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Turandot mi suggerisce tre aggettivi: meravigliosa, emozionante, problematica.

Meravigliosa perché una favola deve destare prima di tutto meraviglia. In questo senso Puccini cambia il

tono della favola di Gozzi, familiare-colloquiale, e lo rende aulico, nobile e solenne. Semplifica la trama,

settecentesca un po’ farraginosa con tutto il corredo di sparizioni, riconoscimenti e agnizioni varie, e

inventa Liù, mutuata da Adelma, schiava non di Timur bensì di Turandot, ma schiava perfida per gelosia.

Nell’opera tutto ha un respiro aulico, la scenografia stessa sembra sovrastare i personaggi, nella solennità

di rituali immutabili. I personaggi sembrano partoriti in una dimensione onirica, in primis Turandot ( “oh

sogno Oh meraviglia” dice il Principe nel vederla la prima volta) ma anche le maschere, fra il cattivo

l’ironico e il grottesco, incarnano, a partire da quel semplicemente geniale Ping Pong e Pang, tipi umani

appartenenti ad un universale senso del fiabesco, differentemente dal testo originario in cui le maschere

sono tratte dalla Commedia dell’Arte e si chiamano Brighella, Tartaglia, Pantalone e Truffaldino, con

Pantalone che parla addirittura in dialetto veneziano.

Fiaba vera, dunque, in tutte le sue componenti. La luce notturna della luna è di fiaba, simbolicamente

“testa mozza” nell’invocazione del coro, a ricordare con la sua fredda bellezza quella di Turandot e al

tempo stesso sinteticamente le teste mozzate degli spasimanti.

Clima onirico, tanto che nel dire di Turandot “or son mill’anni e mille…. Di stirpe in stirpe….”e nella sfilza

degli amanti decapitati fatta dalle maschere sembra perdersi il senso del tempo, come nelle favole

dev’essere. E la musica è la maggiore meraviglia, di una modernità moderata.

Qualche data: Turandot inizia a essere composta nel 1920. Pelleas et Melisande di Debussy, opera

simbolista opera anti-opera per eccellenza è del 1902, Elektra è del 1909 ed è la punta di massimo

espressionismo di Strauss, che successivamente matura l’idea che un ulteriore indurimento del linguaggio

porterà al dissociamento fra pubblico e compositori, e torna con Rosenkavalier ad un linguaggio più

moderato, più immediatamente tonale. Sagra della Primavera è del 1913, Pierrot Lunaire del 1912 e

Puccini lo ascolta nel 1924 pochi mesi prima della morte alla sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, diretto

dall’autore. Bartok nel 1920 ha già scritto Il Castello del Principe Barbalù e molte altre opere significative.

Un panorama di una ricchezza di novità musicali senza pari, come mai si era visto prima, un’ esplosione di

nuova letteralmente inaudita genialità musicale in tutte le principali “piazze” europee, per tralasciare

l’America che si affacciava sulla scena musicale con un personaggio come Gerswhin.
Puccini accoglie generosamente la modernità di inizio secolo ma resta fedele fino all’ultimo ad una estetica

di tipo ottocentesco. Non esporrà mai in soggiorno i quadri dell’amico Lorenzi Viani, ammirerà quelle

figure contorte ma non faranno mai parte del suo dna artistico.

E si lasciò persino interpellare da Pierrot Lunaire, come dire da distanze siderali. Nella bolgia infernale di

urla e fischi di quella sera, presenti molti musicisti e molti professori del Conservatorio di Firenze, come

ricorda Dallapiccola allora ventenne e presente alla serata, Puccini unico fra tutti quei benpensanti

scandalizzati andò a salutare Schoenberg e gli disse “fort interessant!”.

Anche se Schoenberg fu assai più caloroso nell’ammirazione per l’anziano e celeberrimo Puccini, l’interesse

di questi per la nuova musica nelle sue varie forme fu realmente forte e reale.

Ma mai fino al punto di snaturare la sua concezione del comporre e la sua idea di teatro.

Dopo la serata del Pierrot Lunaire, come ricorda il suo collaboratore Marotti commentò “questa musica

sarà sempre vomitata dall’orecchio umano almeno finchè non subirà trasformazioni radicali”.

Puccini non sopporta la musica senza melodia, tanto che in una delle sue lettere esclama “non si fa più la

melodia o se si fa è volgare” e a proposito di Debora e Iaele di Pizzetti commenta “vi sono cose del

massimo interesse ma quell’abolizione della melodia è un grande sbaglio, perchèquest’opera non potrà

avere lunga vita”. E ancora: “oggi si va verso l’atonalità e si giravolta a piacere, e chi più svia più crede

d’esser sulla strada”. Operista italiano, con tutto l’amore per il canto italiano e la sua luminosa tradizione,

Puccini seppe nondimeno confrontarsi col nascente Novecento. E accolse la modernità, ma riconducendo

tutte le suggestioni musicali di inizio secolo fra loro assai diverse alla sua cifra stilistica, alla sua natura, al

suo senso del dramma e del teatro, senza eclettismo alcuno. Così accoglie l’impressionismo di Debussy e

meglio forse di Ravel, così presente e fascinoso nelle volate degli strumentini nel coro alla luna, e di

Debussy accoglie la lezione di Pelleas attraverso la presenza di elementi simbolisti, accoglie il bitonalismo

di Bartok e Prokofiev, giacchè fin dall’inizio dell’opera abbiamo una scrittura bitonale, con mezza orchestra

che suona in do diesis maggiore e l’altra mezza in re minore.E proseguendo, nella scena delle maschere

primo atto, il la bemolle tonalità di impianto viene “sporcato” dal la maggiore del Principe, stridente

perchè drammaturgicamente stridente.

E così in molti altri luoghi dell’opera. E accoglie anche l’atonalità, come nel “ Non indugiare, Se chiami

appare”, primo atto coro donne, tutto costruito su agglomerati armonici tipo “cluster” in pianissimo, di una
dissonanza non riconducibile ad alcuna forma di dissonanza prevista nel linguaggio tonale.

Dunque il “fort interessant” a proposito del Pierrot non era un complimento di circostanza, Puccini assorbe

come una spugna il nuovo ma lo piega alla sua idea di musica e di drammaturgia.

Drammaturgia di persone vere più che di simboli, musica tutta immersa nel mare magnum della Tonalità,

regno dal quale uscire brevemente e poi rientrare, fra l’altro con una abilità stregonesca.

Da qui la personalissima e appunto “meravigliosa”(nel senso che desta sempre nuova meraviglia) sintesi

che rende Turandot diversa e unica nella produzione di Puccini.

Che non sarebbe lui se l’Emozione non guidasse il percorso.

Emozione estetica, intanto, nelle grandiose scene in cui il coro diventa personaggio di protagonistica

rilevanza drammaturgica, le ultime di siffatta magnificenza uscite dalla penna di un operista. Che diventa

emozione estatica nel coro alla luna, che al pari di Turandot ti scalda per magia con la sua freddezza,

mentre in Liù ritroviamo “la gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose”, quella stessa

che maggiormente ha fatto vibrare le corde di Puccini. Semplice come Mimì e persino più sfortunata della

stessa Butterfly, che pure aveva brevemente conosciuto la felicità dell’amore, Liù conoscerà dell’amore solo

il sacrificio. Per questo la sua morte ci commuove, soprattutto nel “Liù poesia” del coro, forse più di quella

di ogni altra eroina pucciniana. E attraverso la punta di emozione del “vincerò” del Principe, l’unica ma

sincera di questo monocorde personaggio, eroico e solare e cocciutamente pervaso di amore, arriviamo

infine e soprattutto all’emozione legata alla protagonista, e qui l’aggettivo “emozionante” deve

inevitabilmente unirsi all’aggettivo “problematica”.

A mio modo di vedere, o meglio di sentire, c’è un punto in cui si svela la verità di Turandot. Ed è alla fine di

“In questa reggia” quando intona “mai nessun m’avrà….” Qui succede qualcosa di, molto tra virgolette,

“wagneriano”. E’ la musica che svela a noi spettatori la verità mentre le parole sono menzognere.

Wagner usa questa tecnica nella Tetralogia, ad esempio nel Sigfrido svela le menzogne che Mime

racconta a Sigfrido attraverso il commento dell’orchestra.

L’analogia non è proprio esatta perché in quel caso chi mente sa di mentire, e in questo caso invece

Turandot mente anche a sé stessa.

Ma nella sostanza, la musica, così prepotentemente appassionata, è in assoluto contrasto con quanto
enunciato verbalmente, e ci svela che Turandot è fin da subito colpita, ma che l’orgoglio e la paura le

impediscono di cedere. Nella favola di Gozzi lei confessa subito il suo forte turbamento alla schiava

Adelma, la quale Adelma, nel tono confidenziale proprio della pièce, si affretta a risponderle di lasciar

perdere gli enigmi e di prendersi il principe con buona pace di tutti.

E qui sta il nodo del famoso “sgelamento” della principessa, che tanto tormentò Puccini.

Drammaturgicamente non poteva essere solo la morte di Liù a sgelarla, poteva quella morte esserle

“di aiuto”, se così cinicamente si può dire, ma solo se lei avesse già sentito dentro e fin da subito il tanto

represso Amore- Desiderio. E per questo Puccini scrive ai suoi librettisti “mi raccomando il duetto, deve

piombare sugli ascoltatori come un bolide luminoso.…e il bacio che sgela la principessa sia moderno, con la

lingua in bocca!” Così Le cose prendevano forma nella sua mente e lo testimoniano le trentasei pagine di

appunti musicali lasciate.

Quanti hanno sostenuto che Puccini era giunto drammaturgicamente e musicalmente al capolinea e che

al punto in cui era avrebbe avuto artisticamente difficoltà a terminare l’opera, non mi trova d’accordo.

Sono considerazioni con il senno del poi, fatte alla luce della deriva e della diaspora di linguaggi musicali

durante il corso del Novecento.

Ma la partitura di Turandot rivela quanto salda fosse in lui la sicurezza di scrittura nel rapporto fra

Tradizione e Modernità e i suoi scritti quanta convinzione avesse nel voler finire l’opera, e senza tentazioni

radicali, che non facevano parte di uno che come lui non dette mai adito a voler saltare il fosso verso un

teatro dell’assurdo o, al contrario, verso tendenze espressionistiche.

Avrebbe e da par suo terminato l’opera. Da par suo nel senso che secondo me avrebbe fatto rifare

completamente il libretto. I suoi ripensamenti dimostrano che non era soddisfatto drammaturgicamente, e

non poteva esserlo. La morte di Liù è un macigno che cade su tutti, compresi Turandot e il Principe.

Impossibile drammaturgicamente anche in una favola che il Principe si getti in un’invettiva contro Turandot

salvo baciarla d’impeto trenta secondi dopo facendola secca all’istante. Impossibile finire in un clima di

autentica festa dopo un lutto così grande e una prova d’amore, quella della schiava-eroina, al cui confronto

le prodezze e il coraggio di Calaf impallidiscono.

Puccini non poteva finire l’opera senza una profonda e vera presa di coscienza da parte di entrambi

i protagonisti di quanto avvenuto.


Un pò come “Così Fan Tutte” finisce in una falsa allegrezza, dominata dalla dolorosa presa di coscienza da

parte dei quattro ragazzi ,“contentissimi” secondo le parole del libretto ma provati assai dall’esperienza

vissuta, così credo che Puccini avrebbe trovato il modo di finire l’opera in modo credibile, in modo

drammaturgicamente e per forza musicalmente adeguato. A costo di metterci dieci anni, a costo di

scrivere un atto in più, o magari, wagnerianamente, una “seconda giornata”, se fosse stato necessario per

uno sviluppo non ridicolo della vicenda, come in effetti si presenta nella stesura successivamente

terminata da Alfano. Il quale fece quel che potè. Era circolato anche il nome di Respighi come possibile

compositore per terminare l’opera. Toscanini suggerì alla famiglia Puccini di rivolgersi ad Alfano, mentre

sembra che Puccini avesse indicato il nome di Zandonai.

Con il risultato che Alfano fece due finali, il primo e migliore bocciato da Toscanini che ne volle un secondo

più corto e parecchio più brutto, uno lo ha fatto Berio in tempi recenti, ma in nessun caso il

trapasso dal gelo all’amore convince. E non può convincere, intanto per le ragioni drammaturgiche di cui

sopra, fondamentali, e poi perché comunque un buon talento come Alfano non poteva sostituire il

genio di Puccini, e perché un genio della musica del Novecento come Berio, disincantato abilissimo

sperimentatore e manipolatore di linguaggi non poteva calarsi nei panni di un compositore, è bene

ricordarlo, “dell’Ottocento”, che ha scritto fino all’ultima nota aderendo in toto, con la mente e

soprattutto con grande cuore al travaglio dei suoi amati personaggi.

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