrorista Bin Laden. [ Per quanto riguarda atti
terroristici commessi da movimenti di liberazione di territori sottoposti a dominazione straniera, una parte della comunità internazionale è stata a
lungo contraria alla loro equiparazione pura e semplice ai crimini contro l’umanità ed addirittura a pervenire ad una definizione di terrorismo
internazionale. La Convenzione stabilisce che non possano giustificarsi, con considerazioni di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica,
religiosa e simili, atti criminali intesi a provocare un atto di terrore nel grande pubblico o in un gruppo di persone ].
*A proposito della differenza di punizione tra chi commette un crimine internazionale e chi commette un crimine
comune, il principio che va affermandosi è quello dell’universalità della giurisdizione statale: si ritiene che ogni Stato
possa procedere alla punizione ovunque il crimine sia stato commesso. Per il diritto internazionale generale lo straniero
può essere sottoposto a giudizio penale solo se sussiste un collegamento con lo Stato del giudice. Tale collegamento è
dato dal principio di territorialità variamente temperato, a seconda degli ordinamenti statali, dalla possibilità di punire
certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed anche dallo straniero, all’estero. La necessità del
collegamento e la giurisdizione penale sullo straniero diviene sempre applicabile, quando si tratta di crimine
internazionale. Ovviamente la ratio è che lo Stato che punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della
comunità internazionale nel suo complesso. La punizione dei crimini internazionali può inoltre aver luogo anche
quando il colpevole sia stato catturato all’estero illegittimamente. Ed è libero lo Stato di escludere che i crimini
internazionali siano colpiti da prescrizione. Così come lo Stato può punire, così pure può limitarsi a concedere
l’estradizione ad uno Stato che intende farlo. Per il diritto consuetudinario, lo Stato può ma non deve punire; può ma
non deve considerare il crimine come imprescrittibile; può ma non deve concedere l’estradizione dell’individuo allo
Stato che intenda punirlo. La situazione è diversa per quanto riguarda il diritto pattizio, numerose essendo le
convenzioni che contengono la regola “o estradare o giudicare”. Va anche detto che tra semplice facoltà e obbligo di
punire la differenza non è estremamente importante dal punto di vista pratico. All’universalità della giurisdizione penale
fa da pendant l’universalità della giurisdizione civile che può considerarsi come avallata dal diritto internazionale
generale. Il principio dell’universalità della giurisdizione consente di punire il crimine ovunque esso sia stato commesso
e quindi in mancanza di qualsiasi collegamento tra il crimine medesimo e lo Stato del giudice. Ciò non significa che il
crimine internazionale possa essere giudicato anche se non è fisicamente presente nel territorio dello Stato, ossia in
contumacia. La prassi non autorizza una conclusione contraria, ove si consideri: che tutti i casi di punizione finora
effettuati ad opera di Corti interne riguardano individui presenti nel territorio; che il principio della presenza
dell’indagato è applicato dai tribunali penali internazionali; che il principio aut dedere aut judicare, chiaramente muove
dal presupposto che non si giudichi in contumacia; e che il giudicare in contumacia crimini che già non hanno alcun
collegamento con lo Stato del giudice finisce per essere una forma di imperialismo giuridico.

CAPITOLO 25: Limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione dell’ambiente

* Il diritto internazionale economico è forse quello in cui più che in ogni altro la formazione di norme consuetudinarie è
da escludersi. Trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali. Per quanto concerne i rapporti tra Paesi
industrializzati e Paesi in sviluppo, è bensì vero che una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dall’UNCTAD e dagli altri organi dell’ONU o di altre organizzazioni
internazionali a carattere universale. Diversi Paesi in sviluppo considerano tali risoluzioni produttive di consuetudini
istantanee. Ma si tratta di una opinione non condivisibile se si escludono le norme relative ai rapporti economici tra
Stato territoriale e stranieri, le risoluzioni si limitano ad enunciare principi di carattere programmatico, che indicano
come i rapporti economici tra Paesi in sviluppo e Paesi industrializzati. Ed è sulla base di questi principi che tutta una
rete di convenzioni bilaterali e multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i
loro rapporti economici. in via di formazione. Ovviamente detto principio non potrebbe non incidere sulla stessa libertà
dello Stato di punire o meno. Vale anche la pena di ricordare che sempre più spesso, nei Paesi dove viene eliminato un
Governo che ha commesso violazioni gravi dei diritti umani, come è il caso, ad es. del Cile dopo Pinochet, si tende a
stendere un velo sul passato, attraverso l’adozione di leggi di amnistia o la creazione delle Commissioni di verità. Tutto
ciò riguarda il Paese dove si procede alla riconciliazione e quindi non è idoneo ad impedire che altri paesi procedano
invece alla punizione. Diversa è la situazione quando nel Paese di origine il presunto criminale sa sottoposto a regolare e
credibile processo, nel qual caso la giurisdizione di un altro Paese non è esercitabile- Nello stesso Paese di origine le
leggi di amnistia lasciano perplessi quando si tratta di cancellare crimini internazionali efferati. Tra le convenzioni che si
occupano di crimini che non sono da ascrivere vanno menzionate le Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario di
guerra, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, la Convenzione per la eliminazione degli attacchi terroristici
e la Convenzione delle Nazioni Unite per la eliminazione dei finanziamenti al terrorismo].Il principio dell’universalità
della giurisdizione consente di punire il crimine ovunque esso sia stato commesso e quindi in mancanza di qualsiasi
collegamento tra il crimine medesimo e lo Stato del giudice. Ciò non significa che il crimine internazionale possa essere
giudicato anche se non è fisicamente presente nel territorio dello Stato, ossia in contumacia. La prassi non autorizza una
conclusione contraria, ove si consideri: che tutti i casi di punizione finora effettuati ad opera di Corti interne riguardano
individui presenti nel territorio; che il principio della presenza dell’indagato è applicato dai tribunali penali
internazionali; che il principio aut dedere aut judicare, chiaramente muove dal presupposto che non si giudichi in
contumacia; e che il giudicare in contumacia crimini che già non hanno alcun collegamento con lo Stato del giudice
finisce per essere una forma di imperialismo giuridico.

CAPITOLO 25: Limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione dell’ambiente

* Il diritto internazionale economico è forse quello in cui più che in ogni altro la formazione di norme consuetudinarie è
da escludersi. Trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali. Per quanto concerne i rapporti tra Paesi
industrializzati e Paesi in sviluppo, è bensì vero che una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dall’UNCTAD e dagli altri organi dell’ONU o di altre organizzazioni
internazionali a carattere universale. Diversi Paesi in sviluppo considerano tali risoluzioni produttive di consuetudini
istantanee. Ma si tratta di una opinione non condivisibile se si escludono le norme relative ai rapporti economici tra
Stato territoriale e stranieri, le risoluzioni si limitano ad enunciare principi di carattere programmatico, che indicano
come i rapporti economici tra Paesi in sviluppo e Paesi industrializzati. Ed è sulla base di questi principi che tutta una
rete di convenzioni bilaterali e multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i
loro rapporti economici. La libertà degli Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi tendenti alla
liberalizzazione del commercio internazionale, in particolare all’abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione delle
merci, dei servizi e dei capitali, all’integrazione delle economie statali su scala regionale, ecc. Su tali accordi sempre nella
materia economica, il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario, diversi da quelli relativi
al trattamento degli interessi economici degli stranieri. In effetti vari tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare
limiti di carattere generale, svincolati dalle norme sul trattamento degli interessi stranieri. I più interessanti tentativi del
genere sono quelli che si riferiscono alla irrogazione di sanzioni in base alla legislazione anti-trust o alla legislazione
riguardante il commercio internazionale, oppure addirittura alle norme che regolano l’amministrazione delle società. Si
è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati stranieri,
oppure che tali interessi debbano essere oggetto di una ponderazione ed avere il sopravvento se meritevoli di maggior
tutela rispetto agli interessi nazionali, o infine che ciascun Stato debba esercitare il proprio potere nella materia in
esame entro limiti ragionevoli. Tutto ciò è stato detto per reagire alla dottrina degli effetti, vale a dire al principio
secondo cui la giurisdizione dello Stato si radicherebbe ogni qualvolta un atto produca effetti all’interno del territorio
nazionale, indipendentemente da dove e da chi l’atto sia stato compiuto. Grazie all’uso di tale dottrina gli Stati Uniti
hanno giustificato l’applicazione della propria legislazione antitrust ad imprese operanti all’estero. La situazione sembra
mutata attualmente, la teoria degli effetti essendo adottata dalle leggi e dalla giurisprudenza di vari Paesi, tra cui la
Germania ed il Giappone, e dalla stessa CE. Resta la questione di stabilire con esattezza quand’è che un’attività
industriale produca sul piano interno effetti sostanziali. Da questo punto divista, la prassi è tutt’altro che chiara, con il
risultato che spesso il ricorso alla dottrina in esame diviene solo un pretesto per realizzare obiettivi protezionistici. Gli
effetti sostanziali prodotti nel territorio dello Stato che adotta le sanzioni contro le imprese straniere costituiscono quel
contatto idoneo a giustificare l’esercizio del potere di governo sugli stranieri. Ma non è inutile aggiungere che, se
l’impresa colpita non ha beni nel territorio dello Stato sanzionante, il suo intervento diviene velleitario.

* In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali del
territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di produrre irrimediabili distruzioni di risorse. Da
più parti si sostiene che lo Stato abbia l’obbligo di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da recare
danno al territorio di altri Stati. Normalmente il problema viene posto sotto il profilo della responsabilità dello Stato
territoriale: cisi chiede se una responsabilità per danno oltre frontiera sussista, se vada considerata come responsabilità
da atto illecito oppure sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia lecita, ed infine se la responsabilità stessa
abbia carattere assoluto o presupponga la colpa dello stato territoriale. Nel caso l’indagine dia un risultato positivo, la
responsabilità derivante dalla violazione di tale obbligo dovrà configurarsi come responsabilità da illecito; nel caso il
risultato sia invece negativo, resterà da stabilire se si possa configurare una responsabilità da atti illeciti. Il problema si
pone oggi con particolare acutezza in relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultra pericolose e
capaci di produrre danno anche a notevole distanza, come l’attività delle centrali atomiche, gli esperimenti nucleari, le
industrie chimiche. A simili attività ha riguardo il principio n.21 della Dichiarazione adottata a Stoccolma del 1972 dalla
Conferenza di Stati sull’ambiente umano, principio ripreso dalla Dichiarazione della Conferenza di Rio sull’ambiente e lo
sviluppo, secondo il quale gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro
politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità o sotto il
loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati. Le Dichiarazioni di Stoccolma e di Rio non hanno di per sé
forza vincolante. Per capire se l’obbligo che esse sanciscano corrisponda al diritto internazionale consuetudinario,
occorre citare alcune decisioni di corti internazionali. La decisione più antica è la sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti
e Canada nel 1941 nell’affare della Fonderia di Trail, che operava in prossimità del confine e che aveva gravemente
danneggiato coltivazioni di contadini americano. Si passa poi alla CIG, secondo cui l’obbligo di non inquinare
discenderebbe da un corpo di regole del diritto internazionale dell’ambiente. La formula da essa adoperata è
interpretata nella sentenza arbitrale del 2005, fra il Belgio e i Paesi Bassi, che ritiene che comunque si sia di fronte ad un
principio emergente. L’opinione della dottrina ed avallata dalla giurisprudenza, non corrisponde alla prassi degli Stati,
ma piuttosto rappresenta l’ideale collettivo della comunità internazionale, che per ora ha il carattere della fiction o della
mezza verità. Gli Stati sono stati sempre restii ad ammettere la propria responsabilità per danni, e se qualche volta
hanno provveduto ad indennizzare le vittime hanno nel contempo avuto cura di sottolineare il carattere grazioso
dell’indennizzo medesimo. E’ possibile dire che esiste una spinta da parte della giurisprudenza internazionale verso la
formazione di una norma consuetudinaria, oppure che si sia di fronte ad un principio emergente, ma che tale norma o
principio richiede di essere sostenuto dalla prassi degli Stati per consolidarsi. Diversa è la situazione per quanto riguarda
il caso specifico delle acque comuni, di cui può considerarsi come vietato un qualsiasi utilizzo capace di nuocere agli altri
utilizzatori. Obblighi di cooperazione sono previsti per gli usi nocivi del territorio in generale, come l’obbligo dello Stato
di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo di incidenti e l’obbligo per tutti gli Stati interessati di prendere di
comune accordo misure preventive del danno all’ambiente. Non bisogna confondete gli obblighi dello Stato sul piano
internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o al limite dello stesso Stato; oppure essa può
essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. E
precisamente alla responsabilità di diritto interno si ha riguardo quando si parla del principio “chi inquina paga”,
adottato in varie convenzioni internazionali: a parte questo, esso comunque si limiterebbe ad imporre allo Stato di
apprestare gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta valere al suo interno. A parte gli usi
nocivi, ci si chiede poi se lo Stato non sia addirittura obbligato dal diritto internazionale generale a gestire razionalmente
le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile della responsabilità intergenerazionale e
dell’approccio precauzionale. La risposta non può essere positiva e può parlarsi si una linea di tendenza che va
affermandosi in seno alla comunità internazionale. Assai numerose sono le convenzioni internazionali, a carattere
universale o regionale, che si occupano della lotta all’inquinamento in tutte le sue manifestazioni. Per quanto riguarda
gli usi del territorio che possono nuocere al territorio o alle comunità sottoposte alla giurisdizione di altri Stati
ricordiamo la Convenzione di Stoccolma sugli inquinamenti organici persistenti; la Convenzione sull’inquinamento
atmosferico a lunga distanza, che prevede un obbligo di scambi di informazioni, consultazione, ricerca e monitoraggio
per combattere l’inquinamento nonché un obbligo specifico di consultazione, tra le Parti contraenti interessate, quando
una o più Parti siano colpite o gravemente minacciate dall’inquinamento atmosferico proveniente dal territorio di
un’altra Parte, le due Convenzioni sulla tempestiva notifica degli incidenti nucleari e sull’assistenza in caso di incidenti
nucleari; la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e della loro
eliminazione. E’ raro che simili accordi prevedano dei divieti precisi aventi ad oggetto determinate attività inquinanti,
limitandosi a ribadire che gli Stati devono cooperare, scambiarsi informazioni e consultarsi sia in via preventiva sia per
prevenire che per fronteggiare incidenti. Non mancano peraltro le eccezioni, come la Convenzione di Bonn, sulla
protezione del Reno dall’inquinamento che prevede tra l’altro due liste di sostanze capaci di inquinare le acque del
fiume, imponendo di eliminare l’inquinamento derivante dalle sostanze della prima lista e di ridurre quello derivante
dalle sostanze della seconda lista. Una menzione a parte meritano infine quelle convenzioni le quali non si occupano
della responsabilità internazionale ma, ispirandosi al principio “chi inquina paga”, si preoccupano di imporre agli Stati
contraenti la predisposizione di un adeguato sistema di responsabilità civile o addirittura penale. Anche nella materia
della gestione razionale delle risorse, le convenzioni sono numerose. Trattasi di norme di importanza fondamentale,
capaci, di contribuire alla preservazione di un ambiente decente per le generazioni future. Interamente di carattere
pattizio è poi la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi
origine, comprendente la diversità all’interno delle specie, tra le specie e degli ecosistemi. Il testo base è costituito dalla
Convenzione di Nairobi ratifica da un grande numero di Stati tra cui l’Italia ed entrata in vigore del 1992. La Convenzione
ha per oggetto la conservazione della diversità biologica, l’utilizzazione durevole dei suoi elementi e la ripartizione giusta
ed equa dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche. Essa obbliga tra l’altro gli Stati contraenti a
prendere le misure dirette a favorire la partecipazione di tutti i Paesi, ai vantaggi derivanti dalle biotecnologie. D’altro
canto, essa si preoccupa dell’impatto ecologico negativo, specie sulla diversità biologica, delle biotecnologie, ad. es. nel
settore degli alimenti geneticamente modificati. Il problema che tutta questa massa di convenzioni solleva è quello della
loro osservanza; è chiaro che, soprattutto in relazione alle norme sulla riduzione della produzione e del consumo di
sostanze inquinanti, l’osservanza almeno da parte della stragrande maggioranza degli Stati è essenziale. Purtroppo il
quadro che la prassi fornisce è assai deludente. Organi composti da un numero limitato di esperti sono stati creati
nell’ambito delle stesse convenzioni per individuare i casi di inosservanza, ma il loro compito è quello di assistere gli
Stati in difficoltà più che quello di adottare sanzioni. Ciò dà ragione a chi sostiene che le norme in materia di
inquinamento hanno per ora in larga misura carattere promozionale, stabilendo premi ed incentivi per gli Stati che
adottano misure atte a preservare l’ambiente.

CAPITOLO 26: Il trattamento degli stranieri

* Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono andati formando per consuetudine in materia di
trattamento degli stranieri. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni e comportamenti che
non si giustifichino con un sufficiente attacco dello straniero stesso con la comunità territoriale. Questa regola può
anche esprimersi dicendosi che l’intensità del potere di governo sullo straniero e sui suoi beni deve essere
proporzionata all’intensità del predetto attacco sociale. Pertanto allo straniero non potranno essere richieste prestazioni
e comportamenti di natura politica, i quali si giustificano solo in presenza di quel massimo attacco sociale costituito
dal vincolo di cittadinanza; non potranno essere richieste prestazioni di carattere fiscale se non nei limiti in cui lo
straniero eserciti attività o possegga beni che giustifichino siffatta imposizione; non potranno essere imposti vincoli
relativamente ad attività commerciali, industriali, ecc., se non quando tali attività si svolgano o siano in qualche modo
collegate al territorio; non potranno applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati che presentino un qualche
collegamento con lo Stato territoriale e i suoi sudditi, salvo ovviamente l’esercizio della giurisdizione penale universale
per i crimini internazionali. L’altro principio di carattere consuetudinario in tema di trattamento degli stranieri sancisce
l’obbligo di protezione da parte dello Stato territoriale. Secondo tale principio, lo Stato deve predisporre misure idonee
a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto
di solito si fa per tutti gli individui in uno Stato civile. Per quanto concerne le misure preventive è ovvio che esse
debbano essere adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto: così, se normalmente lo Stato è in
regola con il diritto internazionale consuetudinario se dispone di un apparato di polizia sufficiente a mantenere l’ordine,
è chiaro pure che particolarissime misure di polizia debbano prendersi di fronte a particolarissime circostanze. Ognuno
vede quale ruolo importante il diritto internazionale lasci all’interprete che debba stabilire se le misure siano state
adeguate. Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un normale apparato
giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Chiamasi appunto
diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa specifica materia. E’ ovvio che tale illecito si ha quando la
giustizia è negata appunto per difetto di organizzazione giudiziaria, tenuto conto dell’amministrazione della giustizia
predisposta da uno Stato medio. Va anche aggiunto che la protezione della persona dello straniero assumeva un rilievo
del tutto autonomo quando lo Stato era considerato libero da vincoli internazionali relativamente alla protezione della
persona del cittadino o dell’apolide, tape protezione rientrando nella sfera del suo dominio riservato. Essa può dirsi
confluita oggi nella protezione accordata alla persona umana in quanto tale. La situazione è invece immutata per ciò che
concerne la protezione dei beni dello straniero, i beni del cittadino possono legittimamente essere sacrificati dal punto
di vista del diritto internazionale.

*Sui due principi si innestano le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo aventi per oggetto la sovranità permanente sulle
risorse naturali. Per il punto di vista dei Paesi in via su sviluppo, secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli
investimenti in conformità alle sue leggi e regolamenti e dalle priorità ed obbiettivi nazionali di politica economica e
sociale e di adottare tutte le misure necessarie affinché siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente
dalle società multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è quello di evitare gli abusi perpetrati in passato in ordine allo
sfruttamento delle risorse dei territori sottoposti dominio coloniale o degli Stati più deboli, può anche essere
considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimento, a patto però che la libertà
dello Stato non sia spinta invece fino al punto di avallare gli abusi degli Stati dove l’investimento ha luogo.

* Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina delle
espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti ed interessi degli stranieri. Il problema si è posto con
riguardo alle nazionalizzazioni. La prassi in materia risale alla fine della prima guerra mondiale e si è arricchita a partire
dal secondo dopoguerra, dapprima con le nazionalizzazioni di compagnie petrolifere da parte degli Stati arabi e con
tutte le altre avvenute nei Paesi dell’America latina e negli altri Paesi in sviluppo. Attualmente la prassi delle
nazionalizzazioni non è più molto significativa ed anche il problema di quali siano le regole internazionali
consuetudinarie in materia di trattamento degli investimenti non si pone più in termini drammatici. Neppure vi è
controversia circa la questione se il passaggio alla mano pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità,
questione che acquista esclusivamente rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene dato che nelle
nazionalizzazioni il pubblico interesse è in re ipsa. In definitiva, l’unica, importante questione è quella che riguarda
l’indennizzo conseguente alle espropriazioni e nazionalizzazioni. Una regola che può considerarsi come corrispondete al
diritto consuetudinario è quella indicata dal Tribunale Iran-Stati Uniti, secondo il quale occorre distinguere tra le
espropriazioni, per le quali l’indennizzo va commisurato al valore del bene, e le nazionalizzazioni operate su vasta scala,
per le quali circostanze speciali possono giustificare temperamenti ed aggiustamenti mediante i quali lo Stato
nazionalizzante corrisponde una somma forfettaria allo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati e questo resta
l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma tra i soggetti colpiti. La materia è ormai essenzialmente
disciplinata sul piano convenzionale, sicché il diritto consuetudinario ha soprattutto la funzione di colmare lacune del
regolamento convenzionale o di investire quando tale regolamento fa ad esso riferimento.

* Si riallaccia al tema della protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema del rispetto dei debiti
pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore, nei casi di mutamento di sovranità su di un territorio. La dottrina
tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione nel debito pubblico, ritenendo che il rispetto dei diritti
acquisiti rientrasse nel dovere di protezione degli stranieri. Tale opinione ha incontrato la decisa opposizione dei Paesi in
sviluppo. Nella prassi più recente può invece notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti. Pertanto,
tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia tende ad ammettere la successione dei debiti localizzabili e non
nei debiti generali dello Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo caso, un accollo convenzionalmente stabilito.
* Il diritto internazionale consuetudinario non prevede limiti per quanto riguarda l’ammissione degli stranieri: in
questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale la quale comporta la libertà dello Stato di stabilire la propria
politica nel campo dell’immigrazione, permanente o temporanea che sia. Il problema è diverso quando lo Stato
commette una violazione dei diritti umani fondamentali tutelati anche dal diritto consuetudinari, primo fra tutti il diritto
alla vita. La precisazione è importante in tema di immigrazione clandestina. Per il diritto consuetudinario lo Stato è
libero di espellere gli stranieri. Si ritiene però che l’espulsione debba aver luogo con modalità che non risultino
oltraggiose nei confronti dell’espellendo, e che al medesimo debba concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora
egli debba regolare i propri interessi. Limiti particolari in tema di espulsione di stranieri derivano da varie convenzioni
internazionali, prime fra tutte le convenzioni sui diritti umani. Ad es. l’art della Convenzione delle Nazioni Unite contro la
tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. L’obbligo di non espellere prevede il rispetto della
vita privata e familiare, quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità
familiare. In realtà l’obbligo di non espellere discende da norme che riguardano ogni e qualsiasi persona; ma
l’espulsione dei cittadini, essendo già normalmente esclusa dalle costituzioni interne, è chiaro che l’obbligo trova la sua
principale attuazione con riguardo agli stranieri e a coloro che non hanno cittadinanza. Si va anche facendo strada nella
prassi interna la regola per cui lo straniero deve poter ricorrere al giudice contro l’atto di espulsione. Grande importanza
assumono anche le convenzioni sui rifugiati, entrambi ratificati da un grande numero di Stati, tra cui l’Italia. Lo status di
rifugiato spetta a chi “teme a ragione” che nel proprio Paese possa essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. Secondo la Convenzione ed
il Protocollo, il rifugiato ha vari diritti tra cui quelli di non discriminazione rispetto ai suoi concittadini, di praticare la
propria religione, di accedere ai tribunali e all’assistenza pubblica e di ottenere il documento di viaggio, ossia una sorta
di passaporto che gli permette di circolare nei territori degli Stati contraenti. Non bisogna confondere il diritto ad essere
considerato rifugiato con il diritto di asilo, ossia con il diritto a risiedere in modo permanente nello Stato di rifugiato. Il
diritto di asilo territoriale non è previsto dal diritto consuetudinario generale, ma da atti internazionali privi di forza
vincolante come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Né esistono convenzioni che lo prevedono,
fatta eccezione per gli Stati del continente americano. Si ritiene che esso sia previsto da una consuetudine particolare
vigente tra gli Stati dell’America latina. In ogni caso varie Costituzioni, e tra esse la Costituzione italiana lo sanciscono.
Pertanto da condannare l’attuale prassi seguita dal Governo italiano, consistente nel respingimento immediato di
stranieri sbarcati nel territorio nazionale.

*Numerosi accordi internazionali (convenzioni di stabilimento) prevedono l’obbligo di ciascuna Parte contraente di
riservare alle persone fisiche e giuridiche condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto
concerne l’esercizio di attività imprenditoriali, professionali, ecc. Particolarmente importanti sono le norme sul diritto
di stabilimento contenute negli artt. del TFUE, le quali mirano ad una quasi totale parificazione tra cittadini e stranieri
nell0ambito del territorio dell’UE e con riguardo ai cittadini degli Stati membri. Fini di parificazione persegue anche la
cittadinanza europea: essa comporta infatti, tra l’altro, il diritto di circolare liberamente nell’ambito dell’Unione
europea, di partecipare alle elezioni locali nello Stato membro in cui risiede e di votare nello stesso Stato per i
rappresentanti al Parlamento europeo.

* Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello
Stato al quale lo straniero appartiene. Lo Stato dello straniero mal trattato potrà esercitare la protezione diplomatica,
ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: esso potrà agire con proteste, minacce ci
contromisure contro lo Stato territoriale, proposte di arbitrato o ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al
fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito . Prima però
occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati
ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Finché siffatti rimedi esistono le norme sul
trattamento degli stranieri non possono neppure considerarsi violare l’istituto della protezione diplomatica ha oggi
carattere residuale anche nel senso che è necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci, azionabili dagli stessi
stranieri lesi. Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui esso è titolare. Lo Stato non agisce
come rappresentante o mandatario dell’individuo, e quindi è da escludere che la materia sia inquadrabile come
manifestazione della personalità internazionale dell’individuo che va ricollegata ai casi in cui l’individuo agisce
direttamente sul piano internazionale. Va notato che l’istituto della protezione diplomatica è oggetto di contestazione,
limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in sviluppo. Questi si rifanno
sostanzialmente alla vecchia dottrina Calvo che prende il nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che
l’abbozzo nel secolo XIX e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva
competenza dei tribunali dello Stato locale. Ad una simile dottrina si sono sempre più o meno ispirati gli Stati latino-
americani e il citato art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati quando, a proposito delle
nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in
conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dai Tribunali di questo Stato, a ameno che tutti gli
Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’eguaglianza sovrana degli
Stati medesimi. La portata di dichiarazioni del genere non va drammatizzata. In effetti nessuno può costringere uno
Stato a trattare la questione sul piano internazionale o addirittura risolverla mediante arbitrato, se esso non abbia
preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al riguardo; ma d’altro canto nessuno può vietare allo
Stato dello straniero di protestare. Trattasi di comportamenti che attengono alla fase dell’accertamento e
dell’attuazione coattiva del diritto internazionali e tali fasi sono per l’appunto caratterizzate dalle iniziative, dalle
azioni e dalle reazioni dei singoli Stati interessati. A parte le contestazioni e le diffidenze occorre soffermarsi sul fatto
che lo Stato che la esercita agisce nell’interesse suo proprio, può transigere come meglio credo, può sacrificare
l’interesse del cittadino leso ed esigenze di politica estera, e via dicendo. Se le cose stanno così acquista importanza il
ruolo del giudice interno. In altre parole lo straniero può essere maggiormente garantito contro le violazioni del diritto
internazionale perpetrate nei suoi confronti attraverso l’opera dei giudici dello Stato territoriale piuttosto che attraverso
l’azione in protezione diplomatica da parte del proprio Stato nazionale. I giudici dello Stato territoriale possono evitare
che lo straniero ricorra alla protezione del proprio Stato ed essere in grado di tutela lo straniero più del suo Stato
nazionale. La protezione diplomatica spetta infatti agli organi del potere estero e può essere fortemente condizionata da
motivi politici attinenti alle relazioni internazionale.

* La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale sia a difesa di una persona fisica sia a difesa di
una persona giuridica. La nazionalità delle presone giuridiche non è un concetto altrettanto definito e definibile quanto
quello delle persone fisiche dato che non sempre risulta con chiarezza dalle legislazioni interne quale collegamento
determini l’appartenenza di una persona giuridica ad un certo Stato. Per quanto concerne le società commerciali, ci si
chiede poi se, ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali, oppure a
criteri sostanziali. A favore della prima tesi si è pronunciata la CIG, nella sentenza relativa all’affare della Barcelona
Tractin, Light and Power e nella sentenza dell’affare Diallo. E trattasi di una tesi che finisce con l’avere una sua logica
proprio in relazione alla pratica oggi assai diffusa tra i privati e consistente nell’ancorare l’esistenza legale di una società
a Stati particolarmente compiacenti dal punto di vista fiscale, da quello dei controlli sulla gestione sociale, ecc; il rischio
di una inadeguata protezione diplomatica cioè, non può non esser calcolato al momento della costituzione della società
e della scelta dello Stato nazionale. Secondo queste due sentenze lo Stato al quale appartiene l’azionista potrebbe agire
in protezione diplomatica solo se il suo cittadino-azionista sia stato direttamente leso in un suo diritto. E’ dubbio se
l’azionista possa essere protetto in quanto tale quando la società si sia estinta oppure quando al società medesima
abbia la stessa nazionalità dello Stato contro il quale la protezione dovrebbe essere esercitata. Questa seconda ipotesi è
molto importante ove si consideri che gli investimenti all’estero da parte delle grandi multinazionali avvengono spesso
proprio attraverso la costituzione di società locali di cui la società madre ha il controllo. E’ difficile negare che lo Stato
nazionale dell’azionista possa agire in entrambe le ipotesi. Ciò nonostante la CIG abbia adottato un punto di vista assai
restrittivo al riguardo.

*Alla regola secondo cui sono le società e non i singoli azionisti a godere della protezione diplomatica può accostarsi il
caso della protezione della nave da parte dello Stato nazionale o Stato della bandiera, protezione che assorbirebbe
quella dei singoli membri dell’equipaggio. In tal senso è citabile la sentenza del Tribunale Internazionale del Diritto del
Mare, che trattava della cattura e del sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto dell’equipaggio, e la
controversia non riguardava le regole sul trattamento dello straniero ma quelle di diritto internazionale del mare.

DA SALTARE CAPITOLI DA 27-37

L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INERNO DELLO STATO

CAPITOLO 38: L’adattamento del diritto statale al diritto internazionale

* L’osservanza del diritto internazionale da parte di uno Stato deve ritenersi affidata in primo luogo agli operatori
giuridici, ed in particolare agli organi statali, di quello stesso Stato: detta osservanza passa cioè attraverso quelle norme
che provvedono ad adattare il dritto interno al diritto internazionale. Anche l’accertamento giudiziario del diritto
internazionale deve ritenersi conseguentemente affidato in primo luogo ai giudici statali.

* Va poi sottolineata l’irrilevanza, ai fini della soluzione pratica dei problemi di adattamento, di certe posizioni teoriche:
ci riferiamo alle dispute tra monisti e dualisti, i primi ritenendo che il diritto statale trovi il suo fondamento nel diritto
internazionale, i secondi sostenendo che l’ordinamento statale sia originario e quindi del tutto distinto e separato
rospetto all’ordinamento della comunità degli Stati.

* Una distinzione generale va operata e tenuta presente in ordine a tutti i problemi di adattamento. Essa attiene al
mezzo attraverso il quale il diritto internazionale viene nazionalizzato, o se si vuole introdotto nell’ordinamento statale.
Si tratta della distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento. Nel caso del procedimento
ordinario l’adattamento avviene mediante norme che formalmente in nulla si distinguono dalle norme statali se non per
il motivo per cui vengono emanate e che è appunto quello di creare delle regole corrispondenti a determinate norme
internazionali. Le norme internazionali vengono riformulate all’interno dello Stato. Nel caso del procedimento speciale
la norma internazionale non viene riformulata all'interno dello Stato: di fronte ad una certa norma internazionali gli
organi preposti alle funzioni normative si limitano ad ordinare l’osservanza della o delle norme internazionali medesime.
Il costituente o il legislatore o l’organo amministrativo opera semplicemente un rinvio alle norme internazionali, dando
ad esse pieno vigore all’interno dello Stato. Dal punto di vista del diritto internazionale e della sua esatta applicazione
all’interno dello Stato, il procedimento speciale è di gran lunga quello preferibile. Nel caso del procedimento ordinario,
infatti, l’interprete si trova di fronte ad una norma che in nulla differisce dalle altre norme statali se non per il motivo
che l’ha ispirata: esso non po’ che applicare la norma interna e potrà tenere conto della norma internazionale che ha
fornito l’occasione per l’emanazione della norma interna solo se vi siano dei dubbi circa l’esatta interpretazione della
medesima. Se chi ha emanato la norma interna non ha esattamente interpretato la norma internazionale da introdurre
nell’ordinamento statale; se esso ha fatto riferimento a norme internazionali giuridicamente inesistenti; se la norma
internazionale si è estinta; tutto ciò non ha rilievo in quanto l’interprete si trova sempre e soltanto di fronte ad una
norma interna completamente formulata e quindi non ha altra scelta se non quella di applicarla. La situazione è diversa
nel caso del procedimento speciale. Qui la norma interna opera un mero rinvio alla norma o alle norme internazionali. Il
costituente, o il legislatore, o l’organo amministrativo non formulano norme complete ma si limitano ad ordinare
l’osservanza di certe norme internazionali così come esse vigono e finché esse vigono nell’ordinamento internazionale,
stabilire se una norma effettivamente vige, se essa non si sia estinta, se non sia stata illegittimamente emanata. Se è
vero che il procedimento mediante rinvio è più idoneo ad assicurare l’osservanza del diritto internazionale, è anche vero
che il procedimento ordinario può rivelarsi preferibile, o addirittura indispensabile in certi casi. Esso è indispensabile
allor quando la norma internazionale non è direttamente applicabile o non self-executing; con questa espressione ci si
riferisce alle norme che richiedono necessariamente un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali. E’
ovvio che procedimento speciale e procedimento ordinario possono coesistere integrandosi a vicenda. Ciò si verifica
quando si dà l’ordine di esecuzione di un tratto e successivamente si provvede agli atti di integrazione delle norme non
self-executing o non interamente self-executing contenute nel trattato medesimo. Può darsi poi che il legislatore interno
regoli la materia oggetto di un trattato con norme che ne estendono la portata. E’ questo il caso della modifica all’art.
111 della Costituzione, che ha senz’altro ampliato la portata del principio del giusto processo. Ove non sussistano queste
circostanze però, il procedimento mediante rinvio è nettamente da preferire. Esso è ampiamente praticato non solo in
Italia ma anche negli altri Paesi, sia le norme consuetudinarie che per i trattati, sia a livello costituzionale sia a livello
legislativo o amministrativo.

* Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti ed obblighi per gli organi
statali e per tuti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello Stato, al pari di una qualsiasi norma di origine
nazionale. Le norme internazionali così nazionalizzate non sono di per sé applicabili solo quando lasciano ampi margini
di libertà allo Stato circa la loro esecuzione. Importante è la distinzione tra norme self-executing e non self-executing,
che può prestarsi ad una compressione della sfera di applicazione delle norme internazionali, particolarmente dei
trattati. La nozione di norma non self-executing va circoscritta a tre casi ben precisi: al caso in cui una norma non
possa ricevere esecuzione in quanto non esistono gli organi o le procedure interne indispensabili alla sua
applicazione; quando la sua applicazione comporti particolari adempimenti di carattere costituzionale. In tutti questi
casi il carattere non self-executing va accertato con i normali criteri di interpretazione e sempre partendo dall’idea che il
diritto internazionale è diritto al pari del diritto interno. Occorre invece reagire contro quelle tendenze dirette ad
utilizzare la distinzione tra norme internazionali self-executing e non self-executing a scopi in senso lato politici, ossia
per non applicare norme indesiderate perché contrarie a sopravvenuti interessi nazionali, o magari perché progressiste
o anche soltanto perché oggetto di diffidenza da parte dell’operatore giuridico interno a causa della loro provenienza.
Questo vale anzitutto per quella parte della giurisprudenza di vari Paesi che esclude la diretta applicabilità di una
convenzione a causa del suo contenuto vago o indeterminato, di un accordo in particolare che contenga principi
generali anziché norme di dettaglio. Il criterio dell’indeterminatezza è stato usato in vari paesi per escludere la diretta
applicabilità dei principi del GATT relativi alla liberalizzazione del commercio internazionale. Ad ogni modo sembra che
non esista principio dal quale l’interprete non possa comunque ricavare delle applicazioni concrete, magari dal solo
punto di vista della forza abrogativa del principio medesimo. E’ poi da respingere l'opinione secondo cui un trattato non
è self-executing se prevede che, in caso di sospensione o di mancata applicazione, o di difficoltà nell’applicazione, delle
sue norme, debba farsi ricorso a procedure di conciliazione o ad altri mezzi internazionali di soluzione delle controversie,
che tengano tra l’altro conto delle esigenze dello stesso Stato che ha sospeso o non applicato il trattato. Tutto ciò che
può dirsi, in casi del genere, è che lo Stato contraente ha facoltà di adottare delle misure non conformi al trattato: può
adottarle di fronte a certe difficoltà di ordine economico, e salva la procedura di conciliazione sul piano internazionale;
può adottarle quando l’altra parte contraente abbia violato il trattato. E’ evidente che, dopo che lo Stato abbia preso
misure del genere, l’operatore giuridico interno è tenuto ad applicarle. Ma è anche evidente che il trattato deve ricevere
applicazione all’interno dello Stato. Non può ritenersi che costituisca un impedimento alla diretta applicabilità di un
trattato il fatto che questo contenga una clausola di esecuzione, ossia preveda che gli Stati contraenti adotteranno tutte
le misure di ordine legislativo o altro per dare effetto alle sue disposizioni. Clausole del genere si rinvengono in molte
convenzioni etra l’altro nelle Convenzioni sui diritti dell’uomo. Ma trattasi di clausole dalle quali sembra assurdo ricavare
niente altro che la volontà e l’aspettativa del trattato di essere applicato. Esse poi si giustificano se e quando il trattato
medesimo contenga delle norme effettivamente non self-executing ed impegnano lo Stato a prendere i provvedimenti
legislativi ed amministrativi appropriati. [Le clausole di esecuzione sono considerate come prova della non applicabilità diretta di un
trattato dalla giurisprudenza degli Stati Unii e dalla giurisprudenza di altri Paesi ].E’ comunque soddisfacente constatare che è sempre
più raro trovare nella giurisprudenza dei vari Paesi prese di posizione favorevoli alla non diretta applicabilità. Se c’è
qualche voce discordante non sembra rilevante.

* Ovviamente le norme internazionali sono utilizzabili all’interno dello Stato entro i limiti in cui si verifica in concreto la
fattispecie astratta da esse prevista. Nel caso del procedimento di adattamento mediante rinvio, la determinazione della
fattispecie astratta ad opera dell’interprete e la conseguente applicazione della norma ai rapporti interni possono
rivelarsi complicate a causa della formulazione della norma che è una formulazione internazionalistica; complicata a
causa della formulazione della norma, che è una formulazione internazionalistica; complicata può rivelarsi soprattutto
l’indagine tendente a stabilire a quali soggetti la norma debba applicarsi se essa debba applicarsi soltanto a rapporti in
cui siano coinvolti enti stranieri oppure sia utilizzabile anche nei rapporti in cui siano coinvolti enti stranieri oppure sia
utilizzabile anche nei rapporti fra enti, pubblici e privati, nazionali. Si dice che l’adattamento mediante rinvio comporta
una trasformazione del contenuto della norma internazionale per renderla applicabile a rapporti interni; in realtà non
tanto di trasformazione si tratta quanto di esatta determinazione dei limiti entro cui la norma vuole comunque essere
applicata, e quindi di interpretazione della medesima. Da notare è il caso di un accordo commerciale con il quale lo
Stato italiano si impegni al trattamento nazionale delle merci importate da altri Stati, si impegni cioè a parificare il
trattamento fiscale di tali merci a quello accordato alle merci italiane della stessa natura. Un simile accordo sarà
invocabile innanzi ai nostri giudici da parte di ditte importatrici italiane contro la nostra Amministrazione fiscale, e ciò ad
onta della circostanza che l’impegno è stato assunto nei confronti di uno Stato straniero e che il rapporto tra la ditta
italiana e la P.A. è invece di natura puramente domestica. Un caso del genere rientra nella previsione dell’accordo, ove
si consideri che, tutelandosi la ditta importatrice italiana, sia raggiunge lo scopo perseguito dalla norma internazionale,
che è quello di agevolare gli scambi commerciali tra gli Stati contraenti. Può darsi che un accordo internazionale
contenga disposizioni vantaggiose per uno Stato estraneo all’accordo o per i suoi cittadini. Disposizione del genere
possono essere invocate in Italia dallo Stato interessato e dai suoi cittadini, nonostante l’impegno sia stato assunto nei
confronti di altri Paesi. Non si tratta di attribuire all’accordo internazionale un’efficacia nei confronti dei terzi che è da
escludere in base ai principi consuetudinari sul diritto dei trattati; si tratta di applicare la norma internazionale alla
fattispecie a cui essa vuole essere applicata.

* La distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento attiene al mezzo attraverso cui
l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale. Occorre poi stabilire quale rango, nella gerarchia delle fonti
interne, assumono le norme internazionali una volta introdotte, e come di conseguenza si coordinano con le altre norme
statali. Tale rango tende a corrispondere alla forza che ha il procedimento, ordinario o speciale, di adattamento. Se a
procedere all’adattamento è il Costituente, le norme internazionali così introdotte tenderanno ad avere rango
costituzionale; se a procedere all’adattamento è il legislatore ordinario, le norme internazionali così introdotte
tenderanno ad avere rango di legge ordinaria.

CAPITOLO 39: L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario

*L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale. Ad esso provvedere infatti
l’art. 10 della Costituzione, secondo cui l’Ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. L’art. 10 prevede un procedimento di adattamento speciale o mediante rinvio. Il Costituente
ha voluto con esso rimettere in tutto e per tutto all’interprete interno la rilevazione e l’interpretazione delle norme
internazionali generali, limitandosi soltanto ad affermare la propria volontà che l’adattamento sia automatico, cioè
completo e continuo: le norme internazionali generali valgono all’interno dello Stato se e finché vigono nell’ambito della
comunità internazionale. Trattasi si un trasformatore permanente del diritto internazionale generale in diritto interno. E’
l’interprete dunque che deve risolvere tutti i problemi relativi all’esistenza e al contenuto delle norme generali
internazionali. Ad essi spetta in primo luogo stabilire quali siano le norme internazionali generali. Per noi le norme
generali si esauriscono nelle norme consuetudinarie, ivi compresa quella particolare specie di norme consuetudinarie
costituita dai principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.

* Per capire quale sia il rango assunto dal diritto internazionale generale. Si può ritenere che, essendo l’adattamento alle
norme internazionali previsto dalla Costituzione, tali norme si situino comunque ad un livello superiore alla legge
ordinaria. Una legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinario sarà pertanto costituzionalmente
illegittima, in quanto violerà indirettamente l’art. 10 della Costituzione, e potrà quindi essere annullata dalla Corte
costituzionale. La Costituzione, in quanto prescrivere l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano, e quindi del
diritto italiano nella sua totalità, al diritto internazionale generale, intende escludere in linea di massima che il diritto
consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale; con la conseguenza che il primo prevarrà normalmente sul
secondo a titolo di diritto speciale. Però lo stesso articolo, se interpretato sistematicamente, contiene una clausola
implicita di salvaguardia dei valori fondamentali che ispirano la nostra Costituzione; sembra che l’art.10 non possa né
voglia un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello Stato spinta fino al limite di rottura con quei valori. Una
norma internazionale generale che superi siffatto limite e resterà inoperante all’interno dello Stato; il che significa che
tutti coloro che siano sollecitati ad applicarla, potranno rifiutarsi di farlo senza che sul punto sia necessaria una
pronuncia della Corte costituzionale. Alla disapplicazione dovrà pervenirsi però con molta cautela, tenuto conto di tutte
le circostanze del caso concreto.

CAPITOLO 40: L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati

*L’adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc relativo ad ogni
singolo trattato. Tale atto è l’ordine di esecuzione il quale è un procedimento speciale o di rinvio; esso si limita quindi ad
esprimete la volontà che il trattato sia eseguito ed applicato all’interno dello Stato, senza riformulare le norme ma
rimettendo all’interprete interno la ricostruzione e l’interpretazione delle medesime. L’ordine di esecuzione di esprime
di solito con la formula “Piena ed intera esecuzione è data al Trattato X…”, ed è accompagnato dalla riproduzione del
testo dell’accordo. L’ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria. Normalmente la stessa legge che autorizza
la ratifica del trattato da parte del Capo dello Stato, contiene la formula della piena ed intera esecuzione. In tal modo
l’ordine di esecuzione può precedere l’entrata in vigore dell’accordo, entrata in vigore che, a seconda della natura del
medesimo, si verifica al momento dello scambio delle ratifiche o del deposito di un certo numero di ratifiche. Ciò non ha
importanza, essendo appunto l’ordine di esecuzione un procedimento di adattamento mediante rinvio, e dunque un
procedimento che subordina l’applicazione della norma internazionale all’effettiva esistenza di questa in quanto norma
internazionale, esistenza che dovrà essere accertata dall’interprete. [ Tutto ciò rende assai acuto il problema, da più parti sollevato,
della necessità di appropriate fonti ufficiali di informazione all’interno dello Stato. In Italia la materia è regolata dalla L. 839/1984, che, oltre a
prevedere la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale di tutte le convenzioni, prevede che annualmente sia allegato alla Gazzetta un apposito volume
riguardante la situazione delle convenzioni internazionali vigenti per l’Italia, con l’indicazione degli Stati per i quali queste convenzioni sono efficaci
e delle riserve ad essere lative]. [Il problema del valore che il trattato ha per l’ordinamento italiano qualcosa non vi sia stato l’ordine di esecuzione
può sorgere nel caso dei trattati stipulati in forma semplificata e in tutti i casi in cui un accordo vincoli sul pino internazionale l’Italia ma non si sia
provveduto ad eseguirlo all’interno. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore
per l’ordinamento interno. La tesi va in linea di massima approvata, ma può essere corretta nel senso che all’accordo valido sul piano
internazionale, ma non eseguito all’interno dello Stato, può assegnarsi una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: esso dovrà cedere di fronte
Per quanto riguarda l’ordine di esecuzione dato con legge ordinaria, sia in relazione ai rapporti
a norme interne contrarie].
delle norme convenzionali immesse con le norme di altre leggi ordinarie sia in relazione ai rapporti con le norme
costituzionali. Circa i primi rapporti doveva ritenersi, in conformità alla comune dottrina e ad una consolidata
giurisprudenza, che essi fossero in tutto o per tutto rapporti fra norme di pari rango, regolati quindi dal principio per cui
la legge posteriore abroga l’anteriore e la legge speciale prevale sulla legge comune. L’art. 3 della stessa legge ha
innovato la materia, stabilendo che la legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei vincoli internazionali. Viene
così sancita una preminenza degli obblighi internazionali. La stessa preminenza era stata ricavata dalla Corte
costituzionale, con esclusivo riguardo alle convenzioni che si occupano del trattamento degli stranieri, secondo cui la
condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle orme e dei trattati internazionali. Data la
prevalenza degli obblighi internazionali deve ritenersi che sia viziata da illegittimità costituzionale la legge ordinaria che
non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. Non tutti i problemi sono risolti, in particolare per quanto riguarda la
precisa linea di distinzione tra i casi in cui la Corte costituzionale ha competenza esclusiva ad intervenire, per annullare
la legge in contrasto con la norma di un trattato internazionale, ed i casi in cui la prevalenza della norma internazionale
può essere assicurata dal giudice comune nell’esercizio della sua normale attività interpretativa. Il tema è affrontato
delle due sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007. In entrambe le sentenze tale attività è fatta salva in
linea di principio. La Corte riconosce al giudice comune la competenza ad interpretare le norme interne in modo
conforme alle disposizioni internazionali. Ma se ciò non è consentito dal testo delle norme allora il giudizio di
costituzionalità deve essere instaurato. L’intervento della Corte costituzionale, alla luce della citata disposizione dell’art.
117 dovrebbe essere eccezionale. La prevalenza del trattato sulle leggi interne va attuata il più possibile dai giudici
comuni sul piano interpretativo. La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi spesso fatto ricorso alla presunzione
di conformità delle norme interne al diritto internazionale in base alla quale si ritiene che, se la legge posteriore è
ambigua, o se comunque lascia adito a più interpretazioni, tra cui una conforme alla norma internazionale, essa va
interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto degli obblighi internazionali assunti in precedenza. La prevalenza
del trattato è stata anche assicurata considerando il trattato come diritto speciale ratione materiae o personarum. E’
questa un criterio che è stato largamente applicato dalla giurisprudenza italiana nei rapporti tra il codice della
navigazione e il codice di procedura civile e le convenzioni rispettivamente di diritto marittimo uniforme e di assistenza
giudiziaria. Importante è la prassi seguita soprattutto dalle Corti americane e svizzere, secondo cui la legge posteriore
prevale solo se vi è una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al trattato. Se si segue questa il
ricorso ad altri criteri interpretativi diviene superfluo. E’ solo nella giurisprudenza americana e svizzera che occorre
scavare per assicurare la prevalenza del trattato sulle leggi interne anche posteriori. A tal fine occorre convincersi del
fatto che il trattato finisce con l’essere sorretto nell’ambito dell’ordinamento interno da una duplice volontà normativa:
da un lato la volontà che certi rapporti siano disciplinati così come li disciplina la norma internazionale, dall’altro la
volontà che gli impegni assunti verso altri Stati siano rispettati. Occorre dunque che entrambe le volontà siano
annullate; occorre che la norma posteriore riveli la volontà di ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Ne
consegue che una abrogazione o modifica delle norme di adattamento al trattato per semplice incompatibilità con una
legge posteriore non è ammissibile. Riteniamo che la volontà del legislatore di ripudiare un’obbligazione internazionale
preesistente possa ricavarsi in modo implicito solo quando l’oggetto dell’obbligazione e quello della norma interna
coincidano perfettamente sia per quanto riguarda la materia regolata sia per quanto riguarda i soggetti ai quali il
regolamento si dirige. Si prenda ad es, la legislazione degli Stati Uniti che, tra il 1971 e il 1976, autorizzò le importazioni
di cromo della Rhodesia del Sud. Il principio di carattere interpretativo è un principio di specialità sui generis, di una
specialità che non va confusa con quella ratione materiae o ratione personarum: la specialità consiste nel fatto che la
norma internazionale è sorretta non solo e non tanto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo
quanto dalla volontà che gli obblighi internazionali siano rispettati.

* Circa i rapporti fra il trattato e la Costituzione, non vi è alcun motivo per discostarsi dai principi relativi alla gerarchia
delle nostre fonti. Le norme pattizie immesse potranno pertanto essere sottoposte a controllo di costituzionalità ed
annullate se violano norme della nostra Costituzione. Nelle due sentenze n. 348 e 349 del 2007, la Corte ha affermato
che le norme pattizie introdotte nell’ordinamento interno sono superiori alla legge, ciò non significa che a loro volta esse
non siano soggette al controllo di costituzionalità ed espunte dall’ordinamento italiano se in contrasto con norme
costituzionali. In altri termini, le norme pattizie assumono così la forza propria delle norme interposte, essendo
parametro di costituzionalità delle leggi, ed avendo rango inferiore alla Costituzione. Anche la Costituzione tedesca si è
comportata allo stesso modo. Se da un punto divista formale le leggi di esecuzione dei trattati sono sempre subordinate
alla Costituzione, la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti
materia costituzionale come ausilio interpretativo di singoli articoli della Costituzione, ed anche per avallare
interpretazioni di carattere evolutivo. [ L’utilizzo di convenzioni internazionali, soprattutto per avallare interpretazioni evolutive di norme
costituzionali, è rinvenibile anche nella giurisprudenza di altri Paes i].

* Per capire se l’adattamento ad un trattato implica anche l’adattamento alle eventuali fonti da esso previste ed in
particolare se l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale implica l’adattamento
alle decisioni delle organizzazioni vincolanti per nostro Stato. Diciamo anzitutto che può darsi che il trattato preveda
espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all’interno degli Stati membri; in tal caso l’immissione
automatica delle norme prodotte dagli organi non può neppure essere messa in dubbio. Quando il trattato istitutivo
dell’organizzazione nulla dispone in materia, il problema va risolto interamente alla luce dell’ordinamento interno.
Errano quegli scrittori che cercano anche in tal caso di risolvere il problema alla luce del trattato e deducono la
conclusione che gli atti dell’organizzazione richiedano specifici atti interni di adattamento. In realtà tutto ciò che può
ricavarsi dal trattato è la volontà chele decisioni vincolanti degli organi siano rispettate ed eseguite. Occorre riconoscere
che la prassi italiana è orientata nel senso dell’adozione di singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione di organo
internazionale vincolante l’Italia. Tali atti consistono talvolta in una legge, ma il più spesso in decreti legislativi o
regolamenti amministrativi. Una simile prassi non appare però decisiva per concludere che le decisioni degli organi
internazionali non abbiano valore per l’ordinamento italiano. Sembra invece che l’ordine di esecuzione del trattato
istitutivo di una determinata organizzazione, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna. L’emanazione
dei singoli atti di adattamento nella forma ordinaria serve, da un lato, a fini di maggiore certezza e dall’altro, e
soprattutto, ad integrare il contenuto non sempre autosufficiente della decisione internazionale; ma per quanto
riguarda la forza formale delle decisioni, detta emanazione è superflua. D’altro canto non mancano esempi di norme
internazionali che hanno sicuramente vigore da noi in virtù di procedimenti speciali di adattamento e che pur tuttavia
formano oggetto di successivi procedimenti ordinari: si pensi alle norme di diritto consuetudinario in tema di mare
territoriale, vigenti in Italia. [ La possibilità che le decisioni internazionali siano applicate all’interno dello Stato indipendentemente da atti di
esecuzione non significa che i comportamenti individuali vietati dalla decisione possono trasformarsi automaticamente in reati, qualora la
decisione internazionale non li configuri come tali e non stabilisca le pene relative. Ciò per il principio nulla pona sine lege ].Tale
tesi non è
criticabile dal punto di vista costituzionale. Non sono infatti accettabili certe posizioni rigide di una parte della dottrina
secondo la quale una legge ordinaria non potrebbe legittimamente ordinare pro futuro l’osservanza in Italia degli atti via
via emessi dall’organizzazione medesima: così facendo essa finirebbe con l’istituire un procedimento di tipo legislativo
diverso da quelli previsti dalla Costituzione. Questa dottrina non tiene conto che in tal modo finisce col condannare tutte
le norme di legge ordinaria che rinviano ad ordinamenti stranieri od estranei. D’altro canto, per quanto riguarda le
organizzazioni internazionali, si può anche ricorrere all’art. 11 della Costituzione secondo cui l’Italia consente alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Ovviamente le norme prodotte dalle organizzazioni
internazionali non si sottraggono al controllo di costituzionalità. A patto ovviamente di esercitare tale controllo alla luce
delle norme materiali della Costituzione e non delle norme che provvedono all’organizzazione del potere legislativo.[ Il
controllo è ipotizzabile con riguardo alle decisioni del Consiglio di Sicurezza sulle sanzioni individuali adottate nel quadro della lotta al terrorismo
internazionale. Trattasi di decisioni della Carta delle Nazioni Unite che hanno istituito un Comitato delle sanzioni competente ad indicare
nominativamente ed individualmente il presunto terroristi, impegnando gli Stati membri a provvedere al congelamento dei fondi posseduti da
quest’ultimi. Per quanto riguarda l’Italia e gli altri Stati membri dell’UE è radicata la competenza del Consiglio Europeo che provveda ad eseguire
dette decisioni mediante regolamenti, ossia atti direttamente applicabili negli Stati membri. Il problema di è posto innanzi alle Corti di altri Paesi,
particolarmente in Svizzera, sia con riguardo alle norme di diritto interno relative ai diritti umani sia con riguardo ai rapporti tra l’art. 103 della
Carta e le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo relative alla tutela della proprietà e al diritto al giudice ].

CAPITOLO 41: L’adattamento al diritto dell’UE

*Ai trattati che si sono succeduti all’epoca delle Comunità e poi dell’Unione Europea fino al Trattato di Lisbona,
l’ordinamento italiano si è conformato con un normale ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Senonché
l’adattamento degli ordinamenti degli Stati membri al diritto comunitario ha finito con il seguire strade alquanto diverse
da quelle dell’adattamento ai comuni trattati. Si è così arrivati ad assicurare al diritto comunitario una prevalenza sulle
norme nazionali, comprese le norme costituzionali, che sono tipici di vincoli di carattere federalistico. Nel nostro Paese si
è fatto leva a tal fine, anche da parte della Corte costituzionale, sulla norma dell’art. 11 della Costituzione, secondo il
quale l’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Stranamente la Costituzione prevede che il legislatore rispetti gli obblighi derivanti dal diritto comunitario.

*A tutti i Trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione con legge. Per effetto dell’ordine di esecuzione non
solo hanno acquistato forza giuridica da noi le norme dei Trattati, ma automaticamente acquistano la stessa forza le
norme dei regolamenti. Su questo punto non vi può essere alcun dubbio, dato che l’art. 288 del TFUE espressamente
prevede che i regolamenti siano direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, e dato che l’ordine di
esecuzione copre inequivocabilmente l’art.288. L’automatica applicabilità dei regolamenti sebbene si traduca
sostanzialmente dell’introduzione in Italia di una fonte di tipo legislativo non prevista dalla Costituzione, non comporta
una violazione di quest’ultima. Fenomeni di rinvio permanente, da parte di nostre leggi, a norme di altri ordinamenti
devono intendersi come implicitamente ammessi dalla nostra Costituzione. La diretta ed automatica applicabilità dei
regolamenti riguarda la forza formale dei regolamenti medesimi; essa significa che tutti i regolamenti acquistano tale
forza, e possono creare diritti ed obblighi all’interno del nostro Stato, indipendentemente da provvedimenti di
adattamento ad hoc. Ciò non significa che tutti regolamenti siano direttamente immediatamente applicabili anche per
quanto riguarda il loro contenuto. Al contrario, vi sono regolamenti che nascono incompleti ed abbisognano comunque,
per poter produrre i loro effetti, o taluni dei loro effetti, di atti statali di esecuzione ed integrazione. L’applicazione dei
regolamenti comporta necessariamente la sovrapposizione ad essi di atti legislativi interni. Tutto ciò può comportare
delicati problemi di rapporti tra norme regolamentari e norme interne.

* Sempre con riguardo al come l’ordinamento italiano si conformi al diritto dell’Unione, resta da stabilire quali principi
regolano l’esecuzione degli altri due tipi di atti comunitari vincolanti, le direttive e le decisioni. Per molto tempo
l’opinione più diffusa al riguardo è stata che la diretta applicabilità dei soli regolamenti, le direttive e le decisioni non
siano automaticamente applicabili in virtù della legge di esecuzione dei Trattati ma necessitino in ogni caso di atti di
adattamento ad hoc. La tecnica che essi seguono di solito è quella propria del procedimento ordinario di adattamento;
la norma nella direttiva o della decisione non è quindi oggetto di mero rinvio da parte del provvedimento interno ma
viene integralmente riformulata. [La materia è stata per molti anni disciplinata dalla legge intitolata “norme generali sulla partecipazione
dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (Legge La Pergola). La legge comunitaria
prevede vari strumenti per dare attuazione alle norme comunitarie, tra cui la delega legislativa, l’adozione di regolamenti amministrativi, ecc. La
prima legge comunitaria, già prevista dalla legge La Pergola, venne emanata alla fine del 1990 ed è stata seguita da altre. Anche le Regioni hanno
emanato leggi comunitarie con riguardo alle norme comunitarie che incidono nei settori di loro competenza]. E’ da
escludere che le direttive
e le decisioni siano del tutto inapplicabili prima e indipendentemente dai provvedimenti interni che le seguono. Tale tesi
si fondava su di un argomento a contrario ma dimenticava che l’art. 249 TCE sanciva la obbligatorietà anche degli altri
due tipi di atti e che esso null’altro con ciò poteva volere che l’osservanza delle direttive e delle decisioni. E’ vero che
l’obbligatorietà era limitata al risultato, ma si tratta allora di stabilire quali effetti costituiscano un corollario dell’obbligo
di risultato e si producono quindi immediatamente e direttamente, e quali effetti invece sono condizionati alla
determinazione delle forme e dei mezzi da parte degli organi nazionali, e si producono solo in seguito alla emanazione
degli atti interni di esecuzione. L’applicabilità delle direttive è ammessa anche dalla Corte di Giustizia dell’UE entro certi
limiti i quali peraltro risultano via via sempre più ampi. Secondo la Corte gli effetti diretti delle direttive sono da riportare
alle seguenti ipotesi

A)Quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie oggetto di una direttiva,
tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello scopo della direttiva medesima.

B)Allorché la direttiva chiarisce la portata di un obbligo già previsto dai Trattati, la sua interpretazione può considerarsi
come vincolante. Il chiarimento può riguardare anche soltanto un principio generale del diritto dell’Unione;

C) Allorché la direttiva impone allo Stato un obbligo non implicante necessariamente l’emanazione di atti di esecuzione
ad hoc, gli individui possono invocarla innanzi ai giudici nazionali per far valere gli effetti che essa si propone. Secondo la
Corte, però, imponendo la direttiva “Obblighi allo Stato”, essa può essere invocata soltanto contro lo Stato e non anche
nelle controversie degli individui fra loro.

D) Nel caso di direttive che fissano un termine per la loro esecuzione nel diritto interno, lo Stato ha però l’obbligo di non
adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva;

E) La diretta applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo Stato obblighi procedurali. La Corte ha così
stabilito che il mancato rispetto dell’obbligo di informare la Commissione dell’Unione europea sull’adozione di
determinate norme nazionali o l’adozione delle stesse norme prima della decorrenza dei termini comporta la
disapplicazione delle norme nazionali in questione. La Corte di giustizia finisce col prendere una serie di posizioni che
rendono incerto il confine fra diretta applicabilità e non. Altre ipotesi di diretta applicabilità si possono ricavare dalla
giurisprudenza interna e tenendo sempre presente le caratteristiche della direttiva. Va infine accennato anche ad un
effetto che la Corte di giustizia riconosce alle direttive non direttamente applicabili che restino inattuate e quindi
comportino una violazione del diritto comunitario. In realtà si tratta di un effetto che non è limitato alle direttive ma
riguarda tutti i casi di violazione. Secondo la Corte, tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione a
chiedere il risarcimento del danno subito, purché si tratti di violazioni di norme che attribuiscono loro dei diritti e vi sia
un nesso di causalità tra l’inattuazione e il danno. L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia anche per
le decisioni indirizzate agli Stati.

* Efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi anche agli accordi conclusi dall’Unione con
Stati terzi, sempre che tali accordi contengano norme complete, ossia che non siano destinate ad essere completate da
atti degli organi dell’Unione. Anche in questo caso vale il principio secondo cui l’adattamento ad un trattato implica
l’automatico adattamento agli atti che il trattato medesimo considera come vincolanti. Per quanto riguarda il rango delle
norme dell’UE ed il loro rapporti con la legislazione ordinaria, la nostra Corte Costituzionale ha cambiato più volte
opinione. L’ultimo e definitivo cambiamento che risale alla sentenza del 1984 ribadita in varie altre sentenze
pronunciate dopo il 1984. La Corte non solo ritiene oggi che il diritto comunitario direttamente applicabile prevalga sulle
leggi interne, sia anteriori che posteriori, ma è anche dell’opinione che qualsiasi operatore giuridico e, se necessario,
qualsiasi giudice, debba disapplicare le leggi dello Stato nel caso di conflitto con una norma comunitaria direttamente
applicabile. Tutto ciò discenderebbe dal più volte citato art. 11 della Costituzione. L’art.11 riconoscerebbe: che il diritto
interno e il diritto comunitario si coordinino secondo il principio del primato del secondo sul primo; che tale
coordinamento consista nel fatto che il diritto interno si ritragga di fronte alle regole comunitarie direttamente
applicabili, lasciando che esse vigano e siano applicate in quanto formalmente appartenenti al loro ordinamento di
origine; che, di conseguenza, abbia come effetto di impedire che la norma interna incompatibile venga in rilievo. Da qui
la conseguenza che a disapplicare il diritto interno e ad applicare il diritto comunitario sia direttamente qualsiasi giudice
o organo amministrativo. A proposito della giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, occorre distinguere le
premesse teoriche dai risultati pratici. Dal punto di vista teorico ci sembra che ci si trovi di fronte ad una costruzione
estremamente fragile, come dimostra tra l’altro il fatto che la Corte ha fatto dire all’art.11 cose diverse in tempi diversi,
In realtà né i lavori preparatori, né la lettera e nemmeno lo spirito dell’art. 11 avallano la tesi della Corte. Tutto ciò che
può ricavarsi da tale norma, e dalla formula delle limitazioni di sovranità in essa contenuta, è che le decisioni vincolanti
delle organizzazioni internazionale possono aver efficacia da noi anche senza atti di esecuzione ad hoc. Il discorso è
diverso dal punto di vista pratico, per cui l’ultima presa di posizione della Corte costituzionale va salutata con
soddisfazione. La soddisfazione nasce dal fatto che abbiamo sempre sostenuto che la prevalenza dovesse essere per
l’appunto opera dell’interprete. Non in base a complicate categorie costituzionalistiche implicanti scelte di carattere
formale ma più semplicemente alla luce di quel principio di specialità nell’interpretazione dei trattati.

*L’ultima questione da esaminare è quella dei rapporti tra diritto dell’Unione europea e norme costituzionali, ed in
particolare se le norme dei Trattati e della legislazione dell’Unione possano essere sottoposte a controllo ci
costituzionalità. In uno scritto pubblicato nel 1966 si affermava che la partecipazione dello Stato alle Comunità europee
non potesse per ciò stesso comportare la rinuncia a priori ad ogni difesa dei principi costituzionale che presiedono alla
vita della comunità nazionale e si diceva inoltre che il diritto comunitario non dovesse sfuggire pertanto al controllo
della nostra Corte costituzionale così come vi sfugge il comune diritto dei trattati. Dal 1966 ad oggi molta acqua è
passata sotto i ponti. In una serie di sentenze assai note la Corte di Giustizia dell’Unione cominciò con l’affermare che la
tutela dei diritti fondamentali dell’individuo non fosse estranea al diritto comunitario, che essa fosse rilevabile per
sintesi tenendo presente le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri nonché le Convenzioni sui diritti umani
vincolanti tali Stati e che siffatta sintesi dovesse procedere essa Corte nella funzione di controllo del rispetto del diritto
comunitario. La prassi della Corte ha poi trovato esplicito riconoscimento nel Trattato di Maastricht ed attualmente la
Corte dispone anche della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Trattasi di uno strumento estremamente
ricco quanto al numero di diritti, ma con un’efficacia limitata alle materie oggetto del diritto dell’Unione. Anche la
giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ha finito per attestarsi su posizioni europeistiche. Ciò avvenne già con
la sentenza 183/1973, la quale ha poi esercitato grande influenza su tutta la giurisprudenza successiva della Corte,
compresala sentenza n. 170/1984. La Corte ha così stabilità che l’ordine comunitario e l’ordine interno costituiscono due
sistemi distinti e separati anche se coordinati tra loro; che le norme comunitarie debbono avere iena efficacia
obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e
conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari; che l’ordinamento comunitario risulta
caratterizzato da un proprio complesso di garanzie statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica; e che essi si
sottraggano al controllo di costituzionalità, limitato dall’art. 134 della Cost. alle leggi e agli atti aventi forza di legge dello
Stato e delle Regioni. Un’evoluzione simile ha subito la giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca. Questa, dopo
aver più volte dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei diritti fondamentali in
Germania neppure in ordine agli atti comunitari, ha cambiato opinione con la decisione 1986 nella quale ha promesso
che non controllerà più la legislazione comunitaria fin tanto ché la Corte di Giustizia delle Comunità europee assicurerà
in linea generale una protezione effettiva dei diritti fondamentali. E’ però importante notare che sia la Corte
Costituzionale italiana che quella tedesca hanno poi ripreso una certa distanza dalla Corte comunitaria. La prima si è
riservata la possibilità di verificare se una qualsiasi norma del trattato non venga in contrasto con i principi fondamentali
del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana. La Corte costituzionale
tedesca si è riservata di intervenire nei casi in cui , attraverso le procedure innanzi alla Corte comunitaria, non sia
assicurato lo standard di protezione dei diritti umani considerato come irrinunciabile dalla Legge fondamentale e nella
successiva sentenza emessa con riguardo al Trattato di Maastricht e volta a sostenere che la istituzione dell’Unione
europea non contrasta con il principio della rappresentanza democratica e il diritto dei cittadini tedeschi a partecipare
all’esercizio della sovranità, si è riservata di vagliare se gli atti delle istituzioni europee si mantengano nei limiti dei
diritti sovrani ad essi attribuiti o li travalichino. Lo stesso giudizio di compatibilità è stato dato con riguardo ai Trattati di
Lisbona.

CAPITOLO 41: L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle Regioni

*Quando il diritto internazionale interferisce in materie che in Italia formano oggetto di legislazione regionale si pone il
problema del coordinamento tra norme internazionali e norme statali di adattamento, da un lato, e norme regionali,
dall’altro. La grande maggioranza della dottrina, sia statalistica che regionalistica è d’accordo nel ritenere che ad
immettere il diritto internazionale nel nostro ordinamento, a dargli in parole forza formale da noi, debba essere in caso il
Potere centrale. Tale opinione trova conferma espressa nella Costituzione per quanto riguarda il diritto consuetudinario;
per quanto riguarda i trattati, la medesima opinione trova conferma nella prassi dell’ordine di esecuzione dato con legge
ordinaria. Né sembra che il quadro sia oggi mutato per effetto della legge cost. 3/2001, che ha modificato il tit. V della
parte II della Costituzione. L’art. 3 di tale legge prevede che le Regioni, nelle materie di loro competenza, provvedono
all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in casi di
inadempienza. In effetti la disposizione può essere riferita alle competenze in materia di esecuzione delle norme
internazionali e comunitarie che le regioni hanno sì il diritto di esercitare in piena autonomia, ma una volta che queste
siano state formalmente introdotte nell’ordinamento interno. Un principio può dirsi pacifico, ed è quello del rispetto, da
parte della Regione, degli obblighi internazionali. Il principio è espressamente sancito in taluni Statuti regionali ed è
stato considerato come implicito, anche negli Statuti che non ne fanno menzione, dalla Corte costituzionale. Oggi esso è
sancito dalla legge 2001 che obbliga il legislatore regionale al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali.

*La prassi che si è andata sviluppando in Italia fino alla modifica costituzionale del 2001 non ha mai dato una risposta
certa e soddisfacente a detto quesito. Agli inizi degli anni ’70, sia il legislatore che la Corte costituzionale partirono da
posizioni di assoluta compressione delle competenze regionali; essi muovevano in particolare dall’idea che tutto ciò che
riguardasse l’applicazione del diritto internazionale e del diritto comunitario fosse di esclusiva competenza dello Stato.
Più specificamente il limite del rispetto degli obblighi internazionali che inerisce alle competenze regionali, non doveva
considerarsi soltanto come un limite negativo, ma doveva considerarsi anche come un limite positivo, comportando la
competenza degli organi statali in ordine a tutta l’attività legislativa ed amministrativa necessaria per attuare e
specificare il diritto internazionale e comunitario: se tale competenza non ci fosse lo Stato avrebbe rischiato di esser
chiamato a rispondere nei confronti degli altri Stati per carenze ed omissioni non sue e non da esso eliminabili. Per
evitare che almeno in certe materie le Regioni fossero sogliate delle loro attribuzioni secondo la Corte, le Regioni
avrebbero potuto essere ammesse a partecipare all’attuazione e specificazione del diritto internazionale o comunitario
solo mediante strumenti, come la delega, che garantissero allo Stato facoltà di controllo e di sostituzione. La rigida
posizione della Corte costituzionale non mancò di suscitare forti critiche sia dottrinali sia degli operatori giuridici
regionali. La posizione della Corte e del legislatore nazionale, si è poi andata modificando. La Corte ha finito col
riconoscere la competenza autonoma ed originaria delle Regioni a partecipare all’attuazione del diritto internazionale
non ché del diritto comunitario direttamente applicabile, riservando l’attuazione diretta delle direttive alle regioni a
statuto speciale. D’altro canto, però, essa ha continuato a fondersi sul limite del rispetto degli obblighi internazionali e
comunitari per dedurne il potere dello Stato di sostituirsi alle Regioni quando si tratta di assicurare il puntuale
adempimento degli obblighi medesimi, Essa inoltre non ha limitato il potere sostitutivo dello Stato al solo caso di inerzia
delle Regioni, ma lo ha esteso in modo tale da lasciare incerti i cui confini e da giustificare una molteplicità di interventi
degli organi centrali. In definitiva, mentre la giurisprudenza iniziale della Corte partiva da un dato sicuro anche se
inammissibile, la prassi successiva ha finito col non poggiare su di una base solida, adottando soluzioni incerte e
insoddisfacenti e sembrando far ricorso piuttosto ad espedienti. Per l’attuazione del diritto dell’Unione europea alcune
Regioni, come l’Emilia Romagna ed il Friuli Venezia Giulia, hanno cominciato ad emanare proprie leggi comunitarie ad
imitazione della legge comunitaria statale. Alla prassi descritta fanno da eco le disposizioni contenute, nella materia,
nella legge 3/2001 che demanda alla legge dello Stato il compito di disciplinare le modalità del potere sostitutivo e del
Governo si esercita “nel caso dimancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria,
oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dei livelli
essenziali elle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Lo stesso comma prevede inoltre che la legge definisca le
procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio
di leale collaborazione.

CAPITOLO 43: Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo

*Può darsi che il diritto interno non riesca ad evitare che lo Stato incorra in una violazione del diritto internazionale o in
un fatto illecito internazionale. Si pone allora il problema della responsabilità internazionale degli Stati che consiste nel
chiedersi quando sia ha un fatto illecito internazionale, ossia quali sono i suoi elementi costitutivi e quali conseguenze
scaturiscono dal medesimo. Trattasi della fase patologica dei rapporti tra Stati, ed è inutile sottolineare che proprio tale
fase trae alimento il tanto diffuso quanto giustificato scetticismo circa la capacità del diritto internazionale di imporsi per
forza propria ai singoli Stati. Al tema della responsabilità degli Stati la dottrina ha dedicato approfondite indagini. Dal
lontano 1953 la CDI ha intrapreso lo studio dell’argomento, ma un progetto definitivo di codificazione ha visto la luce
solo nel 2001, dopo quasi 50 anni; il che è prova della complessità della materia nonché delle implicazioni fortemente
politiche che essa presenta. Nel 1980 la Commissioni approvò la prima parte di un progetto di articoli redatto
sostanzialmente dall’Ago che si limitava ad occuparsi dell’origine della responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito
internazionale. Il progetto definitivo ha visto la luce nell’agosto 2001. Esso si occupa, in 59 articoli, sia degli elementi sia
delle conseguenze dell’illecito. Una caratteristica fondamentale delle varie parti del Progetto della CDI, è quella di
considerare i principi sulla responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma
internazionale. Tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel quadro
delle norme sul trattamento degli stranieri. Infatti solo in tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli
stranieri nel suo territorio esisteva una prassi abbondante ed omogenea modellata sui principi della responsabilità civile
di diritto interno ed in particolare sul principio secondo cui chi cagiona ad altri un danno ingiusto è tenuto a ripararlo.
Quando si cerca di ricostruire un regime di responsabilità che abbracci tutte le possibili violazioni del diritto
internazionale, si va incontro a serie difficoltà, perché la prassi diviene assai frammentaria ed incerta e perché per molte
e gravi violazioni il parlare di un obbligo di riparazione ha poco o nessun senso, infine perché la scarsità dei mezzi diretti
ad assicurare l’attuazione delle norme internazionali diviene ancor più evidente. La Commissione ha tra i suoi compiti
non solo la codificazione ma anche lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e dei lavori della Commissione.

*[Quanto si dirà sulla responsabilità degli Stati vale anche per gli altri soggetti internazionali ad esclusione degli individui
la cui responsabilità è regolata da norme che attengono al campo del diritto penale. Sulla responsabilità delle
organizzazioni internazionali, la CDI ha approvato nel 2009 un Rapporto completo del Relatore speciale Gaja, che si
conforma per la maggior parte alle regole codificate in tema di responsabilità degli Stati. Trattasi di regole ispirate in
linea generale al principio dell’autonomia della responsabilità delle organizzazioni, ricavabile dall’autonoma personalità
internazionale di cui sono dotate le organizzazioni medesime. Tra detti articoli segnaliamo l’art. 16, che prevede la
responsabilità dell’organizzazione allorché questa adotti decisioni vincolanti per lo Stat membro e comportanti atti
illeciti. Va poi segnalato l’art. 39 il quale prevede che, qualora l’organizzazione debba riparare il danno derivante da un
suo atto illecito, gli Stati membri siano chiamati ad adottare le misure più appropriate affinché la riparazione abbia
luogo. Infine l’art. 61 prevede il caso della responsabilità dello Stato membro per un atto illecito dell’organizzazione. Ciò
solo quando lo Stato membro abbia accettato tale responsabilità oppure abbia indotto la vittima dell’illecito a farvi
affidamento altrimenti, rivive il principio generale di autonomia della responsabilità dell’organizzazione. La
responsabilità internazionale dell’organizzazione non va confusa con la responsabilità di diritto interno. Anche qui il
problema che si pone riguarda i rapporti tra l’organizzazione ed i suoi membri e consiste nel chiedersi se e quando i
secondi rispondano solidarmente delle obbligazioni contratte dalla prima. Il problema non può che essere risolto alla
luce delle norme che regolano la capacità di diritto interno dell’organizzazione].

*Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale e lo Stato-organizzazione è ovvio che il fatto
illecito consista anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali, comprendendo tra questi tutti coloro che
partecipano dell’esercizio del potere di governo. Sono solo gli organi statali i possibili autori delle violazioni del diritto
internazionale. Anche il Progetto dopo aver indicato come elementi del fatto illecito un comportamento attribuibile allo
Stato consistente in una violazione di un obbligo internazionale dello Stato, specifica poi che il primo elemento consiste
nel comportamento di un qualsiasi organo dello Stato, sia esso legislativo, giudiziario o esecutivo, del governo centrale o
di un ente territoriale. Il fatto che l’autore dell’illecito sia necessariamente un organo dello Stato assume importanza
quando si tratta di illeciti commissivi, consistenti in azioni; è chiaro che per gli illeciti omissivi l’identificazione
dell’organo che avrebbe dovuto attivarsi e non lo ha fatto, la sua competenza ecc, non hanno rilievo per il diritto
internazionale. Sebbene in linea astratta sia vero che qualsiasi organo possa impegnare la responsabilità dello Stato, tale
possibilità si trova in concreto limitata a causa del contenuto che di solito le norme internazionali hanno. Si discute se la
responsabilità dello Stato sorga quando l’organo abbia commesso un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di
tale sua qualità, e dunque agendo nell’esercizio delle sue funzioni, ma al di fuori dei limiti della sua competenza. La
questione attiene ai soli illeciti commissivi e riguarda le azioni illecite condotte da organi di polizia in violazione del
proprio diritto interno e contravvenendo agli ordini ricevuti. Secondo una parte della dottrina, ed anche secondo l’art. 7
del Progetto, azioni del genere sarebbero comunque attribuibili allo Stato; secondo altri autori l’azione in quanto tale
resterebbe propria dell’individuo o degli individui che l’hanno compiuta, e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non
aver preso misure idonee a prevenirla. Che la soluzione accolta dall’art. 7 sia la più aderente alla prassi, come testimonia
la vasta giurisprudenza, non contestata dagli Stati, della CEDU in tema di azioni illecite degli organi di polizia e quella
della CIG in tema di azioni militari intraprese in contrasto con le istruzioni ricevute. Il fatto che simili azioni siano
contrarie al diritto interno o contravvengano agli ordini ricevuti non è significativo in quanto l’illecito internazionale si
verifica solo quando siano stati esauriti gli eventuali mezzi di ricordo interni e dunque solo quando lo Stato non lo abbia
fatto.

* Se l’illecito internazionale è opera degli organi statali, resta esclusa la possibilità che allo Stato sia addossata una
responsabilità per atti di privati che arrechino danni a individui, organi o Stati stranieri. In effetti, a configurare una
responsabilità dello Stato in questi termini perveniva soltanto la vecchia teoria germanica della solidarietà di gruppo. La
teoria fu abbandonata a favore della dottrina della patientia e del receptus limitante la responsabilità dello Stato ai soli
casi di tolleranza delle o di complicità con le azioni compiute da privati nel proprio territorio. Dottrina e prassi oggi sono
concordi nel ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure atte a prevenire l’azione o a
punire l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi. Il discorso è diverso per i casi in cui lo Stato sembra rispondere
anche quando non ha commesso alcun illecito; trattasi in particolare del caso della responsabilità per danni causati da
oggetti spaziali, per il quale lo Stato risponde anche per fatti a lui non imputabili. [ La non attribuzione allo Stato del
comportamento di individui in quanto tali era progressivamente prevista dall’art. 11 del vecchio progetto, norma che non si ritrova nel Progetto. E’
chiaro però che questo prende posizione nello stesso senso, dato che tutte le ipotesi di attribuzione dell’illecito allo Stato presuppongono un
qualche legame tra l’individuo e lo Stato medesimo].

CAPITOLO 44: L’elemento oggettivo

* Il Progetto si occupa agli artt. 12 e ss. del secondo elemento del fatto illecito, ossia dell’illecito del comportamento
dell’organo statale. Trattasi dell’elemento obbiettivo contrapposto all’elemento soggettivo. L’art. 12 definisce
l’elemento obbiettivo dell’illecito, dichiarando: “si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato
quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo…”. Gli articoli successivi
contengono alcune regole dirette a stabilire quando, e anche quali condizioni, una violazione del diritto internazionale
può considerarsi come definitivamente consumata. Tra queste l’art. 13 prevede che l’obbligazione debba esistere al
momento in cui il comportamento dello Stato è tenuto; a loro volta gli artt. 14 e 15 stabiliscono quando deve ritenersi
che si verifichi l’illecito (tempus commissi delicti) negli illeciti istantanei, in quelli aventi carattere continuo e negli illeciti
composti. La determinazione del tempus commissi delicti è importante a vari fini ma soprattutto in relazione
all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di regolamento giudiziario.

*All’elemento obbiettivo dell’illecito internazionale attengono le cause, o circostanze, escludenti l’illiceità.

1) Una prima causa è costituita dal consenso dello Stato leso. Il consenso validamente dato da uno Stato alla
commissione da parte di un altro Stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei confronti del primo
Stato sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del consenso. La norma ispirata al principio volenti non fit iniuria,
trova ampio riscontro nella prassi internazionale ed ha quindi natura consuetudinaria. Il consenso dello Stato leso viene
configurato da una parte della dottrina come un vero e proprio accordo tra lo Stato autorizzante e lo Stato autorizzato,
diretto a sospendere un obbligo preesistente. Anche se apparentemente si presenta come accordo, la causa di
esclusione dell’illiceità è sempre sostanzialmente un atto unilaterale, per l’appunto un’autorizzazione dello Stato, che
altrimenti sarebbe leso, autorizzazione che esplica i suoi effetti in virtù di una norma ad hoc di diritto internazionale
generale. Ciò è dimostrato dal fatto che in tutti i casi in cui nella prassi si è discusso della validità del consenso la
discussione ha sempre riguardato la manifestazione di volontà dello Stato autorizzante e… mai quella dello Stato
autorizzato. Il testo dell’art. 20 finisce col confermare la natura unilaterale del consenso, riferendo il requisito della
validità. Un’ulteriore conferma è data dalla possibilità di revocare il suo consenso, come ha precisato anche la CIG.

2) Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita dall’autotutela ossia dalle azioni che sono dirette
a reprimere l’illecito altrui e che non possono essere considerate come antigiuridiche anche quando consistono in
violazioni di norme internazionali. Dell’autotutela come causa di esclusione dell’illiceità, si occupano gli artt. del Progetto
relativi alla legittima difesa e alle contromisure.

3) L’art. 23 annovera tra le cause di esclusione dell’illiceità la forma maggiore, cioè il verificarsi di una forza irresistibile o
di un evento imprevisto, al di là del controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile adempiere l’obbligo.
L’argomento va inquadrato nel problema della colpa come elemento dell’illecito internazionale.

4) E’ controverso se per il diritto internazionale, lo stato di necessità, ossia l’aver commesso il fatto per evitare un
pericolo grave imminente e non volontariamente causato, possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità.
Nessuno dubita che la necessità possa essere invocata quando il pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che abbia
commesso l’illecito o degli individui a lui affidati. Nessuno può dubitare pertanto della perfetta conformità al diritto
consuetudinario dell’art.24 del Progetto. Le incertezze riguardano invece la necessità in quanto riferita allo Stato nel suo
complesso, vale a dire le azioni illecite che siano compiute per evitare che sia compromesso un interesse vitale dello
Stato. Anche in questo caso la dottrina è unanime nel ripudiare la vecchia tesi che legava la necessità ad un preteso
diritto di conservazione dello Stato, e che su tale base finiva con il giustificare non solo ogni sorta di abuso, ma
soprattutto fenomeni come al conquista del’ingrandimento territoriale a danno di altri Stati. In definitiva, la disputa
riguarda il punto se, a parte il distress, a parte il ripudio della tesi del diritto di conservazione, ed escluso, più in
generale, che la necessità sia invocabile per violare impunemente norme di jus cogens, particolarmente la norma che
sancisce il divieto dell’uso della forza, una sia pur limitata sfera di operatività dello stato di necessità sia da ammettere.
L’art. 25 del Progetto si pronuncia in senso favorevole, sforzandosi di esprimersi nel modo più restrittivo possibile, ed
adottando una formulazione di tipo negativo: “1. Lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di
esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad un obbligo internazionale… se non quando l’atto: a) costituisca
l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente; b) non leda gravemente
un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure delle comunità
internazionale del suo complesso. 2. In ogni caso la necessità non può essere invocata se a) l’obbligo internazionale in
questione esclude la possibilità di invocare la necessità; b)lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di
necessità. La prassi internazionale è estremamente incerta al riguardo e se è vero che esiste un certo numero di
sentenze arbitrali che non hanno escluso in linea di principio il ricorso alla necessità è vero anche che simili decisioni si
sono per lo più pronunciate per l’inapplicabilità del principio al caso di specie, e dall’altro, le decisioni medesime non
hanno mai chiarito in che cosa esattamente consiste la natura vitale o essenziale di un interesse dello Stato. Una volta
bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue manifestazioni, inclusi gli interventi umanitari o
a protezione dei propri cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a poco. Né bisogna
confondere il ricordo alla necessità con l’applicazione di singole e specifiche norme, consuetudinarie, che all’idea di
necessità si ricollegano: ci riferiamo in particolare alle norme che autorizzano un eccezionale esercizio funzionale della
potestà di governo. La situazione è diversa per quanto riguarda clausole di deroga ispirate alla necessità, contenute in
varie convenzioni sia nella materia economica che in quella sui diritti umani.

6) Non è del tutto azzardata la tesi secondo cui l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale urti
contro principi fondamentali della Costituzione dello Stato. La Corte costituzionale italiana ha talvolta annullato le
norme interne di esecuzione di norme internazionali pattizie contrarie a principi costituzionali, mettendo gli altri organi
dello Stato nell’impossibilità di osservare le norme medesime. E’ sintomatico al riguardo che non sono state avanzate
significative proteste da parte degli Stati interessati in occasione delle citate pronunce della nostra Corte costituzionale.

CAPITOLO 45: Gli elementi controversi: la colpa e il danno

* Una questione a lungo dibattuta riguarda la necessità o meno che sussista la colpa dell’organo statale autore della
violazione. Con ampia generalizzazione possono distinguersi tre tipi di responsabilità. Anzitutto vi è la responsabilità per
colpa che si ha quando si richiede che l’autore dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente o almeno con
negligenza, ossia trascurando di adottare le misure necessarie per impedire l’evento dannoso. Sono questi i connotati
tipici, nel diritto privato, della responsabilità extracontrattuale o aquiliana, di origine romanistica. Vi è poi una
responsabilità cui può darsi il nome di responsabilità oggettiva relativa, o per la quale la dottrina anglosassone usa il
termine di strict liability: essa si ha quando la responsabilità sorge per effetto del solo compimento dell’illecito, ma
l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un
evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma. Nella responsabilità oggettiva relativa non solo la
responsabilità è aggravata, perché la forza maggiore è l’unica causa di giustificazione di solito ammessa, ma vi è anche
uno spostamento dell’onere della prova della vittima all’autore dell’illecito. Vi è infine un terzo tipo di responsabilità che
sia nei sistemi continentali che in quelli di common law viene chiamata assoluta e che non ammette alcuna causa di
giustificazione. Per questo tipo di responsabilità la dottrina si è chiesta se sia ancora opportuno parlare di
responsabilità e non piuttosto di garanzia. E’ certo comunque che l’idea che si risponde perché si è agito in modo
ingiusto, cede il posto all’idea della necessità sociale della tutela della vittima. Il regime di responsabilità può anzitutto
risultare specificamente previsto in relazione alla violazione di una determinata norma o di un determinato gruppo di
norme. E’ così che la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli organi stranieri dà chiaramente luogo ad
una responsabilità per colpa consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo Stato non abbia usato la dovuta
diligenza nella protezione. Per fare un altro esempio di regime specifico di responsabilità assoluta, può ricordarsi la
Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causat da oggetti spaziali, ratificata da più di 80 Paesi ed
entrata in vigore nel 1972. L’art. II della Convenzione stabilisce infatti: “Lo Stato di lancio ha la responsabilità assoluta
per la riparazione dei danni causati dal suo oggetto spaziale alla superficie della Terra o agli aeromobili in volo”. La
stessa Convenzione prevede invece, all’art. III, che per i danni causati ad altri oggetti saziale, il regime di responsabilità
sia quello per colpa. A parte i regimi specifici, sia consuetudinari che convenzionali per il regime residuale, ossia per il
regime valido per tutti gli altri casi, riteniamo che la regola generale sia favorevole alla responsabilità oggettiva relativa e
pertanto lo Stato risponde di qualsiasi violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi purché non dimostri
l’impossibilità assoluta dell’osservanza dell’obbligo. Buona parte delle violazioni del diritto internazionale affondano
sempre le loro radici nei più vari gradi dell’ordinamento statale, il che rende impossibile la ricerca nell’illecito di un
atteggiamento di negligenza e ricerca che, per avere un senso, non potrebbe non coinvolgere tutti gli organi preposti
all’emanazione delle anzi dette norme. Di solito poi, gli Stati che protestano contro la violazione di norme internazionali,
soprattutto la violazione di norme pattizie, e ricorrono a contromisure per farle cessare, non dimostrano alcuna
particolare propensione a condizionare le loro proteste e le loro contro misure alla prova dell’esistenza di negligenza o
di intenzionalità. Significativo è anche il fatto che se si esamina la giurisprudenza della Corte dell’UE e della Corte
europea dei diritti umani ci si rende conto che un’indagine sul dolo o sulla colpa degli organi dello Stato accusato non è
mai stata condotta. Per quanto riguarda il carattere relativo della responsabilità oggettiva, esso è suffragato da una
abbondante prassi internazionale. Dal punto di vista sembra conforme all’opinione della CDI, anche se il Progetto non
dedica al problema della colpa alcun articolo. Ma della circostanza che la colpa non è menzionata come elemento
dell’illecito internazionale, né è disciplinato in alcun altro articolo, e altresì dalla circostanza che l’art. 23 considera la
forza maggiore come causa di esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime di responsabilità obbiettiva relativa sia
considerato dalla Commissione come il regime applicabile.
* Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno sia materiale che morale. La CDI ha preso posizione
negativa al riguardo già all’epoca del vecchio progetto in vista del fatto che vi sono oggi norme di diritto internazionale,
la cui inosservanza da parte di uno dei loro destinatari è certamente sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri
anche quando un interesse diretto e concreto di questi ultimi non sia leso. Altro però è il problema se la mancanza della
lesione di un interesse diretto e concreto dello Stato faccia venire meno la responsabilità, o magari dia luogo a forme
particolari e più attenuate di responsabilità.

CAPITOLO 46: Conseguenze del fatto illecito internazionale. Autotutela individuale e collettiva

*Commessa una violazione del diritto internazionale, lo Stato deve risponderne. Le conseguenze del fatto illecito
internazionale hanno formato oggetto di una estesa speculazione teorica che ha contribuito in modo notevole alla
sistemazione della materia. L’opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistano in una nuova
relazione giuridica tra Stato offeso e Stato offensore, discendente dalla norma secondaria contrapposta alla norma
primaria ossia alla norma violata. Non vi è accordo peraltro per quanto concerne i contenuti da dare a siffatta relazione
giuridica. Le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello Stato offeso di pretendere, e
nell’obbligo costituirebbero per l’appunto la norma secondaria. La riparazione comprenderebbe sia il ripristino delle
situazioni quo ante sia il risarcimento del danno oppure la soddisfazione. Un autonomo rilievo nell’ambito delle
conseguenze dell’illecito non avrebbero invece i mezzi coercitivi di autotutela, considerati come rientranti nel diritto
dello Stato di provvedere alla propria conservazione. Lo schema è stato sottoposto a varie aggiunte e modificazioni
anche se non di grande rilievo. Importante è invece la tendenza a riportare sotto la norma secondaria anche i mezzi di
autotutela ed in particolare le rappresaglie: dal fatto illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la
riparazione sia il diritto di ricorrere a contromisure coercitive aventi il precipuo ed autonomo scopo di infliggere una
vera e propria punizione allo Stato offensore. Da questo quadro si discosta un’autorevole corrente di pensiero che fa
capo al Kelsen e che muove da una critica del precedente schema rilevando l’inutilità di una costruzione delle
conseguenze dell’illecito in termini di diritti ed obblighi, in particolare alla riparazione: una costruzione del genere
condurrebbe oltre tutto ad un regressus ad infinitum dato che la violazione dell’obbligo di riparare produrrebbe un altro
obbligo di riparare così di seguito. Secondo il Kelsen l’illecito avrebbe come unica ed immediata conseguenza il ricorso
alle misure di autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe in ultima analisi dalla
volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l’uso della coercizione, regolando in modo pacifico,
mediante un accordo diretto o attraverso il ricorso all’arbitrato, la questione. Le misure di autotutela non
costituirebbero oggetto di un rapporto giuridico tra Stato offeso e Stato offensore, ma avrebbero natura di azione
coercitiva, la stessa che avrebbero la pena e l’esecuzione forzata nel diritto interno; a parte tale natura comune, non
sarebbero assimilabili né all’una né all’altra. Le idee del Kelsen risentono in larga misura della sua concezione
fortemente imperativistica del diritto, concezione che lo porta a considerare il momento sanzionatorio come
caratterizzante ogni ordinamento giuridico. Anche se si prescinde da siffatta concezione e si bada a quanto avviene nella
prassi in occasione di violazioni del diritto internazionale, la posizione del Kelsen contiene molto più degli altri elementi
di verità. Inoltre sembra che l’idea dell’illecito che, anziché scatenare reazione produce rapporti giuridici, sia un modo di
rappresentare la realtà. La fase patologica del diritto internazionale è poco una fase normativa, ed a caratterizzarla sono
per l’appunto le reazioni, sia pure imperfette, sia pure affidare allo stesso soggetto leso, contro l’illecito. Nella realtà le
razioni non hanno come scopo caratteristico quello di punire; esse sono fondamentalmente dirette a reintegrare
l’ordine giuridico violato ossia a far cessare l’illecito e a cancellarne, ove possibile, gli effetti. Si può anche dire che lo
Stato offensore ha l’obbligo di porre fine all’illecito e di cancellarne gli effetti e che correlativamente lo Stato offeso ha il
diritto di ricorrere all’autotutela per costringervelo; e anche che le prescrizioni del diritto internazionale sono scindibili in
una norma primaria, che prescrive un obbligo ed una norma secondaria che si occupa della sanzione. Quanto all’obbligo
della riparazione, è senz’altro eccessivo riportarne in tutto e per tutto il fondamento ad un accordo tra gli Stati
interessati. Ciò è vero solo per quelle forme di riparazione consistenti della soddisfazione, ossia nella presentazione di
scuse allo Stato offeso. Per quanto riguarda invece l’unica altra forma di riparazione che abbia rilevanza pratica, il
risarcimento del danno, non sembra si possa negare che essa sia prevista sa un’autonoma norma di diritto
internazionale generale e tutto ciò che si può concedere alla tesi del Kelsen è che effettivamente l’accordo delle parti e
la discrezionalità del giudice giocano un ruolo fondamentale. C’è anche da dire poi che la norma generale sul
risarcimento del danno ha un rilievo secondario nella materia delle conseguenze dell’illecito, essendo ché nella
responsabilità internazionale gli aspetti patrimonialisti sono trascurabili. Altro argomento importante riguarda la
possibilità che soggetti diversi dallo Stato direttamente leso adottino misure coercitive nei confronti dello Stato
offensore in caso di violazioni di obblighi erga omnes ed in particolare di crimini internazionali degli Stati.

*La normale reazione contro l’illecito è l’autotutela, cioè il farsi giustizia da sé. Ciò che nel diritto interno è un fatto
eccezionale, ammesso solo entro certi limiti, in certi campi, ed in presenza di circostanze eccezionali, è invece la regola
nell’ambito del diritto internazionale, dove manca un sistema di garanzia dell’attuazione delle norme. Resta confermata
l’opinione circa la scarsa efficienza e credibilità dei mezzi internazionali di attuazione coattiva del diritto e circa la
necessità che l’illecito venga evitato attraverso gli strumenti offerti dall’ordinamento dello stesso Stato che avrebbe
interesse a violare una data orma internazionale. A partire dalla dine della seconda guerra mondiale si è fatta strada
l’opinione, espressa anche dalla CIG, secondo cui l’autotutela non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza
essendo vietati dalla Carta delle Nazioni Unite e dallo stesso diritto internazionale consuetudinario. Il principio che vieta
il ricorso alla forza ha anzi carattere cogente, ma trova un limite generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad
un attacco armato già sferrato. L’art. 51 della Carta riconosce il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva
nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite. [L’attacco o aggressione si ha non solo
quando ad attaccare sono forze regolari ma anche quando lo Stato agisce attraverso bande irregolari o di mercenari da esso assoldati. La Corte ha
anche affermato che non costituisce invece aggressione armata la sola assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno Stato, sotto
forma di fornitura di armi, di assistenza logistica e simili; siffatta assistenza concreterebbe soltanto un’ipotesi di violazione del divieto di ingerirsi
negli affari altrui e al contempo un’ipotesi di violazione minoris generis del divieto della minaccia o dell’uso della forza. La legittima difesa può
essere al limite esercitata anche con armi nucleari, purché vengano rispettati il principio di proporzionalità della risposta rispetto all’attacco e le
norme del diritto umanitario di guerra. Deciso che il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio non comportano un’interdizione
completa e universale della minaccia o dell’uso di armi nucleari in quanto tali, la Corte aggiunge che minaccia e uso sarebbero generalmente
contrari alle regole di diritto internazionale applicabili ai conflitti armati e specialmente ai principi e alle regole del diritto umanitarioe che non si
possa comunque dire in modo definitivo se minaccia e uso medesimi sarebbero leciti o illeciti in una circostanza estrema di legittima difesa nella
Per capire se il divieto dell’uso della forza abbia altre eccezioni oltre
quale la stessa sopravvivenza di uno Stato fosse in predicato].
quella prevista dall’art. 51della Carta delle Nazioni Unite, sono stati fatti vari tentativi per dare risposta affermativa,
tentativi che possono ricondursi a due filoni. Il primo è il filone umanitario: vi è chi sostiene che interventi armati siano
ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o anche per ridurre alla ragione Stati che compiano
violazioni gravi dei diritti umani nei confronti dei loro stessi cittadini (è quest’ultimo il caso dell’intervento degli Stati
della NATO contro la Repubblica jugoslava per i massacri compiuti nel Kosovo). Sempre al filone umanitario vanno
riportati i casi d’intervento contro Stati antidemocratici che praticano il contrabbando di droga. L’altro filone è quello
dell’estensione della categoria della legittima difesa individuale e collettiva ad ipotesi chiaramente non previste dall’art.
51 della Carta delle Nazioni Unite: l’estensione è stata praticata per legittimare l’uso della forza in via preventiva o per
giustificare le reazioni contro Stati sul cui territorio gruppi terroristici stabiliscono le loro basi e preparano attacchi
contro altri Stati, per giustificare ad es, i bombardamenti della Libia e dell’Iraq ad opera degli Stati Uniti nel 1986 e nel
1993. Per quanto riguarda la dottrina della legittima difesa preventiva, essa è contenuta nel documento intitolato “La
strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, presentata al Congresso nel settembre 2002dall’allora Presidente
degli Stati Uniti. Secondo tale documento la legittima difesa preventiva potrebbe essere esercitata dagli Stati Uniti ogni
qualvolta ciò si rendesse necessario per prevenire una imminente minaccia o un imminente attacco con armi di
distruzione di massa o atti di terrorismo. [ Per conciliare l’illegalità dell’uso della forza con la possibilità di giustificarla moralmente e
politicamente vi è chi distingue tra legalità e legittimità. Sulla legittima difesa preventiva la CIG ha evitato di pronunciarsi nei casi in cui si è
occupata della legittima difesa, ma si è limitata a constatare che la legittima difesa preventiva non era stata invocata per giustificare l’uso della
forza].Lalegalità dell’uso della forza ha sempre suscitato l’opposizione da parte di molti Stati, in prevalenza dei più
deboli. Anche in dottrina forti dubbi sono stati sempre sollevati. Per quanto riguarda il filone umanitario, si è insistito sul
fatto che l’uso della forza non possa che essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. A sua volta l’estensione
dei casi di legittima difesa è apparsa niente più che un espediente per giustificare un illegittimo uso della forza, dato che
l’attacco armato comporta l’utilizzo di forze militari da parte di uno Stato e dato che la risposta all’attacco non può che
essere immediata e diretta a respingere un’aggressione. Senza dubbio il divieto della minaccia o dell’uso della forza che
normalmente è sentito come cogente nell’ambito della comunità internazionale, ha come pendant il sistema
accentrato di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite e deve quindi fare i conti con nota inefficienza
di tale sistema. Quando la forza è usata su larga scala, quando si è in presenza di una vera e propria guerra, e d’altro
canto il sistema di sicurezza collettiva dell’ONU non riesce a controllarla e a funzionare, c’è da prendere atto che il diritto
internazionale ha esaurito la sua funzione. La guerra non può allora essere valutata giuridicamente ma solo
politicamente e moralmente e può essere giustificata o condannata a seconda dei valori che persegue e del suo
eventuale presentarsi come il male minore. Ma dal punto di vista giuridico, essa non è né lecita né illecita, è indifferente.
C’è anche da tenere presente, però, che, quando la guerra è scatenata, entra in vigore tutto un corpo di regole, sia
consuetudinarie che pattizie, il ius in bello, contrapposto allo jusad bellum, sul quale ultimo valgono per l’appunto le
considerazioni ora fatte in tema di liceità della guerra. Lo jus in bello è costituito da norme che tendono a mitigare le
asprezze della lotta tra i belligeranti, a proteggere le popolazioni civili, a tutelare i Paesi estranei al conflitto e ad imporre
la punizione dei crimini di guerra. Vanno ricordate poi le norme che disciplinano la violenza bellica e di rapporti con i
neutrali, nonché le norme a protezione delle vittime dei conflitti armati e della popolazione civile, confluite nelle
Convenzioni di Ginevra del 1949. Per capire cosa significhi il divieto dell’uso della forza e quale sia la forza normalmente
vietata occorre tenere presente la distinzione tra forza internazionale e forza interna. Vietata è la forza internazionale,
ossia le operazioni militari di uno Stato contro un altro Stato. Ciò che invece il diritto internazionale non vieta è l’uso
della forza interna, ossia quella che rientra nel normale esercizio della potestà di governo dello Stato.

*La specie più importante di autotutela è la rappresaglia o contromisura. Secondo l’insegnamento comune, la
contromisura consiste in un comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe illecito, ma che diviene lecito in quanto
costituisce reazione ad un illecito altrui. In altri termini, lo Stato leso può, per reagire contro lo Stato offensore, violare a
sua volta gli obblighi che gli derivano da norme consuetudinarie. Le contromisure incontrano vari limiti; un limite molto
importane tra quelli di carattere generale è costituito dalla proporzionalità tra violazione subita e violazione commessa
per rappresaglia. Non si tratta di una perfetta corrispondenza tra le due violazioni: più che la proporzionalità il diritto
internazionale richiede che non vi sia una eccessiva sproporzione tra le due violazioni. E’ chiaro che, se sproporzione c’è,
la contromisura diviene illecita per la parte eccedente; ed è chiaro pure che la strada più praticabile è quella di farla
consistere nella violazione del medesimo obbligo violato. Un altro limite è costituito dall’impossibilità di ricorrere a
violazioni del diritto internazionale cogente anche nel caso in cui si tratti di reagire contro violazioni dello stesso tipo.
Poiché tra le norme di jus cogens vi è anche quella che tutela la dignità umana, resta assorbito dal rispetto del diritto
cogente il limite del rispetto dei principi umanitari che la dottrina ha sempre ricollegato alle rappresaglie consistenti
nell’inosservanza degli obblighi verso gli stranieri. Il diritto cogente segna esattamente l’ambito entro il quale la
contromisura diviene illegittima: se gli Stati possono derogare ad una norma mediante accordo, non si vede perché non
possano derogarvi a titolo di contromisura. A parte il rispetto per la dignità umana e il divieto delle gross violation dei
diritti umani o a quelle relative alle immunità degli agenti diplomatici. Tutto ciò che si può dire è che lo Stato possa
violarle solo per reagire a violazioni esattamente corrispondenti, e cioè quando i suoi cittadini o i suoi agenti diplomatici
abbiano subito le stesse violazioni. Si ritiene infine che alla contromisura non possa farsi ricorso se non si sia prima
tentato di giungere ad una soluzione concordata della controversia. In realtà la prassi non è affatto univoca e non si può
dire pertanto che una regola rigida si sia formata sul punto. Inoltre nulla può impedire ad uno Stato che si trovi a dover
fronteggiare una situazione di emergenza di prendere le necessarie contromisure.

* Il termine contromisura è da considerarsi più appropriato del classico termine rappresaglia, ma pur cambiando le
parole, la sostanza non muta. Il nuovo termine di raccomanda proprio perché non sottolinea tale carattere ma indica
qualsiasi violazione del diritto internazionale che lo Stato le soponga in essere nei confronti dello Stato offensore per
reintegrare l’ordine giuridico violato. Tra le contromisure va annoverata anche l’inosservanza del divieto dell’uso della
forza nel caso in cui occorra respingere un attacco armato. Tutti gli elementi essenziali sono presenti in questa reazione
contro il più grave illecito che uno Stato possa commettere; in particolare, come ha ribadito anche la CIG nelle già citate
sentenze tra Nicaragua e Stati Uniti e tra Iran e Stati Uniti, è presente un limite della proporzionalità tra attacco subito e
contrattacco. La più gran parte della dottrina tende a distinguere la legittima difesa dalla rappresaglia; ma la distinzione
si fonda su argomenti che sono superati da altre considerazioni. In realtà è lo stesso termine legittima difesa che è
adoperato in modo improprio. La legittima difesa ha essenzialmente carattere preventivo, dunque non tanto di
respingere gli attacchi, quanto di prevenire l’aggressione altrui.

* Come specie del genere autotutela va considerata anche la ritorsione che si distingue dalla rappresaglia o
contromisura in quanto non consiste in una violazione di norme internazionali ma in un comportamento soltanto in
amichevole. Si dice che la ritorsione non sia una forma di autotutela dato che lo Stato può sempre tenere un
comportamento in amichevole verso un altro Stato anche senza aver subito un illecito. L’opinione non è convincente
perché, in un ordinamento come quello internazionale in cui manca un sistema accentrato di garanzie per l’attuazione
del diritto, non è il caso di sottilizzare sui mezzi di pressione che gli Stati possono porre in essere per sopperire a tale
mancanza, purché si tratti di mezzi leciti. Nella ritorsione insomma è difficile separare le motivazioni politiche da quelle
giuridiche, ma non si può per ciò rinunciare a considerarla come forma di autotutela quando le seconde sono presenti.
Un altro argomento per ricondurre la ritorsione alla categoria dell’autotutela è fornito dalla prassi in materia di sanzioni
economiche alle quali sempre di più si ricorre per far cessare violazioni di norme internazionali ed anche di norme che
non riguardano rapporti economici. Spesso tali sanzioni consistono contemporaneamente sia in violazioni di obblighi
precedenti sia in comportamenti soltanto in amichevoli e dunque in esse i caratteri della contromisura e della ritorsione
sono difficilmente separabili.

*Da chiederci è se reazioni di questo tipo possano provenire da Stati che non abbiano subito alcuna lesione. Il problema
è attuale e viene posto anzitutto per certe convenzioni multilaterali che tutelano interessi che fanno capo alla collettività
degli Stati contraenti o addirittura valori particolarmente sentiti nell’ambito della comunità internazionale, come le
convenzioni sui diritti umani. Esso viene posto poi per le norme che prevedono obblighi erga omnes, ossia verso la
comunità internazionale nel suo complesso, quali le norme che vietano l’aggressione, il genocidio, l’apartheid, la
schiavitù, gli atti di terrorismo e simili. A norme del genere ha dedicato molta attenzione anche la CDI: nel vecchio
Progetto, la Commissione propose di distinguere i crimini internazionali degli Stati dai semplici illeciti, qualificando i
primi come violazioni gravi di obblighi ritenuti fondamentali dalla comunità internazionale nel suo insieme e
segnatamente del divieto dell’aggressione, dell’obbligo di rispettare l’autodeterminazione dei popoli, del divieto di
schiavitù, genocidio e apartheid e del divieto di inquinare in modo massiccio l’atmosfera o le acque del mare. Sulla
nozione di crimine internazionale si è sviluppato dopo di allora un vivace dibattito dottrinale centrato per l’appunto sulla
questione se possano intervenire anche gli Stati non direttamente lesi. Dopo estese discussioni e proposte la nozione di
crimine è stata definitivamente abbandonata dalla Commissione, anche se nel Progetto, l’azione degli Stati non
direttamente lesi non cessa del tutto di essere presa in considerazione. Dal punto di vista del diritto positivo
internazionale la questione non può essere risolta in termini teorici o formalistici. Non si può dire cioè che ciascuno di
essi abbia senz’altro diritto a reagire con contromisure in caso di violazione ed in nome dell’interesse comune. Nulla
esclude invece che si tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni, cioè pur sussistendo l’illecito internazionale, non ne
consegua una responsabilità, o ne consegua una forma attenuata di responsabilità. E’ innegabile che la possibilità per
Stati terzi di intervenire sia prevista da singole norme consuetudinarie internazionali. Il caso più importante è quello
della legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati, riconosciuta dalla Carta delle Nazioni Unite ed ammessa anche
dalla CIG nella sentenza tra Stati Uniti e Nicaragua: come la Corte ha stabilito, le misure, anche militari, che lo Stato
terzo può prendere devono rispondere ai criteri della necessità e della proporzionalità e comunque presuppongono una
precisa richiesta dello Stato aggredito. Un’altra norma consuetudinaria è quella che vincola tutti gli Stati a negare effetti
extraterritoriali agli atti di governo emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto in dispregio del principio
di autodeterminazione dei popoli. Egualmente la norma che autorizza tutti gli Stati ad aiutare militarmente i movimenti
che lottano per la liberazione del loro territorio dal dominio straniero, e quindi contro la violazione del principio di
autodeterminazione del popolo. E’ poi possibile che una convenzione multilaterale preveda essa stessa il diritto di
ciascuno Stato contraente di intervenire con Sanzioni, anche se non direttamente leso. In realtà, si tratta di un’ipotesi
piuttosto teorica dato che il diritto pattizio tende a limitare anziché ad estendere l’esercizio dell’autotutela. Ciò che
invece caratterizza alcune convenzioni multilaterali è la creazione di meccanismi istituzionali di controllo che possono
essere messi in moto da ciascuno Stato contraente ma che comunque difettano di poteri sanzionatori. Una menzione a
parte va infine riservata al sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite che costituisce un sistema sanzionatorio
accentrato che può tra l’altro funzionare anche per reagire contro violazioni di norme internazionali. E’ chiaro che la
questione ha valore residuale rispetto ai casi ora indicati. Trattasi di stabilire se, escluso il sistema delle Nazioni Unite,
esistano principi generali che consentano ad uno Stato di intervenire a tutela di un interesse fondamentale della
comunità internazionale o di un interesse collettivo. La prassi non offre elementi significatici e decisivi in senso
contrario. E’ sintomatico che coloro che si pronunciano a favore di una generalizzata autotutela collettiva in caso di
crimini, si riferiscono per la maggior parte a crimini consistenti nell’uso della forza e in atti di aggressione: trattasi di
reazioni collettive che rientrano chiaramente nella legittima difesa collettiva, ammessa dall’art. 51 della Carta delle
Nazioni Unite e dal diritto consuetudinario; è impossibile, dunque, utilizzarle per ricavarne conclusioni generalizzate. Gli
altri casi in cui vere e proprie contromisure economiche o misure caratterizzate dall’uso della forza sono state adottate
da Stati non direttamente lesi non sono molti e rivelano una tendenza piuttosto a senso unico, le reazioni provenendo
dagli Stati occidentali. Altro è l’atteggiamento dei Paesi socialisti e di numerosi Paesi del Terzo mondo, i quali hanno
sempre sostenuto che la sede legittima per sanzionarli fosse l’ONU, e soltanto l’ONU. E’ estremamente significativo che
la maggioranza degli Stati membri dell’ONU si sia nettamente pronunciata nel senso qui sostenuto. Forse una norma
consuetudinaria valevole per tutti i crimini internazionali si è consolidata soltanto nel senso di vietare agli Stati la
fornitura di armi e di assistenza militare allo Stato autore del crimine. Esclusa la possibilità per gli Stati non direttamente
interessati di prendere contromisure, il discorso è diverso per quanto riguarda il ricorso a comportamenti soltanto in
amichevoli, ossia a ritorsioni, trattandosi, da un lato, di comportamenti leciti e quindi sempre adottabili, e dall’altro di
mezzi di pressione che possono rivelarsi efficaci per far cessare l’illecito e che come tali sono inquadrabili
nell’autotutela.

* L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente lo Stato può obbligarsi a non ricorrere
a misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. Obblighi del genere sono ricavabili soprattutto dai trattati
istitutivi delle organizzazioni internazionali. E’ implicito nel vincolo di solidarietà e collaborazione tra gli Stati membri di
qualsiasi organizzazione l’obbligo di non ricorrere all’autotutela, ed in particolare di non reagire con la propria
inadempienza a quella altrui, se non come estrema ratio e solo dopo aver esperito tutte le strade eventualmente offerte
dalla stessa organizzazione per ottenere giustizia. Può darsi inoltre che norme limitative dell’autotutela, sia nel senso di
non potervi neppure ricorrere sia nel senso di potervi ricorrere solo a certe condizioni, siano espressamente previste. Un
esempio del primo tipo è dato dall’art. del TFUE che demanda esclusivamente alla Corte dell’Unione europea il compito
di imporre il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità allo Stato membro il quale abbia compiuto una
violazione del Trattato e non abbia reso i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti. Come esempio del secondo tipo
può ricordarsi lo stesso art. 51 della Carta e secondo il quale la legittima difesa contro un attacco armato può essere
esercitata fin tanto ché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la
sicurezza internazionale. Trattandosi di respingere un attacco armato, le misure necessarie non possono che essere le
misure militari direttamente intraprese dal Consiglio o almeno quelle non implicanti l’uso della forza. Ad ogni modo il
Consiglio può decidere che, in un caso determinato, il limite posto dall’art. 51 non si applichi.

* Il tema delle misure non violente di autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: l’operatore giuridico interno, prima
di concludere che una determinata legge o un certo atto amministrativo siano contrari a norme materiali di diritto
internazionale, dovrà chiedersi tra l’altro se una legge siffatta non si giustifichi come misura di autotutela. Egualmente il
giudice ordinario, chiamato a far prevalere, in base al principio di specialità, le norme di un trattato rispetto alle norme
di una legge ordinaria, potrà negare tale prevalenza se la legge è inquadrabile come attuazione di autotutela. Anche un
atto amministrativo contrario ad un trattato eseguito con ordine di esecuzione legislativo potrà considerarsi come
legittimo se preso in autotutela. L’ordinamento interno può anche predisporre dei meccanismi di carattere generale
che rendano automaticamente praticabile la violazione di norme internazionali da parte di organi statali. Un
meccanismo del genere può essere considerato in certi casi la condizione di reciprocità, secondo a quale un determinato
trattamento viene accordato agli Stati a condizione che il medesimo trattamento sia accordato agli Stati a condizione
che il medesimo trattamento sia accordato allo Stato nazionale, ai suoi organi e ai suoi cittadini. Nei limiti in cui alla
reciprocità è subordinata l’osservanza di determinate norme internazionali, essa costituisce per l’appunto la base
giuridica interna per l’adozione di contromisure. In aderenza a quanto sostenuto circa i rapporti tra potere giudiziario e
potere esecutivo nell’amministrazione del diritto internazionale, la reciprocità dovrebbe essere sempre accertata dal
giudice e non dagli organi del potere esecutivo: gli organi esecutivi possono regolarsi in base a criteri di opportunità
politica, facendo così perdere alla reciprocità ogni caratteristica di meccanismo automatico di autotutela. E’ quindi da
approvare il fatto che, con due sentenze, la Corte costituzionale italiana abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale
della norma secondo cui era il Potere esecutivo che doveva autorizzare l’esecuzione forzata sui beni di uno Stato estero.
La condizione di reciprocità può rivelarsi utile soprattutto in rapporto a norme internazionali consuetudinarie di cui il
contenuto sia incerto o chiaramente in evoluzione. Essa costituisce allora la base giuridica interna per l’eventuale difesa
nei confronti degli Stati che anticipano la conclusione del processo evolutivo del diritto consuetudinario adottando
norme le quali appaiono ardite o comunque eccessive allo stato attuale delle cose. La tecnica migliore adoperabile in tal
caso dallo Stato che sembra essere quella di adottare a propria volta le norme più ardite ma di dichiararne
l’inapplicabilità nei confronti degli Stati che si attengono al diritto preesistente. La reciprocità non è utilizzata
esclusivamente come presupposto per l’osservanza del diritto internazionale e quindi come base per l’adozione di
eventuali contromisure. Spesso costituisce soltanto il presupposto di concessioni dettate da puri motivi di cortesia:
come avviene ad uno Stato accorda l’immunità fiscale agli agenti diplomatici stranieri per imposte diverse da quelle
dirette personali a condizione di reciprocità. Spesso poi la reciprocità può servire da presupposto sia dell’osservanza del
diritto internazionale sia di atti di cortesia. Quanto la reciprocità costituisce il presupposto di atti di cortesia, essa
attiene piuttosto alla materia delle ritorsioni, E come forma di ritorsione essa era per l’appunto configurata dalla
dottrina classica del diritto internazionale

CAPITOLO 47: La riparazione

* Resta da considerare l’obbligo che incombe sullo Stato autore dell’illecito di riparare il torto causato. Nella riparazione
si è soliti anzitutto far rientrare l’obbligo della restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) ossia del
ristabilimento della situazione di fatto e di diritto esistete prima del compimento dell’illecito, sempre che il
ristabilimento sia possibile. Il dovere di far cessare l’illecito e di cancellarne ove possibile gli effetti, appare un aspetto
dello stesso obbligo violato. Non è il caso quindi di configurare la restitutio in integrum come oggetto di un obbligo
nuovo prodotto dalla violazione.

*Anche la soddisfazione è considerata una forma di riparazione precisamente di danni morali e cioè una forma di
riparazione dovuta per il solo fatto che l’illecito sia stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli
eventuali danni di carattere patrimoniale. Si sostiene quindi che lo Stato offensore sia tenuto a dare soddisfazione allo
Stato leso mediante comportamenti come la presentazione di scuse, l’omaggio alla bandiera o ad altri simboli dello
Stato leso. Secondo una tesi, sostenuta nella giurisprudenza internazionale e dalla stessa CIG nell’affare dello Stretto di
Corfù, la soddisfazione può anche essere costituita dalla semplice constatazione dell’avvenuta violazione adopera di un
tribunale internazionale. In realtà tutto ciò che può dirsi dal punto di vista giuridico è che la presentazione ufficiale di
scuse o una prestazione di carattere simbolico, o il ricorso ad un tribunale internazionale se accettati dallo Stato leso,
facciano venire meno qualsiasi ulteriore conseguenza del fatto illecito ed in particolare il ricorso a misure di autotutela.
La soddisfazione, lungi dal costituire l’oggetto di un obbligo dello Stato offensore, va a formare allora il contenuto in una
sorta di accordo che elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore.

*In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito
internazionale. Senza dubbio la prassi relativa alle violazioni delle norme sul trattamento degli stranieri ed al
conseguente esercizio della protezione diplomatica depone in tal senso: lo Stato al quale lo straniero maltrattato
appartiene fa valere per il risarcimento del danno, un diritto suo proprio che nasce dalla lesione prodotta alla persona o
ai beni del suo suddito. A parte ciò, la prassi non può considerarsi del tutto certa. Può ritenersi pertanto che il
risarcimento sia senz’altro dovuto quando la violazione del diritto internazionale consista in un’azione violenta contro
beni, mezzi ed organi dello Stato, come il danneggiamento di sedi diplomatiche e consolari, il ferimento di individui-
organi, ecc. Fuori di questi casi è difficile ritenere che il diritto internazionale consuetudinario imponga che il danno
venga risarcito. Ancor meno sembra che un obbligo di risarcimento scaturisca dalle guerre di aggressione: basti pensare
in proposito alle vicende delle riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo la Prima guerra mondiale, mai ottenute
ed alla fine cancellate, e all’esperienza del secondo dopoguerra allorché gli Stati vinti furono aiutati a ricostruire i loro
Paesi. Né bisogna confondere la materia del risarcimento globalmente richiesto agli Stati vinti per il solo fatto
dell’aggressione con la riparazione dei danni prodotti dalla guerra ai cittadini degli Stati vincitori, in particolare per
quanto riguarda confische ed espropriazioni dei loro beni. Per quanto riguarda i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli
stranieri che ricoprono la qualifica di organo, occorre distinguere tra i danni subiti dall’individuo ed i danni subiti
dall’organizzazione statale. In ogni caso i danni risarcibili sono quelli materiali, dato che la prassi è generalmente
orientata nel senso di escludere la possibilità di tradurre in termini monetari le violazioni del diritto internazionale che
non producano danni siffatti. Va infine avvertito che l’obbligo del risarcimento del danno è quello che riguarda i rapporti
tra Stati. Diverso è il caso dei trattati i quali prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire direttamente
gli individui danneggiati dalla violazione del trattato medesimo. E’ il caso dell’art. 41 della Convenzione europea sui
diritti umani, il quale stabilisce che qualora, accertata dalla CEDU una violazione della convenzione, il diritto interno non
permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla parte lesa. Per
quanto riguarda il diritto internazionale generale, può ritenersi che, dall’obbligo che incombe sullo Stato di non
compiere gravi violazioni dei diritti umani, possa ricavarsi un diritto al risarcimento da dar valere innanzi ai giudici dello
stesso Stato.

CAPITOLO 48: La responsabilità da fatti leciti

* Si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l’obbligo del risarcimento dei danni, possa
derivare da fatti leciti. Il settore soprattutto preso in considerazione a tal fine è il settore delle attività altamente
pericolose ed inquinanti, come quelle delle centrali nucleari, delle industrie chimiche, ecc. E’ difficile dal punto di vista
della teoria generale del diritto riuscire a distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa e
quindi dalla responsabilità oggettiva sia relativa che assoluta. Forse, tutto ciò che si può dire è che una responsabilità
obbiettiva possa essere altresì qualificata come responsabilità senza illecito quando lo Stato sia chiamato a risponderne
non soltanto delle attività svolte dai suoi organi ma anche delle attività di individui posti sotto il suo controllo. A parte il
regime convenzionale non sembra che il diritto internazionale attuale conosca una responsabilità così sofisticata da fatto
lecito. E’ significativo d’altro canto che, nel settore delle attività altamente pericolose ed inquinanti, le manifestazione
della prassi che si è soliti invocare sono sempre e soltanto quelle manifestazioni che sono poste a base di un vero e
proprio obbligo dello Stato di impedire gli usi nocivi del territorio. Va infine notato che numerose convenzioni si
occupano del risarcimento dei danni prodotti da attività pericolose. Esse però non si riferiscono alla responsabilità
internazionale ma a quella di diritto interno. Sull’argomento della responsabilità da atto lecito la CDI si è esercitata
niente di meno che tra il 1980 ed il 2004. Dopo innumerevoli rapporti sottoposti al suo esame, la Commissione ha
adottato, rispettivamente, nel 2001 e nel 2004, due progetti di articoli, l’uno sulla prevenzione dei danni oltre frontiera
derivanti da attività pericolose, l’altro sulla ripartizione di tali danni, una volta prodotti. Il primo progetto prevede una
serie di obblighi autonomi imposti allo Stato sotto il cui controllo le attività pericolose sono effettuate. Il secondo
prevede l’obbligo degli Stati dal cui territorio il danno è derivato, di avere al proprio interno adeguate leggi e ricorsi per
far valere la responsabilità di coloro che hanno svolto la relativa attività pericolosa. Infine, dopo una seconda lettura da
parte della CDI del progetto sulla distribuzione del danno, progetto approvato dall’Assemblea generale, ha sancito la
chiusura dei lavori della CDI nella materia.

CAPITOLO 49: Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta della Nazioni Unite

*La Carta delle Nazioni Unite, da un lato sancisce il divieto dell’uso della forza nei rapporti internazionali, dall’altro
accentra in un organo delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il
mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare ad usare la forza a fini di polizia internazionale. Per
quanto riguarda il sistema di sicurezza accentrato, esso ha poco e male funzionato fino alla caduta del muro di Berlino a
causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi Potenze della divisione del mondo in blocchi contrapposti e della guerra
fredda. A partire dalla guerra del Golfo nel 1991, invece, esso ha avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale
delle Nazioni Unite, in conformità a quella che era stata l’idea dei redattori della Carta. Sebbene il veto sia ancora
praticato il numero di interventi del Consiglio è assai alto. La maggior parte degli interventi riguardano crisi interne agli
Stati, come guerre civili, violazioni gravi e ripetute dei diritti umani o situazioni post-conflittuali che richiedono il
mantenimento dell’ordine e l’assistenza alle autorità locali

* Il Consiglio di Sicurezza, accerta anzitutto l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto
di aggressione e stabilisce poi come l’interruzione parziale o totale delle comunicazioni e delle relazioni economiche da
parte degli altri Stati implicanti l’uso della forza, debbano essere prese nei confronti di uno Stato. Prima di ricorrere alle
une o alle altre, esso può invitare le parti interessate a prendere quelle misure provvisorie che consideri come
necessarie alfine di non aggravare la situazione. Inoltre il Consiglio ricorre a misure che non trovano fondamento in una
delle norme di quest’ultimo. Trattasi di misure che debbono considerarsi come previste da consuetudini sovrappostesi
alle norme scritte. Nell’accertare se sussista una minaccia o violazione della pace o un atto di aggressione, il Consiglio
gode di un larghissimo potere discrezionale che può avere modo di esercitarsi soprattutto con riguardo all’ipotesi della
minaccia alla pace: trattasi infatti di una ipotesi assai vaga ed elastica che non è necessariamente caratterizzata da
operazioni militari o comunque implicanti l’uso della violenza bellica e che quindi si presta ad inquadrare i più vari
comportamenti di uno Stato e le più varie situazioni. La discrezionalità del Consiglio rimasta integra anche dopo
l’adozione da parte dell’Assemblea generale di una Dichiarazione sulla definizione dell’aggressione, e ciò anche a
prescindere dalla natura non vincolante delle Dichiarazioni di principi dell’Assemblea. Nella dichiarazione vengono
elencate una serie di ipotesi di aggressione, che vanno dall’invasione o occupazione militare, anche se temporanea, al
bombardamento da parte di forze aeree, terrestri o navali, al blocco dei poteri, all’invio di bande di mercenari. Trattasi
di un’elencazione che non incide sull’art. 39 e sulle competenze del Consiglio di Sicurezza, ove si consideri che la stessa
Dichiarazione riconosce: che il Consiglio possa stabilire che la commissione di uno degli atti elencati non giustifichi il suo
intervento; che il Consiglio medesimo possa considerare come aggressione anche atti non elencati; e che, la definizione
dell’aggressione contenuta nella risoluzione non pregiudichi le funzioni degli organi dell’ONU così come previste dalla
Carta. La grande discrezionalità di cui gode il Consiglio di Sicurezza nel decidere se agire a tutela della pace fa sì che il
sistema di sicurezza collettiva abbia caratteri abbastanza sui generis. Trattasi di un sistema il cui funzionamento non
assicura in ogni caso una sanzione contro violazioni gravi del diritto internazionale da parte degli Stati, ad es. contro
l’aggressione, il genocidio, l’attentato all’autodeterminazione dei popoli, ecc. Il Consiglio di Sicurezza può infatti
considerare come minaccia alla pace anche un comportamento che non leda in alcun modo un interesse fondamentale
della comunità internazionale nel suo complesso. In realtà il sistema di sicurezza dell’ONU consiste non tanto di principi
materiali, quanto di regole procedurali, ossia di norme sulla competenza dell’organizzazione: è il rispetto di queste
regole a garantire la giuridicità degli interventi sanzionatori del Consiglio.

*Importante è anche esaminare le tre fasi attraverso le quali può passare l’azione del Consiglio:

A)Le misure provvisorie Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di Sicurezza può invitare le parti
interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure
provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza
prende in debito contro il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie. La provvisorietà si ricollega sia allo scopo
che siffatte misure possono perseguire, sia ai limiti posti al loro contenuto, non dovendo esse pregiudicare i diritti o le
posizioni delle parti interessate. Una misura provvisoria tipica in caso di guerra è il cessate il fuoco. Va notato poi che
spesso il Consiglio non è riuscito a passare alle misure sanzionatorie di cui all’art. 41 o alle azioni armate di cui all’art. 42
ss. Secondo la lettera dell’art.40, le misure provvisorie formano soltanto l’oggetto di un invito e quindi di una
raccomandazione del Consiglio. Nella dottrina e nella prassi si è cercato di attribuire natura vincolante all’invito, ma non
pare che la tesi sia da condividere. Essa si fonda soprattutto su di un argomento che sarebbe fornito dall’art. 40, là dove
si dice che il Consiglio prende in debito conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie.

B) Le misure non implicanti l’uso della forza Di tali misure diciamo che a termini dell’art. 41, il Consiglio può vincolare gli
Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure contro lo Stato che minacci o abbia violato la pace oppure
contro gruppi armati nel quadro della lotta contro il terrorismo internazionale.

C) Le misure implicanti l’uso della forza Gli artt. 42 ss. si occupano dell’ipotesi che il Consiglio decida di impiegare la forza
contro uno Stato colpevole di aggressione, oppure di impiegarla all’interno di uno Stato, intervenendo in una guerra
civile. Il ricorso a misure violente da parte del Consiglio è concepito come un’azione di polizia internazionale. La
risoluzione con cui l’organo decide di agire appartiene pertanto al genere delle risoluzioni operative attraverso le quali
l’Organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli Stati, ma direttamente agisce. L’azione diretta consiste nella
utilizzazione sì di contingenti armati pur sempre nazionali ma sotto un comando internazionale facente capo allo stesso
Consiglio di Sicurezza. Si comprende quindi lo scopo che gli artt. 42 ss. perseguono: da un lato di garantire l’obiettività e
l’imparzialità dell’azione, nonché di controllare che questa sia contenuta entro i limiti strettamente indispensabili al
mantenimento della pace, dall’altro di togliere qualsiasi iniziativa di carattere militare al singolo Stato, che non si
giustifichi per motivi di legittima difesa individuale o collettiva. Passando alle modalità con le quali il Consiglio di
Sicurezza può agire, gli artt. 43, 44 e 45 prevedono l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi
intesi a stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione ecc. delle forze armate utilizzabili poi dall’organo,
totalmente o parzialmente via via che se ne presenti la necessità. Presupposto e cardine del sistema sono considerati
dalla Carta gli accordi speciali da stipularsi tra Stati membri dell’ONU e il Consiglio, accordi formanti oggetto di un vero e
proprio obbligo de contraendo posto a carico dei primi. Gli accordi per la messa a disposizione del consiglio dei
contingenti militari nazionali che non hanno mai visto la luce; né ha mai funzionato il Comitato di stato maggiore del
Consiglio. Fino ad oggi il Consiglio è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure di carattere militare in due
modi diversi, talvolta cumulandoli. Esso ha creato delle Forze delle Nazioni Unite incaricate, ma con compiti per lo più
assai limitati, di operare per il mantenimento della pace o ha autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri, sia
singolarmente sia nell’ambito di organizzazione regionali. Le prime forze aventi compiti di peace-keeping furono
organizzate all’epoca della guerra fredda: la più importante fu l’ONUC che operò nel Congo negli anni ’60 per aiutare
questo Paese ad uscire dallo stato di guerra civile e di vera e propria anarchia in cui versava. La caratteristica principale
delle peace-keeping operations è costituita dalla delega del Consiglio al Segretario generale in ordine sia al reperimenti
sia al comando delle forze internazionali. Normalmente dette operazioni sono autorizzate dal Governo locale hanno
funzione di forza cuscinetto per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in cui operano, e possono
usare le armi solo per legittima difesa. A parte gli insuccessi che hanno spesso caratterizzato l’azione delle forze
dell’ONU, non sempre l’azione di queste ultime è stata commendevole. Basti ricordare il proposito il brutale attacco dei
caschi blu operanti in Somalia, contro il quartier generale di uno dei signori della guerra somali, quale rappresaglia per
l’uccisione di un gruppo di caschi blu pakistani: l’attacco revocò la morte di vittime innocenti, suscitando la deplorazione
del mondo civile.

* L’impiego delle Forze dell’ONU ha finito col rivelarsi abbastanza impraticabile per una serie di ragioni politiche, militari,
logistiche, finanziarie, ecc. Il Consiglio di Sicurezza è andato sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di
contingenti militari da parte degli Stati membri, sia individualmente sia per il tramite di organizzazioni regionali. Il
Consiglio ha autorizzato o raccomandato agli Stati singolarmente considerati di usare la forza contro uno Stato o
all’interno di uno Stato, rimettendo nelle loro mani il comando ed il controllo delle operazioni militari. In due casi si è
trattato dell’autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali, per respingere aggressioni esterne. Il primo
è il caso della guerra di Corea nel 1950 quando gli Stati membri furono invitati ad aiutare la Corea del Sud a difendersi
dall’attacco sferratole dalla Corea del Nord. Il secondo è il caso della guerra del Golfo condotta nel 1991 da una
coalizione di Stati membri autorizzati dal Consiglio ad aiutare il Governo kuwaitiano a riconquistarsi il territorio del
Kuwait occupato dall’Iraq. In altri casi, gli Stati membri sono stati autorizzati ad usare la forza in crisi interne, come nel
caso della Forza internazionale per Timor Est, INTERFET, creata nel 1999, o in quello dell’autorizzazione data dal
Consiglio nel 2003 alla forza internazionale sotto il comando degli Stati Uniti, per fronteggiare la tragica situazione
creatasi in Iraq in seguito alla non autorizzata guerra condotta contro questo Paese. Infine, misure di minore entità sono
poi state autorizzate o raccomandate ai singoli Stati, contemporaneamente a misure non implicanti l’uso della forza ex
art.41. Per quanto riguarda la legittimazione dell’autorizzazione dell’uso della forza agli Stati da parte del Consiglio, non
sembra che sia inquadrabile sotto gli art. 42 ss. E non c’è dubbio che i fondatori delle Nazioni Unite vollero concentrare
nelle mani dell’Organizzazione il potere di polizia internazionale in quanto garanzia di obbiettività ed imparzialità di ogni
azione di carattere militare. Inoltre si è fatta poi strada la prassi dell’autorizzazione agli Stati, la quale il Consiglio tende
sempre più a seguire sia pure mantenendo un certo controllo sulle operazioni, senza incontrare alcuna opposizione da
parte degli Stati

* Talvolta il Consiglio di Sicurezza, invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha organizzato il governo
di territori oggetto di contrastanti rivendicazioni di sovranità o nei quali si è verificata un’aspra guerra civile. In questo
quadro sono stati anche decisi singoli atti di governo. Già nei primi anni di vita delle Nazioni Unite il Consiglio fu
chiamato a partecipare al governo di un territorio oggetto di controversia territoriale come nel caso del Territorio
Libero di Trieste istituito dal Trattato di pace del 1947 tra l’Italia e le Potenze Alleate. In base all’Annesso VI al Trattato,
il Territorio Libero fu concepito come una sorta di piccolo Stato governato da un Governatore, la cui nomina era affidata
al Consiglio di Sicurezza e che avrebbe dovuto essere assistito da autorità legislative, giurisdizionali ed esecutive locali.
Da segnalare anche due esempi di governi di territori instaurati dal Consiglio di Sicurezza ed affidati al Segretario
generale con poteri legislativi ed esecutivi. Trattasi dell’UNMIK e di UNTAET. La prima ha oggi funzioni assai limitate da
un lato, a causa della dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte dell’autorità locale albanese e dall’altro a causa
del passaggio di vari suoi poteri ad EUROLEX, amministrazione facente capo all’UE. Come misura relativa al governo di
territori può essere considerata l’istituzione di tribunali internazionali per la punizione di crimini commessi da individui. I
primi due esempi sono quelli del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e del
Tribunale penale internazionale per i crimini commessi dal Ruanda. Il primo si occupa delle gravi violazioni del diritto
internazionale umanitario commesse in Jugoslavia solo il gennaio 1992; il secondo delle stesse violazioni commessi
nell’anno 1994. Sebbene i due tribunali non risiedano nei territori rispetto ai quali la loro giurisdizione è esercitata essi
possono essere considerati come misure di governo relative a detti territori. Le misure consistenti nel governo di
territori non trovano un fondamento espresso nella Carta. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina e nella prassi per
riportarle alla categoria delle misure coercitive. Particolarmente l’istituzione di Tribunali internazionali ha costituito
oggetto di dibattito. La tesi più diffusa a questo riguardo fa leva sull’art.41, ritenendosi che all’applicazione di questo
articolo non faccia ostacolo la circostanza che esso si occupi di comportamenti che il Consiglio di Sicurezza può
richiedere agli Stati (l’applicabilità dell’art. 41 è stata sostenuta dallo stesso Tribunale per la ex Jugoslavia). La tesi non
convince in quanto la giurisdizione dei tribunali penali si esercita si individui, laddove le misure coercitive previste
dall’art. 41 sono chiaramente misure dirette contro uno Stato o al massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato.
Inoltre le misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la pace e la sicurezza non sono più in pericolo. Un altro
punto di vista che non convince è quello secondo cui le misure che non rientrano in questo o quell’articolo della Carta
possono trovar fondamento nell’art. che attribuendo al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, avallerebbe qualsiasi misura purché necessaria alla messa in
atto di detta responsabilità. In altri termini, il Consiglio godrebbe così di una sorta di potere residuale generale.

*Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno parte anche le organizzazioni regionali
create sia per sviluppare la cooperazione tra gli Stati membri e provvedere alla soluzione delle controversie tra i
medesimi, sia per promuovere la difesa comune verso l’esterno. L’appartenenza di queste organizzazioni al sistema di
sicurezza collettiva dell’ONU si fonda sul cap. VIII della Carta, ed in particolare sull’art. 53 il quale stabilisce che il
Consiglio di Sicurezza utilizza gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione ed
aggiunge che nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali sena l’autorizzazione del
Consiglio di Sicurezza. L’art. 53 va coordinato con l’art. 51 il quale ammette la legittima difesa sia individuale che
collettiva, intendendo per quest’ultima la possibilità che la reazione ad un attacco armato provenga non solo dallo Stato
attaccato ma anche da terzi Stati; la legittima difesa collettiva fu anzi inserita nella Carta proprio in relazione
all’eventualità che si creassero alleanze difensive su scala regionale. Ne consegue che le organizzazioni regionali possono
agire coercitivamente contro uno Stato con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ogni caso e senza
l’autorizzazione del Consiglio solo nel caso di risposta ad un attacco armato già sferrato. Le organizzazioni regionali
esistenti sono: la Lega degli Stati arabi; l’Organizzazione degli Stati americani (che riunisce gli Stati Uniti e gli Stati
dell’America latina); l’Unione Europea Occidentale; l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico; l’Unione africana; la
Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale; l’Organizzazione degli Stati dei Caraibi Orientali; la Comunità di
Stati indipendenti; l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). [L’OSCE è una delle più estese
organizzazioni regionali, i suoi membri provenendo dall’Europa, dall’Asia centrale e dall’America del Nord. I suoi compiti sono stati definiti da varie
Dichiarazioni dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri] . Si discute
se lo statuto della NATO impedisca o meno di inquadrare
l’Organizzazione stessa sotto l’art. 53, oltre che sotto l’art. 51 della Carta. Tenuto conto dei fini dell’Organizzazione in
base all’art. 53 sia statutariamente illegittima. Sarebbe comunque invocabile un’applicazione analogica dello Statuto. In
effetti, nel caso della crisi nella ex Jugoslavia negli anni 1994-95, la NATO ha senza problemi operato in attuazione di
risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Egualmente nell’intervento in Afganistan.

ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

CAPITOLO 50: L’arbitrato. La Corte Internazionale di Giustizia

*La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi sostanzialmente natura arbitrale essendo ancorata al
principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non è Stata preventivamente
accettata da tutti gli Stati parti di una controversia.

* Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti; ciò
che è importante è che essi siano d’accordo nel sottoporre la controversia ad un’istanza giurisdizionale internazionale
accettandone come vincolante la decisione. Ai fini dell’esercizio della funzione giurisdizionale internazionale vale la
nozione data dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale e ripresa dall’attuale CIG per cui la controversia è un
disaccordo su di un punto di diritto o di fatto un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due
soggetti. Non esistono insomma controversie giustiziabili e controversie non giustiziabili. Esistono solo controversie per
e quali le parti assumono l’impegno di sottoporsi ad un tribunale internazionale comunque costituito e controversie per
le quali tale impegno non viene assunto. La stessa distinzione tra controversie giuridiche e controversie politiche
consistente nel fatto che, nelle seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti o almeno una non invocassero il
diritto internazionale ma pretendessero di mutarlo a loro favore, ha ormai scarso significato. E’ vero che importanti
accordi tuttora vigenti limitano espressamente l’obbligo di regolamento giudiziario alle controversie giuridiche; ma è
anche vero che ciò ha assai di rado indotto i tribunali internazionali a negare la propria giurisdizione. In ogni caso è una
questione di interpretazione di ogni singolo accordo in materia di giurisdizione internazionale.

* Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale riposando sulla volontà, e quindi
sull’accordo, di tutti gli Stati parti di una controversia. Se tale volontà manca, non è possibile costringere uno Stato a
sottoporsi a giudizio. L’istituto dell’arbitrato internazionale si è notevolmente evoluto a partire dalla seconda metà del
secolo XIX: anche se tale evoluzione non ha intaccato il fondamento volontaristico del processo internazionale. Si sono
solo posti in essere degli accorgimenti per favorire la formazione di un simile accordo e l’istituzionalizzazione della
funzione arbitrale. Punto di partenza dell’evoluzione dell’istituto è l’arbitrato isolato. Nel secolo XIX l’arbitrato si
svolgeva di solito nel modo seguente: sorta una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo, il compromesso
arbitrale, col quale si nominava un arbitro o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale,
e ci si obbligava a rispettare la sentenza così emessa. Si trattava della forma più rudimentale e approssimativa possibile
di accertamento giudiziale del diritto; forma approssimativa e rudimentale non solo per la sommaria procedura seguita
ma anche perché l’impegno arbitrale non poteva che coprire questioni minoris generis. Rispetto all’arbitrato isolato,
l’istituto si è andato da allora sviluppando sia per quanto riguarda le caratteristiche di quel presupposto indispensabile
per l’emanazione della sentenza, sia per una sempre maggiore istituzionalizzazione del collegio arbitrale giudicante.
Grosso modo possono distinguersi due fasi di sviluppo:

I° Fase: Già alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX è cominciato a ricorrere a dei meccanismi per facilitare l’accordo
degli Stati necessario per l’instaurazione del processo internazionale: sono comparsi così quel tipo di clausola
compromissoria e di trattato generale di arbitrato, chiamati non completi, per distinguerli dalla clausola compromissoria
e dal trattato generale di arbitrato completi. La clausola compromissoria non completa accede ad una qualsiasi
convenzione e crea l’obbligo per gli Stati di ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgono in futuro in
ordine all’applicazione ed interpretazione della convenzione medesima; analoga è la funzione del trattato generale di
arbitrato che crea un obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le controversie che possano sorgere
in futuro tra le Parti contraenti eccettuate alcune controversie toccanti l’onore e l’indipendenza delle Parti o aventi
natura politica. Clausola compromissoria e trattato di arbitrato non completi creano soltanto un obbligo de contrahendo
cioè l’obbligo di stipulare il compromesso arbitrale. Nello stesso periodo si assiste poi all’avvio della tendenza ad
istituzionalizzare i tribunali internazionali, cioè a creare organi arbitrali permanenti e a predisporre regole di procedura
applicabili in ogni procedimento così instaurato. L’avvio all’istituzionalizzazione ci ha con la Corte Permanente di
arbitrato tuttora esistente, creata dalle Convenzioni dell’Aja sulla guerra terrestre. Nella corte l’istituzionalizzazione è
minima. Trattasi infatti di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere ai fini
della composizione del collegio arbitrale. Anche le regole di procedura non sono molte e comunque cedono di fronte a
quelle eventualmente stabilite dalle Parti.

II° Fase_ Nella seconda fase, che ha inizio con la fine della prima guerra mondiale, si è avuto anzitutto un maggior
processo di istituzionalizzazione con la creazione prima ella Corte Permanente di Giustizia Internazionale, e poi con la
Corte Internazionale di Giustizia. Quest’ultima, organo delle Nazioni Unite, ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia
Internazionale, che ha sede all’AJA e funziona in base allo Statuto annesso alla Carta dell’ONU e ricalcante lo Statuto
della vecchia Corte. La CIG presenta un forte grado di istituzionalizzazione: trattatasi di un corpo permanente di giudici,
eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di procedura
inderogabili dalle parti. Da notare che solo gli Stati possono adire la Corte. La seconda fase è marcata da una decisiva
evoluzione anche per quanto riguarda l’accordo necessario per l’instaurazione del processo internazionale. Compare
infatti la figura della clausola compromissoria completa e del trattato generale di arbitrato, anch’esso completo, con
riferimento ai casi in cui la clausola compromissoria o il trattato di arbitrato non si limitino a creare l’obbligo di stipulare
il compromesso ma prevedono direttamente l’obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale già
predisposto e perfettamente in grado di funzionare. Clausola compromissoria e trattato generale di arbitrato, essendo
completi, esplicano direttamente la funzione esplicata dal compromesso, e permettono ad uno Stato contraente di
citare unilateralmente un altro Stato contraente di fronte al tribunale internazionale così investito della controversia. Il
fondamento del giudizio resta pur sempre volontario, quindi si resta nell’ambito dell’arbitrato. Analogo al trattato
generale di arbitrato completo è il procedimento previsto dall’art 36 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia,
articolo secondo cui “gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come
obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la medesima
obbligazione, la giurisdizione della Corte…"

* I vari tipi di accordi istitutivi del processo arbitrale sebbene caratterizzanti ciascuno una certa epoca, coesistono
ancora oggi; essi poi non sono esclusivi, sussistendo dei tipi intermedi sui quali non era qui il caso di soffermarsi. Il
discorso sull’evoluzione dell’arbitrato è stato condotto da un punto di vista rigorosamente giuridico, e da questo punto
di vista è vero che persistono sia il grado di istituzionalizzazione dei tribunali internazionali sia l’affinamento dei
meccanismi diretti a facilitare gli accordi di regolamento giudiziario, che hanno avuto inizio a partire dall’epoca della
Società delle Nazioni. E’ innegabile che l’arbitrato abbia attraversato una consistente fase di declino, nel senso dello
scarso numero di ricorsi alla CIG e per il rifiuto di eseguire le sentenze una volta emesse. Dal primo punto di vista si
distinsero gli Stai sorti dalla decolonizzazione, assai diffidenti verso la Corte anche a causa di alcune sentenze da questa
emesse, considerate contrarie ai loro interessi. Per quanto riguarda il rifiuto di eseguire, si distinsero vari Stati ivi
comprese grandi Potenze, come gli Stati Uniti d’America. La situazione si è andata modificando a partire dagli anni ’80
ed è poi esplosa negli ultimi tempi fino al punto da far parlare di una giurisdizionalizzazione del diritto internazionale.
Anche il ruolo della CIG è aumentato enormemente rispetto al passato. A parte le eccessive generalizzazioni è
nell’attuale comunità internazionale che si va sempre più affermando la tendenza verso un diffuso accertamento
indipendente ed imparziale del diritto.

*Anche per le sentenze internazionali ci si può chiedere quali mezzi ne assicurino l’esecuzione invia coattiva. E’ ovvio che
il problema va riportato a quello dell’attuazione coattiva delle norme internazionali: come per le norme così per le
sentenze c’è da lamentare la scarsezza di mezzi coercitivi a livello interstatale e da affidarsi al diritto interno degli stessi
Stati che devono osservare la sentenza. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, l’osservanza di una sentenza
internazionale deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono all’adattamento alle
regole internazionali di cui la sentenza abbia accertato il contenuto: ad es. la legge italiana di esecuzione di un trattato
comporta l’obbligo di osservare non soltanto il trattato ma anche l’eventuale sentenza internazionale emessa, in ordine
al trattato medesimo, nei confronti dell’Italia o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.

CAPITOLO 51: I Tribunali internazionali settoriali e regionali

* Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali e che il più delle volte
presentano caratteristiche diverse dall’arbitrato, sia perché già per disposizione dei loro trattati istitutivi possono essere
aditi unilateralmente, sia perché alcuni di essi sono aperti anche gli individui o addirittura sono creati per giudicare
individui. Alcuni tra i tributi internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri, istituiti da trattati conclusi da un
gran numero di Stati e comunque non limitati a questa o quella regione, carattere universale. I tribunali regionali
riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione, o integrazione, economica. La moltiplicazione dei
giudici internazionali sarebbe una delle cause della frammentazione del diritto internazionale. Ciò perché più giudici
possono pronunciarsi in modo diverso sull’esistenza o interpretazione della stessa norma. In realtà i casi in cui ciò è
avvenuto sono pochissimi.

*Competenze per buona parte sui generis presenta la Corte di Giustizia dell’UE, con sede a Lussemburgo. Trattasi di
competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte possa attribuirsi la qualifica di tribunale
internazionale. Sulla Corte di Lussemburgo si riflettono infatti quelle incertezze circa l’esatta qualificazione dell’UE, ente
a metà strada tra le organizzazioni internazionali e lo Stato federale parziale. Con gli altri tribunali internazionali la Corte
ha in comune soltanto l’origine pattizia, essendo sorta e disciplinata dai Trattai che via via hanno dato vita alle Comunità
europee prima, e poi all’Unione. La maggior parte delle sue competenze sono accostabili piuttosto a quelle dei tribunali
interni ed il loro esercizio non dipende dalla volontà degli stessi soggetti destinati a subirle. In sintesi le principali
competenze della Corte sono le seguenti. A parte una funzione arbitrale di tipo classico, degne di menzione sono: a) la
competenza in tema di ricorsi per violazione dei Trattai da parte di uno Stato membro; b) quella relativa al controllo di
legittimità sugli atti degli organi dell’Unione; c) quella infine concernente le questioni pregiudiziali.

* Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali e che il più delle volte
presentano caratteristiche diverse dall’arbitrato, sia perché già per disposizione dei loro trattati istitutivi possono essere
aditi unilateralmente, sia perché alcuni di essi sono aperti anche gli individui o addirittura sono creati per giudicare
individui. Alcuni tra i tributi internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri, istituiti da trattati conclusi da un
gran numero di Stati e comunque non limitati a questa o quella regione, carattere universale. I tribunali regionali
riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione, o integrazione, economica. La moltiplicazione dei
giudici internazionali sarebbe una delle cause della frammentazione del diritto internazionale. Ciò perché più giudici
possono pronunciarsi in modo diverso sull’esistenza o interpretazione della stessa norma. In realtà i casi in cui ciò è
avvenuto sono pochissimi.

* Competenze per buona parte sui generis presenta la Corte di Giustizia dell’UE, con sede a Lussemburgo. Trattasi di
competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte possa attribuirsi la qualifica di tribunale
internazionale. Sulla Corte di Lussemburgo si riflettono infatti quelle incertezze circa l’esatta qualificazione dell’UE, ente
a metà strada tra le organizzazioni internazionali e lo Stato federale parziale. Con gli altri tribunali internazionali la Corte
ha in comune soltanto l’origine pattizia, essendo sorta e disciplinata dai Trattai che via via hanno dato vita alle Comunità
europee prima, e poi all’Unione. La maggior parte delle sue competenze sono accostabili piuttosto a quelle dei tribunali
interni ed il loro esercizio non dipende dalla volontà degli stessi soggetti destinati a subirle. In sintesi le principali
competenze della Corte sono le seguenti. A parte una funzione arbitrale di tipo classico, degne di menzione sono: a) la
competenza in tema di ricorsi per violazione dei Trattai da parte di uno Stato membro; b) quella relativa al controllo di
legittimità sugli atti degli organi dell’Unione; c) quella infine concernente le questioni pregiudiziali.

A) I ricorso diretti a far accertare la violazione dei Trattati da parte di uno Stato membri sono proponibili dalla
Commissione o da ciascun altro Stato membro previa consultazione della Commissione. Lo Stato accusato non può
sottrarsi al giudizio della Corte e, se questa lo dichiara inadempiente, è tenuto a prendere tutti i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza comporta;

B) Il controllo di legittimità sugli atti comunitari è limitato agli atti legislativi e non legislativi vincolanti del Consiglio, della
Commissione, della Banca centrale, del Parlamento e del Consiglio europeo, ma per questi ultimi due solo limitatamente
agli atti che sono destinati a produrre effetti per i terzi. I vizi degli atti che comportano l’annullamento ex tunc dei
medesimi, sono dati dall’incompetenza dell’organo, dalla violazione di forme sostanziali, dalla violazione del Trattato o
di altra regola di diritto relativa alla sua applicazione e dallo sviamento di potere; essi sono denunciabili da ciascuno
Stato membro, dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento, oltreche dai singoli, persone fisiche o giuridiche;

C) La competenza in tema di questioni pregiudiziali è disciplinata dall’art. 267 del TFUE: quando innanzi ad un giudice di
uno Stato membri, è sollevata una questione relativa all’interpretazione dei Trattati o alla validità o interpretazione degli
atti degli organi dell’Unione, tale giudice ha il potere o il dovere di sospendere il processo o di chiedere una pronuncia
della Corte al riguardo. La Corte decide con urgenza qualora il rinvio pregiudiziale è effettuato in un giudizio nazionale
relativo ad una persona in stato di detenzione. La pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio nazionali a
quo, ma l’interpretazione in essa racchiusa sarà ovviamente utilizzata in tutti gli Stati membri finché la Corte non sia
sollecitata a mutarla attraverso una successiva pronuncia. La competenza sulle questioni pregiudiziali ha dunque uno
scopo ben preciso di assicurare l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione negli Stati membri. La sentenza della
Corte le quali comportano un obbligo pecuniario, costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri. Alla Corte è
affiancato il Tribunale di primo grado dell’Unione europea, la cui principale competenza ha per oggetto i ricorsi promossi
dalle persone fisiche e giuridiche in tema di controllo sulla legittimità degli atti. Le sentenze emesse dal Tribunale sono
impugnabili davanti alla Corte per motivi di diritto.

* Nel campo del diritto internazionale marittimo opera oggi il Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, il cui Statuto
è contenuto nell’Annessi VI alla Convenzione di Montego Bay. Il Tribunale con sede ad Amburgo, è composto da venuto
giudici indipendenti, eletti tra persone che hanno una competenza notoria nel campo del diritto del mare. Nel suon seno
è costituita una Camera per le controversie sui fondi marini. Non è possibile dar conto delle norme che si occupano delle
competenze del Tribunale e che si inseriscono in un sistema assai sofisticato di soluzione delle controversie, previsto
dalla Convenzione. Il tribunale non ha prodotto un cospicuo numero di sentenze, rappresenta sono una delle istanze
giurisdizionali che sono a disposizione delle parti. Perle controversie tra Stati esso non si discosta molto dai tribunali
arbitrali istituzionalizzati. Competenze più varie ha la Camera per le controversie sui fondi marini, che può essere adita
anche dagli individui; ma si tratta di un organo che non ha finora funzionato.

*Un sistema assai complesso di soluzione delle controversie tra Stati nel settore del commercio internazionale è quello
predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle controversie che è contenuta dell’Allegato
all’Accordo istitutivo dell’OMC, l’Organizzazione nata dagli sviluppi della prassi relativa al GATT. Tale sistema fa capo ad
un organo dell’OMC nel quale sono rappresentati tutti gli Stati membri, l’Organo per la soluzione delle controversie, e si
articola in due gradi di giudizio, il primo costituito da panale di esperti volta a volta nominati dall’Organo, il secondo
consistente invece in un corpo permanente di appello sono chiamati ad applicare il diritto; ma i penali hanno anche una
funzione conciliativa, al cui insuccesso è anzi subordinata la decisione della controversia secondo il diritto. Il sistema può
considerarsi di carattere tendenzialmente giurisdizionale in quanto caratterizzato anche da una sua pur limitata
possibilità di interventi dell’Organo politico. Questo può decidere all’unanimità, di non costituire un panel, oppure di
non approvare le decisioni emesse in prima o seconda istanza, decisioni che devono formalmente essere ad esso
sottoposte.

* La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto della Convenzione
europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei suoi protocolli che ne formano parte
integrante, da parte degli Stati contraenti. La Corte, nata dalla fusione, con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo
è formata da un numero di giudici paria quello degli Stati contraenti e scelti tra giureconsulti di notoria competenza o
persone che posseggano i requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie. La composizione e le
funzioni della Corte sono disciplinate dagli art. 19 ss. della Convenzione e dalle norme del regolamento interno della
Corte. Questa giudica sia attraverso Comitati composti da 3 giudici, sia attraverso Camere di 7 giudici. Una grande
Camera di 17 giudici, può poi essere chiamata eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come
una sorta di istanza, il giudice unico, competente a dichiarare irricevibile un ricorso individuale o a cancellare questo dal
ruolo, se il caso è di facile soluzione, oppure, qualora abbia dei dubbi a rinviare il caso ad un Comitato o ad una Camera.
Il ricorso alla Corte può essere preposto da un altro Stato contraente nell’interesse obbiettivo, sia da qualsiasi persona
fisica o giuridica o organizzazione o gruppo di individui, ma in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di
una violazione della Convenzione. Il ricorso individuale ha mancato il grande successo del sistema di Strasburgo,
provocando una giurisprudenza estremamente ricca da parte della Commissione e dalla Corte. Tale successo ha anche il
suo risvolto negativo, dato che la Corte non riesce a smaltire il suo ruolo. Constatata la violazione della Convenzione da
parte di uno Stato contraente e la Corte può concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di
denaro.

* L’esperienza del sistema di controllo sul rispetto dei diritti umani instaurato dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo ha servito da modello ad altri sistemi sia regionali che universali. Il sistema regionale più importante dopo
quello europeo è stato posto in essere dalla Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo, firmata a Sano José de
Costa Rica ed entrata in vigore nel1978; ne sono Stati contraenti la maggior parte degli Stati del continente americano,
fra quali però non figurano gli Stati Uniti. Alla Convenzione è stato aggiunto nel 1988 il Protocollo di San Salvador sui
diritti economici, sociali e culturali. Il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è affidato ad una
Commissione e ad una Corte di giustizia. Dal 1986 è entrata in vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei
popoli. L’unico organo istituito dalla Carta, la Commissione, un organo che con un po’ di buona volontà può essere
definito quasi giurisdizionale: esso può ricevere comunicazioni, ma il suo potere decisionale in ordine a tali
comunicazioni è assai limitato, concretandosi nella possibilità di trasmettere rapporti confidenziali all’Assemblea dei
Capi di Stato e di Governo dell’Organizzazione per l’Unità Africana. In ambito OUA è stata anche istituita una Corte dei
diritti dell’uomo, che ha cominciato a funzionare nel 2009, emettendo la sua prima sentenza. Passando dal piano
regionale a quello universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle Nazioni Unite, l’uno sui diritti
economici, sociali e culturali, l’altro sui diritti civili e politici. Per quanto riguarda gli organi preposti al controllo
sull’osservanza dei patti, bisogna dire che essi sono poco paragonabili a quelli funzionanti nel quadro dei sistemi
europeo ed americano. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un Comitato per i diritti dell’uomo
composto di 18 membri eletti, a titolo individuale, dagli Stati contraenti per un periodo di 4 anni. Il Comitato può
prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stato o da individui, se lo Stato accusato ha,
per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia oppure, per i reclami individuali,
ratificato un Protocollo opzionale ad hoc. Nell’uno e nell’altro caso la procedura non sfocia mai in atti vincolanti, ma in
rapporti e in tentativi di amichevole composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali non prevede
l’istituzione di un organo simile a quello istituito dal Patto sui diritti civili e politici, limitandosi a stabilire che gli Stati
contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite perché formuli
raccomandazioni di ordine generale, o anche sottoporli all’attenzione dell’Assemblea generale.

* Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità si accompagna la tendenza ad
attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali. Trattasi per ora soltanto di una tendenza, che
incontra molte difficoltà a tradursi in realizzazioni concrete di una certa ampiezza. La prima esperienza in materia fu
quella del Tribunale di Norimberga, creato nel 1945 con l’Accordo di Londra, concluso tra le Potenze che occupavano la
Germania debellata, per la punizione dei crimini nazisti. Il Tribunale di Norimberga trovò la sua giustificazione, dal punto
di vista giuridico, e fu in pratica reso possibile, dall’occupazione della Germania. Lo stesso deve dirsi del Tribunale di
Tokyo che giudicò i criminali di guerra giapponesi e che fu addirittura costituito con una decisione della sola Potenza
occupante, gli Stati Uniti. Solo recentemente l’esperienza del 1945 è stata ripetuta con la costituzione del Tribunale per i
crimini commessi nella ex Jugoslavia a partire dal gennaio 1991 e del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda tra
l’inizio di gennaio e la fine di dicembre 1994. Il Tribunale per la ex Jugoslavia, composto di due Camere di prima istanza,
di tre giudici ciascuna, ed una Camera di appello di 5 giudici, funziona in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del
Consiglio di Sicurezza e ad un regolamento che il Tribunale stesso si è dato. Lo Statuto tra le altre cole elenca i crimini di
guerra e prevede la priorità del Tribunale rispetto alle Corti nazionali, nel senso che le Corti devono spogliarsi della loro
competenza e gli Stati che detengono il presunto criminale devono consegnarlo al Tribunale, che ha sede all’Aja. Il
regolamento disciplina la procedura ma contiene anche norme sostanziali in materia di pene, di circostanze aggravanti e
attenuanti ecc. Una disciplina analoga è prevista per il Tribunale per il Ruanda, che ha in comune con quello per la ex
Jugoslavia i membri della Camera di appello e quelli dell’ufficio del Pubblico Ministero. Entrambi i Tribunali hanno finora
emesso un buon numero di sentenze. Nel 1998 è stata poi creata la Corte penale internazionale a carattere
permanente, il cui Statuto venne adottato a Roma da un’apposita Conferenza di Stati ed aperto alla firma e alla ratifica
di tutti gli Stati. Finora la Corte ha deluso le aspettative; ciò ove si consideri che neppure una sentenza di condanna è
stata ancora emessa. Lo Statuto, che è in vigore dal 2002 tra origine da un progetto della CDI. Esso prevede che la
giurisdizione della Corte sia complementare rispetto a quello degli Stati, nel senso di poter essere esercitata solo quando
lo Stato che ha giurisdizione sul crimine non voglia o non abbia la capacità di perseguirlo. I crimini di cui la Corte è
competente a conoscere sono i crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità. Lo stesso art. 5 prevedeva che venisse
in seguito introdotta la competenza della Corte con riguardo al crimine di aggressione dopo averlo definito.
L’emendamento è stato adottato dalla Conferenza degli Stati membri tenutasi a Kampala. In realtà trattasi di una presa
in giro piuttosto che di una significativa decisione: a parte la definizione di aggressione la competenza della Corte potrà
esercitarsi, a prescindere da altre condizioni solo a partire da un anno successivo alla ratifica dell’emendamento da
parte di 30 Stati parti e dopo che una decisione sia presa con la maggioranza richiesta per gli emendamenti. Ricordiamo
infine la creazione di Tribunali penali interni a composizione internazionale, istituiti in Paesi in sviluppo ed in situazioni
post-conflittuali.

*Competenze limitate alle controversie di lavoro con i funzionari delle organizzazioni internazionali hanno i tribunali
istituiti all’interno di queste ultime, come ad es. il Tribunale Amministrativo delle Nazioni Unite, il Tribunale
Amministrativo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ecc.

CAPITOLO 52: I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali

* Tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto tendono esclusivamente a
facilitare l’accordo delle parti: di conseguenza non hanno carattere vincolante per le parti e anche quando non vengono
trascurati gli aspetti giuridici della controversia, è sempre il compromesso tra le opposte pretese a costituirne l’oggetto
principale. L’accordo tra le parti può essere facilitato da negoziali diretti tra le parti medesime; sicché i negoziati sono
considerati come il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie. E’ ovvio però che dal punto i vista
giuridico, esso non presentano particolarità alcuna, un negoziato per raggiungere un accordo potendo essere condotto
sul qualsiasi oggetto e a prescindere dall’esistenza di una qualsiasi controversia. Si parla poi di buoni uffici e mediazione
quando si verifica l’intervento di uno Stato terzo che è meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso
della mediazione. La differenza tra i due mezzi è più teorica che pratica: di solito con i buoni uffici ci si limita ad indurre
le parti della controversia a negoziare; nella mediazione c’è invece una partecipazione più attiva del terzo alle trattative.
Molto importante è la conciliazione che è la forma diplomatica di soluzione delle controversie, quella che più si avvicina
all’arbitrato. Le Commissioni di conciliazione, istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo occasionale, sono
di solito composte da individui e non da Stati ed hanno il compito di esaminare la controversia in tutti i suoi aspetti. Alle
Commissioni di conciliazione vanno accostate le Commissioni di inchiesta il cui compito è invece limitato
all’accertamento dei fatti. Spesso poi il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio con la conseguente
possibilità di dare unilateralmente l’avvio alla procedura conciliativa. Tipiche sono le norme sul diritto dei trattati, le
quali disciplinano una complessa procedura di conciliazione, cui le parti sono obbligate a sottostare se non scelgono un
altro mezzo di soluzione della controversia; oppure le norme della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare. Ai
mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle controversie a carattere non vincolante ce
si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali. Si tratta della funzione conciliativa delle organizzazioni
internazionali, che assume una particolare importanza in seno all’ONU e alle organizzazioni regionali. La funzione
conciliativa delle organizzazioni internazionali comprende le stesse procedure, ma ha come caratteristica particolare il
fatto di svolgersi in un quadro istituzionale. Ciò comporta che le procedure devono conformarsi alle regole statutarie
proprie di ogni singola organizzazione.
*I mezzi diplomatici esauriscono, insieme i mezzi giurisdizionali, i mezzi pacifici di soluzione delle controversie. La Carta
delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici. E
l’art. 33 della stessa Carta ribadisce l’obbligo delle parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di
mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; di perseguirne una soluzione mediante
negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi
regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta. L’art. 33, secondo la CIG, corrisponde al diritto internazionale generale è
spesso richiamato nella prassi, ad es. nelle clausole dei trattati internazionali relative alla soluzione delle controversie, e
nella stessa giurisprudenza della CIG. A causa della sua genericità si ritiene che esso si limiti a ribadire il divieto dell’uso
della forza.

*Alla soluzione pacifica delle controversie è dedicato un capitolo della Carta delle Nazioni Unite, in cui è disciplinata la
funzione conciliativa del Consiglio di Sicurezza. In base a ciò il Consiglio dispone anzitutto di un potere di inchiesta che
può esercitare sia direttamente sia creando un organo ad hoc composta da alcuni membri del Consiglio, da funzionari
dell’ONU, ecc. Gli Artt. 33 e 36 danno a loro volta facoltà al Consiglio di sollecitare le parti di una controversia a far
ricorso, ai mezzi, procedimenti o metodi elencati nell’art. 33. La differenza tra l’art. 33 e l’art. 36 sta nel fatto che il
primo si riferisce ad un invito generico da parte del Consiglio, mentre il secondo prevede che l’organo indichi quale
specifico procedimento sia appropriato in ordine al caso di specie. All’art. 36vanno riportate anche le risoluzioni del
Consiglio che non si limitano ad indicare un determinato procedimento per la soluzione delle controversie ma
predispongono esse stesse un procedimento perla soluzione delle controversie ma predispongono esse stesse un
procedimento del genere, come le risoluzioni che danno vita a Commissioni di buoni uffici, mediazione, ecc. In tutta la
materia sia il Consiglio che gli organi da esso creati dispongono di un mero potere di raccomandazione. Nella funzione
conciliativa del Consiglio rientra infine il potere di raccomandare termini di regolamento, ossia di suggerire alle parti
come risolvere, nel merito, la loro controversia. Tale potere dovrebbe essere esercitato solo in presenza di alcuni
presupposti, precisamente del fatto che la controversia sia stata portata all’esame del Consiglio dalle stesse parti, o da
almeno una di esse, nonché dell’accertata impossibilità di raggiungere un’intesa attraverso i mezzi elencati dall’art. 33.
Il Consiglio ha finito con l’entrare nel merito delle questioni, senza andar incontro a significative opposizioni di natura
procedurale da parte degli Stati interessati, se e quanto ha voluto: lo ha fatto sia con riguardo a casi che non erano stati
portati al suo esame da una delle parti in causa, sia senza preoccuparsi di indagare se effettivamente fosse impossibile il
ricordo ai mezzi di cui all’art. 33, ma addirittura anche nella fase iniziale di una controversia.

* Nell’ambito delle Nazioni Unite una funzione conciliativa è svolta anche dall’Assemblea generale che può
raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che essa ritenga suscettibile di pregiudicare il
benessere generale o le relazioni amichevoli tra le Nazioni. Una formula così generica permette di far rientrare nella
funzione conciliativa dell’Assemblea tutte le misure che abbiamo viste adottabili dal Consiglio di Sicurezza in base al cap.
VI. Anche il Segretario generale dell’ONU ha prestato la sua opera per la soluzione di controversie, offendo la propria
attività mediatrice agli Stati coinvolti in crisi internazionali. La Carta non prevede simili iniziative, salva l’ipotesi che il
Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea generale.

* Alla funzione conciliativa degli organi dell’ONU si affianca quella delle organizzazioni regionali. L’art. 52 della Carta
delle Nazioni Unite prevede che in seno a tali organizzazioni si compia ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica
delle controversie di carattere locale prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza. La norma trova corrispondenza negli
statuti delle organizzazioni regionali.

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