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CULTURA

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«STORIA DELLA SHOAH» 26 gennaio 2020 - 20:11

Shoah, indagine sul maleCome e


perché si arrivò all’Olocausto
di ANTONIO FERRARI

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La Shoah (parola ebraica che significa catastrofe) è
certamente l’evento più complesso e mostruoso
avvenuto nel secolo scorso. Complesso perché sui
dettagli delle cause scatenanti gli storici stanno
ancora studiando e discutendo: un lavoro che produce
opere di grande rigore scientifico come quella da
oggi in edicola con il «Corriere». Mostruoso nella
sua unicità storica: cioè la pianificazione,
l’organizzazione e l’esecuzione del genocidio di una
parte della razza umana, senza colpe specifiche, se
non quella d’essere ebraica. Quasi sei milioni di
morti, con l’obiettivo dichiarato di cancellare
dall’Europa tutti gli israeliti.

Di questo feroce sterminio di massa si è saputo


quasi tutto dopo la fine della Seconda guerra
mondiale, alla scoperta dei campi della morte nazisti
che si trovavano soprattutto nella Polonia occupata
dalle truppe del Terzo Reich. Ma i grandi numeri
della barbarie non bastano per descrivere l’orrore
della somma infinita di tanti drammi individuali che i
pochi superstiti per anni non hanno osato raccontare.
Per almeno due motivi: il timore di non essere
creduti, come ha raccontato più volte la senatrice a
vita Liliana Segre; il desiderio di rimuovere quella
tremenda parentesi per potersi ricostruire una vita,
tentando di seppellire i mostruosi fantasmi del
passato.

La filosofa, storica e scrittrice Hannah Arendt,


ebrea tedesca naturalizzata statunitense, nel suo
celebre e discusso libro La banalità del male —
scritto a commento del processo al criminale nazista
Adolf Eichmann — sostiene che «il male non è
radicale ma solo estremo», e che non possiede «né la
profondità né una dimensione demoniaca». Infatti,
«esso può invadere e devastare tutto il mondo perché
cresce in superficie, come un fungo. Soltanto il bene,
invece, ha profondità e può essere “integrale”».

Analisi attenta, che spiega la genesi dei mostruosi


meccanismi che si realizzano e si moltiplicano per la
rabbia collettiva dopo una grave umiliazione,
un’ingiustizia, un tradimento. Numerosi storici
spiegano l’impetuosa ascesa dell’antisemitismo, nella
Germania umiliata alla fine della Prima guerra
mondiale, con la disperata caccia a un colpevole, a un
«capro espiatorio». Che la propaganda urlata e
insistita, diffusa ossessivamente con successo in
quanto semplificava e rendeva il problema
accessibile a tutti, avesse subito trovato i colpevoli è
ormai dimostrato: gli ebrei.

Qui non si tratta di semplice antigiudaismo, come


accadde ai tempi dei Greci e dei Romani, e neppure
soltanto di antisemitismo a carattere religioso, quanto
di autentico razzismo.

La Chiesa, con Pio XI, era stata abbastanza


intransigente verso il nazismo. Atteggiamento
diverso quello di Pio XII, che divenne Papa nel 1939
e che scelse una linea di apparente neutralità. La
prudenza forse era dettata dal timore di evitare
vessazioni o addirittura persecuzioni contro i cattolici
tedeschi. Però va anche ricordato che il Vaticano fu
assai turbato dalla decisione del leader slovacco Jozef
Tiso, un sacerdote alleato del Führer, di deportare in
Germania dal 1942 migliaia di ebrei come forza
lavoro. Il nunzio apostolico a Bratislava intimò a
monsignor Tiso di interrompere le deportazioni. È
assai probabile che l’ordine fosse giunto dal
Pontefice, anche se i critici radicali di Pio XII
sostengono che la decisione fosse un’iniziativa
autonoma del nunzio. Di fatto le deportazioni dalla
Slovacchia furono sospese. Sarebbero riprese nel
1944.

Alcuni gerarchi di Hitler avevano proposto di


deportare tutti gli ebrei nel Madagascar, ma le
sorti della guerra, i costi e la campagna militare
contro l’Unione Sovietica (cominciata nel giugno
1941) avevano imposto scelte alternative. Ecco
dunque disegnarsi il massimo dell’orrore. Il 20
gennaio del 1942, in un castello lussureggiante nel
Parco di Wannsee, alla periferia di Berlino, i gerarchi
di Hitler, guidati da Reinhard Heydrich, feroce
responsabile dell’apparato repressivo delle SS,
decisero e pianificarono la Soluzione finale.
Cinicamente, si voleva evitare ai soldati tedeschi lo
«stress da fucilazione», quindi ci si orientò su tre
iniziative combinate agghiaccianti: «uccisione,
eliminazione, sterminio». Dopo il pranzo si discusse
della quantità di gas necessaria per annientare ogni
giorno il maggior numero di ebrei e altri elementi
ritenuti nocivi, tra cui comunisti, rom, disabili,
omosessuali. Di quell’orrenda riunione sarebbe
rimasto un unico verbale. Heydrich fu ammazzato
cinque mesi dopo a Praga da un commando di
resistenti cechi.

In numerosi Paesi, non furono pochi coloro che,


rischiando la vita, cercarono di salvare gli ebrei. A
Budapest l’italiano Perlasca e lo svedese Wallenberg.
A Istanbul, il nunzio Angelo Roncalli (futuro Papa
Giovanni XXIII), con l’aiuto di un diplomatico del
Reich. A Salonicco il console fascista Guelfo
Zamboni riuscì a impedire la deportazione di tutti gli
ebrei italiani e anche di numerosi ebrei greci,
stampando passaporti temporanei «falsi».

Leggi anche

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Negli ultimi anni il tema della memoria si è


finalmente imposto all’attenzione generale, anche
grazie alla decisione del presidente della Repubblica
Sergio Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana
Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, che da decenni
porta nelle scuole italiane la sua sofferta
testimonianza, invitando a visitare il Memoriale di
Milano, in un angolo sotterraneo e nascosto della
Stazione Centrale, da dove partivano i treni diretti nei
campi di sterminio. È stata la Segre a volere che
all’ingresso del Memoriale fosse scolpita, a caratteri
cubitali, la parola «Indifferenza». L’indifferenza
spesso, anzi quasi sempre, è peggio dell’odio.

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