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Sören Kierkegaard
LA MALATTIA MORTALE
Svolgimento psicologico cristiano di Anti-Climacus
Traduzione di Meta Corssen
Introduzione di Filippo Gentili
Con un saggio di Jean-Paul Sartre
Introduzione
1. Nota nel manoscritto: predica del vescovo Albertini. Cfr. O.L.B. Wolff,
Handbuch deutscher Beredsamkeit, 1845, parte I, p. 293. (Trad.: Signore! dacci
occhi deboli per le cose che non valgono, e occhi pieni di chiarezza per guardare
tutta la tua verità.)
Premessa
Che questo sia così, deriva dal momento dialettico, ché l’io è
una sintesi, per la qual ragione l’uomo è continuamente il suo
contrario. Nessuna forma di disperazione si può determinare
direttamente, cioè non dialetticamente, ma soltanto riflettendo
sul suo contrario. Si può descrivere il disperato nello stato di
disperazione, come fa il poeta, mettendogli in bocca un
discorso. Ma determinare la disperazione si può soltanto
mediante il suo contrario; e se il discorso deve avere un valore
poetico, bisogna che, nel colorito dell’espressione, contenga il
riflesso del contrasto dialettico. Quindi, ogni esistenza umana
che crede di essere diventata infinita oppure soltanto intende di
esserlo, anzi, ogni momento in cui un’esistenza umana è
diventata o intende di essere infinita, è disperazione. Perché
l’io è la sintesi dove il finito è quello che limita, l’infinito
quello che allarga. La disperazione dell’infinito è perciò il
fantastico, l’illimitato; perché soltanto allora l’io è sano e
libero dalla disperazione, quando proprio coll’essersi
disperato, si fonda, trasparente, in Dio.
Il fantastico, certamente, sta nel rapporto più stretto con la
fantasia; e la fantasia, a sua volta, sta in rapporto con il
sentimento, con l’intelligenza, con la volontà, così che un
uomo può avere un sentimento fantastico, un’intelligenza
fantastica, una volontà fantastica. La fantasia è l’elemento per
mezzo del quale l’io si rende infinito; non è una facoltà come
le altre; a volerne parlare in questo modo, essa è la facoltà
instar omnium. Quali siano il sentimento, l’intelligenza, la
volontà di un uomo dipende, in ultima analisi, da quella che è
la sua fantasia, vale a dire dal modo in cui quelle facoltà si
riflettono, cioè dalla fantasia. La fantasia è la riflessione che
rende infinito, perciò il vecchio Fichte suppose molto
giustamente, anche riguardo alla conoscenza, che la fantasia
sia l’origine delle categorie. 1 L’io è riflessione e la fantasia è
riflessione, è riproduzione dell’io, la quale è la possibilità
dell’io. La fantasia è la possibilità di ogni riflessione; e
l’intensità di quest’elemento è la possibilità dell’intensità
dell’io.
Il fantastico è ciò che porta l’uomo verso l’infinito in modo
che, non facendo altro che allontanarlo da se stesso, lo
trattiene dal ritornare a sé.
Se il sentimento diventa fantastico, l’io sfuma sempre di
più, fino a diventare in ultimo una specie di sentimentalità
astratta che non si rivolge più, umanamente, ad alcun uomo
concreto, ma, in un modo inumano, partecipa, per così dire,
sentimentalmente alla sorte di questo o di quell’altro essere
astratto, per esempio l’umanità in abstracto. Come il paralitico
non è più padrone delle sue sensazioni, le quali sono in balìa
del vento e dell’aria, così che egli improvvisamente sente nel
suo corpo se c’è un cambiamento nell’atmosfera ecc., così
colui il cui sentimento è diventato fantastico è in un certo
modo reso infinito, ma non così ch’egli diventi sempre più se
stesso: perché egli perde se stesso sempre di più.
Lo stesso vale per la conoscenza, quando diventa fantastica.
La legge per lo sviluppo dell’io riguardo alla conoscenza, se
l’io diventi veramente se stesso, è che il grado crescente della
conoscenza corrisponda al grado dell’autoconoscenza, ché
l’io, quanto più conosce, tanto più conosce se stesso. Se questo
non avviene, la conoscenza, quanto più cresce, tanto più
diventa un certo conoscere inumano per effettuare il quale si
spreca l’io dell’uomo, quasi come si sprecavano uomini per
costruire le piramidi, e come, in quella musica russa di corni,
si sprecavano gli uomini per una sola battuta, né più né meno.
Se la volontà diventa fantastica, l’io egualmente sfuma
sempre di più. Allora la volontà non si fa sempre nello stesso
grado concreta e astratta, in modo che, quanto più si rende
infinita nel proposito e nella decisione, tanto più diventa se
stessa, tutta presente e concentrata in quella piccola parte del
suo compito che si può eseguire ora, subito; in modo che nel
rendersi infinita essa ritorni nel senso più stretto a se stessa; in
modo che, nel momento in cui è più lontana da se stessa
(quando si è fatta più infinita nel proposito e nella decisione),
essa sia più vicina a se stessa nell’eseguire quella parte
infinitamente piccola del suo lavoro che si può fare ancora
oggi, in quest’ora, in questo attimo.
Così, quando il sentimento o la conoscenza o la volontà è
diventato fantastico, alla fine lo può diventare tutto l’io, sia in
una forma più attiva, in cui l’uomo si slancia nel fantastico, sia
in una forma più passiva, in cui se ne lascia trascinare, ma in
ambedue i casi egli ne è responsabile. L’io conduce così
un’esistenza fantastica in un’infinità astratta o in un
isolamento astratto, sempre in mancanza del suo io, dal quale
si allontana sempre di più. Questo succede, per esempio, nella
preghiera religiosa. Mettersi in rapporto con Dio significa
rendersi infinito; ma, rendendosi infinito, l’uomo può essere
fantasticamente trascinato a tal punto che non ne risulta altro
che una specie di ebbrezza. Può sembrare a un uomo di non
poter sopportare di esistere davanti a Dio perché quest’uomo
non sa ritornare a se stesso, diventare se stesso. Un uomo di
religiosità così fantastica direbbe (per caratterizzarlo per
mezzo di una replica): «Che un passero possa vivere è
comprensibile: esso non sa di esistere davanti a Dio. Ma
sapere che esistiamo davanti a Dio e non impazzire o essere
annientati nello stesso momento!».
Se però un uomo è diventato fantastico in questo modo, e
perciò disperato, egli, sebbene molto spesso il suo stato diventi
manifesto, può pure passare la sua vita molto bene, essere, in
apparenza, un uomo occupato dalle cose temporali, può
sposarsi, mettere al mondo bambini, essere onorato e stimato;
e forse non si accorge nemmeno che, in un senso più profondo,
non ha un io. Di una tal cosa non si fa molto caso nel mondo;
perché dell’io il mondo si cura meno di tutto; e la cosa più
pericolosa per un uomo è mostrare di possederlo. Il pericolo
più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare
così inosservato come se nulla fosse. Nessuna perdita può
passare così inosservata; di ogni altra, perdita di un braccio, di
una gamba, di cinque talleri, della moglie ecc., uno se ne
accorge certamente.
DEBOLEZZA
L’OSTINAZIONE
3. «Sii maledetto, o cugino, che mi hai fatto uscire dalla comoda strada che mi
conduceva alla disperazione!» Kierkegaard cita la traduzione di Schlegel della
tragedia di Shakespeare. [N.d.T.]
5. «E tutt’intorno c’è un bel pascolo verde», parole di Mefistofele che tenta Faust;
Goethe, Faust I, 1479. [N.d.T.]
7. Shakespeare, Richard III, atto IV, scena 4, dove il re fa battere il tamburo per
coprire la voce della madre. [N.d.T.]
8. Allusione alle prime parole della Genesi: «Nel principio Dio creò il cielo e la
terra».
9. Si vedrà del resto (come voglio far notare) proprio da questo punto di vista che
molto spesso ciò che nel mondo si abbellisce col nome di rassegnazione è una
forma di disperazione, cioè quella di voler essere disperatamente il proprio io
astratto, di volersi accontentare disperatamente dell’eterno per poter sfidare o
ignorare il patimento nel terrestre o temporale. La dialettica della rassegnazione
è veramente questa: voler essere il proprio io eterno, e riguardo a un difetto
determinato di cui l’io soffre, non voler essere se stesso, consolandosi col
pensiero che questo deve essere nell’eternità e credendosi perciò autorizzato a
non accettarlo nella temporalità; l’io, pur soffrendone, non vuol ammettere che
faccia parte dell’io, cioè non vuole, credendo, umiliarsi sotto questo difetto. La
rassegnazione considerata come disperazione è così essenzialmente diversa da
quell’altra: disperatamente non voler essere se stesso, perché essa vuole
disperatamente essere se stessa, prescindendo da un particolare, riguardo al
quale disperatamente non vuol essere se stessa.
Parte seconda
LA DISPERAZIONE È IL PECCATO
A. La disperazione è il peccato
Aggiunta
Che la definizione del peccato abbia in sé la possibilità dello scandalo;
un’osservazione generale sullo scandalo
Aggiunta ad A
Ma così il peccato non diventa, in un certo senso, una grande rarità? (La morale)
3. Faust, parte I, v. 3373, alla fine della scena «Wald und Höhle» (caverna nella
foresta). [N.d.T.]
4. Atto II, scena 2: «Fin da ora non c’è più niente di serio nella vita; tutto è futilità,
morte sono gloria e grazia». (Traduzione di Schlegel-Tieck; testo originale:
«From this instant, There’s no thing serious in mortality, All is but toys, renown
and grace is dead».) [N.d.T.]
7. Si è abusato spesso della dottrina del peccato del genere umano perché non è
stato notato che il peccato, pur essendo comune a tutti, non unisce gli uomini in
un concetto comune, in società o compagnia («così poco come, fuori del
cimitero, la moltitudine dei morti forma una società»), ma li disgrega in singoli o
tiene isolato ogni singolo come peccatore, isolamento che, in un altro senso,
corrisponde anche teologicamente alla perfezione dell’esistenza. Siccome questo
non era stato notato, si è insegnato che il genere umano, caduto una volta per
sempre, era tornato buono mediante il Cristo. E così, di nuovo, si venne a
importunare Dio con un’astrazione che, come astrazione, pretende di essere con
lui in affinità più stretta. Ma questo è un pretesto che non serve ad altro che a
rendere sfacciati gli uomini. Perché se «il singolo deve sentirsi in affinità con
Dio» (e questa è la dottrina del cristianesimo), egli ne subisce anche tutto il peso,
in timore e tremore, dovendo scoprire, se questa non fosse una scoperta vecchia,
la possibilità dello scandalo. Ma se il singolo deve giungere a questo stato
glorioso attraverso un’astrazione, il compito diventa troppo facile e l’affinità con
Dio, in fondo, è resa vana. Allora il singolo non sente il peso immenso di Dio
che, umiliandolo, tanto lo abbassa quanto lo eleva, ma egli s’illude di poter avere
tutto senz’altro, partecipando a quella astrazione. Per la esistenza dell’uomo non
vale come per quella degli animali che l’esemplare è sempre meno della specie.
L’uomo si distingue da altre specie di animali non solo per i pregi che di solito si
enumerano ma, qualitativamente, per il fatto che l’individuo è più della specie. E
questa determinazione è di nuovo dialettica, perché significa che il singolo è
peccatore, ma anche, d’altra parte, che essere il singolo è la perfezione.
10. Ecco perché Dio è «il giudice»: perché davanti a lui non esiste la massa, ma
soltanto i singoli.
16. Questo caso si verifica ora quasi dappertutto nella cristianità, la quale, come
sembra, o ignora del tutto che fu il Cristo stesso che sempre di nuovo, con
fervore così intimo, metteva in guardia contro lo scandalo, persino verso la fine
della sua vita, i suoi fedeli apostoli che l’avevano seguito fin da principio, e per
amor suo avevano lasciato tutto; o ritiene persino tacitamente che questa sia una
premura esagerata di Cristo, giacché l’esperienza di migliaia e migliaia di
persone dimostra che si può aver fede in Cristo senza accorgersi per niente della
possibilità dello scandalo. Ma questo potrebbe essere un errore che certamente
diventerà manifesto quando la possibilità dello scandalo si presenterà per
giudicare il cristianesimo.
17. Qui si presenta un piccolo compito per osservatori. Se si suppone che tutti i
pastori, numerosi qui e all’estero, i quali tengono e scrivono prediche siano
cristiani credenti, come si spiega che non si sente o legge mai una preghiera che,
soprattutto nei nostri tempi, sembrerebbe così ovvia: «Dio del cielo, ti ringrazio
che tu non abbia chiesto all’uomo di comprendere il cristianesimo, che se fosse
chiesto questo, io sarei il più miserabile di tutti. Più cerco di comprenderlo, più
incomparabile mi sembra, e più scopro la possibilità dello scandalo. Perciò ti
ringrazio che tu chieda soltanto la fede, e ti prego che me la voglia sempre
accrescere». Questa preghiera, dal punto di vista ortodosso, sarebbe
perfettamente corretta e, presupposto che fosse sincera in colui che prega,
sarebbe, nello stesso tempo, ironia corretta riguardo a tutta la speculazione. Ma
si troverà la fede in terra?