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STORIA DELLA PSICOLOGIA

TRASCRIZIONE DELLE VIDEOLEZIONI


1- Rivoluzione cognitiva e neuroscienze
Le origini e la psicologia cognitiva

Il termine Psicologia viene introdotto nel XVI secolo, in età umanistica. I campi del sapere più strettamente
imparentati, e dai quali la psicologia si è progressivamente affrancata prima di diventare disciplina autonoma,
sono stati principalmente la filosofia e la fisiologia. Come vedremo, bisognerà però aspettare almeno il XIX secolo
perché la psicologia raggiunga quello stato di maturazione epistemologica e concettuale che le permette di
rientrare pienamente nell’alveo delle discipline scientifiche. Nella sua traiettoria di sviluppo bisogna peraltro
considerare che lo studio scientifico della mente e del corpo viene visto con sospetto almeno fino al XVII secolo,
per ragioni prevalentemente di ordine religioso.

Un passaggio chiave in ambito filosofico è stato sicuramente il dualismo mente/corpo introdotto dal filosofo e
matematico francese Cartesio, nella prima metà del Seicento. Come noto, il dualismo cartesiano distingue
nettamente lo studio dell’uomo nella sua componente immateriale o pensante (la res cogitans), dallo studio della
sua componente materiale e fisica (la res extensa). Questa distinzione ha avuto un duplice effetto: se da un lato il
corpo fa parte del mondo fisico e naturale, allora non è possibile precluderne lo studio scientifico; d’altro canto
però, se il pensante è immateriale, lo studio è possibile solo con i mezzi propri della teologia.

Se l’introduzione della prospettiva dualista ha di fatto frenato l’indagine scientifica sui processi mentali ha però
reso lecito lo studio del corpo e favorito l’indagine scientifica dei processi fisiologici che oggi consideriamo
importanti anche per la comprensione dei processi mentali.
Prima di tale indagine scientifica il corpo umano era in genere considerato come costituito da elementi
indifferenziati, aventi tutti più o meno le medesime funzioni, la cui esistenza era dovuta a un’energia vitalistica
potenzialmente infinita. Non era contemplata la possibilità di misurare e differenziare funzionalmente le diverse
componenti fisiologiche del nostro organismo. Ma le prime conquiste della fisiologia compiute a partire dalla
seconda metà del Settecento iniziarono a modificare radicalmente lo studio scientifico dell’uomo in quanto
organismo vivente.
Tra queste prime conquiste meritano di essere citate quella di Robert Whytt, che dimostra che i movimenti riflessi
coinvolgono il sistema nervoso centrale attraverso i rami afferenti ed efferenti del midollo spinale, quella di
Charles Bell e Francois Megendie che, indipendentemente l’uno dall’altro, dimostrano che a livello del midollo
spinale le vie sensoriali posteriori sono indipendenti dalle vie motorie anteriori (come rappresentato nella figura in
alto a sinistra), quella di Hermann von Helmotz che dimostra che un nervo trasmette impulsi che non dipendono
dal tipo di stimolazione ricevuta ma dalla specifica natura del nervo, e infine quella del torinese Angelo Mosso che
per primo dimostra che un compito cognitivo causa un aumento locale di flusso sanguigno a livello cerebrale e
che questo aumento locale può essere misurato con un’apposita bilancia (rappresentata nella figura in basso a
sinistra). Una scoperta quest’ultima sulla quale ancora oggi si fondano le moderne tecniche di neuroimmagine. Ne
riparleremo in un altro modulo.
A metà del XIX secolo un altro fisiologo ha introdotto un metodo di indagine che ha molto influenzato e continua a
influenzare lo studio scientifico dei processi mentali. Si tratta del metodo sottrattivo proposto da Franciscus
Donders, che così rifletteva: “Se nel lasso di tempo tra stimolo e risposta la mente sta lavorando, più complesso
sarà il lavoro necessario alla risposta, più operazioni mentali implicherà, più sarà lungo il tempo di reazione”.
Partendo da questa riflessione, Donders di fatto inaugura un metodo che come vedremo è ancora oggi
ampiamente utilizzato in psicologia sperimentale, in neuropsicologia cognitiva e nelle neuroscienze cognitive. Di
fatto, il metodo sottrattivo si basa sul principio generale, esposto in questa immagine, secondo il quale se misuro i
tempi di reazione necessari a svolgere due compiti cognitivi, uno semplice e l’altro complesso per l’aggiunta di una
singola variabile a quello semplice, allora la sottrazione tra i tempi di reazione ai due compiti permetterà di
misurare sperimentalmente i tempi necessari per elaborare la variabile cognitiva aggiuntiva.
Con questo metodo, per la prima volta a un processo mentale veniva fatta corrispondere una misurazione
oggettiva basata su un parametro fisico misurabile.
Altro snodo storico fondamentale nell’emergere di una psicologia scientifica è stata la collocazione dell’Uomo, una
tra le tante forme di vita, all’interno di una complessa costellazione di organismi viventi che si sono evoluti
all’interno di una storia naturale caratterizzata dall’azione di regole comuni. Il lavoro di Charles Darwin, naturalista
e biologo inglese, che a metà dell’Ottocento sistematizzò tali regole e introdusse il concetto di selezione naturale
ha avuto grande influenza per tutte le scienze della vita, psicologia compresa. Dedicheremo a questo straordinario
contributo l’attenzione che merita in successivi moduli del nostro percorso.
Le prime acquisizioni scientifiche in ambito fisiologico sui processi sottostanti i fenomeni mentali e il lavoro di
Darwin contribuirono congiuntamente, nella seconda metà del XIX secolo, alla nascita delle prime indagini
empiriche specificamente rivolte allo studio della mente.
Nasce la psicologia scientifica… e l’atto fondativo viene convenzionalmente fatto coincidere con la costituzione nel
1879 del primo Laboratorio di Psicologia sperimentale a Lipsia, in Germania, per opera del fisiologo e psicologo
tedesco Wilhelm Wundt.

Non un laboratorio di fisiologia, non un rimando alla filosofia: la psicologia per la prima volta si affranca e si rende
autonoma e indipendente, con impianti metodologici propri.
Le prime indagini scientifiche, qui due immagini che rimandano a quei tempi pioneristici, vengono condotte
prevalentemente negli ambiti della sensazione e della percezione, ambiti sperimentalmente più facili da
controllare in quanto le grandezze fisiche degli stimoli possono essere più facilmente manipolate da parte dei
ricercatori. Può essere, in sostanza, più facilmente adottato il metodo sperimentale, che consente di determinare
come muta una variabile dipendente (l’esperienza mentale) al mutare di una variabile indipendente (lo stimolo al
quale si è sottoposti).

Wundt e i suoi allievi, tra i quali è giusto ricordare Edward Titchener, utilizzarono ampiamente il metodo sottrattivo
proposto da Donders, ma Wundt introdusse anche un metodo nuovo e diverso, l’introspezione sperimentale.
Durante un compito, prevalentemente di natura percettiva, a soggetti appositamente addestrati veniva chiesto di
descrivere verbalmente la propria attività mentale associata alla percezione dello stimolo. Ciò veniva fatto però
utilizzando una precisa terminologia e una precisa procedura, che evitasse ricostruzioni retrospettive basate sulla
memoria o su ciò che si sa di quell’oggetto e che si focalizzasse invece solo sugli elementi basilari dell’esperienza
immediata, nel ‘qui ed ora’. L’esperienza percettiva è così accompagnata da un’attività di analisi introspettiva
disciplinatissima e iperanalitica che ha come obiettivo la ricostruzione della struttura elementare dei processi
mentali. Da qui il termine “Strutturalismo” assegnato a questo approccio.

Ma nello stesso periodo in cui in Europa si forma la prima generazione di psicologi sperimentali secondo
l’impostazione proposta dallo strutturalismo di Wundt, dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, un altro
paradigma domina il panorama in ambito psicologico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Si tratta del
Funzionalismo, che vede in William James il suo più illustre esponente. È impossibile sottovalutare l’importanza di
questo padre nobile della psicologia, il cui contributo, come quello di Wundt, verrà ripreso in altre parti di questo
insegnamento in relazione alla nascita della psicologia clinica.
Alla base del Funzionalismo vi è l’idea che la mente sia un’entità dinamica che interagisce con l’ambiente e vi si
adatta. Il riferimento alla teoria evoluzionistica di Darwin è esplicito.
Così come esplicito è il rifiuto dell’impostazione strutturalista e il tentativo di scomporre la mente nei suoi
elementi atomici. Ciò che conta è la funzione svolta dalla mente nel favorire l’adattamento dell’individuo
all’ambiente circostante.
Il funzionamento della mente è indagato secondo un approccio ispirato alla filosofia pragmatistica di John Dewey
che identifica il vero con l’utile. Una scienza psicologica è pertanto giustificata solo in ragione del valore sociale
dei suoi risultati. La psicologia deve rispondere a problemi pratici e proporsi, quindi, quale scienza non puramente
descrittiva, ma capace di indagare problemi con risvolti di natura applicativa. Non a caso, si deve a questa
prospettiva l’impulso che ha poi portato alla nascita dei test per la misurazione della personalità e di altri costrutti
psicologici.
Sebbene la parabola del funzionalismo sia andata progressivamente declinando a partire dagli anni ’20 del
Novecento, a causa del progressivo affermarsi del comportamentismo, paradigma del quale ora discuteremo, è
giusto ricordare che il contributo di William James è stato riscoperto e valorizzato un secolo dopo per opera di
ricercatori quali Leda Cosmides e John Tooby, tra i principali esponenti della Psicologia evoluzionistica, disciplina
alla quale dedicheremo adeguata attenzione in moduli successivi del nostro percorso.
Al di là delle loro molteplici e profonde differenze, lo strutturalismo di Wundt e il funzionalismo di James hanno
condiviso un approccio soggettivistico allo studio della mente. I fenomeni mentali, benché indagati secondo
prospettive differenti, sono comunque l’oggetto di studio per entrambi i paradigmi.
Ma nel 1913, con la pubblicazione da parte di John Watson del manifesto comportamentista, assistiamo ad un radicale
capovolgimento di prospettiva nella storia della psicologia, soprattutto nordamericana. La mente, nella sua
intrinseca natura, cessa di essere l’oggetto di studio della psicologia e viene soppiantata dal comportamento, unica
dimensione considerata indagabile scientificamente perché oggettiva, osservabile e misurabile.
“Sbarazzarsi di ogni riferimento alla coscienza e smettere di coltivare l’illusione di poter sottoporre ad
osservazione gli stati mentali” è una tra le più note affermazioni di Watson. Il rifiuto dei processi mentali è motivato
dalla supposta impossibilità di studiare scientificamente ciò che non può essere osservato direttamente; in questo
senso, solo gli stimoli ambientali e le risposte comportamentali a tali stimoli diventano legittimi oggetti di studio. È
il paradigma della black box, che vede nella mente una scatola nera di secondaria importanza la cui natura è per
definizione non indagabile e non conoscibile. Contano solo le associazioni più o meno complesse tra gli stimoli
dell’ambiente e le risposte generate dall’organismo a questi stimoli.
Poiché ciò che conta diviene esclusivamente il modo in cui apprendiamo ad associare gli stimoli con le risposte,
uno dei principi centrali dell’approccio comportamentista diviene quello del condizionamento che in origine si
ispira agli studi del russo Ivan Pavlov, premiato nel 1904 con il Nobel per la medicina e la fisiologia per i suoi studi
sul condizionamento classico.
In questa forma di condizionamento si assiste ad un apprendimento associativo tra stimoli e risposte, senza
nessun processo mentale interveniente. Nei famosi esperimenti condotti da Pavlov sui cani, ad uno stimolo
incondizionato, ovvero capace di provocare nell’organismo una risposta riflessa incondizionata (come ad esempio
la salivazione alla vista del cibo), viene associato uno stimolo neutro, ad esempio il suono di una campanella. La
ripetuta associazione tra lo stimolo incondizionato (il cibo) e lo stimolo inizialmente neutro (il suono della
campanella) farà si che con il tempo lo stimolo neutro diventi uno stimolo condizionato capace di produrre una
risposta (la salivazione) anche in assenza di cibo (una risposta, quindi, condizionata).
Watson ritiene che gli studi sul condizionamento classico forniscano al comportamentismo un principio chiave
per la spiegazione del comportamento umano, come detto, inteso come l’unico legittimo oggetto di studio della
psicologia.

Altra forma di apprendimento associativo sulla quale si basa l’impalcatura epistemologica del paradigma
comportamentista è studiata a partire dalla fine degli anni ’30 e fino agli anni ‘60 dallo psicologo statunitense
Burrhus Skinner. Si tratta del condizionamento operante.
In questa forma di condizionamento sono i comportamenti spontanei prodotti da un organismo ad essere
condizionati e modellati in base al rinforzo che ricevono (nei termini di un premio o di una punizione) ogni
qualvolta si manifestano.
In questa slide è rappresentata graficamente la differenza tra condizionamento classico e condizionamento
operante. Mentre quello classico si basa sull’esistenza di riflessi incondizionati innati che possono essere
condizionati, in quello operante qualsiasi comportamento aumenta o diminuisce la propria frequenza di
manifestazione in base al rinforzo o alla punizione che quel comportamento spontaneamente manifestato riceve
dall’ambiente. Quando il topo qui rappresentato percorre il braccio di sinistra può ricevere un premio (del cibo) o
una punizione (una scossa elettrica). Nel primo caso, la probabilità che il comportamento si manifesti
nuovamente è più alta del secondo caso, che invece indurrà il topo alla manifestazione di un comportamento
alternativo; nell’esempio, percorrere il braccio di destra.
A partire dall’uso di apparecchiature come la Skinner box da lui ideata, Skinner raccoglie un’enorme quantità di dati
empirici che lo portano ad estrapolare regole generali sull’apprendimento che ritiene possano valere per ogni
organismo, Uomo compreso, e per ogni tipo di comportamento, anche quelli più complessi come il linguaggio.
Sul piano metodologico il modellamento diviene la principale tecnica di apprendimento. Si basa sul principio
generale di associare i comportamenti che si avvicinano a quello desiderato con un rinforzo positivo. L’idea utopica
di Skinner è che tale tecnica possa essere alla base della programmabilità e modellabilità di tutti i comportamenti
della vita quotidiana e dell’educazione e istruzione dei più piccoli.
Per Skinner, e per ampia parte dei comportamentisti, il comportamento non è il risultato di attività più
fondamentali ma è un fine in sé e per sé. Nessuna spiegazione in termini mentali è necessaria. Tutto nasce e si
esaurisce nella relazione più o meno complessa tra stimoli ambientali e risposte comportamentali.
Non è facile comprendere come un tale paradigma possa aver dominato per decenni, soprattutto in nord America
(in Europa, come si vedrà nella parte dedicata alla nascita della psicologia clinica prevalevano altri modelli).
Certamente la promessa di una psicologia scientifica, capace di rientrare nell’alveo delle scienze naturali e di
dotarsi di un’epistemologia oggettiva ha contribuito in modo cruciale al successo del comportamentismo nella
prima metà del secolo scorso. Ma come vedremo nel prossimo modulo, a un certo punto la rinuncia all’indagine sui
processi mentali è parsa un prezzo ingiustificato e troppo alto da pagare, e non è un caso che siano stati proprio
diversi studiosi inizialmente di formazione comportamentista ad iniziare a sviluppare a partire dagli anni ‘50
modelli sul funzionamento mentale capaci di dare risposte ad evidenze empiriche che l’approccio
comportamentista non era più in grado di dare. Ad esempio, era sempre più evidente che non è possibile definire la
memoria e l’apprendimento semplicemente nei termini della progressiva accumulazione di associazioni tra stimoli
e risposte.
Troppe evidenze denunciavano la semplificazione di processi che per essere compresi richiedevano il ricorso ad
ontologie bandite dal comportamentismo.
È la rivoluzione della Psicologia cognitiva che restituisce al mentale il posto centrale che le spetta. A questa
rivoluzione è dedicato il prossimo modulo.

Neuropsicologia e neuroscienze cognitive


Ai suoi esordi la psicologia cognitiva ha distinto tra funzione e organo in modo netto. Oggi tale distinzione non è più
giustificabile e la maggior parte degli studiosi considera limitante indagare i processi cognitivi umani ignorando lo
specifico ruolo causale del cervello. Vi è una presa di coscienza del fatto che interessarsi alla funzione (ovvero la
mente) senza avere idea dell’organo (ovvero il cervello) non sia più possibile: sarebbe come studiare la
circolazione sanguigna disinteressandosi del ruolo svolto dal cuore in questa funzione.
Uno dei modi possibili per prendere seriamente in considerazione la relazione tra mente e cervello è quello di
osservare cosa succede nelle persone che a causa di un danno cerebrale mostrano alterazioni nel proprio
funzionamento mentale. Come lucidamente espresso da George McCloskey e ricordato in questa slide, “i sistemi
complessi spesso rivelano più chiaramente il proprio funzionamento interno quando funzionano male rispetto alle
circostanze in cui funzionano regolarmente”. E il sistema mente/cervello è certamente un sistema complesso.
La disciplina che si articola intorno a questo presupposto è la neuropsicologia cognitiva, ambito di ricerca che si
basa sull’approccio cognitivista e studia le prestazioni cognitive di persone con lesioni cerebrali allo scopo di
comprendere l’organizzazione e il funzionamento generale della mente.
L’obiettivo della neuropsicologia cognitiva è quello di comprendere la natura dei processi cognitivi correlandoli con
le specifiche aree cerebrali che sottendono tali processi. Per fare questo, indaga la prestazione di singoli pazienti
o gruppi di pazienti con lesioni cerebrali in compiti cognitivi di varia natura.
Ciò che rende la neuropsicologia cognitiva un potente strumento di ricerca è la possibilità che offre di proporre
modelli esplicativi e di risolvere contrapposizioni teoriche relativamente all’architettura funzionale dei processi
cognitivi umani. Tra i tanti, ne sono un esempio gli studi condotti con persone caratterizzate da deficit mnestici
conseguenti ad alterazioni del funzionamento cerebrale, studi che hanno rivoluzionato la nostra concezione sui
processi di memoria umana, portando forte evidenza a favore delle teorie multi-componenziali della memoria e
confutando invece le teorie che vedevano in essa un processo unitario.
A titolo di esempio, sul lato destro di questa slide è schematicamente rappresentato il modello di Atkinson e
Shiffrin sul funzionamento e l’organizzazione della memoria. Si tratta di un classico modello di psicologia cognitiva
con un flusso dell’informazione che procede da una parte all’altra del sistema secondo un ordine seriale suggerito
dalle evidenze sperimentali. In particolare, secondo questo modello non esiste un singolo sistema di memoria ma
tre diversi sistemi, ciascuno con specifiche caratteristiche in relazione alla durata e alla natura della traccia
mnestica.
Le evidenze neuropsicologiche accumulate negli anni successivi alla formalizzazione del modello vanno nella
direzione ipotizzata da Atkinson e Shiffrin. Esiste notevole evidenza neuropsicologica acquisita attraverso
l’indagine di persone con deficit mnestici che dimostra come effettivamente la memoria non sia un sistema
unitario ma un sistema costituito da diverse componenti che possono essere selettivamente danneggiate. In
particolare, gli studi neuropsicologici hanno dimostrato come sia corretto ipotizzare la separazione tra un sistema
di memoria a breve termine a capacità limitata, in cui la traccia mnestica in pochi secondi può andare incontro a
rapido oblio, e un sistema di memoria a lungo termine a capacità virtualmente illimitata in cui la traccia mnestica
può permanere anche per tutta la vita.
Oggi la distinzione tra memoria a breve termine (dall’inglese short-term memory) e memoria a lungo termine
(dall’inglese long-term memory) è unanimemente condivisa.
Ma altrettanto importante è il contributo che la neuropsicologia cognitiva può dare alla falsificazione di un
modello teorico, o a una parte di esso, e all’elaborazione di un modello alternativo. Sempre utilizzando come
esempio il modello multi-sistemi della memoria proposto da Atkinson e Shiffrin, possiamo osservare in questa
slide come sebbene l’evidenza neuropsicologica abbia confermato la distinzione teorica tra la memoria a breve
termine e quella a lungo termine, la stessa evidenza neuropsicologica ha falsificato l’ipotesi seriale di Atkinson e
Shiffrin, ipotesi secondo la quale prima di giungere alla memoria a lungo termine un’informazione deve prima
essere necessariamente elaborata dalla memoria a breve termine.
Famoso è il caso del paziente K.F. (queste le iniziali del suo nome e del suo cognome) studiato nel 1970 da due
eminenti neuropsicologi, Tim Shallice ed Elizabeth Warrington. Questo paziente mostrava, come esito di una
lesione cerebrale dovuta a una caduta dalla moto, gravi danni alla memoria a breve termine ma una memoria a
lungo termine intatta. Un dato questo incompatibile con l’idea che per poter utilizzare la memoria a lungo termine
sia sempre necessario il coinvolgimento della memoria a breve termine e che ha spinto la ricerca scientifica a
proporre modelli alternativi sul rapporto tra questi due sistemi di memoria.
Questo caso, come moltissimi altri presenti in letteratura, ci mostra l’importanza dello studio del rapporto tra
funzione (in questo caso la memoria) e l’organo (il cervello) per comprendere l’esatta architettura della mente.
La maggior parte dei neuropsicologi cognitivi condivide una serie di assunti teorici che costituiscono il nucleo
concettuale di base di questa disciplina.
Un primo assunto centrale della neuropsicologia cognitiva è quello della modularità cognitiva. Secondo questo
assunto, inizialmente proposto dal filosofo della mente Jerry Fodor, l’architettura dei processi mentali è largamente
costituita da componenti specializzate, definite moduli cognitivi.
In figura questa idea è rappresentata in modo schematico. La si guardi dall’alto verso il basso. L’idea è che quando
gli input sensoriali colpiscono i nostri organi di senso periferici (ad esempio, vista, udito, tatto) questi organi
trasducono l’input sensoriale in un impulso nervoso che viene trasmesso a livello centrale. Secondo l’ipotesi che
stiamo discutendo, prima di giungere a livello centrale, in cui le informazioni sono integrate, l’informazione viene
elaborata da moduli specializzati. Facciamo un esempio.
Quando la luce riflessa da un oggetto colpisce i fotorecettori della retina, questo impulso sensoriale viene
convertito in una serie di impulsi nervosi che sono trasmessi al cervello. Ma prima che avvenga il riconoscimento
consapevole integrato (“quello che sto vedendo è un cane”) l’informazione trasmessa al cervello è elaborata da
molti moduli specializzati nell’elaborazione di aspetti specifici dello stimolo: alcuni sono specializzati
nell’elaborazione della forma, altri nell’elaborazione del colore, altri ancora nell’elaborazione della dimensione o
del movimento.
Da un punto di vista formale per modulo cognitivo si intende un sistema caratterizzato dal fatto di essere innato, di
essere incapsulato informazionalmente, ovvero di essere indipendente nel suo funzionamento dal funzionamento
degli altri moduli, di essere specifico per dominio, ovvero di essere specializzato nell’elaborazione di un numero
molto limitato e specifico di stimoli, e infine di essere automatico e soggetto ad attivazione obbligatoria, il che
significa che in presenza di uno stimolo appropriato per la sua attivazione il funzionamento di un modulo non può
essere controllato volontariamente o influenzato dalla coscienza.

Alcune di queste proprietà formali possono essere illustrate ricorrendo ad un altro esempio. Nella nota illusione
ottica di Müller-Lyer il segmento (a) e il segmento (b) hanno le stessa lunghezza, ma il segmento (a) ci appare
come più lungo del segmento (b). Ebbene, anche se siamo consapevoli che la lunghezza dei due segmenti è la
stessa non possiamo fare a meno di essere soggetti all’illusione che ci porta a percepire l’uno come più lungo
dell’altro. In altri termini, la nostra consapevole conoscenza di alto livello non può influenzare il funzionamento
automatico dei moduli percettivi, sensibili solo al dato sensoriale proveniente dallo stimolo e obbligati ad
elaborarlo.
Un secondo assunto della neuropsicologia cognitiva è che ogni modulo cognitivo sia implementato in aree cerebrali
anatomicamente identificabili. In questa slide è illustrato il modello anatomo-funzionale di Wernicke-Geschwind
per il linguaggio. Sebbene diversi aspetti di questo modello siano oggi superati, possiamo usare questo modello a
titolo di esempio per illustrare l’idea generale della neuropsicologia cognitiva secondo la quale ogni funzione
mentale ha un suo specifico correlato neurale. Ad esempio, secondo questo modello ci sono specifiche aree
cerebrali che sottendono i processi legati alla produzione e alla comprensione linguistica.
Come illustrato in questa slide, oggi l’idea della modularità anatomica è intesa dalla moderna neuropsicologia
cognitiva prevalentemente nel senso di circuiti complessi piuttosto che di isolate aree cerebrali. Rimane ferma
l’idea centrale secondo la quale esiste una relazione significativa tra struttura neurale e organizzazione
funzionale.
Peraltro questa assunzione può essere sintetizzata nel concetto di isomorfismo, che discende dagli assunti della
modularità cognitiva e di quella neurale, e sottolinea l’esistenza di una precisa corrispondenza tra l’organizzazione
fisica del cervello e l’organizzazione funzionale della mente.
Un terzo assunto della neuropsicologia cognitiva è più intuitivo ma altrettanto importante ed è legato all’idea che
non vi siano differenze significative tra l’architettura anatomo-funzionale delle persone, ovvero che siano assenti
significative differenze individuali nella disposizione e organizzazione dei moduli cognitivi e anatomici.
La figura rappresenta le aree cerebrali danneggiate in persone diverse (una per ogni riga) che mostrano lo stesso
deficit cognitivo. Benché ci siano alcune differenze nel tipo di lesione cerebrale, il coinvolgimento delle medesime
aree neurali (in questo caso la corteccia prefrontale dorsale di sinistra) ha portato tutte queste persone a
mostrare i medesimi deficit cognitivi. Quello che distinguerà una persona dall’altra sarà la gravità del deficit ma
non la sua natura. È evidente che questo assunto è strettamente connesso con l’idea dell’isomorfismo tra
organizzazione fisica del cervello e organizzazione funzionale della mente discusso nella slide precedente.
Un quarto assunto della neuropsicologia cognitiva è quello della costanza, e afferma che il funzionamento mentale
di una persona con danno cerebrale è dato dal funzionamento dell’insieme dei suoi normali sistemi cognitivi, meno
il funzionamento dei sistemi lesi in seguito al danno cerebrale. Questo assunto rimane valido anche qualora un
paziente con danno cerebrale mostri di utilizzare strategie cognitive prima inespresse, a patto che queste
strategie
siano potenzialmente utilizzabili anche da una persona priva di danno. Per la neuropsicologia cognitiva assumere
che in seguito ad un danno cerebrale l’architettura cognitiva, quantomeno quella di un adulto, non vada incontro ad
una generale riorganizzazione funzionale è indispensabile, poiché se questa condizione non si realizzasse
verrebbe meno la possibilità di comprendere il funzionamento dei normali processi cognitivi a partire dallo studio
dei profili di funzionamento delle persone con lesioni

2-Evoluzione e cervello sociale


L’approccio evoluzionistico allo studio della mente

Discuteremo ora del contributo che può dare la prospettiva evoluzionistica allo studio del sistema mente/cervello.
L’ipotesi centrale della Psicologia evoluzionistica è che sia possibile migliorare le conoscenze sul sistema
mente/cervello comprendendo i processi che nel corso della filogenesi ne hanno modellato l’architettura.
Nell’albero filogenetico rappresentato in questa figura si può osservare come l’Homo sapiens anatomicamente
moderno (ovvero la specie alla quale apparteniamo) sia comparso intorno ai 200.000 anni fa (benché ricerche
recenti ipotizzino 300.000 anni) e possiamo anche osservare come prima della sua comparsa vi sia stata una lunga
storia evolutiva di oltre 2 milioni di anni che ha caratterizzato la linea filetica del genere Homo. Un’idea di base
della Psicologia evoluzionistica è che questa lunga storia evolutiva sia importante per aiutarci a comprendere
come è organizzato il sistema mente/cerve.
Secondo la prospettiva evoluzionistica, per comprendere il sistema mente/cervello è importante porsi
domande sulla natura delle pressioni selettive che hanno ricorrentemente agito nel corso della storia
evolutiva del genere Homo e formulare ipotesi sull’architettura della mente umana considerandola come
risultato di queste pressioni.
Le pressioni selettive che hanno accompagnato la nostra evoluzione possono essere viste come problemi
adattativi in grado di selezionare favorevolmente quegli individui che hanno evoluto per selezione naturale sistemi
neuro- cognitivi capaci di dar loro una risposta. Obiettivo principale dello psicologo evoluzionista è quello di
individuare questi sistemi, chiamati anche adattamenti psicologici.
La figura rappresenta un cervello in cui le zone colorate corrispondono ad aree cerebrali capaci di svolgere
specifiche funzioni mentali (come percepire i colori, ricordare un volto o comunicare per mezzo del linguaggio).
L’idea è che queste funzioni si siano evolute per rispondere a specifici problemi adattativi.
In questa e nelle successive 4 slide facciamo alcuni esempi di problemi adattativi che nel corso dell’evoluzione
abbiamo dovuto risolvere.
Il primo esempio è saper chiedere aiuto e protezione in situazioni di percepita vulnerabilità. In una specie come la
nostra, nella quale alla nascita e per un lungo periodo di vita abbiamo un limitato livello di autonomia è stato
importante sviluppare nel corso dell’evoluzione un adattamento che aumenta la probabilità di trovare una figura di
riferimento che ci dia aiuto quando, ad esempio, sentiamo di essere a disagio o in pericolo. Questo adattamento
viene chiamato attaccamento ed è un sistema neuro-cognitivo presente in molti mammiferi e che nella nostra
specie si manifesta, in modi differenti, lungo tutto l’arco di vita.
Un altro esempio di problema adattativo è la difesa della prole, ovvero la protezione dei propri figli dai pericoli al
fine di aumentare la loro probabilità di sopravvivere. L’adattamento che si è evoluto in risposta a questo problema
adattativo viene chiamato accudimento, ed è l’adattamento complementare a quello visto nella slide precedente e
che abbiamo chiamato attaccamento.
Altro esempio di problema adattativo è la scelta del proprio partner, ovvero la scelta della persona con la quale
passare un lungo periodo di tempo della propria vita. Nella nostra specie la capacità di costruire legami affettivi è
fondamentale sia per il benessere mentale sia per quello fisico.
Non meno importante è la capacità di comprendere gli stati mentali delle persone che ci circondano. In una specie
altamente sociale come la nostra questa capacità è fondamentale per poter coordinare le proprie azioni con quelle
altrui. Questo adattamento, che viene chiamato Teoria della Mente o mentalizzazione, si basa in larga parte su
indizi fenotipici come ad esempio il comportamento altrui o l’osservazione di aree particolarmente salienti come il
volto e gli occhi. A partire da questi indizi fenotipici siamo in grado di inferire, in modo implicito o esplicito, ciò che
un’altra persona sta, ad esempio, pensando o le emozioni che sta provando.
Per motivi sempre connessi con la natura altamente sociale della nostra specie, nel corso dell’evoluzione è stato
necessario dare risposta ad un altro problema adattativo: come fare a comunicare con gli altri membri del gruppo
sociale. Visto in questa prospettiva, è possibile pensare al linguaggio come a un adattamento che permette di dare
una risposta a questo problema adattativo.
E’ importante sottolineare come gli adattamenti psicologici, benché fondati su predisposizioni biologiche ereditate
dalla nostra storia evolutiva, non si manifestano necessariamente fin dalla nascita. Alcuni sì, come ad esempio la
preferenza per i volti rispetto a qualunque altro stimolo visivo presente nell’ambiente. Altri no, come il linguaggio,
che richiede tempo perché possa maturare ed essere utilizzato in modo appropriato.
Il punto centrale è che tutti gli adattamenti psicologici, che si manifestino fin da subito o meno, hanno le proprie
radici nel patrimonio genetico della nostra specie e sono il prodotto della nostra storia evolutiva.
Attenzione! Ciò non significa che tra una persona e un’altra non ci siano differenze nel funzionamento mentale,
anzi. Ma per capire cosa differenzia una persona da un’altra bisogna prima capire cosa tutti abbiamo in comune.
Ad esempio, indipendentemente dal fatto che parliamo italiano, inglese, giapponese o francese è importante
riconoscere che tutte le lingue umane rispettano i principi di una grammatica universale, biologicamente fondata,
che soggiace a ciascuna di esse e le rende realizzabili.
Ipotizzare l’esistenza di una natura umana universale da ricercarsi nell’insieme degli adattamenti che
costituiscono la nostra architettura neuro-cognitiva non significa sottovalutare l’infinita variabilità di
manifestazioni comportamentali e culturali di cui è capace l'uomo; significa piuttosto sottolineare come alla base
di queste infinite manifestazioni sia possibile riconoscere l’opera di un numero finito di adattamenti psicologici
basati su predisposizioni biologiche universali che sono patrimonio comune di tutti gli individui della nostra specie,
indipendentemente dalla specifica etnia di appartenenza di ciascuno di noi.

La relazione tra natura-cultura nella prospettiva della psicologia evoluzionistica


Ci occuperemo adesso della relazione tra natura e cultura secondo la prospettiva della psicologia evoluzionistica,
disciplina che abbiamo precedentemente introdotto.
Per iniziare, una domanda. Guarda questo rettangolo e rispondi: come si calcola la sua area? Benissimo, base per
altezza. Ora rispondi a quest’altra domanda: per calcolare l’area del rettangolo diresti mai che la base è più
importante dell’altezza? No! E hai ragione perché se è legittimo chiedersi come si calcola l’area di un rettangolo
non lo è chiedersi se la base sia più importante dell’altezza. Quest’ultima è una domanda mal posta, priva di senso!
Eppure, nella storia della psicologia si sono succedute teorie che hanno di volta in volta assegnato alla natura o
alla cultura un peso prevalente nella spiegazione dei fenomeni mentali. Ma chiedersi se sia più importante la
natura o la cultura nello studio della mente è come chiedersi se sia più importante la base o l’altezza per calcolare
l’area di un rettangolo.
Nel porre l’accento sui meccanismi psicologici che mediano la dimensione biologica con quella del comportamento
manifesto, la Psicologia evoluzionistica rifiuta l’annosa e spesso sterile dicotomia tra natura e cultura, il vano
tentativo di cercare di stabilire quale tra la componente innata e quella ambientale sia prioritaria.
Secondo la prospettiva evoluzionistica, è invece importante individuare gli elementi costitutivi dell'architettura
cognitiva umana (quelli che abbiamo chiamato adattamenti psicologici) e fornire di questi elementi costitutivi
una spiegazione funzionale. Questo è possibile cercando di comprendere a quale problema adattativo incontrato
dai nostri antenati ancestrali ogni singolo adattamento psicologico è una risposta. In altre parole, cercando di
comprenderne la funzione, il perché della sua esistenza.
Detto in altri termini, la Psicologia evoluzionistica tenta di dimostrare che la mente umana è un sistema
complesso composto da un numero ampio ma finito di sistemi neuro-cognitivi, ognuno dei quali modellato dalla
selezione naturale per favorire l’adattamento attraverso l'espletamento di una qualche specifica funzione.
Che il numero degli adattamenti psicologici che formano quella che abbiamo chiamato mente umana universale sia
finito non è un impedimento al realizzarsi delle innumerevoli forme comportamentali che gli esseri umani sono in
grado di manifestare. Gli adattamenti psicologici non impongono schemi rigidi di sviluppo ontogenetico, ma a
seconda del contesto ambientale permettono allo sviluppo individuale di percorrere certe strade piuttosto che
altre.
Per capire questo concetto facciamo un esempio semplice, relativo ad uno degli adattamenti che abbiamo visto in
precedenza: l’attaccamento. Questo adattamento si basa su una predisposizione biologica universale. Siamo
predisposti a chiedere aiuto e protezione ad una figura di riferimento in caso di percepita vulnerabilità. Nei bambini
questa figura è spesso la madre. Ma le mamme non sono tutte uguali e il tipo di risposta che una mamma darà alle
richieste di aiuto del proprio figlio, ovvero il tipo di accudimento che gli fornirà, determinerà certe strade di sviluppo
ontogenetico piuttosto che altre. Una mamma accudente e sensibile tenderà a favorire lo sviluppo di un senso di
sicurezza nel proprio figlio, una mamma poco sensibile o rifiutante tenderà a rendere il proprio figlio insicuro.
Pertanto, sebbene i due bambini qui rappresentati condividano alla nascita la stessa predisposizione biologica,
possiamo dire la stessa natura, il tipo di interazione con l’ambiente, in questo caso il tipo di accudimento fornito
dalla madre, farà sì che i due bambini avranno sviluppi psicologici molto differenti.
Poiché il comportamento umano è generato dall’insieme degli adattamenti psicologici che compongono la mente
umana e poiché, a loro volta, questi adattamenti sono il prodotto della selezione naturale, è ora importante
spiegare brevemente a che cosa ci si riferisce quando si parla di evoluzione per selezione naturale.
Benché non sia stato il primo evoluzionista a tentare di spiegare l’evoluzione delle specie senza chiamare in causa
argomentazioni creazionistiche –ben noti tentativi prima di lui li avevano compiuti ad esempio Georges Buffon e
Jean-Baptiste Lamarck- quella di Charles Darwin è a tuttora l'unica teoria in grado di fornire una spiegazione
dell'evoluzione capace di superare la prospettiva finalistica. Tale teoria fu esposta in modo sistematico nella sua
celebre opera del 1859 L’origine delle specie, tradotta in italiano per la prima volta nel 1864.
Il meccanismo che Darwin ha individuato essere alla base dell'evoluzione è la selezione naturale. La
logica della selezione naturale è tanto semplice quanto potente.
La prima osservazione è che gli organismi che appartengono ad una determinata specie non sono identici tra loro
ma presentano variazioni fenotipiche individuali, ovvero differenze nell’espressione morfologica, fisiologica e
comportamentale.
Il secondo aspetto rilevante è relativo all’adattamento differenziale, ovvero all’osservazione che alcune delle
variazioni fenotipiche individuali possono influire meglio di altre sulle capacità di adattamento, ovvero sulle
capacità di rispondere ai problemi adattativi.
Infine, il terzo aspetto è relativo all’osservazione che i tratti varianti che influiscono positivamente sulle capacità di
adattamento tendono a riapparire nelle generazioni successive a discapito delle varianti che ostacolano
l’adattamento.
Qualunque sistema che soddisfi questi principi è soggetto a selezione naturale.
È peraltro interessante notare, a dimostrazione della straordinarietà intellettuale di Darwin, che la spiegazione della
selezione naturale da lui proposta non poté fondarsi su concetti come quelli di gene o di variazione genetica.
Quando nel 1859 Darwin pubblicò l'Origine delle specie, infatti, Mendel non aveva ancora esposto le sue
fondamentali leggi sulla ereditarietà (cosa che fece nel 1866) e la genetica moderna non era neanche allo stato
embrionale (il termine genetica fu introdotto da William Bateson nel 1906 e il concetto di gene da Wilhem
Johanssen nel 1909, esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione dell'Origine delle specie).
In questa slide è illustrata una rilettura su base genetica della selezione naturale, frutto della cosiddetta sintesi
moderna, che, a partire dagli anni ’30 del Novecento, ha unito in un quadro unificante la teoria dell’evoluzione per
selezione naturale con i principi della genetica.
L’idea di base è che le variazioni individuali a livello del fenotipo siano causate da variazioni casuali a livello del
genotipo.
Alcune delle modificazioni fenotipiche possono influire meglio di altre sulle capacità di adattamento degli
organismi che le possiedono.
Maggiore è l’adattamento all’ambiente di un organismo, maggiore sarà la sua probabilità di sopravvivere e di
trasmettere il proprio patrimonio genetico alle generazioni successive.
Le variazioni genetiche casuali sono ciò su cui opera la selezione naturale. È a partire dalle variazioni genetiche
casuali che la selezione naturale modella attraverso un processo cumulativo tutte le forme della vita sulla Terra.
Per processo cumulativo si intende un processo piuttosto lento che permette la graduale evoluzione delle varie
forme di vita. Il processo è lento perché le variazioni genetiche sono casuali e pertanto non sono orientate verso
un fine.
Nell’immagine di destra vediamo come da un antenato ancestrale comune si siano evolute per selezione naturale
varie specie di fringuelli delle Galapagos, uccelli molto studiati dallo stesso Darwin. Ognuna delle diverse specie di
fringuelli ha sviluppato nel corso dell’evoluzione tratti fenotipici adattati alla specifica nicchia ecologica nella quale
si è evoluta. La forma dei loro becchi, ad esempio, varia tra specie e specie in ragione del tipo di cibo disponibile e
degli sforzi necessari per procurarselo.
Anche se si potrebbe erroneamente pensare che la comprensione dei processi di evoluzione per selezione
naturale abbia poco a che fare con la comprensione di come funzioni e di come sia organizzato il sistema
mente/cervello, nel prossimo modulo vedremo quanto il rapporto tra queste due aree del sapere sia intimo.

L’ambiente di adattamento evoluzionistico e l’ipotesi del cervello sociale


Abbiamo concluso il modulo precedente sottolineando come i processi alla base dell’evoluzione di ogni forma di
vita siano piuttosto lenti. Abbiamo detto che ciò è prevalentemente dovuto al fatto che la selezione naturale opera
su variazioni fenotipiche individuali prodotte da variazioni genetiche casuali, ovvero da variazioni che non sono
orientate verso un fine.
Come ora vedremo, questa osservazione ha grande importanza anche per lo studio del sistema mente/cervello e
per la comprensione di come si sia evoluto.
Il fatto che i tempi occorrenti perché emerga un nuovo adattamento siano molto lunghi implica, infatti, che quando
si cerca di comprenderne la natura e la funzione non lo si possa fare sulla base dello stile di vita che attualmente
conduciamo, ma bisogna farlo considerando in risposta a quale problema adattativo incontrato nel corso
dell’evoluzione quello specifico adattamento psicologico è una risposta.
In sostanza, ciò che è importante considerare quando si indaga un fenomeno in una prospettiva evoluzionistica è il
tipo di condizioni ambientali in cui quel fenomeno si è evoluto.
La stragrande maggioranza del proprio tempo evoluzionistico gli individui appartenenti al genere Homo l’hanno
trascorso in gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori.
Queste foto, e quelle della slide successiva, sono relative a persone appartenenti ad alcune delle oramai
ridottissime etnie nomadi che ancora oggi sono dedite alla caccia e alla raccolta.
Questo tipo di organizzazione sociale ha caratterizzato la storia evoluzionistica del genere Homo durante tutto il
Pleistocene e ha lasciato il posto solo negli ultimi 10.000 anni a un differente rapporto con l'ambiente, rapporto che
si è consolidato solo negli ultimi 5.000 anni, portando a un’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento e a
un’organizzazione sociale sempre più caratterizzata dal costituirsi di nuclei urbani stabili e popolosi.
Queste considerazioni introducono al concetto chiave di Ambiente di Adattamento Evoluzionistico. Questo concetto
è stato originariamente introdotto dallo psicologo inglese John Bowlby all’interno della teoria dell’attaccamento per
spiegare il valore adattativo e la natura del legame affettivo che si stabilisce tra la madre e il proprio figlio.
Per quanto riguarda la nostra specie, l’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico viene fatto coincidere con il
Pleistocene, un periodo geologico iniziato circa 2,5 milioni di anni fa e terminato circa 11.000 anni fa con la fine
dell’ultima grande glaciazione, condizione ecologica, quest’ultima, che ha permesso la progressiva comparsa e
diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento e il conseguente progressivo abbandono della condizione di cacciatori-
raccoglitori nomadi.
Si guardi ora la linea rappresentata nella slide e si immagini che rappresenti una linea del tempo lunga 2,5 milioni
di anni (ovvero tutta la storia evoluzionistica degli individui appartenenti alla nostra linea filetica dalle origini fino
a oggi). Ebbene, gli ultimi 10.000 anni (il tempo trascorso dalla comparsa dell’agricoltura e dei primi gruppi umani
stanziali) non sono neanche l’ultimo millimetro della linea, un tempo infinitesimale.
Queste considerazioni sui tempi evoluzionistici sono importanti in quanto aiutano a capire per quale motivo non
possiamo aspettarci che nella nostra mente si siano evoluti adattamenti in grado di affrontare i problemi sollevati in
tempi successivi alla comparsa dell’agricoltura o addirittura dell’industrializzazione. Questo non è stato possibile
semplicemente perché non c’è stato il tempo.
Ciò che gli psicologi evoluzionisti sostengono è dunque che il tempo trascorso a partire dalla comparsa
dell’ambiente contemporaneo, caratterizzato da nuclei urbani stabili e popolosi, è enormemente inferiore rispetto
al tempo che gli individui della linea filetica del genere Homo hanno trascorso entro organizzazioni sociali molto
differenti da quelle attuali.
Di conseguenza si ipotizza che non sia possibile comprendere appieno la natura di un qualsiasi adattamento
psicologico senza fare riferimento al tipo di problemi adattativi incontrati nel nostro Ambiente di Adattamento
Evoluzionistico.
In altri termini, possiamo ora dire che i singoli adattamenti psicologici devono essere studiati in funzione del
contributo dato da ciascuno di essi alla sopravvivenza individuale nell’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico.
Ma considerando che l’ambiente nel quale oggi tutti noi viviamo sembra essere così differente da quello di
Adattamento Evoluzionistico, come mai non ci siamo estinti?
Le risposte a questa domanda sono molteplici, ma se ragioniamo in termini evoluzionistici possiamo comprendere
come in realtà l’ambiente attuale sia molto meno differente dall’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico di quanto
si potrebbe essere indotti a pensare ad una prima superficiale considerazione. Benché nell’Ambiente di
Adattamento Evoluzionistico non ci fossero automobili per muoversi, antibiotici per curarsi o computer per
navigare in Internet, molte delle caratteristiche salienti presenti nell’ambiente di allora continuano ad essere
presenti e attive oggi.
Quali sono queste caratteristiche?
Eccole: sono caratteristiche di natura sociale. Ora come allora siamo infatti immersi in una dimensione sociale
interpersonale che comprendere individui del nostro e dell’altro sesso, facce che esprimono emozioni, potenziali
partner da corteggiare, fratelli e sorelle, madri alle quali chiedere protezione in caso di pericolo e figli da accudire,
coetanei con i quali giocare, individui con i quali cooperare o competere, gesti altrui da prevedere e comprendere,
azioni da coordinare con quelle delle altre persone.
Se l’ambiente contemporaneo fosse stato troppo diverso dall’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico la nostra
specie si sarebbe estinta, poiché gli adattamenti di cui è dotata non sarebbero stati più in grado di garantire la
sopravvivenza individuale. In realtà, viviamo in un ambiente sociale per moltissimi aspetti simile a quello
dell’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico. E molti dei nostri adattamenti psicologici si sono evoluti proprio per
rispondere ai problemi adattativi posti da questo ambiente sociale.
Nel prossimo modulo vedremo le importanti implicazioni che discendono da quanto ora discusso.

3- Psicologia clinica: le origini


3.1 prima della psicologia clinica
Gli antichi IPPOCRATE di KOS
Ippocrate di Kos (460-377 a.C.), viene considerato il padre della medicina.
Egli tenterà di ricondurre a leggi naturali (e quindi alla loro conoscenza e comprensione, vedi teoria umorale) ogni
fenomeno di malattia, ivi compresa la malattia psichica, in aperta rottura epistemologica con la tradizione
precedente di orientamento sacerdotale che vedeva nella malattia l’intervento punitivo del divino per atti
commessi o omessi.
Si può delineare un ipotetico filo di continuità che, attraverso i secoli, caratterizzerà la dominanza della visione
ippocratica di malattia dall’antica Grecia al secolo XIX.
La visione del sintomo psicopatologico in qualità di prodotto di un’alterazione somatica appare dominare lo sviluppo
della disciplina, con rare eccezioni, sostanzialmente dall’antichità ai giorni nostri.
Di seguito un'intervista impossibile fatta ad Ippocrate.
javascript:apri('http://www.teche.rai.it/2015/03/intervista-impossibile-a- ippocrate/');
In età romana, benché su assunti fondati su di una migliore e più approfondita conoscenza dell’organismo umano,
il nesso di causalità fra disordine somatico e sintomatologia psicopatologica manterrà la centralità della
riflessione su eziopatogenesi e cura.

Conosciuto per il giuramento di ippocrate. Considerato il padre della medicina, si differenzia dagli altri perché, da
un lato, cerca di dare un’impronta naturalistica spostandosi dall’attribuzione delle cause di sofferenza dalle
divinità alla natura, dall’altro perché lascia degli scritti in merito alle sue esperienze in relazione ai suoi pazienti.
Scopre che gli esseri umani stanno male anche dal punto di vista psicologico e in ciò formula delle ipotesi sulle
cause. La più nota è la teoria umorale, cioè che la salute degli individui sia rappresentata da quattro fluidi del
corpo che sono il sangue, il flemma, la bile gialla e la bile nera. Di conseguenza la malattia è il risultato di un
disequilibrio tra questi liquidi.
Predominanza del sangue = sanguigno (agisce prima di pensare) Predominanza
del flemma = flemmatico (riflette prima di agire) Predominanza della bile nera =
melanconico (prototipo della depressione)

Descrisse per primo la sintomatologia relativa all’isteria (utero a spasso) l’utero si spostava dalla propria sede e
determinava modificazioni nel comportamento dell’essere umano.

Il medioevo
L’influenza della dottrina di Galeno sulle epoche successive fu talmente importante da indurre i suoi seguaci a
mettere in pratica i suoi insegnamenti piuttosto che sottoporli ad evidenza sperimentale o a continuarne la
tradizione di ricerca.
Il successivo Medio Evo appare interessante per due aspetti: da un lato, il mutamento di punto di vista rispetto
all’età classica, in direzione di un ritorno al ricorso dell’intervento divino o demoniaco, dall’altro, la profonda
commistione di culture, lingue, tradizioni, religioni che tale epoca storica ha rappresentato per l’Europa. E’ al
medio evo che si fanno infatti risalire il tramonto della supremazia della cultura e dei modelli di organizzazione
sociale di impronta greco-romana a vantaggio del patrimonio veicolato in Europa dalle cosiddette invasioni
barbariche, portatrici di tradizioni e culture profondamente dissonanti e talvolta antagoniste rispetto alla memoria
classica.

La lenta caduta dell’Impero Romano (476-1492) sembrò precorrere la fine stessa della civiltà determinando un
ricorso alla religione cristiana quale unica e certa risposta alle domande fondamentali. Questa età della fede durò
oltre 1000 anni.

Galeno e Vesalio
Galeno di Pergamo ha avuto influenza nelle conoscenze e sull’approccio medico. Era medico dell’imperatore e dei
gladiatori. Ha lasciato oltre 100 scritti. Pur avendo approcciato il metodo di Ippocrate di natura umorale aveva molta
più esperienza anatomica grazie alla sua esperienza come medico e ha dunque unito questi aspetti. Un altro
motivo della sua importanza è che aveva accettato il concetto di pneuma in riferimento ad un unico dio creatore.
Questo concetto non era ben accolto per via della religione politeista dell’epoca in ambito greco-romano. Egli
attribuisce dunque le caratteristiche dello spirito vitale e dello spirito naturale animale ad un unico dio. Per tutto il
medioevo la possibilità di acquisire nuove conoscenze scientifiche è stata messa in discussione. L’unico aspetto
medico che veniva accettato è rappresentato da Andrea Vesalio grazie ad un trattato anatomico in cui metteva in
discussione la fisiologia di Galeno (pubblicato nel 1543, stesso anno della pubblicazione dell’opera di Copernico
che mette al ceno il sistema solare).

Cominciano a muoversi delle conoscenze scientifiche anche se la chiesa non ne permetteva ancora la diffusione
dal momento che andavano contro il pensiero religioso. Si cominciano però a mettere in discussione i capisaldi
culturali dell’epoca. La malattia è dovuta, non soltanto alla possibilità che il demonio entri ed interferisca con il
funzionamento delle persone, ma che queste ne abbiano la colpa perché si sono allontanate dalla divinità.

Età dei lumi: Philippe Pinel


La figura di Pinel rappresenta una vera e propria controversia nello studio e nell’interpretazione dei fatti storici e
psichiatrici. Se, da un lato, è (anche) grazie al suo contributo che la plurimillenaria linea di continuità culturale di
natura organicista viene messa in discussione, a vantaggio di una approccio “altro” alla malattia mentale, d’altro
canto è innegabile come la figura di questo medico e psichiatra parigino rappresenti la nuova concezione
professionale della psichiatria, sia in termini di cura che di custodia del malato di mente

Nel medioevo, se si era diversi, si rischiava di essere tracciati. Verso la fine del medioevo, grazie alla rivoluzione
copernicana e agli studi di Vesalio applicati anche ai fenomeni patologici umani, si lascia spazio al fatto che si
possano cercare le ragion dei fenomeni attraverso metodi scientifici. Questo mutamento dà inizio all’Età della
Ragione o Illuminismo.
Un autore che ne fa parte è Michael Focault che collega l’Illuminismo con la psicopatologia, mettendo al centro
delle sue riflessioni la clinica, ovvero le regole che l’uomo si è dato per far fronte al malessere degli altri individui.
Un uomo fondamentale è Philipp Pinel che opera da il 1745 ed il 1826. Rappresenta una vera e propria controversia
nello studio nell’interpretazione di fatti storici e psichiatrici. Se, da un lato, è (anche) grazie al suo contributo che
la linea di continuità culturale di natura organica viene messa in discussione, a vantaggio di un approccio “altro”
alla malattia mentale, dall’altro è innegabile come la figura di questo medico e psichiatra parigino rappresenti la
nuova concezione professionale della psichiatria, sia in termini di cura che di custodia del malato di mente. Er un
medico che lavorava nell’ospedale generale di Parigi, un aggregato di sofferenze. Egli comincia ad occuparsi dei
pazienti con metodo scientifico, è uno dei primi che crea una tassonomia dei disturbi mentali, una complessa
classificazione dei disordini psicopatologici.
Distingue innanzitutto coloro che soffrono di un disturbo mentale da coloro che hanno altri problemi,
interessandosi ai primi. Inoltre, distingue tra coloro che soffrono per un disturbo psichico di natura organica, da
coloro che soffrono per un disturbo psichico non organico (cioè nevrosi) ma per motivi altri quali traumi, incapacità
di controllare le passioni, motivi immorali. Nell’immaginare che le persone potessero star male indipendentemente
dai dolori fisici si inaugura qualcosa che non era mai stato pensato, cioè che le malattie mentali potessero essere
curate, non attraverso pratiche di natura fisiche come salassi o erbe ma attraverso la relazione con il medico. In
questo modo il ruolo del medico assume una connotazione di natura relazionale, cioè entra in relazione con il
paziente con il quale instaura un dialogo. Nessuno mai aveva approcciato la malattia mentale attraverso le parole,
Pinel lo chiama trattamento morale. Aveva fato così un grossissimo salto in avanti.
Nella misura in cui Pinel si accorge della tipologia di persone presenti nell’ospedale generalesi rende conto
dell’inadeguatezza del luogo per coloro i quali soffrono di malattia mentali. Con Pinel nasce così il manicomio,
luogo in cui si rifugiano le persone con disturbi psicopatologici. Focault ci racconta però la storia della chiusura
dei manicomi, istituzioni che non hanno svolto il proprio ruolo adeguatamente: il paziente veniva lasciato a se
stesso, le disponibilità dei medici erano insufficienti rispetto ai bisogni dei malati, luoghi di aggregati di persone
affette di grave sofferenza. Tutti questi motivi hanno portato a movimento anti-manicomio che, a loro volta,
portarono alla fine alla chiusura di questi istituti. Nonostante ciò l’innovazione e la scoperta di Pinel diede un
grande contributo alla psicologia.
E.Kraepelin
Il manicomio di Rieti
Pinel gestiva un spedale generale, si accorge dell’esistenza dei malti di mente e propone di occuparsene
inaugurando una nuova relazione medico-paziente. Contemporaneamente a lui Josefa Gallo si inserisce dal punto
di vista culturale sostenendo che si possono applicare le regole della ragione alle regole della scienza. Arriva a
conclusioni diverse rispetto a Pinel, inventa la frenologia, una pseudo scienza che ipotizza che la forma e le
dimensioni del cranio rappresentano la forma del contenuto, cioè il cervello. Sulla scorta di un attento esame si
possono inferire caratteristiche caratteriali psicopatologiche. Tendeva a dimostrare la supremazia della razza
inglese sulle colonie imperiali, e successivamente dei vari programmi di eugenetica. Un suo seguace fu Cesare
Lombroso che fondo l’antropologia criminale.
Gall è stato il primo localiziazzionista cioè i che ipotizza che il cervello sia un’unità complessa dove le singole
parti adempiono ad una specifica funzione psichica. Contemporaneamente a lui, Flourens ipotizza una visione
globalista, il cervello funziona come un tutt’uno, le diverse componenti interagiscono tra loro per produrre un
comportamento .
Gall: cervello è una somma di organi distinti
Fluorens: cervello è una somma di funzioni che appartengono ad un solo organo.

Emil Kraepeelin, contemporaneo di Freud, affronta la malattia mentale in maniera opposta. Si basa sullo spirito del
tempo, sulla scoperta dell’afasia, l’incapacità di produrre o comprendere il linguaggio a causa di lesioni cerebrali.
Contemporaneamente si scopre che la neurosifilide provoca una serie di effetti tra cui la degenerazione del
sistema nervoso centrale di cui si scopre la causa di un batterio. In questo contesto si inserisce Kraepelin il quale,
sulla base delle scoperte appena descritte, sostiene che è possibile scoprire tutte le cause che sottostanno alla
malattia mentale, poiché questa deriva da un danno al cervello. Egli, consapevole dell’insufficienza delle
conoscenze e delle strumentazioni diagnostica presenti all’epoca, confida che un’accurata tassonomia, che sappia
distinguere la psicopatologie fra di loro, costituisca la base per la comprensione della malattia mentale, in attesa
che la scienza sappia fornire le risposte mancanti.
Definì per primo la dementia praecox. È stato un autore estremamente importante, ha influenzato non solo le
conoscenze, ma anche il modo in cui bisogna cercare le case della malattia mentale, essendo il fondatore della
moderna psichiatria biologistica, scoprendo le alterazioni biologiche c’è sottostanno ai diversi disturbi
psicopatologici.

3.2 la nascita della psicologia scientifica


Introduzione- La nascita della psicologia clinica
Si verificano delle condizioni favorevoli che hanno posto le basi alla nascita della psicologia. La psicologia come
scienza fruisce di alcuni movimenti politici e culturali della fine del ‘700 tra cui:
-la crisi della religione come spiegazione unica dei fenomeni (Copernico, Galileo)
-consolidamento del punto di vista empirista che si era occupato della legittimità della conoscenza del
mondo attraverso l’esperienza sensoriale.
-consolidamento del clima illuministico, fondamentale la letteratura europea che tratta temi fondamentali
dell’epoca e rappresentava le condizioni umane reali.
-maggiore attenzione ai temi della diseguaglianza. Al tempo stesso si stava consolidando la necessità morale
di farsi carico di queste profonde diseguaglianze sociali, della morte prematura o infantile, di sofferenze varie
ecc.
Tutte queste condizioni hanno posto le basi affinché si potesse sviluppare la psicologa.
La nascita della psicologia scientifica si può far risalire alla Germania, stato europeo più potente
dell’epoca. Siamo nel 1879, anno in cui Wilhelm Wundt fonda a Lipsia il primo laboratorio di psicologia
sperimentale. La data è molto controverso, sia per la precisione temporale, sia per il fato che la Prussia era
dominante anche dal povero culturale con un sistema informativo ben organizzato. Pertanto molte figure, maestri
di Wundt come Fechner e Von Helmholz, avevano iniziato già ad occuparsi di psicologia.

Wundt definisce quale sarebbe stato l’approccio alla psicologia che si sarebbe utilizzato all’interno del suo corso e
il paradigma sperimentale utilizzato. Descrive il sup approccio alla psicologia sperimentale innanzitutto come
limitato alla coscienza dell’essere umano ed afferma che il suo laboratorio non avrebbe mai analizzato qualcosa
che non fosse misurabile ed osservabile. Inoltre rifiuta qualsiasi compito applicativo della psicologia sperimentale
cioè afferma che lo studio della psicologia attraverso il metodo sperimentale sarebbe dovuto rimanere
accademico e inutilizzabile nelle relazioni umane. È un’affermazione molto forte che delineerà una frattura
all’interno del modo di definire la psicologia stessa ma anche dal punto di vista sperimentale.
Un altro passaggio è in relazione agli Stati Uniti in cui, fino al 1870 le università erano molto lontane dalle
università europee, erano principalmente legate alla chiesa e orientate alla formazione umanistica e teologica.
Accade però che la popolazione americana aumenta e consegue la ricerca di nuovi spazi (la cosiddetta “corsa al
west2) e la conquistata di tutto il territorio americano. Gli Stati Uniti sono così caratterizzati da un notevole
sviluppo economico e militare. Al contempo le forte ondate di migrazione dall’Europa, la valorizzazione del
contributo che ogni essere umano avrebbe potuto dare era molto importante. Diedero una grande spinta. Si crea
un clima altrettanto favorevole allo sviluppo della psicologia, diversa però da quella tedesca, cioè la psicologia
applicata; applicata dunque ai problemi reali degli esseri umani. Si sviluppa il metodo clinico, termine inventato da
Wilhelm Windelband che usa due parole:

-metodo nomotetico fondato sulla generalizzazione delle scoperte che avvengono osservando sistematicamente
degli eventi che si ripetono.
-metodo idiografico si contrappon al primo metodo, è lo studio delle caratteristiche specifiche di un singolo
evento e che differenziano quel singolo evento da tutti gli altri eventi
Alla base della psicologia sperimentale di Wundt c’è un approccio ideologico epistemologico c’è il metodo
nomotetico. In opposizione a ciò, il metodo clinico viene usato da Freud, Janet, Piaget, Darwin, Itard.

Wundt e James
Il metodo di Wundt è importante per l’analisi dell’effetto che gli stimoli di natura percettiva/sensoriale hanno sugli
individui e del modo in cui essi reagiscono. Questo metodo ha prodotto importanti risultati, tuttavia questo non è
l’unico metodo.
Un altro autore che si contende la nascita della psicologica scientifica attraverso un laboratorio di psicologia è
William James. Era di origine irlandesi, ricco di famiglia e aveva idee di natura socialista, in linea con lo spirito
della promozione del benessere dell’essere umano, dell’uguaglianza. Nel corso della sua gioventù aveva sofferto
ripetutamente di episodi depressivi. Questo e la sua inclinazione politica hanno avuto un notevole ruolo nel suo
approccio allo studio affidato più alla propria esperienza personale e all’introspezione che alla verificabilità del
metodo scientifico. Pubblicò nel 1890 “I principi di psicologia”.
Il suo approccio è visto come un modo di intendere la psicologia scientifica come un’indagine anche
dell’esperienza soggettiva dell’essere umano, delle sue scelte e della sua concezione di sé.Se da un lato aspetti
della psicologia si sono evoluti attraverso l’approccio sperimentalistico di Wundt, con James si inaugura un altro
approccio e un’altra scuola.
Nel medesimo periodo si diffonde l’influenza di Charles Darwin (1809-1882) il quale, attraverso l’elaborazione del
concetto di selezione naturale, apre le porte allo studio dei meccanismi di adattamento (oltre che dei caratteri
somatici). Il suo pensiero influenza sia lo strutturalismo wundtiano che il funzionalismo americano di James
soprattutto per lo slancio ai lavori di misurazione dei tratti psicologici di Galton e Cattel. Lo studio delle emozioni
condotto da Darwin in prima persona pone le basi per lo sviluppo dell’etologia e della psicologia animale
comparata.

William James

In continuità con la tradizione positivistica Wundt asserì che la psicologia non avrebbe trattato argomenti che non
avessero potuto essere verificati attraverso dati osservabili, definì quindi una scienza sperimentale applicata alla
sfera della coscienza.
W. James, benché contemporaneo a Wundt approcciò la nuova disciplina in maniera meno definita e, nonostante
avesse scritto un volume molto bello e capillarmente diffuso, I Principi di Psicologia (1890), fece affidamento più alla
propria esperienza personale e all’introspezione che alla verificabilità del metodo scientifico.
Il confronto tra i due padri si risolse a favore del primo con il passaggio di James dalla I cattedra di psicologia nord
americana a quella di filosofia. Ciononostante l’influenza di W. James sulla nascita della Psicologia Clinica fu
superiore alla sua influenza sulla nascita della Psicologia tout court!

Autori principali che hanno dato luogo alla nascita della psicologia scientifica:
Darwin, Galton e Cattell
Darwin è il padre della teoria dell’evoluzione e della biologia. Connesso a lui è un suo parente cioè Sir Francis
Galton,che è stato esploratore, antropologo e climatologo britannico. In particolare si è occupato della eugenetica
cioè la sua convinzione che l’intelligenza è ereditabile. Nel corso dell’evoluzione dell’essere umano, si verifica una
selezione di caratteristiche temperamentali e comportamentali di tipo intelligente, che porta a migliorare la
progenie dell’essere umano. Fu anche un famoso antropometrista cioè uno studioso che immaginava di poter
desumere delle caratteristiche psicologiche dell’individuo attraverso la misurazione di alcune caratteristiche
fisiche. Nonostante ciò è diventato famoso e rilevante perché possiamo sostener che sia diventato il padre
fondatore della psicometria cioè l’introduzione dell’impiego di metodi statistici per la misurazione psicologica. La
sua importanza viene fuori non tanto dalle sue teorie quanto con coloro i quali presero spunto dalle sue teorie. La
macchina di Galton è la dimostrazione di come sui grandi numeri la distribuzione delle caratteristiche avviene in
maniera normale.
Alfred Binet ha il merito di aver fondato il primo laboratorio di psicologia francese. Differentemente da Galton che
procedeva ad una misurazione quantitativa delle caratteristiche psicologiche, aveva invece insistito sulla
distinzione qualitativa. Cioè la diversa rappresentazione dei fenomeni. Integra cosi l’approccio quantitativo in
psicologia con un approccio di natura qualitativa. Propone inoltre degli strumenti per la misurazione di alcune
caratteristiche psicologico attraversi dei test che hanno l’obbiettivo di valutare l’attenzione, la memoria, la
comprensione attraverso una scala chiamata Binet-Simon del 1908. Questa versione non è però molto famosa ma
le sue successive versioni, è però importante perché introduce per la prima volta il termine età mentale.

Edoardo Boncinelli- sulla teoria dell’evoluzione ed il rapporto mente/cervello


Il neo darwinismo con tutti gli sviluppi degli anni ha portato una rivoluzione nella scienza e nel nostro modo di
vedere e pensarci nel mondo. Questo sviluppo no era all’inizio visto di buon occhio, dal punto di vista scientifico
non c’era alcun dubbio che il darwinismo recente, chiamato neodarwinismo sia LA teoria evolutiva e l’unica che un
biologo accetta. I punti essenziali di questa teoria sono due:
-tutti gli esseri viventi oggi derivano tutti da un gruppo di organismi primordiali vissuti quasi 4 miliardi di anni
fa sulla terra.
-la spiegazione di come ciò è successo. Con solo due forze in campo Darwin lo spiega : la continua presenza di
nuove varianti, che oggi chiamiamo mutanti, e l’azione che l’ambiente esercita su una popolazione
necessariamente eterogenea premiando qualcuno e punendo altri nella maniera di concedere una parola più larga
a certi e più stretta o nulla ad altri.
Con queste sole ipotesi Darwin ha pensato di spiegare tutto il processo evolutivo. Da quel momento in poi
sono cambiate tante cose ma il nocciolo è rimasto sempre lo stesso.
Se usciamo dal campo scientifico non c’è dubbio che la teoria presenta degli aspetti difficilmente digeribili.
Innanzitutto anche se parliamo di animali resta il fatto che il grande regista è il caso. Questo a noi essere umani
non piace perché istintivamente pensiamo che quello che accade è conseguenza non di qualcosa ma di qualcuno,
ciò di un progetto. Ci viene naturale ma ciò è il punto di partenza non quello di arrivo. Quello che ci riesce più
difficile da accettare è l’evoluzione dell’essere umano, non quella animale. Basta pensare che tutti gli uomini
hanno definito se stessi umani non tutti gli altri uomini. C’è ancora la tendenza di considerare uomini quelli che
stanno parlando e non tutto il resto. Quindi l’idea che l’uomo si trova essere messo sullo tesso piano come origine
di tutti gli altri animali. Una forza dentro di noi non ha proprio potuto accettare questo fatto. Se vogliamo
considerare la mente come prodotto dell’evoluzione dobbiamo prima pensare che la mente ha una base biologica.
Sostenere che la mente è qualcosa di aggiunto al cervello è assurdo. Nel linguaggio quotidiano va bene usare un
linguaggio non biologico ma bisognerebbe sapere che dietro non c’è solo questo. Si dovrebbe superare questa
resistenza e pensare che la mente sia l’insieme delle attività cerebrali superiori e che ha sede nel cervello e non
potrebbe esistere senza tale. Non è affatto scontato rispondere alla domanda di come si è sviluppato il cervello.
Dove sta la nostra specificità? Secondo Bonicelli tutto sta nell’estrema complessità della nostra corteccia
cerebrale.

Janet e Freud- riflessioni conclusive


Mentre Binet e Galton si stanno occupando della valutazione psicometrica delle caratteristiche individuali
contemporaneamente in Francia, ma non solo, altre perone si occupano del problema delle malattie mentali. Uno
di questi è Pierre Janet che si occupa prevalentemente all’approfondimento de ruolo degli eventi traumatici nei
fenomeni psicopatologici e delle caratteristiche inconsce dei incordi ad essi relativi cioè di come i ricordi di un
event traumatico possano causare delle sofferenze psichiche. Successivamente Freud viene influenzato dal
pensiero di Janet.
La psicologia nasce come approccio scientifico ai problemi relativi all’anima e alla natura dell’uomo che da
tempo interessavano il pensiero filosofico e che avevano trovato nell’empirismo un metodo discontinuo alle
tradizioni teologiche precedenti. In questo periodo grazie ad alcune teorie ci si può occupare della psiche in
termini scientifici attraverso due metodologie:
- approccio nomotetico: metodo scientifico che si fonda su di un’epistemologia nomotetica che ricerca leggi
generali esplicative dei singoli fenomeni studiati sistematicamente nel loro ripetersi

- approccio ideografico: metodo clinico che si fonda su di un’epistemologia ideografica che tende a costruire
leggi generali sull’indagine di fenomeni la cui caratteristica è di essere singolari e particolari.

Le persone in questo campo hanno adottato o l’uno o l’altro approccio considerandoli come contrapposti mentre
la psicologa clinica non può che prendere in considerazione entrambe le metodologie perché da un lato i clinici si
occupano di individui per cui è impossibile prescindere da caratteristiche specifiche di ogni individuo (la
sofferenza, la preferenza ecc). D’altro canto nessun clinico può prescindere dalla definizione e descrizione delle
leggi generai che governano i processi psicopatologici. I due approcci sono dunque imprescindibili e integrati. I due
approcci e la non completa divisione dell’oggetto di interesse tra psicologia e psicologia clinica, condurranno a
professioni e luoghi diversi di impiego degli autori in esse implicati, in qualche modo biforcando lo sviluppo
unitario delle discipline psicologiche.
I due approcci davano risultati diversi, da una parte la ricerca scientifica all’interno dei laboratori di psicologia
soprattutto presente nelle università, dall’altro il focus sui bisogni reali delle persone che manifestavano la
sofferenza e che dovevano essere curati. All’inizio del secolo dunque coloro che si occuperanno dell’essere umano
lo faranno attraverso delle metodologie che inizialmente erano ben distinte. La psicologia moderna è l’esito
dell’integrazione tra i due approcci, dei diversi oggetti di indagine e delle diverse finalità conoscitive.

Tiriamo le fila
Si attribuisce la nascita della psicologia ad un determinato clima di sviluppo, l’illuminismo della fine del ‘700 che ha
consentito per la prima volta l’applicazione del metodo scientifico allo studio della mente. È lo studio della mete che
riflesse su se stesa, l’osservatore e l’osservato coesistono. Abbiamo analizzato la nascita della disciplina
attraverso i padri fondatori della disciplina come Wundt e James e tutti gli altri.

3- Psicologia Clinica: la nascita

Introduzione
La psicologia clinica si fonda su quattro pilastri fondamentali (chiamati tradizioni o prospettive):
- la tradizione psicometria, ovvero la misurazione delle caratteristiche psicologiche e cognitive.
- la tradizione psicoterapeutica ovvero il trattamento della malattia mentale e della sofferenza
psichica ovvero la cura dei fenomeni psicopatologici.
- Il ruolo degli psicologi nelle cliniche psicologiche, nei riformatori, nei manicomi.
- lo sviluppo della professione psicologica in quanto comunità professionale.

Il contesto storico di inizio ‘900


Da Reisman (1999 p. 23):
«La tendenza predominante del secolo XIX fu quella del miglioramento delle condizioni sociali sulla base dei diritti
e della dignità dell’individuo. Tale tendenza era radicata a tutti i livelli. Dalla letteratura venne l’idea che le persone
di tutte le classi sono sensibili, appassionate, tormentate e degne di rispetto, simpatia e assistenza se oppresse.
Dalla scienza vennero scoperte empiriche e teorie che sfidavano le credenze religiose e tradizionali, confutando
l’esistenza di distinzioni e differenze innate. Dai governi vennero riforme in larga misura ispirate all’accettazione di
un più ampio concetto di responsabilità sociale. Questi sviluppi fornirono il sostrato di valori su cui la psicologia
clinica, come scienza e come professione terapeutica, potè nascere e crescere».
Sosterremo quindi che la storia delle psicologia clinica, coincide con quella degli psicologi clinici in qualità
psicologi interessati all’ambito applicativo specifico che ne costituisce l’oggetto.

La tradizione psicometrica
Ci occuperemo degli psicologi in qualità di costruttori, somministratori di test psicologici e misuratori delle
caratteristiche psicologiche degli individuo. Alcuni dei padri fondatori sono Galton, Binet e altri che hanno
inaugurato questa stagione come Cattel, Spearmn, Terman ecc. Siamo negli Stati Uniti nell’inizio del ‘ 900 in cui
immigrava una grande quantità di persone. Gli Stati Uniti si stavano espandendo, grande era il boom economico.
L’emigrazione verso gli Stati Uniti è importate per quanto riguarda lo sviluppo della professione degli psicologi
anche in riferimento ad Ellis Island, un’isoletta presso New York e posto in cui tutti gli immigrati erano sottoposti a
delle visite e a delle prove per selezionare delle caratteristiche. Oltre ai medici erano presenti anche i psicologi.

Il condizionamento classico o pavloviano


Nel 1903 Ivan Pavlov porto a termine un esperimento per provare l’esistenza del riflesso condizionato negli
animali. Parti dal dal presupposto che nel cane è. Presente un riflesso incondizionato della salivazione ogni volta
che che gli viene sottoposto del cibo. Gli associò poi per diverse volte alla presentazione de cibo lo stimolo di una
campanella. In questo modo pavlov riuscì a produrre una riposta condizionata da parte dell’animale. Infatti ogni
volta che la campanella suonava, in cane metteva in atto la salivazione.
Possiamo vedere dimostrazione di condizionamento classico nella vita di tutti i giorni. Se andiamo dal dottore
ed egli dice “non ti preoccupare, non ti farà male” e invece la puntura ci provoca un dolore fortissimo, a partire
da quel momento assoceremmo a quella frase una sensazione di dolore anche quando sappiamo che non farà
male.
Un secondo caso di condizionamento classico si. Può mettere in atto con una cannuccia. Il condizionamento
classico funziona con tutti gli animali. Es. gatto e campanella.

La Skinner box
Nella gabbia di Skinner, il topo può vedere due leve: una leva trasmette una scossa elettrica, mentre l'altra dava
una piccola quantità di cibo. Inizialmente il topo esplorò la gabbia e per caso premette la leva che dava la scossa
poi quella che gli dava il cibo. Dopo vari tentativi capì quale leva andava a suo favore (quella che dava il cibo) e capì
che non doveva più premere quella che dava la scossa. Si parla di "condizionamento operante".
Con i piccioni, Skinner dimostrò che era possibile "modellare" (shape) il loro comportamento con la tecnica del
rinforzo: se il piccione accennava a un movimento di rotazione, questo veniva "premiato" con distribuzioni di
crocchette, fino a ottenere una rotazione completa[4].

La gabbia di Skinner
Nel 1948, Skinner collegò il dispensatore di cibo non a una leva bensì ad un timer. Dopo un certo periodo di
permanenza nella gabbia, il piccione iniziò a ripetere senza sosta un certo movimento che aveva fatto prima di
ricevere cibo, probabilmente illudendosi che fosse stato quel particolare movimento ad aver azionato il
dispensatore di cibo. Questo comportamento è stato associato alla superstizione ed è noto nella letteratura
scientifica come "superstizione del piccione".

La tradizione psicometrica
Gli anni successivi diedero ulteriore impulso alla tradizione psicometrica attraverso lo sviluppo di nuove misure
come il QI, l’applicazione a nuove popolazioni, lo studio delle differenze individuali, lo studio della validità degli
strumenti, lo sviluppo di test di interesse.
Uno dei principali protagonisti dell’avvio della misurazione è Galton che ha il merito di aver introdotto il metodo
statistico in psicologia. Prende in considerazione soprattutto le misure fisiche. È importante anche per un altro
aspetto ovvero si occupò per la prima volta di impronte digitali, dimostrando come le persone si differenzino in
base alle impronte. Ha introdotto l’uso della misura statistica in psicologia. Ha avuto un’influenza grandissima in
Cattel, un americano che conobbe Galton e si interessò ale differenze individuale e all’eugenetica. Coniò il termini
“mental test” e si dedicò a produrre una batteria standardizzata immediatamente applicabile cioè un insieme di
strumenti per misurare le caratteristiche psicologiche. Tra le misure individuate vi sono:
- pressione dinamometrica
- tasso di movimento
- aree di sensazione
- minima differenza di pesopercettibile
- tempo di reazione al suono
- tempo di nomina dei colori
- valutazione del tempo ecc

Ad un certo punto torna in Inghilterra per mostrare questi strumenti a Galton il quale non ne sembra molo
entusiasta.
Alla tradizione nomotetica, cioè la misura quantitativa, si contrappone in questo periodo la misura qualitativa dei
costrutti psicologici con Binet. Era un francese che a differenza di Galton riteneva che la variabilità individuale
fosse più qualitativa che quantitativa e si interessò alla misurazione di processi intellettuali complessi quali
l’attenzione, la memoria, la comprensione ecc. Si rende subito conto della difficoltà del suo progetto ma nel 1904
viene incaricato dal governo francese di suggerire una metodologia per individuare i bambini “subnormali” cioè
malati, ritardati, allo scopo di offrire loro, tramite classi speciali, una solida educazione. Gli commissionano di
costruire una batteria standardizzata per individuare i bambini che hanno bisogni educativi particolari. Da ciò
scaturì la prima versione della famosa scala Bine-Simon. A giudizio di Binet era ancora troppo presto per una
pubblicazione definitiva ma il bisogno aveva percorso i tempi e indotto all’uso di uno strumento probabilmente
ancora immaturo.
Fino ad ora abbiamo parlato solo della misura delle caratteristiche fisiche o dell’intelligenza. La psicologia però non
è solo questo, intorno agli anni ’20 alcuni autori cominciarono a misurare altre variabili complesse come la
personalità, le caratteristiche psicologiche come Jung, il quale aveva iniziato ad utilizzare uno strumento già noto a
Galton ovvero il metodo della libera associazione di parola come prototipo di un test proiettivo. Successivamente si
avvicinò allo studio dell’isteria per poi distaccarsene sviluppando un approccio originale proprio e fondando la
psicologia analitica di stampo junghiano.
La prima guerra mondiale accelerò la necessità di possedere strumenti psicologici utilizzabili nella pratica
quotidiana : da un lato le esigenze di selezione delle enorme massi di migranti in fuga dalla povertà bellica e
post bellica in Europa e, dall’altro, i bisogni di selezione militari. Iniziano in questo i primi test psicologici come
Army alpha, Army Beta,Personal data Sheet.
Proprio lo sviluppo di questi pone lo sviluppo alle prime critiche relative a questi test. Un’autrice, Augusta Bronner,
aveva studiato la correlazione tra misura dell’intelligenza ed altri aspetti quali l’intento di barare e dare una
impressione diversa da quella che lo rappresenta in realtà o la tendenza a far finta di essere meno affetto da
disturbi. Lei è la prima a dimostrare che alle domande le persone possono rispondere anche distorcendo la realtà.
Un aspetto ancora più importante è la scoperta della relazione tra i risultati di test applicati a bambini e
l’occupazione dei loro genitori. Più i genitori son ricchi e più l’intelligenza dei bambini è superiore. Lei
problematizza questo aspetto sostenendo che questi test non sono adatti alla misurazione dell’intelligenza dei
bambini. È in questo periodo che vengono alla luce le prime tecniche come Darw a Man ed il test di Rorschbach.

Test di Rorschach
Nasce nel 1929 a opera di Hermann Rorschach il quale ha cominciato a prendere in considerazione l’ipotesi che si
potesse misurare la personalità attraverso delle macchie d’inchiostro. Comincia a fare degli esperimenti, scrive un
libro ma muore prematuramente. Aveva un allievo il quale era rimasto affascinato dal suo progetto e aveva iniziato
a insegnare a qualcuno come insegnare queste tavole. Si crea un primo filone di utilizzo clinico del test di matrice
europea. Un atro suo allievo interpretò il testo e lo insegnò a Samuel Beck. Da queste idee iniziali delle macchie
d’inchiostro si intuì il potenziale dell’esperimento ma non si capì ancora bene come usare queste tavole. Le tavole
che venivano usate erano medesime ma l’uso era individuale.

ANNI '20-'30
Siamo nel 1921, negli anni della Grande Depressione, quando la Borsa Americana crolla, provocando un grosso
impatto dal punto di vista economico. Molte famiglie sono sul lastrico, soprattutto della classe media. Questo si
riflette in America ma subito dopo anche in Europa. Da questo fenomeno di estrema povertà e di grosso impatto
economico si generano numerosi contraccolpi: la malavita, i gangster, le economie parallele, il proibizionismo ed un
sacco di aspetti che abbiamo visto nei film e di cui abbiamo sentito parlare nei libri di storia. Cambia anche il ruolo
che i governi decidono di esercitare sul libero mercato e si imposta il modello keynesiano, con un ruolo
decisamente più proattivo da parte degli Stati-Nazione, relativamente alla possibilità di affrontare le conseguenze
che si determinarono in seguito a questo crollo di borsa e al fenomeno della grande depressione.
Se gli Stati Uniti e le grandi democrazie decisero di adottare il modello che adesso definiremmo keynesiano, per
altri Stati la soluzione fu diametralmente opposta e quindi il ruolo di ingerenza da parte di questi Stati al libero
mercato prese una direzione e delle conseguenze completamente diverse. Fu in questo periodo che – anche in
seguito alla grave povertà, alle condizioni capestro imposte con pace di Versailles alla Germania che era uscita
perdente dalla Prima Guerra Mondiale, e che avevano costruito questa debolissima Repubblica di Weimer piena di
debiti – tutti questi fenomeni messi assieme determinarono che in Europa si andarono creando e consolidando dei
regimi di tipo assolutistico. Stiamo parlando del nazifascismo in Germania, del fascismo in Italia e del franchismo
in Spagna.
Come sapete, i fenomeni fascisti si caratterizzarono prevalentemente per un diffuso – il nazismo sicuramente, il
fascismo un po’ meno anche se ebbe le sue responsabilità e il franchismo ancora meno – sentimento di
antisemitismo. Poiché la psicoanalisi era stata creata da Freud, che era un semita (cioè era di religione e stirpe
ebraica), poiché molti dei primi psicoanalisti e psichiatri erano ebrei, quello che si venne a creare fu un fenomeno
di emigrazione (un po’ per povertà un po’ per persecuzione) che portarò molti psichiatri e molti psicoanalisti ad
operare negli USA. Il che contribuì certamente al consolidarsi della psicologia come scienza, e come scienza
applicativa, più negli USA che in Europa. È in questo periodo che la distanza fra lo sviluppo della psicologia negli
USA e il suo sviluppo in Europa verrà a determinarsi. L’Europa sconterà per tutto il secolo scorso un forte ritardo
dal punto di vista delle discipline psicologiche prevalentemente per il fatto che Germania e Italia consideravano la
psicologia una disciplina pericolosa, perché metteva le persone a confronto con la natura umana, perché cercava di
promuovere i diritti umani e migliori condizioni educative, e così via. In più era una disciplina che era ritenuta
pericolosamente affine alla religione e la stirpe ebraica, e le due cose assieme certamente non contribuirono alla
popolarità della psicologia nell’Europa prima della II Guerra Mondiale.
Negli USA le cose avevano un’altra piega, e fu in quella sede che si andarono creando, nei primi anni ’40, degli
strumenti psicologici che ebbero un certo ruolo, una certa risonanza. Sto parlando della prima scala Wechsler, il
primo test di intelligenza sviluppato per misurare l’intelligenza negli adulti. Finora i test proposti servivano a
misurarla nei bambini. Fu in questo periodo che vide alla luce la revisione Terman-Merrill del famoso strumento di
Binet di cui abbiamo già parlato, attraverso norme americane, attraverso una ridefinizione degli indici, e stiamo
parlando della versione Standford, il cosiddetto Standford-Binet. E fu in questo periodo che vide la luce un altro test
per la misurazione delle abilità sociali, cognitive e di comunicazione degli strumenti, è la Weiner Social Maturity
Scale: uno strumento finalizzato a misurare alcune caratteristiche psicologiche del soggetto con una particolarità,
che era decisamente innovativa. Vi ricordo che gli anni precedenti avevano cominciato a manifestare un certo
dubbio in merito all’attendibilità e la validità degli strumenti psicologici che passavano attraverso tecniche della
domanda, generando la necessità di studiare e sviluppare nuovi strumenti (es. le prove proiettive di cui abbiamo
parlato). La Weiner Social Maturity Scale è uno strumento che va esattamente in questa direzione, nel senso che
non fa fare una performance ad un soggetto, non produce delle domande a cui il soggetto deve rispondere, con gli
effetti distorsivi che erano Stati ipotizzati dalla Bronner, ma chiede a qualcuno che conosce bene il soggetto di
descriverlo relativamente ad alcuni ambiti (item) che descrivono il funzionamento sia sociale, che nel contesto di
vita quotidiana e così via. Questa nuova modalità, questa informance che passa attraverso qualcuno che conosce la
persona che bisogna valutare, avrà un discreto futuro ed ancora oggi abbiamo dei discreti strumenti che sono gli
informal report.
Bene, proprio in questo periodo, oltre al test di Rorschach vede la luce un altro test che verrà poi utilizzato molto
sia in psicologia clinica che in neuropsicologia clinica – cioè nell’approccio alle persone che avevano subito un
trauma al sistema nervoso centrale – che è il Bender Gestalt Visual Test. Ma soprattutto è in questo momento che
viene scoperta l’elettroencefalografa (ovvero l’elettroencefalogramma): che il cervello produce delle onde
elettriche e che queste sono di alcuni tipi (beta, alfa, teta e delta), che durante il sonno si produce un determinato
tipo di onda, con una determinata frequenza, che si chiama onda REM. Insomma, si scopre l’attività elettrica
celebrale e questa scoperta dà luogo ad un certo ottimismo relativamente al fatto che pensieri ed emozioni diverse,
stati d’animo diversi, potessero generare onde cerebrali diversi e che quindi potessero essere misurati. Si ritorna
alla possibilità di misurare delle variabili quantitative di natura elettrofisiologica, però complessivamente
psicofisiologica (ricordatevi la psicobiochimica di Witner) per concorrere alla valutazione delle caratteristiche
psicologiche.
ANNI '40
Andiamo quindi alla seconda guerra mondiale. La stessa cosa che era successa per la prima accade nei dintorni –
cioè prima, durante e dopo – la seconda guerra mondiale. Ovvero, si generano delle ulteriori esigenze di
strumenti psicologici ai fini della selezione dei militari, di selezionare caratteristiche di coraggio, temperamento,
disponibilità, sacrificio, intelligenza, cultura, personalità atte ai fini bellici. In questo periodo, e cioè
sostanzialmente appena finita la guerra, si sviluppano alcuni test molto molto famosi, ve ne semplifico tre nella
slide:
- Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (cioè il cosiddetto MMPI) che viene costruito nell’università del
Minnesota da Hataway e McKinley. È uno strumento che utilizziamo ancora adesso – ovviamente è stato
revisionato, rivisto e ricostruito – però l’MMPI è uno degli strumenti più famosi e più utilizzati al mondo.
- Lo stesso vale per la Wechsler Intelligence Scale for Children (cioè la WISC), che è uno strumento di
intelligenza basato su come pensava funzionasse e fosse costituita l’intelligenza il Dott. Wechsler, che aveva già
inventato la Wechsler-Bellevue per misurare l’intelligenza negli adulti. In questo caso stiamo parlando della prima
scala di intelligenza secondo il modello Wechsler, ancora adesso noi utilizziamo quella scala di intelligenza –
ovviamente non quella WISC lì, stiamo parlando della WISC IV – però è uno strumento ancora adesso in uso.
- Un altro strumento molto molto importante per misurare l’intelligenza sono le matrici di Raven (le cosiddette
PM38, poi ci saranno anche le PM47, poi ci saranno anche le PM-colored ancora adesso in utilizzo) che servono per
misurare l’intelligenza dando però una terza concezione dell’intelligenza, diversa dalle due che abbiamo già visto.
Quali sono? Abbiamo visto che Vineland aveva immaginato che l’intelligenza si potesse misurare attraverso delle
abilità che vengono messe in campo dai soggetti in contesti reali, cioè ecologici, e pensava di misurare questa cosa
attraverso delle interviste attraverso delle persone che conoscevano bene i soggetti che dovevano essere valutati.
Wechsler immaginava l’intelligenza come composta da una serie di funzioni, aveva costruito dei test per misurare
l’intelligenza negli adulti con la Wechsler-Bellevue e con la WISC nei bambini, immaginando di fare alcune prove di
tipo verbale e di tipo pratico. Pensava che tutte insieme dessero giustizia del costrutto complesso di intelligenza.
C’è un altro modo per pensare all’intelligenza che fa riferimento sostanzialmente al fattore insight, cioè alla
capacità di trovare delle soluzioni nuove a problemi che non si conoscono o che non si sono mai visti, la cosiddetta
intuizione, se vogliamo rappresentarla un po’ con il linguaggio comune.
Ecco, questo costrutto di “intelligenza come insight” è quello che sta alla base di questo ulteriore terzo tipo di
strumento per misurare l’intelligenza, che sono le matrici progressive di Raven.

Intanto la tradizione psicometrica relativamente ai test proiettivi va avanti e negli USA si consolidano alcune scuole
per l’utilizzo del test di Rorschach. Vi ho detto che Oberholzer ha formato Levy, Levy ha formato Beck e poi Beck
aveva formato Hertz e Bruno Klopfer (che erano fra l’altro immigrati scappati dall’Europa e perseguitati dal
nazifascismo). Bruno Klopfer è una persona dalla quale il test di Rorschach non può prescindere, poiché egli
sviluppa un proprio metodo e dedica molto tempo ad approfondirlo. Anche Beck Hertz e altri, Rapaport e Shafer,
fecero lo stesso però Bruno Klopfer ebbe un merito ulteriore: oltre ad aver sistematizzato l’opera di Hermann
Rorschach, e contribuito a consolidare l’utilizzo clinico del test di Rorschach, fondò il Rorschach Research
Excange, che era la prima rivista dedicata alle tecniche proiettive (che poi cambiò nome e divenne il Journal
Projective Tecnique), che ancora adesso esiste con una terza denominazion (Journal of Personality Assessment),
senza ombra di dubbio la rivista più importante per coloro che si occupano di psicodiagnosi, costruiscono e
validano test psicologici al fine di consolidare la tradizione psicometrica di cui stiamo parlando.
ANNI '50
Subito dopo la II Guerra Mondiale avvengono delle altre cose, che sono importanti per lo sviluppo della clinica.
Dovete immaginare che stiamo parlando del fatto che un grosso ruolo che veniva esercitato dagli psicologi era
misurare i costrutti psicologici, nel fare questo si poteva misurare l’intelligenza, la personalità ma anche la
sintomatologia che rappresentava alcuni disturbi. In quel periodo non c’era un accordo generale mondiale,
nemmeno dei nomi condivisi da attribuire alle malattie mentali. Diversi clinici/psicologi che si approcciavano a
pazienti, a persone in una condizione di sofferenza psichica – ricordate il metodo idiografico – descrivevano la
condizione clinica di ogni singolo paziente e speravano che questa descrizione potesse essere generalizzata, cioè
rappresentativa di un certo modo di stare male di altre persone in giro per il mondo. Dopo la II guerra mondiale,
anche in relazione alla sofferenza psichica legata ai traumi di guerra (pensate alle persone che erano state per 5
anni sotto i bombardamenti, che erano sbarcati in Normandia, che avevano visto esplodere il proprio compagno nel
corso di un assalto durante la II guerra mondiale). Sostanzialmente le persone erano tornate dalla II guerra
mondiale vittoriose ma con qualche trauma. In Europa era tutto da ricostruire, e tempo e soldi per occuparsi di
questioni psicologiche ce n’era decisamente di meno; mentre negli Stati Uniti la necessità di arrivare ad una
definizione comune, e di cercare di capire se esistono delle caratteristiche che descrivono compiutamente le
diverse sindromi psicopatologiche, era diventata un’esigenza (così come lo era la necessità di costruire un
nomenclatore della sofferenza psichica).
È del 1949 la pubblicazione della ICD-6 (International Classification of Dieases, che significa Classificazione
Internazionale dei Disturbi). Esso è sostanzialmente il nomenclatore che viene utilizzato in tutto il mondo e che dà
il nome a tutte le malattie. Per noi è importante la sesta edizione perché è la prima che include anche i disturbi
psicopatologici, cioè le malattie nervose e mentali. Fino ad allora esisteva l’ICD, cioè tutto il mondo aveva cercato
di darsi delle regole comuni per denominare diverse malattie che riguardavano il corpo (cioè le malattie mediche,
sostanzialmente) mentre nel 1949 la versione 6 dell’ICD inserisce il libro V che si occupa delle malattie mentali,
proponendo una denominazione comune in quel momento.
Contemporaneamente anche un’altra amministrazione, cioè l’amministrazione dei reduci di guerra americani (la
Veterans Administration USA) aveva adottato un proprio sistema che era la Standard Classified Nomenclature of
Disease con la stessa finalità. Questa cosa ha ovviamente un impatto sul lavoro degli psicologi che dovevano
misurare delle caratteristiche anche psicopatologiche, e potevano avere un riferimento su che cosa connotava
queste diverse sindromi.
Il dopoguerra, siamo negli anni 50, 60, 70 e così via, ha rappresentato il boom della psicologia soprattutto per
quel che riguarda gli USA ma non è da trascurare anche l’Europa. Ovviamente con un certo ritardo, perché in
Europa c’era stata la II Guerra mondiale mentre negli USA pochissimo (solo Pearl Harbor, sostanzialmente) e
quindi c’era tutto da ricostruire.
Si stima che durante la II Guerra Mondiale negli USA fossero state sottoposte a test psicologici circa 60 milioni di
persone, che è un numero impressionante se ci pensate.
Negli anni ’50, l’ottica per quello che riguarda la psicometria – poi affronteremo anche gli sviluppi professionali
attraverso la psicoterapia ma adesso siamo nel primo dei 4 filoni, quello della psicologia clinica attraverso la
tradizione psicometrica – l’enfasi sulla validità degli strumenti assumerà una particolare rilevanza. Per esempio
nell’MMPI cominciarono a introdursi delle scale per misurare la validità, cioè la tendenza del soggetto a mentire
durante il test e misurare, come dire, gli effetti distorsivi. Sostanzialmente potremmo dire che negli anni ’50 per
quel che riguarda il testing psicologico non ci furono delle nuove proposte, si determinò un grosso sforzo da parte
degli psicologi per migliorare i test esistenti.
ANNI '60
Arriviamo così agli anni ’60, in questi anni succedono alcune cose importanti. Sono gli anni in cui gli schemi sociali
consolidati come la religione, la famiglia, le abitudini sessuali vengono picconate dalla generazione degli anni ’60 –
soprattutto dagli studenti universitari – prima negli
USA e poi anche in Europa (immagino avrete sentito parlare del famoso ’68). Attorno a questa grossa spinta di
fratellanza universale, di pace, di bisogno di costruire un senso di comunità e di amore degli esseri umani – che
scaturisce dagli anni ’60 con una forte enfasi sulla libertà – il medesimo decennio è quello in cui si consolidano
alcuni tra i più grandi conflitti che attraverseranno dopo la II Guerra Mondiale: pensate alla rivoluzione cubana, la
guerra del Vietnam, l’instaurarsi di alcune dittature di matrice social-comunista nel sud-est asiatico, la Cambogia,
la Corea, la guerra di Corea stessa. Questi sono anni in cui ad una forte spinta bottom-up da parte della
popolazione alla pace, forse anche in ragione dei conflitti che si stanno generando in questo periodo. Ve lo provo a
raccontare in altre parole: la II Guerra Mondiale aveva spaventato tutti e negli anni ’60 la nuova generazione è come
se urlasse la propria paura della guerra. Siamo negli anni della Guerra Fredda, Unione Sovietica e USA sono
sempre sull’orlo di un conflitto nucleare, Unione Sovietica e USA hanno costruito da un lato la cortina di ferro e
dall’altro la NATO, che coinvolgono altre nazioni. Quindi è come se ci fossero all’interno del mondo due
schieramenti: quelli che stanno con gli USA e quelli che stanno con l’Unione Sovietica. Il rischio di arrivare
all’ennesimo conflitto mondiale è sempre dietro la porta. Le nuove generazioni affermano con forza questa paura e
contestano questo modo di intendere da parte dei governanti. Nel medesimo periodo anche la psicologia fa qualche
passo in avanti e questi passi in avanti sono individuabili principalmente sul fatto che l’enfasi è sulla misurazione
delle caratteristiche psicologiche nei contesti ecologici e naturali.
Vi sto parlando del fatto che la psicologia sperimentale comincia a venir messa in discussione relativamente allo
studio in vitro, per così dire, dell’essere umano e si pone con forza l’enfasi sulla necessità di misurare
comportamento umano, relazioni umane, emotività umana, tutte le caratteristiche dell’essere umano non tanto nel
laboratorio ma nel loro dispiegarsi nel contesto in cui vengono espresse. Pensate alla valutazione della relazione
madre-bambino non tanto facendo venire una madre o un bambino a farsi osservare nel contesto di un laboratorio
o in una clinica, quanto nell’andare a casa loro ad osservare come quotidianamente quella mamma e quel bambino
entrano in relazione.
Contemporaneamente, negli anni ’60 si determina un ulteriore fenomeno che è lo sviluppo del comportamentismo. Il
comportamentismo nasce con Watson – lo vedremo nel prossimo modulo
– molto prima degli anni ’60 ma è in questo periodo che si consolida. Il comportamentismo sostanzialmente dice
che ogni comportamento è una risposta ad uno stimolo che è stato somministrato e che le variabili psicologiche, le
funzioni psichiche hanno pochissima importanza: non sono visibili, non sono misurabili e quindi devono essere
trascurate dagli psicologi, i quali che non si devono più occupare – come pensava, proponeva e riteneva Wundt
– della coscienza ma si devono occupare esclusivamente del comportamento. Bene, questa enfasi sul
comportamento osservabile, sul comportamento misurabile nei contesti ecologici ovviamente ha cambiato
radicalmente il campo in cui si muove la misura della tradizione psicometrica, non più nel misurare funzioni
psicologiche ma nel misurare comportamenti e questa è una grossa novità che produrrà delle conseguenze
relativamente agli strumenti psicologici.
Se vogliamo riassumere che cosa succede negli anni ’60 potremmo dire che non soltanto gli strumenti vengono
messi in discussione ma viene messa in discussione la funzione stessa dello psicologo. Sulla base di 4 fenomeni: il
primo, che mette in discussione perfino in crisi la tradizione psicometrica – e che sulla base del famoso volume
“Clinical Versus Statistical Prediction” di Mheel – pone l’enfasi su come le tecniche matematiche e statistiche (che
venivano definite all’epoca attuariali) siano decisamente più precise della valutazione psicologica degli individui di
quanto possa fare lo psicologo sulla base della sua esperienza, formazione ed intuizione. Il secondo elemento che
contribuisce a mettere in discussione, non soltanto i test ma gli psicologi clinici in senso esteso, è il fatto che si
scopre che l’anamnesi – cioè la storia naturale e patologica, sia anamnesi fisiologica che patologica – degli individui
è più predittiva rispetto al proprio comportamento e alle proprie caratteristiche psicologiche e psicopatologiche di
quanto non possano essere i test psicologici. Il terzo elemento è che le persone appena laureate, appena formate in
psicologia clinica, arrivavano alle medesime conclusioni di clinici cosiddetti esperti, quelli che lavoravano da molto
tempo, e questo metteva in discussione il fatto che la professione di psicologo clinico fosse qualche cosa che si
andasse progressivamente consolidando con l’esperienza. Il quarto elemento è che le descrizioni che facevano i
clinici dei propri pazienti apparivano un po’ troppo universalistiche (per fare una battuta, un po’ come farebbe un
cartomante quando andate a chiedergli di leggervi il futuro: vi dice delle cose che vanno bene per voi come per il
cliente successivo) nelle quali ciascuno si poteva riconoscere e quindi poco attinenti alla specificità individuale.
Queste critiche misero un pochettino in discussione intorno agli anni ’60 il ruolo degli psicologi.
ANNI '70
Gli anni ’70 sono caratterizzati soprattutto per la crisi petrolifera. Voi direte, che cosa c’entra con la psicologia? In
realtà c’entra parecchio, perché ha determinato di nuovo una crisi economica. Sono gli anni del risparmio
energetico, gli anni in cui io ero piccolo e le macchine circolavano a targhe alterne, cioè una domenica quelle con le
targhe pari e una domenica quelle con le targhe dispari, proprio al fine di risparmiare petrolio. I Paesi produttori di
petrolio – cioè l’OCSE – hanno fatto cartello e quindi il prezzo del greggio era aumentato considerevolmente.
Siccome l’industria, le auto, tutto funzionava con i derivati del petrolio questo determinò una crisi economica che
diede alle nazioni, ai governi, una possibilità economica decisamente inferiore. Quindi anche dal punto di vista degli
investimenti in merito alla salute mentale ci fu un periodo negli anni ‘70 in cui si segnò un po’ il passo. Benché la
crescita del riconoscimento dei bisogni dal punto di vista psicologico si fosse in qualche modo consolidata, i soldi da
investire nella salute mentale erano diminuiti, quanto meno negli stati uniti. Inoltre, in questo periodo – dopo questo
boom del collettivismo, delle comuni, del senso dell’aggregazione che aveva caratterizzato gli anni ’60 – gli anni ’70
si caratterizzano progressivamente un po’ per l’opposto: il ritorno all’individualismo.
Questo è stato quello che viene definito il decennio del “ME”. Diciamo che negli anni ‘70 dal punto di vista psicologico
non succede nulla di particolarmente rilevante se non un aspetto al quale io sono particolarmente legato. E cioè il
fatto che un signore, uno psicologo, un collega che si chiamava John Exner Jr., inventò, sviluppò il Comprehensive
System (CS), che era un nuovo metodo per l’utilizzo del test di Rorschach. Vi ricordo che è il test delle macchie, che
era stato sviluppato da uno psichiatra con una felice intuizione ma che morì prima della pubblicazione del suo
volume. Ciò che venne spiegato dell’utilizzo del test di Rorschach si limitò a ciò che il suo principale allievo
Oberholzer aveva capito e aveva insegnato ad alcuni autori in Italia e in Europa che svilupparono alcuni modi di
utilizzare quelle 10 tavole. Negli Stati Uniti altri autori svilupparono autonomamente la propria versione del modo di
utilizzare quelle tavole. In sostanza, arriviamo agli anni 70 e quello di cui ci si accorge è che il test di Rorschach non
esiste. Sono 10 tavole e ognuno le usa un po’ come vuole, seguendo delle regole o non seguendo delle regole. La
maggior parte dei colleghi – questa l’indagine che fece John Exner – utilizza il test di Rorschach seguendo il
metodo proposto da più autori. Cioè lo stesso clinico coi propri pazienti utilizzava un po’ il metodo Klopfer, un po’ il
metodo Hertz, e così via.
Sostanzialmente montavano in maniera un po’ eclettica le informazioni. John Exner decide che mette ordine e
quindi crea il CS. Come dice il nome, rappresenta il tentativo di prendere il meglio delle diverse modalità di utilizzo
del test che si erano sviluppate in quel momento (il meglio del modo in cui lo utilizzava Samuel Beck, il meglio del
modo in cui lo utilizzava Margaret Hertz, il meglio del modo in cui lo utilizzava Bruno Klpofer) e di sottoporre a
rigida verifica sperimentale di natura nomotetica (cioè confrontandolo con norme statistiche, ed è questa la grande
intuizione di John Exner) shiftando da un utilizzo idiografico del test di Rorschach, finalizzato a valutare
qualitativamente e approfonditamente l’individuo che si ha di fronte, alla epistemologia nomotetica, cioè alla
costruzione di norme su come di solito le persone fanno il test di Rorschach. Tutto questo, al fine di confrontare la
performance individuale del singolo paziente di cui il clinico si stava occupando con le norme su come le persone si
comportano normalmente. Questa è stata la grossa intuizione di John Exner, che contribuì alla rinascita del test di
Rorschach che stava un pochettino assopendosi.
Il CS è stato fino al 2006 in assoluto il metodo più utilizzato nel mondo, progressivamente per la somministrazione
del test di Rorschach e la diagnosi attraverso il Test di Rorschach.
Successivamente alla morte di John Exner, nel 2006, il suo posto è stato preso dalla ulteriore evoluzione – ma
avrete modo di parlarne se affronterete il corso di psicologia – dal Rorschach Performance Assessment System
(R-pas), che è la versione attuale – stiamo parlando del 2015
– dell’utilizzo del test di Rorschach.
ANNI '80
Dagli anni ’80 si comincia a delineare ciò che ancora oggi domina nel pensiero psicologico nella tradizione
scientifica psicologica internazionale: la fiducia nei progressi tecnologici, lo sviluppo della genetica, la disponibilità
di nuova tecnologia (pensate alla risonanza magnetica, alla risonanza magnetica funzionale, alla PET, alla TAC).
Sostanzialmente, i progressi della scienza
– che consentono di meglio definire, approfondire e rendere decisamente più sensibile la misurazione delle
caratteristiche fisiologiche dell’essere umano – portano la psicologia a mischiarsi e a confrontarsi sempre di più
con questa tecnologia, spostando l’attenzione molto sul sistema nervoso centrale, sul funzionamento del corpo,
quindi sul cervello, sulle onde cerebrali, sulla struttura del cervello, sulla composizione del cervello, sui rapporti
fra le diverse aree funzionali del cervello e quindi contribuendo ad un consolidamento della versione
psicobiologica degli studi in psicologia sperimentale. Sarà proprio in questo periodo di scoperte scientifiche che
esse contribuiranno a migliorare notevolmente la nostra comprensione del rapporto fra natura e cultura, fra geni
e ambiente, fra l’ereditarietà genetica e il ruolo che l’ambiente esercita nel rendere possibile l’adattamento
dell’individuo ai contesti in cui nasce.
Queste due cose – lo sviluppo dell’approccio psicobiologico e lo sviluppo delle nuove tecnologie, insieme allo
sviluppo e la costruzione dei computer – influenzano anche la tradizione psicometrica che a questo punto
comincerà a confrontarsi con i nuovi approcci allo studio della psiche. Immaginate, appunto, la risonanza magnetica
ma anche la costruzione di strumenti coerenti che consentissero di misurare le variabili psicologiche che in questo
nuovo modo di intendere l’individuo si sviluppano proprio in questo periodo. Vi faccio due esempi, nel momento in
cui si scopre che alla base di molti fenomeni psicopatologici ci sta una disregolazione delle capacità di controllo
emotivo da parte delle persone, quella che viene definita disregolazione emotiva, va da sé che un obiettivo diventa
quello del costruire degli strumenti che siano funzionali alla misurazione della disregolazione emotiva. Cioè, in
qualche modo, la tradizione psicometrica, oltre che continuare ad occuparsi dei bisogni dei singoli e della
promozione della salute mentale all’interno del più ampio contesto della psicologia clinica, sta anche al passo con
lo sviluppo delle tecniche e dei costrutti psicologici che si viene a determinare nel corso del secolo, attraverso la
creazione, lo sviluppo e il miglioramento di strumenti che siano esplicitamente finalizzati a questo tipo di obiettivo.

La tradizione psicoterapeutica e la ricerca in psicoterapia

La comunicazione come cura dell’anima- Sigmund Freud e la nascita della psicoanalisi Nel 1885 Freud ed ancora
uno sconosciuto, lavorava come medico presso l’ospedale generale di Vienna in cui si occupava di disturbi mentali
perché pochi medici se ne occupavano perché si guadagnava bene. Le malattie mentali o venivano curati con
metodi inadeguati e crudeli. Ai empi i mdici credevano che l’isteria fosse una malattia dovuto al sistema nervoso o
da lesioni al cervello. Freud s recò a Parigi per approfondire le sue conoscenze e lavorò con Charcot che stava
sperimentando una nuova cura all’isteria attraversi l’ipnosi che colpirono Freud e decide cosi di dedicarsi alla
psiche umana. Charcot credeva che esistesse una parte nascosta nella mente, Freud elaborò i concetto e lo definì
inconscio. Freud apri uno studio privato a Vienna in cui i primi risultati furono deludenti e si scontrò con l’opinione
dei colleghi sul tema dell’ipnosi. Le sue teorie fecero un passo avanti quando un suo collega gli raccontò la cura di
una sua paziente, la rievocazione di ricordi traumatici, Anna O, che sotto ipnosi parlava e riviveva esperienze
traumatiche.

Lo sviluppo
La psicoterapia non è l’unico aspetto di cui gli psicologi fanno parte.
La psicoanalisi all’inizio del secondo esiste solo a Vienna e poco più , a mano a mano la cerchia si allarga e
comincia a diffondersi in Europa. Stanley Hall era un esperto sostenitore della psicologia e traghettò le opere di
Freud negli Stati Uniti contribuendo in maniera determinate alla diffusione dei principi psicoanalitici verso il popolo
degli psicologi e verso l’applicazione della tecnica psicoanalitica su vasta scala. La psicoanalisi metteva a
disposizione per la cura dei fenomeni psicopatologici, una tecnica sperimentale che incontrava il favore di una
società in evoluzione che aveva il bisogno di trattare le persone, curare e migliorare le condizioni di vita di una
popolazione che era progressivamente in aumento. Era dunque funzionale al sogno americano. Per tutti i primi anni
del 900 la psicoanalisi si andò consolidando, anche attraverso il contributo delle tecniche proiettive che andavano
progressivamente ad erodere spazio agli strumenti di testing psicologico che erano stati fino a quel momento
sviluppati.
Freud aveva quasi terminato la propria opera monumentale . Si cominciarono a creare le prime fratture all’interno
del movimento e gli studiosi si dividevano, allontanandosi o avvicinandosi alle teorie di Freud. Così come la
personalità di Jung era stato rilevante all’ingresso della psicoanalisi, altrettanto lo è stato per l’espulsione. In modo
analogo avvenne tra Anna Freud, la figlia, e Melania Klein che si contendevano una posizione dominante all’interno
della psicologi infantile
Sostanzialmente la psicoanalisi comunità a creparsi e a costruire una molteplicità di pensieri che daranno luogo
alle diverse suole psicoanalitiche che si sono andate consolidano nel corso del secolo scorso.
Le scuole psicoanalitiche sostanzialmente tre in Europa :
- la psicanalisi classica che fa capo Freud
- Il modello delle relazioni oggettuali che fa capo Melania Klein
- La psicologia dell’io con il pensiero di Anna Freud

Queste suole hanno in comune la centralità dell’incontro ed il determinismo psichico cioè la concezione secondo la
quale i comportamenti e le intenzioni delle perone sono motivate da una motivazione che è spinta pulsioni le e
deriva dall’equilibrio fra due azioni: la pulsione lipidica o pulsione sessuale e la pulsione di autodistruzione o
pulsione di morte. Un altro punto in comune è la centralità del paziente e della relazione con il terapeuta.
Quest’ultimo aspetto e non la malattia o la specifica tecnica venivano considerati sempre pii fondamentali per l’esito
terapeutico.

I regimi assolutisti creati in Europa avevano tutti in comune la persecuzione degli ebrei ed il bando della
psicoanalisi. I regimi assolutisti si basano sulla costruzione di un consenso popolare, auspicano e costruiscono il
contrario dell’individuazione. Bisogna essere massa e tutti bisogna riconoscersi nel proprio leader e la dialettica de
ve essere soppressa. Al contrario nella psicanalisi c’è l’uomo, l’individualismo, la possibilità che ha di maturazione
soggettiva. Lo studio della psiche umana strappa la psicanalisi dalla concezione religiosa. La psicoanalisi
raggiungeva la nobiltà e la ricca borghesia che poi rischiava di essere scettica nei confronti del regime. Questo fu
uno dei motivi per cui la psicologia fu messa a bando. Gli psicologi e psicanalisti (molti dei quali anche e ebrei)
furono così costretti ad emigrare negli statu uniti dove furono accolti e incorporati nei sistemi di ricerca formativi e
clinici che si andava sviluppando.
L’Europa si impoverì e gli usa ne beneficiarono.
Gli psicanalisti una volta arrivati però trovarono un. Contesto estremamente diverso da quello europeo
caratterizzato da:
- Focus sui bisogni di una società che stava crescendo e uscendo dalla grande depressione.
- Psicanalisti impiegati dove servivano competenze psicologiche (ospedali manicomi, scuole)
- Il pensiero psicoanalitico messo a confronto con patologie con le quali la teoria psicanalitica non
si era mai confrontata.

Nelle nuove rotture gli psicanalisti si sono trovati a lavorare con dei pazienti molto più gravi rispetto a quelli
europei i quali venivano autonomamente da loro e che potevano anche pagarlo. Il. Confronto con popolazione,
malattia e cure diverse ha contributivo non poco allo sviluppo del pensiero psicanalitico sensibilmente distante da
quelle che erano le teorie di Freud. Quel contesto ha dato vita a maggiori contributi. Il pensiero psicanalitico non
era pero l’unico, all’interno delle università si andava delineando il comportamentismo.
Nel periodo intorno alla I guerra mondiale si sviluppa una nuova teoria, al momento priva di ambizioni terapeutiche:
il comportamentismo che dobbiamo a John Watson. Egli sostiene che la cosa di cui vale la pena soffermarsi è il
comportamento dell’individue, senza porsi il problema d quali siano le ragioni sottostanti, il pensiero o la mente. In
questo periodo il movimento rimane confinato nei laboratori ma nel coso del tempo comincia ad assumere un ruolo
nell’applicazione della psicologia. Ancora una volta è il contesto il fattore rilevante; gli americani erano interessati
ad impiegare gli psicologi affinché migliorassero l condizioni della popolazione per poter perseguire con più
efficacia i propri obbiettivi e quelli della società americana. A loro interessava che l+e scuole riuscissero a
recuperare i ritardi degli allievi e che potessero essere messi nelle condizioni degli latri. Un ruolo in questa
direzione lo ebbe Franz, benché non comportamentista, la sua enfasi sulle possibilità rivestite dall’educazione e
dall’addestramento in senso riabilitativo. Con la II guerra mondiale l’interesse per la psicoterapia andò
temporaneamente assopendosi per risvegliasi successivamente in ragione delle necessita di trattamento dei
traumi conseguenti all’evento bellico. Per far fronte a un’estinzione problemi si comincia ad utilizzare dei nuovi
approcci psicoterapici come:
- Psicoterapia di gruppo (possibilità di poter trattare contemporaneamente le persone che condividevano
il medesimo problema)
- Psicoterapia breve e focale (forme di intervento che non miravano a ristrutturare completamente la
personalità dell’individuo ma avevano come obiettivo dell’intervento lo specifico trauma, ricordo,
esperienza o sintomo)
Successivamente il pensiero comportamentista esce dei laboratori e si insinua nel panorama psicoterapico e
diventa la terapia più diffusa negli Stati Uniti. Siamo negli anni ‘60, anni in cui si inseriscono alti elementi come la
psicologia di comunità , la psichiatria sociale, psicologia umanistica, psicofarmacologia. Tra i modelli
psicoterapeutici sviluppati in quegli anni possiamo ricordare la terapia della famiglia, l’analisi transazionale, la
terapia della Gestalt.
Dunque abbiamo una molteplicità di approcci e la centralità del ruolo del psicoterapeuta. Diversi elementi
favoriscono e promuovono la ricerca della psicoterapia perché sostanzialmente molto costosa e poche persone vi
avevano accesso. In sostanza intorno alla fine degli anni ’80 gli approcci psicoterapeutici vennero stimati in alcune
centinai che si possono raggruppare in 4 modelli principali o fattori comuni:
- Trattamenti cognitivi
- Trattamenti comportamentali
- Approcci psicodinamici
- Terapie umanistiche ed esistenziali

La ricerca in psicoterapia
La ricerca si sviluppa a patire dagli anni ’50 . Potremmo affermare che essa suole essere distinta in due
principali modi:
- Studi sugli esiti, o “outcome”
- Studi di processo o “process”
Il primo si occupa di valutare l’efficacia della psicoterapia sia rispetto ad altre possibili forme di cura sia
confrontando fra loro di diverse forme o tipologie di psicoterapia. Questa forma di interesse scientifico domina gli
studi condotti fra gli anni ‘50 e ‘70 soprattutto in risposta ad Eysenck nel 1952. Il primo studio ha dato alcuni
risultato rispetto a cosa non bisogna fare per misurare l’efficacia della psicoterapia. La ricerca sui risultati
evidenzia che:
Il “doppio cieco” tipico della ricerca farmacologica non è applicabile all’ambito psicoterapeutico. È uno studio in cui
viene somministrato ad un paziente un farmaco e né lui né il medico sa se effettivamente il farmaco contiene il
principio attivo o no. Si prendono in riferimento due gruppi; al primo viene somministrato il farmaco effettivo e al
secondo l’effetto placebo. Alla fine si verifica se il primo gruppo abbia una risposta positiva rispetto al secondo. Si
ha capito che questo metodo non si può applicare alla psicoterapia perché quando le persone con problemi psichici
vanno dal medico, è eticamente sbagliato somministrate loro il placebo. Sicuramente lo è anche con chi presenta
problemi fisici dunque non è deontologicamente pensabile non proporre una terapia.
Il confronto che si attua tra i gruppi è di contrasto non di controllo cioè non si somministra nessun placebo ma due
terapie distinte, una da validare e una alternativa. Alla fine si verifica se uno è stato più efficace dell’altro.
Un aspetto metodologico è la face validity. Quello che si può fare è somministrare ad una persona un trattamento
con uno psicologo e ad un’altra un trattamento con un “Non professional” cioè un non psicologo. L’importante è che
la seconda persona non abbia l’impressione che a lui non è riservato il giusto trattamento ma questi devono
assomigliarsi.
Di conseguenza si è andata modificando anche la definizione di placebo. Una dei meccanismi classici adottati è il
metodo dell’isteria: al primo gruppo viene offerto subito il trattamento mentre ill secondo viene inserito in una “lista
d’attesa”. Quest’ultimo gruppo accettavano di non essere trattate poiché sicuro di venire curato tra qualche tempo.
Si rivelano anche i limiti del “Box Scores” e si avviano gli studi meta-analitici. Al primo gruppo con disturbi ossessivi
compulsivi si somministrava immediatamente un trattamento mentre l’altro gruppo lo si metteva in attesa. Alla fine
dell’esperimento ci sono tre scatole, la scatola di coloro i quali sono migliorati, la scatola di coloro che non hanno
subito nessun miglioramento e quella di coloro che sono peggiorati. Il confronto delle scatole ha dimostrato le le
scatole erano composti da persone miste appartenenti ai due gruppi.

Il limite di questo metodo si è dimostrato negli anni. L’outcome di un trattamento psicologico non è semplicemente
una remissione dei sintomi ma i disturbi patologici condizionano tutti gli aspetti della vita innescando altri disturbi.
Le malattie mentali sono la miglior soluzione possibile trovata dalla mente per fronteggiare condizioni di crisi e di
malessere. Le malattie dunque non sono la causa ma la conseguenza di un disturbo di natura diversa. L’outcome,
ovvero il risultato delle terapie effettuate su di un paziente per farlo tornare allo stato di guarigione, non può
avvenire solo attraverso la remissione dei sintomi ma può anche essere il risultato degli aspetti sociali o lavorativi.
In definitiva dopo l’evolversi dei primi studi i ricercatori hanno capito che il decidersi dei risultato di una malattia
non avviene solo attraverso la remissione dei sintomi anche perché il paziente poteva avere gli stessi sintomi ma
manifestarli in modi differenti o poteva anche conviverci.
Dunque per valutare gli esiti (outcomes) i ricercatori di psicoterapia definiscono a priori tre caratteristiche :
- Il problema clinico, cioè o stato patologico iniziale, oggetto del trattamento;
- La terapia, cioè il tipo di intervento applicato;
- L’esito clinico, cioè ciò che ci si aspetta posa risultare modificato al termine del trattamento
rispetto al problema di partenza.

La ricerca sui risultati, soprattutto in conseguenza dell’introduzione delle meta-analisi, ha evidenziato:


- Remissione spontanea, cioè i problemi scompaiono da soli
- Alcuni pazienti trattati con placebo miglioravano
- Il paradosso dell’equivalenza, da cui il verdetto di Dodo: tutti hanno vinto e ciascuno deve ricevere un
premio.

I ricercatori capiscono che non è solo l’esito ciò che è importante ma anche la terapia in sé. Lo studio di
processo cerca di individuare cosa bisogna cambiare. Attraverso quali strumenti, cosa si fa per raggiungere un
obbiettivo. Anche in questo cosa i ricercatori si sono resi conto che vi sono problemi di natura metodologica. Ad
esempio un gruppo riceve un trattamento cognitvista ed un altro uno di tipo psicodinamico. Il primo trattamento
consiste in nessun percorso progettato ed organizzato in una sequenza predeterminata dallo psicoanalista ma
egli segue il paziente passo passo. Confrontare due psicoterapie è possibile e corretto soltanto se si attua una
manualizzazone delle psicoterapie che rende omogenei e replicabili i confronti. È il tentativo di uscire dal
contesto per poter studiare i processi e valutare l’efficacia del trattamento rispetto al bisogno. Una
conseguenza della maualizzazione è “snaturare” il processo psicoterapeutico stesso. Un esempio è lo studio dei
micro processi ovvero un approfondimento degli studi sul processo terapeutico attraverso l’analisi approfondita
dei micro processi relativi a ciò che avviene nel corso degli interventi psicoterapeutici. Alcuni psicoterapeuti
sostengono che queste tecniche come audio registrare o video registrare le sedute possono influire
negativamente sul processo psicoterapico. Paradossalmente più lo studio era ben fatto dal punto di vista
metodologico più ciò che si studiava. si andava allontanando dall’oggetto reale dello studio. Attualmente la
ricerca scientifica è molto impegnata nel definire quali siano i metodi migliori per poter indagare l’efficacia dei
trattamenti senza snaturare i trattamenti stessi.
Lambert e Bergin provano a riassumere in dici punti le principali conquiste della ricerca in psicoterapia:
- La dimostrazione che gli effetti della psicoterapia superano quelli della remissione spontanea
- La dimostrazione che gli effetti della psicoterapia sono positivi
- La dimostrazione che gli effetti della psicoterapia superano quelli dei gruppi di controllo trattati con
placebo
- La modificazione della definizione di placebo per le ricerche in psicoterapia, cosicché ora abbiamo una
definizione di placebo più precisa e appropriata
- La dimostrazione che i risultati della psicoterapia, anche in campioni omogenei, variano. Più. A causa delle
variabili legate alla “persona” del terapeuta che ale “tecniche” usate
- La dimostrazione che esiste una relativa equivalenza nei risultati per un vasto numero di terapie,
indipendentemente dalla loro durata e dalle tecniche impiegate
- La dimostrazione dell’efficacia di alcune terapie specifiche per alcuni disturbi specifici
- La dimostrazione del ruolo interattivo e sinergico degli psicofarmaci e della psicoterapia
Gli psicologi nei manicomi
Convenzionalmente il primo psicologo clinico della storia fu Lightner Witmer che, nel 1896, presso l’università della
Pennsylvania, fondò la prima clinica psicologica della storia. Va però precisato che la sua influenza sullo sviluppo
della psicologia clinica fu pressoché nullo e comunque confinato alla città di Filadelphia. Furono invece altri “clinici”
a diffondere e consolidare progressivamente l’applicazione della psicologia ai bisogni di salute, tra questi
-Ivory Franz che per primo introdusse la pratica dell’assissment psicologico per ogni nuovo paziente in un
istituto psicologico
-Henry Goddard che, oltre a tradurre la scala Binet sviluppò il Vineland laboratory, probabilmente il centro più
avanzato sullo studio della valutazione dei deficit intellettivi e del loro trattamento.

Ci si potrebbe chiedere perché si stiano trattando quasi esclusivamente autori nord americani . La ragione è di
natura storico-politica. Mentre gli usa nei primi anni 40 del secolo scorso si stavano emancipando da un passato
coloniale, da una subalternità culturale nei confronti dell’Europa e soprattutto si stavano consolidando
economicamente e nelle proprie istituzioni democratiche, l’Europa, in almeno 4 importanti paesi, Germania, Italia,
Spagna, Russia, si stava avviando verso stati di dittatura e conflitti che sarebbero scaturiti nei due conflitti mondiali.
La supremazia nelle discipline psicologiche da parte del Nord America si instaura fin dal principio. Tale supremazia
è tuttora evidente e particolarmente in Italia assumerà caratteristiche ancora più marcate. Rare sono le eccezioni in
questo senso, tra queste la psicologia della Gestalt in Germania e la prospettiva storico culturale in unione
sovietica. Mentre la prima ebbe poca attinenza con la prospettiva clinica, la seconda avrebbe avuto un ruolo
portante per la psicologia applicata ma solo successivamente agli anni ’80, in ragione ella censura sovietica che
colpì l’opera del fondatore.
Un’altra eccezione europea è rappresentata da Claude che in Francia introduce i primi psicanalisi in un servizio di
psichiatria, intraprendendo un’evoluzione del pensiero psicoanalitico. Il suo lavoro portò da un lato ad un forte
condizionamento del modello psichiatrico francese in senso psicoanalitico, dall’altro contribuì allo sviluppo di un
pensiero psicoanalitico istituzionale che prese le mosse proprio da quel paese.
Mentre negli usa gli psicologi intraprendono il percorso professionale che abbiamo già descritto, per giungere a
quello che sarà la scontro finale con la psichiatria in merito all’autonomia nell’esercizio della pratica psicoterapica,
nel resto del mondo occidentale, negli anni ’60, proliferano i movimenti per la salute mentale, per l’umanizzazione
delle carceri e degli ospedali psichiatrici, per l’università di massa.
In Italia questo si tradurrà nella legge Basaglia. Benché gli albori della psicologia fossero più centrali sullo
sviluppo scientifico piuttosto che applicativo è innegabile che il versante applicativo, soprattutto il merito dei test
psicologici, si stesse consolidando e, almeno in usa e in Francia, aveva ormai assunto una dimensione
professionale e autonoma.
Ciò si consolidò ulteriormente in seguito alla riconosciuta necessita di una adeguata formazione per la
somministrazione dei test nonché delle spinte mondiali e istituzionali verso l’applicazione delle scoperte e delle
conoscenze psicologiche (ospedali psichiatrici, scuole, settore penitenziario, esercito ecc). Negli usa tale necessità
fu talmente preminente da indurre alla creazione di una società scientifica autonoma.
Un ulteriore elemento di spinta verso la dimensione clinica in psicologia fu, soprattutto a partire dagli anni ’30, la
psicoterapia. Da un lato i molti psicanalisti ebrei in fuga dall’Europa pre bellica che, con lo spirito pratico
americano, venivano accolti ma impiegati nelle istituzioni sanitarie locali, dall’altro la crescita economica
statunitense che vedeva aumentare la disponibilità della cura della mente oltre che del corpo, dall’altro ancora
una maggiore sensibilità verso i problemi psicologici unitamente allo sviluppo del pensiero psicoanalitico e del
comportamento consolidarono una dimensione clinico professionale fino a quel momento sconosciuta: la terapia
psicologica. A partire dagli anni ’70 per gli psicologi si instaura un nuovo obiettivo professionale di massa: la
psicoterapia con le conseguenti battaglie di riconoscimento professionale.
Per l’Italia dovremo aspettare il 1989 per un formale riconoscimento della professione di psicologo. La
conseguente formalizzazione dei requisiti per la pratica psicoterapeutica.

E l’Italia?
Prima del dopoguerra l’Italia non ha avuto la psicologia. Le persone che hanno contribuito alla nascita della
psicologia e della professione sono ancora vive. Questo per dire che la disciplina è molto giovane.
L’Italia era parità molto bene. Prima del 1875, data convenzione di nascita della psicologia scientifica, al pari del
resto dell’Europa, numerosi medici e filosofi avevano contribuito allo sviluppo del sapere psicologico da proprio.
Specifico punto di vista. Nella storia più remota, le istituzioni universitarie italiane avevano generato quasi tutti
studiosi già citati (Galileo, Vesalio, Golgi) ma anche eminenti filosofi quali Vico, Bonatelli, Cattaneo, Ardigò,
Chiarungi, Lombroso. Anche in prossimità della fondazione del laboratorio di Wundt autori italiani si distinguono e
operano in maniera da non evidenziare ritardi rispetto al resto dell’Europa. Meritano menzione
-Giuseppe Sergi che fonda il primo laboratorio di psicologia italiano e sarà maestro e ispiratore di Maria
Montessori
-Angelo mosso che crea a Torino uno tra i più importanti laboratori di fisiologia al mondo e che inaugura lo studio
scientifico.
-Francesco De Sarlo fonda a Firenze un laboratorio di psicologia sperimentale

È del 1905 il primo decreto che istituisce cattedre di psicologia sperimentale anche n Italia m già prima esistevano
insegnamenti “liberi” della materia. Le cattedre vengono istituite a Torino, Roma e Napoli laddove già esisteva la
tradizione in tal senso.

Qualche riflessione in merito all’Italia


Benché partita bene, come dimostrato dal sostanziale allineamento (se non da vere e proprie connotazioni
pioneristiche) l’Italia non mantiene il passo con il resto del
mondo (principalmente USA) a causa del fuoco incrociato delle vicende storico politiche ma anche della sua
specificità geografico culturale.
Se da un lato l’avvento del fascismo ha indubbiamente contrastato quel fervido zeitgeist favorevole alla psicologia
di cui abbiamo parlato in precedenza, dall’altro l’egemonia culturale cattolica e la vicinanza con lo Stato Pontificio
hanno fatto il resto. La prelazione sulle questioni dell’anima, nel nostro paese, era quasi esclusivo appannaggio
della religione o, nel migliore dei casi, di studiosi a questa devoti (vedi Agostino Gemelli). Chi si distaccava da
questa visione incondizionatamente si riconosceva in una delle correnti dell’idealismo che è
una visione del mondo che riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà
fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto.
Il dramma economico conseguente al I evento bellico mondiale, il ventennio fascista e il conseguente isolazionismo
culturale autocratico, il periodo bellico successivo, la ricostruzione e lo zeitgeist cattolico hanno contribuito in
maniera determinante ad un ritardo culturale del nostro paese, in ambito psicologico, da cui si è faticosamente
ripreso solamente a partire dal dopoguerra con un ritardo almeno cinquantennale.
Tale ritardo complessivo ha investito anche la psicologia clinica, sia in ragione dei fenomeni sopradescritti (la
psicoanalisi veniva considerata scienza ebraica sia dal regime fascista che dalla Chiesa e, in quanto tale,
osteggiata) e sia in ragione dell’isolamento culturale autocratico che ha consentito il riavvio (da una posizione
sottomessa) di un confronto con lo sviluppo disciplinare solamente dopo la ricostruzione post bellica.
La rinascita della psicologia (e con essa della psicologia clinica), nel nostro paese, dovrà attendere il secondo
dopoguerra. L’egemonismo americano in tutti i capi economici e del sapere si estende anche al contagio del resto
del mondo rispetto alla cultura psicologica, in quel paese da tempo radicata.
Si può quindi sostenere che, contrariamente all’inizio del secolo, quando anche il pensiero italiano ed europeo
contribuirono allo sviluppo disciplinare psicologico, nel dopoguerra importammo (quasi esclusivamente) ciò che in
USA (e marginalmente anche in altri paesi, v. Gestalt) era stato pensato, scritto, creato e applicato (magari anche
proprio da quegli intellettuali italiani ed europei emigrati per questioni razziali….)
Se, da un punto di vista superficiale, ciò potrebbe non sembrare un gran danno: in fondo prendevamo per già fatto
ciò che ci sarebbe servito…in realtà la faccenda non è così semplice e neppure scontata:
-da un lato lo zeitgeist che in USA si era progressivamente delineato , a differenza del nostro paese, includeva la
psicologia come dimensione culturale in senso ampio, mentre da noi questo era un percorso ancora da fare. Basti
pensare all’ostilità della Chiesa (e con essa del partito politico per un cinquantennio dominante), alle tracce ancora
vive dell’idealismo,
al difficile rapporto con la medicina e la psichiatria (in USA già affrontato e chiarito e da noi ancora tutto da
giocarsi) in particolare con la versione organicistica di questa, alla difficoltà a definire un profilo professionale
specifico per lo psicologo, sia dal punto di vista formativo che giuridico;
-dall’altro alla dimensione scientifica che, azzerata per un cinquantennio, doveva ripartire con le forze che aveva…
e non erano molte!
La psicologia italiana, dunque, si trova nel secondo dopoguerra, a dover affrontare, se non una vera e propria
domanda di psicologia , quantomeno la diffusione di una cultura psicologica a vasto raggio. A questo si affianca la
necessità di formare gli psicologi e di sviluppare
quella dimensione clinico-applicativa da noi praticamente sconosciuta da tempo.
Se ricordiamo lo sviluppo della psicologia nell’Università italiana del primo trentennio del secolo, appare evidente
che nel nostro paese non ci sono forze adeguate per rispondere compiutamente a tali bisogni e tendenze.
Potremmo sostenere che, dagli anni ‘40 in avanti, si ri-producono in Italia il medesimo dibattito/confronto ma
anche scontro, relativamente all’autonomia, all’applicazione e all’impostazione scientifica della psicologia (e con
questa della psicologia clinica) che in USA era stato affrontato 50 anni prima.
Alcuni aspetti di tutto ciò sono tuttora in corso: vedi ad esempio la rivalità con la psichiatria, il mancato
riconoscimento dell’autonomia organizzativa degli psicologi nel SSN, la dimensione formativa della psicologia
clinica, la privatizzazione della formazione alla psicoterapia, l’ambiguità rispetto alla collocazione tra scienze
umane-mediche e della natura…
La strada per la psicologia clinica italiana, in definitiva, è ancora lunga, soprattutto dal punto di vista culturale
poichè, sotto il profilo scientifico, globalizzazione, mainstream e egemonia nordamericana hanno sostanzialmente
appianato le differenze con oltreoceano, portando lo sviluppo scientifico nazionale (ovviamente in rapporto al PIL
investito in ricerca, decisamente in sufficiente) proporzionalmente pari al resto del mondo.
Absit iniuria verbis, non sono certo che ciò sia un bene e soprattutto che non sarebbe potuta andare in modo
diverso...

4- Psicologi Sociale

Introduzione
In questa lezione parliamo dello sviluppo della psicologia sociale, partendo dai suoi precursori. Come vedremo, i
primi manuali della disciplina risalgono al primo decennio del XX secolo.
Pubblicati da McDougall e da Ross, costituiscono i capostipiti delle due ottiche della psicologia sociale su cui ci
concentreremo. La prima è quella disposizionale, che spiega i fenomeni psicosociali appellandosi soprattutto alle
stabili variabili individuali: le disposizioni degli individui, appunto. La seconda è quella situazionale, che li spiega
facendo riferimento soprattutto alle variabili sociali, culturali e contestuali
Ma la psicologia sociale non nasce nel vuoto. Al contrario, nasce nello spazio lasciato libero da due diverse
discipline che si stavano affermando con una certa prepotenza a partire della seconda metà dell’800: la sociologia e
la psicologia scientifica. In questa lezione, vi racconterò molto succintamente qual era lo status di queste discipline
al momento della fondazione della psicologia sociale, e qual era il buco di conoscenza che la nascente psicologia
sociale intendeva colmare. Come vedremo, eravamo di fronte a una disciplina, la sociologia, che mirava a spiegare i
fenomeni sociali lasciando poco spazio, o meglio praticamente nessuno spazio, alle dinamiche individuali. In
maniera speculare, la nascente psicologia fondava se stessa sullo studio dei singoli individui, senza lasciare quasi
spazio per l’analisi dei fenomeni collettivi. C’era insomma un rilevante spazio vuoto, in mezzo a queste due
discipline, ed è lo spazio che la psicologia sociale si è proposta di colmare allora, e che continua a proporsi di
colmare oggi, per fornire spiegazioni degli stati mentali e dei comportamenti degli individui più ricche ed esplicative
di quelle possibili se ci si basa sugli approcci esclusivamente concentrati sull’individuo e sulla società.
Dopo avere discusso che cosa erano la sociologia e la psicologia di metà-fine ‘800, vi racconterò alcuni studi degli
autori che possono essere considerati i principali precursori della psicologia sociale: si tratta di ricerche
empiriche o di teorizzazioni che, pur non essendo ancora esplicitamente etichettabili come psicosociali, avevano in
sé, in nuce, alcuni dei tratti fondamentali della nostra disciplina. Alcuni li accenneremo soltanto, mentre a uno di
loro, la Psicologia delle folle di Gustav Le Bon, dedicheremo un certo approfondimento, dal momento che, pur
essendo decisamente superata nei suoi contenuti, porta tuttora inscritte in sé, tendenzialmente fra le righe, alcune
delle cose che la psicologia sociale contemporanea considera ancora centrali nella sua teorizzazione e nella sua
ricerca
Verremo poi a trattare dei primi due manuali della disciplina che, come vi dicevo, sono le basi dei due approcci su
cui ci stiamo concentrando. E successivamente continueremo a parlare dello sviluppo della psicologia sociale,
individuando una serie di fasi fondamentali in cui si è articolata la sua storia: fasi caratterizzate da specifici
argomenti di ricerca considerati centrali. Fra essi, ci concentreremo soprattutto su uno: quello che punta a spiegare
il conformismo e le spinte a mantenere inalterato l’ordine sociale da un lato, e dall’altro a spiegare l’innovazione e il
cambiamento sociale. E fasi caratterizzate da diversi e specifici metodi di ricerca. Ed è proprio trattando di uno di
questi metodi, che a mio parere costituisce una delle più interessanti frontiere per la psicologia sociale
contemporanea, che chiuderemo questa prima lezione.

L’ottica psicosociale
Questa prima lezione è dedicata all’introduzione alla psicologia sociale. Vi racconterò che cos’è la psicologia
sociale, qual è la sua ottica, in che cosa si differenzia rispetto alle discipline cui è più strettamente imparentata,
ossia la psicologia e la sociologia. Vi racconterò di che cosa si occupiamo noi psicologi sociali, vi farò un cenno ai
metodi di ricerca che utilizziamo e poi, coerentemente con il taglio storico di questo corso, discuterò con voi dello
sviluppo della sua disciplina, dai primi lavori condotti sul tema fino a quelle che secondo me sono le ultime
frontiere. Visto il risicato tempo a nostra disposizione sarà inevitabilmente un’introduzione abbastanza veloce. Ma
conto che essa possa aiutarvi a capire che cosa fanno gli psicologi sociali, e come quel che fanno sia la diretta
conseguenza dello sviluppo storico della disciplina
In maniera un po’ paradossale, il primo autore che vi cito in questa sezione del corso non è uno psicologo sociale, e
non è nemmeno uno psicologo. È invece un sociologo, Norbert Elias, che nella seconda metà del XX secolo ha
scritto La società degli individui, un volume che costituisce una pietra miliare per descrivere qual è l’ottica della
psicologia sociale. Elias era un sociologo, ma, negli anni in cui si trovò in esilio per sfuggire alla persecuzione
nazista, operò anche come psicologo e come formatore. Non stupisce dunque la sua ottica implicitamente ma
genuinamente psicologico sociale.
Secondo Elias, nel pensiero occidentale individuo e società sono sistematicamente considerati entità fra loro
autonome, “come se il singolo fosse un essere che esiste interamente per sé solo, e la società come un qualcosa
che inspiegabilmente esiste al di là dei singoli”. A suo parere, però, questi presupposti solo errati. Dobbiamo
considerare l’individuo e la società come due entità strettamente interrelate fra di loro. Siamo, nel contempo, esseri
individuali (ognuno con la propria esperienza, la propria storia) ed esseri sociali (inseriti fin dalla nascita in una
società che garantisce la nostra sopravvivenza e ci consente di sviluppare la nostra individualità).
Non è insomma pensabile un individuo isolato dalla società; la società concorre a fare di noi ciò che siamo e
addirittura ciò che pensiamo, facciamo e sentiamo.
Giusto un paio di esempi per sostenere questo punto di vista. Pensiamo all’autostima, ossia a quanto positiva o
negativa è la nostra immagine di noi stessi. Si tratta evidentemente di uno degli stati più privati e individuali della
nostra mente. Ebbene, la ricerca mostra che essere portati, per la propria struttura di carattere o di personalità,
alla competitività tende a promuovere l’autostima delle persone che vivono nelle società individualiste (tipicamente
quella statunitense), ossia in quelle in cui il fulcro del pensiero sociale sono l’individuo, la sua espressione di sé e
la sua realizzazione. Viceversa, essere portati alla competitività nelle società collettiviste (tipicamente quelle
orientali), ossia quelle in cui il fulcro del pensiero sociale sono la collettività, l’integrazione sociale e la
cooperazione, peggiora l’autostima delle persone. Lo stesso tratto privatissimo, individuale, assume una
connotazione opposta in funzione del contesto in cui si dispiega. Considerare solo uno dei due versanti della
faccenda, quello individuale o quello collettivo, non ci aiuta a capire il singolo.
Altro esempio, tratto dagli studi condotti da Minard nel Belgio della metà del XX secolo. Minard si occupava di
studiare le interazioni fra i minatori che lavoravano nelle viscere della terra.
Come sappiamo, quello del minatore è un lavoro durissimo, che la gente, se solo può, cerca di non fare. E infatti
nelle miniere belghe c’era un numero enorme di immigrati (fra cui molti italiani… era l’epoca in cui gli immigrati
eravamo noi), e i belgi che ci lavoravano erano i più svantaggiati socialmente. Ebbene, Minard osservò che quando
i minatori erano nella pancia delle montagne, centinaia di metri sotto il livello del suolo, a fare un lavoro terribile
e pericolosissimo, si consideravano tutti pari gli uni rispetto agli altri. Interagivano fra loro trattandosi tutti come
minatori, senza distinzione di nazionalità e di colore della pelle. Ma quando salivano sul trenino che li riportava in
superficie, si segregavano reciprocamente. I bianchi stavano con i bianchi, i neri stavano con i neri. Gli italiani
stavano con gli italiani, i belgi con i belgi e così via. Era il contesto che diceva alle persone quali erano i
comportamenti appropriati alla situazione in cui si trovavano e, in senso lato, addirittura chi esse erano.
Ma se la società impatta su di noi, anche noi possiamo impattare sulla società. Lo facciamo nei nostri
comportamenti quotidiani, sia nella vita familiare e relazionale più strettamente intesa, sia impegnandoci in azioni
dalla rilevante valenza sociale. Pensate a come è cambiata la cultura occidentale negli ultimi 50 anni grazie al
comportamento coordinato di piccole minoranze.
Pensate a come il ’68, il femminismo, i movimenti GLBT hanno modificato definitivamente i valori sociali, i costumi
e perfino le leggi. Pensate che fino a pochi decenni fa in Italia la pillola era consentita solo per regolarizzare il
ciclo mestruale e ora viviamo una grandissima libertà sessuale. Pensate che fino a pochissimi decenni fa era
ancora in vigore la cosiddetta legge sul delitto d’onore, che dava così tante attenuanti al marito che aveva ucciso
la moglie infedele da neutralizzare quasi completamente ogni condanna e ogni legittimo desiderio di giustizia. Ne
parla in maniera tragicamente divertente il bellissimo film di Pietro Germi Divorzio all’italiana.
Fino a pochi anni fa, insomma, c’era il delitto d’onore, il divorzio non era consentito, l’aborto anche, e oggi viviamo
in una situazione in cui la discrepanza di status e di potere fra uomini e donne si è grandemente (anche se non
totalmente) ridotta, e le donne non sono mai state padrone della propria vita e del proprio corpo come adesso.
Tutto questo, appunto, grazie alle azioni di pochi individui.
La metafora che spesso si usa per descrivere questa reciproca influenza fra individuo e società è quella del fiume.
Il letto del fiume (che nella metafora rappresenta la società) indirizza e in parte determina lo scorrere dell’acqua
(che nella metafora rappresenta gli individui). Ma anche l’acqua, scorrendo, certo faticosamente e certo solo nel
lungo periodo, cambia il letto del fiume, adattandolo a sé.
Siamo insomma contemporaneamente essere individuali ed esseri sociali, e l’ottica psicosociale assume questa
interdipendenza fra individuo e società come suo tratto fondamentale: si afferma proprio come disciplina cerniera
fra lo psichico e il sociale.
Nel suo interessantissimo libro di psicologia culturale Menti tribali, Jonathan Haidt sostiene una tesi che va
esattamente in questa direzione. Secondo Haidt, “Uno dei principi della psicologia culturale” (per noi: della
psicologia sociale) “è che ‘cultura e psiche si completano a vicenda’. In altri termini, non si può studiare la mente
ignorando la cultura,” (noi diremmo il contesto) “come fanno di solito gli psicologi, perché le menti funzionano solo
dopo esser state riempite di una determinata cultura. E non si può studiare la cultura senza tener conto della
psicologia, come sono soliti fare gli antropologi, perché concetti e desideri profondamente radicati nella mente
umana contribuiscono a modellare pratiche e istituzioni sociali (per esempio i riti di iniziazione, la stregoneria o la
religione), che per questo assumono forme simili anche da un continente all’altro”.
E quindi che cosa fa la psicologia sociale? Innanzitutto va ricordato che la psicologia sociale è, prima di tutto, una
psicologia. Ne consegue che le cose che vuole studiare si collocano soprattutto (anche se, per il suo statuto, non
solo) a livello individuale. Studiamo soprattutto opinioni (cioè prese di posizione su argomenti socialmente
rilevanti: è un’opinione che cosa pensiamo della pena di morte, della guerra umanitaria, ma anche dell’opportunità
di fare un corso on line di storia della psicologia: la rilevanza sociale può essere collettiva, generale, ma anche
delimitata a uno specifico ritaglio del mondo sociale).
Studiamo anche atteggiamenti. Come vedremo più avanti, quello di atteggiamento è un costrutto centrale per
tutta la psicologia sociale. Gli dedicheremo un po’ di approfondimento quando parleremo di stereotipi e
pregiudizi. Per adesso, accontentiamoci di imparare che un atteggiamento non è, come nel linguaggio
quotidiano, un modo di porsi, ma è la valutazione complessiva di un oggetto. Ho un atteggiamento positivo verso
la barriera corallina, verso i cantautori italiani, verso Menti tribali di Haidt se questi oggetti mi piacciono. Ho un
atteggiamento negativo verso la chimica inorganica, verso i presidenti americani con i capelli arancioni e verso
la trippa se questi oggetti non mi piacciono.
Il terzo oggetto tipicamente studiato dagli psicologi sociali sono i comportamenti. In questo caso l’accezione
comune e quella scientifica del concetto sono le stesse, per cui non vale la pena approfondirlo.
Studiamo stati e variabili principalmente individuali, dicevo. Questo perché una parte della psicologia sociale non
studia singoli individui, ma piccoli gruppi. Si possono infatti studiare le dinamiche di gruppo; le interazioni che
tipicamente hanno luogo in questi aggregati relazionali. E i gruppi possono essere messi a tema come oggetto di
studio anche nelle loro relazioni reciproche, concentrandosi tipicamente sui comportamenti di conflitto e, più
raramente, di cooperazione. Esiste proprio una disciplina, che si chiama Psicologia dei gruppi, che nasce nella
prima metà del XX secolo proprio grazie ai lavori di alcuni importantissimi psicologi sociali, e che studia sia le
dinamiche intragruppi, sia le relazioni intergruppi. Lo vedremo più avanti.
La psicologia sociale, insomma, studia come l’esperienza, l’attività mentale e pratica e i comportamenti individuale
e di gruppo si articolano con il contesto sociale, analizzando i processi con cui percepiamo in mondo personale e
sociale, ma anche la sua valutazione, derivante dall’esperienza diretta o dal pregiudizio, l’influenza sociale,
rapporti intergruppi e così via.
È insomma una disciplina della relazione, in senso lato (fra individui, fra individuo e gruppo, fra individuo e
società, fra gruppi e così via).
L’unità di analisi più classica della psicologia sociale è definita individuo-in-situazione: proprio perché un individuo
a sé stante, avulso dal contesto, per noi ha poco senso. Ma situazione in che senso? Situazione in senso lato.
Abbiamo visto prima parlando di autostima come le variabili sociali e culturali contano nell’influenzare gli stati
individuali, anche quelli più privati che fanno riferimento a che cosa sappiamo e pensiamo di noi stessi. E abbiamo
visto, parlando di minatori che entrano ed escono dalle viscere della terra, che anche le relazioni quotidiane
possono influenzare quel che riteniamo adatto e desiderabile nelle nostre interazioni con gli altri. Ma anche trovarsi
per caso in una specifica situazione può impattare pesantemente sui nostri comportamenti. L’esempio emblematico
è quello che concerne la mancata messa in atto dei comportamenti di aiuto. I media sono pieni di esempi in cui ci
sono persone che hanno bisogno di essere soccorse (perché sono state aggredite, perché sono svenute per terra,
perché sono state investite e così via) e nessuno di quelli che assistono alla scena le aiuta. Latané e Darley hanno
mostrato che questo non avviene tanto perché chi non aiuta è egoista, autocentrato, disinteressato agli altri e così
via. Non avviene insomma per stabili ragioni individuali. Avviene, al contrario, per mutevoli ragioni contestuali. Un
complesso insieme di esperimenti ha infatti mostrato che, nell’influenzare la probabilità di mettere in atto un
comportamento di aiuto, la variabile cruciale è il numero di astanti. Quante più sono, tanto più è difficile che le
persone aiutino. Questo essenzialmente per due ragioni. Da un lato, la cosiddetta ignoranza pluralistica. Quelle che
richiedono la messa in atto di comportamenti di aiuto sono, per fortuna, situazioni inconsuete. Potrebbe non
capitarci mai di trovarci in una situazione del genere. Se e quando ci capita, non abbiamo una solida esperienza
pregressa che ci dica che cosa bisogna fare. Se ci sono altre persone, tendiamo a osservare il loro comportamento
per stabilire che cosa è giusto fare. Ma questo lo fanno tutti, e quindi tutti finiscono per studiarsi a vicenda, nessuno
si muove, e tutti concludono che l’inazione è la cosa giusta.
La seconda ragione è la cosiddetta diffusione di responsabilità. Se siamo da soli e vediamo una persona riversa al
suolo, sappiamo che tocca a noi intervenire per aiutarla. O noi o nessuno.
Noi, quindi. Ma se ci sono altre persone, ognuna finirà per chiedersi di chi è la responsabilità dell’intervento. Ne
conseguirà, con grande facilità, che nessuno intervenga.
Individuo-in-situazione, dunque. Dovrebbero bastare questi pochi esempi per mostrarci che estrarre l’individuo
dalla situazione sottrae alle nostre spiegazioni delle variabili indispensabile a spiegarne atteggiamenti e
comportamenti. Senza considerare la situazione, dovremmo concludere che la competitività e l’autostima non sono
in relazione fra di loro (quando in realtà lo sono, e la relazione cambia in funzione dei principali valori sociali
culturalmente condivisi).
Che i minatori di Minard mettevano in atto comportamenti insensati e contraddittori (quando in realtà erano
perfettamente sensati e coerenti con il contesto relazionale in cui essi si trovavano). Che i passanti apatici che non
aiutano sono egoisti, asociali e disinteressati agli altri (quando in realtà sono così sociali che basano la loro scelta
di non intervenire sulla presenza di altre persone, che neppure conoscono)
E a che cosa serve la psicologia sociale? Secondo Gergen, la psicologia sociale serve a fare tre cose.
La prima è la comprensione. Puntiamo a fare progredire la conoscenza, spiegando perché si verificano i fenomeni
psicosociali. Perché nelle situazioni collettive la gente non aiuta chi ne ha bisogno, come abbiamo detto. O, per
pensare ad altre cose di cui ci occuperemo nelle nostre lezioni, perché tendiamo a essere conformisti o
anticonformisti rispetto ai gruppi in cui ci troviamo a essere inseriti. O perché tendiamo a pre-giudicare le altre
persone per il loro colore della pelle. Lo vedremo più avanti, appunto.
La seconda è la sensibilizzazione sociale: segnalare alla società alcuni suoi meccanismi di malfunzionamento. Ad
esempio, come contribuiamo, spesso inconsapevolmente, a promuovere le disuguaglianze di genere. O come
possiamo, in maniera totalmente inattesa, indipendentemente dai nostri valori individuali, costituire un pericolo per
la democrazia.
La terza è la emancipazione sociale: descrivere possibilità di vita alternative, impegnarsi per inverarle. È l’ambito
della psicologia sociale applicata, quella che utilizza le proprie scoperte e le proprie chiavi di lettura per
impegnarsi, anche politicamente, per modificare il mondo puntando a renderlo più simile a quello che, secondo gli
psicologi sociali, dovrebbe essere. È una psicologia sociale che spesso sconfina nella psicologia di comunità. Una
psicologia che, come la ha definita Amerio, uno dei suoi fondatori, si colloca nell’intersezione fra clinica e politica.
Ma non ne parleremo, perché ci porterebbe fuori strada rispetto ai nostri obiettivi. La incontrerete, comunque, se vi
iscriverete ai corsi di studio del nostro dipartimento.

Il clima culturale
Si considera tradizionalmente che la psicologia sociale sia stata fondata nel 1908, con la pubblicazione dei primi
due manuali che sistematizzano la natura, i metodi e le scoperte della disciplina. Si tratta ovviamente di una scelta
convenzionale. Infatti, i due manuali passano sostanzialmente sotto silenzio, per essere riscoperti, o meglio forse
addirittura scoperti qualche decennio dopo. Ed è una scelta convenzionale anche perché in precedenza sono stati
pubblicati alcuni lavori che sono degli importanti precursori dell’ottica della psicologia sociale, compreso un
volume che riporta le parole psicologia sociale nel titolo. Alcuni non hanno quasi lasciato traccia, altri sono stati
dimenticati ma hanno portato a scoperte genuinamente psicosociali, altri hanno fatto delle scoperte che sono
ancora considerate di base per la nostra disciplina, e ancora sono ormai totalmente superati nei loro contenuti,
ma hanno avuto delle intuizioni che, anche se in maniera completamente rivista, informano ancora la psicologia
sociale attuale.
Ma ovviamente la psicologia sociale non nasce nel vuoto. Anzi, nasce in un fervente ribollire culturale dominato
dal positivismo, in cui le scienze umane e sociali vengono fondate, si diffondono e si dotano di uno statuto
scientifico.
In questa lezione vi racconterò i lineamenti essenziali di questo dibattito scientifico-culturale), per raccontarvi che
cosa stava succedendo nelle scienze umane e sociali di metà/fine ‘800, e anche che cosa NON stava succedendo.
Che cosa veniva studiato e che cosa NON veniva ancora studiato. Quali discipline dominavano il campo e quale
spazio lasciavano non presidiato, lasciando libero per la fondazione della psicologia sociale. Passeremo poi in
rassegna i precursori della psicologia sociale: i contributi che, non ancora ufficialmente psicosociali, ne
rappresentano un’anticipazione. Lo faremo evidenziandone il contributo teorico, il contributo empirico o l’eredità
che hanno lasciato alla nostra disciplina, pur con i limiti teorici e metodologici che inevitabilmente li caratterizzano.
La sociologia viene fondata intorno alla metà del XIX secolo. È Auguste Comte a coniare il vocabolo che la definisce,
combinando un termine greco e uno latino in un neologismo che significa scienza della società. Mosso dalle crisi
sociali e politiche dell’epoca, Comte si propone di fondare un nuovo modo di analizzare empiricamente la società
usando un approccio razionale e scientifico, basato sull’osservazione e sulla sperimentazione. Nella sua ottica, la
nascente sociologia avrebbe dovuto essere una disciplina che avrebbe fornito la base scientifica su cui fondare un
nuovo e stabile ordine sociale.
Secondo Comte, fra scienze della natura e scienze umane non esiste un dualismo. Anzi, le scienze umane
devono essere fondate come delle vere e proprie scienze naturali, facendone proprio il metodo scientifico. L’idea
di Comte è davvero chiara se si pensa che prima di sociologia, aveva chiamato nientemeno che fisica sociale la
nascente disciplina. In questa logica, la società è un “organismo collettivo, un tutto”. Questo ente globale è
assimilato ad un organismo biologico, e come tale deve essere studiato: con lo stesso metodo delle scienze
naturali.
L’obiettivo di Comte era espellere tutto il pensiero non scientifico dal dominio della scienza, a favore di una
analisi oggettiva, rigorosa, metodica, in una parola, scientifica, della società e della sua evoluzione. Nella prima
parte di questo modulo il professor Adenzato vi ha mostrato come, per certi versi, nella psicologia moderna, pur
lontani dalla rigidità del paradigma positivista fondato da Comte, permangono alcuni echi di questa visione, prima
fra tutte l’idea fondamentale che è il metodo scientifico a rendere scientifica una disciplina.
Per quel che qui ci interessa, i principi fondamentali della sociologia di Comte sono due. Il primo è il primato del
tutto sulle parti: secondo Comte, gli specifici fenomeni sociali possono essere spiegati solo se li si esamina
all’interno del contesto sociale e globale al quale appartengono, esattamente come in biologia un organo e le sue
funzioni possono essere compresi solo se sono messi in relazione all’organismo tutto intero. Il tutto predomina
sulle parti. E il sociale predomina sull’individuale.
Il secondo principio fondamentale di Comte è che gli esseri umani sono gli stessi dovunque e in ogni epoca, perché
la loro dotazione biologica e il loro sistema cerebrale non cambiano nel tempo e nello spazio. La società, dunque,
evolve allo stesso modo, e tutta l’umanità è incamminata verso il medesimo tipo più avanzato di società.
Dal punto di vista metodologico, il compito del sociologo è individuare le poche leggi che, invariabilmente rispetto
al tempo e allo spazio, governano il funzionamento delle società, raggiungendo quello che Comte definisce lo
“stato positivo”. Assieme alla sociologia, Comte fonda insomma il positivismo, e dà alla nascente disciplina il
compito di affiancarsi alla matematica, all’astronomia, alla fisica, alla chimica e alla biologia, studiando le società
umane attraverso il ragionamento e l’osservazione empirica.
Coerentemente con l’ottica della nascente disciplina, poco se non nessuno spazio viene lasciato allo studio del
singolo individuo.
Coerentemente con i principi di Comte, Emile Durkheim si pone dinnanzi allo studio dei fenomeni sociali con ottica
positivista e presupponendo la supremazia del sociale sull’individuale. Secondo il sociologo francese, cito
letteralmente, “tutti i fenomeni sociali sono cose e devono essere trattati come cose”. Ma che cos’è una cosa, si
chiede Durkheim? E si risponde, sempre testualmente: “è una cosa tutto ciò che è dato, tutto ciò che si offre e che
si impone all’osservazione. Considerare i fenomeni come cose significa considerarli in qualità di dati che
costituiscono il punto di partenza della scienza”. Come le altre discipline scientifiche, la sociolpogia deve dunque
essere nel contempo empirica, cioè basata su dati, e scientifica.
Questo dal punto di vista del metodo. Dal punto di vista dell’approccio, l’ottica di Durkheim può essere classificata
fra quelle centrate sul determinismo sociale. Per quanto possa apparire deludente o sgradevole, le azioni umane
obbediscono a un certo determinismo: lungi da essere completamente libera, obbedisce difatti alle regole e alle
prescrizioni sociali. Al di là delle apparenze, le azioni umane hanno delle importanti regolarità; delle costanti, e
sono sostanzialmente standardizzate. L’ordine sociale è il prodotto di questo determinismo: di questa inesorabile
influenza che la dimensione sociale esercita sulla dimensione individuale. La vita sociale può esistere solo perché
esiste questo ordine: altrimenti, ognuno agirebbe per sé, e il conflitto e l’imprevedibilità dominerebbero sul mondo.
Le società possono esistere solo se sono regolate dall’ordine sociale. L’ordine sociale è dunque una forma di
ordine naturale.
Secondo Durkheim, molte delle nostre idee (es: la religione) sono in realtà null’altro che rappresentazioni collettive
che si impongono sulla nostra individualità. Perfino il suicidio, atto privatissimo per eccellenza, ha principalmente
cause sociali: Le analisi empiriche mostrano che si suicida soprattutto nelle società e nelle epoche in cui c’è meno
integrazione sociale. Il suicidio ha dunque, in buona parte, origini sociali, individuate nella dis-integrazione di
famiglia, società, religione e nella anomia, derivante dal rompersi del collante sociale della solidarietà derivante
dalla crisi delle norme e dei valori vigenti.

In definitiva, la nascente sociologia, con il suo approccio centrato sul determinismo sociale, e con la sua idea
fondante secondo cui la dimensione sociale esiste prima degli individui e indipendentemente da essi, lascia poco o
nessuno spazio allo studio del singolo e della sua espressione individuale. Come ha più recentemente sostenuto il
sociologo canadese Guy Rocher, se prescindesse da questa ottica determinista la sociologia non esisterebbe. Non
è più così, naturalmente, perché la sociologia contemporanea è molto diversa da quella degli esordi. Ma questo
era una parte del campo in cui si muovevano i fondatori della psicologia sociale.
L’altra parte del campo era quella occupata dagli psicologi. Ed è di questa che ora dobbiamo parlare
In ogni caso, Wundt si propone di fondare la psicologia come disciplina scientifica principalmente tentando di
ringiovanire la filosofia, dandole un’impronta empirica. L’oggetto della nuova disciplina sarà lo studio della
coscienza privata individuale. I classici problemi di studio dei primi psicologi erano i giudizi che i loro soggetti
sperimentali esprimevano sulla dimensione, l’intensità e la durata di stimoli fisici, con l’aggiunta talvolta di
giudizi sulla loro simultaneità e associazione.
Il problema fondamentale della nascente psicologia non riguardava tanto l’oggetto della disciplina, quanto il suo
metodo. Da questo punto di vista, il problema con cui ci si confronta a fine ‘800 è lo stesso con cui si confronta
tuttora la psicologia moderna: come è possibile osservare la mente che, per definizione, è inosservabile? La
risposta che i primi psicologi si danno è quella che, in massima parte, ci diamo tuttora: la mente non può essere
osservata direttamente, ma può essere inferita osservando il comportamento delle persone. Il metodo adottato
da Wundt era quello sperimentale della fisiologia: si studiavano le risposte immediate dei partecipanti, senza
lasciare loro spazio alla riflessione. La concezione era elementarista: si scomponeva il fenomeno che si
analizzava nelle sue componenti principali e le si studiava analiticamente.
In maniera complementare a quella della sociologia dell’epoca, tutto questo lasciava davvero poco, se non nessuno
spazio per uno sguardo attento a considerare il singolo nel suo contesto. Per questi primi studiosi, e per molti
studiosi contemporanei, a dire il vero, la dimensione sociale si aggiunge a quella individui.
Questo è per certi versi un po’ paradossale. Infatti, Wundt è unanimemente considerato uno dei principali fondatori
della psicologia generale. Ma era lui stesso a non considerarla autoconclusa. Convinto che lo studio della mente
individuale isolata non possa esaurire il tema della psicologia, scrive un’opera monumentale che intitola “Psicologia
dei popoli”. Si tratta nientemeno che di 10 volumi pubblicati nei 20 anni compresi fra il 1900 e il 1920. Nell’opera
Wundt indaga i processi mentali umani nei loro aspetti sociali, proponendosi di farlo usando informazioni oggettive
quanto quelle che proviene dagli esperimenti. Nella Psicologia dei popoli Wund studia le manifestazioni spontanee
della mente nelle sue manifestazioni oggettive (principalmente il linguaggio, il mito e i costumi). Addirittura, Wundt
arriva a sostenere che questa è la parte più importante della psicologia, destinata a eclissare la psicologia
sperimentale. Così non sarà. La Psicologia dei popoli è un’opera ormai quasi dimenticata, e Wundt viene
sistematicamente ricordato per i suoi studi di laboratorio, condotti in ottica strettamente individualistica
E quindi, a fine ‘800, assistiamo all’interessantissimo sviluppo di due nuove discipline, la sociologia e la psicologia
scientifica. Dal punto di vista epistemologico, entrambe si fondano sui principi del positivismo. Dal punto di vista
metodologico, entrambe hanno un taglio fortemente empirico, basato sull’analisi scientifica di dati e sulla ricerca
delle leggi di funzionamento dei fenomeni di cui si occupano
Ma sono entrambe rigidamente focalizzate sull’analisi di oggetti di studio fra di loro difficilmente integrabili. La
sociologia sulle leggi di funzionamento delle società, che sono viste, appunto, dominare quelle di funzionamento
degli individui. La psicologia sulle leggi di funzionamento dei singoli, che sono considerati i pilastri su cui le società
si fondano.
Manca qualcosa. E questo qualcosa varrà sviluppandosi nello stesso periodo. Nelle prossime slide vedremo
come.
Parliamo qui della nascita della psicologia scientifica, perché come vi ha mostrato il professor Adenzato nella
prima parte di questo corso di storia della psicologia, in senso lato, si è sempre fatta psicologia, da quando l’essere
umano ha acquisito la capacità di pensare in modo riflessivo. Se non fossimo interessati a ragionare su di noi, sulle
nostre difficoltà, sulle nostre questioni problematiche, non saremmo qua. Diceva addirittura Erich Fromm, che
incontreremo nella seconda parte di questa porzione di corso, “credevamo di essere studenti, ma in verità eravamo
pazienti”. Se non fossimo sensibili alle difficoltà esistenziali, alle aree di fatica e di sofferenza della nostra vita
mentale, faremmo altro. Ma, in nuce, c’era psicologia anche nelle religioni, nella letteratura, nei miti, e così via.
L’oggetto era quello, insomma, e per molti versi rimane quello. Quel che cambia, come avete visto, è il metodo. È
solo dandosi un metodo scientifico che la psicologia diventa una scienza. E, convenzionalmente, si fa risalire
l’origine della psicologia scientifica alla fondazione del laboratorio di psicologia dell’università di Lipsia, ad opera di
Wilhelm Wundt alla fine del XIX secolo. È una scelta convenzionale, appunto, perché si faceva ricerca psicologica in
altri posti e anche in altre epoche. Del resto, e questo vale anche per la sociologia di cui ci siamo appena occupati,
che la nascita di una disciplina non è come la nascita di un bambino, che entra in sala parto nella pancia della
mamma e ne esce in braccio al papà. Al contrario, è un evento complesso, che dura nel tempo e che non ha una
soglia precisa che permette di individuare un prima e un dopo in maniera netta e inequivocabile.
I percursori
Trattiamo ora i principali precursori della disciplina.
Il primo precursore della psicologia sociale è probabilmente Linderer, che pubblica una delle prime opere che
hanno nel titolo, nello stesso tempo, la parola psicologia e la parola società. Linderer affronta il complesso
rapporto fra individuo e società, ma lo fa semplificandolo in maniera assai rilevante. Per lui, coerentemente con
la logica della psicologia scientifica individuale, la società in quanto tale non esiste. Essa altro non è che
l’insieme delle persone che la costituiscono. Siamo insomma di fronte a un precursore più negli auspici che
nella effettiva realtà.
Una decina di anni dopo, è stato il patriota, filosofo e politologo ante litteram Carlo Cattaneo, uno dei padri del
pensiero federalista in Italia, a pubblicare un’opera di una certa importanza per il discorso che stiamo facendo. In
Psicologia delle menti associate, Cattaneo fonda un tentativo di usare le categorie hegeliane per studiare le
relazioni interpersonali. È un’opera molto diversa da quelle che siamo abituati a leggere nei quasi 150 anni
successivi, sia come stile, che come approccio, che come metodo. Se vi interessa, la potete scaricare gratis da
internet. Ma rimane, in nuce, l’idea che le menti individuali cambiano, almeno un po’, in funzione della presenza di
altri.
Ma il principale precursore della psicologia sociale è un altro studioso. Si tratta di Gustav Le Bon, che nel 1895,
nell’epoca in cui Freud cominciava a cambiare per sempre non solo la psicologia, ma il pensiero occidentale
stesso, pubblica La psicologia delle folle, un volume che ha avuto un clamoroso successo non solo in ambito
scientifico, ma anche in ambito politico. È per questo che gli dedicheremo un certo approfondimento.
Gustav Le Bon è stato una figura stravagante e interessantissima. Forse medico, ma non ne siamo sicuri, ha
pubblicato lavori discipline più svariate: dall’anatomia alla fisiologia, dall’igiene all’antropologia, dall’archeologia
alla fisica atomica e, quel che qui più ci interessa, anche in psicologia. Se in patria l’accademia diffidava di lui, tanto
da non attribuirgli mai una cattedra universitaria, all’estero in certi periodi è stato addirittura considerato, come
peso scientifico, pari a Lamark e addirittura a Darwin.
Il punto di partenza di Le Bon è l’osservazione di un nuovo attore sociale, la folla, che sembra rischiare di
scompaginare definitivamente l’ordine sociale vigente. Siamo a fine ‘800. Si diffondono su larga scala le idee
socialiste e comuniste, si diffonde il movimento operaio, i sindacati acquisiscono potere e l’ordine sociale (che,
come abbiamo visto, per i sociologi era nientemeno che una manifestazione dell’ordine naturale delle cose) pare
vacillare. Le folle, per Le Bon, sono il grande protagonista della infausta epoca che si stava vivendo.
Che cos’è una folla per Le Bon? È un insieme numericamente grande di persone, che si riuniscono in uno specifico
momento in uno specifico luogo, per uno specifico avvenimento. Ma il suo stesso formarsi diventa a sua volta un
avvenimento. Il punto più importante è l’ultimo: le persone nella folla cambiano, inevitabilmente e in maniera
potenzialmente drammatica.
Le folle che spaventano Le Bon sono evidentemente quelle che manifestano per fare valere i propri diritti, che
assumono coscienza politica per tentare di migliorare le proprie condizioni di vita e per ridurre l’ingiustizia
stridente delle loro esistenze.
A questo proposito, scrive testualmente Le Bon: “Le folle formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano,
creano le camere del lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, rendono a regolare le condizioni dell’impiego e
del salario. Inviano nelle assemblee governative i loro rappresentanti sprovvisti di ogni iniziativa, di ogni
indipendenza, e ridotti nella maggioranza dei casi a essere soltanto i portavoce dei comitati che li hanno eletti”. Si
riconosce qui con grandissima evidenza l’ideologia anti-egualitaria, antiliberale e reazionaria di Le Bon. E non solo
qui, come vedremo.
Ma non sono solo le folle politicizzate, che lottano per i loro diritti, a spaventare Le Bon. Lo spaventano anche le
folle pacifiche, festose, gioiose, che si formano in occasione di feste di paese, manifestazioni sportive, spettacoli
circensi e così via. E questo perché, come abbiamo detto, le persone nelle folle, quale che sia la natura delle folle
stesse, cambiano, diventando totalmente irriconoscibili. Perché nella folla, in ogni folla, le naturali differenze fra
le persone si appianano, e tutti si trovano appaiati al livello più basso dell’evoluzione umana. Con sdegno e
preoccupazione, Le Bon scrive a tale proposito una frase che a distanza di oltre un secolo farebbe sorridere, se
non avessimo in mente gli orrori che hanno costellato il Novecento: nella folla “il professore diventa uguale al
suo calzolaio”.
In sostanza, per Le Bon disuguaglianza fra gli uomini (le donne non sono evidentemente pervenute, almeno per
ora… ma vedremo che ce ne sarà anche per loro) è lo stato naturale, nulla può essere fatto per ridurla. E anzi,
farlo porta a un appiattimento sul livello più basso e inquietante, dato che i motivi alla base delle nostre azioni
sono principalmente inconsci, derivanti da un fondo di incontrollabili passioni che si scatenano quando ci
troviamo a essere nella folla.
Ma che cosa succede alle persone nelle folle? Succede che si trasformano drammaticamente. Coerentemente con
l’ottica freudiana che stava diffondendosi nella cultura dell’epoca, secondo Le Bon in tutte le persone è dormiente
un grumo di passioni irrazionali, un fondo di istinti che quando sono da sole solitamente non si attiva, ma che
invece si scatena quando sono nelle situazioni collettive.
In tutti noi c’è insomma un fondo atavico di passioni che devono essere tenute sotto controllo, per difendere
l’ordine sociale. Ed è nella folla che le passioni prendono il sopravvento sulla nostra razionalità, rendendoci
pericolosi. Il sociale è insomma il luogo che corrompe i processi psichici: per il solo fatto di appartenere a una
folla, l’essere umano scende di parecchi gradini la scala della civiltà, diventando un istintivo, un primitivo, un
barbaro. Come sosteneva, nella stessa epoca, Nietsche: “La follia è molto rara nei singoli individui. Nei gruppi, nei
partiti, nei popoli, nelle epoche essa è la regola”
Nella folla l’individualità si annulla, le idee e i sentimenti si radicalizzano e vanno tutti nella stessa direzione:
come se la folla acquisisse e sviluppasse una sorta di anima collettiva, in cui tutti i presenti sono guidati da un
comune inconscio ancestrale, a noi stessi sconosciuti fino a quando non siamo addentro a una folla.
La folla, secondo Le Bon, non è razionale, è suggestionabile, è incapace di avere una propria opinione al di fuori di
quella suggerita, quando non imposta da altri, è sensibile alle immagini, alle impressioni, accumula non
l’intelligenza ma la mediocrità. Conclude Le Bon il quadro arrivando a sostenere che per queste ragioni, e per il
fatto che la folla è mutevole, imprevedibile, emotiva, irritabile, soggetta al contagio mentale e alla suggestionabilità,
è evidente che la folla è femmina. E come accade con le donne, saperla impressionare significa possederla, farla
propria, avere la possibilità di guidarla, anche perché, come un gregge, la folla non può fare a meno di un padrone.
Le persone nella folla perdono il controllo dei loro impulsi, non si sentono più responsabili delle proprie azioni, si
sentono onnipotenti, trasformano immediatamente in azione le idee suggerite, o meglio, astutamente imposte da un
capo. Riuniti, in sostanza, gli individui attivano processi psicologici primitivi altrimenti silenti, regredendo verso un
inquietante inconscio collettivo, perdendo la propria coscienza individuale, regredendo dalla vita cerebrale alla vita
midollare.
Sulle folle dominano i capi, uomini di azione, esagitati, dotati di una volontà ferrea, maestri nella capacità di
impadronirsi della folla con una comunicazione basata su affermazioni nette, concise, manichee, sulla loro
ripetizione, fatta fino a quando le affermazioni di cui sopra assurgono alla stregua di verità, sul contagio mentale
che si verifica nella folla, un aggregato in cui le idee si diffondono quasi telepaticamente, quasi come un gas
nell’aria. Si sente qui l’influenza di Mesmer, un antico medico, precursore della psicologia clinica, che nel ‘700 si
era convinto che un fluido magnetico scorresse in ogni individuo e potesse essere usato per curarne le malattie,
attraverso l’ipnosi. Se il tema vi interessa, vi invito a leggere il fondamentale La scoperta dell’inconscio di
Ellenberger, un interessantissimo volume di storia della psicologia clinica che racconta lo sviluppo del pensiero
occidentale, dai suoi primordi fino alla metà del XX secolo, per quel che concerne l’attenzione alle dinamiche
inconsce della nostra psiche.
Torniamo a Le Bon. Le folle cercano un capo, carismatico e nevrotico, cui sottomettersi. Vediamo qui una
interessante e sorprendente radice reazionaria di una disciplina che nel corso degli anni è sempre stata guidata
da valori progressisti.
Il volume di Le Bon ha avuto un successo travolgente. Come vi dicevo, Le Bon è stato accomunato, quanto a
rilevanza scientifica, nientemeno che a Charles Darwin. Il volume fu ristampato 20 volte e fu tradotto in moltissime
lingue. È ancora disponibile in italiano. Gordon Allport (1954), nel suo Handbook of social psychology, lo definisce
addirittura come uno dei libri che hanno più influenzato la storia della psicologia sociale.
Ma La psicologia delle folle ha influenzato in maniera assai rilevante non solo la scienza, ma anche la politica. Si
dice che Mussolini lo tenesse sempre sul suo comodino e lo consultasse sistematicamente usandolo come un vero
e proprio breviario: Mussolini era affascinato dal fatto che, per Le Bon, le folle non provano simpatia per i padroni
bonari, ma per i tiranni. E dalla frase secondo cui conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle vuol
dire conoscere l’arte di dominarla. Ma anche Hitler, De Gaulle e Theodore Roosevelt conoscevano molto bene
l’opera di Le Bon e la consideravano una importante fonte di ispirazione. Sappiamo bene che storia è entrata
prepotentemente nello sviluppo della psicologia sociale. Da sempre, gli psicologi sociali si sono occupati di
argomenti socialmente rilevanti del mondo. A causa del nazismo, molti psicologi sociali europei sono scappati negli
Stati Uniti, trasformandola in una disciplina principalmente nordamericana. Sempre a causa del nazismo, temi
come il pregiudizio, la discriminazione e il potenziale antidemocratico dormiente in ciascuno di noi si sono imposti
al centro della teorizzazione e della ricerca della disciplina. Ebbene, in maniera assai interessante, con La
psicologia delle folle siampo di fronte a un link opposto a quello consueto. Come hanno fatto notare Adriano
Zamperini e Ines Testoni, in questo caso è stata la psicologia sociale a influenzare la storia. In questo caso, ne
avremmo fatto volentieri a meno.
Che cosa rimane della Psicologia delle folle? Quasi niente dal punto di vista dei contenuti specifici, precisi, puntuali.
Ma qualcosa di più generale sì. Innanzitutto, l’idea fondamentale che quando si studia un aggregato di persone
sarebbe fuorviante studiare i suoi singoli componenti: Come ha scritto Kurt Lewin parlando del gruppo, “il gruppo è
qualcosa di più, o per meglio dire qualcosa di diverso, dalla somma dei suoi componenti. Ha struttura propria, fini
peculiari e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la
dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità
dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi, interessa lo stato di tutte
le altre”. È utile, per capire bene questa citazione, una analogia con la chimica, nei cui studi si nota che le basi e gli
acidi si combinano per formare un corpo nuovo dotato di proprietà diverse da quelle dei corpi che hanno servito
alla sua formazione. Qui e lì, insomma, si analizza una proprietà emergente.
Sono tutte idee, in nuce, tutte presenti nel libro di Le Bon, anche se quest’ultimo si concentrava sulle folle,
appunto, e non sui gruppi. E sono idee che gli psicologi sociali sottoscrivono ancora oggi. Solo, attualmente si
crede che non è detto che questa “diversità” sia per forza negativa!
Abbiamo infatti imparato che, fortunatamente, gli aggregati possono essere anche il luogo della creatività, della
generatività, del cambiamento produttivo, della imprevedibile espressione di sé.
Un’altra rilevante eredità di le Bon è l’idea che molti dei nostri processi cognitivi e comportamenti possono essere
automatici, al di fuori della nostra volontà e consapevolezza. Lo vedremo nel dettaglio quando parleremo degli
studi contemporanei sul pregiudizio e la discriminazione, che ci mostrano in maniera assai interessante e
inquietante come tutti noi, anche se non li condividiamo, siamo a rischio di esprimere pregiudizi e, anche senza
desiderare di farlo, di mettere in atto comportamenti discriminatori nei confronti di chi riteniamo o sentiamo
diverso da noi
L’ultimo elemento di comunanza fra l’opera di Le Bon e la psicologia sociale contemporanea è l’idea che nella folla
l’individuo si senta meno responsabile delle proprie azioni rispetto a quanto non accade quando è da solo. Lo
abbiamo già visto all’inizio di questa parte del corso, mostrando come, indipendentemente dai nostri valori e dalle
nostre predisposizioni, nelle situazioni di emergenza tendiamo a non mettere in atto i comportamenti di aiuto che
sarebbero appropriati, per il meccanismo della diffusione della responsabilità.

La fondazione e le fasi
Fin qui abbiamo parlato dei precursori: degli autori che hanno detto cose rilevanti per la psicologia sociale pur
senza considerarsi psicologi sociali, né avere la piena consapevolezza di stare contribuendo a fondare non dico
una disciplina, ma per lo meno uno sguardo nuovo sui fenomeni psicologici.
I primi autori che pubblicano lavori che nel titolo fanno riferimento esplicito alla psicologia sociale sono Gabriel
Tarde, McDougall e Ross. Sul primo andremo abbastanza veloci. La sua idea fondamentale è che se si scarta
l’individuale, il sociale non è nulla: nella società non esiste nulla che non esista già negli individui, quelli che stanno
vivendo o quelli che erano esistiti prima, come forma di ripetizione. L’imitazione è il principio che governa lo
sviluppo delle società, primo e unico vero motore del mondo naturale, biologico, psicologico e sociale: imitazione
dei capi e dei leader psicologici della folla, veri e propri modelli. È una psicologia in cui la menta conta poco: conta
l’imitazione, appunto, e con essa la suggestione, processo psichico che induce ad accettare l’influenza altrui in
maniera inconscia, governando in modo meccanicistico la vita psicologica e sociale
Ma veniamo ora a quelli che sono considerati i primi due manuali di psicologia sociale della storia. Come
abbiamo detto, la loro pubblicazione è passata sostanzialmente sotto silenzio, e sono stati riscoperti, o per
meglio dire scoperti, solo alcuni decenni dopo dai primi storici che hanno tentato una ricostruzione dello
sviluppo della psicologia sociale. Sono però assai importanti perché ci aiutano a individuare le due principali
ottiche che si sono alternate nello sviluppo della psicologia sociale.
William McDougall, uno psicologo inglese,ha fondato il mainstrem, ossia il filone dominante, della psicologia
sociale. A suo parere, per studiare le relazioni fra gli individui e le società bisogna conoscere la base originaria
della mente, fondata sugli istinti, che spingono all’azione attraverso l’attivazione delle emozioni. È una psicologia
sociale decisamente individualista, che usa l’individuo come unità di analisi, e considera la società una sorte di
finzione. Con le debite modifiche, è sostanzialmente la logica che tuttora domina in una parte assai rilevante della
psicologia sociale, soprattutto statunitense, anche se al concetto di istinto si sono sostituiti i processi di
conoscenza e di valutazione di sé e del mondo
Edward Ross più che al comportamento dei singoli era interessato al comportamento degli aggregati di persone. A
suo parere, le persone sono guidate da delle sorte di correnti sociali che ne indirizzano opinioni, stati psicologici e
comportamenti (e che si evidenziano con chiarezza in fenomeni come le epidemie di emozioni religiose e i linciaggi).
Come per Le Bon, per lui più che il singolo individuo è interessante occuparsi degli aggregati: più che chi siamo,
conta dove siamo. Vedremo nelle prossime lezioni quanto questo messaggio può essere importante per gli
psicologi sociali. Ma, a differenza di Le Bon, Ross non concepiva necessariamente l’essere umano in modo
pessimistico.
La prima fase della storia dello sviluppo della psicologia sociale affonda le radici nella fine del XIX secolo, e si
estende fino alla fine dei ruggenti anni ‘20. Sarà la Grande Depressione del ’29 a determinarne la fine. È la fase dei
precursori, come abbiamo visto. Ed è la fase in cui vengono scoperti scientificamente due fenomeni opposti quanto
a natura, ma coerenti fra di loro quanto a rilevanza per la storia della psicologia sociale. Il primo effetto, la
facilitazione sociale, è stato scoperto da Norman Triplett, e pubblicato nell’opera The dynamogenic factors in
pacemaking and competition. Triplett notò prima a occhio, e poi studiò scientificamente, un fenomeno allora
totalmente sconosciuto: i bambini che andavano a pesca e dovevano riavvolgere il rocchetto della lenza lo facevano
più velocemente se erano assieme ad altri e più lentamente se erano da soli. Lo stesso per i ciclisti, che
pedalavano più velocemente in presenza di altri ciclisti che da soli. Non parliamo di ciclisti in squadra, e nemmeno
necessariamente di competizioni, parliamo proprio di ciclisti che si incontrano per strada. Portato in laboratorio,
questo fenomeno, che Triplett definisce di facilitazione sociale, viene confermato dai suoi esperimenti. È
probabilmente il primo studio scientificamente convincente sull’influenza sociale, ossia sul processo con cui noi
veniamo cambiati dalla presenza di altri, anche indipendentemente dalla volontà di chi ci circonda. Addirittura,
Gordon Allport considera lo studio di Triplett il primo vero studio condotto in psicologia sociale.
Il secondo lavoro importante, per quel che ci riguarda, è stato condotto da un agronomo francese, Max Ringelmann.
Condotto nel 1880, viene pubblicato qualche anno dopo lo studio di Triplett, e arriva apparentemente a risultati
opposti e contraddittori rispetto all’altro. Ringelmann scopre infatti che, dovendosi impegnare nel tirare una corda
o nello spingere un carretto, gli individui si impegnano di più quando sono da soli e di meno quando sono con altri.
È un fenomeno, che Ringelmann definisce inerzia sociale, che ricorda da vicino la diffusione della responsabilità
cui abbiamo accennato un po’ di tempo fa: più siamo, meno ci sentiamo responsabili dell’esito della prestazione.
Ora sappiamo che i due fenomeni non sono contraddittori, ma sono due facce della stessa medaglia. Le ragioni
sono sostanzialmente due. La prima fa riferimento alla possibilità che abbiamo di individuare il contributo che dà
ognuno dei presenti. Quando i contributi dei singoli sono facilmente individuabili, si verifica la facilitazione sociale,
mentre quando l’individuo si sente immerso in una massa ampia che ne nasconde il contributo si verifica l’inerzia
sociale. La seconda spiegazione, proposta da Zajonc nel 1965, fa riferimento al grado di attivazione fisiologica della
persona. La presenza di altri ci attiva dal punto di vista fisiologico, e questa attivazione rende più facili i
comportamenti semplici, bene appresi e molto praticati. Sono quelle che vengono spesso chiamate le risposte
dominanti. Al contrario, ostacola la messa in atto delle cosiddette risposte non dominanti, ossia i comportamenti
complessi o nuovi.
Al di là di questi importanti fenomeni, che ci mostrano chiaramente che sia l’individuo che il suo contesto devono
essere conosciuti per fare una vera psicologia sociale, la nascente disciplina si occupa, da subito, di tematiche
socialmente rilevanti.
È la storia stessa del mondo che la spinge in questa direzione. L’immigrazione cambia completamente gli Stati
Uniti, il loro tessuto sociale, culturale, valoriale, urbanistico, linguistico. Dopo la cieca fiducia nelle leopardiane
magnifiche sorti e progressive dei ruggenti anni ’20, la crisi del ’29 cambia completamente il mondo. Non solo
economicamente, riducendo sul lastrico milioni di persone. Ma anche psicologicamente, perché l’incrollabile
fiducia nel futuro frana rovinosamente, e nulla sarà più come prima, nella vita quotidiana di milioni di persone e
anche nella loro prospettiva psicologica presente e futura. Leggete lo strepitoso libro Furore di John Steinback
per avere un quadro della faccenda.
Ma non è solo l’America a cambiare radicalmente. In Europa si affacciano sulla scena il fascismo e il nazismo, con
le tragiche conseguenze che ne deriveranno. Ebbene, la psicologia sociale reagisce a tutto questo enfatizzando la
sua attenzione per gli argomenti socialmente rilevanti. Il motto degli studiosi dell’epoca potrebbe essere espresso
in questo modo: usciamo dai laboratori, non facciamoci tante domande sull’adeguatezza dei metodi. Sporchiamoci
le mani e diamo tutti noi stessi per capire, dal punto di vista psicosociale, che cosa sta succedendo. Questo anche
perché la Storia, con la S maiuscola, si intrecciava con la storia, con la s minuscola, individuale, di molti psicologi
sociali, che fuggivano dalla Germania nazista, portandosi con sé la propria competenza psicosociale, e un grado di
coinvolgimento enorme negli eventi drammatici che stavano funestando l’Europa dell’epoca.
Non stupisce che fra gli argomenti della disciplina, che ormai si sta affermando, si affaccino oggetti come
l’esclusione sociale, l’antidemocrazia psicologica, la persuasione, la qualità della vita, il pregiudizio…
Segue poi la fase di espansione. È la fase che dal dopoguerra si estende fino agli inizi degli anni ’70. Una fase
costellata, negli Stati Uniti, dalla guerra fredda, dalla desegregazione razziale, dalla speranza di cambiamento che
viene stroncata dalle pallottole che uccidono John Kennedy, Bobby Kennedy e Martin Luther King e dall’inizio e dal
radicalizzarsi della guerra in Vietnam. Ed è costellata dai primi movimenti di contestazione su larga scala, alla
guerra in Vietnam, per la liberazione dei neri, per l’emancipazione femminile, per i diritti delle minoranze sessuali,
per la libertà nelle università e nella società. Nulla sarà più come prima, nel mondo occidentale. E ai soliti temi
della psicologia sociale, se ne affiancano di nuovi: l’egoismo e l’altruismo, l’aggressività, il conformismo,
l’innovazione sociale…
Poi, forse travolta dal suo stesso successo, la psicologia sociale va in crisi. Dopo anni in cui dominava
l’effervescenza metodologica (al motto di “le cose di cui ci occupiamo sono così importanti che non è il caso di
esagerare con la precisione: buttiamoci sul campo”), si entra in una fase di difficoltà e di ripensamento. La
psicologia sociale punta a darsi un nuovo statuto scientifico e, coerentemente con la rivoluzione cognitivista che ha
cambiato per sempre la storia della psicologia, diventa in buona parte una psicologia sociale interessata a capire i
processi mentali con cui noi conosciamo e valutiamo gli oggetti sociali (principalmente le persone e i gruppi). Gli
oggetti e i metodi si asciugano, e si va verso un verso un nuovo individualismo teorico e metodologico in cui poco
spazio viene lasciato sia all’attenzione per il contesto, sia agli studi sul campo. La psicologia sociale diventa una
psicologia molto più individuale che nei decenni passati: in cui il sociale interviene poco, essenzialmente solo in
quanto gli oggetti studiati sono sociali: persone e gruppi. Si studia un individuo “puro”, tendenzialmente in
laboratorio per eliminare ogni fonte di disturbo. Tipicamente il soggetto standard delle ricerche diventa lo studente
universitario americano, bianco, avvantaggiato socialmente ed eterosessuale, preso come prototipo dell’umanità
considerata nel suo complesso. Curioso paradosso, per una disciplina progressista, usare ciecamente il giovane
istruito facoltoso come modello di riferimento e unico rappresentante della “natura umana”! Ma continua a
permanere l’interesse per le tematiche socialmente rilevanti: pregiudizio e discriminazione fra tutte
E poi le nuove frontiere. Secondo me i principali ambiti di frontiera della psicologia sociale attuale sono tre.
Innanzitutto, lo studio dei costrutti automatici, impliciti, che si attivano in pochi millesimi di secondo al di fuori della
consapevolezza delle persone. Vediamo un nero e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona
aggressiva. Vediamo una donna e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona sensibile. Vediamo
un uomo e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona razionale. Questo, spesso, anche se non
pensiamo davvero che sia così, ma perché la società ci ha insegnato che i neri sono aggressivi, che le donne sono
sensibili e che gli uomini sono razionali. Perché succede tutto questo? A quali funzioni psicologiche e sociali
assolve? E quali sono le conseguenze a livello di comportamenti individuali e di organizzazione sociale? Lo
vedremo nella seconda parte di questo corso.
La seconda nuova frontiera è il ricorso alle tecniche delle neuroscienze per studiare quali aree del cervello si
attivano quando la nostra mente è impegnata a conoscere gli oggetti sociali. Vi faccio solo un esempio fra le decine
che potrei farvi. Studi psicosociali che hanno integrato nei propri metodi i paradigmi neuropsicologici molto
interessanti e convincenti hanno mostrato che quando abbiamo a che fare con persone come tossicodipendenti,
senza tetto, alcolisti e così via, dal punto di vista psicologico tendiamo a sperimentare l’emozione del disgusto. Dal
punto di vista neurospsicologico, si è notato che le aree del cervello che utilizziamo sono quelle deputate a
conoscere gli oggetti. Non usiamo le aree cerebrali che servono a conoscere le persone, ma quelle che servono a
conoscere le cose: con tutto quello che ne consegue in termini di comportamenti che mettiamo in atto nei loro
confronti e in termini di difficoltà a combattere e a prevenire il pregiudizio e la discriminazione.
L’ultima nuova frontiera di cui vi intendo parlare non è teorica, ma metodologica. Dall’inizio del XXI secolo, è infatti
finalmente a nostra disposizione la prima tecnica statistica davvero psicosociale, in grado di dare davvero conto dei
modi con cui l’individuo e il contesto interagiscono nell’influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti individuali. Si
tratta dei modelli multilivello. I modelli multilivello sono metodi statistici tecnicamente molto complessi, che
naturalmente non vi racconterò dal punto di vista formale, perché non è questa la sede per farlo. Mi basta
raccontarvi che questi modelli, sviluppati negli ultimi 20 anni, stanno a ragione cominciando a essere abbastanza
diffusi anche in psicologia sociale. Ed è giusto che sia così, perché sono i primi modelli che consentono di spiegare
atteggiamenti e comportamenti individuali prevedendoli, nello stesso tempo, in funzione di variabili individuali, di
variabili sociali e della loro relazione. Consentono, ad esempio, di prevedere quanto le persone sono spaventate dal
rischio di cadere vittima di un crimine in funzione delle loro esperienze e delle caratteristiche del contesto in cui
vivono. Fra le esperienze, essere stati vittima di un crimine.
Fra le caratteristiche del contesto, il tasso di degrado della zona di residenza. Grazie ai modelli multilivello,
abbiamo potuto mostrare che cadere vittima di un crimine non è necessario per spaventare le persone. Oltre a
questa esperienza indubbiamente negativa, serve anche che le persone vivano in un contesto che, a ragione o a
torto, considerano pericoloso. Questo è molto psicosociale: per prevedere in maniera precisa e accurata la paura
per la criminalità delle persone non basta conoscere le variabili individuali. Non basta conoscere le variabili
contestuali. Serve analizzare il modo con cui loro interagiscono. Nulla di più psicosociale si potrebbe dire in
questo ambito, come del resto in tutti gli altri ambiti in cui le analisi multilivello sono state utilizzate. Ci torneremo,
con qualche dettaglio in più, anche sulla ricerca che vi ho accennato, nel video conclusivo del corso.
A mio parere, i precursori della psicologia ci lasciano soprattutto quattro cose.
La prima è l’idea che i problemi sociali siano la base fondamentale degli studi della disciplina. Continuiamo a
individuare i problemi di conoscenza non semplicemente studiando in biblioteca, ma alzando le persiane e
guardando fuori dalla finestra del nostro laboratorio, osservando il mondo, chiedendoci che cosa non funziona
come vorremmo e perché. Questo fa sì che la ricerca psicosociale sia spesso stata, e sia, “calda”. Calda come
tematiche affrontate, perché sono socialmente rilevanti. E calda in quanto mossa dai valori dei ricercatori, che sono
evidentemente una delle principali spinte a occuparsi degli argomenti di cui ci occupiamo. La psicologia sociale è
nata da preoccupazioni concrete per ciò che si verificava nel mondo sociale e nella vita delle persone. Erano le
folle che mettevano in discussione il principio di autorità per Le Bon, e per i suoi successori sono state la lotta di
classe, l’immigrazione, l’emarginazione, la devianza, la convivenza fra gruppi etnici diversi, il pregiudizio, la
discriminazione, la pace, la povertà, l’antisemitismo, il totalitarismo, il conformismo e così via. Ed è ancora così. E
non vedo come questo potrebbe cambiare.
La seconda importante eredità è l’attenzione alla scientificità dei metodi usati per fare ricerca. I primi studiosi
avevano chiarissimo in mente che la psicologia (e la psicologia sociale) sarebbe diventata una scienza solo usando
con precisione e proprietà un metodo scientifico. Dobbiamo onestamente notare che spesso lo avevano in mente
solo in astratto. Quando poi si trattava di uscire dai loro laboratori e di scendere in campo, lo facevano sovente con
scarsa attenzione al metodo: i problemi di conoscenza cui dedicarsi, per loro, erano così pressanti che finivano per
lanciarsi a studiarli senza grande finezza metodologica. Scriveva a tale proposito Robert Park, un brillante studioso
della scuola di Chicago, un sociologo, ma il suo discorso va benissimo anche per noi, che insieme allo studio nelle
biblioteche, “di una cosa c’è inoltre bisogno: l’osservazione di prima mano. Andate a sedervi negli atri degli hotel di
lusso e sui gradini all’ingresso delle flophouse; sui muretti della Gold Coast e di Star e Garter Burlesk. Insomma,
signori, andate a sporcarvi i pantaloni nella ricerca vera”. La qualità dei modi con cui lo si faceva spesso non era
esaltante. Ed è fisiologico che una disciplina abbia cambiato, nel corso degli anni della sua storia, i propri standard
metodologici, alzando sensibilmente l’asticella della qualità. Ma l’idea che il metodo dovesse essere scientifico era
ed è centrale. È una delle ragioni che hanno fatto sì che la metodologia delle scienze umane crescesse molto grazie
al contributo della psicologia sociale.
La terza eredità che ci lasciano è il focus sulla reciproca influenza fra individuo e ambiente. Nel 1984 Henri Tajfel,
uno dei più importanti psicologi sociali della storia (lo incontreremo parlando di pregiudizio e discriminazione),
diceva a questo proposito che “La psicologia sociale può e deve includere nelle sue preoccupazioni teoriche e di
ricerca un’attenzione costante al rapporto tra il funzionamento umano psicologico e i processi e gli eventi sociali
più ampi che modellano tale funzionamento e ne sono a loro volta modellati”.
L’ultima eredità è la distinzione fra le spiegazioni di taglio più psicologico, centrate sull’individuo, e quelle di taglio
più sociologico, centrate sul contesto. Distinzione che risale al giorno stesso in cui viene fondata ufficialmente la
psicologia sociale. È una distinzione ancora viva ed attuale. Ci auguriamo però che, anche grazie ai modelli
multilivello, possa piano piano venire superata, in vista dell’affermarsi di un punto di vista genuinamente
psicosociale sia nella teoria che nella ricerca.

Tiriamo le fila
In questa lezione abbiamo visto che cos’è la psicologia sociale, qual è il suo oggetto di analisi, qual è la sua ottica e
quali sono gli scopi che si prefigge. Abbiamo analizzato il suo sviluppo, dai primi precursori a quelle che, secondo
me, sono le sfide che si troverà ad affrontare e le opportunità che le si dispiegheranno davanti nei prossimi anni.
Per usare le parole di uno dei suoi più illustri esponenti, Serge Moscovici (lo incontreremo più avanti, quando vi
racconterò uno dei suoi esperimenti più celebri), possiamo dire che, da questo punto di vista, la psicologia sociale
ha un’ottica “sovversiva”. Sovversiva non in senso politico, ovviamente, ma in senso culturale: nel senso, cioè, che
essa mette radicalmente in discussione l’individualismo dominante non solo nella cultura statunitense, ma anche
nella scienza psicologica. E abbiamo cominciato a vedere che il tentativo di spiegare i fenomeni umani complessi
prescindendo da questo punto di vista sovversivo porta a costruire spiegazioni parziali, deboli, poco convincenti.
Abbiamo inoltre visto che, dai suoi primordi, in psicologia sociale si affermano, si affiancano e per certi versi si
combattono due ottiche, una che mira a spiegare l’individuo facendo principalmente riferimento a variabili
individuali (gli istinti allora, i processi con cui conosciamo noi stessi e il nostro mondo sociale adesso) e l’altra che
mira a farlo riferendosi principalmente a variabili collettive (l’aggregato in cui si trova effettivamente a interagire la
persona allora, il contesto fisico, relazionale, sociale o culturale adesso). Sono le due ottiche che Vivien Burr, una
psicologa sociale molto attenta alla storia della disciplina, nella sua opera La persona in psicologia sociale
etichetta come Psicologia sociale psicologica e Psicologia sociale sociologica.
Delle due, la prima è indubbiamente quella che ha finito per essere dominante, non solo per ragioni
scientifiche, ma anche perché il suo taglio è quello più coerente con lo spinto individualismo della cultura
statunitense, che, come si siamo detti, è il contesto in cui la psicologia sociale si è affermata con la massima
forza. Oggi, una parte assai rilevante degli psicologi sociali, coerentemente con questa ottica individualista,
spiega gli stati mentali e i comportamenti individuali facendo soprattutto ricorso a variabili esplicative
individuali.
Ma anche la seconda è molto interessante. Per certi versi, a mio parere, lo è anche di più, proprio perché ci
fornisce un punto di vista alternativo a quello dominante. È il punto di vista che sostiene che per spiegare i nostri
comportamenti, spesso più che sapere chi siamo è interessante sapere dove siamo e in compagnia di chi siamo.
Dove e in compagnia di chi siamo sia in senso fisico (il contesto in cui ci troviamo), sia anche in senso relazionale
(le persone con cui interagiamo o con cui immaginiamo che potremmo interagire) e perfino in senso sociale (i
valori e la cultura in cui siamo immersi). Abbiamo già accennato agli studi di Latané e Darley, che mostrano che
nelle situazioni di emergenza la probabilità che noi aiutiamo chi ne ha bisogno dipendono non tanto dai nostri
valori, dalle nostre predisposizioni e dalle nostre inclinazioni, quanto soprattutto dal numero di persone presenti
nel momento dell’emergenza.
Vedremo nelle prossime lezioni qualche altro esempio di studi psicosociali focalizzati sul ruolo che la il contesto
nell’influenzarci, spesso al di là di chi siamo (o di chi crediamo di essere).
Sono studi davvero interessanti proprio perché hanno permesso di scoprire cose assolutamente inaspettate e
imprevedibili per chi ricorre rigidamente ed esclusivamente ai paradigmi più individualisti. E, per completare il
nostro discorso, ci godremo due filmati in cui due importantissimi studiosi della nostra disciplina o di discipline
affini ci aiutano a capire meglio che cosa intendiamo quando parliamo di attenzione al contesto nella spiegazione
delle variabili individuali e di come il contesto può impattare in maniera assai rilevante sui nostri stati psicologici e
sui nostri comportamenti.

L’ottica situazionale in Psicologia Sociale Introduzione


Dedichiamo questa lezione a un approfondimento di quella che Burr chiama psicologia sociale sociologica, ossia
alla psicologia sociale che per spiegare gli atteggiamenti e i comportamenti individuali fa appello soprattutto alle
variabili situazionali. Ci concentriamo principalmente su questa perché la psicologia sociale di taglio più
squisitamente individualista non ha un grande bisogno di approfondimenti, dal momento che è assolutamente
coerente con il mainstream della disciplina attuale e con il sistema ideologico in cui la psicologia sociale si è
sviluppata ed è proliferata. Vista la limitatezza del tempo a nostra disposizione, meglio dunque concentrarci su
questa ottica situazionale che, pur essendo minoritaria, è psicosociale tanto quanto la sua concorrente, ed è
altrettanto interessante, se non addirittura di più.
Ci concentreremo qui su tre diversi studi e sulle loro ricadute teoriche e concettuali. Sono fra gli esperimenti più
famosi della psicologia sociale, e, benché siano stati condotti ormai molti anni fa, ne costituiscono ancora oggi un
punto di riferimento indispensabile e assolutamente attuale.
I primi due studi sono due classici fra gli studi sull’influenza sociale. Il primo esperimento è stato condotto da
Salomon Asch negli anni ’50 del XX secolo, per analizzare le dinamiche di conformismo e di sottomissione ai
dettami della maggioranza. Viene sviluppato negli Stati Uniti del secondo dopoguerra: un posto piuttosto soffocante
quanto a mentalità. A parte le grandi città, si trattava infatti di una nazione conservatrice, perbenista, che aderiva
assai rigidamente ai valori della classe media. Negli Stati Uniti era anche l’epoca della guerra fredda e del
maccartismo: se si era comunisti, o sospettati di essere tali, si potevano passare dei guai enormi, dalla perdita del
lavoro e del ruolo sociale fino, nei casi più estremi, alla prigione. Come e perché le persone si sottomettono alle
indicazioni della maggioranza? A che cosa serve, a loro e alla società, questa sottomissione? Erano questi i
principali interrogativi di Asch, affrontati in una situazione di laboratorio i cui risultati stupiscono e colpiscono
ancora oggi, a distanza di più di 60 anni da quando sono stati ottenuti in una serie di brillantissimi esperimenti.
Asch si è dunque concentrato sulle dinamiche di sottomissione alla maggioranza e dunque ai meccanismi
psicosociali che promuovono il conformismo. Ma è evidente che la società non è solo pervasa da dinamiche di
questo genere, che spingono a mantenere inalterato lo status quo. Ci sono anche spinte al cambiamento, alla
modifica dell’ordine sociale vigente, alla rivoluzione dei valori e dei costumi. In piena epoca sessantottina, in pieno
Maggio francese, Serge Moscovici effettua il secondo studio che vi racconterò. È un esperimento che si concentra
sull’altra faccia della medaglia studiata da Asch: cioè su come le minoranze possono influenzare le maggioranze, e
su come dunque le società, oltre a rimanere immutate, possono cambiare grazie all’azione di singole persone, o di
piccoli gruppi di individui che si impegnano nell’arduo e affascinante compito di modificare la realtà per avvicinarla,
socialmente e culturalmente, a come essi ritengono che dovrebbe essere.
Il terzo studio è tanto famoso da essere assai conosciuto anche al di fuori dell’ambito strettamente scientifico. È
stato intitolato dagli autori Dinamiche interpersonali in una prigione simulata. Un titolo molto paludato e freddo per
uno degli studi più emozionanti e terrificanti della storia della psicologia. Uno studio che ha costituito una svolta
decisiva, nella storia della psicologia sociale, mostrando come l’ottica situazionale può avere grandissimo valore
euristico nello spiegare gli stati psicologici e i comportamenti individuali. Molto brevemente (perché lo
approfondiremo fra poco), è consistito nel mettere una ventina di studenti universitari, sani e normali, a recitare la
parte di secondini o carcerati in un carcere simulato. Lo scopo dello studio era analizzare le loro reazioni e i loro
comportamenti. Nessuno si aspettava molto da questo esperimento: tutti (partecipanti e sperimentatori)
prevedevano 15 lunghi giorni di noia davanti a sé. E invece, come vedremo, il carcere simulato, nella testa delle
persone, è diventato in pochi giorni un carcere vero, al punto che alcuni prigionieri hanno manifestato sintomi di
sofferenza psicologica al confine con quelli che caratterizzano gli stati psicotici, alcune delle guardie hanno
cominciato a mettere in atto comportamenti violenti e sopraffattorii ai limiti del sadismo, e il leader dell’equipe
degli sperimentatori ha perso completamente il controllo sulla situazione.
Sono insomma imprevedibilmente successe cose tanto terribili da spingere Phil Zimbardo, lo sperimentatore che
ha condotto lo studio, a interrompere l’esperimento dopo soli cinque giorni, quando in realtà, come vi ho detto,
l’esperimento avrebbe dovuto durare due settimane.
L’esperimento di Zimbardo che ha avuto una larghissima eco anche al di fuori dei laboratori di psicologia sociale,
come vi dicevo, tanto che gli sono addirittura stati dedicati un paio di film che, fino a un certo punto ed entro certi
limiti, descrivono in maniera abbastanza precisa che cosa è successo nei laboratori di Stanford, dove lo studio è
stato condotto.
Per ragioni di tempo, dovrò raccontarvi solo succintamente che cosa successo nell’esperimento, rimandandovi, se
siete interessati a entrare meglio nelle questioni e delle dinamiche in gioco al volume L’effetto lucifero, un libro
meraviglioso e terrificante che vi consiglio davvero di leggere. Sono circa 800 pagine, ma si leggono come un
romanzo… un romanzo dell’orrore. Ed è terrificante al punto tale che Zimbardo ci ha messo quasi 40 anni a
scriverlo, per quanto il suo esperimento lo aveva turbato, per quello che gli aveva fatto scoprire delle condotte
umane e addirittura di sé.
Dopo che vi avrò raccontato il suo studio, daremo la parola allo stesso Zimbardo che, in un affascinante ed
emozionante filmato, discuterà la rilevanza sociale del suo esperimento e come esso possa essere utilizzabile per
capire meglio una serie di avvenimenti terribili e controversi, come le torture ai prigionieri perpetrate nel carcere
di Abu Grahib da militari americani una quindicina di anni fa. Ma anche senza andare in contesti di guerra e
terrorismo, le categorie interpretative di Zimbardo aiutano a capire che cosa succede in tutte le situazioni in cui le
persone vengono de-individualizzate, finendo per mettere in atto comportamenti impensabili e agghiaccianti ai loro
stessi occhi. E vedrete l’emozione di Zimbardo nel raccontarci le cose che ha scoperto e le sue indicazioni su come
farci avanzare nella comprensione delle condotte umane, anche delle più estreme e disturbanti.
Il filmato in cui ascolterete Zimbardo è il primo di tre Ted talk che vi farò vedere in questo corso. Per chi non lo
sapesse, TED è un’istituzione no profit e non partigiana che ha nientemeno che la missione di diffondere idee che
meritano di essere diffuse, sotto forma di comunicazioni brevi e potenti tenute da esperti dei temi che si trattano. I
Ted talk trattano i temi più svariati, fra cui anche la psicologia. Vi consiglio di esplorare il loro sito, al di là dei tre
filmati che vedrete in questo corso, perché alcune delle comunicazioni che ci si trovano meritano veramente di
essere ascoltate.
Torniamo a noi. Gli studi di cui parleremo fanno riferimento a stati psicologici e a condotte di singoli individui. Che
cosa succede quando si allarga il tiro, e si volge lo sguardo alla società considerata nel suo complesso, e a come la
sua organizzazione sociale ed economica impatta sugli stati psicologici delle persone, primo fra tutti il benessere?
Ce lo spiegherà Richard Wilkinson, uno dei massimi esperti di disuguaglianza, in un altro Ted talk, che punta in
questo caso a mostrarci quali sono gli effetti delle disuguaglianze sugli stati psicologici delle persone, primo fra
tutti il benessere, e delle collettività, in termini di integrazione e di benessere collettivo. Un interessante uso dei
modelli epidemiologici per spiegare le variabili psicologico-sociali

L’influenza sociale
Come promesso, ci occupiamo ora di introdurre l’ottica situazionale in psicologia sociale. Come ci siamo detti, è
un’ottica la cui fondazione risale a oltre un secolo fa, e che si focalizza, nella spiegazione degli stati mentali e dei
comportamenti individuali, sulle variabili contestuali invece prima che su quelle individuali. Variabili contestuali in
tre diverse accezioni, come vedremo: relative agli sconosciuti con cui ci può capitare di trovarci a condividere una
specifica situazione sociale. E anche relative alle effettive interazioni in gruppi che hanno un rilevante significato
per noi stessi e per gli altri. Ma anche, infine, relative all’organizzazione complessiva della società, in termini
economici, culturali, valoriali e quant’altro.
Per farlo, ci affideremo, come è inevitabile in tutti i casi in cui ci si muove in ambito scientifico, a dati empirici. Vi
racconterò tre esperimenti che hanno fatto la storia non solo della psicologia sociale attenta alle variabili
situazionali, ma proprio della psicologia sociale tout court. Sono rispettivamente dedicati al conformismo e ai modi
con cui le maggioranze possono influenzare le minoranze, promuovendo la stabilità sociale, il primo. Il secondo è
dedicato all’altra faccia della medaglia, ossia ai modi con cui le minoranze possono influenzare le maggioranze,
producendo innovazione e cambiamento sociale. Il terzo è probabilmente uno dei due esperimenti più famosi di
tutta la psicologia sociale, ed è famoso al punto che sono certo che buona parte di voi ne abbia già sentito parlare.
Condotto da Phil Zimbardo all’inizio degli anni ’70, è consistito nel prendere una ventina di normali studenti
universitari facendo loro recitare il ruolo di carcerati o secondini in un carcere simulato. Per quel che concerne
l’ultimo esperimento, avremo anche la possibilità di goderci un Ted talk dello stesso Zimbardo, che ci racconterà il
suo punto di vista sullo studio e sulle sue possibili ricadute extra scientifiche. Ma coglieremo l’occasione per
guardare anche un altro Ted talk, di Richard Wilkinson, che ci mostrerà l’impatto delle variabili economiche sul
benessere individuale e collettivo
Sono studi interessanti di per sé. E ovviamente non chiudono il capitolo degli studi sull’influenza delle variabili
situazionali sui nostri stati mentali e sui nostri comportamenti: sono insomma, al di là della rilevanza di quel che ci
hanno consentito di scoprire, importanti perché costituiscono degli esempi di quello che si può fare e scoprire in
psicologia sociale a patto di uscire dalle rigide gabbie degli approcci individualisti
Asch era interessato a studiare le ragioni psicosociali del conformismo, e focalizzò la sua attenzione su come il
gruppo influenza le percezioni e le condotte delle persone, uniformandole a quanto richiesto e prescritto
(implicitamente) dal gruppo.

Il suo esperimento si fondava su una serie di banali compiti percettivi, non ambigui, autoevidenti nella loro
semplicità.
I compiti erano come quello che vedete riportato nella slide. C’erano 18 diversi cartellini con una riga di riferimento
e tre righe di confronto. I cartellini venivano presentati uno dopo l’altro e, per ognuno, I partecipanti avevano il
compito di indicare quale linea di confronto era uguale alla linea di riferimento. Sono pronto a scommettere 100
euro che tutti voi, davanti a un cartellino come quello che vedete nella slide, rispondereste la cosa giusta, ossia che
la linea di riferimento è lunga come la linea c. Ed era quello che succedeva sistematicamente quando si chiedeva
alle persone di fare il compito da sole. Nessuno sbagliava.
Ma quando le persone si trovavano in gruppo, le cose potevano cambiare in maniera assai interessante. I
partecipanti si trovavano in laboratorio con 7 sconosciuti, e gli 8 convenuti sedevano a semicerchio e devono
esprimere in ordine stabilito ad alta voce le loro valutazioni. C’era però il trucco: Asch aveva costruito
l’esperimento in modo che delle 8 persone sedute attorno al tavolo, solo una fosse un vero soggetto sperimentale.
Era il partecipante che parlava per penultimo. Tutti gli altri erano complici dello sperimentatore, e avevano dei
compiti precisi. Nelle prime due prove, per non insospettire i soggetti sperimentali, i complici davano tutti la
risposta giusta. Con tono annoiato, monotono e sicuro di sé, di fronte al cartellino di cui sopra dicevano tutti C. Lo
stesso nelle ultime 4 prove. Nelle 12 prove critiche il compito noioso, monotono e ripetitivo si ravviva: tutti i suoi
predecessori danno una risposta evidentemente sbagliata, con tono formale e distaccato. La risposta sbagliata è
sempre la stessa. Ad esempio, nel cartellino che vedete dicono tutti B, quando è ovvio che la risposta giusta è la C.
I partecipanti si trovano, forse per la prima volta nella vita, a vivere una situazione in cui un gruppo unanime
contraddice l’evidenza dei loro sensi. E non si possono nascondere: deve dare pubblicamente una risposta.
Risultato: il 37% delle valutazioni date dai soggetti sono conformi con quelle della maggioranza.
Ma grandi differenze individuali. Fra quelli che non cambiano idea alcuni rimangono fiduciosi sulla correttezza delle
loro risposte, altri si sentono disorientati. Il vissuto psicologico: conflitto fra le informazioni date dal gruppo e le
proprie evidenze percettive. Se andate su youtube e cercate i filmati originari dell’esperimento di Asch vedrete le
facce incredule dei partecipanti. Io non posso farveli vedere per problemi di diritto d’autore. Ma cercateli, che ne
vale la pena: i partecipanti ingenui non ci possono credere. E infatti non ci credono! Ma in un terzo abbondante dei
casi danno la risposta conforme a quella della maggioranza
Deutsch & Gerrard spiegano questi risultati distinguendo due forme di influenza sociale, sostenendo che l’influenza
sociale può avvenire attraverso due tipi di pressione. La prima è quella informativa: usiamo le opinioni e i
comportamenti degli altri come importanti fonti di informazioni sulla realtà: soprattutto di fronte a stimoli ambigui
ci basiamo sull’osservazione degli. Ma qui il compito non era ambiguo. Quindi in gioco c’era soprattutto la seconda
forma di influenza, quella normativa, che si fonda sulla nostra tendenza a conformarci alle aspettative altrui, per
non apparire devianti e minoritari. Coerentemente con questa intuizione, versioni successive dell’esperimento
hanno evidenziato che più ampia è la maggioranza, più forte è la spinta a conformarsi. E che non appena la
maggioranza viene a mancare, si torna alle idee iniziali. Nel solito cartellino, se dei primi sei complici dello
sperimentatore che parlano solo 5 rispondono B e uno risponde A, l’unanimità si infrange e il tasso di chi si
conforma crolla quasi a
0. Questo perché il complice deviante ha sdoganato e legittimato la rottura dell’unanimità e, senza la spinta a
perseguirla, non c’è più ragione di adattarsi alla definizione della realtà data dalla maggioranza.
E coerentemente con tutto questo, nel debriefing, ossia nelle interviste post sperimentali, quando si chiede ai
partecipanti ingenui che cosa è successo nell’esperimento e perché si sono comportati come si sono comportati,
emerge sistematicamente che chi è rimasto saldo sulle proprie posizioni lo ha fatto a fatica, perché sentiva potente
la pressione al conformismo esercitata dalla maggioranza. E che chi si è adattato a tale pressione, lo ha fatto per
conformismo, non perché ha cambiato idea. Nel solito cartellino, sapeva benissimo che la risposta giusta era la C,
ma ha preferito rispondere B per non apparire deviante e minoritario
Questo studio mostra insomma quanto vincolante è il contesto in cui ci troviamo. Ed è uno studio inquietante, oltre
che per i suoi specifici risultati, perché ci mostra quanto fragile sia la nostra determinazione a esprimere posizioni
minoritaria. Questo dal punto di vista dell’individuo. Ma dal punto di vista sociale è altrettanto inquietante, dato che
ci suggerisce che l’influenza sociale, esercitandosi asimmetricamente dalla maggioranza alla minoranza, può avere
come esito solo la stabilità sociale e il mantenimento dello status quo
Ma questa medaglia un po’ soffocante ha fortunatamente un’altra faccia. Ed è una faccia scoperta e studiata da
Serge Moscovici, uno psicologo sociale di origine rumena che ha vissuto quasi tutta la sua vita professionale in
Francia. E, come è spesso accaduto nella storia della psicologia sociale, lo abbiamo visto varie volte, è ancora una
volta la realtà sociale e politica a dare lo spunto per intavolare interessanti studi psicosociali che hanno portato a
risultati di grande importanza. Questa volta l’evento sociopolitico in azione è il ’68: le rivolte studentesche,
l’esplodere dei movimenti femministi e di liberazione, il pacifismo e così via. Questi movimenti, come sappiamo,
cambiano definitivamente la cultura occidentale. E Moscovici si chiede: ma sono movimenti, per quanto grandi,
minoritari, se paragonati alla maggioranza silenziosa dei cittadini. Quindi è evidente che anche le minoranze
possono influenzare le maggioranze, e che dunque l’influenza sociale è un processo simmetrico, che si può
esercitare, oltre che dall’alto al basso, anche dal basso all’alto. E questo perché ognuno di noi può essere, nello
stesso tempo, un’origine e un bersaglio di influenza sociale.
Ma il compito delle minoranze è molto più complesso di quello delle maggioranze, perché non si possono giovare
della conformistica inerzia che deriva dalla forza del numero e del passato. Le maggioranze possono infatti
esercitare la propria influenza in un quadro almeno apparentemente collaborativo (anzi, spesso così l’influenza è
più potente perché mascherata). Le minoranze no, devono contrapporsi esplicitamente al sentire comune.
Devono proporre un punto di vista innovativo, imprevisto, sovversivo rispetto al comune sentire, sostenendolo nel
tempo e nello spazio con forza, tenacia, coerenza, e negoziando sistematicamente con la maggioranza per finire
per apparire dogmatica e dunque costruire da sola il proprio fallimento. Scrive testualmente Moscovici: “Una
minoranza deve enunciare una posizione ben definita sul problema in questione e rimanervi saldamente fedele
opponendosi per tutto il tempo alle pressioni esercitate dalla maggioranza”
Contano dunque l’interazione, il negoziato, la trattativa che la minoranza costruisce con la maggioranza per
convincerla ad adottare i propri modi di pensare e di vedere. Il negoziato avviene nell’interazione sociale. E
l’eventuale cambiamento avviene non per discrepanze di potere, ma per l’efficacia delle interazioni attivamente
instaurate dalla minoranza e delle argomentazioni portate a sostegno della propria posizione, dai significati
che emergono dall’insieme dei comportamenti che i soggetti minoritari instaurano con i loro interlocutori
maggioritari.
L’esperimento condotto da Moscovici e dai suoi colleghi è una variante dell’esperimento di Asch. Le varianti
sono due, una sostanziale e una semplicemente stilistica.
Quella sostanziale è che anche in questo caso lo sperimentatore ha dei complici, ma questi sono una minoranza. I
convenuti sono sei, e solo due sono stati addestrati dallo sperimentatore a mettere in atto specifici comportamenti.
La differenza stilistica è sul compito da svolgere: in questo caso non ci sono lunghezze di linee da stimare, ma si
deve dichiarare di che colore sono delle diapositive che vengono proiettate su uno schermo. Le diapositive sono
come quella che vi ho presentato nella slide. Credo che possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che sia blu, e la
stessa opinione avevano i partecipanti che avevano fatto il compito da soli
Come nell’esperimento di Asch, la variabile dipendente era rappresentata dal numero di risposte sbagliate.
Ebbene, nei casi in cui la minoranza dava sempre, unanimemente, la stessa risposta sbagliata, la maggioranza si
convinceva della giustezza di questa risposta nell’8% dei casi circa. Ma appena l’unanimità si perdeva, l’influenza
della minoranza si disattivava, finendo quasi a 0
Si convinceva, vi dicevo. Infatti, studi successivi hanno mostrato che le persone della maggioranza cambiavano
effettivamente idea. Le vedevano davvero verdi, anche se erano blu. Sono studi basati sul cosiddetto after effect
cromatico, un fenomeno della visione abbastanza sconosciuto per cui, dopo avere visto un colore proiettato su uno
schermo, quando lo schermo diventa bianco noi ci vediamo sopra, per qualche istante, il colore complementare: il
giallo se abbiamo visto un colore blu, e il rosso se abbiamo visto un colore verde. Ebbene, i partecipanti ingenui
che avevano detto verde, dichiaravano poi di avere visto del rosso. Il fatto che l’after effect cromatico sia un effetto
ottico sconosciuto ci fa credere che loro non mentissero: la minoranza, con la sua coerenza e la sua tenacia, li
aveva convinti che le diapositive erano davvero verdi.
E quindi, generalizzando il discorso, lo studio di Moscovici e dei suoi colleghi ci insegna che anche le minoranze
possono influenzare le maggioranze e, di conseguenza, modificare il comune modo di sentire. Certo a fatica, e certo
con risultati quantitativamente meno spettacolari (ricordate: i tassi di influenza erano circa del 37%
nell’esperimento di Asch, e circa dell’8% in quello di Moscovici: circa un quinto, insomma). Questo dal punto di vista
quantitativo: ossia quello che ci dice quanta gente viene influenzata. Ma dal punto di vista qualitativo non c’è gara: la
maggioranza genera un conformistico, superficiale adattamento alle sue istanze e ai suoi standard. La minoranza
cambia la maggioranza, o meglio, la quota di maggioranza che riesce a raggiungere. E la cambia davvero.
Finiamo qui questa parte di lezione. Spero di avervi mostrato quanto rilevanti sono le dimensioni contestuali
nell’influenzare i nostri comportamenti individuali. E se lo sono quando ci si trova fra persone sconosciute, del cui
giudizio nei nostri confronti potremmo anche disinteressarci tranquillamente, e in un contesto davvero poco
rilevante per la nostra vita, che cosa succede quando siamo un contesto molto significativo e con persone con cui
abbiamo delle interazioni ricche e profonde? Molti sono gli psicologi sociali che hanno risposto a questa domanda.
Continuiamo la nostra lezione rivolgendoci a una delle risposte più interessanti e inquietanti che le siano mai state
date: quella sviluppata da Phil Zimbardo all’inizio degli anni ‘70.
Zimbardo
Eccoci arrivati a trattare uno degli studi più forti e convincenti, se non proprio il più forte e convincente in assoluto,
nel mostrarci l’influenza che le variabili contestuali esercitano su di noi. È il celeberrimo esperimento di Zimbardo.
Come sovente accade in psicologia sociale, l’esperimento di Zimbardo non nasce nel vuoto. Dal punto di vista
sociopolitico siamo in piena rivoluzione culturale. Siamo nei primi anni ’70: è un’epoca di libertarismo, di
cambiamento, di rivoluzione dei costumi. I ragazzi bruciano le cartoline precetto che li convoca a combattere una
guerra in un posto così lontano geograficamente e culturalmente che molti non sanno nemmeno dove sia. Le donne
manifestano per i loro diritti nelle strade, nelle università gli studenti cacciano dalle loro cattedre i vecchi baroni
che gestiscono il loro ruolo con arbitrio e abusi di potere.
Dal punto di vista scientifico, alcuni studi precedenti, qualcuno fatto dallo stesso Zimbardo, avevano indagato sulle
ragioni del vandalismo e di diversi atti antisociali, mostrando che questi comportamenti dipendono più da variabili
situazionali che da stabili variabili individuali. Emergeva, in sostanza, come spesso, in specifiche circostanze, le
situazioni si possano impadronire dei modi di essere, di pensare e di agire delle persone comuni, portandole a
perdere con una certa facilità, in modo piuttosto inquietante, la loro umanità e i loro freni inibitori.
Zimbardo con il suo esperimento si propone di perseguire due obiettivi, uno più specifico e l’altro più generale.
Quello specifico è smentire il senso comune, che, in questo caso, dice che gli eventi orribili che spesso accadono
nelle carceri (violenze, sopraffazioni, stupri, pestaggi) siano dovuti alle caratteristiche di personalità dei carcerati.
L’idea comune è: “Certo, sono criminali: mettiamo un certo numero di delinquenti assieme e non stupiamoci se si
comporteranno da criminali”. Zimbardo non la pensa così: vuole infatti dimostrare che è il sistema sociale carcere
a suscitare queste azioni. In senso più generale, Zimbardo intende mostrare quanto rilevanti e vincolanti siano le
spinte situazionali nell’indirizzare i nostri comportamenti.
In queste slide vi racconterò a che cosa è servito l’esperimento di Zimbardo, che cosa ci ha consentito di
scoprire e anche le sue possibili valenze al di fuori dei laboratori in cui si fa psicologia sociale.
Cominciamo a ribadire che questo è uno dei più famosi studi di tutta la storia della psicologia sociale: se non è il
più famoso si colloca certamente sul podio. Basta questa immagine a testimoniare il fatto che questo
esperimento è una vera e propria pietra miliare della nostra disciplina, al punto che una targa collocata
all’università di Stanford segnala il luogo in cui è stato condotto.
Zimbardo ha condotto il suo studio reclutando un elevato numero di candidati, mediante la pubblicazione di un
annuncio sul quotidiano locale di Palo Alto, la cittadina dove ha sede l’Università di Stanford. Ha poi sottoposto i
candidati a uno screening basato sui più affidabili test di personalità, e ha scartato tutti quelli più disturbati,
arrivando a selezionarne una ventina, tutti di sesso maschile, tutti di classe media, tutti mentalmente sani ed
equilibrati. I 24 prescelti sono stati ufficialmente ingaggiati ed è stato offerto loro un pagamento di 15 dollari al
giorno per 15 giorni, in cui avrebbero recitato la parte di secondini o di carcerati in un carcere simulato costruito
nei sotterranei dell’Università di Stanford.
Prima che l’esperimento cominci, si sceglie chi avrebbe fatto la guardia e chi il detenuto. Per evitare che le
persone molto propense a uno specifico ruolo si trovino in una situazione fin troppo congeniale per loro, la scelta
viene attribuita al caso. Il focus è sulle variabili situazionali, non dimentichiamolo: di conseguenza, la spinta
individuale a preferire di fare la guardia o il carcerato viene prevenuta. Peraltro, dopo il sorteggio, emerge che
quelli cui viene affidato il ruolo di guardia rimangono delusi: perché tutti, nel clima libertario dell’epoca,
immaginavano che, nella loro vita, avrebbero potuto finire per essere prigionieri (perché avrebbero bruciato la
cartolina precetto, perché sarebbero stati scoperti con della droga, perché sarebbero stati scoperti a fare sesso in
pubblico), non certo guardie.
La finta prigione deve essere il più simile possibile alle prigioni vere. Viene quindi costruita con la consulenza di un
ex-detenuto, che in base alla sua esperienza di carcerato spiega come deve essere fatto il carcere. Come nelle vere
prigioni, ci saranno le celle, una sala mensa, gli spogliatoi e una sala di riposo per le guardie. Ci sarà anche una
cella di punizione, piccolissima e buia, una sorta di armadio a muro, il famigerato the hole, in cui mettere in
isolamento punitivo i prigionieri che si comportano male. Questo è un esperimento scientifico: a differenza che nelle
prigioni vere, ci saranno telecamere nascoste e microfoni nascoste nelle celle e nelle stanze delle guardie. I
prigionieri non potranno avere né orologi né calendari, e le guardie faranno i loro turni lavorativi di otto ore,
continuando nel resto della giornata la loro normale esistenza.
Per massimizzare la somiglianza con le vere prigioni, seguendo le indicazioni del consulente di Zimbardo, i
carcerati vengono fatti vestire con divise da carcerati, con uniformi numerate che simulano quello che la gente
immagina sia l’abbigliamento dei prigionieri. Indossano inoltre copricapi che simulano la rasatura a zero della
testa. Le guardie indossano uniformi da carcerieri, occhiali a specchio, e detengono i simboli del potere: manette,
fischietti e manganelli.
Zimbardo ritaglia per se stesso il ruolo di direttore del carcere. Nel briefing iniziale, in cui incontra le guardie,
spiega loro le regole di ingaggio. Dovranno fare funzionare al meglio il carcere, dovranno mantenere l’ordine e
potranno scegliere liberamente come farlo, purché non ricorrano alla violenza.
Nei giorni che precedono l’inizio dell’esperimento le guardie si riuniscono e decidono le norme con cui dovrà
funzionare il carcere. Nelle slide vedete riportate le norme principali che loro stabiliscono. I detenuti dovranno
rivolgersi alle guardie chiamandole non per nome, ma appellandole “signor agente di custodia”. Anche i nomi dei
detenuti saranno aboliti: i prigionieri saranno infatti appellati con un numero, quello riportato sulla loro divisa. La
disciplina e l’ordine saranno bene organizzate. Il cibo verrà assunto tre volte al giorno. Sempre per tre volte si
potrà andare in bagno, sorvegliati. Ci saranno due ore al giorno per leggere e scrivere. Si potranno ricevere due
visite a settimane e si potranno vedere film e fare esercizio fisico. Nei momenti di riposo, il silenzio dovrà essere
rispettato, così come fuori dalle celle e durante i pasti.
Da dove prendono queste norme le guardie? Dalle loro aspettative su come devono funzionare le carceri,
aspettative che hanno un’origine culturale, principalmente i film e i libri carcerari. Da queste norme è evidente che
l’esperimento comincia spogliando i partecipanti della loro identità soggettiva, personale, conquistata nella loro
storia di vita individuale. Tutti perdono il nome, lo stile di abbigliamento, la libertà di comportarsi come credono, e
così via.
Vediamo dunque che cosa succede nell’esperimento. Dopo qualche giorno dal sorteggio, lo studio comincia.
Zimbardo si accorda con la polizia di Palo Alto, che manda delle pattuglie a sirene spiegate ad arrestare i
prigionieri a casa loro, davanti ai vicini sbigottiti. Comincia qui una serie di azioni dei ricercatori che ora non
sarebbero più possibili, basandosi sulle norme deontologiche attualmente vigenti. I prigionieri vengono condotti in
carcere, spogliati, disinfestati e viene fatta loro indossare l’uniforme da prigionieri che vi ho descritto poco fa. Poi
comincia l’esperimento vero e proprio.
Il primo giorno, nulla di rilevante da segnalare. L’impressione di tutti, purtroppo sbagliata, come vedremo, è che
saranno 15 lunghi, noiosissimi giorni.
Il secondo giorno il carcere, “ridicolo” come lo ha definito uno dei prigionieri, comincia a diventare un carcere vero
nella testa di tutti i partecipanti. E, coerentemente con quello che ci si aspetta in un carcere vero, si verifica il primo
tentativo di rivolta da parte dei prigionieri, che si tolgono i copricapi, strappano i numeri di identificazione dalle loro
divise, si barricano nelle celle. Le guardie chiamano i rinforzi, e lavorano anche dopo, anche se sanno che gli
straordinari non saranno retribuiti. E stroncano la rivolta. Lo fanno, contrariamente rispetto alle norme che loro
stesse si erano date, con la forza: sparano gli estintori contro le celle, irrompono nelle celle, spogliano i detenuti e
li lasciano nudi nei corridoi, mettono il leader della rivolta in isolamento dentro the hole. Cominciano insomma le
intimidazioni e le vessazioni.
Il terzo giorno continuano gli episodi di violenza. Le guardie intimidiscono e umiliano attivamente i prigionieri,
cercando di spezzare il legame di solidarietà che avevano sviluppato. Da lì in poi, il problema delle guardie diventa
mantenere la disciplina. Non si può essere sempre attivi: il carcere deve andare avanti da solo, auto organizzandosi,
per quanto possibile. Le guardie ricorrono alla violenza, da un lato, e dall’altro all’antica e sempre efficace tattica
del divide et impera. Viene istituita la “cella dei privilegi”, in cui arbitrariamente le guardie possono spostare i
prigionieri che, secondo loro, se lo saranno meritato. La definizione di che cosa sia meritevole di essere premiato è
naturalmente arbitraria: è infatti ovvio che più è ambigua la situazione, maggiore è il potere di chi il potere lo
detiene. Questo genera sconcerto e diffidenza interpersonale fra i prigionieri: la solidarietà sviluppata frana in breve
tempo, venendo sostituita da un clima di sospetto reciproco fra di loro, al punto che fra i prigionieri si diffonde la
voce, falsa, che fra di loro ci sia un informatore. Inoltre, l’imprevedibilità delle conseguenze delle loro azioni
paralizza i prigionieri, mentre lo spirito di corpo delle guardie si rinvigorisce: non c’è nulla di meglio di un nemico
esterno per compattare un gruppo la cui coesione è a rischio.
Le sofferenze cominciano a diventare inaudite. Un prigioniero, dopo sole 36 ore, inizia a manifestare disturbi
emotivi, pensieri disorganizzati, crisi incontrollabili di pianto e accessi di rabbia. Come nelle carceri vere, gli si
propone di alleviare la sua situazione diventando un informatore delle guardie: di entrare insomma in quella che
la letteratura si campi di concentramento viene definita “zona grigia”. Ma soffre troppo, e fortunatamente viene
liberato, venendo sostituito da un prigioniero che stava metaforicamente in panchina, pronto a subentrare.
Il giorno dopo i prigionieri vengono fatti belli per i colloqui. Anche in questa occasione si verificano dei gravissimi
soprusi: i visitatori sono fatti arbitrariamente attendere molto a lungo, vengono perquisiti, si decide che ogni
prigioniero potrà ricevere solo due visite, solo per 10 minuti, e solo in presenza di una guardia. Nessuna delle
norme che le guardie avevano stabilito prescriveva nulla di tutto ciò. La prigione è diventata vera nella mente di
tutti quelli che ci hanno a che fare: non solo secondini e prigionieri, ma anche amici, fidanzate e parenti in visita.
Piano piano, come a Bolzaneto, come alla Diaz, come ad Abu Ghraib, l’arbitrio diventa assoluto. Le guardie
costringono i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non possono vuotare, a pulire le latrine
a mani nude, a simulare accoppiamenti omosessuali fra di loro. Gli appelli diventano sempre più lunghi e sadici:
come nei campi di concentramento, diventano infiniti, e devono farli stando in piedi, poi cantando, poi facendo le
flessioni, poi insultandosi reciprocamente, poi saltando su un piede solo e così via.
Alcuni detenuti cominciano a manifestare seri disturbi emotivi, confusione mentale, accessi di pianto, urla
incontrollabili. I film e il tempo per la scrittura e la lettura vengono dimenticati, ma ormai questo conta davvero
poco. Poi si diffonde la notizia di una possibile evasione di massa, che si diffonde a tappeto fra le guardie. Le
guardie vanno da Zimbardo e chiedono di spostare l’esperimento in una vera prigione dismessa. Non era vero, ma
anche le fake new impattano sulla realtà, e chi ne fa le spese è la parte più debole: quella dei prigionieri. In un
clima di totale sopraffazione, i prigionieri chiedono e ottengono di vedere un prete. Zimbardo glielo consente,
convocando un ex-cappellano delle carceri. Metà dei detenuti gli si presenta con il numero, e non con il nome. Il
cappellano li ascolta e suggerisce loro di contattare un legale.
Al quinto giorno la situazione è drammatica. I prigionieri sono stati vinti, schiacciati, sono totalmente conformi e
condiscendenti, hanno un comportamento docile e passivo, hanno un rapporto con la realtà pesantemente
compromesso. Le guardie sono sempre più vessatorie e più sadiche. I prigionieri sono disposti a rinunciare a
tutto il denaro guadagnato fin lì pur di essere liberati, ma naturalmente non vengono liberati, perché il carcere è
diventato vero agli occhi dello stesso Zimbardo. Entra un nuovo prigioniero, in sostituzione di uno liberato perché
stava troppo male. Non è ancora intrappolato in queste dinamiche e si ribella, cominciando lo sciopero della
fame. Viene costretto a mangiare dalle guardie, mentre gli altri detenuti lo considerano un pericoloso
piantagrane.
Finalmente l’esperimento viene interrotto, anche grazie all’intervento di Christine Maslach, la fidanzata di
Zimbardo, che va a trovarlo nel luogo dell’esperimento, rimanendo incredula per quel che vede. Piangendo e
urlando, intima a Zimbardo di interrompere lo studio. Lui ci pensa qualche ora, poi rientra in sé e lo interrompe. Ci
è voluta una persona esterna al carcere e alle sue dinamiche, insomma, per mostrare che cosa stava davvero
succedendo: quelle interne allo studio erano state infatti completamente travolte dalla forza delle variabili
situazionali.
Che cosa è successo in questo esperimento? Quali sono state le dinamiche psicosociali in gioco? Qui ve le
accenno, rimandandovi al fondamentale L’effetto lucifero, pubblicato da Zimbardo ormai una decina di anni fa, per
avere più dettagli e un discorso di respiro più ampio. La prima variabile in gioco è la deindividuazione. Sia i
secondini che i prigionieri, aiutati anche dal fatto di essere in uniforme, sono messi in una situazione che li spinge
a ragionare, a vedersi e a muoversi non come singoli individui, ma come ruoli. Non come John, Roger, Stanley, ma
come prigionieri e guardie. In tutto l’esperimento, in effetti, ci saranno pochissime relazioni significative entro i
gruppi e fra i gruppi. Le poche relazioni personalizzate fra persone di gruppi diversi saranno sempre iniziate dai
prigionieri.
Assumere la funzione di controllo sugli altri nell’ambito di un’istituzione totale induce le guardie ad assumere le
norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi: non sono più singoli
individui, sono ruoli. Si modifica anche il modo di definire la situazione: diminuisce l’attenzione a sé, e aumenta
quella alle norme del gruppo. I prigionieri sperimentano la totale perdita di controllo sulla situazione: vivono uno
stato di impotenza appresa davvero devastante, che li porta a perdere ogni speranza di rendere meno drammatica
la loro esperienza. Il giorno del compleanno di uno di loro, gli altri gli cantano Tanti auguri a te chiamandolo con il
numero e non con il nome di battesimo.
In tutto questo, rilevante, come vi dicevo, è la cieca obbedienza alle norme di gruppo. Chi fra le guardie si sente a
rischio di essere troppo arrendevole imita gli altri e un incredulo Zimbardo, a distanza di anni, dirà: “Non è stato
necessario formarli: ci aveva già pensato la società, che li ha addestrati al nostro posto”.
Naturalmente tutto questo aiuta i partecipanti a non sentirsi responsabili delle loro azioni, il che rende ancora più
probabile la messa in atto di comportamenti folli, impensabili al di fuori di un sistema così patologico, in cui è
possibile sentirsi liberi di seguire i propri standard personali. I partecipanti li avrebbero potuto seguire anche qui,
in astratto. Ma in concreto la forza della situazione si impadronisce di loro, non permettendo loro di cogliere che
questa possibilità era a loro disposizione.
In definitiva, l’esperimento di Zimbardo colpisce perché ci mostra con chiarezza drammatica quanto contano le
variabili situazionali nell’indirizzare i nostri comportamenti. Contano al punto che lo stesso Zimbardo, che mette in
piedi lo studio per mostrare la mondo l’influenza delle variabili situazionali, quando i prigionieri stanno male finisce
per attribuire questa sofferenza alle loro caratteristiche individuali, tacciandoli di fragilità e di debolezza eccessive.
L’influenza delle variabili situazionali è pervasiva perché è sottile, impalpabile, sconosciuta ai nostri stessi occhi.
Ed è peraltro incoerente con l’individualismo spinto della società occidentale, che ci permea anche a nostra
insaputa. È pervasiva anche perché per noi è abbastanza facile illuderci di non subirla, sia perché fortunatamente
le situazioni in cui la subiamo non sono estreme come quella dell’esperimento di Zimbardo, sia anche perché,
altrettanto fortunatamente, nella maggioranza dei casi riusciamo a evitare di trovarci in queste situazioni. E quindi
noi davvero non sappiamo come ci comporteremmo nelle situazioni di questo genere, perché, per fortuna, non ci è
mai capitato di trovarcisi. Ma è pervasiva anche perché, se non riusciamo a evitare di trovarci in queste situazioni,
possiamo ricorrere ai rassicuranti processi di interpretazione centrati sull’individuo, etichettando come devianti,
come perverse, come folli, come “mele marce” le persone che hanno la sventura di subire questa influenza.
Insomma, Zimbardo ci insegna che i comportamenti, anche quelli più inattesi, impensabili, aggressivi e violenti,
spesso dipendono, più che dalle caratteristiche individuali delle persone che li perpetrano, dall’organizzazione
sociale in cui si trovano a vivere. Dalle sue norme (l’obbedienza all’autorità è sicuramente premiata, così come
l’obbedienza alle norme di gruppo); dalla sostituzione della responsabilità individuale con quella amministrativa e di
gruppo; dalla sostituzione dei valori e delle mete individuali con i valori e le mete del ruolo. Più che chi siamo, conta
insomma dove siamo e in compagnia di chi siamo, per usare una formula che abbiamo già usato in queste lezioni e
che tornerà nelle prossime.
Se, come mi auguro, l’esperimento di Zimbardo vi ha interessati e magari anche emozionati, vi invito caldamente a
leggere L’effetto Lucifero, il libro in cui Zimbardo, a distanza di quasi 40 anni dallo studio, racconta che cosa è
effettivamente successo nel suo carcere simulato. Vi invito anche a consultare il sito ufficiale dell’esperimento. Dal
mio punto di vista, vi assicuro che ne vale assolutamente la pena. E ne vale la pena anche perché nel libro
Zimbardo racconta come i suoi risultati sono spendibili, e lui lo ha fatto in prima persona, per capire qual è, dal
punto di vista giuridico, la responsabilità delle persone che mettono in atto comportamenti distruttivi nelle
situazioni estreme. Devono essere condannate? Devono vedersi riconosciute delle attenuanti? Di chi è, in definitiva,
la responsabilità di questi comportamenti? Il discorso che Zimbardo fa nel libro è forte e convincente, e va letto
considerando che Zimbardo è stato consulente di parte per alcuni degli imputati per le atrocità collettive messe in
atto ad Abu Ghraib. Ragione in più per considerare interessante il suo fondamentale volume.

Tiriamo le fila
Eccoci giunti alla fine di questa lezione sull’ottica situazionale in psicologia sociale. Spero di avervi mostrato,
raccontandovi i tre esperimenti che vi ho raccontato, e mostrandovi i filmati di Zimbardo e di Wilkinson, quanto è
rilevante l’insieme delle variabili contestuali nell’influenzare i nostri stati psicologici e i nostri comportamenti. Al di
là del loro interesse intrinseco, l’insieme dei risultati che vi ho presentato è rilevante perché ci mostra come
l’influenza contestuale può esercitarsi a tre diversi livelli.
Nell’esperimento di Asch e in quello di Moscovici e della sua équipe il livello è quello dei semplici aggregati sociali
nei quali ci può capitare di trovarci, senza che mettiamo in atto alcuna interazione significativa e senza che ci sia
nessuna posta in gioco al di là della spinta che deriva dalle dinamiche di gruppo.
Nell’esperimento di Zimbardo il contesto è invece quello dei veri e propri gruppi, i cui componenti hanno un compito
comune (gestire il carcere se sono secondini, uscirne alla meno peggio possibile se sono carcerati). E hanno anche
un destino comune (perché il destino di una guardia sarà quello di tutte le guardie: o tutte riusciranno a gestire il
carcere o tutte falliranno. Lo stesso per i prigionieri: il modo in cui il carcere sarà organizzato socialmente
impatterà in maniera sostanzialmente analoga su tutti loro). E oltre a un compito comune e/o un destino comune,
nei gruppi ci sono tipicamente interazioni significative fra i componenti, poste in gioco rilevanti, un sistema di
comunicazioni, di ruoli, di status…
Nei gruppi veri e propri il contesto sociale è insomma molto più ricco di quanto non accade quando alcuni
sconosciuti si trovano a essere sostanzialmente giustapposti in una situazione quotidiana. E, coerentemente con
questa ricchezza, gli effetti che esercita sono davvero forti e rilevanti.
Nel racconto di Wilkinson, infine, il contesto è quello strutturale ed economico: è l’uguaglianza/disuguaglianza
sociale nella distribuzione delle risorse a impattare su di noi, su come ragioniamo, ci sentiamo e ci
comportiamo.
Dall’insieme di questi lavori ci portiamo a casa l’idea che i contesti contano e che trascurarli ci porta a perderci
qualcosa di davvero rilevante nella spiegazione delle condotte umane. I contesti ci possono spingere al
conformismo, ma possono anche indurci al cambiamento, dei comportamenti e anche dei nostri stati più
profondi, spesso senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. Ci possono cambiare, in modo negativo ma
potenzialmente anche in modo positivo. Le variabili situazionali, insomma, non sono necessariamente solo alla
base di comportamenti distruttivi e terribili. Ce lo dice lo stesso Zimbardo, nel suo Ted talk, quando ci racconta
che, negli ultimi anni, lui si è dedicato a comprendere come esse possono spingerci anche a mettere in atto
condotte imprevedibilmente eroiche. Ma certo, vista la radice storica della disciplina, agli psicologi sociali
interessano soprattutto gli effetti distruttivi delle variabili situazionali.
Prima di terminare, vorrei giustappunto tornare sul Ted talk di Zimbardo. Lo uso come chiave di lettura del
messaggio che ho inteso darvi in questa lezione. Pur con le specificità dello studio, infatti, mutatis mutandis alcune
delle scoperte che Zimbardo ci ha regalato valgono anche per gli altri argomenti di cui ci siamo occupati in questa
lezione. Al di là dei risultati che ha fornito alla psicologia sociale, nel Ted talk che vi ho mostrato si vedono bene,
sentendole raccontare in prima persona da uno dei massimi esponenti della storia della psicologia sociale, quattro
cose.
La prima è come gli interessi di chi fa psicologia sociale derivano, almeno in parte dalla storia della loro traiettoria
individuale di singole persone. Come ci ha raccontato lui stesso, Zimbardo è cresciuto nel Bronx meridionale negli
anni ’40, in un ambiente pericoloso e degradato, e già nella sua infanzia si chiedeva perché certe persone sono
cattive, lo diventano, o si comportano come se lo fossero. Era la sua vita quotidiana a spingerlo a farsi queste
domande. Ebbene, lui nel suo celeberrimo esperimento ce lo ha spiegato, o perlomeno ha contribuito a farlo. E ci ha
mostrato che il bene e il male sono entrambi presenti dentro di noi, ed entrambi possibili. Sarà la situazione in cui
ci troviamo a indirizzarci nell’una o nell’altra direzione. Un ragionamento tutt’altro che rassicurante, come tutt’altro
che rassicuranti sono le cose più interessanti che la psicologia sociale ci ha mostrato nella sua storia. Non è
rassicurante perché ci mostra che siamo sistematicamente a rischio di mettere in atto comportamenti nocivi per gli
altri, ma anche perché ci mostra che i buoni comportamenti che mettiamo in atto possono derivare, appunto, più
dalla situazione che da noi stessi. Per certi versi, viene insomma messo in discussione nientemeno che il
fondamento stesso del libero arbitrio. Si tratta di un tema troppo grande e divergente dai nostri scopi per
affrontarlo. Meglio tornare a noi.
Zimbardo sostiene il suo ragionamento accennando anche a un altro dei più celebri esperimenti di tutta la
psicologia sociale, quello condotto dal suo antico compagno di scuola Stanley Milgram per mostrare che tutti noi,
indipendentemente da chi siamo, siamo a rischio di mettere in atto comportamenti distruttivi solo perché ce lo
chiede un’autorità. Lo sperimentatore nello studio di Milgram. Un superiore nell’azienda in cui lavoriamo. Un capo
politico nell’Italia fascista o nella Germania nazista. Il meccanismo psicologico in gioco è il medesimo, ed è un
meccanismo che possiamo capire appieno solo se lo leggiamo attraverso le lenti di un’ottica situazionale,
focalizzata sul contesto in cui si trovano le persone: su dove sono e con chi sono, più che su chi sono.
Nell’esperimento di Zimbardo le cose terribili che abbiamo visto sono successe a opera di persone perfettamente
normali, che erano state scelte mediante l’applicazione dei più avanzati test di personalità, che avevano portato a
scartare tutti gli individui potenzialmente disturbati e devianti. E sono accadute in una situazione artificiosa. “Era
una prigione ridicola”, ci dice il ragazzo nel filmato, “non era credibile”. Ma è bastato trovarsi in una prigione
ridicola perché la situazione si impadronisse delle persone, e le trasformasse da mele sane in mele marce, perché
inserite in un cesto perverso. Il messaggio di Zimbardo, come quello di tutti gli studiosi più attenti e fini concentrati
sulla situazione, però, è che la situazione non ci porta necessariamente in direzione sbagliata. Come dicevamo, la
situazione ci offre l’opportunità di fare il male, di restare indifferenti davanti a chi lo perpetra, o di scegliere il bene.
E, ovviamente, la strada che sceglieremo dipende anche da noi: da chi siamo, da che cosa desideriamo, da che cosa
prefiguriamo e così via.
In sostanza, credo che l’esperimento di Zimbardo, come anche gli altri studi cui abbiamo dedicato questa lezione, ci
mostri soprattutto che è solo un’ottica davvero psicosociale quella utile a spiegare le condotte umane diverse da
quelle standard e rutinarie. E se lo dice, anche se implicitamente, Zimbardo, il massimo sostenitore delle
spiegazioni situazionali, figuriamoci quanto possiamo sostenerlo noi a distanza di quasi 50 anni dal suo
celeberrimo studio.
Nel suo Ted talk Zimbardo ci insegna quattro cose, dicevamo. Il suo secondo messaggio è connaturato
all’emozione che l’autore provava nel raccontare i risultati del suo studio.
L’emozione di Zimbardo era visibilissima, e colpisce a maggior ragione perché, dal suo studio, erano passati
alcuni decenni. I più interessanti studi psicosociali, da sempre, emozionano, perché la disciplina si occupa di
tematiche socialmente rilevanti e ci permette di scoprire cose sconosciute a noi stessi. Lo stesso Zimbardo, che
aveva costruito il suo esperimento per dare scientificamente conto del fatto che le spinte situazionali sono
assolutamente rilevanti nell’influenzare i nostri comportamenti, a un certo punto ha perso il controllo del setting
sperimentale. Si era dato il ruolo di direttore del carcere, e si era immedesimato nel ruolo al punto da perdere
completamente di vista i doveri etici e deontologici di chi fa ricerca su soggetti umani. È servita una persona
rilevante per lui ed esterna allo studio per aiutarlo a tornare nei suoi panni e a interrompere l’esperimento
perché stava nuocendo grandissimamente a tutti i suoi partecipanti: i prigionieri, certo, ma anche le guardie, che
a causa delle spinte situazionali si sentivano vincolate a mettere in atto condotte violente e incomprensibili.
Il terzo messaggio è appunto questo: le spinte situazionali ci spingono a fare cose per noi totalmente inattese.
Nel Ted talk non si vede, ma lo si legge nel volume di Zimbardo che vi ho pubblicizzato prima e in uno dei
documentari ufficiali prodotti sull’esperimento: documentari molto interessanti ma che non vi mostro perché
sono tutti in inglese, e in un inglese piuttosto complesso. Ma cercateli, se ve la sentite. I più interessanti sono
probabilmente quelli intitolati Quiet rage (rabbia quieta) e The Stanford Prison Experiment (l’esperimento della
prigione di Stanford).
Torniamo a noi. L’esperimento di Zimbardo è stato così estremo, per la vita dei suoi partecipanti, che lo
sperimentatore e i partecipanti hanno continuato a incontrarsi per anni, per discutere di quello che era successo e
per fare una sorta di elaborazione condivisa del trauma che era derivato loro dalla partecipazione. Ebbene, in uno
di questi incontri si sono confrontati il prigioniero più ribelle e il secondino più severo e determinato: duro al punto
che era stato soprannominato John Wayne. Il prigioniero si lamenta, lo attacca, lo mette alle strette, gli dice – a
distanza di anni! – quanto era stato crudele, sadico e inappropriato il suo comportamento.
John Wayne inizialmente contrattacca, poi cerca di spiegare, poi si difende, e poi chiede al prigioniero: “ok, ma tu
che cosa avresti fatto?”. Il prigioniero ci pensa, si interroga, si macera, e alla fine risponde “non lo so”. Non lo
sapeva. Si era ribellato, si era arrabbiato, aveva sofferto, aveva sperimentato grandissimi livelli di dolore mentale
e un fortissimo senso di ingiustizia e di legittima indignazione, tanto che a distanza di anni l’esperienza era ancora
assolutamente vivida nella sua mente. Ma nonostante tutto, con un’onestà davvero impressionante, non sapeva
che cosa avrebbe fatto a parti invertite, se si fosse trovato al posto di John Wayne, perché aveva capito quanto
forte è l’influenza che le variabili situazionali dispiegano sui nostri comportamenti. Credo che questo sia uno dei
messaggi più importanti e inquietanti dell’esperimento di Zimbardo.
L’ultimo messaggio fondamentale del Ted talk di Zimbardo è che i risultati delle ricerche psicosociali sono
spendibili su scala più ampia rispetto a quella della disciplina scientifica in cui essi sono stati prodotti. Ricorderete
che, nella nostra prima lezione, abbiamo detto che la psicologia sociale può avere tre scopi: la comprensione, la
sensibilizzazione e l’emancipazione. Ebbene, Zimbardo ha fatto tutte e tre queste cose.
Ha perseguito la comprensione conducendo il suo esperimento e sviluppando chiavi di lettura dei fenomeni
psicosociali precedentemente inesistenti, se non addirittura impensabili.
Ha perseguito la sensibilizzazione raccontando e discutendo i suoi risultati nelle sue pubblicazioni e in qualsiasi
luogo e posto sia stato invitato a farlo. A oltre 80 anni, nel 2015 era a Milano, ad esempio, in una sala conferenze, a
raccontarlo ancora una volta, a discutere con il pubblico, a impegnarsi affinché nella società si diffondesse il suo
messaggio, e anche a farsi un selfie dopo l’altro con gli emozionati astanti.
E ha anche fatto emancipazione, facendo il consulente di parte di uno dei processi messi in atto contro i soldati che
si erano macchiati dei terribili crimini che ci sono stati mostrati e aiutando le corti a decidere se e come
condannarli, insegnando loro quanto cogenti e vincolanti possono essere le forze situazionali e sistemiche. Non per
farli assolvere, ovviamente, ma per evidenziare che forse gli imputati avevano diritto a delle attenuanti: perché le
forze situazionali ci influenzano, certo, ma alla fine, se fossimo giuridicamente assolti da ogni responsabilità in
nome di tali forze, non ci sarebbe più spazio per lo stato di diritto e per la convivenza civile. Lo ha sancito il diritto
internazionale dopo i processi di Norimberga, in cui i nazisti sono stati condannati per crimini di guerra e crimini
contro l’umanità: a un ordine illegale è obbligatorio disubbidire, e chi non lo fa deve essere condannato.
Vorrei chiudere tornando a una delle cose che vi ho raccontato in questo video. Le forze situazionali interagiscono
con quelle personali, disposizionali, come diciamo noi psicologi sociali, nell’influenzare i nostri comportamenti. È lo
stesso Zimbardo, implicitamente, a ricordarcelo, quando parla di due specifiche persone che hanno messo
inaspettatamente in atto comportamenti di aiuto generosissimi e assai rischiosi. E del resto, per tornare al Ted talk
di Wilkinson, non tutte le persone che vivono nel medesimo contesto disuguale finiranno per avere lo stesso livello
di malessere psicologico. Conta il contesto, ma conta anche l’individuo.
Fortunatamente. Se no, saremmo come dei fuscelli sbatacchiati qua e là dal vento, senza possibilità di
intervento sulle nostre vite e sulla realtà.
Per concludere, credo che uno dei messaggi cruciali degli studi condotti con ottica situazionale sia insomma che
se anche si rifiuta la soffocante ottica individualistica della psicologia sociale psicologica, che dimentica la
rilevanza delle variabili contestuali, situazionali e sociali, non si deve cadere vittima di una sorta di effetto
rimbalzo, e dedicarsi a queste ultime variabili in esclusiva, dimenticando che anche gli individui contano. Ed è in
definitiva per questo, per dare conto di questo, che esiste la psicologia sociale.
Con questo termina la prima parte della sezione del corso di storia della psicologia dedicata alla storia della
psicologia sociale. Come vi ho preannunciato, il corso continuerà con una disamina della storia degli studi
psicosociali destinati a spiegare pregiudizio e discriminazione. Ho scelto di approfondire questo filone di
teorizzazione e di ricerca non solo perché si tratta di uno dei temi più classici della psicologia sociale, ma anche
perché si tratta di argomenti di grande rilevanza sociale. E, ancora, anche perché consentono di evidenziare con
buona chiarezza la contrapposizione fra le spiegazioni individualistiche e le spiegazioni situazionali del pregiudizio
e della discriminazione.

5- Pregiudizi e discriminazione
5.1 gli approcci psicoanalitici: pregiudizio e discriminazione come esito di psicopatologia
Introduzione
In questa lezione ci occupiamo di analizzare come la psicologia sociale è andata avanti nel suo sviluppo,
continuando a usare gli studi sul pregiudizio come caso di studio utile a esemplificare che cosa è successo nel
corso dell’evoluzione storica della nostra disciplina.
Nella lezione precedente abbiamo visto che i primi lavori sul pregiudizio partivano dal presupposto che le persone
che hanno pregiudizi siano patologiche, e che ci radicali siano differenze qualitative fra chi ha pregiudizio e chi il
pregiudizio non ce l’ha. Come se fossero due diversi tipi umani, con poco o niente in comune fra di loro.
In questa lezione e nelle prossime, vedremo che gli approcci successivi, sviluppati a partire dagli anni ’60 fino ai
nostri giorni, criticano e integrano questa visione. Certo, la patologia del carattere e della personalità aiutano, nello
sviluppo del pregiudizio e nella messa in atto dei comportamenti discriminatori. Ma, come vedremo, il pregiudizio
viene attualmente considerato l’esito di normali e innocenti processi di pensiero, che accomunano tutti noi nel
nostro rapporto con noi stessi e con il mondo. Come vedremo, secondo gli approcci contemporanei le principali
origini del pregiudizio sono due spinte che, di primo acchito, col pregiudizio sembrerebbero non avere nulla a che
fare: il fatto che il nostro sistema di elaborazione dell’informazione è troppo poco complesso ed efficiente per
prendersi cognitivamente carico di ogni informazione con cui entra in contatto, e il fatto che per noi è premiante
avere una buona immagine di noi stessi. Vi racconterò alcuni studi, uno davvero epocale, che hanno mostrato
come queste due oneste, sane, comuni spinte possono portare inscritto il germe del pregiudizio e della
discriminazione. Questo anche se, come abbiamo detto, è davvero difficile immaginare che il pregiudizio e la
discriminazione possano avere qualcosa a che fare con la spinta a ottenere una conoscenza del mondo il più
adeguata possibile, usando al meglio il nostro sistema di elaborazione dell’informazione, limitato rispetto alla
complessità del nostro mondo interno e del mondo esterno in cui viviamo, da un lato. E dall’altro che pregiudizio e
discriminazione possano avere qualcosa in comune con la spinta a considerarci persone valide, meritevoli,
apprezzabili da noi stessi e dagli altri.
In questa lezione ci occuperemo della prima spinta, mentre ci dedicheremo alla seconda nella prossima.
Il fulcro di questi nuovi studi sul pregiudizio, che poi in realtà ormai non sono più nuovi, tanto che alcuni di essi
sono considerati unanimemente dei classici della psicologia sociale, si concentrano essenzialmente su un
processo cognitivo elementare, nel quale siamo sistematicamente impegnati: sto parlando del processo di
categorizzazione. Il processo di categorizzazione è il processo mentale con cui noi inseriamo in categorie specifici
oggetti, allo scopo di semplificare il mondo. Come vedremo, ci imbattiamo in un chihuahua, in un alano, in un
pittbull e in un barboncino e li inseriamo tutti all’interno della categoria dei cani, anche se fra loro questi animali
hanno enormi differenze quanto a indole, a dimensioni, a forma del corpo, ad aspetto del muso e così via. Noi
passiamo la vita a categorizzare oggetti, e questo ci aiuta a risparmiare moltissime risorse cognitive nel nostro
rapporto con il mondo. Come vedremo, in pochi millisecondi, senza nemmeno accorgercene, vediamo un
barboncino e lo consideriamo automaticamente un cane, esattamente come facciamo quando vediamo un alano. E a
seguito di questa operazione, noi finiamo per considerare il barboncino e l’alano come se fossero molto più simili
fra loro di quanto in realtà non sono, e a considerarli più diversi di quanto in realtà non sono rispetto ad altri
animali cui assomigliano, ma che inseriremmo in altre categorie (ad esempio un coyote, uno sciacallo, un licaone,
un lupo o una iena). Ma non solo: finiamo anche per attribuire a ogni cane, indipendentemente da chi lui sia, le
caratteristiche che sappiamo che hanno i cani.
Le cose si complicano, e diventano più intriganti per noi psicologi sociali, quando gli oggetti che categorizziamo
sono sociali, ossia sono persone o gruppi. Anche le persone e i gruppi vengono categorizzati: vedo Marta e la
categorizzo fra le donne; vedo un gruppo di persone vestite con la maglia granata che cantano cori che trasudano
orgoglio di appartenenza e disprezzo per chi si veste con la maglia a strisce bianche e nere e le categorizzo fra i
tifosi calcistici; vedo un uomo con una chitarra elettrica che balla e canta sul palco e si tuffa sulla folla osannante e
lo categorizzo fra i cantanti rock. Fin qui niente di strano.
Ma, come vedremo, gli oggetti sociali (persone e gruppi) sono oggetto di stereotipi e pregiudizi. Pensiamo, perché la
società ce lo ha insegnato, che le donne sono sensibili, che i tifosi sono fanatici, che i cantanti rock, oltre alla loro
musica, amano molto il sesso e la droga. E lo pensiamo anche se in molti specifici casi non è vero. Ci sono donne
insensibili, tifosi che guardano sportivamente alle vittorie e alle sconfitte della propria squadra del cuore e rocker
monogami che bevono solo succo di frutta. E lo pensiamo anche se in molti casi non siamo nemmeno d’accordo con
questa visione stereotipata; se come singoli individui pensiamo che sia sbagliata.
Ecco, gli studi di cui parleremo ci mostrano come il fatto che possiamo non essere d’accordo con questa visione
stereotipica conta poco, perché, per i limiti del nostro sistema di elaborazione dell’informazione, di solito
finiamo per metterci in relazione con una donna presupponendo che sia sensibile, con un gruppo di tifosi
pensando che siano fanatici, e con una rockstar pensando che i suoi principali interessi esistenziali siano sesso,
droga e rock and roll.
Con tutte le conseguenze del caso, in termini di scarsa accuratezza della nostra conoscenza e anche di potenziale
discriminazione.
In questa lezione, dunque, vi racconterò i legami fra categorizzazione sociale, pregiudizio, favoritismo per l’ingroup,
ossia il gruppo al quale si appartiene, e potenziale discriminazione per l’outgroup, ossia il gruppo al quale non si
appartiene.
Per il nostro ragionamento, sarà indispensabile introdurre un concetto molto importante: quello di processi
cognitivi e di atteggiamenti automatici. Come vedremo, i processi cognitivi automatici si attivano
inconsapevolmente, senza che nemmeno lo desideriamo e senza che ce ne rendiamo conto. Vediamo un chihuahua
e automaticamente lo consideriamo un cane. Vediamo una donna e automaticamente la consideriamo una persona
sensibile. Vediamo un nero e automaticamente lo consideriamo una persona aggressiva.
Ebbene, quando è in gioco il pregiudizio, moltissimi dei processi in gioco hanno queste caratteristiche. In questa
lezione, fra le altre cose, vi racconterò dunque che cosa sono i processi automatici, quali sono le loro
caratteristiche e in quali relazioni sono con il pregiudizio e la discriminazione. Per farvi toccare con mano di che
cosa si tratta quando si parla di loro, avrete la possibilità di fare in prima persona un test di associazione implicita,
un test volto a misurare atteggiamenti impliciti sviluppato da Tony Greenwald e dalla sua équipe ormai una ventina
di anni fa. Dopo che lo avrete fatto, il computer vi darà il risultato della misurazione effettuata su di voi, e in un
video vi racconterò la logica del test e la sua struttura. Dopo che lo avete fatto e non prima, naturalmente, da un
lato per non rovinarvi la sorpresa e dall’altro per non rischiare di influenzare i vostri risultati.

Reich
In questa lezione ci occupiamo dei primi tentativi di spiegare il pregiudizio e la discriminazione. Cominciamo
parlando della prima opera sul tema, Psicologia di massa del fascismo, di Wilhelm Reich. Passeremo, nelle
prossime slide, a parlare di quella di Erich Fromm, e in quelle dopo all’opera di un’équipe di ricerca capitanata da
Theodor Adorno.
Come abbiamo visto nel video introduttivo, siamo in piena esplosione del fascismo e del nazismo, molti importanti
psicologi sociali scappano dalla Germania per mettersi in salvo da un destino atroce, si rifugiano in America e
dedicano anni della loro attività professionale a cercare di dare conto delle possibili ragioni di un tanto vasto
cedimento alle suggestioni totalitarie. Come effetto collaterale di tutto ciò, la psicologia sociale si insedia negli Stati
Uniti e diventa una disciplina principalmente nordamericana. Per quel che riguarda la chiave di lettura che stiamo
usando per leggere la storia della disciplina, questo avrà una rilevanza enorme, dal momento che nel corso degli
anni, coerentemente con l’ottica individualista che domina nella cultura statunitense, assisteremo a una radicale
individualizzazione della psicologia sociale che in massima parte si svilupperà focalizzando i propri approcci sulle
variabili personali più che su quelle situazionali e contestuali.
Partiamo dagli inizi. Siamo nella Germania degli anni ’30, la Repubblica di Weimar è franata, Hitler ha appena vinto
le elezioni, il nazismo si sta impadronendo semplicemente di tutto, si diffondono venti violentissimi di
antisemitismo, i più avveduti (e più avvantaggiati) fra quelli che sono candidati a essere vittima del nazismo
cominciano a pensare di fuggire.
Quello che vedete riassunto nelle slide è il clima culturale dell’epoca, come l’ho tratteggiato nel mio volume Le
tendenze antidemocratiche. Non scendo ovviamente nei dettagli: ma credo che vi bastino queste slide per
mostrarvi quanto la psicologia si è attivata per cercare di spiegare, scientificamente, le ragioni del fascismo e del
nazismo e, assieme a loro, quelle del pregiudizio.
Sono lavori quasi tutti di taglio psicoanalitico, a riprova del presupposto di psicopatologia del fascismo che
governava la teorizzazione e la ricerca di questi autori. Alcuni degli autori sono filosofi, altri sociologi, altri
psicologi clinici, altri psicologi della personalità, altri ancora psicologi sociali. E alcuni studi sono teorici e altri
empirici. Non stupisce, visto quel che accadeva nel mondo e nella vita dei ricercatori, che e spesso si concentrino,
in tutto o solo in parte, su uno specifico pregiudizio, l’antisemitismo. Fare ricerca costa. E non stupisce, vista
l’urgenza del tema, che l’American Jewish Committee finanzi una di queste ricerche, che confluirà poi nel
monumentale La personalità autoritaria.
Insomma, la pubblicazione del libro di Reich è probabilmente la prima tappa importante di un percorso comune e
spesso convergente. È un libro del 1933: data la sua veneranda età, non stupisce che sia quasi completamente
superato. Ma è il primo, appunto, ed è utile conoscerlo, se non altro perché ha mostrato che anche la psicologia
può dire la sua quando si tratta di spiegare pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Insomma, la prospettiva
puramente teorica di Wilhelm Reich merita indubbiamente una specifica attenzione: essa infatti costituisce il
principale capostipite degli studi sulle tendenze antidemocratiche, ed è su essa che si sono almeno in parte
fondate le successive opere di Fromm e di Adorno e colleghi. Il tentativo dello studioso tedesco è quello di
approcciare l’antidemocrazia utilizzando soprattutto spiegazioni psicosociali e psicoanalitiche, lette in chiave
esplicitamente marxista.
Secondo Reich, infatti, l’analisi politico-economica non era sufficiente a dare conto dell’affermarsi del fascismo e
del nazismo, così come erano poco soddisfacenti quegli studi che si arrestavano alla constatazione che tale
cedimento fosse paragonabile ad una sorta di «follia collettiva». «Non si possono liquidare le catastrofi sociali
dicendo che si trattava di una “psicosi della guerra” oppure di un “offuscamento delle masse” ritenendole tanto
deboli da farsi completamente offuscare. Il problema è che ogni ordinamento sociale produce in seno alle proprie
masse quelle strutture di cui ha bisogno per raggiungere i suoi obiettivi principali». Reich intendeva pertanto
«capire perché le masse si sono lasciate sviare, annebbiare e sopraffare da una situazione psicotica (…). Milioni di
persone dicevano sì alla propria oppressione, una contraddizione che può essere spiegata soltanto
psicologicamente a livello di massa e non politicamente o economicamente».
L’affermazione del fascismo e del nazismo era per lo psicoanalista tedesco la risultante della somma delle
tendenze irrazionali del carattere umano, l’espressione non dell’opera o della personalità di un dittatore, ma della
struttura psicologica dell’uomo massificato. «Un capo o l’esponente di un’idea può avere successo solo quando (…)
la sua concezione personale, la sua ideologia o il suo programma trova riscontro nella struttura media di un largo
strato di individui che fanno parte della massa (…). Solo quando la struttura della personalità di un capo coincide
con le strutture individuali a livello di massa di vasti strati della popolazione un “Führer” riesce a fare la storia».
Secondo Reich, è soprattutto la piccola borghesia a ospitare al proprio interno larghe maggioranze di individui
potenzialmente antidemocratici, dal momento che esisterebbe un nesso abbastanza stretto fra la struttura delle
sue famiglie – particolarmente autoritarie e repressive dal punto di vista sessuale – e l’adesione dei suoi membri
alla simbologia ed alla mistica del fascismo. In tale ottica, lo stile educativo castrante così diffuso nella cultura
occidentale dell’epoca sarebbe la radice psicologica delle deviazioni dei rapporti con le autorità. Diamo nuovamente
la parola a Reich: «Poiché la società autoritaria si riproduce con l’aiuto della famiglia autoritaria nelle strutture
individuali di massa, la famiglia autoritaria deve essere considerata e difesa dalla reazione politica come la base
per eccellenza dello “stato della cultura e della civiltà” (…). L’ideologia fascista della struttura gerarchica dello stato
è prefigurata e realizzata nella struttura gerarchica della famiglia contadina. La famiglia è una nazione in piccolo e
ogni membro di questa famiglia si identifica con questa piccola nazione».
Coerentemente con questa idea, Reich fonda una “analisi sessuo-economica” dell’ideologia totalitaria. Partendo dal
presupposto freudiano che l’energia sessuale sia il fondamento di ogni attività umana, Reich individua nella
repressione della sessualità infantile non solo il momento di inizio delle malattie mentali e psicosomatiche, ma
anche la fase di incubazione della soggezione adulta all’autorità: il blocco delle sane pulsioni sessuali, e l’enorme
spreco di energia psichica necessario alla loro rimozione, svuoterebbero l’individuo della capacità di resistere alla
dominazione. Nella nostra società la ribellione, secondo lo studioso tedesco, muore nell’infanzia, insieme con la
possibilità politica della libertà. È in quella fase, infatti, che si formerebbe e si cristallizzerebbe un carattere privo di
vera indipendenza e si svilupperebbe l’incapacità di amare se stessi, gli altri e la vita in maniera genuina. Le
persone così cresciute al momento opportuno tenderebbero dunque a trasformarsi, secondo Reich, in docili seguaci
di qualsiasi Führer.
Le deviazioni dell’autorità non si limitano però secondo lo psicoanalista tedesco alle spinte alla sottomissione: la
repressione sessuale ed i conseguenti sensi di colpa spiegherebbero infatti, secondo la sua teoria, anche la fedeltà
dei membri della classe media alle idee di onore, dovere, coraggio e autocontrollo, oltre che le loro tendenze al
dominio sui più deboli, al sadismo ed alla suggestionabilità nei confronti del misticismo e dalle formule magiche e
pseudo-religiose del nazismo.
Reich considera dunque il legame che il piccolo borghese instaura nell’età adulta con i leader antidemocratici una
diretta conseguenza delle relazioni sulle quali si è strutturata la sua famiglia nel corso dell’infanzia, tanto che ogni
Führer sembra essere in grado di far riversare su di sé tutti quegli atteggiamenti affettivi a suo tempo rivolti al
padre autoritario.
I limiti dell’approccio di Reich sono moltissimi. Intanto, Reich ha usato un modello psicoanalitico molto arcaico,
perfino per i suoi stessi tempi. In secondo luogo, è davvero arduo testare empiricamente le sue assunzioni in una
ricerca scientifica. Soprattutto, per quel che ci interessa, è un approccio di taglio radicalmente individualista, che
non consente di capire perché persone cresciute nello stesso clima culturale repressivo avranno traiettorie di
sviluppo diverse per quel che concerne il loro rapporto con pregiudizio, fascismo e nazismo.
Ciononostante, l’approccio dello psicoanalista tedesco rimane di grande importanza nella storia dello sviluppo
degli studi sui motivi psicologici del fascismo, se non altro per il suo avere costituito un primo tentativo di
proposizione di una piattaforma teorica a partire dalla quale sviluppare studi empirici.

Fromm
In questa lezione parliamo del secondo tentativo forte di spiegare pregiudizio, discriminazione e adesione al
fascismo.
Ci concentriamo su quello che per molti versi per me rimane il più affascinante e interessante tentativo di
spiegare il pregiudizio e l’antidemocrazia psicologica: il libro di Erich Fromm Fuga dalla libertà. È un libro vecchio,
visto che ormai ha un’ottantina di anni. Ma ve lo presento lo stesso non solo perché questo è un corso di storia
della psicologia sociale. Lo faccio anche perché vibra di emozione, e alcune pagine hanno una forza che poche
altre pagine nella storia della psicologia sociale hanno avuto. Sembrano scritte ieri, o addirittura oggi stesso. Il
che è affascinante e anche molto inquietante.
Fuga dalla libertà è insomma un libro bellissimo, che vi consiglio assolutamente di leggere. Ma, dicevamo, ha 80
anni, e ha molti punti deboli. Finiremo la lezione discutendoli, e discutendo di quello che rimane vivo, di questa
interessantissima opera, per noi uomini e donne del Terzo millennio.
L’opera di Erich Fromm ha un ruolo cruciale nello sviluppo della teorizzazione e della ricerca empirica su
pregiudizio, discriminazione e fascismo. Il suo approccio, come quello di Reich, è puramente teorico, ma è molto
più ricco e moderno di quello del suo predecessore: Fromm, infatti, ha preso spunto dalle teorie post-freudiane,
modificandole, rivedendole ed integrandole in un’ottica sociologica di scuola marxista, nel tentativo di fondare una
nuova scienza umana che fosse in grado di orientare la formazione di personalità equilibrate nel caos culturale,
nella violenza e nella solitudine della società dell’epoca. Il fulcro fondamentale di questa scienza è l’idea che, per
le persone, nel percorso di sviluppo della loro individualità sia cruciale il bisogno di sicurezza.
Il punto di partenza di Fromm è la questione dello sviluppo dell’Io: dal punto di vista psicologico, nel proprio
processo di individuazione il singolo si trova a doversi affrancare dai propri legami primari (che da un lato limitano
la sua libertà, ma dall’altro sono fonte di sicurezza, di senso di appartenenza e di radicamento), per costruire una
sua propria individualità. Secondo lo psicoanalista tedesco, nell’occidente industrializzato la rescissione di tali
legami è un processo doloroso e difficile, ed il processo di individuazione è dialettico e complesso: infatti, se da un
lato esso può portare alla libertà ed allo sviluppo di una forza autonoma, dall’altro può avere come conseguenza
una crescente solitudine che deriva dall’abbandono dei propri legami primari e dall’incapacità di costruirsene di
nuovi.
Nel suo studio, Fromm analizza la storia umana alla luce del rapporto che gli individui hanno avuto con la libertà a
partire dal medioevo: a suo dire è evidente come, in tale periodo di tempo, essa sia andata aumentando, ma a ciò si
sia affiancata una parallela diminuzione della sicurezza psicologica delle persone. L’individuo moderno, protetto dai
pericoli delle forze della natura, troverebbe infatti nuovi nemici interni che bloccano il completo sviluppo delle sue
potenzialità. Questo almeno da quando le dottrine del protestantesimo, in risposta alle mutate condizioni
economiche nel passaggio fra medioevo e rinascimento, lo hanno preparato psicologicamente al suo ruolo in un
sistema industriale governato dall’impersonale legge del mercato, promuovendo un senso di impotenza e di
irrilevanza, ed offrendogli come unica soluzione all’angoscia la completa umiliazione e la totale sottomissione ad
un Dio lontano, incomprensibile e ciecamente punitivo.
In quest’ottica, se ogni passo del processo della separazione e dell’individuazione del singolo potesse essere
accompagnato da un passo analogo nel processo di crescita dell’Io, senza ostacoli di origine sociale ed
individuale, lo sviluppo di tutti sarebbe armonioso e la libertà non rischierebbe di essere vissuta come
insopportabile, né di essere identificata con il dubbio e l’assenza di significato e di orientamento.
Nella società occidentale accade però che numerosi fattori psicologici e sociali intervengano nel deviare la crescita
armoniosa della maggior parte delle persone: in tale prospettiva, Fromm segnala alcuni aspetti della vita del
tempo, a suo dire “Più pericolosi per la nostra democrazia di molti aperti attacchi contro essa”. Fra essi i più
rilevanti sembrano essere il potere crescente del capitale monopolistico, che ha ridotto le possibilità di successo
dell’iniziativa, del coraggio e dell’intelligenza dei singoli; l’atomizzazione della vita professionale dei lavoratori delle
grandi organizzazioni burocratiche; la trasformazione degli individui in consumatori ed il sistematico
bombardamento pubblicitario cui sono sottoposti che, facendo quasi esclusivamente appello all’emozione invece
che alla sfera razionale, tende a soffocare e uccidere le loro capacità critiche, illudendoli in cambio di essere
importanti e di decidere i propri acquisti in base al proprio discernimento; la lontananza dei partiti politici dalle
esigenze dei cittadini e la loro sostanziale impermeabilità alle istanze di chi non si collochi al loro interno; il rischio
continuo della disoccupazione; la paura per il proprio sostentamento nell’età senile; la continua minaccia della
guerra; il condurre la propria esistenza in immense città anonime, fra edifici alti, degradati ed anonimi, sottoposti
ad un costante bombardamento acustico.
“Questi e molti altri dettagli”, continua Fromm, “sono espressioni di una costellazione nella quale l’individuo si trova
di fronte a dimensioni incontrollabili, rispetto alle quali è diventato una piccola particella. Tutto quel che può fare è
mettersi al passo come un soldato in marcia, o come un operaio alla catena di montaggio. Può agire; ma il senso
dell’indipendenza, della propria importanza, se ne è andato”. Sono parole che hanno ottant’anni, ma che sembrano
scritte ieri.
Nella logica di Fromm l’individuo moderno, divenuto adulto, rischia pertanto di trovarsi ad affrontare in una
penosa condizione di isolamento un mondo percepito per molti aspetti come soverchiante, incomprensibile e
pericoloso.
Per difendersene, può imboccare, in funzione del grado di integrazione e di forza della propria personalità e delle
condizioni sociali nelle quali si trova a vivere, una direzione progressiva od una direzione regressiva. La prima
consiste nel rapporto sincero e spontaneo con gli altri e con la natura, in un legame che tuteli la propria
individualità e che si esprima con l’amore, la solidarietà e l’attività produttiva. La seconda porta a rinunciare in
gran parte alla propria individualità ed alla propria libertà, a superare il senso di solitudine e di impotenza
sommergendosi completamente nel mondo esterno. Il crescente senso di isolamento e di impotenza e l’anomia
concorrono, secondo Fromm, ad innescare quelli che egli chiama meccanismi di fuga dalla libertà, i principali dei
quali sono la distruttività, il conformismo e l’autoritarismo.
Attraverso questi meccanismi, ci si allontana dalla propria vera personalità, nel tentativo di fuggire dall’angoscia
insopportabile che origina da una libertà di cui non si sa che cosa fare; tutto questo, però, non fa che rendere
automatica e coatta l’esistenza. Con la distruttività si cerca di sfuggire alla propria impotenza distruggendo il
mondo esterno o, in assenza di un comodo bersaglio sanzionato negativamente dalla società (gli ebrei, nella
Germania nazista), distruggendo se stessi. Il conformismo tende a far diminuire il proprio senso di isolamento e di
solitudine rinunciando completamente alla propria individualità (e generalmente sono proprio le cose migliori, più
profonde e genuine, a venire annullate), per identificarsi completamente con ciò che si immagina la società
pretenda.
Per il nostro corso è però l’autoritarismo a essere il meccanismo di fuga più interessante. Esso consiste nel
rinunciare alla propria individualità per fondersi con un’autorità esterna che si percepisce essere in grado di
fornire la forza che si sente mancare in sé.
Tale tendenza assume le forme della brama di sottomissione e dominio e delle tendenze masochistiche, sempre
affiancate da tendenze sadiche. Si viene così a formare un vero e proprio carattere sadomasochista, nel quale
l’infliggere sofferenze non è il fine, ma il mezzo per legarsi ad un’altra persona, dominandola, e il patire le
sofferenze è il mezzo per potersi sottomettere ad un altro irresistibilmente forte. Secondo Fromm nel
sadomasochismo il dolore e la sofferenza non sono, infatti, la meta né del masochista, né del sadico: sono invece il
prezzo (sempre più alto) pagato dal masochista, tramite l’annullamento di sé ed il tentativo di essere incorporato
da un tutto esterno incredibilmente grande e potente, nel disperato tentativo di ottenere ciò che è per definizione
irraggiungibile, ossia la pace e la tranquillità interiori, la libertà dalla responsabilità della scelta e dal dubbio.
Specularmente, procurare dolore e sofferenza non sono il fine ultimo del sadico: sono piuttosto gli strumenti
attraverso i quali egli mira a sentirsi onnipotente agli occhi dell’altro, tanto che umiliarlo e renderlo schiavo non
sono che mezzi per raggiungere tale scopo.
Per Fromm sadismo e masochismo sono dunque la conseguenza del medesimo bisogno fondamentale, che deriva
dall’incapacità di sopportare l’isolamento e la debolezza del proprio Io. In questa prospettiva risulta quindi evidente
che fra il sadico ed il masochista esiste un rapporto di simbiosi, che fa fondere le loro identità in un rapporto di
reciproco annullamento: nel primo caso allo scopo di ampliare il proprio Io con l’incorporazione dell’altro, nel
secondo allo scopo di farlo dissolvere in un’onnipotente entità esterna, che può essere un’altra persona con la
quale si ha un rapporto diretto, un’istituzione, Dio, la nazione o un leader antidemocratico.
Insomma, i caratteri sadomasochisti, o autoritari, costituiscono secondo Fromm la base umana del fascismo. Sono
caratterizzati dalla brama di potere, dall’ammirazione cieca per ogni tipo di autorità, dalla tendenza alla
sottomissione e dalla contemporanea spinta a sottomettere gli altri a sé: l’essenza del carattere autoritario è
dunque la simultanea presenza di impulsi sadici e masochistici. Nell’ottica dello psicoanalista tedesco per i
caratteri autoritari non esiste l’uguaglianza, esistono solo i deboli ed i forti; il potere suscita in loro ammirazione e
disposizione alla sottomissione (e, in modo ambivalente, anche odio e ribellione, dubbi e disperazione), e le
persone o le istituzioni deboli suscitano automaticamente il disprezzo. I sadomasochisti amano le condizioni che
limitano la libertà umana, desiderano essere sottomessi a forze invincibili, come il destino, il capo, la natura, la
volontà di Dio, il passato e le colpe non espiabili; per loro la vita è dominata da forze estranee all’essere umano, e
l’unica felicità possibile è la sottomissione ad esse.
Secondo Fromm “Nella nostra società, anche l’adulto è indifeso, è in balia di soverchianti forze naturali e sociali; la
sua situazione di impotenza, in molti casi, non è diversa da quella del bambino. Da ciò deriva la tendenza a
venerare personaggi che sono, o che riescono a farsi considerare, salvatori e protettori: una società i cui membri
siano impotenti ha bisogno di idoli», le autorità “vengono sottratte ampiamente alla critica razionale. Si crede nella
loro morale, saggezza, capacità in una misura largamente indipendente dalla loro manifestazione reale. In tal
modo le autorità vengono a loro volta rese nuovamente idonee ad essere continuamente interiorizzate”.
Notate che, paradossalmente, a livello profondo il risultato della sottomissione è una riduzione, e non un aumento,
della sicurezza, dal momento che essa viene ottenuta al prezzo della rinuncia alla forza ed all’integrità del proprio
Io. Ne deriva una sorta di circolo vizioso che ha come conseguenza lo sviluppo di ostilità e ribellione nei confronti
delle autorità cui ci si sottomette; ostilità e ribellione che, giudicate inaccettabili, tendono ad essere trasformate in
una forte aggressività rivolta contro chi è sanzionato negativamente dalla società, a partire dai componenti degli
outgroup. Lo psicoanalista tedesco sostiene dunque che è indispensabile individuare la sofferenza inconscia della
persona automatizzata e massificata, per poter
«Comprendere il pericolo che minaccia la base umana della nostra civiltà: la disposizione ad accettare qualsiasi
ideologia e qualsiasi capo, purché prometta emozioni e offra una struttura politica e dei simboli che
apparentemente diano significato e ordine alla vita dell’individuo. La disperazione dell’automa umano è un
terreno fertile per le mire politiche del fascismo».
In conclusione, è molto interessante, delle teorie di Fromm, l’idea che la dipendenza da figure considerate quasi
onnipotenti possa costituire un meccanismo di difesa dalla paura di una libertà ingestibile che provano le persone
che non sono state in grado di sviluppare una vera e propria autorità interna. In tale ottica, chi non è stato in
grado di costruirsi una guida interiore si troverà infatti in una situazione di profonda insicurezza. L’angoscia e la
disperazione originate dalla sensazione di trovarsi in balia di un mondo incomprensibile e cieco possono dunque
costituire una forte spinta a rifugiarsi in rapporti di dominio/sottomissione che, pur privando l’individuo della
libertà, gli doneranno l’illusione della sicurezza psicologica e della solidità della propria posizione nella gerarchia
sociale.
Come quella di Reich, anche la concezione di Fromm è assai difficile da testare empiricamente. Ma le è superiore in
molti sensi. Essa dà infatti uno spazio indubbiamente maggiore all’articolazione fra la sfera individuale e quella
sociale, non cadendo quasi mai in vuoti determinismi psicologici. Ciò è particolarmente chiaro se si pensa che già
nella premessa alla sua opera, lo psicoanalista tedesco sostiene che «Per comprendere la dinamica del processo
sociale dobbiamo comprendere la dinamica dei processi psicologici operanti nell’individuo, proprio come per
comprendere l’individuo dobbiamo considerarlo nel contesto della cultura che lo plasma». Inoltre, l’ottica
psicoanalitica attraverso quale egli legge le dinamiche psicologiche è distante da quella ortodossa freudiana
utilizzata da Reich: non scendo nel dettaglio visto il taglio introduttivo di questo corso.
Fuga dalla libertà è insomma un genuino sforzo di coniugare meccanismi individuali e meccanismi sociali nella
spiegazione di pregiudizio, discriminazione e fascismo, sforzo che non ha probabilmente avuto eguali nelle opere
successive. Le vibranti e commoventi pagine sull’alienazione, l’anomia e la standardizzazione del mondo della sua
epoca come potenziali cause dell’adesione al fascismo di milioni di persone sembrano tuttora, a distanza di oltre
sessant’anni, di grandissima attualità. Ribadisco: vi consiglio caldamente di leggere questo libro, che è davvero cibo
per la mente.

Adorno
Parliamo ora di un’monumentale quanto a mole e onnicomprensiva quanto ad obiettivi: La personalità
autoritaria. Si tratta di un punto di svolta degli studi sul pregiudizio. Per molti versi criticata e superata, rimane
comunque il principale riferimento storico dell’approccio individualista al tema.
In queste slide vi racconterò i lineamenti fondamentali di quest’opera, scritta da un’équipe di ricercatori
compista da Theodor Adorno, Else Frenkel-Brunswik, Daniel Levinson e Nevitt Sanford. Solo i lineamenti
fondamentali, dato che si tratta di discutere quasi 1400 pagine. E, dopo averveli tratteggiati, discuterò con voi
l’eredità che Adorno e colleghi hanno lasciato agli studi sul pregiudizio.
Nata come studio dei motivi psicologici dell’antisemitismo, finanziato dall’American Jewish Committee, La
personalità autoritaria si è trasformata, nel corso degli anni nei quali la ricerca è stata sviluppata, in un tentativo
di comprendere prima le ragioni del pregiudizio tout court (che gli autori definiscono etnocentrismo), e in seguito
le condizioni psicologiche che promuovono la ricettività alle idee fasciste negli individui che non necessariamente
si dichiarano di estrema destra.
L’ipotesi principale dell’opera è che l’ideologia deriva dalle tendenze profonde della personalità. Il suo principale
riferimento teorico è ancora una volta quello psicoanalitico. Esistono molte diverse psicoanalisi, e quella scelta da
Adorno è quella freudiana classica.
A differenza degli studi di Reich e di Fromm, che avevano un approccio solo teorico, siamo qui di fronte a uno
studio empirico, ed è uno studio empirico davvero monumentale. È infatti basato sulla somministrazione di 4
questionari (rispettivamente volti a rilevare empiricamente l’antisemitismo, l’etnocentrismo, il conservatorismo
politico-economico e il potenziale fascismo) in un campione assai ampio, di più di 2000 persone. Ma anche sulla
conduzione di colloqui clinici in profondità, di test psicologici e di domande proiettive, volte a spingere gli individui a
comunicare i loro stati psicologici più profondi senza che se ne accorgessero e dunque in maniera sincera. Questa
parte di approfondimento è stata svolta in un sotto-campione di 80 individui. Il fulcro iniziale era appunto
l’antisemitismo: non a caso, dato che, come abbiamo detto, la ricerca era stata finanziata dall’American Jewish
Committee.
L’idea fondamentale di Adorno e colleghi è che l’ideologia antisemita deriva da fonti psicologiche profonde
assai simili a quelle del fascismo. L’antisemitismo attinge a un’ostilità profonda relativamente cieca, diretta
contro un’immagine stereotipata alla quale gli ebrei corrispondono solo parzialmente, e a una disposizione
generale ad accettare immagini negative, oltre che ad una tendenza alla stereotipia nelle relazioni
interpersonali.
L’antisemitismo, in sostanza, non sarebbe altro che una componente di una più ampia ideologia etnocentrica, che si
caratterizzerebbe a sua volta per un rifiuto generale degli outgroup, percepiti come minacciosi. La distinzione
rigida fra ingroup ed outgroup costituisce la base del pensiero sociale degli etnocentrici, che tendono a
categorizzare le persone non in quanto individui, ma in base al loro gruppo di appartenenza, a pre-giudicarle a
prescindere da esperienze pratiche concrete ed a valutare ogni relazione umana sulla base del dominio e della
sottomissione. Secondo gli autori è dall’etnocentrismo che si sviluppano il nazionalismo, il cinismo, le convinzioni
sulla intrinseca malvagità delle persone e sulla necessità di sradicarla ad ogni costo e con ogni mezzo.
L’etnocentrismo, oltre a essere tipico delle persone conservatrici, è a sua volta parte della più ampia sindrome
autoritaria. Secondo Adorno e colleghi, la personalità potenzialmente fascista è caratterizzata da un Io fragile, da
cui la necessità di cercare al di fuori di sé un agente coordinatore ed organizzatore: un duce o un Führer.
Le persone potenzialmente fasciste hanno nove caratteristiche fondamentali.
Tendono infatti a non rispondere alla propria coscienza, ma a pressioni esterne (convenzionalismo). Hanno un
notevole bisogno emotivo di sottomissione, derivante da una carenza nello sviluppo della coscienza o
dall’ambivalenza verso l’autorità (sottomissione autoritaria). L’aggressività autoritaria viene spiegata in base alla
costrizione a rinunciare ai propri piaceri fondamentali, che produce in loro la tendenza a cercare oggetti esterni
sui quali “vendicarsi” e la volontà che nessuno rimanga “impunito” per le violazioni dei valori cui essi devono
sottostare, pur non sentendoli completamente propri. Tipicamente, gli ebrei.
L’aggressività autoritaria, inoltre, è un comodo canale attraverso il quale poter scaricare i propri impulsi aggressivi
più profondi ed inaccettabili. L’anti-intraccezione, cioè la spinta a non conoscere onestamente e adeguatamente i
propri stati mentali, deriva direttamente dalla debolezza di un Io che ha paura di poter pensare “in modo sbagliato”
ai fenomeni umani, di non essere in grado di dominare le proprie emozioni, o di potere scoprire parti di sé che
potrebbero spaventarlo. La superstizione e la stereotipia si legano ad una scarsa intelligenza per le questioni
emotive, psicologiche e sociali, all’etnocentrismo e alla debolezza dell’Io. L’eccessiva enfasi sul potere e sulla
durezza coincide con l’eccessiva importanza attribuita alle caratteristiche più convenzionali dell’Io. Essa è segno di
debolezza dell’Io, e correla con l’etnocentrismo e il “complesso del potere”, per cui si attribuisce al potere, proprio
o altrui, troppa importanza. L’origine della distruttività e del cinismo risiede nella frustrazione dei bisogni
fondamentali, che porta all’aggressività, che viene indirizzata sugli outgroup. La proiettività porta ad incolpare
senza motivo altre persone dei propri impulsi repressi. Si definisce proiettività perché gli altri vengono usati come
un vero e proprio schermo cinematografico, sul quale si vedono proiettati, appunto, i propri stati interni considerati
inaccettabili. Sono aggressivo, non posso accettarlo e vedo questa aggressività negli ebrei, ad esempio. La
concezione della sessualità come estranea all’Io, infine, è segno di repressione sessuale e di paura che gli impulsi
istintuali emergano incontrollati. Il sesso viene utilizzato dai potenziali fascisti soprattutto per affermare se stessi
sul piano narcisistico, o per conseguire una posizione sociale più elevata e non per scambiarsi autenticamente
piacere ed emozioni fra adulti consenzienti.
Le personalità autoritarie sarebbero dunque caratterizzate da un’immagine di sé estremamente favorevole,
convenzionale e stereotipata, da scarsa consapevolezza di sé, dalla ricerca del potere più che dell’affetto nelle
relazioni, della dipendenza utilitaristica dagli altri, specie se considerati potenti. Esse tenderebbero a glorificare
esageratamente se stessi ed i loro genitori (dal momento che la loro famiglia è l’ingroup per eccellenza),
mantenendo estraneo all’Io il (giusto) risentimento nei confronti di questi ultimi, e proiettandolo sugli innocenti
bersagli rappresentati dagli outgroup deboli e sanzionati negativamente dalla società: questa l’origine del loro
pensiero etnocentrico. Il loro stile conoscitivo sarebbe infine caratterizzato da rigidità ed intolleranza
dell’ambiguità, probabilmente per la loro incapacità di sopportare l’ambivalenza e l’incertezza.
Secondo Adorno e colleghi, l’origine psicologica del pregiudizio è familiare. Le personalità autoritarie
risulterebbero differire da quelle non autoritarie soprattutto in base alla qualità ed alla quantità di affetto ricevuto
dalla famiglia a partire dalla prima infanzia, ed alla conseguente forza dell’Io sviluppata. I loro genitori sembrano
infatti essere stati sistematicamente punitivi, freddi affettivamente, rigidi, castranti, esageratamente interessati a
uno status spesso sentito vacillare e al potere. Nello specifico, il padre sembra essere stato essenzialmente un
dominatore, e la madre una persona particolarmente restrittiva. L’affetto dato ai loro figli è stato condizionato
all’obbedienza assoluta ed indiscussa, in relazioni (essenzialmente sadomasochiste) di dominio-sottomissione. Una
famiglia con queste caratteristiche tenderebbe a sopprimere
duramente ogni tendenza alla disobbedienza dei figli, e da ciò deriverebbero una identificazione ed una
sottomissione premature e complete a genitori vissuti così potenti. I sentimenti aggressivi nei loro confronti non
potrebbero pertanto essere focalizzati su ciò che li origina, e questo sarebbe alla base della loro proiezione e del
loro spostamento su oggetti più deboli e meno terrorizzanti, interni (origine dell’anti-intraccezione) ed esterni
(origine dell’etnocentrismo).
In presenza di un dominante bisogno di potere, e di una forte punitività esercitata nei confronti di chi è più debole ed
indifeso non c’è dunque spazio per tenerezza, empatia, affetto, gioco e per qualsiasi altro aspetto dell’intimità; uno
sviluppo giocato all’insegna del potere come principio organizzatore sembra infatti inevitabilmente contaminare il
processo creativo, così come la capacità di costruirsi mete vitali e gratificanti.
In definitiva, i fascisti potenziali, secondo gli autori, sono stati allevati da genitori minacciosi, severi ed interessati
allo status; essi avrebbero punito arbitrariamente e duramente ogni impulso anticonformista dei figli. A questi ultimi
non sarebbe restata altra possibilità che reprimere la loro ostilità nei confronti di genitori tanto incapaci di
soddisfare i loro bisogni affettivi, coprendone le tracce con una sottomissione servile ed un’eccessiva glorificazione.
Ma l’aggressività, pur repressa, continua ad esistere, e deve essere spostata e proiettata su vari outgroup; così il
pregiudizio e il potenziale fascismo sarebbero due facce della stessa medaglia, coniata nell’inconscio per evitare
punizioni traumatiche e usata da un lato per placare autorità parentali così forti, e dall’altro per trovare una sicura
valvola di sfogo per una così cospicua quantità di odio.
La personalità autoritaria considera insomma il pregiudizio e la discriminazione di una più ampia sindrome
psicopatologica che porta al fascismo. Il pregiudizio ha ragioni individuali, è un sintomo di una più ampia
psicopatologia, che si manifesta nei più svariati ambiti: per Adorno e colleghi, la loro opera ha dimostrato la
«stretta corrispondenza nel tipo di approccio e di atteggiamento che un soggetto può assumere in una grande
varietà di campi, che vanno dagli aspetti più intimi dell’adattamento familiare e sessuale alle relazioni con gli altri in
generale, alla religione, alla filosofia sociale e politica. Così un rapporto fondamentalmente gerarchico e di
sfruttamento fra genitore e figlio tenderà a tradursi in un atteggiamento orientato verso il potere e di dipendenza in
vista dello sfruttamento, nei confronti del proprio compagno sessuale e del proprio Dio, e può culminare in una
concezione politica e in una prospettiva sociale che permettono soltanto un attaccamento disperato a tutto ciò che
appare forte, e un rifiuto sdegnoso di ciò che è relegato al fondo. La drammatizzazione che ne deriva si estende
anche dalla dicotomia tra genitore e figlio a una concezione dicotomica dei ruoli sessuali e dei valori morali, così
come a una considerazione dicotomica dei rapporti sociali, come risulta specialmente dalla formazione di stereotipi
e di fratture tra gruppo interno e gruppo esterno. Il convenzionalismo, la rigidità, la negazione repressiva e il
successivo affioramento della debolezza, del timore e della dipendenza non sono altro che aspetti diversi dello
stesso modello fondamentale di personalità, e possono essere osservati sia nella vita personale che negli
atteggiamenti verso la religione e le questioni sociali».
Questo sguardo ha affascinato la comunità scientifica, e la personalità autoritaria ha avuto un impatto travolgente
su di lei, come poche altre opere nel corso della storia di tutta la psicologia sociale. Il ricercatore olandese Meloen
ha calcolato che dal 1952 al 1987 siano stati pubblicati più di 1200 studi (obiezioni, spiegazioni, rassegne,
approfondimenti, chiarificazioni, elaborazioni, tentativi di replica e così via) sull’opera di Adorno e colleghi. Pensate
che essa ha addirittura goduto del discutibile privilegio di essere una delle poche ricerche criticate ancor prima di
essere pubblicate, tanto se ne parlava, nella comunità scientifica, anche in corso d’opera!
A distanza di quasi settant’anni dalla sua pubblicazione, sappiamo che i limiti teorici e metodologici de La
personalità autoritaria sono numerosissimi, tanto che dell’opera di Adorno e colleghi ora rimane davvero poco. Non
è questa la sede per trattarli. Ricordo qui semplicemente la difficoltà di mettere empiricamente alla prova le ipotesi
teoriche degli autori, difficoltà che, lo abbiamo visto, accomuna La personalità autoritaria a Psicologia di massa del
fascismo e a Fuga dalla libertà. Vi rimando, se il tema vi interessa, al mio libro Le tendenze antidemocratiche, che
trovate nella biblioteca del Dipartimento di Psicologia.
Nonostante i suoi limiti, La personalità autoritaria ha comunque lasciato alcune importanti eredità alla psicologia
sociale. Fra esse, quella la principale è l’idea che il pregiudizio sia studiabile empiricamente. La psicologia sociale
l’ha fatta propria, anche se, come vedremo, ora lo studia con un’ottica profondamente diversa. È anche importante
notare che, con La personalità autoritaria, la psicologia sociale contribuisce a fondare la psicologia politica,
sdoganando nella comunità scientifica l’idea che le ideologie e le condotte politiche possono essere studiate dal
punto di vista psicologico. E, in definitiva, è facile concordare con Marie Jahoda quando sostiene che «Non c’è nulla
di nuovo nell’argomento studiato ne La personalità autoritaria; l’antisemitismo, la discriminazione sociale e le
ideologie politiche sono state costantemente sperimentate ed analizzate nel corso della civilizzazione del mondo
occidentale. L’importanza di tale opera risiede non nella novità del suo oggetto di studio, ma nella sua
combinazione di contenuto, metodo e teoria che (…) costituiscono un nuovo approccio ad un vecchio argomento».
Sembra poco, ma in realtà non lo è affatto. E tutti gli studiosi moderni di pregiudizio sono in debito, almeno per un
po’, nei confronti di Adorno e dei suoi brillanti colleghi.

Tiriamo le fila
In questa lezione abbiamo visto qual è l’approccio dei primi studi sul pregiudizio e la discriminazione. Abbiamo
imparato che i primi lavori del tema sono stati sviluppati per spiegare non tanto i pregiudizi sottili, striscianti, latenti
che spesso caratterizzano le nostre vite. No. Al contrario, sono nati tentando di spiegare nientemeno che le ragioni
psicologiche del fascismo, del nazismo e della Shoah. E lo hanno fatto tracciando una linea precisa fra le persone
sane, che non hanno pregiudizio nei confronti degli outgroup, non discriminano e non sono a rischio di aderire al
fascismo e al nazismo, e le persone patologiche, che invece il pregiudizio ce l’hanno, sono pronte a discriminare e
desiderano sottomettersi a un leader antidemocratico o addirittura, se le condizioni sociali e politiche lo
consentono, desiderano diventare loro stesse, in prima persona, un leader di quel tipo.
Come reazione alla loro psicopatologia, desiderano insomma andare a Palazzo Venezia nella fosca Roma degli
anni ’30-‘40. Sul balcone ad arringare la folla, se riescono e, se non ce la fanno, sotto il balcone, inneggiando al
leader che la folla la arringa.
Gli studi che abbiamo discusso sono molto psicosociali, per due diverse ragioni. Innanzitutto, perché mostrano
come gli interessi di ricerca della nostra disciplina derivano inevitabilmente da un mix fra l’interesse “puro” dei
ricercatori, la loro esistenza individuale e quel che succede nel mondo.
In secondo luogo, perché teorizzano che gli stati individuali (il pregiudizio e addirittura il potenziale fascismo, in
questo caso) possono avere rilevanti conseguenze non solo per chi li detiene, ma anche per gli altri, che ne
possono essere il bersaglio (nel caso del nazismo, ad esempio, se sono ebrei, testimoni di Geova, omosessuali,
zingari e così via), e anche per l’organizzazione sociale e politica della società complessivamente intesa.
Abbiamo visto che dei tre approcci che abbiamo discusso, due hanno un approccio concentrato principalmente sul
singolo, e l’altro ha un approccio concentrato principalmente sulle variabili sociali e culturali.
Tutti e tre sono però accomunati dall’idea che il pregiudizio abbia delle cause molto precise e delle conseguenze
altrettanto precise. La principale causa è individuata nella psicopatologia individuale, che può certo essere il
riflesso di un’organizzazione psicopatologica su larga scala, della società, e le principali conseguenze sono
individuate nell’ingiustizia, nella discriminazione e addirittura nello sterminio di massa.
Sono approcci molto inquietanti. Come vedremo nelle prossime lezioni, però, sono paradossalmente meno
inquietanti di quelli successivi. Questi, infatti, consentono di distinguere nettamente i malati dai sani. I malati sono
psicopatologici, hanno subito esperienze di vita assai negative e talvolta addirittura estreme, sono cresciuti in
famiglie castranti e radicate in società repressive. Sono insomma molto diversi da noi, le persone sane che, pur con
le nostre difficoltà, non costituiamo certo un pericolo per gli altri e per la società tutta.
Vista la radice storico-esistenziale dei primi studi sul pregiudizio, non stupisce che lo sguardo dei primi studiosi
sul tema, sgomenti e increduli, si sia concentrato su una interpretazione psicopatologica del pregiudizio, del
fascismo e del nazismo.
Come vedremo, gli approcci successivi hanno un taglio molto diverso, e sono ancora meno rassicuranti, perché
mostrano che, quando sono in gioco pregiudizio e discriminazione, non ci sono differenze radicali fra chi il
pregiudizio lo manifesta e chi non lo manifesta; fra chi discrimina e chi non lo fa. Anzi, secondo questi filoni di studi
più recenti, tutti siamo accomunati dagli stessi processi cognitivi e motivazionali, che mettono tutti noi a rischio di
manifestare pregiudizio e di mettere in atto comportamenti discriminatori. E se, come abbiamo detto, il taglio dei
primi lavori non stupiva, vista l’origine socioculturale dei loro autori e l’epoca storica in cui essi lavoravano, non
stupisce nemmeno che, con il fisiologico attenuarsi dello sgomento, dell’incredulità e dell’orrore per il fascismo, il
nazismo e l’Olocausto, gli approcci psicosociali al pregiudizio e alla discriminazione siano cambiati, e anche di
molto. Sono successe principalmente tre cose.
La prima è che, per certi versi, la “carica” di pregiudizio, stereotipi e discriminazione è venuta in qualche modo
normalizzandosi: questi argomenti di ricerca sono diventati argomenti di ricerca come tutti gli altri, perdendo
l’aura di urgenza e di inevitabilità che colorava gli studi che abbiamo appena discusso.
Ne è derivato, ed è la seconda cosa su cui mi voglio focalizzare, che, attenuatisi l’orrore, lo sdegno e l’incredulità di
studiosi e comuni cittadini, l’urgenza di cui abbiamo appena fatto cenno sia stata sostituita da un approccio più
meditato e riflessivo. I primi studi (questi più altri che non abbiamo avuto tempo di discutere nel dettaglio) erano
caratterizzati da una interessantissima effervescenza metodologica. Era così importante capire le ragioni
dell’Olocausto che qualsiasi metodo di ricerca andava bene, anche se, come è stato assai sovente in questi primi
lavori, era abbastanza debole o addirittura proprio inadeguato. Con gli anni, questo non è più andato bene alla
comunità scientifica. La normalizzazione degli argomenti ha portato anche a una attenzione ai metodi
incommensurabilmente superiore, il che è stato ovviamente una buona cosa, non solo per gli studi sul pregiudizio,
ma per tutta la ricerca psicosociale e psicologica in senso lato.
La terza cosa che è successa è che, con gli anni, l’ottica degli studiosi è cambiata, concentrandosi non più tanto
sulle persone patologiche, quanto su tutti noi: quelli che il grande Erich Fromm definiva, con una formula
lapidaria, “i cosiddetti sani”. Lo vedremo a partire dalla prossima lezione.

5.2 categorizzazione e pregiudizio Introduzione


Come vi ho preannunciato, in questo secondo ciclo di lezioni userò gli studi sul pregiudizio come chiave di lettura
per esemplificare che cosa significa leggere i fenomeni psicosociali in funzione dell’ottica (individualista o centrata
sul contesto) in cui ci si riconosce. Lo farò, coerentemente con il titolo di questo corso, in ottica storica, partendo
dai primi lavori sul tema e mostrandovi come, nel corso dell’evoluzione della disciplina, la chiave di lettura dei
lavori è cambiata, passando da uno sguardo rigidamente individualista a uno sguardo più attento all’articolazione
fra le dinamiche individuali e quelle collettive.
Prima di entrare nel vivo, è indispensabile dare una veloce definizione dei costrutti dei quali ci occuperemo in
queste lezioni. Diremo dunque che cosa intendiamo in psicologia sociale con stereotipo, con pregiudizio e con
discriminazione. È importante che impariate bene che cosa si intende in psicologia sociale con queste parole,
perché saranno il nucleo di quello che faremo da qui alla fine del corso.
Cominciamo da stereotipo e pregiudizio. Per definirli, dobbiamo fare un passo indietro, e definire prima che cosa
intendiamo in psicologia sociale con atteggiamento. Per gli psicologi sociali gli atteggiamenti sono delle valutazioni
complessive di oggetti. La parola deriva dal latino aptus, che significa “adatto e pronto all’azione”. Con oggetti noi
intendiamo proprio cose, ma anche persone, gruppi, eventi, posti… Avere un atteggiamento positivo nei confronti,
ad esempio, del gelato significa valutarlo positivamente, averlo negativo significa valutarlo negativamente. Lo
stesso quando valutiamo una persona, una casa, una statua, una partita di tennis, una spiaggia e così via.
Secondo la definizione più accreditata, gli atteggiamenti sono composti da tre diverse dimensioni.
La prima è la dimensione cognitiva: è costituita da quello che noi pensiamo, crediamo, riteniamo, teniamo e così via
dell’oggetto dell’atteggiamento. Sappiamo che il gelato è freddo, è buono, è nutriente, fa ingrassare, eccetera.
La seconda componente è quella affettiva, e fa riferimento ai sentimenti positivi o negativi associati all’oggetto
dell’atteggiamento. Per il gelato possiamo provare emozioni positive, perché è buono e rinfrescante, ma anche
negative, perché fa ingrassare, eleva il colesterolo e così via.
La terza componente è quella conativa o comportamentale, e fa riferimento allo stato di prontezza a
intraprendere un’azione che coinvolge l’oggetto dell’atteggiamento. È quella più vicina all’etimologia di
atteggiamento: ad esempio, possiamo essere pronti ad acquistare un gelato se passiamo davanti a una
gelateria.
L’atteggiamento è una valutazione complessiva di un oggetto, dunque.
Ci sono letteralmente migliaia di studi che hanno messo in relazione l’atteggiamento nei confronti di un oggetto con
i comportamenti che lo riguardano. Sarebbe molto facile immaginare che gli atteggiamenti predicano i
comportamenti. È quello che facevano i primi studiosi sul tema, che hanno operato ai primordi della psicologia
sociale. Ricordate, abbiamo detto che la stessa etimologia del termine atteggiamento fa riferimento alla prontezza a
mettere in atto un’azione.
Se fosse vero che l’atteggiamento spiega inevitabilmente il comportamento, ad esempio, dovrei predire che se ho
un atteggiamento positivo nei confronti del gelato, se passo davanti a un gelataio mi fermerò e mi comprerò un bel
cono.
In realtà le cose non sono così semplici: accade assai spesso che mettiamo in atto quelli che gli psicologi sociali
definiscono comportamenti controattitudinali, ossia contrari all’atteggiamento.
Ho un atteggiamento positivo nei confronti del gelato ma non lo compro per non ingrassare; ho un atteggiamento
positivo verso lo stare in vacanza ma invece che andare in spiaggia sto davanti al computer a guardare questo
video perché penso che faccia bene alla mia formazione; ho un atteggiamento negativo nei confronti di mia cugina,
che non fa altro che lamentarsi, ma le telefono anche se non ne ho voglia perché so che la cosa le può fare
piacere e aiutarla, e così via. Non è questo il luogo per approfondire gli studi sulle relazioni fra atteggiamenti e
comportamenti: ci basti qui sapere che non sempre i due sono nella stretta relazione che si potrebbe
intuitivamente immaginare li colleghi.
Grazie a questa breve introduzione possiamo arrivare a definire gli stereotipi, i pregiudizi e la discriminazione. Il
pregiudizio è un atteggiamento complessivo nei confronti di un oggetto (in psicologia sociale, tipicamente, di una
persona o un gruppo) che prescinde, almeno in parte, da un’esperienza diretta con tale oggetto. Come diceva negli
anni ’50 il grande studioso di pregiudizio Gordon Allport, il pregiudizio è un “giudizio prematuro”. Giudizio
prematuro che, secondo lui, consisteva nel pensare male di qualcuno senza avere sufficienti motivi per farlo.
Il pregiudizio ha due caratteristiche fondamentali.
La prima è che viene attivato automaticamente nei confronti di una persona in funzione della sua appartenenza a
una categoria sociale. Vedremo nelle prossime lezioni che cosa questo significa e che cosa comporta. Notate
però che, contrariamente a quel che sosteneva Allport, i pregiudizi non sono necessariamente negativi, anche se
tipicamente la psicologia si occupa soprattutto di quelli negativi.
La seconda caratteristica distintiva del pregiudizio è che è condiviso a livello sociale: all’interno della stessa
cultura, le persone tendono a concordare sul suo contenuto e sulla sua valenza.
Mi imbatto in un nero e, siccome è nero, attivo una valutazione negativa nei suoi confronti, perché la categoria dei
neri è connotata negativamente a livello sociale. Mi imbatto in un uomo e, siccome è una persona di sesso
maschile, attivo una valutazione positiva nei suoi confronti, perché la società mi ha insegnato che i maschi hanno
una connotazione positiva.
Questo per quel che riguarda il pregiudizio.
Lo stereotipo è una parte del pregiudizio. È una delle sue tre componenti: più precisamente, quella cognitiva.
Senza conoscerlo, visto che è nero decido che ha il senso del ritmo, visto che è genovese decido che è avaro,
visto che è donna decido che è irrazionale.
E infine, la discriminazione. La discriminazione non è un atteggiamento, ma un comportamento, e più precisamente
un comportamento che consiste nel trattare ingiustamente i componenti di specifici gruppi di persone, tipicamente
caricati da stereotipi e pregiudizi negativi a livello sociale. La discriminazione, essendo un comportamento, è
evidentemente più grave del pregiudizio, in quanto è solitamente lesiva, offensiva e talvolta dannosa anche
drammaticamente per i gruppi di minoranza e i loro componenti. Sono sessista e in un colloquio di lavoro, a parità
di ogni altra condizione, privilegio un uomo a discapito di una donna per la loro appartenenza di genere. Sono un
allenatore razzista e, a parità di rendimento e di serietà negli allenamenti, faccio giocare il bianco e non il nero per
la loro appartenenza etnica. Sono un docente razzista e, a parità di prestazione, do un voto più alto allo studente
settentrionale che a quello meridionale per la loro origine sociale.
Coerentemente con gli studi sulle relazioni fra atteggiamenti e comportamenti, che hanno mostrato che tali
relazioni sono sovente deboli, per fortuna non sempre elevati livelli di pregiudizio si accompagnano a elevati livelli
di discriminazione: perché, per fortuna, vivere in società ci impone specifici obblighi, e non siamo liberi di mettere in
atto tutti i comportamenti che desidereremmo mettere in atto. Ciononostante, oltre alla discriminazione, è assai
importante studiare anche il pregiudizio, perché esso può essere considerato uno stato che facilita la messa in atto
di comportamenti apertamente discriminatori.
Torniamo a noi. Gli studi psicosociali sul pregiudizio affondano le loro radici negli anni ’30 del XX secolo. Il primo
lavoro importante cui è bene che faccia un cenno è stato condotto da Katz e Braly nel 1933. I due studiosi si
concentrarono sugli stereotipi che alcuni studenti di college statunitensi avevano nei confronti di un insieme di
gruppi nazionali cui non appartenevano.
Diedero ai loro partecipanti un elenco di caratteristiche, chiedendo loro di indicare quali erano tipiche dei diversi
gruppi nazionali. Con inquietante regolarità, emerse che, nell’immaginario di queste persone, noi italiani eravamo
artistici, passionali, impulsivi, focosi… I turchi avevano un’immagine molto negativa, ma quasi nessuno degli
intervistati ne conosceva. Katz e Braly conclusero che gli stereotipi e i pregiudizi hanno origine sociale, e che sono la
manifestazione di una patologia del pensiero: se il nostro pensiero funzionasse bene, non ci sarebbe bisogno di pre-
giudicare persone sconosciute solo perché appartengono a gruppi nazionali sovente altrettanto sconosciuti.
Ma lo studio di Katz e Braly non tenta un’interpretazione delle ragioni di questa supposta patologia del pensiero: si
limita infatti a registrarla, senza cercare di spiegare in che cosa consiste e perché si manifesta. Per arrivare a una
spiegazione di questi fenomeni, occorre che l’Europa e il mondo siano squassati da una delle peggiori tragedie
della storia dell’umanità, il fascismo e il nazismo. Come era possibile che in un mondo civilizzato, ordinato, saldo
giuridicamente, industrializzato, milioni di persone apparentemente normali avessero tollerato o addirittura
promosso lo sterminio in massa di milioni di persone solo perché avevano l’origine sbagliata dal punto di vista
religioso?
A partire dagli anni ’30 del XX secolo, una serie di studiosi si mette a lavorare per rispondere a questa impegnativa
domanda. Come è sovente accaduto nella storia della psicologia sociale, non erano mossi esclusivamente da un
“freddo” interesse scientifico: erano le loro stesse vite a rendere urgente e imprescindibile la conduzione di questi
studi. Erano infatti, in buona parte, studiosi tedeschi, ebrei e socialisti, che riuscirono a salvarsi la vita scappando
da un’Europa che pareva impazzita, trovando rifugio negli Stati Uniti, che diedero loro cattedre universitarie e un
contesto in cui poter lavorare e soprattutto vivere al sicuro.
Sentite quanto siamo lontani dalla fredda e distaccata oggettività scientifica standard: ecco che cosa scrive Carl
Binger nella sua introduzione al volume “Antisemitismo e disturbi emotivi”, scritto dai due studiosi tedeschi
Ackermann e Jahoda. Non vi presenterò il volume in queste lezioni per ragioni di tempo e di spazio, ma vi invito
naturalmente a leggerlo se l’argomento vi pare interessante. Sentite le parole di Binger, che colpiscono ancora
adesso, a distanza di più di 60 anni.
«Si potrebbe sostenere che il dottor Ackerman e la dottoressa Jahoda hanno dei pregiudizi nei confronti
dell’antisemitismo. Li hanno, nella stessa misura in cui Pasteur li aveva nei confronti della rabbia, Koch nei
confronti della tubercolosi, Walter Reed nei confronti della febbre gialla, o Harvey Cushing nei confronti dei tumori
cerebrali. Ognuno di questi scienziati ha usato il suo genio, o il suo coraggio, o entrambi, per attaccare il male. Il
male erano quelle affezioni. Il metodo dell’attacco era il freddo ed accurato metodo scientifico. Ma tutti loro
avevano un pregiudizio che potrebbe essere espresso così: “È meglio che la terra venga ereditata dall’umanità
piuttosto che dai cani rabbiosi o dai bacilli della tubercolosi, o dalle zanzare”. Allo stesso modo, i dottori Ackerman
e Jahoda si sono formati un pregiudizio. Essi considerano l’antisemitismo un male; un sintomo di malattia sociale.
Sono abbastanza coraggiosi da combattere con questo male, usando in combinazione le armi delle loro discipline
(…). Sono passati i tempi nei quali i veri scienziati potevano essere indifferenti ai valori etici ed ai giudizi morali».
Vediamo ora che cosa hanno teorizzato e scoperto questi veri scienziati

La categorizzazione
Come sempre, cominciamo con l’indice di quello che faremo in questa lezione.
Nella precedente lezione abbiamo visto che i primi studi psicosociali sul tema sostenevano che il pregiudizio è
l’esito di una patologia, del carattere o della personalità. Nel corso degli anni, questa idea è andata modificandosi,
o meglio è stata integrata da un altro punto di vista, che sostiene che il pregiudizio è, o può essere, l’esito di
normali processi di pensiero, comuni a tutti noi. Il primo approccio era sostanzialmente e forse paradossalmente
rassicurante: ci siamo noi, che siamo sani, aperti, democratici e tolleranti, e ci sono loro, che hanno effettivamente
alti livelli di pregiudizio o, in specifiche condizioni sociali, li possono sviluppare. Il secondo approccio sostiene che
nessuno è al sicuro dal rischio di sviluppare ed esprimere pregiudizio.
Il punto di partenza di questo secondo approccio si basa sui principi del cognitivismo, ossia del filone di
teorizzazione e di ricerca che si occupa di scoprire quali sono i processi mentali con cui noi conosciamo noi stessi
e il nostro mondo. Già dagli anni ’50 gli studiosi cognitivisti hanno mostrato che il nostro sistema di elaborazione
dell’informazione è potente e versatile, ma ha indubbiamente grandi limiti, perché deve fronteggiare una quantità e
una complessità di stimoli che è inimmaginabile: si calcola che ogni secondo al nostro sistema di elaborazione
dell’informazione arrivino, dal mondo esterno, dal nostro corpo e dalla nostra mente, più di
10.000 stimoli. Non è pensabile riuscire a elaborarli tutti. Di conseguenza, siamo sistematicamente impegnati a
semplificare la nostra conoscenza della realtà, operando attivamente sulle informazioni con cui entriamo in contatto,
selezionandole e interpretandole.
Uno dei processi più efficaci per farlo è la categorizzazione, che, come vedremo, consiste nell’inserire in
specifiche categorie gli oggetti del mondo con cui entriamo in contatto. Una volta che gli oggetti sono stati
categorizzati, essi tendono a essere considerati sostanzialmente intercambiabili con tutti quelli che appartengono
alla stessa categoria. Come vedremo, questo ha delle conseguenze sia desiderabili che rischiose.
Quel che più conta, è che la categorizzazione avviene in modo automatico, al di fuori della nostra
consapevolezza. E quando avviene, e gli oggetti sono sociali, c’è il rischio di attivare stereotipi e pregiudizi.
Inseriamo sistematicamente oggetti in categorie, in base a qualche relazione, principalmente di somiglianza.
Questo ci consente di interagire con il nostro complesso ambiente senza esserne sopraffatti. Questo avviene in
modo automatico, dicevamo. Ossia avviene in pochi millesimi di secondo, senza che ce ne accorgiamo, senza che lo
desideriamo esplicitamente, e anche senza dover utilizzare risorse cognitive per farlo. La categorizzazione è
dunque un meccanismo potentissimo ed efficace.
Ad esempio, siamo automaticamente in grado di renderci conto, in pochi millisecondi, che, pur con le loro enormi
differenze, l’alano, il chihuahua, il barboncino e il pittbull sono tutti cani, e che la iena e il coyote non lo sono. Se ci
imbattiamo in un alano, lo inseriamo automaticamente nella categoria dei cani, mentre se incontriamo una iena no.
Facciamo questa operazione per alcune ragioni. Innanzitutto, per semplificare la realtà e ordinarla. Semplificarla
perché se incontriamo un alano non dobbiamo impegnarci per capire quali siano le sue caratteristiche e che cosa
dobbiamo aspettarci da lui. In pochi millisecondi lo mettiamo nella categoria dei cani, e così facendo, in automatico,
ci possiamo disinteressare del singolo cane che abbiamo di fronte: possiamo anzi inferire che abbaia, gioca,
morde, fa la guardia, è fedele, è protettivo con i bambini… Questo ci serve per decidere come comportarci con lui.
Ad esempio, per decidere che se lui è dietro un cancello è meglio che non lo scavalchiamo per recuperare un
pallone, che se sta mangiando è meglio che non lo disturbiamo, che se gli tiriamo una pallina probabilmente lui la
inseguirà divertendosi molto… Sapendo quali sono le sue caratteristiche, che gli attribuiamo senza conoscerlo, in
quanto membro della categoria dei cani, avremo insomma a che fare con un animale prevedibile, e sapremo come
comportarci con lui senza doverlo lungamente e faticosamente studiare.
Potremo quindi usare le nostre limitate risorse cognitive per altri compiti.
Ordinarla perché mettiamo in atto un meccanismo che si chiama assimilazione intracategoriale e differenziazione
intercategoriale, che ci porta a vedere i componenti della stessa categoria come molto più simili fra loro di quanto
in realtà non siano, e a vedere come molto più diversi fra di loro i componenti di categorie distinte. A occhio, l’alano
e il chihuahua hanno molte meno cose in comune di quelle che hanno il pitbull e la iena, ma noi vediamo i primi
come molto più simili dei secondi.
Lo facciamo anche per completare l’informazione mancante. Non sta abbaiando, ma sappiamo che lo potrebbe fare
e, anzi, che probabilmente lo farà. Non sta inseguendo una pallina, ma sappiamo che non aspetta altro che gliela
tiriamo per inseguirla e riportarcela. Non è attaccato a un guinzaglio ma sappiamo che lo potrebbe essere.
È quello che, in forma artistica, ha rappresentato Magritte nel quadro The eternally obvious, che potete vedere al
Met di New York. Tutti noi, per esperienza diretta perché lo siamo, o indiretta perché ci abbiamo a che fare,
sappiamo come è fatta una donna. Sappiamo che fra la testa e il seno ha un collo, che fra il seno e i genitali ha una
pancia, che fra le ginocchia e le caviglie ha gli stinchi. Non c’è bisogno che ve lo dica, ci sta comunicando Magritte:
voi lo sapete, come lo so io. Siete perfettamente in grado di completare l’informazione mancante, perché avete
imparato che cos’è che manca.
In conclusione: grazie alla categorizzazione diamo per conosciuta quella parte di mondo, e non ci dobbiamo
impegnare per conoscerla, dedicando le nostre limitate risorse cognitive ad altri compiti.
Tuttavia, non è detto che tutti i membri della stessa categoria abbiano le medesime caratteristiche. I cani abbaiano,
ma si sa che non tutti lo fanno, al punto che c’è addirittura un proverbio che ci mette in guardia dai cani silenziosi.
Sappiamo bene che non tutti i cani abbaiano. Ma tendenzialmente se vediamo un cane, lo categorizzeremo nella
categoria dei cani e, in pochi millisecondi, decideremo che abbaia, perché gli attribuiamo le caratteristiche della sua
categoria, indipendente da chi è il cane che abbiamo davanti.
Lo stesso con gli uccelli: gli uccelli fanno il nido, fanno le uova, le covano e volano. Ma il pinguino non vola, nuota.
E nemmeno lo struzzo, che invece corre. Quindi: se, a seguito della categorizzazione, attribuiamo
automaticamente le caratteristiche tipiche della categoria al singolo esemplare, rischiamo di commettere degli
errori.
Gli errori che facciamo decidendo che il pinguino, in quanto uccello, vola, sono spesso poco rilevanti. Ma che cosa
succede quando categorizziamo oggetti sociali, tipicamente persone? il rischio è quello di conoscere la realtà in
maniera pregiudiziale. Vediamo perché.
Per quanto diverse siano fra loro queste persone, in pochi millisecondi siamo in grado di categorizzarle, in
base al loro sesso.
Lo stesso queste, in base al colore della loro pelle. Categorizziamo in sostanza in base ad attributi che la società
ci dice essere rilevanti: il sesso e il colore della pelle, come abbiamo detto, ma anche l’età. Altre possibili fonti di
categorizzazione sono invece assai meno usate: il colore dei vestiti ad esempio non viene usato di solito. Ma
provate ad andare in una curva calcistica vestiti con i colori sbagliati e vedremo se riuscirete a raccontare come
vi è andata l’esperienza. Sono, insomma, la cultura e la situazione a dire se ha senso categorizzare e usando
quali informazioni per farlo.
Il problema può nascere quando attribuiamo in automatico a una persona delle caratteristiche solo perché sono
quelle che la società ci ha insegnato che sono tipiche della sua categoria.
Anche chi di noi non ha mai conosciuto uno scozzese si aspetta che Roger, essendo di Edimburgo, sia avara;
anche chi di noi non ha mai conosciuto un nero si aspetta che John, essendo nato a Harlem, sia atletico. Anche
chi di noi non conosce Marta si aspetta che, essendo donna, sia intuitiva; anche chi non conosce Marco sa che,
essendo uomo, sia razionale. Possiamo anche non essere d’accordo con questi stereotipi, ma li conosciamo, e
tendiamo ad attivarli in pochi millisecondi.
Questo è esattamente il nucleo del pregiudizio secondo chi si riconosce in questo approccio. Per semplificare la
realtà, cosa che siamo obbligati a fare per non esserne soverchiati, tendiamo a trattare le persone non come singoli
individui, ma come membri di categorie, socialmente definite, attribuendo loro le caratteristiche che, a ragione o a
torto, la società ci insegna che le contraddistingua. Ci sono centinaia di esperimenti che mostrano che le cose
vanno così. Qui ve ne presento uno, che ha il duplice vantaggio di essere ormai un classico della psicologia sociale
e di essere molto chiaro nei suoi risultati.
Lo studio è stato condotto da Patricia Devine alla fine degli anni ’80, e aveva come oggetto il pregiudizio nei
confronti delle persone di colore. Ai partecipanti viene detto che prenderanno parte a due diversi studi, non
collegati fra di loro. Questo per non fare loro capire gli scopi della ricercatrice e di conseguenza per minimizzare
il rischio di ottenere risposte distorte da persone particolarmente interessate a mostrare di non avere pregiudizio.
La prima scelta rilevante di Devine è quella di usare come partecipanti solo persone con livelli molto alti o molto
bassi di pregiudizio nei confronti delle persone di colore, così come emersi da un questionario usato come
strumento di screening. In questo modo, la ricercatrice seleziona 78 persone, metà con livelli molto alti, e l’altra
metà con livelli molto bassi di pregiudizio.
A queste persone fa fare un primo compito che viene presentato come compito di vigilanza al computer. Sullo
schermo davanti al quale sono seduti i partecipanti compaiono per pochi millisecondi delle parole, abbastanza a
lungo da poter essere comprese ma non abbastanza a lungo da rendersi conto di averle comprese. Si tratta
insomma di una percezione subliminale, di cui i partecipanti non hanno consapevolezza. Ai partecipanti viene detto
che il loro compito è indicare, nella maniera più veloce e accurata possibile, se le parole compaiono nella metà di
destra o di sinistra dello schermo. Al ricercatore non interessano né l’accuratezza né la velocità di queste risposte:
il suo obiettivo è che i partecipanti le percepiscano, senza rendersene conto.
Le parole usate sono 100 e fanno riferimento a due diverse categorie: parole relative allo stereotipo dei neri e
parole neutre. I soggetti sono inseriti a caso in uno di due gruppi. Nel gruppo sperimentale, 80 parole su 100 fanno
riferimento allo stereotipo dei neri; nel gruppo di controllo solo 20. Lo scopo di questa manipolazione è di attivare
in maniera differenziale, fra i due gruppi, lo stereotipo dei neri. I partecipanti che avranno visto, in maniera
subliminale, l’80% di parole relative ai neri lo avranno realisticamente attivato con più intensità di quelli che
avranno visto, in maniera subliminale, il 20% di parole relative allo stereotipo dei neri.
A quel punto i partecipanti vengono ringraziati e si chiede loro di fare un altro esercizio, slegato dal precedente,
volto a studiare come le persone sviluppano le percezioni delle persone. Viene fatto loro leggere un brano che
racconta alcune azioni di un certo Donald, del quale non viene specificato altro. Queste azioni sono ambigue, e
possono essere interpretate come le azioni ostili di una persona aggressiva o come le azioni legittime di una
persona che vuole che i suoi diritti vengano rispettati. Il punto fondamentale è che, negli Stati Uniti, i neri sono
stereotipicamente considerati persone con alti livelli di ostilità. Come gli uccelli sono stereotipicamente
considerati animali che volano.
I partecipanti hanno il compito di valutare Donald rispondendo a 12 domande, sei delle quali fanno riferimento
all’ostilità. Ebbene, le persone sottoposte all’80% di parole stereotipiche, ossia quelle istruite, al di fuori della loro
consapevolezza, a vedere un nero, attribuiscono a Donald le caratteristiche stereotipiche dei neri più di quelle
sottoposte al 20% di parole stereotipiche. La cosa interessante è che non emergono differenze rispetto alle altre
dimensioni della valutazione. Non è un peggioramento indifferenziato. È che, a causa della categoria in cui lo
inseriscono, le persone si aspettano di vedere una persona ostile, e vedono una persona ostile. Metaforicamente, si
aspettano di vedere un animale che vola, e decidono che lo struzzo vola.
In conclusione, questo studio e gli altri analoghi mostrano che non serve essere patologici per manifestare
pregiudizio. È sufficiente essere vivi, potremmo dire. O meglio, è sufficiente essere in un mondo troppo complicato
per poterlo conoscere usando esclusivamente i dati che la realtà ci fornisce. La nostra conoscenza della realtà è
sempre l’esito di una negoziazione fra quello che percepiamo e quello che ci aspettiamo di vedere. È insomma
sempre una costruzione, e mai una fredda, oggettiva rilevazione
Lo facciamo per non essere soverchiati dall’infinito scorrere privo di senso della realtà, come lo definiva Max
Weber. Ma, siccome la costruzione che facciamo del reale tende a essere coerente con gli stereotipi che la società
ci insegna nel corso del processo di socializzazione, questi processi hanno anche una rilevante funzione sociale:
legittimare e lasciare immutato lo status quo. Se i neri sono inevitabilmente ostili, se le donne inevitabilmente non
sono razionali, se gli immigrati sono inevitabilmente pericolosi, se gli omosessuali sono inevitabilmente immorali,
è giusto che stiano al loro posto, in posizione subordinata, senza pretendere di usurpare lo status di chi se lo
merita davvero.
E quindi il fatto che nessuno di noi sia immune da questi processi cognitivi tendenziosi, che si innescano
automaticamente in pochi millisecondi, porta la psicologia sociale contemporanea a conclusioni molto meno
rassicuranti di quelle cui portavano i primi studiosi di questi temi: siccome siamo tutti accomunati dall’avere
rilevanti limiti nelle nostre capacità di elaborazione dell’informazione; siccome siamo tutti impegnati a conoscere
un mondo assai complesso; siccome siamo stati tutti socializzati a interiorizzare i valori dominanti della società in
cui siamo cresciuti, è quasi inevitabile che processi cognitivi neutri, innocenti e anche salvifici si carichino di
rilevanti conseguenze, costituendo una delle basi del pregiudizio nei confronti dei membri degli outgroup, ossia
dei gruppi a cui non apparteniamo. Vedremo nelle prossime lezioni come spesso questi processi non si limitino a
fermarsi al livello degli atteggiamenti, ma possano sfociare addirittura nella messa in atto di veri e propri
comportamenti discriminatori.
Abbiamo ora le basi per fare un passo in avanti, e andare a occuparci dei processi e dei costrutti automatici, della
loro rilevanza e della loro influenza sui nostri comportamenti. Si tratta, come abbiamo detto all’inizio di questa
parte del corso, di una delle nuove frontiere della psicologia sociale. Faremo il punto su quello che si è scoperto
nelle prossime slide.

Gli atteggiamenti impliciti


Parlando di categorizzazione e di categorizzazione sociale, abbiamo accennato a che cosa sono i processi
cognitivi automatici. In queste slide vedremo più nel dettaglio quali sono le loro caratteristiche. Vedremo poi che
cosa sono gli atteggiamenti impliciti, che ne costituiscono una rilevante sezione, e a che cosa serve studiarli.
Avrete poi la possibilità di fare in prima persona un test per studiare vostri atteggiamenti impliciti, l‘Implicit
Association Test, che è uno di quelli più usati in psicologia sociale. Alla fine del test vi verrà comunicato il risultato
del test. Finiremo discutendo la logica e i principi dell’Implicit Association Test.
Facciamo ora una veloce introduzione ai processi automatici di elaborazione dell’informazione. Vi invito a seguirla
avendo in mente le cose che ci siamo detti parlando della categorizzazione e della categorizzazione sociale, in
modo da contestualizzare adeguatamente quello che vi racconterò.
I processi automatici di elaborazione dell’informazione hanno alcune caratteristiche fondamentali. Primo, non sono
intenzionali. Si attivano senza che noi necessariamente lo desideriamo. Vediamo un fenicottero e, senza desiderare
farlo, lo consideriamo un uccello. Vediamo una persona di sesso maschile e, senza desiderare farlo, la
consideriamo un uomo. La prova che lo facciamo senza desiderare farlo è che noi categorizziamo in questo modo
anche quando non ci conviene farlo, perché sappiamo che saremo premiati se, in un compito di rievocazione
successivo alla presentazione degli stimoli, saremo in grado di distinguere fra di loro i componenti della stessa
categoria. Lo hanno mostrato Taylor e colleghe in un esperimento del 1978. Ai partecipanti venivano presentate le
foto di tre uomini e tre donne, corredate dalle frasi che ognuna di loro aveva detto, e veniva dato loro il compito di
rievocare chi aveva detto che cosa. Ebbene, i partecipanti tendevano a confondere fra loro le frasi dette dai diversi
uomini e le frasi dette dalle diverse donne, proprio perché, avendole categorizzate, consideravano le persone che
appartenevano alla stessa categoria sostanzialmente come intercambiabili fra di loro.
La seconda caratteristica dei processi automatici è che sono inconsapevoli. Come ci siamo detti, la
categorizzazione, come del resto tutti i processi automatici, avviene in pochi millisecondi, senza che nemmeno
ce ne accorgiamo. La conseguenza è che è davvero molto difficile evitare di metterla in atto.
La terza caratteristica dei processi automatici è che non sono controllabili: una volta che si innescano (come
ci siamo detti, al di fuori della nostra volontà e consapevolezza) è molto difficile interromperli: anche perché,
giustappunto, non ci rendiamo di starli utilizzando.
La loro ultima caratteristica è che sono efficienti. Questo significa che richiedono il ricorso a poche risorse
cognitive, o addirittura a nessuna risorsa cognitiva. I processi controllati, deliberati, volontari, possono essere
usati solo in serie. Si ricorre a uno, lo si porta a compimento, e poi si passa a quello dopo. I processi
automatici possono essere usati in parallelo: categorizziamo e intanto, contestualmente, possiamo elaborare
altri stimoli.
I processi automatici sono salvifici, dicevamo, perché ci permettono di non soccombere all’eccesso di stimolazione
che sistematicamente riceviamo. Il ricercatore americano Bargh ha addirittura calcolato che più del 99% dei
processi cognitivi cui ricorriamo siano automatici. Si potrebbe discutere su questa quantificazione (individuarli è
infatti un compito metodologicamente davvero complesso); ma è evidente che sono la stragrandissima
maggioranza dei processi cognitivi che usiamo. Per inciso, potremmo ragionare sul fatto che questi dati di ricerca
mettono radicalmente le nostre idee sul libero arbitrio e la nostra idea di essere effettivamente padroni delle
nostre azioni. Ma non è questo l’oggetto della nostra lezione di oggi.
Torniamo dunque ai processi automatici. Molte ricerche mostrano che essi influenzano anche radicalmente le
nostre condotte esplicite. Ad esempio, per quanto possa sembrare incredibile, rendere saliente, con stimolazioni
subliminali simili a quelle usate da Devine nell’esperimento che abbiamo appena incontrato, il concetto di
“anziano” spinge i soggetti sperimentali a muoversi più lentamente dal posto A al posto B del campus in cui è
stato condotto lo studio; rendere saliente il concetto di “giovane” spinge a fare più rapidamente tale percorso.
Analogamente, rendere subliminalmente saliente il concetto di “successo” spinge a impegnarsi di più in un gioco
tipo Scarabeo; rendere subliminalmente saliente il concetto di “insuccesso” spinge a impegnarsi di meno, Tutto
questo, ribadisco, al di fuori della consapevolezza della persona.
Dopo quella con cui lo concepiscono gli psicologi clinici, ci imbattiamo qui in un’altra accezione di inconscio, che lo
concepisce come inconscio cognitivo. Secondo Freud, l’Io non sarebbe davvero padrone in casa propria, sia perché
il suo potere è minimo rispetto a quello delle altre istanze della mente, sia perché il suo ruolo è quello di tentare
sistematicamente una impossibile mediazione fra le istanze dell’Es (che mirano all’immediato soddisfacimento di
ogni desiderio pulsionale), quelle del Super-Io (che mirano alla rigida adesione ai dettami sociali) e le richieste
della realtà esterna. Come per Freud, in sostanza, anche per i cognitivisti prestati alla psicologia sociale l’Io non è
padrone in casa propria, ma per ragioni diverse: principalmente per quei limiti di elaborazione del nostro sistema di
elaborazione dell’informazione che abbiamo ripetutamente richiamato.
Ma veniamo al fulcro di quanto vi voglio raccontare, ossia gli atteggiamenti impliciti. Intanto una prima
precisazione terminologica: In psicologia sociale attualmente con atteggiamento si intende la valutazione
complessiva di un oggetto. Quando pensate a un atteggiamento pensate dunque a una valutazione. Ebbene, come
abbiamo visto parlando dell’esperimento di Devine, nei confronti di un oggetto (nel caso di Devine, di una persona
di colore) possiamo avere una valutazione esplicita, consapevole, e una implicita, inconsapevole. A differenza di
quelle esplicite, che derivano dal ragionamento, le valutazioni implicite derivano dall’attivazione automatica di una
valutazione a seguito all’esposizione a un oggetto. Vedo un nero e, automaticamente, attivo la componente di
valutazione relativa all’ostilità. Vedo una donna e, automaticamente, attivo la componente di valutazione relativa
alla sensibilità. Vedo uno scozzese e attivo, automaticamente, la componente di valutazione relativa all’avarizia, e
così via.
Perché ha senso studiare gli atteggiamenti impliciti? Per due ordini di ragioni. Innanzitutto, per superare i problemi
che, negli studi psicosociali, derivano dalla desiderabilità sociale, ossia dalla tendenza delle persone a non dire la
verità quando vengono interrogate su questioni delicate o imbarazzanti, nascondendo le loro “vere” risposte dietro
una conformistica patina di accettabilità sociale. Nei questionari, quasi nessuno ammette di avere atteggiamenti
indesiderabili, o di mettere in atto comportamenti indesiderabili. La desiderabilità sociale ha due facce. La prima è
la gestione strategica dell’impressione. Interrogati, ad esempio, sul nostro pregiudizio, possiamo scegliere di non
dire quanto alto è il nostro livello di pregiudizio per apparire più adattati ai valori democratici che governano la
nostra società. Ma possiamo anche raccontare una bugia in perfetta buona fede, perché stiamo mentendo a noi
stessi, nel caso in cui abbiamo alti livelli di pregiudizio ma non lo vogliamo ammettere a noi stessi, per non minare
l’immagine che abbiamo di noi stessi. Ebbene, misurare atteggiamenti impliciti aiuta a superare entrambe queste
distorsioni, perché, come vedremo, mentire nella loro compilazione è davvero difficile.
Ma studiare atteggiamenti impliciti è utile anche perché ci permette di aumentare la nostra capacità di prevedere
comportamenti specifici difficilmente prevedibili usando solo variabili riferite alla sfera esplicita. Ad esempio, studi
condotti in ambito sanitario hanno mostrato che i medici con alto pregiudizio esplicito nei confronti delle persone
di colore trattano allo stesso modo i bianchi e i neri. Ma le cose cambiano quando si tiene conto del loro
pregiudizio implicito nei confronti dei neri. Qua emergono infatti rilevanti differenze: avere atteggiamenti impliciti
negativi nei confronti dei neri li porta a trattarli peggio dei bianchi, in termini di diagnosi (che nei confronti dei neri
è più severa che nei confronti dei bianchi) e di prognosi (che nei confronti dei neri è più pessimistica che nei
confronti dei i bianchi). L’effetto si verifica a livello implicito e non a livello esplicito perché, giustappunto, gli
atteggiamenti impliciti sono tendenzialmente sconosciuti e incontrollabili, per cui in questo campo spingono alla
tendenziosità più di quelli espliciti, la cui attivazione può essere combattuta per adempiere ai propri doveri
deontologici.
Una nostra ricerca permette di approfondire la questione. Condotto sugli operatori che lavorano coi
tossicodipendenti, ha mostrato che l’incoerenza fra atteggiamenti impliciti ed espliciti spinge all’assenteismo e
allontana dalla propensione a fare straordinari. In maniera interessante, è l’incoerenza a ostacolare la messa in
atto di comportamenti utili agli utenti e all’istituzione, non la convergenza fra due atteggiamenti negativi, proprio
perché, come nel caso dei medici, è difficile combatterne attivamente e volontariamente le conseguenze negative,
dato che essa è, in parte, sconosciuta agli stessi operatori.
Questi sono solo due esempi dei numerosissimi che si potrebbero fare per mostrare empiricamente che studiare
gli atteggiamenti impliciti è utile e interessante. È quindi giunto il momento per voi di cimentarvi in prima persona
in un test implicito. Per farlo, dovrete seguire il link che vedete riportato nella parte di sito dedicata a questa parte
di corso.

5.3 categorizzazione e discriminazione Introduzione


Abbiamo visto nella lezione precedente che la categorizzazione sociale, che è un processo in larga parte
automatico, è una delle basi cognitive del pregiudizio. Categorizzare automaticamente un individuo ci porta infatti
ad attivare automaticamente l’insieme degli stereotipi che la società ci insegna che caratterizzano la categoria
sociale a cui lui o lei appartiene.
Però la categorizzazione sociale è solo una delle due variabili fondamentali in gioco. L’altra è il nostro sano, giusto
e legittimo desiderio di promuovere e mantenere la nostra autostima. Come vedremo, Henri Tajfel, una delle figure
più importanti di tutta la storia della psicologia sociale, ormai una cinquantina di anni fa ci ha mostrato con
chiarezza esemplare che il pregiudizio negativo nei confronti degli outgroup (ricorderete, gli outgroup sono i gruppi
esterni, ossia i gruppi ai quali non apparteniamo) e addirittura la loro discriminazione possono essere un effetto
collaterale del nostro bisogno di avere una buona immagine di noi stessi. Questo perché premiare il nostro ingroup
(ricorderete, l’ingroup è il gruppo interno, ossia quello cui apparteniamo) ci porta, indirettamente, a premiare anche
noi stessi, specie se, nel contempo, stiamo discriminando l’outgroup. Come aveva già intuito il sociologo William
Sumner all’inizio del XX secolo, la lealtà verso il gruppo interno e l’odio e il disprezzo nei confronti degli estranei
(noi diremmo nei confronti degli outgroup) crescono assieme.
In questa lezione vi darò le prove empiriche di quanto vi ho appena raccontato, discutendo con voi uno dei più
importanti e sorprendenti esperimenti di tutta la storia della psicologia sociale.
È, ancora una volta, un esperimento che è stato condotto non per soddisfare freddi e aridi interessi scientifici di un
topo di biblioteca. Al contrario, è un esperimento che è stato condotto, coerentemente con quello che è accaduto in
buona parte della storia della psicologia sociale, perché la storia era entrata di prepotenza nella vita del ricercatore
che lo ha condotto. Come vedremo, Henri Tajfel era un ebreo polacco rifugiato in Francia poco prima che i nazisti la
invadessero. Non stupisce che, come vedremo, la sua esistenza sia stata tragica e drammatica, e che l’autore abbia
dedicato un’intera vita di studio e di lavoro a cercare di individuare le ragioni per cui si erano potute sviluppare e
diffondere le tragedie del Novecento.
Rispetto ai primi studi sul tema, sia la teoria che il metodo si cominciano ad asciugare. Lì si parlava di traumi, di
conflitti, di repressione; qui si parla di categorizzazione, di autostima, di immagine di sé. Ma l’esito è il medesimo,
anche se l’interpretazione che ne diamo è molto più angosciante, perché se è ovvio che non tutti abbiamo subito
gravi traumi e abbiamo gravi conflitti, è altrettanto ovvio che tutti abbiamo il sano e legittimo desiderio di
considerarci persone valide e meritevoli. Peccato che, come mostrerà Tajfel, uno degli esiti di questo desiderio
sano e legittimo possa essere il pregiudizio, se non addirittura la discriminazione.
Come vedremo, nell’esperimento di Tajfel si dà conto delle ragioni psicosociali, sostanzialmente banali, che ci
spingono a esprimere pregiudizi nei confronti degli outgroup e a discriminarli.
Lasciamo per un attimo da parte i pregiudizi, che spesso attengono solamente a quello che succede nella nostra
mente, sia perché le norme sociali ci insegnano che non dovremmo averli, o quantomeno non dovremmo
esprimerli, sia anche perché le occasioni in cui possiamo danneggiare attivamente i membri degli outgroup
fortunatamente non sono così numerose.
Ci sono casi, tuttavia, in cui questo può succedere. E casi in cui la situazione ci può spingere a mettere in atto
comportamenti automatici coerenti con gli stereotipi e i pregiudizi sugli outgroup che la società ci ha insegnato. In
questi casi le nostre azioni possono avere delle conseguenze molto serie. Addirittura drammatiche, in alcuni casi.
Ancora una volta, la psicologia sociale si è occupata di questi comportamenti per cercare di dare conto delle
ragioni di fatti del mondo reale che, per la loro grandissima rilevanza, avevano metaforicamente sfondato le porte
dei laboratori di psicologia sociale, imponendosi all’interesse dei ricercatori al punto da spingere alcuni di essi a
tralasciare i loro consueti oggetti di studio, sostituendoli con questi. In breve, alla fine del XX secolo era successo
che alcuni poliziotti che pattugliavano il Bronx, credendo di trovarsi di fronte a un pericoloso criminale, avessero
massacrato un ragazzo nero innocente, sparandogli 41 colpi perché stava tirando fuori il portafoglio e loro avevano
presupposto che stesse prendendo un’arma. La domanda era: se fosse stato bianco avrebbe avuto lo stesso tragico
destino?
In questa lezione vi racconterò il capostipite degli esperimenti che hanno mostrato che cercare di apparire
persone meritevoli a noi stessi può portare imprevedibilmente a discriminare gli outgroup. E vi racconterò un paio
di esperimenti che mostrano che il colore della pelle delle persone americane può impattare anche tragicamente
sulla loro speranza di uscire vivi quando una pattuglia li ferma. Ma prima di dare una risposta scientifica a questa
domanda, vi darò la risposta che le ha dato, in forma artistica, Bruce Springsteen. A testimoniare che l’evento da
cui questi esperimenti hanno mosso ha scosso drammaticamente le coscienze più sensibili della cultura
americana, e non solo gli psicologi sociali.
Termineremo questa lezione, per una volta, non con un mio video, ma dando la parola all’illustre collega Bloom,
dell’Università di Yale, che nel terzo Ted talk che vi mostro in questo corso, riassumerà con precisione ed eloquenza
i moderni studi psicosociali sul pregiudizio, dandovi anche qualche interessante spunto e qualche utile
suggerimento per ridurre il rischio di esprimere pregiudizi e di mettere in atto comportamenti apertamente
discriminatori.

L’intergroup bias
INDICE
Abbiamo visto che siamo sistematicamente impegnati a categorizzare in modo automatico oggetti sociali (le
persone, tipicamente) e ad attribuire automaticamente loro le caratteristiche stereotipiche della categoria in cui
li inseriamo. Questo doppio processo automatico dà conto dell’attivazione dei pregiudizi, considerandoli l’esito di
normali processi di pensiero. Ora ci occupiamo di vedere un’altra conseguenza della categorizzazione sociale,
che ci permette di fare un passo in avanti, mostrandoci come dal pregiudizio (un atteggiamento) si può passare
alla discriminazione (un comportamento volto a nuocere all’outgroup)
La radice di questi studi affonda nel terreno insanguinato della II guerra mondiale, del nazismo e dello sterminio di
milioni di persone, condotto solo perché esse non appartenevano alla categoria giusta: erano ebrei invece che
cristiani, zingari invece che ariani, omosessuali invece che eterosessuali, comunisti invece che nazisti e così via
La psicologia sociale, almeno in parte, ha cercato di spiegare questi eventi drammatici leggendoli con la categoria
dei conflitti fra i gruppi. Fino agli anni ’60, si riteneva che il conflitto fra i gruppi nascesse principalmente perché i
diversi gruppi (ad esempio, gli ebrei e gli ariani) competevano per cercare di guadagnarsi la massima quota
possibile di risorse limitate (istruzione, prestigio, potere, status…). Il pregiudizio e la discriminazione sarebbero
l’esito di questi rapporti conflittuali. È la cosiddetta “teoria del conflitto realistico”, che sostiene che, ancorché molto
sgradevole e addirittura potenzialmente drammatico, è realistico che i gruppi abbiano fra di loro rapporti
conflittuali. Ancora una volta, si tratta, in maniera paradossale, di una idea che pecca di ottimismo. Dagli anni ’70,
infatti, la psicologia sociale ha mostrato che il conflitto fra i gruppi e la discriminazione sono certo favoriti dalla
competizione per ottenere queste risorse limitate, ma che si possono innescare anche in loro assenza. Perché
succeda è sufficiente che le persone considerino se stesse e gli altri non come singoli individui, ma come membri di
un gruppo. Vediamo come questa importantissima scoperta viene fatta e perché le cose vanno in questo modo
CATEGORIZZAZIONE SOCIALE E DISCRIMINAZIONE INTERGUPPI
La figura di riferimento fondamentale in questo ambito di studi è stato Henri Tajfel, una delle figure più importanti di
tutta la storia della psicologia sociale. Tajfel è davvero uno dei grandissimi della psicologia sociale; un ricercatore
che ha lasciato un segno definitivo nella storia della disciplina. I suoi primi studi risalgono quasi a 50 anni fa, eppure
costituiscono ancora una delle basi indiscusse della psicologia sociale. Tajfel, come pochi altri, rappresenta
l’emblema della psicologia sociale, per come la sua storia di vita personale si è intrecciata inestricabilmente con la
Storia, con la S maiuscola, contribuendo a influenzare il suo interesse scientifico. Tajfel era un polacco di origine
ebraica, trasferitosi a studiare a Parigi negli anni precedenti lo scoppio della II guerra mondiale. Allo scoppiare del
conflitto, si arruolò volontario nell’esercito francese, e fu fatto prigioniero dai tedeschi dopo poche settimane di
conflitto.
Passò tutti gli anni della guerra internato in un campo per prigionieri di guerra, e questo, paradossalmente,
rappresentò la sua fortuna. Evitò infatti sia di combattere al fronte, sia la deportazione in un campo di sterminio.
Al termine della guerra tornò a casa e trovò che tutta la sua rete sociale era stata sterminata dai nazisti. Si
trasferì in Inghilterra e si dedicò allo studio della psicologia sociale, cercando di trovare spiegazioni scientifiche
all’immane tragedia che aveva colpito lui e il mondo, in un commovente quanto disperato tentativo di elaborare un
trauma impossibile da elaborare
Il suo punto di partenza era l’idea che, nel conflitto fra i gruppi, non è necessario che ci sia una rilevante posta in
gioco. Non serve che le persone e i gruppi interagiscano fra di loro. Non serve che competano per rilevanti risorse
limitate (economiche, di status, di potere…). Non serve nemmeno che i componenti dei due gruppi si conoscano e,
addirittura, se vogliamo estremizzare, che esistano effettivamente
GRUPPI MINIMI
Si propone di mostrare questo mediante uno dei più celebri esperimenti di tutta la storia della psicologia
sociale: il cosiddetto esperimento dei gruppi minimi.
I gruppi minimi hanno le caratteristiche che vedete riportate nella slide: si basano su una divisione di
nessuna importanza per i loro componenti, nessun componente dei gruppi interagisce con altre persone, né
del proprio gruppo né del gruppo cui non appartiene, e in gioco ci sono risorse di nessun valore e di nessun
interesse (punti, gettoni privi di valore economico e così via)

L’ESPERIMENTO
Nella prima fase, i partecipanti vengono divisi in gruppi, in base alla preferenza per Klee o Kandiskij, due pittori
all’epoca davvero poco conosciuti. E i partecipanti erano persone che non li conoscevano e non erano né
particolarmente esperte né particolarmente interessate all’arte moderna. Essere estimatori dell’uno o dell’altro
era insomma una cosa davvero poco, o meglio, per nulla importante per loro. In altre versioni dell’esperimento,
stima del numero di puntini su uno schermo e divisione, arbitraria, in base all’essere sovraestimatori o
sottoestimatori. Credo che concordiate con me che non sarebbe minimamente, rilevante, per voi, preferire uno dei
due pittori o credere di vedere troppi o troppo pochi puntini
Nella seconda fase, il partecipante aveva il compito di distribuire delle ricompense o delle penalità (in certe
condizioni dell’esperimento erano economiche, come monete, in altre erano solo simboliche, come punti o gettoni
di nessun valore), usando sei matrici di pagamento come quella che vedete riportata nella slide. Come vedete,
nella prima riga c’è la persona 1, della quale non viene detto niente, e che il partecipante non vedrà mai. Lo stesso
nella seconda riga. Il partecipante deve decidere come distribuire i punti che vedete nella matrice

TRE CONDIZIONI SPERIMENTALI


I partecipanti venivano sottoposti a una di queste tre condizioni sperimentali, che variavano fra loro in funzione di
come venivano presentate le persone nelle due righe della matrice.
Supponiamo che voi preferiate Kandinskij a Klee. Quando le due persone in matrice sono presentate come, ad
esempio, Membro 33 del gruppo che preferisce Klee e Membro 96 del gruppo che preferisce Klee, voi dovete
distribuire le risorse in matrice fra due persone che, su questa variabile di nessuna importanza, sono diverse
d a voi. Viceversa, quando le persone in matrice sono presentate come Membro 17 del gruppo che preferisce
Kandinskij e Membro 44 del gruppo che preferisce Kandinskij, voi dovete distribuire le risorse fra due persone
simili a voi, sempre su una questione totalmente irrilevante. Quando dovete distribuire le risorse, ad esempio,
fra due persone, una presentata come Membro 37 del gruppo che preferisce Klee e Membro 55 del gruppo che
preferisce Kandinskij, dovete distribuirle fra una persona simile a voi e una diversa da voi. La variabile su cui
si basa questa somiglianza/differenza continua a essere, sempre e comunque, irrilevante.
Quando le persone sono entrambe uguali a voi, o sono entrambe diverse da voi, con ogni probabilità voi
distribuirete le risorse in maniera equa, senza favorirne nessuna. In questa matrice, l’opzione prescelta con la
massima frequenza è quella che distribuisce a entrambi 13 (monete o gettoni). Questo fa sì che entrambe ottengano
meno di quanto potrebbero avere. Se sceglieste la prima colonna della matrice, il signor 13 otterrebbe 12 monete o
gettoni in più, e il signor 96 ne otterrebbe 6 in più. Entrambi, rispetto alla scelta più equanime, ci guadagnerebbero.
Ma la distribuzione non sarebbe equilibrata e, con ogni probabilità, voi non la sceglierete. Questo ci dice che,
quando non ci sono appartenenze di gruppo contrapposte, noi tendiamo a non discriminare. Scherzosamente, e
usando un linguaggio poco scientifico, potremmo insomma dire che non
siamo cattivi.

Ma quando c’è in gioco l’appartenenza di gruppo, è assai difficile che voi scegliate l’equità. Al contrario, è molto
più facile che voi, se preferite Kandinskij, scegliate una delle opzioni alla destra della matrice, che sono quelle
che, nel confronto fra i gruppi, avvantaggiano chi preferisce il vostro stesso pittore a discapito di chi preferisce il
pittore concorrente. Questo avviene nel 70% dei casi circa

IN CONDIZIONI INTERGRUPPI
Le opzioni scelte con la massima frequenza sono insomma le opzioni che vi porteranno a distribuire più risorse a
chi preferisce il vostro stesso pittore, anche un solo gettone o una sola moneta in più (è la colonna in cui attribuite
12 a chi preferisce Kandinskij e 11 a chi preferisce Klee), o a massimizzare la differenza di ricompensa a favore
della persona che preferisce il vostro stesso pittore (è la colonna in cui attribuite 7 a chi preferisce il vostro
stesso pittore e 1 a chi preferisce il pittore concorrente).
Tutto questo in una situazione assolutamente asettica, neutra, asciugata da ogni competizione e ogni interazione. I
gruppi non interagiscono fra di loro, né interagiscono fra di loro i loro componenti. È sufficiente che si evochi
l’appartenenza di gruppo, anche se i gruppi si basano su niente di significativo, per spingere le persone a ragionare
in termini intergruppi, e a mettere in atto dei processi che si allontanano dalla “normale equità”, favorendo l’ingroup
a discapito dell’outgroup. E notate che, dal punto di vista assoluto, questo è controproducente in termini di risorse
(monete o gettoni) che arrivano a chi fa parte del nostro gruppo. Se volessimo massimizzare il numero assoluto di
risorse che ottiene chi preferisce il nostro stesso pittore dovremmo infatti scegliere la prima colonna a sinistra. Ma,
scegliendo quella, la persona che preferisce il pittore concorrente avrebbe ancora di più, e questo ci disturba. Si
rinuncia al massimo profitto pur di promuovere la differenza positiva. Il tentativo è quello di raggiungere la
massima differenziazione positiva possibile per il proprio gruppo. Ragioniamo, appunto, in termini di confronto fra i
gruppi (ribadisco, gruppi costituiti da persone che non conosciamo e non conosceremo mai, e che si differenziano
su questioni totalmente irrilevanti), favorendo il nostro gruppo nel confronto con il gruppo cui non apparteniamo.
è sufficiente che le persone pensino in termini intergruppi per mettere in atto il favoritismo per il proprio gruppo e
la discriminazione per l’outgroup. E questo quando i gruppi sono minimi, cioè hanno le caratteristiche che vi ho
mostrato in una delle prime slide. Quando alla categorizzazione in gruppi si aggiungono conflitti per risorse limitate,
pregiudizi secolari intrecciati, storie di ingiustizie e discriminazioni, reali o anche solo fantasmatiche, le cose
diventano ovviamente ancora più problematiche

IDENTITA’ SOCIALE
Ma perché lo facciamo? Per rispondere a questa domanda, Tajfel fonda la teoria dell’identità sociale, arrivando alla
conclusione che questo meccanismo di discriminazione ci consente di ottenere un guadagno psicologico,
immateriale. Il suo nucleo fondamentale è che parte della nostra conoscenza e della nostra valutazione di noi
stessi derivano dal nostro senso di appartenenza a gruppi o categorie. Per quanto mi riguarda, sono un uomo, un
docente universitario, uno psicologo, un genitore, un tifoso del Torino, un italiano, e così via. Per Tajfel, l’identità
sociale è quella parte della nostra concezione di noi stessi che ci deriva dalla consapevolezza (o anche solo
dall’impressione) di essere membro di un gruppo o di più gruppi sociali, oltre al rilievo emozionale collegato a
questa condizione di membro. L’appartenenza a questi gruppi dà un contributo alla nostra valutazione complessiva
di noi stessi. Vi ricordate l’antica battuta di Groucho Marx, ripresa poi da Woody Allen in Io e Annie? Era quella che
recitava “non accetterei mai di appartenere a un club che fra i suoi soci accetti gente come me”. Qui vale il
contrario. L’individuo che fa parte di un gruppo cerca di migliorarne al massimo la caratterizzazione in modo da
essere soddisfacente per la propria identità e, di conseguenza, da promuovere quella parte di autostima che deriva,
appunto, dal senso di appartenenza.
Noi siamo sistematicamente impegnati a cercare di avere una buona immagine di noi stessi. Cerco di fare
queste lezioni al meglio delle mie possibilità, perché se verranno bene questo contribuirà alla mia autostima.
Non rubo, anche quando potrei farlo, per la stessa ragione.
Cerco di trattare bene le persone cui tengo per lo stesso motivo. Non è detto che ci riesca, ma, appunto, di provo.
Tutte queste sono evidentemente buone cose. Ebbene, il meccanismo di miglioramento dell’autostima individuato
da Tajfel ha delle ricadute di valenza completamente diversa: possiamo tentare di migliorare la nostra autostima
favorendo l’ingroup e discriminando l’outgroup. È come se il nostro ragionamento fosse questo: “Sono un uomo e
non una donna. Quello degli uomini è un gruppo importante, più importante di quello delle donne. Quindi sono
importante anche io, e mi impegno affinché gli uomini siano sempre più importanti delle donne, al fine di
puntellare questa mia (evidentemente fragile) immagine di me stesso”. Dal punto di vista quantitativo, la distanza
fra questo e la discriminazione anche drammatica è lungo, ma da quello qualitativo no.
Il meccanismo individuato da Tajfel ci evidenzia un eloquente esempio di buon obiettivo (avere una buona
immagine di sé) perseguito con modalità davvero negative, potenzialmente addirittura drammatiche, nelle loro
conseguenze. Vedete come nell’evoluzione storica della psicologia sociale ci stiamo allontanando sempre più dalle
prime concezioni di pregiudizio, quelle che consideravano il pregiudizio come l’esito di processi patologici. Tutti
semplifichiamo la realtà. Tutti categorizziamo le persone. Tutti desideriamo avere una buona autostima. Sono tutte
cose neutre o addirittura positive. Ma la loro paradossale conseguenza è che tutti siamo a rischio di sviluppare ed
esprimere pregiudizio. Cosa, come è evidente, assolutamente indesiderabile. E cosa, come è altrettanto evidente,
tutt’altro che rassicurante

Il weapon bias 2
Non solo i cantanti rock, ma anche gli psicologi sociali entrano a gamba tesa nel dibattito. E lo fanno non
artisticamente, ma usando i criteri del metodo scientifico che, come avete visto nella parte di corso tenuta dal
prof. Adenzato, sono quelli che fanno di una disciplina una scienza. Si chiedono, appunto, se, nella drammatica
decisione di sparare e rischiare di uccidere un innocente o non sparare e rischiare di essere uccisi da un
criminale, il colore della pelle della persona che hanno di fronte è il criterio fondamentale usato per scegliere. E,
più in generale, si chiedono se il Boss ha ragione. Ossia se è vero che una persona può essere uccisa solo perché
vive nella sua pelle americana

PAYNE
Il primo esperimento sul tema viene pubblicato poco dopo l’assoluzione dei poliziotti che avevano massacrato
Diallo. Una sessantina di persone sono convocate, una a una in laboratorio, e sono messe di fronte allo schermo di
un computer. Il loro compito consiste nello svolgere quasi 200 prove. Ogni prova è strutturata in modo che ai
partecipanti compare per due decimi di secondo una foto, che varia di prova in prova in funzione del colore della
pelle della persona ritratta. In metà delle condizioni la persona è bianca, nell’altra metà è nera. Il tempo è scelto
apposta per fare sì che la stimolazione sia subliminale. I partecipanti non sanno coscientemente che cosa hanno
visto, ma l’hanno visto. Dopo altri due decimi di secondo, compare uno stimolo target che, a seconda della prova,
sarà un’arma (ad esempio una pistola oppure un pugnale) oppure un utensile (ad esempio un cacciavite oppure un
trapano). Il partecipante ha il compito di decidere, essendo il più accurato e veloce possibile, se l’oggetto è un’arma
o un utensile. Passato mezzo secondo dalla risposta, si passa alla prova successiva, e così avanti per 192 prove.
La manipolazione sperimentale fondamentale è il tempo lasciato loro. Metà dei partecipanti fa le prove essendo
completamente libera di impiegare tutto il tempo desiderato, l’altra metà ha il compito di rispondere al massimo in
mezzo secondo. È chiaro che la situazione più vicina alla vita reale è la seconda: quando in gioco c’è la propria vita,
come nel caso dei poliziotti che hanno ammazzato Diallo, una decisione deve essere presa il più velocemente
possibile

In entrambe le condizioni sperimentali, i partecipanti sono più veloci a riconoscere le armi che gli utensili. E
questo è assolutamente sensato dal punto di vista evolutivo: è salvifico, per noi, come singoli individui e come
componenti della nostra specie, essere particolarmente bravi a riconoscere gli stimoli ambientali cjhe mettono a
repentaglio la nostra sopravvivenza e, con essa, la nostra probabilità di trasmettere i nostri geni
Nella condizione in cui non c’è pressione temporale, i partecipanti fanno pochi errori. Hanno il tempo per
conoscere adeguatamente la realtà e sbagliano poco. Ma anche in questa condizione, sono guidati dalle loro
aspettative stereotipiche nei confronti delle persone che hanno di fronte. In questa condizione, emergono infatti
risultati assolutamente coerenti con quello che la società americana insegna ai propri cittadini circa le
caratteristiche di bianchi e neri. Vedere subliminalmente una faccia nera spinge a riconoscere più velocemente
le armi e meno velocemente gli utensili. Al contrario vedere subliminalmente una faccia bianca. Ma, appunto, gli
errori commessi sono pochi
Ancora più interessanti sono i risultati relativi alla condizione più vicina alla vita vera dei poliziotti che
pattugliavano le famigerate strade del Bronx, ossia quelli in una condizione di grande pressione temporale. In
questo caso, gli errori sono molti, e riguardano addirittura un terzo delle prove. E questi errori vanno nella
direzione attesa socialmente: si sbaglia più spesso vedendo a torto un’arma quando si è visto un nero, e al
contrario si sbaglia più spesso vedendo a torto un utensile quando si è visto un bianco.
CORRELL
Fin qui siamo a livello di percezione. Un anno dopo, però, le cose si fanno più inquietanti ancora, grazie a un lavoro
pubblicato da un’equipe capitanata da Correll. I ricercatori fanno un passo in avanti, andando a prevedere non un
riconoscimento di stimoli, ma un comportamento. I partecipanti sono impegnati a giocare a una sorta di videogioco.
Il loro compito è guardare delle scene in cui compaiono sullo schermo persone bianche o di colore con in mano
degli oggetti ambigui (ancora una volta, armi o utensili). Come nel caso dei poliziotti di fronte a Diallo, il loro
compito è, ogni volta che vedono un’arma, quello di sparare alla persona che ce l’ha in mano schiacciando un tasto
della tastiera. Al contrario, ogni volta che vedono un utensile il loro compito è quello di non sparare alla persona
che ce l’ha in mano, schiacciando un altro tasto della tastiera
I risultati sono coerenti con quelli dell’esperimento precedente, e consentono di estenderne la portata al livello dei
comportamenti. Quando la persona che compare sullo schermo è nera, le si spara più velocemente che quando
essa è bianca. Al contrario, quando si decide, sbagliando, di non sparare a una persona armata, si sbaglia più
velocemente se chi abbiamo di fronte è bianco invece che nero. Nel complesso, questi risultati ci dicono che, come
spesso accade, nella lettura del mondo l’arte ha preceduto la scienza. Aveva ragione Springsteen a dire che una
persona può essere uccisa solo perché vive nella sua pelle americanai
Come psicologi sociali, abbiamo insomma prodotto un’evidenza cumulativa che, per quello che ci interessa in
questo corso, ci ha insegnato due cose. La prima è che, quando si parla di pregiudizio e discriminazione, siamo,
entro certi limiti, tutti uguali. Questo soprattutto se dobbiamo decidere in breve tempo, affidandoci a processi
automatici. In quel caso, è probabile che saremo portati a non seguire i nostri standard e i nostri principi,
affidandoci invece ai dettami che la società ci avrà insegnato.
La seconda è che i nostri atteggiamenti di pregiudizio e i nostri comportamenti di discriminazione hanno come
bersagli soprattutto membri di gruppi che sono sanzionati negativamente a livello sociale. È la società che ci
insegna che i neri sono più pericolosi dei bianchi, e noi, in pochi millesimi di secondo, vedendo un nero invece che
un bianco tendiamo a rispondere in maniera coerente con quello che ci è stato insegnato, vedendolo come più
pericoloso di quanto in realtà non sia, e diventando a nostra volta più pericolosi per lui di quanto in realtà non
dovremmo. Viceversa di fronte a un bianco. Detto in pillole, affidandoci ai processi automatici finiamo per
comportarci in maniera coerente con quello che la società ci ha insegnato e si aspetta da noi, diventando
eccessivamente propensi a uccidere un nero innocente e a farci uccidere da un bianco colpevole. Questo è assai
coerente con l’ottica situazionale che, come abbiamo detto più volte, orienta una parte della storia della psicologia
sociale: è la cultura in cui cresciamo, in questo caso, che influenza il modo in cui noi vedremo le persone in cui ci
imbattiamo e il modo in cui ci comporteremo con loro… spesso, almeno potenzialmente, spingendoci a essere un
rischio per loro se vivono nella loro pelle americana di colore nero, e a essere un rischio per noi se vivono nella
loro pelle americana di colore bianco. Quasi sempre solo potenzialmente, per fortuna.

5.4 pregiudizio, performance e influenza sociale Introduzione


Abbiamo visto fin qui che cosa succede quando noi siamo detentori di pregiudizio nei confronti degli altri.
Abbiamo visto che in gioco c’è la combinazione di tre famiglie di normali processi. I primi sono processi cognitivi,
che ci spingono a semplificare la realtà. I secondi sono processi motivazionali, che ci spingono a promuovere la
nostra immagine di noi stessi. I terzi sono processi culturali, che fanno sì che, spesso inconsapevolmente, ci
adattiamo a pensare quello che la società ci insegna che dovremmo pensare delle persone solo perché
appartengono a specifiche categorie. La ricerca mostra come la combinazione, tendenzialmente automatica, di
categorizzazione sociale, promozione della nostra immagine di noi stessi e attivazione di stereotipi socialmente
connotati può renderci tutti uguali nel rischio di conoscere e valutare gli altri in maniera connotata dal
pregiudizio, e addirittura nel rischio di discriminare altre persone solo perché non sono come noi su questioni
socialmente connotate (ad esempio il sesso, l’età, lo status, la nazionalità, il colore della pelle, l’orientamento
sessuale e così via).
Ci occupiamo ora di un paio di altri aspetti molto rilevanti per chi si occupa di psicologia sociale del pregiudizio.
Sono aspetti che, nel corso dell’evoluzione e dello sviluppo della psicologia sociale, si sono affiancati abbastanza
di recente a quelli di cui ci siamo occupati in precedenza. I primi studi si occupavano infatti di capire come e
perché il pregiudizio si sviluppa e si manifesta. Questi guardano invece al pregiudizio e alla discriminazione da un
versante un po’ diverso.
Il primo filone di studi che vi voglio raccontare ha studiato che cosa succede non quando noi siamo detentori di
pregiudizio (siamo un bianco, incontriamo un nero e ci comportiamo con lui in maniera coerente con i dettami
sociali negativi nei suoi confronti), ma quando noi stessi siamo l’oggetto del pregiudizio. Nell’esempio che vi ho
appena fatto, siamo il nero in cui il bianco si imbatte.
Questo filone di studi ha un’origine piuttosto antica: risale infatti agli anni ’50 del XX secolo, e più precisamente
all’imprescindibile volume La natura del pregiudizio, scritto nel 1954 da quel Gordon Allport che abbiamo già
nominato qualche volta in queste lezioni. Secondo Allport, una delle conseguenze più nefaste e pericolose del
pregiudizio è il fatto che esso tende a spingere i membri dei gruppi che sono oggetto di pregiudizio a comportarsi in
maniera coerente con il contenuto del pregiudizio stesso. Se sono gruppi stigmatizzati, a confermare la sensatezza
della loro stigmatizzazione grazie ai propri stessi comportamenti. Questo finirebbe per dare una giustificazione fra
virgolette razionale alla loro stessa discriminazione, aiutando a sostenere che essa sia legittima e sensata. Se io,
che sono bianco, ho interesse a mantenere il mio status privilegiato nei confronti delle persone di colore, per me è
strategico spingerle a comportarsi in maniera coerente con gli stereotipi negativi che la società ci insegna a
condividere nei loro confronti. Lo stesso se sono un uomo e ho a che fare con le donne. Si potrebbero ovviamente
fare decine di altri esempi.
Ebbene, nella storia della psicologia sociale questa interessante idea di Allport è stata dimenticata per lunghi
decenni. Ma negli ultimi anni essa è stata recuperata da alcuni ricercatori che hanno deciso di assumere il punto di
vista dei membri dei gruppi meno avvantaggiati a livello sociale, al fine di capire se e come, senza rendersene
conto, i membri dei gruppi di minoranza possano concorrere alla loro stessa discriminazione, finendo per
confermare gli stereotipi negativi nei loro confronti condivisi a livello sociale. Ad esempio, questo accade
tipicamente quando una ragazza deve essere valutata in base alle sue abilità matematiche. Se voi siete una
ragazza, sapete che, a livello sociale, è assai diffuso uno stereotipo che sostiene che gli individui di sesso maschile
sono più bravi in matematica di quelli di sesso femminile. Se voi siete un ragazzo, anche. Ma questo, per il discorso
che facciamo, ci interessa un po’ meno.
Sarete forse sorpresi, e sorprese, di sapere che lo stereotipo, come spessissimo accade, è totalmente infondato.
Non ci sono infatti differenze fra i due sessi quanto ad abilità matematica. Ma le ragazze non lo sanno e anzi,
essendo state coerentemente e ripetitivamente socializzate a impararlo, tendenzialmente lo condividono. Credono
di essere meno brave in matematica dei ragazzi.
Vedremo che i componenti dei gruppi oggetto di pregiudizio, come le donne in confronto agli uomini, quando si
trovano a fare un compito effettivamente impegnativo, come un complesso test di matematica, si trovano
doppiamente in difficoltà rispetto alla loro controparte maschile. Condividono con gli uomini la difficoltà del
compito. Ma solo loro hanno un ostacolo aggiuntivo: se falliscono, il loro insuccesso diventa non solo l’indicatore
di una scarsa capacità individuale, ma un esito che si è quasi inevitabilmente prodotto perché loro appartengono
al loro gruppo.
Questo genera un sovrappiù di ansia, in loro, e la gestione di questa ansia supplementare distoglie risorse
cognitive dal compito. Perché, non dimentichiamolo, le nostre risorse cognitive sono limitate.
È insomma ovvio che, se ci si impegna in un compito doppiamente difficile, sarà probabile che si riuscirà peggio di
chi si impegna in un compito che è sì difficile, ma per una sola ragione.
Questo elemento di difficoltà aggiuntivo, socialmente determinato, viene definito minaccia dello stereotipo. Ed è
particolarmente interessante dal punto di vista teorico perché si attiva in maniera sostanzialmente inconsapevole.
E lo è anche dal punto di vista sociopolitico, perché ci aiuta a capire quanto debole e tendenzioso sia il
presupposto sostegno scientifico della legittimità di certe discriminazioni sociali. Perché il passo da una presunta
e infondata “minore abilità matematica” a “minore razionalità” a “cittadini di serie B” rischia di essere davvero
molto breve.
Il secondo aspetto di cui ci occupiamo fa riferimento a un altro versante della storia degli studi psicosociali sul
pregiudizio. Ci concentriamo in questo caso su quello che accade, nella relazione con gli altri, quando noi
esprimiamo visioni e pensieri che sono coerenti con la connotazione sociale di un outgroup. Possiamo parlare di un
componente di un gruppo svantaggiato socialmente in termini coerenti con lo stereotipo socialmente condiviso nei
suoi confronti. Ad esempio, possiamo parlare di una donna come un essere sensibile e irrazionale, di un nero come
una persona aggressiva e atletica, di un uomo omosessuale come una persona emotivamente instabile e artistica, e
così via.
Ma possiamo anche parlare di queste persone in termini neutri, non connotati stereotipicamente. Ad esempio,
possiamo parlare di una donna come una persona vivace, di un nero come di una persona attenta, di un uomo
omosessuale come una persona ignorante.
Possiamo infine parlare di queste persone in termini controstereotipici, ossia con termini che contraddicono
quello che, stereotipicamente, dovremmo aspettarci da loro. Ed ecco che allora parleremo della donna come
persona razionale, del nero come persona gracile e dell’uomo omosessuale come persona emotivamente stabile
e inquadrata.
Che conseguenze ha per noi, nella nostra relazione con gli altri, il modo con cui parliamo di chi appartiene ai gruppi
svantaggiati, ossia il fatto che, parlando, confermiamo o smentiamo gli stereotipi nei loro confronti? Come impatta il
contenuto delle nostre comunicazioni sull’immagine di noi che gli altri svilupperanno e sulla nostra autorevolezza?
Un filone di studi assai ridotto, ma di grandissima importanza, si è dedicato a rispondere a queste domande; ed è di
esso che parleremo dopo avere parlato della minaccia dello stereotipo. Come vedremo, questo filone ha mostrato
che se parliamo dei gruppi svantaggiati esprimendo pregiudizio nei loro confronti, finiamo per apparire più
autorevoli agli occhi degli altri, aumentando la nostra capacità di influenzarli e, in senso lato, di influenzare le
dinamiche sociali. Un risultato, ancora una volta, piuttosto inquietante.
Insomma, in questa lezione vedremo come, nel corso dell’evoluzione della disciplina, gli studi sul pregiudizio non
hanno solo cambiato ottica, passando da una visione patologizzante delle persone che hanno pregiudizio a una
che vede il pregiudizio come esito dei normali processi di pensiero. E vedremo che non solo sono passati da una
visione centrata sull’individuo, per cui sono le caratteristiche del singolo a spingerlo ad avere pregiudizi, a una
centrata sull’articolazione fra le caratteristiche del singolo e quelle della società, per cui quel che crediamo e
pensiamo dei membri degli outgroup e i modi con cui ci comportiamo nei loro confronti ha in buona parte
un’origine sociale.
Vedremo infatti che, oltre a questo, nella storia della psicologia sociale è cambiato, almeno per certi versi, anche il
focus dell’interesse dei ricercatori, o per lo meno esso è stato integrato da una visione alternativa. Il tradizionale
sguardo sulle dinamiche della persona che ha pregiudizi è stato infatti affiancato dallo sguardo sulla persona che è
oggetto e talvolta addirittura vittima di pregiudizio, e dallo sguardo sulle persone che hanno a che fare con chi il
pregiudizio lo manifesta.

La minaccia dello stereotipo


Parliamo ora della minaccia dello stereotipo, ossia del filone di studi che si occupa di spiegarci che cosa succede
quando siamo noi l’oggetto degli stereotipi
Come abbiamo visto, la psicologia sociale si è tendenzialmente occupata di studiare che cosa succede, ai nostri
processi mentali e ai nostri comportamenti, quando abbiamo stereotipi e pregiudizi nei confronti degli altri.
Sviluppando un’antica idea di Allport, negli ultimi 20 anni gli psicologi sociali hanno però tentato di allargare il tiro
delle loro teorizzazioni e delle loro ricerche, andando ad analizzare che cosa succede quando le persone, invece
che avere stereotipi e pregiudizi nei confronti di altri, sono loro stesso oggetti di tali stereotipi e di tali pregiudizi.
Ad esempio, negli Stati Uniti si ritiene in maniera abbastanza consensuale che i neri siano meno bravi dei bianchi
nelle prove di abilità verbale. E in buona parte del mondo si considerano gli uomini meno bravi quanto ad abilità
sociali rispetto alle donne, e le donne meno brave in matematica rispetto agli uomini.
Ebbene, che cosa succede quando si mettono un nero e un bianco davanti a una prova di abilità verbale? O un
uomo e una donna davanti a una prova di abilità sociale o a una di abilità matematica? Che cosa accade loro dal
punto di vista cognitivo e comportamentale? Succede, secondo gli autori, che queste persone possono sentirsi
minacciate dalla presenza di questi stereotipi, e che questa minaccia abbia una forte influenza sul loro modo di
affrontare cognitivamente le prove, finendo addirittura per impattare sulla loro prestazione
In questa parte di lezione dedichiamo la nostra attenzione proprio a questi processi, alle loro ragioni e alle loro
conseguenze non solo sulla psiche delle persone e sui loro effetti sociopolitici, almeno potenziali. Ci occupiamo
insomma del filone di studi dedicato alla minaccia dello stereotipo. In queste slide vi racconterò gli studi condotti
per mostrare e spiegare questo effetto, per mostrare da che età si innesca e quali conseguenze non solo
psicologiche, ma anche sociopolitiche può avere.
L’idea che appartenere a un gruppo oggetto di stereotipo possa fare sentire minacciate le persone quando devono
impegnarsi in prove o test che mettono in gioco lo stereotipo è antica: risale al più importante volume sul
pregiudizio della storia della psicologia sociale, pubblicato da Allport nel 1954. Nonostante l’idea di Allport abbia
oltre 60 anni, è stata messa sistematicamente alla prova dal punto di vista empirico solo molto più recentemente, a
partire dalla metà degli anni ’90. Il filone di studi sviluppato si è concentrato soprattutto sulle prestazioni di chi è
oggetto di stereotipo, chiedendosi se queste persone, quando sentono incombere su di sé la minaccia dello
stereotipo, finiscono per sentirsi vulnerabili rispetto alla situazione che stanno vivendo, peggiorando le loro
prestazioni e dunque confermare lo stereotipo negativo che caratterizza il gruppo cui appartengono.
La minaccia dello stereotipo è stata studiata in molti domini. Nella slide ne vedete riportati alcuni. In questa
lezione ci concentreremo soprattutto sull’idea stereotipica che le donne siano meno brave nelle prove di
matematica e di logica rispetto agli uomini, e che i neri americani siano meno bravi dei bianchi nelle prove di
abilità verbale. Sono entrambi stereotipi davvero molto diffusi. E, forse questo vi stupirà, a parità di titolo di studio
delle persone, sono entrambi stereotipi infondati. Ma non per questo sono poco rilevanti nella vita quotidiana
delle persone che ne sono oggetto. Infatti, le persone tendono a convincersi della loro veridicità e, come vedremo,
a comportarsi in modi che malauguratamente finiscono per confermarli.
Ancora una volta, la vita delle persone che lavorano in campo psicosociale ha influenzato gli argomenti affrontati
nella nostra disciplina: basta guardare la faccia di Steele per capire perché gli effetti della minaccia dello
stereotipo lo hanno interessato.
Per raccontarvi il filone di studi sulla minaccia dello stereotipo per una volta non uso un esperimento classico
della psicologia sociale, ma lo studio che ha condotto Francesca Fruttero, una mia laureanda, come ricerca su cui
ha basato la sua tesi. Gli obiettivi della sua ricerca erano decisamente più complessi e articolati di quelli che vi
presento qui: mi limito infatti, in questa sede, a raccontarvi il nucleo più standard del suo lavoro. Il metodo
sperimentale utilizzato è stato quello classico degli studi sulla minaccia dello stereotipo. Fruttero ha preso 46
studentesse universitarie e ha fatto svolgere loro un test di matematica costituito da 16 problemi. Le partecipanti
hanno effettuato il compito e hanno avuto un voto pari a 1 per ogni problema cui hanno dato la risposta giusta, e
pari a 0 ogni volta che hanno dato la risposta sbagliata o non hanno dato una risposta. I punteggi di ogni prova
venivano sommati, per cui le ragazze avrebbero potuto ottenere un voto compreso fra 0 (nel caso in cui avessero
sbagliato tutte le risposte) e 16 (nel caso in cui le avessero azzeccate tutte).
La manipolazione sperimentale metteva insieme le due classiche manipolazioni usate in questo ambito. Intanto, il
gruppo sperimentale, quello in cui volevamo attivare la minaccia dello stereotipo, aveva come prima domanda del
questionario quella relativa al sesso, in modo da attivare il nodo “donna” e con esso i nodi collegati, compreso
quello che associa le donne a una scarsa abilità matematica. Inoltre, prima delle prove di matematica, le
partecipanti del gruppo sperimentale leggevano un breve brano in cui si leggeva che ricerche scientifiche recenti
avevano confermato l’idea diffusa circa il fatto che le donne sono meno brave in matematica degli uomini. Il gruppo
di controllo rispondeva alla domanda sul sesso dopo aver fatto il test di matematica, e prima delle prove leggeva
un breve brano in cui si diceva che ricerche scientifiche avevano mostrato che, contrariamente a quel che si crede
di solito, uomini e donne hanno in media la stessa abilità matematica.
Ebbene, le ragazze del gruppo di controllo riescono significativamente meglio di quelle del gruppo sperimentale.
È stato sufficiente attivare nelle ragazze l’idea del loro svantaggio in matematica nei confronti degli uomini per
farle andare peggio: per confermare la giustezza di questo stereotipo. Uno stereotipo, ribadisco, infondato.
È lo stesso Steele a spiegarci che gli sforzi di sopprimere lo stereotipo lo rendono più saliente e dunque più
interferente nella esecuzione del compito: i contenuti dello stereotipo interferiscono insomma con i ragionamenti
delle partecipanti, e quello ne ostacola la prestazione
Risultati analoghi, come abbiamo detto, sono emersi per quel che concerne altre associazioni stereotipiche
relative ad altre categorie, principalmente quelle che vi ho elencato prima.
Questo effetto è solido: viene praticamente sempre. C’è. Restano però aperte almeno tre interessanti
questioni, cui è dedicata la prossima parte di questa esposizione.
La prima è: ma non è semplicemente in gioco un meccanismo di differenza di status fra i gruppi? Non è
semplicemente che, ad esempio, le donne riescono peggio degli uomini nelle prove matematiche e i neri riescono
peggio dei bianchi nelle prove verbali perché ricordare loro che sono donne o neri attiva in loro una serie di
associazioni negative circa il fatto che appartengono a gruppi di status inferiore alle loro controparti? Non è in
gioco, insomma, un meccanismo di status, che renderebbe inutile la teorizzazione della minaccia dello stereotipo?
La seconda domanda è: ma quali sono i processi cognitivi che si attivano quando è in gioco la minaccia dello
stereotipo, ammesso che essa effettivamente esista, ossia che si riesca a controbattere adeguatamente alla
possibile obiezione sullo status? Che cosa succede nella testa delle persone quando temono di fallire perché
appartengono a una categoria destinata al fallimento? In altre parole: perché si verifica questo effetto?
E infine: ammesso, appunto, che il fenomeno esista: da che età si attiva? Colpisce solo gli adulti o esiste anche nei
bambini?
Partiamo dalla prima domanda. Si potrebbe obiettare che forse non vale la pena inventare il meccanismo della
minaccia dello stereotipo. Come dicevamo, si potrebbe infatti pensare che in gioco non ci siano gli effetti della
minaccia dello stereotipo, ma, più semplicemente, degli effetti che derivano dal diverso status dei gruppi coinvolti.
Potrebbe essere che i gruppi di alto status (gli uomini, in questo caso) riescono meglio di quelli di status meno
elevato (le donne, in questo caso) perché i gruppi di alto status sono (un po’ lombrosianamente) migliori di quelli di
basso status, oppure perché l’ansia deriva dalla disuguaglianza di status e non dalla minaccia dello stereotipo.
Ebbene, gli studi condotti per testare questa ipotesi alternativa hanno portato a smentirla. Ve ne racconto due. Nel
primo, è stata utilizzato lo stereotipo relativo all’associazione fra colore nero della pelle e ridotte abilità verbali. I
40 partecipanti erano per metà bianchi e per metà neri. A loro volta, sia i bianchi che i neri sono stati suddivisi in
due sottogruppi. A un sottogruppo veniva detto che il test che avrebbero fatto serviva per misurare le loro abilità
verbali. Come ci siamo detti, negli Stati Uniti si crede stereotipicamente che i neri siano meno bravi dei bianchi su
questa abilità. All’altro sottogruppo veniva detto che il test avrebbe misurato la capacità di soluzione dei problemi.
Negli Stati Uniti non ci sono differenze stereotipiche circa le diverse abilità di bianchi e neri riguardo a queste
abilità. Il test, ovviamente, non misurava nessuna di queste due abilità, ma i partecipanti non lo potevano sapere.
Il risultato dell’esperimento è incontrovertibile. Fra i gruppi emergevano le differenze coerenti con la
teorizzazione sulla minaccia dello stereotipo, ma non quelle che avrebbero potuto derivare dallo status. Se si
dice che il test misura le abilità verbali si attiva la minaccia dello stereotipo e i neri riescono peggio dei bianchi.
Se si dice che il test misura la capacità di problem solving, bianchi e neri ottengono lo stesso punteggio. Il test,
ricordate, è il medesimo: cambia solo la proprietà che i partecipanti credono che esso misuri.
E quindi non sembrerebbe essere in gioco un semplice meccanismo di status. Lo status dei neri è sempre inferiore
a quello dei bianchi, ma loro vanno peggio dei bianchi solo se la prova riguarda un’abilità in cui loro sono
stereotipicamente considerati inferiori rispetto alla loro controparte
Vi presento ora un altro studio, che conferma quanto vi ho appena detto. Cadinu, e Maass (2003) riportano i risultati
di una loro ricerca condotta assieme a Lombardi in cui hanno fatto fare a partecipanti di sesso maschile e
femminile lo stesso test. In un caso lo hanno presentato come un test che era volto a misurare l’intelligenza logica
delle persone. Nell’altro, come un testo che era volto a misurare la loro intelligenza sociale. Il test, nuovamente,
non misurava né l’una né l’altra abilità, ma, nuovamente, i partecipanti non potevano saperlo.
Non vi presento i risultati con un grafico perché le autrici li hanno presentati solo qualitativamente. Comunque dal
loro resoconto il risultato è evidente. Le donne, che hanno uno status inferiore agli uomini, riuscivano peggio degli
uomini solo quando uomini e donne credevano di fare un compito di abilità logica, coerentemente con lo stereotipo
che ritiene le donne meno logiche degli uomini. Ma gli uomini, che hanno uno status superiore alle donne,
riuscivano peggio delle donne quando uomini e donne credevano di fare un compito di abilità sociale,
coerentemente con lo stereotipo che ritiene gli uomini meno sociali delle donne.
I cali di prestazione, insomma, non avvengono in maniera generalizzata, né in maniera coerente con lo status dei
gruppi. Avvengono, invece, in maniera coerente con la vulnerabilità che i test suscitano quando mettono in gioco
associazioni stereotipiche fra il gruppo cui si appartiene e specifiche abilità
Veniamo alle altre due domande. Cadinu e colleghi hanno evidenziato la ragione per cui questo fenomeno si attiva:
perché la minaccia dello stereotipo manda in ansia i partecipanti, soprattutto per quel che concerne la dimensione
cognitiva dell’ansia. Attiva insomma nella mente delle persone una serie di pensieri intrusivi, legati alle loro
aspettative di fallimento. Questi pensieri ci sono, vanno gestiti e per gestirli serve usare delle risorse cognitive, che
vengono distolte dalla prova di matematica. È come fare una gara di Formula 1 potendo usare solo le prime tre
marce: il fallimento diviene quasi inevitabile.

La seconda domanda ha una risposta altrettanto interessante: questi fenomeni si verificano anche nei bambini
relativamente piccoli: quelli di 7-8 anni. Ossia quelli che hanno avuto modo di essere socializzati alla cultura dello
stereotipo. Questi effetti si dispiegano insomma da molto presto nella traiettoria individuale delle persone,
rischiando davvero di cronicizzarsi. La vita degli individui, insomma, si organizza, almeno in parte, attorno a queste
associazioni stereotipiche, che tendono a confermarsi e quindi a diventare sempre più rigide per il singolo e sempre
più condivise a livello culturale.
In conclusione, questi studi, anche al di là degli specifici risultati cui hanno condotto, ci mostrano quanto la società
più influire sulle nostre cognizioni e sui nostri comportamenti, fino a spingerci a rischiare di legittimare la nostra
stessa discriminazione. Sono fenomeni pervasivi, e sono davvero difficili da combattere. Alcune ricerche che non vi
ho raccontato per ragioni di tempo mostrano addirittura che la minaccia dello stereotipo ha effetti più ampi sulle
persone che sono molto coinvolte nelle prove. Più per loro la matematica è interessante e importante per loro, per
continuare nel nostro esempio, più è facile che le loro prestazioni peggiorino nelle condizioni di minaccia dello
stereotipo, proprio perché è probabile che per loro la minaccia sia particolarmente ansiogena.
In sostanza, da questo filone di studi ci portiamo a casa dei risultati che si applicano a livello individuale, quello
delle persone che falliscono perché sottoposte alla minaccia dello stereotipo. Dei risultati che si applicano a livello
sociale, quello della legittimazione di disuguaglianze infondate. E dei risultati relativi alla storia della psicologia
sociale, quelli relativi al rilevante ampliamento degli argomenti di studio, da chi ha pregiudizio a chi ne è bersaglio.
Nelle prossime slide amplieremo ancora il tiro.

Stereotipi e conformismo implicito


Finendo il nostro discorso sulla minaccia dello stereotipo ci siamo dati il compito di allargare ulteriormente il tiro.
Lo facciamo in queste slide, in cui vi racconto che cosa succede alla nostra immagine quando noi parliamo di un
membro di un outgroup in termini stereotipici.

Si tratta di un tema davvero interessante per la storia della psicologia sociale, che è stato studiato per la prima
volta da un’équipe di ricercatori in cui tre su quattro erano italiani: équipe capitanata da Luigi Castelli
dell’Università di Padova. Vi racconterò il primo esperimento condotto sul tema, e dopo averlo fatto, come al
solito, coerentemente con il taglio storico di questo corso, discuterò con voi l’eredità che esso ha lasciato nel
percorso di sviluppo della disciplina.
I partecipanti vengono fatti sedere di fronte allo schermo di un computer, e si dice loro che parteciperanno a due
compiti scollegati l’uno dall’altro. Il primo serve a capire come le persone sviluppano i loro giudizi sugli altri. Il
secondo a come facciamo a fare passare la nostra attenzione da un compito a uno completamente diverso.
Il primo compito consiste in questo: i partecipanti, basandosi sulla descrizione datane da Marco, dovranno farsi
un’impressione di com’è Almad, un ragazzo nordafricano immigrato in Italia.
Viene detto loro che Marco conosceva Almad, ma non si dice che cosa sapeva di lui. Sullo schermo compaiono le
descrizioni che Marco dà di Almad: sono 20 aggettivi, che compaiono uno dopo l’altro in sequenza. Dieci di questi,
comuni a tutti i partecipanti, sono neutri rispetto allo stereotipo che caratterizza gli immigrati nordafricani. Gli altri
10 variano in funzione del gruppo in cui sono inseriti i partecipanti. In questo consiste la manipolazione
sperimentale. Un gruppo è esposto a 10 tratti coerenti con lo stereotipo dell’immigrato nordafricano, l’altro gruppo
a 10 tratti che sono incoerenti con questo stereotipo.
Il compito dei partecipanti è farsi un’idea di Almad, ovviamente basandola sulle informazioni date da Marco.
Ricordate, questo pezzo di esperimento viene infatti presentato come uno studio volto a capire come la gente si
forma le impressioni sugli altri.
Ai partecipanti veniva anche detto, che assieme a questo compito, ne avrebbero fatto un altro, volto a capire
come siamo in grado di passare da un compito a un altro. Fra un aggettivo e l’altro, per 5 secondi compariva sullo
schermo una serie di A. Nella parte alta dello schermo veniva presentata una stima di quante queste A fossero.
La manipolazione sperimentale consisteva nel dire chi aveva dato quella stima. A metà dei partecipanti si diceva
che la stima era stata data da Marco, all’altra metà che essa era stata data da un altro partecipante che aveva
fatto l’esperimento prima di loro, scelto casualmente dagli sperimentatori.
Il compito dei partecipanti era dire, secondo loro, quante A erano comparse. Dopo un paio di compiti distrattori, si
chiedeva ai partecipanti di esprimere un parere: secondo loro quanto erano accurate le stime del numero di A che
Marco o l’altro partecipante avevano dato? La variabile dipendente fondamentale era una domanda in cui si
chiedeva al partecipante quanto, secondo lui o lei, era accurata la stima che compariva in alto sullo schermo.
Vi presento il dato fondamentale della complessa costellazione di risultati: i partecipanti si affidavano alle stime di
Marco molto di più quando Marco parlava di Almad in termini stereotipici, e molto meno quando Marco ne parlava
in termini controstereotipici. Il modo con cui Marco parlava di Almad non impattava invece su quanto i partecipanti
si affidavano alle stime date da una terza persona. Era insomma in gioco proprio un meccanismo di conformità nei
confronti di chi esprimeva una visione stereotipica del componente dell’outgroup.
Un approfondimento ha mostrato che un meccanismo analogo si attivava quando non si trattava di esprimere una
stima del numero di A, ma se alcune affermazioni sulle quali era quasi impossibile essere preparati erano vere. Le
affermazioni erano costruite apposta in modo che i partecipanti non sapessero la risposta. Ad esempio: “è vero che
Tiepolo è morto a Madrid nel 1770?”. Ebbene, anche in questo caso i partecipanti si affidavano alle risposte di Marco
soprattutto quando Marco aveva descritto Almad in termini stereotipici.
E questo anche se dallo studio pilota era emerso che tendiamo a esprimere giudizi negativi nei confronti di chi
parla degli outgroup in modalità pregiudiziale. A livello esplicito, appunto. Ma alla fine diamo loro più credito
quando in gioco c’è un conformarsi implicito.
Questo studio, concentrato sulle situazioni relazionali in cui possiamo esprimere visioni stereotipiche e
pregiudiziali nei confronti di specifici outgroup svantaggiati, ci ha mostrato che chi dà informazioni coerenti con
gli stereotipi è favorito, a livello interpersonale, rispetto a chi fornisce informazioni che con gli stereotipi coerenti
non solo. Ci ha insomma aiutato a comprendere un effetto piuttosto curioso e interessante: quello per cui, negli
ultimi decenni, è cresciuta, almeno in larghe fette della popolazione l’aperta stigmatizzazione di chi parla degli
outgroup esprimendo pregiudizi. Questo da un lato. Ma dall’altro lato, i pregiudizi continuano a esistere e a
guidare il nostro pensiero e le nostre azioni.
Quello di Castelli e colleghi è uno studio interessante, lo abbiamo detto, perché è uno dei pochissimi a essersi
concentrato non su chi detiene il pregiudizio, non su chi ne è vittima, ma su chi lo esprime in una relazione
interpersonale. L’altro elemento di originalità è che non si concentra solo sulle relazioni fra i gruppi, come avviene
di solito, ma su un loro collegamento con le relazioni intragruppo: tajfelianamente, infatti, il partecipante e Marco
appartengono allo stesso gruppo, quello degli italiani, e hanno a che fare con un componente dell’outgroup, quello
degli immigrati nordafricani. E lo studio di Castelli e colleghi mostra che una forma indiretta di discriminazione per
l’outgroup consiste nel favorire implicitamente i membri dell’ingroup che discriminano l’outgroup. Insomma, gli
studi classici avevano mostrato che i rapporti fra i gruppi sono il terreno di coltura di stereotipi e pregiudizi. Questo
studio mostra che il loro terreno di coltura possono essere anche le dinamiche che si innescano dentro i gruppi. Un
altro cambiamento significativo nella storia degli studi psicosociali sul pregiudizio.
VI invito a notare che il processo di conformità a chi esprime pregiudizio è implicito, e cozza con il rifiuto esplicito
che dichiariamo nei suoi confronti. Questo conflitto è probabilmente un mezzo con cui manteniamo intatta la nostra
autostima: ci autoconvinciamo di non sopportare Marco
quando definisce Almad come pigro, arrogante e sporco, ma sotto sotto gli diamo credito. Dopo quelli legati alla
teoria dell’identità sociale, ecco un nuovo link piuttosto interessante fra pregiudizio e autostima.

Conclusione
Eccoci arrivati alla fine del nostro corso di storia della psicologia sociale. In queste lezioni abbiamo visto che cos’è
la psicologia sociale, a che cosa serve, come si è sviluppata, quali specificità ha rispetto alle discipline a essa più
vicine, qual è l’ottica con cui guarda ai fenomeni psicologici e sociali. Abbiamo visto che la sua storia può essere
letta come un dibattito, talvolta addirittura come un conflitto, fra un’ottica che spiega la psicologia e le condotte
individuali appellandosi soprattutto a chi è l’individuo, e un’altra ottica che le spiega appellandosi soprattutto a
dove è l’individuo, e a con chi è.
Nel corso dello sviluppo della disciplina alcune cose sono grandemente cambiate. Lasciate che ve ne identifichi
due delle molte di cui potremmo discutere.
Innanzitutto, nel corso degli anni è cambiato il modello di essere umano postulato dagli psicologi sociali. Visto il
limitato tempo a nostra disposizione, non abbiamo potuto leggere la storia della psicologia sociale con il livello di
dettaglio che avremmo desiderato. E quindi non abbiamo potuto discutere tutti i modelli di persona umana che si
sono avvicendati nella storia dello sviluppo della disciplina. Due però li abbiamo incontrati. Il primo è quello del
primo cognitivismo applicato all’ottica psicosociale, su cui si imperniano gli studi sulla categorizzazione sociale e i
suoi effetti. Secondo questo modello, siamo soprattutto avari cognitivi: persone che, consapevoli della limitatezza
delle loro risorse cognitive, si dedicano a interagire con se stesse e con il mondo cercando di risparmiarne il più
possibile. Molti stati psicosociali, come il pregiudizio, cui abbiamo dedicato un certo approfondimento, e molte
condotte, come la discriminazione, cui abbiamo dedicato altrettanto approfondimento, sarebbero insomma l’esito di
specifiche variabili cognitive.
Attualmente, la psicologia sociale più interessante ci concepisce però in un’altra maniera: soprattutto come attori
attivati. Secondo questa logica, siamo soprattutto impegnati a conoscere noi stessi e il nostro mondo per agire
(ricordate? “thinking is for doing”, secondo una delle principali parole d’ordine degli psicologia sociale cognitivista).
E gli esiti dei processi cognitivi che mettiamo in atto, e delle azioni che compiamo, dipendono, in buona parte, da
come il contesto ci attiva, in maniera coerente con l’antica metafora della mente come rete, con i suoi nodi che,
attivati, attivano, attraverso i loro collegamenti, i nodi a essi legati. Concepire l’essere umano come attore attivato è
quanto di più psicosociale esista, dal momento che dà conto di come il contesto e l’ambiente possano fare da
interruttori che attivano predisposizioni individuali pre-esistenti. Ci torneremo più avanti
La seconda linea di modifica rilevante concerne i metodi di studio della psicologia sociale. Siamo passati da una
affascinante effervescenza metodologica, per cui i problemi psicosociali erano così importanti da fare passare in
secondo piano l’accuratezza delle tecniche con cui studiarli, a una molto più paludata e fredda attenzione ai
dettami della cosiddetta vera scienza. La massima parte della psicologia sociale attuale è una scienza
sperimentale, in cui si mira a ricostruire in laboratorio, ossia in un contesto radicalmente semplificato e
controllato, le condizioni psicologiche vissute dagli individui nel più complesso e difficilmente controllabile mondo
vero.
Le questioni cruciali su cui la psicologia sociale si è modificata nel corso degli oltre 100 anni da quando è stata
ufficialmente fondata sono ovviamente anche molte altre, ma non è questo il luogo per occuparcene.
Preferisco invece discutere con voi delle cose che NON sono cambiate in questo secolo abbondante: per
mostrarvi come la psicologia sociale è molto mutata, si è evoluta, si è trasformata, ma alcuni dei suoi punti
di vista e delle sue istanze più attuali erano già presenti, in nuce, negli studi dei precursori della disciplina.
La prima questione immutata in tutti questi anni è evidentemente l’attenzione della psicologia sociale per gli
argomenti socialmente rilevanti. Abbiamo visto che la disciplina è nata fra la fine dell‘800 e l’inizio del ‘900
cercando di capire come le persone cambiano quando sono con altri rispetto a come sono quando sono da sole, e
come questo può avere delle rilevanti conseguenze sul singolo e anche sulla società. È evidente che i paradigmi
teorici e i metodi di studio sono grandemente cambiati rispetto a quelli usati dai nostri progenitori, ma l’attenzione
a studiare questioni che hanno importanti ricadute, oltre che per i singoli (come è evidentemente nello statuto di
ogni psicologia), anche per le società è sostanzialmente la stessa.
È un’attenzione che affonda le proprie radici nella storia della disciplina e nella traiettoria individuale di molte delle
persone che l’hanno fatta. Due soli esempi dei moltissimi che potrei farvi: uno che vi ho già introdotto nelle
precedenti lezioni e l’altro nuovo per voi. Partiamo da questo. È il caso di Kurt Lewin, uno dei padri della psicologia
sociale. Lewin era un ebreo socialista tedesco scappato negli Stati Uniti per fuggire dal nazismo. E in concomitanza
con la sua fuga, Lewin cambiò radicalmente i propri interessi di ricerca, passando dall’analisi dei processi con cui
noi diamo un significato agli stimoli con cui entriamo in contatto allo studio delle ragioni e delle conseguenze della
dittatura e della democrazia. E come lui, peraltro, fuggirono negli Stati Uniti decine di psicologi sociali europei di
livello altissimo, contribuendo a fare sì che, dal secondo dopoguerra in poi, per lunghi decenni la psicologia sociale
diventasse soprattutto una disciplina americana.
Il secondo esempio è quello di Henri Tajfel ebreo polacco che, come abbiamo visto, passò quasi tutta la seconda
guerra mondiale in un campo di prigionia per militari e, al termine del conflitto, si trovò completamente solo, dato
che tutta, tutta, tutta la sua rete sociale era stata sterminata dai nazisti. E questo lo spinse a fondare la moderna
psicologia sociale del pregiudizio, in un commovente e disperato tentativo di farsi una ragione dell’immane
tragedia che aveva colpito l’Europa e anche la sua vita. Ecco, nel nostro piccolo, stando sulle spalle di questi
giganti, anche noi psicologi sociali contemporanei abbiamo una fortissima spinta a occuparci di questioni
socialmente rilevanti, connaturata alla radice stessa della disciplina che tanto ci appassiona.
Un’altra cosa fondamentale che non è cambiata è l’interesse a fare una ricerca utile a capire come funzionano gli
individui in relazione fra di loro e con il loro contesto. Abbiamo visto che nel corso della storia della psicologia
sociale si sono affiancate, talvolta combattute e per certi versi avvicendate due ottiche, una più concentrata sulle
spiegazioni basate su variabili individuali e l’altra più concentrata sulle spiegazioni basate sulle variabili sociali.
Ebbene, entrambe le ottiche sono ancora vive, usate e diffuse, come abbiamo visto.
Ma, come abbiamo detto all’inizio delle nostre lezioni, la psicologia sociale si trova attualmente di fronte a una
nuova interessantissima opportunità, che è rappresentata dai cosiddetti modelli multilivello. Si tratta di metodi di
analisi statistica tecnicamente molto complessi, che naturalmente non vi racconterò dal punto di vista
matematico, perché non è questa la sede per farlo. Mi basta raccontarvi che questi modelli, sviluppati negli ultimi
20 anni, stanno a ragione cominciando a essere abbastanza diffusi in psicologia sociale. Ed è giusto che sia così,
perché sono i primi modelli di analisi statistica davvero, genuinamente psicosociali, dato che consentono di
spiegare atteggiamenti e comportamenti individuali prevedendoli, nello stesso tempo, in funzione di variabili
individuali, di variabili sociali e della loro relazione.
Mi rendo conto che, detta così, questa cosa può suonare abbastanza oscura, per cui cerco di chiarirla facendo
riferimento a un paio di ricerche che abbiamo recentemente condotto con i colleghi Silvia Russo, dell’Università
di Torino, e Alessio Vieno, dell’Università di Padova.
La prima fa riferimento alla paura del crimine. È ovvio che il crimine è un problema sociale, perché mette a
repentaglio la nostra sicurezza fisica, economica e psicologica. Ma se, come spesso accade, la paura del
crimine è eccessiva rispetto al rischio che corriamo di essere vittima di un atto criminale, anche essa può
essere un grave problema, perché ci porta a investire un eccesso di denaro e di tempo nel tentativo di
proteggerci, ad esempio comprando cani da difesa, assicurazioni e allarmi e così via. Ma anche perché ci
preclude la possibilità di fare una ricca esperienza di vita, allontanandoci da specifiche zone della città e da
persone con cui potremo interagire, spingendoci a non uscire la sera, a non uscire da soli, e così via.
Si tratta allora di capire da che cosa dipende la paura del crimine, anche al fine di pensare a strategie di
intervento per aiutare le persone che sono troppo spaventate a ridimensionare la loro paura riportandola a
livelli adeguati al rischio effettivo che esse corrono.
Ebbene, gli studi fino a qualche anno fa si sono dedicati alla predizione della paura del crimine prevedendola
soprattutto basandosi sulle caratteristiche della persona singola, mostrando che a essere spaventate sono
soprattutto le persone svantaggiate socialmente, ossia le donne, gli anziani, le persone poco istruite, quelle di
basso status socioeconomico e così via.
In maniera molto interessante, la vittimizzazione criminale non ha mostrato di influire sulla paura del crimine:
subire un crimine sembrerebbe non spaventare le persone, il che suona evidentemente abbastanza paradossale.
Questi sono gli studi condotti in ottica individualistica. Sono studi molto interessanti, ma che dimenticano che
evidentemente nello spaventare le persone contano anche le caratteristiche del posto in cui esse vivono, lavorano,
passano il loro tempo libera, amano, si divertono e così via.
Gli studi condotti con ottica focalizzata sul contesto hanno invece usato i territori, e non le persone, come unità di
analisi, mostrando che, in media, le comunità più spaventate sono quelle in cui ci sono i tassi più elevati di degrado
fisico e sociale. Il degrado fisico è misurato tipicamente in termini di diffusione di cassonetti bruciati, edifici diroccati
e abbandonati, graffiti sui muri, lampioni rotti e così via. Il degrado sociale è la sua controparte sociale, e si misura
tipicamente in termini di diffusione, nelle strade, di medicanti, alcolisti, tossicodipendenti, bande di bulli, prostitute.
Ebbene, più è elevata la diffusione di queste due forme di degrado più le comunità sono spaventate. In maniera
almeno in parte sorprendente, la diffusione del degrado spaventa le comunità più della diffusione della criminalità.
Le ragioni di questo risultato sono due. La prima è che il degrado è sotto gli occhi di tutti, basta che guardino a
occhi aperti la loro zona di residenza. Al contrario, la criminalità non lo è: è infatti sotto gli occhi solo di chi l’ha
subita, o direttamente o indirettamente perché una persona della sua rete sociale ne è stata vittima. La seconda
ragione è che il degrado fa sentire solo e abbandonato il cittadino, comunicandogli che la sua zona di residenza non
è presa in carico dalle istituzioni, che se ne disinteressano, e la percezione di questo disinteresse viene usata come
strategia con cui interpreta la realtà, portando i residenti a concludere di essere a rischio di cadere vittima dei
crimini.
Anche questo secondo filone di studi, coerente con l’ottica più “situazionale” della psicologia sociale, è molto
interessante, ma, in maniera speculare al primo, dimentica un pezzo importante. Se il primo dimenticava che, se si
vuole prevedere i loro atteggiamenti e i loro comportamenti oltre che chi sono, conta dove le persone sono e con
chi sono, questo dimentica l’altra faccia della medaglia: per prevedere che cosa pensiamo e come ci comportiamo
conta certo dove siamo e con chi siamo, ma conterà ben anche chi siamo, che cosa ci è successo nella vita e così
via!
Ricorrere ai modelli multilivello ci ha permesso di integrare le due ottiche, mostrando come le variabili individuali e
quelle contestuali concorrono nello spiegare la paura del crimine degli individui. Grazie a questo approccio
statistico, siamo stati in grado di trovare una possibile spiegazione della mancata relazione fra vittimizzazione
criminale e paura del crimine. Le nostre analisi ha mostrato che questa relazione non è uguale per tutte le persone,
ma è condizionata dal contesto in cui esse vivono. La vittimizzazione spaventa infatti le persone, ma non tutte: solo
alcune. Solo quelle che vivono in un contesto molto degradato.
La ragione è che la vittimizzazione criminale, come tutti gli eventi inattesi, ci spinge a cercare di capire perché ci è
capitata. È evidente che solo capendolo possiamo decidere come comportarci in futuro per evitare che ci accada di
nuovo! Come sempre, thinking is for doing.
Se decido che è stato solo uno sfortunatissimo e improbabilissimo colpo di sfortuna, non mi spaventerò e non
cambierò la mia rappresentazione del mondo e i miei comportamenti per difendermi da un evento così raro e
improbabile. Se al contrario decido che è assai probabile che questa bruttissima esperienza mi accada di nuovo, mi
spaventerò e cambierò la mia rappresentazione del mondo e i miei comportamenti, ad esempio comprando un
allarme, un cane da difesa, non uscendo la sera, evitando certe zone, non rispondendo agli sconosciuti che per
strada mi chiedono informazioni e così via. E, appunto, aumentando il livello della mia paura del crimine.
In sostanza, la vittimizzazione criminale ci spinge a guardare con altri occhi, con più attenzione, con più necessità
diagnostiche l’ambiente in cui viviamo. Ed è qui che subentra il ruolo del suo degrado. Se, essendo motivato dalla
brutta esperienza che ho appena fatto, esplorando con occhi nuovi e nuova attenzione il mio ambiente mi rendo
conto che non è degradato, tenderò a non sentirmi a rischio. Viceversa, se esplorandolo con occhi e attenzione
nuova noto il suo degrado, tenderò a spaventarmi. La paura del crimine dei singoli, in questa ottica, non può che
essere spiegata dall’intreccio di esperienze individuali e caratteristiche del contesto.
La nostra seconda ricerca multilivello che vi racconto qui usa ancora la vittimizzazione criminale come variabile
cruciale, prevedendo un’altra variabile individuale come esito dell’intrecciarsi di variabili individuali e sociali.
L’effetto che abbiamo voluto spiegare è il voto a destra delle persone. Un filone di studi molto minoritario sostiene
che “un conservatore è un progressista che è stato rapinato”. Secondo gli studiosi, principalmente americani, che
hanno sviluppato questo filone di indagine, il voto per i partiti di destra potrebbe essere una strategia che le
persone utilizzano per fronteggiare le conseguenze negative della vittimizzazione criminale. La logica sarebbe
questa: subisco un crimine e divento più propenso ad apprezzare e a votare i partiti che, statutariamente,
promuovono politiche di legge e ordine, ossia i partiti di destra.
Ebbene, questa teoria, fino a quando è stata testata con approccio esclusivamente individualistico, non ha mai
trovato una conferma empirica. Fino a quando si predice il voto delle persone basandosi solo sulla loro esperienza
di vittimizzazione, non si trova nessuna relazione fra queste variabili. Se si ragiona a livello esclusivamente
individualistico, dunque, non è vero che un conservatore è un progressista che è stato rapinato.
Ma anche in questo caso i modelli multilivello ci aiutano ad affinare i nostri ragionamenti e le nostre conclusioni.
Abbiamo infatti provato a vedere se anche in questo caso esistesse una relazione fra causa (individuale: la
vittimizzazione criminale) ed effetto (individuale: l’intenzione di voto) condizionata da una variabile contestuale.
Abbiamo provato a usarne due. La prima era il tasso di criminalità della zona di residenza, e l’altra era il suo tasso
di disoccupazione. La logica con cui abbiamo analizzato il ruolo della diffusione della criminalità della zona di
residenza è la medesima di quella relativa al tasso di degrado che abbiamo usato nell’altra nostra ricerca che vi ho
appena presentato. In quest’ottica, la vittimizzazione spinge a esplorare il proprio ambiente e, se porta a puntare il
riflettore su variabili che preoccupano, spinge – razionalmente – a cercare di evitare di ricadere nell’esperienza
negativa. In questo caso, la strategia scelta non sarebbe individuale (mi compro un cane da difesa), ma politica
(voto per un partito di destra, che sento che potrebbe difendermi meglio di uno di sinistra).
La logica dell’analisi del tasso di disoccupazione fa riferimento alla vulnerabilità economica. Secondo la ricerca
psicosociale, ci spaventiamo quando ci sentiamo vulnerabili, quando sentiamo di essere in balia di un mondo
incontrollabile, quando sentiamo di non avere la possibilità di difenderci dagli eventi spiacevoli. Vivere in un posto
con elevati tassi di disoccupazione ci spinge a sentirci vulnerabili, evidentemente: perché i prossimi a non trovare o
a perdere il lavoro potremmo essere noi, o delle persone della nostra rete sociale, e questo renderebbe più gravi le
conseguenze della vittimizzazione. Ebbene, le nostre analisi hanno mostrato che effettivamente un conservatore
può essere un progressista rapinato: lo è se il progressista vive in un posto caratterizzato da un elevato tasso di
disoccupazione.
In definitiva, nella prima di queste due nostre ricerche che vi ho raccontato abbiamo mostrato che il degrado è
l’interruttore che attiva la relazione fra vittimizzazione criminale e paura del crimine. Nella seconda abbiamo
mostrato che un’esperienza privatissima come essere stati vittima di un crimine può avere conseguenze solo
connettendosi con l’esperienza di vivere in un posto economicamente svantaggiato, e che queste conseguenze
hanno ricadute non solo individuali, ma anche politiche.
Niente di più psicosociale, direi. Ma sono serviti circa 100 anni perché la teorizzazione psicosociale fosse affiancata
da dispositivi di ricerca adeguati alla sua ambizione di spiegare gli stati individuali in termini di articolazione fra
dinamiche individuali e dinamiche sociali. Ora i 100 anni sono passati, però, e siamo pronti per aiutare la psicologia
sociale a incamminarsi in una direzione che supera, finalmente, la contrapposizione fra le due ottiche che abbiamo
visto si sono affiancate e talvolta combattute nel corso della storia della disciplina. Le supera o, per meglio dire, le
integra, in uno sguardo che è, finalmente, davvero psicosociale. E mi piace molto terminare questo corso sulla
storia della psicologia sociale con lo sguardo rivolto non al passato, ma al futuro della disciplina.

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