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Nato nel 1947 a Garessio tra la Liguria e il Piemonte, in una regione di montagne, grotte e pietre

preistoriche incise, Penone è un artista contemporaneo di fama internazionale. Il suo esordio risale al 1968
con azioni svolte a contatto con la natura, tese a visualizzare e modificare i processi di crescita naturali.

Ma perchè parlare di Penone associandolo all’ENERGIA? Penone è stato definito da molti “l’artista della
natura”, colui che, forse, meglio di chiunque altro nella storia dell’arte contemporanea è stato capace di
connettersi con essa, riuscendo a ritrovare dentro di sé gli elementi naturali che (apparentemente) sono
esterni: il vento, l’acqua, il sole… in una sola parola, l’energia vitale.

La sua produzione artistica si inserisce nel contesto torinese dell’Arte Povera, in equilibrio tra
contemporaneo e antichità, che ha fatto fa dell’uso di materiali “poveri” il fulcro della propria ricerca e
poetica. Con i suoi gesti, Penone, osservatore instancabile delle foreste, ci restituisce le forze nascoste, le
energie iscritte nel legno, invisibili ad occhio nudo. Come nell’opera Continuerà a crescere tranne che in
quel punto (1968-2003), dove la mano dell’artista entra in contatto con un albero per lasciarvi una traccia,
un’impronta che resterà come un segno nella sua crescita e nel suo trasformarsi.

Nell’impronta di Penone sull’albero è racchiusa l’energia stessa che, intervenendo sulla materia, ne
condiziona la forma e il divenire, senza sovrapporsi, ma accompagnandola. Nel gesto dell’artista, l’energia
dell’albero diventa visibile e, con essa, la straordinaria capacità dell’arte di comunicare il sensibile.

Penone ha sempre considerato la natura, la cultura e l’essere umano come delle entità connesse e
indivisibili, e la scultura come una sorta di mezzo per esprimere tali connessioni. Il punto di partenza di
questa riflessione era molto pratico, se vogliamo: il tema del rapporto con la natura era stato toccato
marginalmente dall’arte del Novecento. Ed era un tema che interessava poco o niente le avanguardie:
“tutta l’arte del Novecento”, affermava in quel contesto Penone, “è un’arte che si è sviluppata nell’atelier,
in un contesto urbano, in una dimensione completamente cittadina”. Ed è solo negli anni Sessanta che si
sviluppa l’idea di un ritorno alla natura nonché a una “visione delle cose molto più aperta e meno vincolata
all’idea di un progresso dell’opera d’arte”. Questo ritorno, tuttavia, presupponeva anche un nuovo metodo
di lavoro: l’opera d’arte non era più un oggetto staccato dal contesto, ma diventava parte stessa del
contesto, e la materia non più solo un mezzo, ma oggetto stesso della riflessione dell’artista. Il rapporto tra
natura e cultura è, del resto, centrale non solo per Penone ma per pressoché tutti gli artisti che animarono
il movimento dell’Arte Povera, di cui lo scultore piemontese fa parte fin dagli albori: “povera”, secondo il
termine coniato nel 1967 dal critico d’arte Germano Celant, in quanto presuppone una atteggiamento
(inteso non soltanto come pratica artistica, ma anche nel senso letterale di modo di comportarsi) che
“predilige l’essenzialità informazionale, che non dialoga né col sistema sociale, né con quello culturale, che
aspira a presentarsi improvviso, inatteso rispetto alle aspettative convenzionali, un vivere asistematico, in
un mondo in cui il sistema è tutto”. Essendo quello dell’arte povera un approccio anticonvenzionale, tali
dovranno essere anche i materiali: che diventano quindi “poveri”, appunto.

La ricerca di Penone si distingue fin da subito per l’utilizzo di materiali da una parte presenti in natura (il
legno, l’acqua, la pietra, le foglie, anche la stessa pelle dell’artista), e dall’altra presenti da sempre nell’arte
(la creta, il marmo, il bronzo), per arrivare a quello che era l’obiettivo comune dei poveristi: “creare
situazioni reali sia di energia elementare, sia fisica-chimica sia emozionale-filosofica” (così Carolyn Christov-
Bakargiev nel catalogo della mostra Incidenze del vuoto). Fisica e filosofica (cioè, parafrasando, naturale e
culturale: alla base dell’aggettivo “fisico” c’è il termine con cui gli antichi greci identificavano la natura,
ovvero phýsis, benché per i greci la parola avesse un significato più esteso e indicasse anche l’origine delle
cose, mentre la “filosofia” è, etimologicamente, “l’amore per il sapere”) perché, per gli artisti dell’Arte
Povera, continua Christov-Bakargiev, “natura e cultura sono reciprocamente definite e correlate poiché la
natura (tutto ciò che non è artificiale, non creato dall’uomo, ma nasce spontaneamente) è un concetto
culturale, mentre la cultura non è esente dalla natura ma è soggetto alle sue leggi”. Ed ecco dunque perché
l’interazione tra uomo e natura diventa uno dei fondamenti dell’arte di Penone, fin dalle opere giovanili:
uno dei primi momenti di questa riflessione è la serie Alpi Marittime, fotografie che Penone scatta nel 1968,
a soli ventun anni, per documentare alcune sue azioni compiute nei boschi del suo Piemonte, durante le
quali fissava un calco in metallo della propria mano agli alberi che incontrava nelle sue sortite, a
simboleggiare la capacità dell’uomo d’intervenire sulla crescita degli elementi naturali, senza però essere in
grado di riuscire ad arrestare il corso delle cose, dal momento che la pianta, eccezion fatta per il punto in
cui l’artista ha compiuto la sua azione (un contatto che, perciò, vien quasi serbato come fosse un ricordo),
continuerà a crescere. Così aveva scritto in un disegno legato ad Alpi Marittime: “Sento il respiro della
foresta, / odo la crescita lenta e inesorabile del legno, / modello il mio respiro sul respiro del vegetale, /
avverto lo scorrere dell’albero attorno alla mia mano / appoggiata al suo tronco. / Il mutato rapporto di
tempo rende fluido il solido e solido il fluido. / La mano affonda nel tronco dell’albero che per la velocità
della crescita e la / plasticità della materia è l’elemento fluido ideale per essere plasmato”.

Alpi Marittime, malgrado la sua precocità, è un’opera che riveste una notevole importanza nel percorso
artistico di Penone, perché l’idea dell’uomo che interferisce con la natura tornerà nelle sue ricerche, e in
alcuni casi sarà anche ribaltata, come accade nei Gesti vegetali, serie di opere realizzate tra il 1983 e il 1986.
Sono dei manichini, dalle sembianze umane, che vengono ricoperti di terra e sui quali l’artista lascia
l’impronta delle proprie mani (la stessa impronta è un soggetto ricorrente in Penone: è il segno più tangibile
di un passaggio o di un processo, tanto che l’artista ha messo in evidenza impronte non solo nelle sue
sculture solide, ma anche in quelle “fluide”, realizzate con acqua): sono realizzati in metallo, perché il
metallo, se lasciato in balia degli elementi naturali, si ossida e i suoi colori diventano simili a quelli di un
albero. Questi manichini vengono poi inseriti in ambienti boschivi, così che diventino partecipi dei processi
naturali e così che piante, alberi e vegetali entrino in simbiosi con loro, dato che le sculture si fonderanno
con l’ambiente circostante, e verranno modificate dall’ambiente stesso. Può capitare, per esempio, che una
scultura venga sistemata in un bosco sopra una pianta appena nata, che continuerà a crescere invadendo la
scultura, e la scultura dovrà adattarsi alla crescita della pianta. Di recente, Penone ha provato ulteriori
nuove soluzioni per i suoi Gesti vegetali: alla mostra di Cuneo, i manichini sono stati sistemati entro nicchie
della chiesa di San Francesco, al fine di ricevere luce che possa favorire la crescita dei vegetali sistemati
sopra le opere, anche in assenza di un ambiente naturale.

Le impronte caratterizzano anche una delle più recenti opere di Penone, Dafne, un tronco di un albero,
realizzato in bronzo, che all’interno riproduce le venature del legno dell’alloro e all’esterno è stato
modellato dall’artista con le dita: sulla superficie sono dunque visibili tanti piccoli solchi lasciati dalle sue
mani. Il titolo della scultura, Dafne, richiama il mito raccontato da Ovidio nelle sue Metamorfosi, quello
della ninfa Dafne che, inseguita dal dio Apollo invaghitosi di lei, chiama in aiuto il padre Peneo affinché la
trasformi in una pianta di alloro così da permetterle di sfuggire al dio, accecato dall’irrefrenabile desiderio
di farla sua. Penone ha chiamato così la sua scultura non solo perché il tema della metamorfosi (e quindi
del cambiamento, basilare per l’Arte Povera così come le sensazioni lo erano state per gli espressionisti,
come la compresenza dei punti di vista lo era stato per l’avanguardia cubista, come il movimento lo era
stato per i futuristi, e così via) è alla base tanto della narrazione ovidiana (che comunque interessa poco
all’artista, o meglio: il momento per lui più stimolante è il finale della fiaba) quanto dei processi cui Penone
intende dar forma, ma anche per una sorta di allegorica continuità tra la ninfa e la pianta che, spiega
l’artista, per difendersi dagli attacchi di insetti e altri animali sprigiona un’intensa fragranza che li allontana.

Uno degli aspetti interessanti della riflessione di Penone sta nel fatto che nei confronti dei cambiamenti e
delle mutazioni la sua posizione rimane, in certa misura, distaccata: per sua stessa ammissione, per
esempio, la sua arte è scevra di retorica ambientalista, dal momento che Penone, in diverse occasioni, ha
avuto modo di rimarcare che l’uomo non può distruggere la natura, che continuerà tranquillamente a
compiere il suo corso anche senza l’uomo. Semmai, per Penone l’uomo può modificare l’ambiente
distruggendo risorse, causando l’estinzione di animali, intervendo in maniera radicale e probabilmente
definitiva su certi luoghi (tutte azioni che portano l’uomo, sostanzialmente, a distruggere se stesso): l’essere
umano fa parte della natura e, data tale connessione, ogni azione sulla natura avrà conseguenze anche su
di lui, ma dal punto di vista della natura, l’azione dell’uomo non comporta sconvolgimenti significativi. In
altri termini: è l’uomo che deve preoccuparsi per le sue azioni in quanto in grado di ritorcersi contro di lui,
mentre la natura esisterà anche quando l’uomo non esisterà più. L’uomo, del resto, esiste in quanto vive
nella natura, e Penone ha spesso cercato di dar corpo, attraverso le sue opere, a questa idea di continuità.

Per esempio, con Suture, una scultura in acciaio, plexiglass e terra realizzata tra il 1987 e il 1991: è un’opera
che imita le articolazioni che si trovano tra le ossa del cranio (e che in termini scientifici sono dette,
appunto, suture), e che è sostenuta da una struttura a ipsilon che, al contrario, intende riprodurre la
nervatura delle foglie. Torna così la coesistenza di essere umano ed elemento naturale: “Suture”, dice
Penone nel dialogo con Carolyn Christov-Bakargiev inserito nel catalogo della mostra Incidenze del vuoto,
“rappresenta il cervello dell’albero, come a indicare la continuità tra corpi umani, naturali e architettonici.
La scultura monumentale è modulata sulla forma della struttura cerebrale umana divisa in quattro sezioni
da lame di acciaio, che collegano i punti terminali delle suture. L’opera muove dalla mia intenzione di
realizzare una scultura attraverso un segno, quasi lasciato con una matita. Un tratteggio che imita le suture
craniche, ovvero quelle articolazioni fisse tra le ossa del cranio umano”. Le suture, per adoperare la
metafora di Penone, sono come “foglie del cervello”, e “alterano il proprio volume in conformità a
potenziali deformazioni cerebrali”: in più, tra le suture e la struttura che le sostiene, l’artista ha anche
inserito della terra, quasi come a dire che tutte le riflessioni che l’uomo elabora con il suo cervello partono
dalla natura.

La relazione tra umano e vegetale si esprime poi attraverso il tema dell’albero, più volte declinato da
Penone nelle sue opere. L’albero è del resto una sorta di scultura che già si trova in natura. “Gli alberi”,
sottolineava l’artista nella conversazione con Arabella Natalini, “per me sono un’idea di scultura perfetta, se
si pensa che l’albero è un essere vivente che fossilizza il suo vissuto nella sua forma, e che ogni parte, ogni
singola foglia, ogni singolo ramo è presente per una necessità legata alla sua sopravvivenza, alla sua vita;
non c’è nulla di casuale nell’albero, nulla in eccesso o in difetto, la sua forma è esattamente quello che gli
serve per vivere e per la sua strategia di sopravvivenza. Possiamo chiamare azione il crescere di una foglia,
di un germoglio, di un ramo; tutte queste azioni sono registrate nella sua struttura, quindi il ritrovare la
forma dell’albero all’interno del legno, della materia legno, è, secondo me, una tautologia della scultura
perfetta”. E forse è proprio per il fatto che l’albero memorizza se stesso nella sua forma e per il fatto che è
un essere fluido che continua a crescere per tutta la sua esistenza, che è diventato l’elemento più
riconoscibile dell’arte di Penone, la presenza più frequente nelle sue opere, il soggetto che più si presta a
trasmettere i pensieri dell’artista anche sotto forma di allegorie, come quella che anima la scultura Identità,
metafora d’un incontro: un grande albero scuro e spoglio, di bronzo, sopra al quale l’artista ha inserito una
copia in alluminio, che al contrario è del tutto bianca. Le Identità cui allude il titolo dell’opera sono quelle
dei due alberi, che sembrano speculari, ma in realtà sono diversi, e i loro colori rendono ancor più palese
questa condizione. Eppure, malgrado abbiano caratteristiche per lo più inconciliabili, ci sono dei punti di
tangenza rappresentati dagli specchi inseriti tra i rami, che introducono diversi spunti: lo specchio come
simbolo di saggezza e conoscenza in quanto strumento di autocoscienza, lo specchio come riflessione sulla
simmetria in natura come mezzo di adattamento e sopravvivenza (ovvero i motivi per i quali anche il corpo
umano e la grande maggioranza dei corpi animali sono strutture simmetriche), lo specchio come soglia tra
interiorità ed esteriorità, e via dicendo.

Identità riprende, peraltro, il tema della dualità già affrontato in Matrice, opera del 2015: è un grande abete
in bronzo, di trenta metri di lunghezza, sezionato in orizzontale al fine di ottenerne due parti, scavate poi
seguendo gli anelli concentrici del tronco per ottenere una specie di solco che scorre attraverso il legno
della pianta. Il primo “doppio” che s’incontra in Matrice è quello che si ricava dallo scontro tra il passato e il
presente: il vuoto al centro dell’albero è stato infatti ottenuto con un’azione sugli anelli dell’albero, e quindi
sulla sua storia, dal momento che, come tutti sappiamo fin da bambini, gli anelli del tronco di un albero
indicano la sua età. Il presente che dunque agisce sul passato, oppure lo scava per portarlo a galla: l’azione
di Penone è qui anche simbolo del tempo che scorre. E c’è poi, immancabilmente, anche l’intervento
umano: in un punto del tronco scavato, Penone ha inserito una fusione in bronzo che ricalca la forma
dell’albero, ma che conserva delle “sinuosità antropomorfe”, come spiega l’artista stesso, per dare
evidenza della relazione tra umano e natura. Di nuovo attraverso l’impronta dell’uomo. “Era mia
intenzione”, ha detto Penone, “rendere chiaro che le sezioni longitudinali ricomposte e la scultura di bronzo
formano un’unica identità; ne è segno la carbonatura del legno nella sezione arborea corrispondente.
Ciascuna delle parti che forma l’unità dell’opera porta con sé le tracce del processo”. Matrice introduce
inoltre considerazioni anche sull’essenza stessa della scultura, e non solo perché si tratta di un albero, che,
come s’è visto, è la “scultura perfetta” secondo Penone: le varie parti di cui Matrice è composta, la sua
forma, i trattamenti che ha subito, forniscono a chi osserva l’opera l’immediata percezione dei complicati
processi che stanno alla base della nascita di una qualsiasi scultura, che richiede un’elaborazione più lunga
e complessa rispetto a quella di opere realizzate con altri mezzi (la pittura, per esempio, almeno secondo
Penone: la sua visione “da scultore”, con Matrice, emerge forse più chiara che in ogni altra opera). A
quest’idea si lega nuovamente, in senso quasi circolare, il tema del doppio: intanto perché, tecnicamente,
una scultura è perfettamente riproducibile a partire da un modello, e poi perché la scultura è,
essenzialmente, l’arte dei pieni e dei vuoti.

La presenza dell’assenza, il ruolo del vuoto, sono elementi portanti dell’arte di Penone, fin da Alpi
Marittime, dove il vuoto lasciato dall’azione dell’artista forniva la chiave di lettura per cogliere il senso
dell’opera, passando dai Gesti vegetali, dove il vuoto è lo spazio nel quale arte e natura dialogano, fino ad
arrivare a Identità e Matrice: nella prima il vuoto è il luogo dell’incontro, nella seconda è l’assenza che fa
emergere la storia della pianta. Il rapporto tra vuoti e pieni è, in sostanza, un processo di modificazione,
una metafora che rimanda ulteriormente allo scorrere del tempo e all’alternarsi dei cicli della natura. Ecco
dunque le Incidenze del vuoto secondo Penone, nella mostra che, per la prima volta, dedica un
approfondimento verticale a questo elemento dell’arte dello scultore piemontese: il vuoto è un dato che,
pur nella sua immaterialità, accoglie presenze, racconta storie, dialoga col “pieno”, e di conseguenza guida
la progettualità dell’artista.

E non a caso molti critici hanno insistito sulle qualità architettoniche dell’arte di Penone: del resto, anche un
architetto deve necessariamente tener conto di vuoti e pieni nella progettazione d’un suo lavoro. A Cuneo,
Penone ha cercato un proficuo dialogo con la chiesa di San Francesco, e probabilmente, da artista colto,
deve aver tenuto a mente i proporzionamenti antropometrici di Francesco di Giorgio Martini, che sul finire
del Quattrocento progettava la facciata d’una chiesa secondo le proporzioni del corpo umano. Nell’idea di
Penone, la pianta della chiesa cuneese è in certa misura simile al corpo d’un essere umano: le Suture del
cranio corrispondono all’abside, mentre la lunga Matrice, sistemata lungo la navata centrale, costituisce la
spina dorsale. L’architettura come proiezione d’un’idea si pone pertanto in rapporto diretto con la mente
umana, e quindi con la natura: c’è piena e totale vicinanza tra queste realtà. Penone è avveduto del fatto
che natura e architettura non si contrappongono: perché, di base, non c’è opposizione tra natura ed essere
umano. Occorre solo ricordarlo.

“Non mi sono mai posto il problema di fare un’opera che fosse poesia. Certo, tempo fa se un’opera evocava
sentimento poteva essere vista in maniera negativa. Nello stesso tempo il sentimento che si prova
guardando un’opera è un valore per l’opera stessa e non è soltanto la razionalità che ci fa ricordare o che ci
dà emozioni. L’opera deve essere un buon equilibrio di razionalità – deve nascere per una necessità – e di
sentimento. L’opera deve avere una forte sintesi, altrimenti diventa un racconto dispersivo. L’emozionalità
che appare attraverso l’opera è stata una problematica più della pittura che della scultura.”

La scultura, per lui è "qualsiasi gesto che muta fisicamente un contesto si può considerare scultura. Un
respiro si può considerare scultura perché modifica l’aria che lo circonda”.

L’arte povera interpretata da Penone

Il movimento “arte povera” prende forma nel 1967, durante la mostra Arte povera - Im Spazio, curata da
Germano Celant, nella Galleria La Bertesca a Genova.

Durante gli anni ‘70, Marian Goodman, fondatrice della galleria d’arte Marian Goodman Gallery di New
York, ha contribuito a far conoscere gli artisti dell’arte opere al pubblico americano.

Questa corrente italiana nasce dal rifiuto dei valori culturali e delle tecniche dell’arte classica, connessi alla
società di quell’epoca. Si tratta di un movimento con una connotazione “sovversiva”: più che un linguaggio
artistico, è un’attitudine.

Gli artisti che abbracciano l’arte povera, tra cui Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo, Mario Merz e Giuseppe
Penone, lavorano in maniera indipendente. Ognuno di loro propone una propria interpretazione di arte
povera, utilizzando materiali diversi, ma elaborando tematiche simili.

La ricerca artistica di Giuseppe Penone, contestualizzata a questo movimento, si concentra soprattutto


nell’utilizzo di materiali non convenzionali per l’arte tradizionale (come la pece, la cera, il piombo, il rame, il
legno) e nell’idea, evidente nelle sue opere, che il mondo vegetale, minerale e umano sono connessi tra
loro.

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