John Maynard Keynes (1883 – 1946), uno dei più influenti economisti britannici del XX secolo,
considerato il padre della macroeconomia1, influenzò con le sue idee non soltanto il ruolo dello Stato in
economia, ma anche le scelte politiche e le stesse concezioni della società. Seppe vedere l’incapacità delle
teorie economiche note di allora a spiegare, e ad offrire soluzioni alla disoccupazione di massa dovuta alla
Grande Depressione del 1929. I suoi studi diedero vita ad una scuola economica in netta contrapposizione
alla teoria economica classica che vede l’assoluta non ingerenza dello Stato in economia, sostenendo invece
la cosiddetta “economia mista”, vale a dire: economia capitalistica (ora chiamata “di mercato”), ma anche
intervento dello Stato allo scopo di equilibrare le distorsioni del mercato in termini di occupazione e
redistribuzione della ricchezza.
Secondo Keynes è necessario che lo Stato intervenga direttamente nell’economia per mantenere il
livello di piena occupazione, che deve essere l’obiettivo primario dello Stato,2 facendo sì che la domanda di
beni e servizi – richiesti dalla popolazione – possa assorbire completamente i prodotti fabbricati dal sistema
capitalistico stesso che, ricordiamo con Marx, ciclicamente è soggetto, per sua natura, a sovrapproduzione.
Mentre i critici del modo di produzione capitalistico trovano in Marx il loro punto di riferimento, e i
capitalisti del libero mercato laissez-faire vedono nell’immagine - da loro stessi distorta, a loro uso - di
Adam Smith la loro stella polare, Keynes, non marxista dichiarato, è tenuto in sospetto dai primi perché
vorrebbe un mondo soltanto migliore anziché diverso, dai secondi perché mette in discussione le “leggi
dell’economia”. Anche
la scelta del linguaggio ordinario come forma di argomentazione, che rende gran parte dell’opera di Keynes
accessibile al lettore non specialista (lo) espone alle critiche di molti economisti contemporanei, per i quali
non si può dare scienza senza matematica 3.
La sua visione dello sviluppo economico, che emerge nella sua opera magna “Teoria generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936), si contrappone alle teorie “neoliberiste”4, ( Keynes
negava la validità della teoria secondo la quale l’offerta crea sempre la propria domanda e mise in
discussione, nella Teoria, la naturale tendenza del sistema concorrenziale alla piena occupazione dei fattori
produttivi, in cui l’economia classica aveva in complesso creduto). Essa fu accettata a seguito del fallimento
degli economisti classici nel trovare soluzioni alla crisi mondiale in atto, e fu accolta eccezionalmente bene
anche per la sicurezza di sé di Keynes nel ragionamento e nell’analisi economica, alla fiduciosa originalità
della sua espressione e del suo carattere [...] alla fiducia in se stesso [...] alla sua formazione personale, alla
sua reputazione e al suo prestigio. Se The General Theory fosse stata scritta da una persona priva di queste
credenziali, avrebbe potuto sparire senza lasciare traccia5
In effetti la sua storia familiare ed accademica diede a Keynes delle credenziali eccellenti. John
Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton, nacque da una famiglia dell'alta borghesia inglese. Suo
padre, John Neville Keynes, era un economista e docente di scienze morali all'Università di Cambridge e sua
madre Florence Ada Keynes, una scrittrice e attivista per i diritti civili. Era il primo di tre figli, e frequentò
l’elitaria scuola di Eton e l’università di Cambridge al corso di matematica per passare subito dopo – per il
1 È un ramo dell’economia politica che, diversamente dalla microeconomia che studia i comportamenti dei singoli operatori
economici, studia invece il sistema economico a livello aggregato, cioè dell’insieme dei beni e servizi che entra nei conti economici
di un Paese. Per esempio, il più importante aggregato economico è il PIL: Prodotto Interno Lordo che è l’insieme dei beni e servizi
prodotti in un anno sul territorio di una nazione.
2 https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_generale_dell%27occupazione,_dell%27interesse_e_della_moneta#cite_note-66
3 Keynes John Maynard, La fine del laissez-faire e altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1991, citato
dovrà occuparsi solo delle necessità che non possono essere soddisfatte dai singoli privati.
5 Galbraith John Kenneth, Storia della economia, RCS Rizzoli Libri, Milano, 1987, p. 253.
2
Il suo esordio sulla scena mondiale avvenne alla Conferenza di Pace di Versailles del 1919, che mise
ufficialmente fine alla Prima Guerra Mondiale, quale membro della delegazione inglese. Fu l’unico a
ritenere eccessivamente penalizzanti i risarcimenti imposti alla Germania, in quanto oggettivamente
insostenibili per quest’ultima e tali da minacciare l’intera ripresa postbellica europea, nonché di provocare
nuove crisi, come di fatto avvenne con il collasso della Repubblica di Weimar e l’avvento del nazismo. La
sua era una visione dell’economia mondiale non come un insieme di economie nazionali separate le une
dalle altre, bensì irrimediabilmente legate nella buona e nella cattiva sorte. Non venne ascoltato e di
conseguenza si dimise dall’incarico.
Keynes era un liberale, elitario, aristocratico, appartenente al board della “British Eugenics Society”,
fu anche un direttore della Banca d’Inghilterra. Lui pensa che non soltanto il Partito laburista, ma tutti i
partiti dipendano da una massa di cittadini che non sanno di economia politica. Ed il compito delle élites è
di distinguere le azioni da apportare ad un sistema che non è in grado di autoregolarsi. «La lotta di classe
avrebbe trovato Keynes dalla parte della borghesia colta e illuminata [...] A Keynes il marxismo era
culturalmente estraneo; [...] Un punto fondamentale, tuttavia, accumuna Keynes a Marx: la visione del
processo capitalistico come finalizzato non al benessere di tutti ma al profitto di pochi».6 Keynes stesso
definisce pregnante l’osservazione di Marx circa il fatto che il mondo degli affari è finalizzato a ottenere più
denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori.7
Come Marx, anch’egli respinge l’idea che il sistema economico esistente sia in grado di “aggiustarsi
automaticamente”, di raggiungere, cioè, un equilibrio, nel senso che l’offerta dei beni prodotti sia sempre
in grado di generare una domanda equivalente che porti ad acquistare completamente i beni stessi. Anzi,
nella Teoria generale sostiene che è la domanda (chi consuma), non l'offerta (chi produce), la chiave che
regola il livello generale dell’attività economica.
Ma, mentre Marx ritiene che il capitalismo non sia l’unico modo per produrre ricchezza e che, come
ultimo venuto nei diversi sistemi sociali, sia destinato a lasciare il posto ad uno nuovo, Keynes è convinto
che la questione non sia di uscire o no dal capitalismo, ma di riorganizzarlo, di cambiarlo:
Il decadente capitalismo, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra,
non sta avendo molto successo. Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come
dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa
mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi. 8
Egli è convinto che questa situazione indesiderabile possa essere corretta poiché la potenzialità di
creazione di ricchezza del sistema è tale per cui riusciremo, in prospettiva, a risolvere
Il problema del bisogno e della miseria, [...] la lotta economica fra classi e paesi, non è che un terribile
pasticcio, un pasticcio contingente e non necessario. Infatti il mondo occidentale dispone già delle risorse,
6 Keynes John Maynard, La fine del laissez-faire e altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1991, cit.
Introduzione, p. 9
7 Ivi, p. 10
8 Keynes, La fine del laissez-faire, cit. pp. 93, 94.
3
ove sapesse creare l’organizzazione per utilizzarle, capaci di relegare in una posizione di secondaria
importanza il “problema economico” che assorbe oggi le nostre energie morali e materiali9
Ed il suo ottimismo si rivela in un discorso, tenuto a Madrid nel 1930, sulle “Prospettive economiche
per i nostri nipoti” in cui si trovò a descrivere la miseria sociale, economica e finanziaria seguita alla Grande
Depressione. Ma, al clima depresso, Keynes oppose subito la sua concezione “visionaria” del futuro.
Con concetti davvero potenti, stravolge false idee del tipo di quella che sostiene che i bisogni umani
non abbiano limite. Oppure quella che sostiene che il problema del futuro sarà quello di produrre beni e
servizi che servono all’umanità per vivere.
Egli era convinto, infatti, che le persone arrivate ad un certo numero di cose possedute si
fermassero e passassero ad altro di non materialistico. Qui, Keynes è convinto che «l’amore per il guadagno
instillato dal capitalismo sarebbe stato appagato dall’abbondanza, lasciando le persone libere di goderne i
frutti nella vita civilizzata. Questo, perché pensava che gli uomini possedessero una riserva limitata di
bisogni naturali».10 Forse qui Keynes non comprese che il capitalismo avrebbe creato una continua
produzione di nuovi bisogni, che l’estrema competitività spinge le aziende a costruirsi nuovi mercati
manipolando i bisogni, creandone di nuovi, che l’ideologia del libero mercato è ostile all’idea che una
determinata quantità di denaro possa essere abbastanza. «Un’idea simile è considerata debole e
paternalistica, in quanto frustra il naturale desiderio di migliorare la propria situazione».11 Il capitalismo ha
creato, cioè, una ricchezza incomparabile ma non ci ha insegnato a sfruttarla in modo civile.12
Tuttavia la visione di Keynes è sul futuro. Consapevole che i grandi progressi materiali e tecnologici,
a seguito delle grandi invenzioni scientifiche e tecniche cominciate dal XVI secolo e ininterrottamente
proseguite, avessero fatto compiere - come mai prima d’ora - un grande balzo in avanti al benessere
dell’umanità, sente il bisogno - dice di sé - di «sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel
futuro»13:
Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto
volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze
attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori.14
E continua:
Spero ancora e credo che non sia lontano il giorno in cui “il problema economico” occuperà quel posto di
ultima fila che gli spetta, mentre nell’arena dei sentimenti e delle idee saranno [...] protagonisti i nostri
problemi reali: i problemi della vita e dei rapporti umani, della creazione, del comportamento, della
religione».15
A quell’epoca – fra cent’ anni - turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono essere
più che sufficienti a provvedere, secondo Keynes, a tutte le necessità materiali con una minima parte
dell’impegno lavorativo. 16 E la sua speranza era che l’abbondanza del tempo libero portasse gli uomini ad
un atteggiamento spontaneo e gioioso nei confronti della vita, allora confinato agli artisti e agli spiriti liberi:
Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e della virtù
tradizionale: che l’avarizia e il vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e chi
9 Ivi, p. 11
10 Skidelsky Robert e Edward, Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo bisogno per essere felici? (Meno di quello che
pensi), Mondadori, 2012, p. 59.
11
Ivi, p. 58.
12 Ivi, p. 60.
13 Keynes, citato in Prospettive economiche per i nostri nipoti,http://www.redistribuireillavoro.it/assets/prospettive.pdf
14 Ivi.
15 Villari Lucio, L’insonnia del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 109.
16 http://www.redistribuireillavoro.it/assets/prospettive.pdf
4
meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza.
Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci
a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i
gigli del campo che non seminano e non filano17
Arriveremo, afferma Keynes, a considerare «l'amore per il denaro come possesso, e distinto dall'
amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, [...] per quello che è: una passione
morbosa, un po' ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si
consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.»18
L’amico di Keynes, il matematico ed economista inglese Frank Ramsey (1903 – 1930), chiamava
quello stato paradisiaco: “beatitudine”. «Il capitalismo, la vita incentrata sulla lotta economica e sul far
quattrini, era dunque una fase di transizione, un mezzo per raggiungere un fine, e il fine era la vita
buona».19 Tuttavia, trascorsi novant’anni da quella conferenza, sembriamo lontanissimi e la ragione è che
questa ricchezza, prodotta dal sistema produttivo esistente, «non è socialmente disponibile in modo
adeguato».20
Sull’ottimismo di Keynes continuano però a dominare due visioni: «il pessimismo dei rivoluzionari, i
quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il
pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo
precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti»22, ma «Keynes era davvero assai ottimista,
convinto com’era che “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in
bene che in male»23. Afferma, quindi, che anche i princìpi del capitalismo, basati su un ordine “naturale”
non sono veri. Non sono veri né i princìpi metafisici né i presupposti economici sui quali si basa, ma ne sono
tragiche le implicazioni. Se fosse davvero retto da un ordine naturale, allora il laissez-faire sarebbe l’ovvia
conseguenza:
Se lo scopo della vita è di cogliere le foglie degli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore per
raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal
collo più corto.24
Tuttavia ci sono altre considerazioni che giudicano il costo ed il carattere di ciò che la lotta, la
competizione e la concorrenza distrugge:
Se abbiamo a cuore il benessere delle giraffe, non dobbiamo trascurare le sofferenze di quelle dal collo più
corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la
17 Skidelsky Robert e Edward, Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo bisogno per essere felici? (Meno di quello che
pensi), Mondadori, 2012, p. 27
18 Keynes, La fine del laissez-faire, cit. p. 65
19 Skidelsky Robert e Edward, Quanto è abbastanza, cit. p. 27
20 http://tempofertile.blogspot.com/2014/01/john-maynard-keynes-prospettive.html
21 Keynes, La fine del laissez-faire, cit. p. 67.
22 Ivi, p. 58.
23 Ivi, p. 16
24 Ivi, p. 32.
5
supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e di voracità combattiva che copre
i miti visi del gregge25
Si suppone che la selezione naturale porti al progresso, ma è solo un’ipotesi che, assieme all’altra
ipotesi dell’efficacia, vengono prese come verità a sostegno del principio del laissez-faire. E l’efficacia viene
rappresentata dai guadagni illimitati come incentivo al massimo sforzo della competizione.
Così uno dei più potenti fra i movimenti umani, l’amore del denaro, è asservito al compito di distribuire le
risorse economiche nel modo meglio calcolato per accrescere la ricchezza. Il parallelismo [...] fra il laissez-
faire economico e il darwinismo, si vede ora, come Herbert Spencer riconobbe per primo, essere molto
stretto26
Questo sistema economico corrente non vede che il primo dei problemi di economia politica è la
disoccupazione e l’impiego incompleto e imperfetto delle risorse intellettuali e materiali. E che la
ripartizione tra profitti e salari – quindi tra capitale e lavoro - non può variare in così ampli limiti. Secondo
Keynes non dovrebbe esserci conflitto tra capitale e lavoro e
Se le classi lavoratrici hanno il potere politico e contrattuale per ottenere una quota del prodotto industriale
più larga di prima, bene, questo è un nuovo fatto storico; l'evoluzione storica è questa volta dalla loro parte.
L'uomo d'affari otterrà di meno, e questo è tutto quello che c'è da dire.27
Questo era accettato anche in Italia, prima che la politica e l’economia negli anni Novanta,
inventassero la cosiddetta “concertazione” che, nelle intenzioni costituiva un metodo per la partecipazione
delle organizzazioni sindacali e degli imprenditori alle decisioni in materia di politica economica e sociali,
ma che in realtà – i fatti lo dimostrano – attuavano una politica dell’occupazione e dei redditi non con
l’obiettivo di miglioramento, bensì considerando di non oltrepassare l’inflazione programmata. Come
adesso fa l’Unione europea che impone agli Stati un livello di disoccupazione da non abbassare e un livello
di salari da non aumentare. Come diceva Adam Smith:
Ogni qualvolta il legislatore cerca di codificare i rapporti tra imprenditori e operai, i suoi consiglieri sono
sempre gli imprenditori28
È pacifico che il miglioramento della classe operaia debba tenere conto che ogni paese non è un
sistema chiuso, ma che è incluso in un sistema internazionale dove è consentito ai capitali di girare da un
paese all’altro in cerca di maggior profitto, per cui
i margini entro i quali un paese si può muovere, indipendentemente da altri paesi, è assai influenzato dalla
mobilità dei flussi finanziari.29
Con la globalizzazione e con la mobilità dei capitali, un imprenditore può decidere di investire il suo
capitale in Cina o Romania per avere un profitto maggiore. E questo porta a domandarci fino a che punto la
manodopera sottopagata all’estero può nuocere all’interno di un paese. I fautori del libero commercio sans
frontières direbbero che non siamo danneggiati dal lavoro sottopagato perché ci guadagniamo acquistando
a prezzo più basso. Però ciò che è prodotto all’estero non viene prodotto all’interno del paese, quindi si
creerà più disoccupazione all’interno e questa farà abbassare i salari fino al raggiungere il livello di quelli
all’estero. La conseguenza sarà la drammatica riduzione della domanda interna di beni e servizi che porterà
a diminuire la produzione e che, a sua volta, porterà a meno investimenti e quindi creerà nuova
25 Ivi, p. 34
26 Ivi, p. 33
27 Ivi, p. 73
28 Riportato in Marx Karl, Il Capitale, Libro Primo, Newton Compton, Roma, 2007, nota 222, p. 531.,
29 Keynes, La fine del laissez-faire, cit. p. 75.
6
Quindi se si vuole ancora salvare il capitalismo, secondo Keynes, occorre riformarlo grandemente
nei suoi principi e nelle sue regole, ma:
La difficoltà sta nel fatto che i leader capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di distinguere i
nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo. Se il
capitalismo vecchio stile avesse la capacità intellettuale di difendersi, si garantirebbe il potere per ancora
molte generazioni. Ma, per fortuna dei socialisti, è poco probabile che vi riesca 31.
Tuttavia, se vogliamo ancora sperare di salvare questo sistema economico dobbiamo affrettarci,
prima di tutto intellettualmente ad uscire dal paradigma del contabile, per cui ogni iniziativa da
intraprendere, sia privata che pubblica, è sottoposta al criterio del tornaconto finanziario, per cui:
Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle
meraviglie, si crearono i bassifondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il
criterio dell’impresa privata, “fruttavano”, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto
di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio di stile finanziario, “ipotecato il futuro”. Ma nessuno può
credere oggi che l’edificazione di opere grandi e belle possa impoverire il futuro a meno che non sia
ossessionato da false analogie tratte da un’astratta mentalità contabile32
Keynes si riferiva allo sviluppo delle grandi città del secolo XIX, circondate da aree di ignobile
miseria e bruttezza. Ma l’analogia può facilmente essere ancora trasferita nei giorni nostri, sia riguardo le
periferie delle megalopoli, sia per tutti quei bisogni dei popoli che non possono essere soddisfatti per
ragioni di bilancio, come, ad esempio, le politiche di austerity della Unione europea. La stessa regola
autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni altro aspetto della vita:
Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente saremmo
capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo.33
Quello che occorre fare, secondo Keynes, per salvare il capitalismo da se stesso34, innanzitutto è
avere una banca centrale sotto il controllo pubblico35 (cosa che in Europa – nella area euro – non vi è più da
vent’anni; ne parleremo più avanti), con la quale finanziare la spesa pubblica. Con l’azione dello Stato, volta
30 https://scenarieconomici.it/prodi-presto-i-nostri-lavoratori-costeranno-come-quelli-cinesi-se-ne-vanta-pure/
a controllare il valore della moneta e il corso degli investimenti,36 la spesa pubblica che ha come scopo un
ritorno in termini sociali, sosterrà la domanda di beni e consumi di tutto quello che viene prodotto.37
Anche la rendita finanziaria parassitaria, di coloro, cioè, che ricevono una rendita senza svolgere
alcuna funzione concreta, se non quella di avere un rendimento per il prestito del loro capitale, deve essere
eliminata.38 Inoltre la redistribuzione dei redditi deve avvenire, per equità e giustizia, attraverso una politica
fiscale con aliquote progressive, in modo che il miglioramento delle condizioni materiali della classe operaia
sia distribuito su un’area più ampia,39 e anche attraverso imposte di successione «al fine di ridurre le
disuguaglianze di ricchezza».40 È necessario, anche, che lo Stato, intervenga per evitare cicli economici
depressivi e, attraverso «una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento, si dimostrerà (che è)
l’unico mezzo per consentire di avvicinarsi alla occupazione piena».41
Altro tema importante su cui Keynes pone l’attenzione è quello delle speculazioni nelle borse valori
che, se allora era preoccupante (vedi crisi del ’29), adesso è inimmaginabile per l’ampiezza e gravità. In ogni
caso la radice dell’instabilità finanziaria rimane la stessa: la speculazione non ha interesse al rendimento in
prospettiva degli investimenti, bensì ai guadagni dovuti alla variazione dei titoli. La loro preoccupazione è
quella di capire quanto il mercato valuterà un determinato investimento, non quanto esso effettivamente
vale42
Determinante è il tema della mobilità dei capitali e la conseguente politica di delocalizzazione verso
nuovi mercati più profittevoli; sono azioni che affossano la domanda interna: quindi i beni prodotti per il
mercato interno non trovano sufficienti acquirenti e restano invenduti. «Noi dobbiamo per prima cosa
riuscire a trovare il modo di mitigare la tendenza a una eccessiva attività di prestiti all’estero [...] che,
soffocando le imprese nazionali stesse, ha avuto anche la conseguenza di premere su tutto il mondo degli
affari contro il movimento degli alti salari»43. Keynes non rinnega il suo rispetto verso il libero commercio,
«considerato non soltanto come una dottrina economica, che una persona razionale e istruita non poteva
mettere in dubbio, ma anche come parte della legge morale».44 Però «sarebbe più facile realizzare
opportune manovre interne di politica economica se, per esempio, potesse essere impedito il fenomeno
conosciuto come “fuga dei capitali”».45
Sono perciò più d'accordo con quelli che vorrebbero ridurre l'intreccio economico tra le nazioni che con quelli
che lo estenderebbero. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura
dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno
quanto più ragionevolmente e convenientemente è possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente
nazionale.46
Keynes non vuole apparire troppo radicale perché rimane convinto che un certo «grado di
specializzazione internazionale è necessario, in un mondo organizzato in modo razionale, in tutti i casi in cui
sussistono grandi differenze di clima, risorse naturali, attitudini locali, livello di cultura e densità di
popolazione.»47 Tuttavia, una limitazione alla globalizzazione – afferma Keynes – è necessaria, tant’è che il
costo economico dell’autosufficienza (un tempo avremmo detto autarchia), è inferiore ai vantaggi.48
I moderni processi di produzione di massa, infatti, possono essere sviluppati, con la stessa
efficienza, nella maggior parte dei paesi e dei climi.49 E uno dei compiti principali della politica di uno Stato
deve essere quello di decidere cosa deve essere prodotto all’interno della nazione e che cosa deve essere
scambiato con l’estero.50
Dal XVI secolo in avanti, con il mercantilismo, la competizione fra gli Stati si è progressivamente
accentuata e la battaglia si svolge sul campo delle esportazioni. Tutti i paesi provano a cimentarsi
abbassano i salari interni e cercando di esportare il più possibile. Ma non tutti possono essere esportatori, il
mondo è un sistema chiuso, ci sarà qualcuno che perde, che importa più di quello che esporta.
Per equilibrare in modo equo l’esportazione e l’importazione e mettere fine alle guerre
commerciali, Keynes propose un controllo internazionale sui flussi delle merci scambiate per compensare il
surplus dovuto all’esportazione di un paese con il disavanzo dovuto all’importazione di un altro paese.
Questo avrebbe consentito di mitigare il problema della disoccupazione a seguito delle
importazioni, poiché quello che viene importato non viene prodotto all’interno della nazione, ed avrebbe
inoltre ridimensionato l’affannosa, conflittuale e impegnativa ricerca continua di nuovi mercati:
Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è ora, ossia un disperato espediente per
preservare l'occupazione interna forzando vendite sui mercati stranieri e limitando gli acquisti – metodo che,
qualora fosse coronato dal successo, sposterebbe semplicemente il problema della disoccupazione nel vicino
che ha la peggio nella lotta - ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi in
condizioni di vantaggio reciproco.51
Le nazioni imparerebbero così a costituirsi la piena occupazione mediante la loro politica interna,
non esistendone più le costrizioni a svendere le proprie merci al paese vicino per raggiungere il surplus
commerciale.52
Dalla metà degli anni Trenta, le economie occidentali adottarono le sue politiche e quasi tutti i
governi capitalisti lo avevano fatto entro i due decenni successivi alla sua morte, raggiungendo uno
sviluppo economico ampio e innalzando il benessere collettivo. Secondo l’economista John Kenneth
Galbraith il rimbalzo che ebbe l’economia dalla metà degli anni ’30 e specialmente dal dopoguerra, era la
dimostrazione migliore delle idee keynesiane.53 In tutta Europa occidentale, dal dopoguerra fino alla fine
degli anni ’70, tutte le economie applicarono una politica sociale di impronta keynesiana.
Keynes è stato l’artefice di una rivoluzione di pensiero che ruppe la tradizione liberista del laissez-
faire. Le politiche keynesiane, costituite da investimenti pubblici, tassazione progressiva e protezione
sociale, risollevarono l’economia americana dalla Grande Depressione e quella dell’Europa occidentale
dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale fino alla fine degli anni Settanta.
In Italia, queste politiche consentirono di istituire un servizio sanitario pubblico, l’istruzione
pressoché gratuita fino all’università, un sistema pensionistico generalizzato, una legislazione di protezione
del lavoro e sostegno alla disoccupazione, l’assistenza alle famiglie, agli anziani e disabili, politiche di edilizia
popolare, leggi che consentirono la crescita del peso sindacale; creazione di banche pubbliche e di industrie
nei campi strategici dell’energia e delle comunicazioni. Tutti questi erano evidenti segni dell’aumento e
della ridistribuzione sociale del benessere di una nazione.
L’abbandono di questa corrente di pensiero in favore del libero mercato, senza contrappeso
pubblico, è iniziato lentamente. La lunga marcia che ha portato il neoliberismo a conquistare un’egemonia
49 Ivi.
50 Ivi, p. 97.
51 Keynes, La fine del laissez-faire, cit. pp. 119
52 Ivi.
53
https://en.wikipedia.org/wiki/John_Maynard_Keynes
9
E non è una teoria del complotto55, tutt’altro, perché su questo argomento esistono da tempo
libri56, dibattiti e saggi da parte di intellettuali e di diversi movimenti alternativi.
Come, questo modello economico, sostenuto da una ideologia precisa, si sia infiltrato nella politica,
nelle università, nelle televisioni e nella stampa, nei sindacati e nelle alte dirigenze sia pubbliche che
private, e che ha portato al consenso perfino coloro che vi sono sottoposti, colpendo l’essenza stessa della
democrazia costituita dagli Stati sovrani, delegando ad organismi non eletti dal popolo la guida e le
politiche economiche e sociali, lo vedremo nei capitoli che seguono.
https://www.paolobarnard.info/docs/Il_PGC_2011.pdf. Giannuli Aldo, Uscire dalla crisi è possibile, Salani Editore, Milano, 2012. Chomsky Noam,
Democrazia di Mercato in un Ordine Neoliberista, Letture Università Città del Capo, 1997, Archivio Web Noam Chomsky
https://www.tmcrew.org/archiviochomsky/davie.html.