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INTRODUZIONE

Il diritto commerciale è la parte del diritto privato che attiene ai rapporti economici, cioè allo svolgimento di una
attività economica di produzione e di scambio.
Questa connessione del diritto commerciale con l’attività produttiva non è sorta ora: il diritto commerciale volto alla
produzione nasce nell’alto medioevo, dopo il feudalesimo quando cominciano a sorgere dei rapporti di produzione
tra i comuni italiani. In questo periodo storico si hanno tutta una serie di attività economiche svolte da particolari
categorie di soggetti per i quali il diritto romano non era più adatto. Nasce dunque una disciplina che non trova una
fonte di diritto codificato in leggi, ma che nasce come un diritto consuetudinario.
Un fenomeno del genere si ripresenta ora per quanto concerne i rapporti commerciali tra soggetti che risiedono in
nazioni diverse, in quanto è necessario stabilire se applicare le norme della nazione dell’acquirente o quelle della
nazione del venditore; la soluzione consta nell’applicazione di una serie di norme consuetudinarie.
La consuetudine dei mercati fa sorgere determinati istituti che si applicano a determinati soggetti, vengono fuori
istituti che hanno grande impatto sulla realtà. Il diritto commerciale è quindi una categoria storica che varia a seconda
delle condizioni economiche di un determinato luogo in un determinato tempo.
Esempio di istituto particolare è la cambiale che nasce per rispondere alle esigenze sorte nelle fiere internazionali:
commercianti che risiedevano in comuni diversi avevano problemi nella determinazione del prezzo poiché le valute
erano differenti. Questa operazione di cambio di moneta e pagamento di merci fu risolto con l’istituto della cambiale,
attualmente utilizzato per la circolazione di credito.
Altro istituto fondamentale di quel periodo consiste nel superamento del divieto delle usure, termine che presenta
una connotazione diversa da quella attuale (pagamento di interessi sul prestito di denaro calcolando interessi in
maniera superiore alla soglia determinata dal legislatore). In quel periodo l’usura era la previsione degli interessi sul
prestito di denaro, procedura vietata poiché chi ricorreva al prestito era il contadino bisognoso allo scopo di
sopravvivere, in questa prospettiva gli interessi erano considerati come un ulteriore danno.
La situazione si modifica quando è il commerciante a richiedere denaro per investirlo nella propria attività, diventa
dunque comprensibile la presenza dell’interesse allo scopo di partecipare al vantaggio tratto dal commerciante.
In questo periodo lo svolgimento dell’attività economica è alle origini, ma con il passare del tempo e con l’evolversi
della situazione politica ed economica il centro dei rapporti passa dai comuni agli stati nazionali; in questo ambito il
diritto commerciale diventa più ampio.
Dopo la scoperta dell’America, vediamo che il fenomeno diventa più europeo e il diritto commerciale acquista una
maggiore ampiezza perdendo il carattere consuetudinario grazie anche all’intervento di leggi emanate da sovrani (Luigi
XIV). In seguito alla scoperta di Colombo, si avvia lo sfruttamento di queste terre che avviene da parte degli stati
coloniali attraverso la formazione delle compagnie, la più famosa delle indie orientali, cioè delle entità che avevano il
riconoscimento per poter sfruttare quel territorio. Per questi viaggi era necessario acquisire un grosso patrimonio,
difficilmente fornito da un solo soggetto, allo scopo si forma un ente collettivo che aveva bisogno del riconoscimento
dell’autorità governativa, riconoscimento funzionale all’acquisto della personalità giuridica; si formano dunque le
prime forme di società, caratterizzate da:
- Un soggetto giuridico, creato con il riconoscimento da parte dello stato, capace di agire in maniera distinta dalle
persone fisiche.
- Distinzione tra società e patrimonio: la responsabilità dell’acquisto e della rivendita delle merci va in capo alla
compagnia coloniale, non rispondono quindi i patrimoni dei singoli soci e i creditori possono rivalersi solo sul
patrimonio societario.
- Il patrimonio viene raccolto spedizione per spedizione e gli utili acquisiti vengono distribuiti alla fine di ogni singola
spedizione.
- La partecipazione alla compagnia è definita azione, in quanto indica il potere del singolo socio di agire
processualmente per ottenere i diritti che conseguono alla qualità di socio.
In questo contesto si costituisce la borsa, mercato dove si scambiano le azioni delle compagnie coloniali e nascono le
prime banche, soggetti che prestano denaro a soggetti privati.
Nel 1800 con Napoleone abbiamo una maggiore attenzione ai fenomeni commerciali, attraverso un fenomeno di
codificazione e di separazione tra codice civile e codice commerciale, dove il primo tutela la proprietà sul bene e il
secondo attiene ai rapporti di commercio e produzione; distinzione tra i codici osservata anche dall’Italia nel 1865.
In questo periodo le forme societarie si evolvono con la rivoluzione industriale e il diritto commerciale si modifica in
relazione alle nuove realtà economiche che si vengono a creare.

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La codificazione viene modificata nel 1882:
- Mantenendo la distinzione tra codici.
- Definendo in maniera precisa il commerciante: colui che compie atti di commercio (compravendita, prestiti o altri
atti) che conseguono un intento speculativo e in quando tale è assoggettato alla disciplina del codice.
- Disciplinando tutte le società di persone e capitali con forme meno complesse delle attuali, ma con alcune
intuizioni riprese dalla riforma del 2003.
La riforma del 1942 presenta una novità assoluta rispetto agli altri paesi perché in Italia c’è l’unificazione dei codici:
gli atti di commercio non hanno più rilievo se a fini speculativi o meno, quindi chiunque compia l’atto,
indipendentemente dalla categoria di soggetto, è assoggettato al codice.
All’interno del c.c. vi è una normativa precisa in tema di impresa e in tema di società, normativa che con la costituzione
dell’unione europea ha subito modifiche allo scopo di produrre norme comuni; una modifica rilevante è la direttiva
antitrust, che ha definito il mercato come luogo di produzione o scambio di merci che deve avere regolamentazione
per garantire che all’interno del mercato ci siano più concorrenti e non il monopolio o l’oligopolio.
Il diritto commerciale sorge e si evolve perché legato ad una realtà economica: nell’ultimo secolo diventa tipico di
ciascuno stato e subisce le influenze di una normativa comune tra paesi, con lo scopo di garantire l’uniformità di
legislazione tra i diversi paesi, per non portare a scegliere la disciplina più vantaggiosa e per non ledere gli interessi dei
terzi.
CAPITOLO PRIMO – L’IMPRENDITORE
1. Il sistema legislativo. Imprenditore e imprenditore commerciale.
La disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore, definita nell’art. 2082. La disciplina
però non è identica per tutti gli imprenditori, il c.c. distingue diversi tipi di imprese e imprenditori in base a tre criteri:
a) L’oggetto dell’impresa: determina distinzione tra imprenditore agricolo e commerciale
b) La dimensione dell’impresa: enuclea la figura del piccolo imprenditore e dell’imprenditore medio-grande
c) La natura del soggetto che esercita l’impresa: determina la distinzione tra impresa individuale, impresa pubblica
e impresa costituita in forma di società.
La distinzione è importante poiché vi sono diverse discipline per le diverse tipologie di impresa:
- Statuto generale dell’imprenditore: contiene norme che fanno riferimento all’imprenditore senza ulteriori
specificazioni, applicabili dunque a tutti gli imprenditori.
- Statuto dell’imprenditore commerciale: che comprende istituti applicabili a imprenditori non commerciali (società)
e altri non applicabili a determinati imprenditori commerciali (piccoli e pubblici), è uno statuto (integrativo di
quello generale) proprio dell’imprenditore privato commerciale non piccolo.
- Poche sono invece le disposizioni riferite all’imprenditore agricolo e al piccolo imprenditore poiché la loro qualifica
si limita a delimitare l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, così come la distinzione
tra impresa individuale, pubblica e società.
Essendo l’imprenditore commerciale una categoria della figura generale dell’imprenditore, bisogna partire dalla
nozione generale di imprenditore per identificare l’imprenditore commerciale.
2. La nozione generale di imprenditore.
“È imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi” (art. 2082).
Tale nozione si richiama al concetto economico di imprenditore, questa derivazione economica però non implica una
coincidenza tra la nozione giuridica e quella economica poiché i compiti dell’economista e del legislatore sono
differenti.
L’economista identifica la figura dell’imprenditore commerciale nel soggetto che nel processo economico svolge
funzione intermediaria fra chi dispone dei necessari fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Nello
svolgimento di tale funzione l’imprenditore coordina organizza e dirige il processo produttivo (funzione organizzativa)
assumendosi il rischio relativo; l’esposizione al rischio d’impresa giustifica il potere direzionale dell’imprenditore e
l’acquisizione dei profitti, che costituisce il tipico movente dell’attività imprenditoriale.
Il compito del legislatore invece è di fissare i requisiti minimi necessari e sufficienti che devono ricorrere perché un
dato soggetto sia esposto alla disciplina dell’imprenditore; questo compito è assolto fissando con l’art. 2082 i requisiti
necessari per l’acquisto della qualità di imprenditore. È quindi sulla base di tale nozione che va tracciata la distinzione
tra chi è imprenditore e chi no e dalla quale si ricava che l’impresa è attività, ossia una serie coordinata di atti unificati
da una funzione unitaria, caratterizzata da:
- Uno specifico scopo: produzione o scambio di beni o servizi.
- Specifiche modalità di svolgimento: organizzazione, economicità e professionalità.
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Si discute tuttavia se siano necessari altri requisiti, non enunciati espressamente, che determinino attività d’impresa
e acquisizione della qualità d’imprenditore:
- L’intento dell’imprenditore di ricavare un profitto dell’esercizio dell’impresa
- La destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti
- La liceità dell’attività svolta
Si tenga infine presente che i requisiti posti dall’art. 2082 sono rilevanti ai fini della nozione civilistica di imprenditore,
requisiti solo tendenzialmente coincidenti con quelli fissati da altri settori del diritto. Non esiste quindi la nozione
d’impresa ma le nozioni d’impresa (civilistica, tributaria e comunitaria).
3. L’attività produttiva.
L’impresa è attività finalizzata alla produzione e allo scambio di beni o servizi. È attività produttiva anche l’attività di
scambio in quanto volta ad incrementare l’utilità dei beni spostandoli nel tempo e/o nello spazio.
Per qualificare un’attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati: è impresa
anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa.
Non vi è incompatibilità fra attività di godimento o amministrazione di determinati beni o del patrimonio del soggetto
ed impresa:
- è attività di godimento e produttiva quella del proprietario di un fondo agricolo che lo destini a coltivazione.
- è godimento e produzione di servizi l’attività del proprietario dell’immobile che lo adibisca ad albergo; le
prestazioni locative sono accompagnate dall’erogazione di servizi collaterali che eccedono il mero godimento del
bene. Situazione diversa, non impresa ma mero godimento, è quella del proprietario che gode dei frutti
dell’immobile concedendolo in locazione, poiché qui non si ha l’erogazione di servizi collaterali.
- è godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione l’impiego di proprie disponibilità
finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari con intenti di investimento o di speculazione, o nella
concessione di finanziamenti a terzi se ricorrono i requisiti dell’organizzazione e della professionalità. Sono dunque
imprese commerciali le società d’investimento che impiegano proprio patrimonio nella compravendita di titoli per
offrire dividendi ai soci, le società finanziarie che erogano credito con mezzi propri e le holdings. Stessa conclusione
qualora queste attività siano svolte da una persona fisica, solo che bisogna stabilire se tali attività rivestono
carattere professionale e organizzato.
4. L’organizzazione.
“L'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa” (art. 2555).
Il legislatore qualifica l’impresa come attività organizzata quando la funzione organizzativa dell’imprenditore si
concretizza in un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e beni strumentali.
La qualità di imprenditore non può essere negata:
- Quando l’attività è esercitata senza l’ausilio di altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate: si pensi alla
gioielleria gestita dal solo titolare o ad imprese produttrici di servizi automatizzati come le lavanderie automatiche.
- Quando il coordinamento di capitale e lavoro proprio non si concretizzi nella creazione di un complesso aziendale
materialmente percepibile (locali, macchinari…): è vero che non può esserci impresa senza l’impiego e
l’organizzazione di beni materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi finanziari, come nel caso di
attività di finanziamento ed investimento.
5. Impresa e lavoro autonomo.
“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano
un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia” (art.
2083).
“Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente
proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo
(lavoratore autonomo)” (art. 2222).
Per aversi impresa sia pure piccola è necessario un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale. In mancanza
si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale, fin quando cioè non si può ritenere superata la soglia della
semplice autorganizzazione del proprio lavoro. Semplici lavoratori autonomi restano i prestatori d’opera manuale, i
mediatori e gli agenti di commercio fin quando si limitano ad utilizzare mezzi strumentali allo svolgimento di ogni
attività (telefono, automobile), o strettamente necessari all’esplicazione delle proprie energie lavorative (borsa degli
attrezzi dell’idraulico).
6. Economicità dell’attività.
Ciò che qualifica un’attività come economica non è solo il fine produttivo, ma anche il metodo con cui essa è svolta.
L’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico quando è tesa al procacciamento di entrate e svolta
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con modalità che consentono la copertura dei costi con i ricavi; questo è il significato da attribuire all’espressione
“attività economica” nella nozione generale di imprenditore. Non è perciò imprenditore chi produce beni o servizi
erogati gratuitamente o a prezzi che escludono la possibilità di coprire i costi con i ricavi.
7. La professionalità.
Rappresenta l’ultimo dei requisiti richiesti dall’art. 2082 ed è intesa come l’esercizio abituale e non occasionale di una
data attività produttiva, ciò però non implica che l’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in
modo continuato e senza interruzioni. Non è perciò imprenditore chi compie un’isolata operazione di acquisto e di
successiva rivendita di merci; per le attività stagionali (stabilimenti balneari) è sufficiente il costante ripetersi di atti
d’impresa secondo le cadenze proprie di quel dato tipo di attività.
La professionalità non implica neppure che l’impresa sia l’attività unica o principale: è imprenditore anche il soggetto
che, parallelamente alla professione principale, gestisce un negozio. Impresa si può, infine, avere anche quando si
opera per il compimento di un unico affare quando questo, per la sua rilevanza economica, implichi il compimento di
operazioni molteplici e complesse.
La professionalità va accertata in base ad indici esteriori ed oggettivi: non sempre è però necessaria la reiterazione
degli atti d’impresa, in quanto indice di professionalità può anche essere la creazione di un complesso aziendale idoneo
allo svolgimento di un’attività potenzialmente stabile e duratura. Ovviamente i concetti di organizzazione e
professionalità sono distinti poiché si può avere esercizio non professionale di una attività organizzata.
8. Attività d’impresa e scopo di lucro.
Bisogna valutare se devono ricorrere altri requisiti oltre quelli espressi dal legislatore per qualificare un imprenditore.
Prima valutazione riguarda lo scopo di lucro: è negabile la qualità di imprenditore e l’applicabilità della relativa
disciplina quando ricorrono tutti i requisiti dell’2082 ma manca lo scopo di lucro?
La risposta è negativa se si considera il lucro come movente psicologico dell’imprenditore, ossia il lucro soggettivo,
poiché la disciplina dell’impresa, in quanto volta alla tutela dei terzi, deve fondarsi su dati esteriori ed oggettivi.
Passo successivo è valutare se sia necessario che le modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi eccedenti
i costi (metodo lucrativo) o se sia sufficiente che l’attività venga svolta secondo modalità oggettive tendenti al pareggio
tra costi e ricavi (metodo economico). Molti indici legislativi evidenziano che è sufficiente il solo metodo economico:
- Impresa pubblica: è tenuta a rispettare criteri di economicità ma non deve e non può realizzare profitti
- Società cooperativa: è finalizzata allo scopo mutualistico e non al conseguimento di ricavi eccedenti i costi
- Impresa sociale: svolge un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi
ma vi è un esplicito divieto alla distribuzione degli utili in qualsiasi forma ai soci, amministratori, lavoratori…
Per continuare a sostenere la necessità dello scopo di lucro in questi casi bisogna etichettare come scopo di lucro
anche ciò che tale non è, ossia il vantaggio patrimoniale dei soci di una cooperativa e il criterio di economicità delle
imprese pubbliche. Il requisito essenziale dell’attività d’impresa è quindi solo l’economicità e non lo scopo di lucro, la
qualità di imprenditore dunque deve essere riconosciuta sia alla persona fisica che a fondazioni ed associazioni con
scopo ideale o altruistico.
9. Il problema dell’impresa per conto proprio.
Può considerarsi imprenditore anche chi produce beni o servizi destinati ad uso o consumo personale? La destinazione
al mercato della produzione non è richiesta da alcun dato legislativo; possono considerarsi imprese per conto proprio:
- La coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della sua famiglia
- La costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita, in questo caso ricorrono le esigenze di tutela del
credito per esempio nei confronti dei fornitori dei materiali per la costruzione.
L’applicazione della disciplina dell’impresa non si può far dipendere dalle mutevoli intenzioni di chi produce, ma deve
fondersi esclusivamente sui caratteri oggettivi fissati dal 2082:
- Il costruttore deve essere qualificato come imprenditore commerciale dato che sono irrilevanti le sue intenzioni
di vendere, di locare o destinare a propria abitazione l’immobile
- Il coltivatore sarà imprenditore agricolo, indipendentemente dalla destinazione data ai prodotti, a seconda della
presenza o meno dei reali requisiti oggettivi dell’attività d’impresa.
10. Il problema dell’impresa illecita.
La qualità di imprenditore può essere riconosciuta quanto l’attività svolta è illecita, cioè contraria a norme imperative,
all’ordine pubblico e al buon costume? È da ritenersi che l’illiceità dell’attività precluda l’esistenza di impresa e
l’applicazione della relativa disciplina?
Indubbiamente l’illecito va represso e sanzionato: è paradossale che il titolare d’impresa illecita possa invocare tutela
contro gli altrui atti di concorrenza sleale. Non si può però trascurare il fatto che un’attività d’impresa illecita può dar

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luogo al compimento di una serie di atti leciti e validi, non ci sono ad esempio dubbi in merito alla validità degli atti
d’acquisto di merci da parte di un commerciante senza licenza o degli atti di raccolta compiuti da un banchiere di fatto.
È opportuno distinguere tra:
- Impresa illegale: casi meno gravi in cui l’illiceità dell’impresa è determinata dalla violazione di norme imperative
che ne subordinano l’esercizio a concessione o autorizzazione amministrativa, ossia banca di fatto, commercio
senza licenza… Tale tipo di illecito non impedisce l’acquisto della qualità d’imprenditore e con pienezza di effetti,
favorevoli e non ad egli, come l’esposizione al fallimento.
- Impresa immorale: casi in cui l’illecito caratterizza l’oggetto dell’attività, come il contrabbando o la fabbricazione
di droga, nei quali si applica un principio generale dell’ordinamento: da un comportamento illecito non possono
mai derivare effetti favorevoli per l’autore dell’illecito o per chi ne è stato parte, perciò potrà fallire al pari di tutti
gli altri imprenditori commerciali. In questo ordine di idee non c’è motivo per non applicare questo principio anche
nei casi, seppur meno gravi, di impresa illegale
11. Impresa e professioni intellettuali.
Le professioni intellettuali (avvocati, notai, ingegneri…) sono attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale
è esclusa in via di principio dal legislatore; ciò si desume dal 2238 il quale stabilisce che le disposizioni in tema d’impresa
si applicano alle professioni intellettuali solo se “l’esercizio delle professione costituisce elemento di una attività
organizzata in forma d’impresa”, ossia solo se la professione intellettuale è esplicata nell’ambito di altra attività
qualificabile come impresa. Questo è il caso del medico che gestisce una clinica privata nella quale opera, dove si avrà
l’applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia della disciplina dettata per la professione intellettuale, sia della
disciplina dell’impresa.
Il professionista intellettuale non diventa mai imprenditore e lo si desume dallo stesso 2238:
- sia nell’ipotesi in cui non superi la soglia dell’autorganizzazione del proprio lavoro
- sia nell’ipotesi in cui si avvalga di una vasta schiera di collaboratori e di un complesso apparato di mezzi materiali
I professionisti non sono imprenditori per libera opzione del legislatore, ispirata dalla particolare considerazione
sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali e che si traduce sul piano legislativo in una disciplina
peculiare che si concretizza in una particolare regolamentazione all’accesso alla professione e del suo esercizio:
- Iscrizione negli albi professionali (art. 2229)
- Potere disciplinare anche per quanto riguarda le tariffe e gli onorari (art. 2229)
- Divieto di esercizio per i non iscritti agli albi professionali (art. 2231)
- Esonero dei professionisti intellettuali dallo statuto dell’imprenditore, con i suoi vantaggi (sottrazione al
fallimento) e svantaggi (inapplicabilità della disciplina dell’azienda, dei segni distintivi e della concorrenza sleale)
Quanto fin qui esposto vale solo in presenza di attività qualificabile come esercizio di professione intellettuale, nella
pratica però non è sempre agevole stabilire se una data attività ricada nell’ambito di applicazione del 2238; a tal fine
non bisogna dare rilievo solo all’etichetta legislativa di professione intellettuale (criterio formale), ma soprattutto al
carattere propriamente intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale). Il farmacista dunque è imprenditore
commerciale poiché oggetto prevalente della sua attività è la vendita al pubblico di prodotti acquistati dalle case
produttrici, tra farmacista e clienti intercorrono quindi rapporti di compravendita e non di prestazione d’opera
intellettuale.
CAPITOLO SECONDO – LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI
A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE
1. Il ruolo della distinzione.
Imprenditore agricolo (art. 2135) ed imprenditore commerciale (art. 2195) sono distinti dal c.c. in base all’oggetto
dell’attività. L’imprenditore commerciale è destinatario di un’ampia disciplina fondata:
- Sull’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese
- Sull’obbligo della tenuta delle scritture contabili
- Sull’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
La nozione di imprenditore agricolo ha valore negativo e restringe l’ambito di applicazione della disciplina
dell’imprenditore commerciale; l’imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l’imprenditore in
generale ma:
- È esonerato dalla tenuta delle scritture contabili
- Non fallisce e non è soggetto alle altre procedure concorsuali dell’imprenditore commerciale, eccezione fatta per
gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ma può accedere alle procedure concorsuali da sovraindebitamento
- Era esonerato dall’iscrizione nel registro delle imprese, ma è stata introdotta prima con semplice funzione di
pubblicità notizia nel 1993 e successivamente, nel 2001, anche con funzione di pubblicità legale, identica a quella
prevista per gli imprenditori commerciali.
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2. L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali.
Il testo originario dell’art. 2135 stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione
del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano attività connesse le attività
dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell’esercizio normale
dell’agricoltura”. Le attività agricole possono perciò essere distinte in attività agricole essenziali ed attività agricole
per connessione; distinzione mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo introdotta nel 2001, che
ha però ampliato le due categorie rispetto al testo originario.
Coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame hanno subito una profonda evoluzione dal 1942 ad oggi
a causa dell’industrializzazione dell’agricoltura, che utilizza prodotti chimici, che controlla ed accelera i cicli biologici
naturali attraverso tecniche sempre più sofisticate e che talvolta prescinde dallo sfruttamento della terra e dei suoi
prodotti, si pensi alle coltivazioni fuori terra e agli allevamenti in batteria. L’attività agricola può dunque dar luogo ad
ingenti investimenti di capitali e sollevare esigenze di tutela del credito non diverse da quelle alla base della disciplina
dell’imprenditore commerciale, l’esonero da questa disciplina è perciò scelta legislativa.
L’attuale art. 2135 ribadisce che “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del
fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per
allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase
necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le
acque dolci, salmastre o marine.”
In base alla nuova nozione la produzione di specie animali e vegetali è attività agricola essenziale anche se realizzata
con metodi che prescindono dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti.
- Coltivazione del fondo: sono incluse nelle attività agricole anche le coltivazioni fuori terra
- Selvicoltura: intesa come cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti, l’estrazione di legname non costituisce
quindi attività agricola
- Allevamento di animali: il criterio del ciclo biologico include nelle attività agricole l’allevamento in batteria svolto
fuori dal fondo e non rende necessario che gli animali siano alimentati con mangimi naturali ottenuti dal fondo;
nella nozione di allevamento rientra anche l’allevamento di cavalli da corsa o di animali da pelliccia e le attività
cino e felinotecnica, ma rimane invece attività commerciale l’acquisto di animali all’ingrosso al solo scopo di
rivenderli. La sostituzione del termine bestiame con quelli di animali tronca le incertezze circa l’inclusione in queste
attività dell’allevamento di animali da cortile, dell’apicoltura e dell’acquacoltura.
3. Le attività agricole per connessione.
La nozione di imprenditore agricolo del 1942 distingueva le attività connesse in:
- Quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti che rientravano nell’esercizio normale agricolo
- Tutte le altre attività esercitate in connessione con le attività agricole essenziali (esempio: agriturismo,
trebbiatura) che, in mancanza di specificazione legislativa, si riteneva dovessero rivestire carattere accessorio.
Questo criterio di individuazione viene meno stando al terzo comma dell’attuale 2135 che intende connesse:
- Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di
prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale
- Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzo prevalente di attrezzature o risorse
normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del
patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.
Queste due categorie sono attività oggettivamente commerciali ma sono considerate per legge attività agricole
quando sono esercitate in connessione con una delle tre attività agricole essenziali; la presenza di tale legame
impedisce ad esempio che il viticoltore rivesta la duplice qualità di imprenditore agricolo e commerciale per via della
trasformazione dell’uva prodotta in vino. A riguardo sono necessarie due condizioni:
- Connessione soggettiva: il soggetto che esercita queste attività deve essere già qualificabile come imprenditore
agricolo in quanto svolge in forma d’impresa una delle tre attività agricole tipiche e inoltre deve esserci coerenza
tra l’attività tipica e quella connessa; è quindi imprenditore commerciale chi trasforma prodotti agricoli altrui.
Eccezione al criterio è fatta per le cooperative di imprenditori agricoli e, dal 2006, per le società di persone e SRL
costituite da imprenditori agricoli che assumono la qualifica di imprenditore agricolo se utilizzano, trasformano,
commercializzano prevalentemente prodotti dei soci, sebbene non vi sia identità soggettiva tra i soci e la società.
- Connessione oggettiva: non si richiede più che trasformazione e alienazione rientrino nell’esercizio normale
dell’agricoltura, né che tutte le altre attività connesse abbiano carattere accessorio; questi criteri sono stati
sostituiti dal criterio della prevalenza, ossia è sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo
economico, sull’attività agricola essenziale. Ad esempio, resta imprenditore agricolo anche il viticoltore che
produce vino utilizzando tecniche di vinificazione diverse da quelle normalmente seguite in agricoltura.
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4. Imprenditore commerciale.
È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle seguenti categorie di attività presenti nel 2195:
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi: settore delle imprese industriali, ma produzione
di beni o servizi è uno dei due scopi tipici di ogni impresa (2082) e poi qual è il significato di “industriale”?
2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni: settore del commercio, ma lo scambio di beni o servizi è il
secondo scopo tipico di ogni impresa (2082) e poi qual è il significato di “intermediaria”?
3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria: imprese di trasporto producono servizi, quindi l’attività di
trasporto è già menzionata nel punto 1) del 2195
4) un'attività bancaria o assicurativa: l’attività bancaria è attività di intermediazione del denaro e può essere
compresa nel punto 2), l’attività assicurativa produce servizi specifici e può essere compresa nel punto 1)
5) altre attività ausiliarie delle precedenti: attività che presentano il criterio di ausiliarietà, ossia imprese di agenzia,
di mediazione, di commissione, di marketing che sostanzialmente possono qualificarsi come imprese produttrici
di servizi che rientrano nel punto 1). Parliamo di attività ausiliari rispetto alle altre attività commerciali, ma come
si dovranno qualificare allora le imprese ausiliarie rispetto ad attività non commerciali?
Gli elementi che individuano e distinguono l’impresa commerciale rispetto a quella agricola, considerando che le
attività indicate nei punti 3), 4) e 5) costituiscono una specificazione delle prime due categorie, risiedono quindi nel
carattere industriale dell’attività di produzione di beni o servizi e nel carattere intermediario dell’attività di scambio.
Dal significato che si attribuisce agli aggettivi industriale ed intermediaria dipende quindi l’esatta individuazione delle
imprese giuridicamente commerciali.
5. Il problema dell’impresa civile.
Questa categoria non è espressamente prevista da alcun dato legislativo e vi è una disputa per determinare se il
sistema vigente lasci spazio o meno per questa terza categoria di imprese le quali, non essendo né commerciali né
agricole, sarebbero sottoposte solo allo statuto generale dell’imprenditore e non a quello dell’imprenditore
commerciale, perciò non fallirebbero. La disputa verte intorno al significato da attribuire alle espressioni “attività
industriale” e “attività intermediaria nella circolazione” utilizzate nel 2195.
L’opinione propensa ad ammetterne l’esistenza ritiene che:
- Il requisito dell’industrialità debba essere inteso nel suo significato tecnico-economico di attività che implichi
l’impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni ad opera dell’uomo, ossia imprese che producono
beni o servizi senza trasformare materie prime e che non rientrano fra le imprese produttrici di servizi previste nei
punti 3), 4) e 5) del 2195, quali le imprese minerarie, le imprese di pubblici spettacoli, le agenzie investigative cioè
più in generale imprese ausiliarie di attività non commerciali.
- L’attività intermediaria nella circolazione può essere qualificata solo quella nella quale ricorre sia l’acquisto sia la
vendita di beni, imprenditore civile sarebbe quindi chi aliena dietro corrispettivo beni propri o che eroga credito
con mezzi propri.
La teoria dell’impresa civile non è però condivisa dalla dottrina prevalente, poiché si ritiene che altro sia il significato
da attribuire ai requisiti dell’industrialità e dell’intermediazione; vi sono anche una serie di indici che depongono
contro l’ammissibilità delle imprese civili:
- Alcune delle imprese civili erano commerciali sotto l’abrogato codice di commercio
- Non vi è alcuna disposizione che possa far pensare all’esistenza di imprese diverse da quelle agricole e commerciali
- Esistono norme che confermano indirettamente che il binomio agricolo-commerciale esaurisce le tipologie
d’impresa in base all’oggetto dell’attività e norme che rendono plausibile l’interpretazione dell’aggettivo
industriale nel senso di non agricolo
- Ammettendo questa categoria d’imprese si amplierebbe, senza una giustificazione sostanziale, l’area delle attività
produttive sottratte alla disciplina delle imprese commerciali; in breve, non si vede perché debba fallire un agente
commerciale e non un agente immobiliare.
Questo complesso di considerazioni non lasciano spazio, tra l’imprenditore agricolo e quello commerciale, alle imprese
civili, è perciò preferibile interpretare i requisiti:
- Della industrialità come sinonimo di attività non agricola e qualificare come commerciali imprese che producono
beni o servizi senza dar luogo a trasformazione di materie prime e ogni impresa che non è agricola
- Dell’intermediazione nella circolazione dei beni come sinonimo di attività di scambio e qualificare come
commerciale ogni attività che comporti circolazione di beni (o denaro) non inquadrabile fra quelle agricole per
connessione.

Appunti di Gabriele Longo 7


B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE
6. Il criterio dimensionale. La piccola impresa.
La dimensione d’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori e individua la figura
del piccolo imprenditore, contrapponendola a quella dell’imprenditore medio-grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore ma la sua nozione serve per restringere
ulteriormente l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non piccolo, in quanto:
- È esonerato dalla tenuta delle scritture contabili
- È esonerato dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali, potendo usufruire solo delle procedure concorsuali
da sovraindebitamento
- L’iscrizione nel registro delle imprese, originariamente esclusa, ha di regola solo la funzione di pubblicità notizia.
Discorso diverso vale per la legislazione speciale che disciplina in maniera ricca e articolata le figure di piccola impresa
allo scopo di favorirne la sopravvivenza e lo sviluppo, attraverso molteplici e non sempre coordinate agevolazioni.
Individuare il piccolo imprenditore, fino a qualche anno fa, non è stato però agevole poiché era definito con criteri non
coincidenti sia nel codice civile che nella legge fallimentare; inoltre era controverso stabilire se i criteri di individuazione
del codice civile dovevano ritenersi modificati dalla legislazione speciale.
7. Il piccolo imprenditore nel codice civile.
“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano
un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia”. È questa
la nozione di piccolo imprenditore data dall’art. 2083, per aversi piccola impresa è dunque necessario che:
- L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
- Il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui
sia rispetto al capitale investito nell’impresa, prevalenza intesa in senso qualitativo-funzionale necessario cioè
determinare se l’apporto dei soggetti abbia rilievo nell’organizzazione e caratterizzi i beni e i servizi prodotti.
8. Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare.
La nozione è stata riformulata nel 2006 e nel 2007, nella versione originaria il piccolo imprenditore era individuato
solo in base a parametri monetari in contrasto netto con la prevalenza del lavoro familiare del codice civile, ossia:
- Reddito inferiore al minimo imponibile sulla base dell’imposta di ricchezza mobile
- Investimenti in capitali non superiori a 900’000 lire
- In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali
Questo problema è venuto meno per effetto di due modifiche del sistema normativo:
- Nel ’74 l’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa e sostituita dall’Irpef
- Nel ’89 fu dichiarato incostituzionale il limite di 900'000 lire per via della svalutazione monetaria
- Il terzo parametro perde di valore quando la corte costituzionale manifesta l’orientamento che esso non trovasse
applicazione nei confronti delle società artigiane.
La sola nozione codicistica presentava però inconvenienti pratici in quanto accertare la prevalenza del lavoro familiare
sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole e quindi non era adeguato far dipendere il fallimento da questo
parametro. Per queste ragioni la riforma del diritto fallimentare del 2006, modificata nel 2007 per via di numerose
incertezze sorte e un eccessivo ampliamento della categoria di imprenditori non fallibili, ha reintrodotto un sistema di
regole basato su criteri quantitativi e monetari, cercando però di non ripetere gli errori del passato.
La nuova disposizione non individua la figura del piccolo imprenditore, limitando le dispute scaturite da una doppia
definizione di piccolo imprenditore, ma dei parametri dimensionali dell’impresa al di sotto dei quali l’impresa non
fallisce; la nozione codicistica rileva solo ai fini dell’applicazione della restante parte dello statuto dell’imprenditore
commerciale (iscrizione nel registro delle imprese e obbligo di tenuta delle scritture contabili).
In base all’attuale disciplina, aggiornabile ogni tre anni per adeguarla alla svalutazione monetaria, non è soggetto al
fallimento l’imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
- aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di
durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
- aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento
o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad
euro duecentomila;
- avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
Basta superarne uno per essere esposti al fallimento e l’onere della prova è posto al carico del debitore che deve
dimostrare di essere sempre stato al di sotto delle soglie; ulteriore differenza riguarda le società che sono anch’esse
esonerate dal fallimento se rispettano i parametri.
Appunti di Gabriele Longo 8
9. L’impresa artigiana.
Gode, assieme alla piccola impresa commerciale ed agricola, di una legislazione speciale di ausilio emanata in
attuazione dell’art 45 della Costituzione che prevede autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie,
non coincidenti con quelli fissati dal 2083; non pongono però problemi di coordinamento con la nozione civilistica e
fallimentare perché si tratta di definizioni dettate a fini speciali.
Questo principio però subiva un’eccezione per l’impresa artigiana: fino al 1985, per via di una legge del 1956, la nozione
speciale sostituiva quella civilistica e fallimentare e delineava un modello d’impresa artigiana, non conciliabile con
quello del codice civile, dipendente dalla natura “artistica o usuale” dei beni o servizi prodotti e non della prevalenza
del lavoro familiare; dunque, rispettati i limiti fissati dalla norma, era sottratta al fallimento anche senza il rispetto del
criterio della prevalenza.
Erano esonerate dal fallimento anche le società, purché cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che “la
maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro che abbia funzione preminente sul capitale”, in quanto la
qualifica artigiana operava a tutti gli effetti di legge, anche civilistica e fallimentare.
La situazione e i problemi derivanti sono stati superati con la legge quadro per l’artigianato del 1985, che definisce
l’impresa artigiana in base:
- All’oggetto dell’impresa: costituibile da qualsiasi attività di produzione di beni o servizi, sia pure con limitazioni
- Al ruolo dell’artigiano nell’impresa: è richiesto in misura prevalente il proprio lavoro nel processo produttivo, ma
non che prevalga sugli altri fattori produttivi.
Altre caratteristiche della legge quadro sono:
- Il numero massimo di dipendenti, variabile per i settori, è più elevato rispetto a quello fissato dalla legge del ‘56
- Il personale deve essere personalmente diretto dall’artigiano
- L’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana
È riaffermato il riconoscimento della qualifica artigiana alle società in forma cooperativa o in nome collettivo, a
condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale nel processo produttivo e che il lavoro,
proprio o altrui, abbia funzione preminente sul capitale. La qualifica è stata successivamente estesa:
- Prima alle SRL unipersonali e alle SAS, purché il socio o i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti
per l’imprenditore artigiano e non siano soci di altra SRL o SAS
- E poi anche alle SRL pluripersonali, a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale
nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società.
La categoria delle imprese artigiane è stata quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente ed è
scomparso ogni riferimento alla “natura artistica o usuale” dei beni o servizi prodotti; inoltre l’aumento del numero
massimo di dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche per industrie non piccole.
Tuttavia l’impresa artigiana non è più definita a tutti gli effetti di legge, quindi il riconoscimento della qualifica artigiana
in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano, che non rispetta i limiti dimensionali fissati dalla legge
fallimentare e il criterio civilistico della prevalenza, allo statuto dell’imprenditore commerciale e al fallimento; di fronte
al fallimento quindi bisogna distinguere fra l’artigiano che è piccolo imprenditore e quello che non lo è più.
Allo stesso modo, la società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di
dissesto fallirà al pari di ogni altra società commerciale se supera i limiti dimensionali.
10. L’impresa familiare.
È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo
grado dell’imprenditore, ossia la famiglia nucleare; questo istituto, introdotto con la riforma del diritto di famiglia del
1975, è delineato e regolato dall’art. 230-bis del codice civile. L’impresa familiare non va comunque confusa con la
piccola impresa: può aversi piccola impresa non familiare e viceversa impresa non piccola che può essere familiare.
Il lavoro familiare è un fenomeno che, prima della riforma del ’75, poteva dare luogo a gravi abusi ed ingiustizie in
quanto si presumeva a titolo gratuito e non era riconosciuto a chi lavorava nell’impresa alcun diritto.
Il legislatore ha voluto perciò predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell’impresa,
riconoscendo ai membri della famiglia nucleare, che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell’impresa,
determinati diritti patrimoniali e amministrativi.
Sul piano patrimoniale:
- Diritto al mantenimento secondo le condizioni patrimoniali della famiglia
- Diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità di lavoro prestato
- Diritto sui beni acquistati con gli utili, assenza quindi del diritto alla distribuzione degli stessi, e sugli incrementi di
valore dell’azienda sempre in base alla quantità e qualità del lavoro prestato
- Diritto di prelazione dell’azienda, esercitabile anche individualmente ha perciò carattere reale, in caso di divisione
ereditaria o di trasferimento dell’azienda
Appunti di Gabriele Longo 9
Sul piano amministrativo: le decisioni in merito alla natura straordinaria dell’impresa e talune altre disposizioni di
particolare rilievo sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa; si deve ritenere che ciascun
familiare abbia diritto a un solo voto e che alle decisioni non prenda parte l’imprenditore poiché destinatario di esse.
È prevista la trasferibilità del diritto di partecipazione solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il
consenso unanime dei familiari partecipanti; è inoltre liquidabile in denaro qualora cessi la prestazione di lavoro e in
caso di alienazione dell’azienda.
La disciplina ha sollevato numerosi problemi interpretativi condizionati dallo stabilire se l’impresa familiare resti
un’impresa individuale o dia vita a un'impresa collettiva: prevale il primo caso, nel quale le prestazioni lavorative, di
carattere esclusivamente obbligatorio, dei familiari dell’imprenditore non alterano la struttura individuale dell’impresa
e non incidono sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore; in questa
configurazione i diritti patrimoniali dei partecipanti vanno intesi come semplici diritti di credito nei confronti del
familiare imprenditore.
La gestione degli atti di gestione ordinaria, non menzionata nel dato legislativo, rientra nella competenza esclusiva
dell’imprenditore; d’altro canto, la violazione da parte dell’imprenditore dei poteri amministrativi riconosciuti ai
familiari lo esporrà al risarcimento dei danni nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità degli atti compiuti. In
questo caso si ritiene che l’imprenditore agisca in proprio e non come rappresentante dell’impresa familiare, solo lui
sarà responsabile quindi nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte. Infine se l’impresa è commerciale
e non piccola solo l’imprenditore sarà esposto al fallimento in caso di dissesto, sempre per la finalità di tutela del lavoro
familiare nell’impresa che ha ispirato l’introduzione del nuovo istituto.
C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA
11. L’impresa societaria.
La natura giuridica del soggetto titolare dell’impresa è il terzo criterio di differenziazione della disciplina delle imprese,
tre sono le figure contemplate dal legislatore: impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica.
Le società sono le forme associative tipiche previste dall’ordinamento per l’esercizio collettivo di attività d’impresa,
esistono diversi tipi di società:
- Le società semplici: utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciale
- Le società commerciali: suddivise in
 Società di tipo commerciale con oggetto agricolo: ad esempio una SPA costituita per l’allevamento
 Società di tipo commerciale con oggetto commerciale: ad esempio una SPA costituita per fabbricare auto
L’applicazione alle società commerciali degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale segue regole parzialmente
diverse da quelle viste per l’imprenditore individuale, regole che possono essere sintetizzate:
- Parte della disciplina dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività
svolta, ciò avviene per l’obbligo d’iscrizione nel registro delle imprese e per la tenuta delle scritture contabili; resta
fermo l’esonero dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali per le società commerciali con oggetto agricolo
e per le società commerciali con oggetto commerciale se non superano le soglie fissate dall’art 1 legge fallimentare
- Nelle SNC e nelle SAS parte della disciplina dell’imprenditore commerciale trova applicazione nei confronti dei soci
a responsabilità illimitata: tutti i soci della SNC e i soci accomandatari della SAS. Trovano applicazione solo nei
confronti dei soci le norme che regolano l’esercizio di impresa commerciale da parte di un incapace e anche nei
confronti dei soci la sanzione del fallimento in quanto comporta il fallimento di tutti i soci a responsabilità illimitata.
12. Le imprese pubbliche.
Attività d’impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli enti pubblici (artt. 41 e 43 Cost.), ai fini dell’applicazione
della disciplina dell’impresa è rilevante distinguere tra tre forme di intervento dei poteri pubblici nell’economia:
- Lo Stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività d’impresa avvalendosi di proprie
strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e
contabile. L’attività è definita secondaria ed accessoria rispetto ai fini istituzionali dell’ente e si parla quindi di
imprese-organo.
- La pubblica amministrazione può dar vita ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale
è l’esercizio di attività d’impresa, parliamo degli enti pubblici economici che, con una serie di interventi legislativi
degli anni ’90 con l’obiettivo di garantire una gestione imprenditoriale più efficiente e di ridurre la spesa pubblica,
sono stati trasformati in società per azioni a partecipazione statale o posti in liquidazione; in tempi più recenti è
stata avviata la dismissione delle partecipazioni pubbliche di controllo in molte di tali società.
- Lo Stato e gli altri enti pubblici possono svolgere attività d’impresa servendosi di strutture di diritto privato
attraverso la costituzione di società, generalmente per azioni, che costituiscono il settore delle società a
partecipazione pubblica che può essere totalitaria, di maggioranza o di minoranza.

Appunti di Gabriele Longo 10


L’impresa pubblica si presenta formalmente come un’impresa societaria privata, anche quando tutte le azioni o quote
appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico, quindi l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale
segue le regole esposte precedentemente; regole peculiari sono invece dettate dagli artt. 2093, 2201 2221 per:
- Gli enti pubblici economici: sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e se l’attività è commerciale
anche allo statuto dell’imprenditore commerciale, con una sola eccezione rappresentata dall’esonero dal
fallimento e dal concordato preventivo (art. 2221) che vengono sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa
o da altre procedure previste in leggi speciali.
- Gli enti titolari di imprese-organo: nei loro confronti si applicano le disposizioni del libro V, che comprende la
disciplina dell’impresa commerciale, limitatamente alle imprese da essi esercitate (2093); sono implicitamente
esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese, poiché prevista solo per gli enti pubblici che hanno per oggetto
esclusivo o principale un’attività commerciale (2201); e sono esplicitamente esonerati dalle procedure concorsuali
(2221). Se ne desume che gli enti pubblici che svolgono attività commerciale accessoria sono sottoposti,
limitatamente alle imprese esercitate, allo statuto generale dell’imprenditore e a tutte le restanti norme previste
per gli imprenditori commerciali tra le quali l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, che non viene menzionato.
Art. 2093 Art. 2201 Art. 2221
Le disposizioni del libro V si Gli enti pubblici che hanno per Gli imprenditori che esercitano
applicano agli enti pubblici oggetto esclusivo o principale una un'attività commerciale, esclusi gli
economici. Agli enti titolari di attività commerciale sono soggetti enti pubblici e i piccoli imprenditori,
imprese-organo si applicano le all'obbligo dell'iscrizione nel registro sono soggetti in caso di insolvenza
disposizioni del libro V, delle imprese. alle procedure del fallimento e del
limitatamente alle imprese da essi concordato preventivo salve le
esercitate. Sono salve le diverse disposizioni delle leggi speciali.
disposizioni della legge.
13. Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni.
Le associazioni, le fondazioni e tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciale
qualificabile come attività d’impresa, in quanto è essenziale che l’attività venga condotta con metodo economico e
non che sussista lo scopo di lucro. L’esercizio di attività commerciale può costituirne anche l’oggetto esclusivo o
principale, si pensi ad una fondazione costituita per lo svolgimento di un’attività editoriale, in questi casi l’ente acquista
la qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, compresa l’esposizione al
fallimento in caso di insolvenza.
È più frequente però che l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’attività ideale costituente
l’oggetto principale dell’ente, si pensi ad un ente religioso che gestisce un istituto d’istruzione privata; il carattere
accessorio però non impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore poiché sussiste comunque la professionalità
che non implica che l’attività di impresa sia esclusiva o principale. Inoltre, non essendoci alcuna norma specifica per
quanto riguarda l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, essi acquistano la qualità di imprenditori
commerciali con pienezza di effetti, esposizione al fallimento compresa, anche se l’attività ha carattere accessorio o
secondario.
Il fallimento di un’impresa collettiva senza scopo di lucro non comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente
per le relative obbligazioni, ciò è desumibile dall’art. 147 l. fall. (non falliscono l’unico azionista di SPA e l’unico quotista
di SRL illimitatamente responsabili dei debiti sociali) e dall’art. 9 del d.lgs. 240/1991 (il fallimento del gruppo europeo
di interesse economico non determina il fallimento dei suoi membri).
14. L’impresa sociale.
Per via della crescita per volume di investimenti era avvertita l’esigenza di un quadro di regole più compiuto per le
imprese gestite senza scopo di lucro in settori di utilità sociale, a questa esigenza è stata data risposta con la disciplina
dell’impresa sociale del 2006.
“Possono acquistare la qualifica d’impresa sociale tutte le organizzazioni private che esercitato in via stabile e
principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale”.
Essendo impresa ai sensi del 2082, l’impresa sociale è tenuta ad operare con metodo economico, ma nulla vieta che
l’esercizio dell’attività produca un avanzo dei ricavi sui costi; vietata è solo l’autodestinazione dei risultati della
gestione, gli utili devono essere infatti destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o all’incremento del patrimonio
dell’ente, patrimonio su cui grava poi un vincolo di indisponibilità in quanto né durante né allo scioglimento dell’attività
è possibile distribuire fondi o riserve a vantaggio di coloro che hanno preso parte dell’organizzazione. In caso di
cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad altre imprese sociali e apposite regole fanno sì che
l’assenza dello scopo di lucro venga preservato anche in caso di operazioni di trasformazione, fusione e scissione cui
partecipi l’impresa sociale, o di cessione dell’azienda.

Appunti di Gabriele Longo 11


Il legislatore le favorisce sul piano civilistico in quanto è possibile poter organizzare un’impresa sociale in qualsiasi
forma di organizzazione privata e in particolare qualsiasi tipo societario, in più è possibile costituire gruppi d’imprese.
Non possono essere imprese sociali invece le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni che erogano beni e servizi
esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi; l’impresa sociale non è quindi un nuovo tipo di ente
diverso da quelli previsti dall’ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere.
Altro privilegio concesso è la possibilità di limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti,
anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe invece la responsabilità illimitata. Se l’impresa
dispone di almeno 20’000€ di patrimonio, delle obbligazioni assunte risponde solo l’organizzazione con il suo
patrimonio; se il patrimonio dovesse ridursi di 1/3, delle obbligazioni rispondono personalmente e solidalmente anche
coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa.
Le imprese sociali sono soggette a regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici
dell’imprenditore commerciale:
- Devono iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese
- Devono redigere le scritture contabili
- In caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa invece che al fallimento
Per assumere la qualifica di impresa sociale le organizzazioni devono costituirsi per atto pubblico che deve:
1. Determinare l’oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge
2. Enunciare l’assenza dello scopo di lucro
3. Indicare la denominazione dell’ente, che va integrata con la locuzione “impresa sociale”
4. Fissare requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali
5. Disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto per quanto possibile del principio di non
discriminazione
6. Prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività d’impresa nell’assunzione delle
cessioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate.
L’atto costitutivo deve inoltre prevedere un sistema di controlli interni fondato sulla distinzione tra:
- Controllo contabile affidato a uno o più revisori iscritti nel registro dei revisori legali dei conti tenuto dal Ministero
dell’economia
- Controllo di legalità della gestione e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione riservato a uno o più
sindaci, cui spetta anche vigilare sull’osservanza delle finalità sociali dell’impresa e ai quali è riconosciuto il potere
di procedere in qualsiasi momento ad atti di ispezione e controllo e di chiedere notizie sugli amministratori.
Le imprese sociali sono soggette anche a controlli esterni da parte del Ministero del lavoro che può disporre la perdita
della qualifica in due circostanze che determinano la cancellazione dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio:
- Se rileva l’assenza delle condizioni per il riconoscimento
- Se riscontra violazioni della relativa disciplina e l’impresa non provvede in un congruo termine a risolverle.
CAPITOLO TERZO – L’ACQUISTO DELLA QUALITÀ DI IMPRENDITORE
1. Premessa.
L’acquisto della qualità d’imprenditore è presupposto per l’applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme
che l’ordinamento ricollega a tale qualifica, ma quando si diventa imprenditore?
Stando al 2082 si diventa imprenditori con l’esercizio di attività di impresa, ma ciò non è sufficiente poiché:
- È necessario che l’esercizio dell’attività d’impresa sia imputabile all’imprenditore ma il 2082 è muto al riguardo
- L’esercizio dell’impresa si sviluppa nel tempo e il 2082 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato
l’esercizio dell’impresa e al momento finale dell’attività impresa.
- È necessario esaminare i criteri che regolano l’esercizio di attività d’impresa da parte dei soggetti totalmente o
parzialmente privi della capacità d’agire.
A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ DI IMPRESA
2. Esercizio diretto dell’attività d’impresa.
Centro d’imputazione dei singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato
validamente speso nel traffico giuridico; solo egli è obbligato nei confronti del terzo contraente e ciò anche se altro sia
il reale interessato nell’affare e se il terzo sia a conoscenza della dissociazione tra agente e destinatario degli effetti.
Questo criterio di imputazione prende il nome di spendita del nome ed è enunciato in tema di:
- Mandato senza rappresentanza: il mandatario agisce per conto del mandante ma opera in nome proprio; in questo
caso il mandatario acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti, anche se i terzi sanno del mandato (art. 1705).
- Mandato con rappresentanza: il mandatario, ricevuto il potere di rappresentanza, agisce in nome e per conto del
mandante (art. 1704); in questo caso tutti gli effetti giuridici si producono nella sfera del mandante (art. 1388).
Appunti di Gabriele Longo 12
Il legislatore non fissa un diverso criterio di imputazione, quindi la qualità d’imprenditore è acquistata dal soggetto e
solo dal soggetto il cui nome è stato speso nel compimento dei singoli atti d’impresa:
- È imprenditore colui che esercita personalmente l’attività d’impresa compiendo in proprio nome gli atti relativi.
- Non è imprenditore il soggetto, con potere di rappresentanza conferitogli dall’interessato o dalla legge, che
gestisce l’altrui impresa. Questo è il caso del genitore che gestisce l’impresa quale rappresentante legale del figlio
minore: gli atti sono compiuti dal genitore, ma è il minore ad essere esposto al fallimento se l’impresa è
commerciale.
3. Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. La teoria dell’imprenditore occulto.
L’esercizio d’impresa può dar luogo a dissociazione tra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di
imprenditore ed il reale interessato, questo è il fenomeno dell’esercizio d’impresa tramite interposta persona dove:
- L’imprenditore palese o prestanome: compie in nome proprio i singoli atti d’impresa
- L’imprenditore diretto o occulto: somministra al primo i mezzi finanziari, dirige di fatto l’impresa e fa propri i
guadagni pur non palesandosi come imprenditore di fronte ai terzi.
Questo modo di operare solleva problemi gravi quando gli affari vanno male e il prestanome risulta una persona fisica
nullatenente o una SPA/SRL con capitale irrisorio, detta società di comodo o etichetta. I creditori potranno comunque
provocare il fallimento del prestanome ma, data l’insufficienza del patrimonio, avranno ben poco da ricavarne; il
rischio d’impresa sarà quindi trasferito sui creditori, soprattutto più deboli, che non sono in grado di premunirsi contro
il dissesto del prestanome. Questo modo di operare genera una serie di dissesti a catena poiché i creditori sono a loro
volta specialmente degli imprenditori.
Parte della dottrina ha ritenuto di poter escludere il criterio della spendita del nome dai requisiti necessari ai fini
dell’imputazione della responsabilità per i debiti d’impresa, impiegando dei principi che consentirebbero di imputare
anche all’imprenditore occulto i debiti contratti dall’imprenditore palese. Questa tesi è sostenuta da una serie di
norme, di generale applicazione, dettate in tema di società di persone ed in passato anche di società di capitali, che
consentirebbero di affermare che responsabili verso i creditori sono sia il prestanome che l’imprenditore occulto, il
quale è esposto anche al fallimento dato che solo il suo nome è stato speso nel traffico giuridico.
La conferma definitiva si ha con la teoria dell’imprenditore occulto, giustificata dall’art 147 della legge fallimentare,
che integra la piena parificazione sul piano delle responsabilità dei due soggetti ed il fallimento dell’imprenditore
occulto, sempre e comunque, qualora fallisca il prestanome. Tale norma completa il principio secondo il quale il
fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata comporta anche il fallimento dei soci, e dispone che il
fallimento si estende anche ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione del fallimento (fallimento del
socio occulto di società palese). La formulazione originaria della norma affermava che fosse applicabile per analogia
all’ipotesi in cui i soci abbiano occultato l’esistenza della stessa società di persone (socio occulto di una società occulta),
oggi disposto dal nuovo 147. Proseguendo, se fallisce la società occulta è inevitabile che fallisca l’imprenditore occulto
e quindi si arriva ad affermare la responsabilità e l’esposizione al fallimento di chiunque domini un’impresa a lui
formalmente non imputabile.
In questo modo è affermata la responsabilità:
- Dell’azionista tiranno di una SPA che usa la società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento, anche
attraverso la confusione dei rispettivi patrimoni.
- Dell’azionista sovrano che, pur rispettando le regole di funzionamento delle società, di fatto domini in forza del
possesso di un pacchetto azionario di controllo.
Attraverso questo ragionamento non corretto si arriva così a sanzionare con la responsabilità personale e col
fallimento ogni forma di dominio occulto o palese dell’altrui impresa.
4. Critica. L’imputazione dei debiti d’impresa.
Le tesi esposte nel paragrafo precedente si fondano sulla presunta presenza nel nostro ordinamento di due criteri di
imputazione della responsabilità per debiti d’impresa:
- Il criterio formale della spendita del nome in base al quale è imprenditore il soggetto nel cui nome è svolta l’attività
- Il criterio sostanziale del potere di direzione in base al quale risponderebbe e fallirebbe il diretto interessato
La seconda affermazione non può essere condivisa poiché né le norme societarie né la legge fallimentare consentono
di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere per il fatto di essere un imprenditore occulto.
Critica degli argomenti tratti dal diritto societario: la responsabilità illimitata non è legata al potere di gestione, infatti
nelle SNC tutti i soci rispondono illimitatamente anche se la gestione è riservata ad alcuni di essi; questo legame trova
anche una smentita nella disciplina per le SRL e le SPA unipersonali, in quanto non basta più essere unico socio per
incorrere in responsabilità illimitata, ma è necessario che ricorrano ulteriori condizioni oggettive.

Appunti di Gabriele Longo 13


Critica degli argomenti tratti dal diritto fallimentare: il collegamento tra potere di gestione e responsabilità illimitata
non è dimostrabile nemmeno dal 147 l. fall.; la teoria dell’imprenditore occulto fonda tale conclusione su
un’estensione analogica, passando dal fallimento del socio occulto di società palese e dal fallimento del socio occulto
in società occulta al fallimento dell’imprenditore occulto, presupponendo che la situazione giuridica nelle tre
fattispecie sia identica, ma così non è.
Nel fallimento del socio occulto di società palese esiste una società con soci a responsabilità illimitata, il soggetto
scoperto è socio di tale società e gli atti di impresa sono stati posti in essere in nome della società; ciò che è stato
occultato è solo il reale numero dei soci. Il socio occulto fallisce perché fa parte della società e il principio di spendita
del nome non entra in gioco perché non è speso direttamente nemmeno il nome dei soci palesi.
Nel fallimento del socio occulto di società occulta esiste una società a responsabilità illimitata e i soggetti scoperti ne
fanno parte, tuttavia essi sono chiamati a rispondere di atti che non sono stati posti in essere in nome della loro società
ma da un mandatario senza rappresentanza. Questa eccezione al principio di spendita risiede nella volontà dei soggetti
di sottrarsi al fallimento e alle responsabilità illimitate per i debiti dell’impresa, che sono invece regole del tipo
societario; l’ordinamento intende colpire l’uso distorto della forma societaria e quindi resta fermo che anche i soci
occulti di società occulte falliscono sulla base del criterio formale ed oggettivo dell’appartenere ad una società di
persone con soci illimitatamente responsabili.
È estraneo alla disciplina del 147 il fine di affermare in via generale la responsabilità dell’imprenditore occulto in
un'impresa gestita sotto altrui nome: nel rapporto tra prestanome e imprenditore occulto non esiste nessuna società
in quanto mancano tutti gli elementi costitutivi del contratto di società, la situazione giuridica è quindi
qualitativamente diversa rispetto agli altri due casi e non è dunque consentito affermare per analogia la responsabilità
illimitata dell’imprenditore occulto.
Nelle società di capitali è sempre individuabile un socio/gruppo di soci che controlla e dirige la società, ma essi non
sono chiamati a rispondere personalmente dal legislatore dei debiti della società, purché rispettino le regole di
organizzazione che prevedono la perdita del beneficio della responsabilità limitata solo quando ricorre la situazione
formale ed oggettiva della concentrazione di tutte le azioni/quote nelle mani di un solo soggetto.
Le nuove norme introdotte con la riforma del diritto societario del 2003 riconoscono che le società che esercitano il
potere di direzione su altre società possono incorrere in responsabilità nei confronti dei soci e dei creditori, ma solo in
caso di abuso del potere di controllo. La responsabilità in ogni caso non comporta mai la diretta imputazione in capo
alla capogruppo dei debiti delle controllate, ma solo il sorgere di un’obbligazione risarcitoria; ciò non implica quindi il
superamento del criterio di imputazione formale degli atti d’impresa.
Resta comunque ferma la responsabilità illimitata e l’esposizione al fallimento del socio sovrano e del socio tiranno,
soggetti che usano ed abusano dello schermo societario.
Questo regime è meno iniquo di quanto possa sembrare: permettere ai creditori del prestanome di rivalersi sul
patrimonio dell’imprenditore occulto andrebbe a danneggiare i creditori personali del reale interessato.
5. Una tecnica per reprimere gli abusi.
Diverse tecniche sono state proposte per affermare la responsabilità personale e l’esposizione al fallimento di chi abusi
della posizione di dominio su una società di capitali, la tecnica prevalentemente seguita dalla giurisprudenza per la sua
sostanziale correttezza ritiene che i comportamenti tipici del tiranno possono integrare gli estremi di una autonoma
attività d’impresa. Pertanto, se ricorrono i requisiti del 2082, il socio/i che hanno abusato dello schermo societario
risponderanno come titolari di un’autonoma impresa commerciale individuale/societaria per le obbligazioni da loro
contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tale potranno fallire se
si accerta l’insolvenza della loro impresa. È questa però una tecnica che tutela in modo pieno solo i creditori più forti.
B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA
6. L’inizio dell’impresa.
La qualità d’imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa, indipendentemente
dalle intenzioni del soggetto agente ed anche se l’attività è esercitata in violazione di norme amministrative abilitanti;
l’intenzione di dare inizio all’attività e l’iscrizione nel registro delle imprese non sono quindi condizioni né necessarie
né sufficienti per l’attribuzione della qualità di imprenditore commerciale. Questo è principio pacifico per le persone
fisiche e per gli enti pubblici/privati il cui scopo istituzionale non è lo svolgimento di attività d’impresa.
Le società invece acquisterebbero la qualità di imprenditore prima ed indipendentemente dall’effettivo inizio
dell’attività produttiva, cioè fin dal momento della loro costituzione:
- Stipula del contratto per le società di persone
- Iscrizione nel registro delle imprese per le società di capitali

Appunti di Gabriele Longo 14


Fin dalla costituzione quindi si applicherebbe nei loro confronti tutta la disciplina dell’imprenditore, giustificazione:
per le società lo svolgimento di attività d’impresa costituisce la ragione stessa della loro costituzione e ciò rende
superfluo l’accertamento del concreto inizio dell’attività programmata, accertamento invece necessario per le persone
fisiche data la molteplicità di attività che queste possono svolgere.
Questa diversità di trattamento non è condivisibile poiché il 2082 ricollega l’acquisto della qualità di imprenditore
all’esercizio e non alla mera intenzione di esercitare attività d’impresa; il principio dell’effettività può e deve trovare
dunque applicazione anche per le società.
7. Attività di organizzazione e attività di esercizio.
Resta da definire quando si ha l’effettivo inizio dell’attività di impresa e la risposta non è univoca, al riguardo è
necessario distinguere a seconda che il compimento di atti tipici d’impresa sia o meno preceduto da una fase
organizzativa oggettivamente percepibile.
In mancanza della fase preparatoria solo la ripetizione nel tempo di atti d’impresa omogenei e funzionalmente
coordinati renderà certo che si tratti di attività professionalmente esercitata; quando invece viene preventivamente
creata una stabile organizzazione aziendale, anche solo un atto di esercizio, e non necessariamente il compimento del
primo ciclo produttivo con la vendita dei prodotti, sarà sufficiente per affermare che l’attività è iniziata.
Inoltre, essendo anche l’organizzazione della produzione un’attività tipicamente imprenditoriale ed attività che pone
esigenze di tutela del credito non diverse da quelle che sorgono durante l’esercizio, anche gli atti di organizzazione
sono atti d’impresa e possono essere equiparati agli atti di gestione non preceduti da una fase organizzativa;
determinano quindi l’acquisto della qualità d’imprenditore e l’esposizione al fallimento quando manifestano in modo
non equivoco lo stabile orientamento dell’attività verso un determinato fine produttivo, sia pure non ancora realizzato.
In questo ambito acquista rilievo la distinzione tra persone fisiche e società.
- Per la persona fisica un singolo atto di organizzazione non sarà sufficiente perché diventi imprenditore, anche più
atti potrebbero non bastare se sono inespressivi o non coordinati funzionalmente
- Per le società anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale potrà essere sufficiente per affermare che
l’attività d’impresa è iniziata.
8. La fine dell’impresa
In passato l’imprenditore individuale perdeva la qualità di imprenditore solo con l’effettiva cessazione dell’attività e le
società attraverso la cancellazione dal registro delle imprese, ma era attivo un dibattito a causa della fitta casistica
originata dall’art. 10 l. fall. A seguito del duplice intervento normativo del 2006 e del 2007 però è stata attenuata la
discriminazione instaurata dal diritto tra imprenditori individuali e collettivi.
La versione originaria dell’art. 10 disponeva che l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito entro un
anno dalla cessazione dell’impresa, cessazione di norma preceduta da una fase di liquidazione più o meno lunga che
costituisce ancora esercizio dell’impresa; ciò implica la perdita della qualità di imprenditore solo alla chiusura della
liquidazione cioè con la definitiva e irrevocabile disgregazione del complesso aziendale.
- Per l’imprenditore individuale non era necessario che fossero stati riscossi tutti i crediti e pagati tutti i debiti relativi
- Per le società la cancellazione dal registro delle imprese, requisito per la perdita della qualità di imprenditore,
presupponeva non solo la disgregazione dell’azienda ma anche l’integrale pagamento delle passività ad opera dei
liquidatori e la definizione dei rapporti tra i soci; solo da tale momento avrebbe cominciato a decorrere per le
società il termine annuale previsto dall’art 10. Una società poteva essere perciò dichiarata fallita anche a distanza
di anni dalla cancellazione dal registro delle imprese, l’art. 10 si rendeva quindi inapplicabile per le società.
La dichiarazione di incostituzionalità, per via dell’irragionevole disparità di trattamento, dell’art. 10 da parte della Corte
costituzionale ha determinato la riforma della norma contestata e l’ulteriore correzione del 2006 e del 2007. Il nuovo
art. 10 dispone che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno
successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è però fatta salva la
facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui
decorre il termine del primo comma.
L’attuale dato normativo consente di affermare che la cancellazione dal registro delle imprese è condizione necessaria
affinché l’imprenditore individuale o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento. Ne
consegue, benché il punto sia controverso, che le società irregolari, le società occulte e l’imprenditore persona fisica
non iscritto restano esposti al fallimento fin quando non hanno estinto tutti i debiti d’impresa, in quanto per loro non
decorre il termine annuale.
Per gli imprenditori individuali e le società cancellate d’ufficio però la cancellazione dal registro delle imprese non è
sufficiente per far decorrere il termine annuale, in quanto deve essere accompagnata dall’effettiva cessazione
dell’attività d’impresa, mediante disgregazione del complesso aziendale.
Appunti di Gabriele Longo 15
Per ragioni di certezza del diritto si presume infatti che al momento della cancellazione l’attività sia già terminata, ma
il creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario per ottenere la dichiarazione di fallimento del
debitore dopo l’anno della cancellazione stessa. È da accogliere identica soluzione nel caso, non disciplinato dalla
legge, in cui la società di persone continui l’attività d’impresa dopo la cancellazione volontaria dal registro delle
imprese.
C. CAPACITÀ E IMPRESA
9. Incapacità e incompatibilità.
La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire (compimento di 18 anni) e si
perde in seguito ad interdizione o inabilitazione; la capacità d’agire è quindi presupposto per l’acquisto della qualità
di imprenditore, dunque il minore che ha occultato la propria età non diventa imprenditore anche se i contratti
conclusi non sono annullabili.
Esempi di incompatibilità sono i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico ad esempio di avvocati o
notai e l’inabilitazione temporanea all’esercizio di attività commerciale conseguente alla condanna per bancarotta, le
quali non precludono l’acquisto della qualità di imprenditore ma espongono a sanzioni amministrative e penali.
10. L’impresa commerciale dell’incapace.
L’esercizio di attività d’impresa per conto e nell’interesse di un incapace (minore e interdetto) o da parte di soggetti
limitatamente capaci d’agire (inabilitato, minore emancipato e beneficiario di amministrazione di sostegno) è possibile
con l’osservanza delle disposizioni al riguardo dettate.
Per l’attività agricola troveranno applicazione le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici
da parte degli incapaci, per l’attività commerciale invece è prevista una specifica disciplina che si sostituisce a quella
di diritto comune.
La disciplina generale in tema di amministrazione del patrimonio degli incapaci mira a garantirne la conservazione e
l’integrità, perciò il rappresentante legale del minore o dell’interdetto (genitori o tutore) è legittimato a compiere solo
atti di ordinaria amministrazione; gli atti di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di
necessità o di utilità evidente, accertata dall’autorità giudiziaria con autorizzazione concessa atto per atto. È disposto
analogamente per i soggetti limitatamente capaci (inabilitato e minore emancipato) che agiscono personalmente ma
con l’assistenza di un curatore.
Essendo l’attività commerciale per sua natura non semplicemente conservativa del patrimonio e rischiosa:
- il legislatore pone un divieto assoluto di inizio di impresa commerciale per il minore, l’interdetto e l’inabilitato; al
minore emancipato è però concessa la continuazione dell’esercizio di una impresa commerciale preesistente,
purché sia autorizzata dal tribunale.
- richiede rapidità di decisioni non conciliabile con la distinzione tra atti di ordinaria/straordinaria amministrazione
e con il sistema di autorizzazione atto per atto cui si fonda l’amministrazione conservativa del patrimonio degli
incapaci, per questo motivo ha carattere generale e comporta un ampliamento dei poteri del rappresentante
legale dell’incapace e del limitatamente capace.
 Minore: non è consentito in nessun caso l’inizio di una nuova impresa commerciale in suo nome e nel suo interesse;
quando il minore acquista una preesistente azienda commerciale il rappresentante legale può essere autorizzato
dal tribunale a continuare l’esercizio dell’impresa sia pure con procedure diverse a seconda che il minore sia
sottoposto a potestà familiare o a tutela (artt. 320 e 371) e, per evitare l’interruzione dell’attività, il giudice può
consentire l’esercizio provvisorio dell’impresa fino all’autorizzazione finale. Con l’autorizzazione definitiva il
genitore o il tutore è legittimato a compiere tutti gli atti, ordinari o straordinari, che rientrano nell’esercizio
dell’impresa, l’autorizzazione è necessaria solo per gli atti non legati alla gestione dell’impresa (vendita
dell’immobile).
 Interdetto: valgono le regole dettate per il minore sottoposto a tutela e l’autorizzazione può riguardare anche
l’impresa iniziata dall’interdetto prima dell’interdizione (art. 424).
 Inabilitato: la capacità d’agire è limitata agli atti di ordinaria amministrazione e la sua posizione è parificata a quella
degli incapaci assoluti (è possibile solo la continuazione di un'impresa esistente); intervenuta l’autorizzazione alla
continuazione eserciterà personalmente l’impresa con l’assistenza del curatore e con il suo consenso per gli atti
che esulano dall’esercizio dell’impresa (art. 425).
 Minore emancipato: può essere autorizzato dal tribunale anche ad iniziare una nuova impresa commerciale con
l’acquisto della piena capacità d’agire; può compiere senza il curatore gli atti che eccedono l’ordinaria
amministrazione anche se estranei all’esercizio d’impresa (art. 397).
 Beneficiario dell’amministrazione di sostegno: conserva la capacità d’agire per tutti gli atti che non richiedono
l’assistenza dell’amministratore di sostegno e potrà iniziare o proseguire un’attività d’impresa senza assistenza,
salvo che il giudice non disponga diversamente (art. 409).

Appunti di Gabriele Longo 16


L’esercizio autorizzato dell’impresa determina l’acquisto della qualità di imprenditore commerciale da parte
dell’incapace poiché l’attività è da egli personalmente esercitata, sia pure con l’assistenza del curatore per l’inabilitato;
l’acquistano anche il minore e l’interdetto in quanto gli atti d’impresa sono compiuti in loro nome dal rappresentante.
L’incapace resta perciò esposto alle conseguenze derivanti, compresi gli effetti patrimoniali del fallimento; il fallimento
del minore e dell’interdetto però solleva problemi poiché è iniquo far ricadere gli effetti su di essi dato che il dissesto
è imputabile alla condotta del genitore o del tutore. È possibile con sforzi interpretativi far ricadere le sanzioni penali
sul rappresentante legale del minore fallito, poiché non è possibile imputare ad egli reati da altri commessi che non
poteva impedire; d’altro canto non è però possibile sottrarlo alle incapacità personali (esclusione dalla professione di
avvocato, notaio) poiché conseguono automaticamente dalla dichiarazione di fallimento, e solo il minore in quanto
imprenditore commerciale può essere dichiarato fallito e non il rappresentante che imprenditore non è.
CAPITOLO QUARTO – LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE
1. Premessa.
L’imprenditore commerciale è destinatario di una disciplina in parte comune agli altri imprenditori, ossia lo statuto
generale dell’imprenditore, e in parte propria e specifica cioè lo statuto dell’imprenditore commerciale. Alcuni tipi di
imprese commerciali, che svolgono un’attività di particolare rilievo economico-sociale, sono destinatarie di
un’ulteriore normativa speciale e settoriale, prevalentemente contenuta in leggi separate dal codice civile; tale
disciplina, finalizzata alla tutela degli interessi generali della collettività, incide sull’organizzazione e sulle modalità di
esercizio di tali attività. Esempi tipici di imprese commerciali a statuto settoriale sono: le imprese bancarie, le imprese
assicurative, le società di revisione contabile, le società di revisione contabile.
A. LA PUBBLICITÀ LEGALE
2. La pubblicità delle imprese commerciali.
Per le imprese a struttura societaria l’esigenza di poter disporre di informazioni veritiere e non contestabili di carattere
organizzativo sui fatti e situazioni delle imprese con cui entrano in contatto è soddisfatta dal legislatore con
l’introduzione di un sistema di pubblicità legale, ossia l’obbligo di rendere di pubblico dominio determinate
informazioni della vita d’impresa secondo forme e modalità predeterminate per legge; in questo modo le informazioni
sono rese accessibili ai terzi (pubblicità notizia) e producono l’opponibilità a chiunque degli atti o dei fatti resi
conoscibili (conoscibilità legale).
Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società
commerciali previsto dal codice civile nel ’42 in sostituzione alle norme del codice di commercio; tuttavia, a causa del
subordinamento all’emanazione del relativo regolamento di attuazione, il registro delle imprese è stato sostituito per
oltre 50 anni dal regime transitorio che ha determinato un sistema di pubblicità delle imprese disorganico e complesso.
Dopo numerosi tentativi falliti, una legge del ’93 e il relativo regolamento di attuazione hanno finalmente istituito il
registro delle imprese, divenuto operativo nel ’97, ponendo così fine al regime transitorio. La nuova disciplina del
registro delle imprese ha anche introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto nel ’42:
- L’attuale registro non è più solo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali, ma è anche strumento
di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti l’iscrizione è stata estesa agli imprenditori
agricoli, ai piccoli imprenditori ed alle società semplici, prima con effetti di sola pubblicità notizia e in seguito con
effetti di pubblicità legale per gli imprenditori agricoli, alle società tra avvocati ed alle altre società tra professionisti
- La tenuta del registro è affidata alle camere di commercio con cessazione dei compiti svolti in passato dalle
cancellerie dei tribunali
- Il registro è tenuto con tecniche informatiche per assicurare completezza e organicità della pubblicità e per
garantire la tempestività dell’informazione su tutto il territorio nazionale; il registro è pubblico, chiunque quindi
può consultarne i dati sui terminali degli utenti collegati tramite il sistema informativo delle camere di commercio.
3. Il registro delle imprese.
L’ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso le camere di commercio ed è retto da un
conservatore nominato dalla giunta. L’attività dell’ufficio è svolta sotto la vigilanza di un giudice delegato dal
presidente del tribunale del capoluogo di provincia. Il registro è articolato in una sezione ordinaria e in sezioni speciali.
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori per i quali l’iscrizione era prevista dal codice civile, categoria che
non corrisponde con quella degli imprenditori commerciali; sono tenuti all’iscrizione in questa sezione:
- Gli imprenditori commerciali non piccoli
- Tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale
- I consorzi fra imprenditori con attività esterna
- I gruppi europei di interesse economico con sede in Italia
- Gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale
- Le società estere che hanno in Italia la sede amministrativa ovvero l’oggetto principale della loro attività

Appunti di Gabriele Longo 17


Oltre alla ordinaria presenta varie sezioni speciali, il cui numero è aumentato in base alle previsioni di leggi speciali:
1) Sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori: imprenditori esonerati dal codice civile per i
quali l’iscrizione introdotta nel ’93 aveva solo funzione di pubblicità notizia, ossia gli imprenditori agricoli
individuali, i piccoli imprenditori, le società semplici e gli imprenditori artigiani. In particolare gli artigiani non
qualificabili come piccoli imprenditori come le società artigiane sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria
come imprenditori commerciali
2) Sezione speciale delle società tra professionisti: società di avvocati e le altre società tra professionisti con efficacia
di pubblicità notizia
3) Sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento: società o enti che esercitano
attività di direzione e coordinamento e quelle che vi sono soggette che hanno sede o oggetto principale in Italia
4) Sezione speciale delle imprese sociali
5) Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera: pubblicità di atti tradotti in una lingua europea
per i quali è obbligatoria l’iscrizione o il deposito, ciò ha lo scopo di facilitare l’accesso alle informazioni da parte
di creditori esteri ma è facoltativa e non sostituisce l’obbligo di pubblicare l’atto in italiano; in caso di contrasto tra
le traduzioni il terzo può avvalersi della versione straniera salvo che la società dimostri che il terzo era a conoscenza
della versione italiana
6) Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati: società di capitali o cooperative costituite
da non più di 4 anni aventi ad oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi
innovativi ad alto valore tecnologico e che rispettano ulteriori requisiti.
I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme e sono diversi a seconda della struttura soggettiva
dell’impresa: riguardano gli elementi di individuazione dell’imprenditore e dell’impresa (dati anagrafici
dell’imprenditore, ditta, oggetto…) e la struttura e l’organizzazione delle società (atto costitutivo, nomina e revoca
degli amministratori, dei sindaci…). Vanno registrate tutte le modifiche degli atti già iscritti e non è consentito iscrivere
atti non previsti dalla legge.
Le iscrizioni devono essere fatte nel registro della provincia in cui l’impresa ha sede e può essere eseguita sia su
domanda dell’interessato che di ufficio, qualora l’interessato non provveda a iscrivere informazioni obbligatorie; di
ufficio può essere disposta la cancellazione di un’iscrizione avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla
legge e la cancellazione dell’impresa che ha cessato l’attività, quando l’imprenditore non vi provveda e l’ufficio rileva
alcune circostanze sintomatiche della definitiva assenza di vitalità dell’impresa.
In ogni caso prima dell’iscrizione l’ufficio del registro deve controllare che il fatto/atto è soggetto a iscrizione, che la
documentazione è formalmente regolare e l’esistenza e la veridicità del fatto/atto (legalità formale); è escluso, ma il
punto è controverso, il controllo riguardante la validità dell’atto e la rilevazione di eventuali cause di nullità (legalità
sostanziale). Ad esempio per gli atti societari l’ufficio deve verificare solo la regolarità formale della documentazione.
L’iscrizione è eseguita senza indugio ed entro 10 giorni dalla presentazione della domanda mediante inserimento dei
dati nella memoria dell’elaboratore elettronico per renderli disponibili al pubblico.
L’inosservanza dell’obbligo d’iscrizione comporta sanzioni amministrative pecuniarie ed indirette (mancato decorso
del termine annuale per la dichiarazione del fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’attività) e l’iscrizione non è
più condizione di ammissione al concordato preventivo.
Per quanto riguarda gli effetti dell’iscrizione è necessario distinguere tra l’iscrizione nella sezione ordinaria e quella
nella sezione speciale.
L’iscrizione nella sezione ordinaria ha sempre funzione di pubblicità legale dato che rende conoscibili i dati pubblicati
e, a seconda dei casi, ha efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa:
- Efficacia dichiarativa: di regola l’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia semplicemente dichiarativa, in
quanto i fatti e gli atti iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono dal momento della registrazione; da questo
momento i terzi non potranno eccepire l’ignoranza dell’atto/fatto scritto e qualsiasi prova sarà inutile. Allo stesso
modo l’omessa iscrizione impedisce l’opponibilità ai terzi, tuttavia l’imprenditore può dimostrare che, nonostante
l’omessa registrazione, i terzi hanno avuto comunque conoscenza effettiva dell’atto/fatto ad esempio comunicato
tramite lettera.
- Efficacia costitutiva: in alcune ipotesi tassativamente previste l’iscrizione produce effetti più rilevanti e può
produrli sia fra le parti che per i terzi (efficacia costitutiva totale) oppure solo nei confronti dei terzi (efficacia
costitutiva parziale). L’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di capitali/cooperative
rientra nel primo caso poiché prima della registrazione la società non esiste giuridicamente né per gli aspiranti soci
né per i terzi; rientra nel secondo caso invece la registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale
sociale di una SNC in quanto l’omissione impedisce il decorso del termine di 3 mesi entro il quale i creditori possono
proporre opposizione e perciò la riduzione del capitale è per loro improduttiva di effetti.

Appunti di Gabriele Longo 18


- Efficacia normativa: in altri casi l’iscrizione nella sezione ordinaria è presupposto per la piena applicazione di un
determinato regime giuridico pur non avendo efficacia costitutiva, è questo il caso è il caso delle SNC e delle SAS
che vengono ad esistenza anche se non registrate, ma questo impedisce che operi il regime di autonomia
patrimoniale proprio di tali società, comportando l’applicazione del più gravoso regime dettato per la SS.
L’iscrizione nelle sezioni speciali non produce nessun effetto dei precedenti in quanto ha solo funzione di certificazione
anagrafica e di pubblicità notizia, l’iscrizione consente perciò di prendere conoscenza dell’atto/fatto scritto ma non lo
rende opponibile ai terzi in quanto è sempre necessario provare l’effettiva conoscenza.
Questa disciplina è stata però modificata per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le SS che svolgono attività
agricola: nel 2001 è stato stabilito che per tali categorie di imprenditori l’iscrizione nella sezione speciale ha anche
efficacia di pubblicità legale, cancellando la diversità di disciplina tra imprenditore agricolo e imprenditore
commerciale e la distinzione di effetti tra la sezione ordinaria e la sezione speciale nel registro delle imprese.
4. La pubblicità delle società di capitali e delle cooperative.
La normativa di attuazione del registro delle imprese del ’93 aveva lasciato inalterata la specifica disciplina della
pubblicità delle:
- Società di capitali che prevedeva per una serie di atti la pubblicazione nel Busarl (bollettino ufficiale delle SPA e
SRL) in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese che faceva decorrere gli effetti della pubblicità dichiarativa
- Società cooperative che prevedeva per una serie di atti la pubblicazione nel Busc (bollettino ufficiale delle società
cooperative) in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese, ma con effetti di pubblicità notizia.
L’informatizzazione del registro delle imprese e della tenuta del Busarl e del Busc aveva reso inutili i bollettini ufficiali,
dato che la stessa memoria elettronica valeva come registro e come bollettino; perciò il duplice regime di pubblicità è
stato soppresso nel ’97 con l’eliminazione del Busarl e del Busc, quindi anche per le società di capitali e cooperative lo
strumento di pubblicità legale torna ad essere, come previsto nel ’42, solo il registro delle imprese.
Restano tuttavia delle differenze:
- Mentre in base alla disciplina generale gli atti iscritti sono immediatamente opponibili ai terzi senza possibilità di
eccepirne l’ignoranza, per le società di capitali l’opponibilità diventa piena solo dopo 15 giorni dall’iscrizione nel
registro; in questo periodo di tempo i terzi sono ammessi a provare di essere stati nell’impossibilità di avere
conoscenza dell’atto.
- Per alcuni atti delle società di capitali e cooperative è prevista la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e non nel
registro delle imprese, ad esempio la convocazione dell’assemblea delle SPA.
B. LE SCRITTURE CONTABILI
5. L’obbligo di tenuta delle scritture contabili.
Le scritture contabili sono documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi e/o monetari, dei
singoli atti d’impresa, della situazione del patrimonio dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività svolta.
Le scritture contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l’organizzazione e la gestione d’impresa e perciò sono di
regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore; tuttavia è un obbligo legislativamente disciplinato per gli
imprenditori che esercitano attività commerciale.
Non c’è però coincidenza tra i soggetti obbligati a tenere le scritture contabili secondo il codice civile e la categoria di
imprenditori commerciali:
- I piccoli imprenditori non sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili anche se svolgono attività commerciale
- Le società commerciali (tranne la SS) sono obbligate alla tenuta delle scritture contabili anche se non esercitano
attività commerciale, poiché per tali società il c.c. lo impone senza distinguere tra società con oggetto commerciale
e società con oggetto non commerciale
- Gli enti pubblici e gli enti di diritto che non svolgono attività commerciale in via secondaria ed accessoria sono
obbligati alla tenuta delle scritture contabili perché sono sottoposti allo statuto dell’imprenditore commerciale
- Le imprese sociali, indipendentemente dalla natura commerciale o agricola dell’attività, sono obbligate alla tenuta
delle scritture contabili in quanto è espressamente previsto per le organizzazioni che assumono tale qualifica.
6. Le scritture contabili obbligatorie. Regolarità e controllo.
Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e
dell’articolazione territoriale dell’impresa, in base a questo assunto il legislatore ha optato per una soluzione di tipo
misto fissata dall’art. 2214.
La norma pone il principio generale che l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla
natura e dalle dimensioni dell’impresa e stabilisce inoltre che in ogni caso devono essere tenuti il libro giornale e il
libro degli inventari. Inoltre devono essere conservati per ogni affare gli originali della corrispondenza commerciale
ricevuta e le copie di quella spedita.

Appunti di Gabriele Longo 19


- Libro giornale: è un registro cronologico-analitico che indica giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio
dell’impresa, inteso in senso elastico in quanto è necessario che le operazioni siano registrate nell’ordine in cui
sono compiute e non necessariamente il giorno stesso del loro compimento; non è necessario registrare
separatamente ciascuna operazione, purché le registrazioni riguardino operazioni omogenee compiute nella
giornata, ad esempio si può registrare l’importo complessivo delle merci vendute in un giorno.
- Libro degli inventari: è un registro periodico-sistematico redatto all’inizio dell’impresa e successivamente ogni
anno che ha la funzione di fornire il quadro della situazione patrimoniale dell’imprenditore, deve quindi contenere
l’indicazione e la valutazione delle attività e delle passività dell’imprenditore anche estranee all’impresa.
L’inventario si chiude con il bilancio che rappresenta un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare
con evidenza e verità la situazione complessiva del patrimonio (SP) alla fine di ciascun anno e gli utili conseguiti o
le perdite sofferte (CE) nello stesso arco di tempo.
- Altre scritture: richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa per le quali la scelta è a discrezione
dell’imprenditore sia pure nei limiti segnati dalle norme tecniche, ad esempio il libro mastro nel quale le operazioni
sono registrate non cronologicamente ma sistematicamente, il libro cassa che contiene le entrate e le uscite in
denaro e il libro magazzino che registra le entrate e le uscite di merci.
Per garantire la veridicità delle scritture contabili e per impedire che vengano alterate è imposta l’osservanza di regole
formali e sostanziali nella loro tenuta, regole che tuttavia sono state ridotte per agevolare la tenuta della contabilità
con procedure informatiche. In base all’attuale disciplina, dopo la soppressione della vidimazione annuale e
dell’obbligo della bollatura foglio per foglio da parte dell’ufficio delle imprese, le scritture devono essere numerate
progressivamente prima di essere messe in uso e devono essere tenute secondo le norme di una ordinata contabilità,
in particolare senza spazi in bianco, senza interlinee, senza abrasioni ed in modo che le parole cancellate restino
leggibili. Oltre al formato cartaceo è consentito l’utilizzo di sistemi informatici purché le registrazioni possano essere
rese consultabili in ogni momento, con l’osservanza delle formalità assolte dell’apposizione una volta l’anno della
marcatura temporale e della firma digitale dell’imprenditore al documento informatico.
L’inosservanza delle formalità rende le scritture irregolari e giuridicamente irrilevanti, inoltre le scritture contabili e la
corrispondenza commerciale devono essere conservate per 10 anni.
Le scritture contabili non sono di regola soggette a forme di controllo esterno, ma è una regola che subisce eccezioni:
- Dal ’75 la contabilità delle SPA quotate è sottoposta a controllo esterno di apposite società di revisione
- Dal 2003 anche le SPA non quotate devono sottoporre la contabilità al controllo esterno di un revisore o di una
società di revisione, forma di controllo successivamente estesa a numerose altre imprese.
L’obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da sanzioni generali e dirette, ma da sanzioni eventuali ed
indirette: l’imprenditore che non le tiene regolarmente non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore ed è
soggetto alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento. La regolare tenuta
della contabilità non è più però requisito per l’ammissione al concordato preventivo.
7. La rilevanza esterna delle scritture contabili. L’efficacia probatoria.
Le informazioni sulla vita dell’impresa desumibili dalle scritture contabili non sono accessibili ai terzi in quanto
l’interesse dell’imprenditore al segreto riceve tutela preferenziale, questo principio subisce eccezioni:
- Il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative deve essere reso pubblico mediante deposito presso
l’ufficio del registro delle imprese
- Nelle imprese soggette a controllo pubblico (società con azioni quotate in borsa, imprese bancarie e assicurative…)
il diritto al segreto non sussiste nei confronti dell’organo pubblico preposto alla vigilanza, ossia la Consob
(Commissione nazionale per le società e la borsa) che ha anche il potere di imporre la pubblicazione di dati
necessari per l’informazione del pubblico.
L’ipotesi più significativa di rilevanza esterna risiede sul piano processuale, in quanto le scritture contabili possono
costituire un mezzo di prova sia a favore e sia contro l’imprenditore.
Le scritture contabili, siano o meno regolarmente tenute, possono sempre essere utilizzate dai terzi come mezzo
processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene; il terzo però non può avvalersi solo della parte a lui favorevole.
Perché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture come mezzo processuale di prova contro i terzi è necessario
prima di tutto che il giudice riconosca il valore probatorio delle scritture e che ricorrano inoltre tre condizioni:
- Si deve trattare di scritture regolarmente tenute
- La controparte sia a sua volta un imprenditore per garantire la parità di trattamento
- La controversia sia relativa a rapporti inerenti all’esercizio d’impresa
Durante il processo il giudice può richiedere solo l’esibizione di singole scritture contabili oppure di tutti i libri al fine
di estrarne le registrazioni che riguardano la controversia in esame.

Appunti di Gabriele Longo 20


Tuttavia in tre casi il giudice può ordinare la comunicazione alla controparte di tutte le scritture contabili:
- Controversie relative allo scioglimento delle società
- Controversie relative alla comunione dei beni
- Controversie relative alla successione per causa di morte
C. LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE
8. Ausiliari dell’imprenditore commerciale e rappresentanza.
Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può avvalersi:
- Di soggetti stabilmente inseriti nella propria organizzazione aziendale per effetto di un rapporto di lavoro
subordinato che li lega all’imprenditore (ausiliari interni o subordinati)
- Di soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale che collaborano con l’imprenditore, in modo occasionale o
stabile, sulla base di rapporti contrattuali di varia natura: mandato, commissione, spedizione, agenzia (ausiliari
esterni o autonomi)
In entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di affari con terzi in nome e per conto
dell’imprenditore, ossia tramite la rappresentanza. Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli
artt. 1387 e seguenti e da norme speciali, per effetto del rinvio dell’art. 1400, quando si tratti di atti inerenti
all’esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcuni ausiliari interni: institori, procuratori e commessi.
Disciplina generale della rappresentanza La rappresentanza commerciale
Per abilitare un soggetto a compiere atti giuridici relativi Si hanno regole diverse quando si è in presenza di
alla propria sfera patrimoniale è necessario l’espresso determinati ausiliari interni che sono destinati ad
conferimento del potere di rappresentanza con la entrare stabilmente in contatto con i terzi ed a
procura, che delimita i confini del potere di concludere affari per l’imprenditore; al riguardo vige un
rappresentanza e presuppone che sia conferita con le sistema speciale di rappresentanza fissato dagli artt.
forme prescritte per il contratto che il rappresentante 2203-2213. Il potere di rappresentanza degli institori, dei
deve concludere. procuratori e dei commessi non si fonda sulla presenza
Essendo il terzo contraente il soggetto sul quale ricade il di una procura, ma è acquisito automaticamente ed è
rischio della mancanza o del difetto del potere commisurato al tipo di mansioni che la qualifica
rappresentativo, è il terzo ad accertare l’esistenza, il comporta; l’imprenditore può comunque modificare i
contenuto e la regolarità formale della procura; il confini del potere di rappresentanza di tali ausiliari con
contratto concluso con il falso rappresentante è infatti uno specifico atto, opponibile ai terzi solo se portato a
improduttivo di effetti ed il terzo, anche se in buona loro conoscenza nelle forme stabilite dalla legge.
fede, non potrà vantare alcun diritto nei confronti del
Questi sono i principi comuni alle tre figure di ausiliari
rappresentato, tranne che per la possibilità di chiedere
che facilitano le contrattazioni d’impresa in quanto
al falso rappresentante il risarcimento del danno.
ridimensionano i pericoli cui è di regola esposto chi
Queste regole tutelano poco e male il terzo contraente e contratta con l’altrui rappresentante; infatti chi conclude
ostacolano le contrattazioni tramite rappresentante e lo affari con uno di tali ausiliari dovrà solo verificare se
sviluppo degli affari. l’imprenditore ha modificato i loro naturali poteri
rappresentativi e non verificare se la rappresentanza è
stata loro conferita.
9. L’institore.
Stando all’art. 2203, l’institore è il soggetto preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa, di una sede secondaria o di
un ramo particolare che dispone di un potere di gestione generale su tutte le operazioni della struttura alla quale è
preposto; nel linguaggio comune è il direttore generale dell’impresa, di una filiale o di un settore produttivo. Ciò che
contraddistingue questa figura è l’essere al vertice della gerarchia del personale in virtù di un atto di preposizione
dell’imprenditore: vertice assoluto se preposto all’intera impresa o vertice relativo se preposto ad una filiale o un ramo
dell’impresa. È possibile che più institori siano preposti contemporaneamente all’esercizio dell’impresa, in questo caso
agiranno disgiuntamente se non diversamente previsto.
Per quanto riguarda gli obblighi:
- È tenuto congiuntamente con l’imprenditore all’adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese
e di tenuta delle scritture contabili dell’impresa o della sede cui è preposto
- In caso di fallimento dell’imprenditore troveranno applicazione anche nei confronti dell’institore le sanzioni penali
a carico del fallito, fermo restando che solo l’imprenditore potrà essere dichiarato fallito ed esposto agli effetti
patrimoniali e personali derivanti.

Appunti di Gabriele Longo 21


Al generale potere di gestione corrisponde un generale potere di rappresentanza sia sostanziale che processuale:
- Rappresentanza sostanziale: l’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio d’impresa o della
sede/ramo cui è preposto, non è quindi legittimato a compiere atti che non riguardano l’esercizio d’impresa come
ad esempio la vendita o l’affitto dell’azienda, il cambiamento dell’oggetto della dell’attività. Inoltre gli è vietato
espressamente di alienare o ipotecare i beni immobili dell’imprenditore, divieto che non opera quando l’oggetto
dell’impresa è il commercio di immobili.
- Rappresentanza processuale: l’institore può stare in giudizio sia come attore (rappresentanza processuale attiva)
sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) non solo per gli atti da lui compiuti ma anche per quelli
posti in essere direttamente dall’imprenditore
I poteri dell’institore possono essere ampliati o limitati dall’imprenditore, le limitazioni saranno però opponibili ai terzi
solo se presenti nel registro delle imprese, in mancanza della pubblicità legale la rappresentanza si reputa generale;
l’imprenditore può però provare che i terzi erano comunque a conoscenza delle limitazioni al momento della
conclusione dell’affare.
Come già detto non è necessaria una procura perché l’institore possa ritenersi investito della rappresentanza generale,
poiché questo è un effetto automatico derivante dall’atto di preposizione dell’esercizio dell’impresa; procura e
pubblicità necessarie solo in caso di limitazioni dei poteri rappresentativi.
Principio analogo vale per la revoca dell’atto di preposizione: revoca opponibile ai terzi solo se pubblicata o se
l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.
La tutela dell’affidamento dei terzi prevista dalla disciplina generale della rappresentanza è differente da quella in
tema di rappresentanza institoria: nel primo caso il rappresentante che non rende palese al terzo la sua veste non
spendendo il nome del rappresentato obbliga sé stesso e il terzo, impedendo a quest’ultimo di rivolgersi al
rappresentato; nella rappresentanza institoria invece, anche se l’institore omette di comunicare al terzo di trattare
per il preponente, sono obbligati sia l’institore che il preponente a patto che gli atti compiuti dall’institore siano
pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto.
10. I procuratori.
Stando all’art. 2209, i procuratori sono coloro che in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere
per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad esso. Sono di grado
inferiore all’institore perché:
- Non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo o di una sede secondaria
- Il loro potere decisionale è circoscritto ad un determinato settore operativo dell’impresa o ad una specifica serie
di atti, sono procuratori ad esempio il diretto del settore acquisti o del settore pubblicità.
In mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono automaticamente investiti
di un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore in merito alla specie di operazioni per le quali essi sono stati
investiti di autonomo potere decisionale. Ad esempio il dirigente del settore acquisti potrà compiere in nome
dell’imprenditore gli atti che rientrano in tale funzione, ma non ha poteri in altri ambiti.
Il procuratore:
- Non ha la rappresentanza processuale dell’imprenditore nemmeno per gli atti da lui posti in essere
- Non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro e di tenuta delle scritture
- L’imprenditore non risponderà per gli atti, pur pertinenti all’esercizio dell’impresa, compiuti da un procuratore
senza spendita del nome dell’imprenditore
11. I commessi.
Stando all’art. 2210, i commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive e materiali che li
pongono in contatto con i terzi; ad esempio commesso di negozio, commesso viaggiatore, cameriere. Per questa
posizione è loro riconosciuto il potere di rappresentanza dell’imprenditore, potere però più limitato rispetto a quello
delle altre due figure; il principio base è che possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di
operazioni di cui sono incaricati.
Salvo espressa autorizzazione, i commessi:
- Non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna né concedere dilazioni o sconti
- Non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di contratto predisposte dall’imprenditore o dalle clausole
- Se preposti alla vendita nei locali d’impresa non possono esigere il prezzo fuori dai locali stessi
Ai commessi, limitatamente agli affari da essi conclusi, è riconosciuta la legittimazione a ricevere per conto
dell’imprenditore le dichiarazioni che riguardano l’esecuzione dei contratti ed i reclami relativi alle inadempienze
contrattuali, ed è riconosciuta la legittimazione a chiedere provvedimenti cautelari nell’interesse dell’imprenditore.
L’imprenditore può ampliare o limitare tali poteri e non è previsto un sistema di pubblicità legale, dunque saranno
opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei o se si prova l’effettiva conoscenza.
Appunti di Gabriele Longo 22
CAPITOLO QUINTO – L’AZIENDA
1. La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento.
L’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555). Da questa nozione
si evince il rapporto esistente tra azienda ed impresa, ossia un rapporto di mezzo a fine dove l’azienda costituisce
l’apparato strumentale (locali, macchinari, materie prime) di cui l’imprenditore si avvale per lo svolgimento della
propria attività. L’azienda è un complesso di beni, caratterizzato da unità di tipo funzionale destinato ad uno specifico
fine produttivo, eterogeneo ed organizzato che subisce modificazioni qualitative e quantitative nel corso dell’attività.
Il rapporto di organizzazione e di destinazione ad un fine produttivo attribuisce ai beni costituiti in azienda e all’azienda
nel complesso un particolare rilievo economico, prima ancora che giuridico, sotto più profili:
- I beni consentono la produzione di utilità nuove e maggiori di quelle traibili dai singoli beni
- Il complesso unitario acquista un valore di scambio maggiore dalla somma dei valori dei singoli beni che lo
costituiscono, tale maggior valore si definisce avviamento.
L’avviamento è rappresentato dall’attitudine dell’azienda a consentire la realizzazione di un profitto (ricavi > costi) e
dipende da fattori soggettivi ed oggettivi:
- Avviamento soggettivo: costituito dall’abilità operativa dell’imprenditore nel formarsi e nel conservare ed
accrescere la clientela.
- Avviamento oggettivo: costituito da fattori che permangono anche se muta il titolare dell’azienda in quanto insiti
nel coordinamento funzionale esistente tra i diversi beni, ad esempio la capacità di un complesso industriale di
consentire una produzione a costi competitivi sul mercato.
Passando alla descrizione del rilievo normativo, la disciplina del trasferimento dell’azienda (artt. 2556-2562) assume
in questo ambito particolare rilievo infatti, il trasferimento a titolo definitivo o temporaneo è sottoposto ad un regime
normativo che deroga alla disciplina di diritto comune. Il passaggio dell’azienda da un soggetto ad un altro comporta
degli effetti automatici ispirati dalla finalità di favorire la conservazione dell’unità economica e del valore
dell’avviamento dell’azienda, a tutela dei soggetti che sull’unità hanno fatto affidamento; tale disciplina pone ostacoli
alla disgregazione dell’azienda tutelando anche l’interesse generale al mantenimento dell’efficienza e della
funzionalità di complessi produttivi.
2. Gli elementi costitutivi dell’azienda.
Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa (art. 2555); per qualificare un bene aziendale è rilevante solo la destinazione funzionale trasmessa
dall’imprenditore e non il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo
produttivo. Non possono essere considerati perciò i beni appartenenti all’imprenditore che non vengono destinati allo
svolgimento dell’attività, viceversa sono considerati beni aziendali beni di proprietà di terzi impiegati nell’attività
d’impresa (locali d’impresa presi in affitto o macchinari in leasing).
Il significato da attribuire alla parola “bene” è oggetto di controversie: l’opinione più fedele ai dati normativi considera
elementi costitutivi dell’azienda solo le cose in senso proprio di cui l’imprenditore attualmente si avvale per l’esercizio
d’impresa e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici; ciò comporta che si potrà parlare di
trasferimento di azienda anche quando le parti abbiano escluso i crediti e i debiti e quando non è riscontrabile un
valore positivo di avviamento, come nel caso di trasferimento del complesso aziendale di un imprenditore fallito.
3. L’azienda fra concezione atomistica e concezione unitaria. Azienda e universalità di beni.
Ci sono teorie contrastanti circa la natura giuridica dell’azienda:
- Teorie unitarie: considerano l’azienda come un bene unico e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono,
si afferma quindi che l’azienda è un bene immateriale rappresentato dall’organizzazione stessa; nella stessa
prospettiva l’azienda è considerata come una universalità di beni, sulla quale il titolare ha un diritto di proprietà
unitario, che potrebbe essere tutelato con gli strumenti che l’ordinamento concede al titolare del diritto di
proprietà, destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni.
- Teoria atomistica: concepisce l’azienda come una pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali
l’imprenditore può vantare diritti diversi, ciò esclude l’esistenza di un “bene” azienda formante oggetto di diritto
di proprietà e attribuendo significato atecnico alle norme che parlano di proprietà o di proprietario dell’azienda.
Concepire l’azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo e a tutti gli effetti trova però ostacolo nei dati normativi,
dai quali emerge che l’unificazione dei beni aziendali è solo relativa e funzionale dato che per il trasferimento del
complesso aziendale, non essendoci una legge di circolazione propria dell’azienda, dovranno essere osservate le forme
stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda; la concezione atomistica è perciò
preferita come scelta di base.

Appunti di Gabriele Longo 23


L’azienda è espressamente equiparata alle universalità di beni dall’art. 670 che prevede il sequestro giudiziario di
aziende o di altre universalità di beni, ma ciò non offre argomenti per concepire l’azienda come un bene nuovo ed
unitario e non consente alcuna integrazione della disciplina dell’azienda infatti, oltre al 670 non esiste nessun’altra
norma che disciplini le universalità di beni.
Norme specifiche sono dettate solo per le universalità di mobili, definite dall’art. 816 come la pluralità di cose che
appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria, che sono poste sotto un regime normativo non
coincidente con quello previsto per i beni immobili; essendo però l’azienda costituita da beni eterogenei che possono
essere mobili ed immobili anche non di proprietà dell’imprenditore, l’applicabilità integrale all’azienda della disciplina
dettata per le universalità di mobili è da escludere.
Le diversità tra azienda ed universalità di mobili non implicano però la preclusione anche dell’applicazione per
analogia, perciò il comune profilo funzionale legittima, nei limiti della compatibilità, il riferimento alle norme dettate
in tema di universalità di mobili per la soluzione di problemi pratici lasciati insoluti dalla disciplina dell’azienda; può
ammettersi quindi che al pari delle universalità di mobili:
- L’insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell’imprenditore sia sottratto alla regola “possesso in buona fede
vale titolo” valida per i singoli beni mobili
- Il complesso mobiliare aziendale possa essere acquistato per usucapione solo in virtù del possesso continuato per
20 anni, a differenza del termine decennale previsto per i singoli beni mobili
- Il titolare di un’azienda possa avvalersi dell’azione di manutenzione anche per tutelare il possesso dell’insieme dei
beni mobili aziendali oltre che per gli immobili.
4. La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi.
È importante stabilire se un atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare come trasferimento di azienda o
come trasferimento di singoli beni aziendali, dato che solo nel primo caso potrà trovare applicazione la disciplina
ricollegata alla circolazione di un complesso aziendale. La distinzione nella pratica non è sempre agevole perché:
- L’atto di disposizione può comprendere solo parte dei beni aziendali
- Le parti possono ricorrere ad espedienti come il frazionamento del trasferimento dell’azienda in più atti separati
per sottrarsi agli effetti nei confronti dei terzi derivanti dal trasferimento di un’azienda
- Le parti possono etichettare come trasferimento di azienda ciò che tale non è, ad esempio per eludere i limiti posti
al trasferimento della ditta
La qualificazione in ogni caso deve essere operata secondo criteri oggettivi, guardando cioè al risultato realmente
perseguito e realizzato e non dalla qualificazione soggettiva del contratto fornita dalle parti, poiché il trasferimento
produce effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi; inoltre il trasferimento può aversi anche quando l’atto di
disposizione non comprenda l’intero complesso aziendale o comprenda un ramo particolare dell’azienda.
Per aversi trasferimento di azienda:
- È necessario che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio
di una determinata attività d’impresa, ciò anche se il nuovo titolare deve integrare il complesso con ulteriori fattori
produttivi per farlo funzionare
- È necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e funzionale di quella data azienda
Una volta accertato il trasferimento con criteri oggettivi, l’atto di disposizione comprenderà tutti i beni presenti in quel
dato momento nell’azienda anche se non menzionati nel contratto, tale interpretazione è giustificata dal collegamento
funzionale esistente tra i beni aziendali; naturalmente i vari beni passeranno all’acquirente nella medesima situazione
giuridica in cui si trovavano presso il trasferente, se nulla è espressamente pattuito al riguardo.
Le forme da osservare per il trasferimento dell’azienda sono fissate dall’art. 2556 che opera una distinzione tra:
- Forma necessaria per la validità del trasferimento: è dettata una disciplina identica per l’azienda agricola e
commerciale, la quale ritiene validi i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà solo se
stipulati con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono
l’azienda o per la particolare natura del contratto; manca quindi un’autonoma legge di circolazione. Per quanto
riguarda il trasferimento degli immobili aziendali sarà necessaria la forma scritta a pena di nullità e dovranno
essere rispettate le regole di forma previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in essere.
- Forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi: solo per le imprese soggette a registrazione secondo il
sistema originario del c.c. (non per le piccole imprese e per le imprese agricole individuali o costituite in forma di
SS) è previsto che ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto, la mancanza della scrittura
comporterà solo che in una eventuale controversia giudiziaria le parti non potranno avvalersi della prova per
testimoni per dimostrare l’esistenza del contratto; sempre per le stesse imprese i relativi contratti sono soggetti
ad iscrizione nel registro delle imprese, la modifica del ’93 impone che il contratto di trasferimento sia redatto per
atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve essere depositato a cura del notaio per l’iscrizione in 30 giorni.
Appunti di Gabriele Longo 24
La disposizione con l’attuale formulazione persegue anche finalità di ordine pubblico, come la prevenzione e la
repressione delle operazioni di riciclaggio di denaro, e ciò spiega perché, forzando la norma, è richiesto l’obbligo di
registrazione anche per gli imprenditori iscritti nelle sezioni speciali. In ogni caso solo l’iscrizione nella sezione ordinaria
produce la funzione dichiarativa (opponibilità) nei confronti dei terzi, analoga conclusione per gli imprenditori agricoli
iscritti nella sezione speciale.
5. La vendita dell’azienda. Il divieto di concorrenza dell’alienante.
L’alienazione dell’azienda produce effetti ulteriori rispetto a quelli dedotti dal contratto, che riguardano il divieto di
concorrenza dell’alienante (art. 2557), i contratti (art. 2558), i crediti (art. 2559) e i debiti aziendali (art. 2560).
Chi aliena un’azienda commerciale deve astenersi per massimo 5 anni dal trasferimento dall’iniziare una nuova
impresa che possa sviare la clientela dell’azienda ceduta; se l’azienda è agricola il divieto opera solo per le attività ad
essa connesse che portano allo sviamento della clientela. La norma soddisfa due esigenze:
- Quella dell’acquirente dell’azienda di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di godere dell’avviamento, del
quale di regola si è tenuto conto nella pattuizione del prezzo di vendita
- Quella dell’alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un determinato arco
di tempo sufficiente per consentire all’acquirente di consolidare la propria clientela.
Il divieto di concorrenza è derogabile e ha carattere relativo, ad esempio è possibile ampliarne la portata purché non
sia impedita ogni attività professionale; in ogni caso non è possibile superare i 5 anni.
Il divieto è applicabile sia al caso di vendita volontaria che coattiva: graverà in capo all’imprenditore fallito nel caso di
vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari.
Maggiori incertezze solleva l’applicazione del divieto in casi non espressamente regolati:
- Divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda ceduta in successione ad uno degli eredi
- Scioglimento di una società con assegnazione dell’azienda sociale ad uno dei soci quale quota di liquidazione
- Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di controllo in una società di persone o
di capitali: c’è un negozio traslativo ma non ha per oggetto l’azienda ma quote o azioni, tuttavia la vendita
dell’intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo permettono di raggiungere un risultato simile
alla vendita quindi per analogia è possibile applicare il divieto.
Nei primi due casi non c’è trasferimento ed è da escludere che gli altri terzi/soci siano tenuti a rispettare il divieto,
tuttavia in sede di divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione si tiene conto dell’avviamento dovuto
alla clientela e quindi applicare il divieto per analogia non è senza fondamento.
Essendo il divieto alla concorrenza però frequentemente eluso attraverso espedienti come l’utilizzo di un prestanome,
si propende per una interpretazione estensiva della norma: il divieto è violato quando si ha lo sviamento della clientela
per fatto concorrenziale direttamente o indirettamente imputabile all’alienante; anche se ciò non è sempre agevole
da provare. Allo scopo è opportuno prevedere nell’atto di alienazione delle specifiche clausole al riguardo.
6. La successione nei contratti aziendali.
Per favorire il mantenimento dell’unità economica dell’azienda trasferita viene agevolato il subingresso
dell’acquirente nei rapporti contrattuali in corso di esecuzione, introducendo significative deroghe alla disciplina
generale della cessione dei contratti, che l’alienante ha stipulato ad esempio con fornitori e finanziatori per assicurare
i fattori produttivi necessari all’organizzazione dell’impresa, allo svolgimento dei cicli produttivi e per dare sbocco ai
suoi prodotti; è infatti previsto dall’art. 2558 che:
- Se non pattuito diversamente l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti, direttamente o indirettamente
inerenti all’organizzazione, stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale e ciò avviene
anche senza la manifestazione esplicita di volontà nell’atto di alienazione; un’espressa pattuizione fra i contraenti
è necessaria solo se si vuole escludere la successione di uno o più contratti in corso di esecuzione.
- Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento,
se sussiste una giusta causa; ciò costituisce una deroga ai principi di diritto comune per i quali, allo scopo di tutelare
l’interesse di ciascuna parte, la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto.
La situazione cambia quando l’acquirente è un imprenditore e il contratto riguarda contratti inerenti all’esercizio
d’impresa poiché il consenso del terzo non è necessario e l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui
diventa efficace il trasferimento dell’azienda; da questo momento il terzo dovrà eseguire le proprie prestazioni nei
confronti del nuovo titolare dell’azienda.
Il terzo contraente non resta senza tutela ma è limitata alla possibilità di recedere dal contratto entro 3 mesi, recesso
che sarà validato solo se sussiste una giusta causa la quale prova sarà a carico del terzo; inoltre il recesso non determina
il ritorno del contratto in testa all’alienante ma comporta la definitiva estinzione, al terzo resta solo la possibilità di
chiedere il risarcimento dei danni all’alienante dando la non facile prova che non sia stato cauto nella scelta
dell’acquirente dell’azienda.
Appunti di Gabriele Longo 25
La disciplina esposta non trova applicazione per il trasferimento di contratti che abbiano carattere personale, per i
quali è necessaria l’espressa pattuizione contrattuale tra le parti e il consenso del terzo contraente ceduto, si ritorna
perciò alla disciplina di diritto comune della cessione del contratto. Stabilire quali contratti rientrino in tale categoria
non è agevole e diverse posizioni sono state espresse in dottrina, per l’opinione prevalente sono contratti nei quali
l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante sono state in concreto determinanti del consenso del terzo
contraente e non viceversa; in ogni caso ciò va accertato caso per caso in base a criteri di interpretazione oggettiva.
7. I crediti e i debiti aziendali.
Se l’imprenditore adempie le obbligazioni a suo carico residuerà un credito a suo favore nei confronti del terzo,
viceversa residuerà un debito dell’imprenditore quando è il terzo ad adempiere le proprie obbligazioni. In questi casi,
in sede di vendita dell’azienda per i crediti e i debiti aziendali troveranno applicazione gli artt. 2559 e 2560, che
entrambi derogano i principi di diritto comune in tema di cessione di crediti e di successione nei debiti.
Per i crediti la deroga introdotta dal 2559 è limitata: la notifica al debitore ceduto o l’accettazione da parte del debitore
richiesta dalla disciplina di diritto comune è sostituita da una notifica collettiva, ossia l’iscrizione del trasferimento
dell’azienda nel registro delle imprese; dal momento dell’iscrizione la cessione dei crediti ha efficacia nei confronti dei
terzi anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, tuttavia il debitore è liberato se paga in buona
fede all’alienante. Questa disciplina è applicata solo alle imprese soggette a iscrizione nella sezione ordinaria, negli
altri casi trova applicazione la disciplina generale della cessione dei crediti.
Per i debiti la deviazione dai principi di diritto comune è più vistosa, ciò al fine di evitare che la modifica del patrimonio
dell’alienante pregiudichi le aspettative di soddisfacimento dei creditori aziendali:
- È mantenuto fermo il principio per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore
- È derogato per le sole aziende commerciali il principio secondo cui ciascuno risponde solo delle obbligazioni da lui
assunte, è infatti previsto che, anche se manca un patto di accollo, risponde dei debiti dell’azienda anche
l’acquirente se essi risultano dai libri contabili obbligatori; vengono dunque tutelati i creditori aziendali.
È evidente che entrambi gli articoli si limitano a regolare le conseguenze del trasferimento per i creditori ed i debitori
aziendali e nulla dispongono circa la sorte di tali debitori e creditori nel rapporto tra alienante ed acquirente. Negli
orientamenti più recenti ed in modo più accentuato per i debiti, prevale la tesi che crediti e debiti non passino
automaticamente in testa all’acquirente, grazie ad una espressa pattuizione che nel caso in cui sia mancante:
- L’acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori e sarà tenuto a trasferire all’alienante quanto riscosso
- L’acquirente pagherà i debiti anteriori al trasferimento e avrà diritto di rivalsa nei confronti dell’alienante
8. Usufrutto e affitto dell’azienda.
La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività d’impresa modifica la
disciplina generale dell’usufrutto in quanto comporta il riconoscimento in testa all’usufruttuario di particolari poteri-
doveri fissati dall’art. 2561 sia per consentire all’usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente
l’impresa, sia per tutelare l’interesse del concedente nel non ridurre l’efficienza del complesso aziendale che dovrà
tornare a lui alla fine del rapporto. Il 2561 dispone che l’usufruttuario:
- Deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue (*)
- Deve condurre l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione
e degli impianti e le normali dotazioni di scorte (*)
- Non solo può godere di beni aziendali ma ha anche il potere di disporre nei limiti segnati dalle esigenze di gestione,
potere che sussiste rispetto alle scorte, al più generico capitale circolante e anche al capitale fisso (immobili,
impianti, macchinari) purché non vadano a modificare l’identità e l’efficienza dell’azienda.
- Potrà acquistare nuovi beni sui quali avrà diritto di godimento e potere di disposizione ma che diventano di
proprietà del nudo proprietario; in ogni caso al termine dell’usufrutto la differenza tra gli inventari redatti prima e
dopo viene regolata in denaro sulla base dei valori correnti
(*) la violazione di tali obblighi determinano la cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario
La disciplina prevista per l’usufrutto si applica anche all’affitto d’azienda per l’art. 2562, la differenza sta nel fatto che
nel primo caso oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, che può comprendere l’immobile, mentre
per l’affitto il contratto ha per oggetto l’immobile. Entrambi sono parzialmente regolati dalle norme in tema di vendita:
- Il nudo proprietario ed il locatore sono tenuti a non iniziare una nuova impresa che svii la clientela per la durata
del rapporto
- L’usufruttuario e l’affittuario subentrano nei contratti aziendali per la durata del rapporto, contratti che
torneranno in testa al proprietario al termine del rapporto.
- Si applica solo all’usufrutto il 2559 ossia la disciplina dei crediti aziendali in quanto non viene menzionato l’affitto
- Non si applica ad entrambi il 2560 perciò dei debiti aziendali anteriori al rapporto risponde solo il proprietario

Appunti di Gabriele Longo 26


CAPITOLO SESTO – I SEGNI DISTINTIVI
1. Il sistema dei segni distintivi.
Il mercato vede coesistere più imprenditori che producono beni simili, è necessario quindi utilizzare dei segni distintivi
che consentano di individuare e di distinguere i vari imprenditori sul mercato. I principali segni distintivi assolvono una
funzione comune ossia favoriscono la formazione e il mantenimento della clientela in quanto permettono ai
consumatori di distinguere tra i vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli e sono:
- Ditta: contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività d’impresa, il cosiddetto nome
commerciale (artt. 2563-2567)
- Insegna: individua i locali in cui l’attività d’impresa è esercitata (art. 2568)
- Marchio: individua e distingue i beni o i servizi prodotti (artt. 2569-2574)
Intorno ai segni distintivi ruotano quindi diversi interessi che spesso si contrastano:
- Dotarsi di segni che abbiano forza distintiva e attrattiva
- Precludere l’uso di segni simili idonei a sviare la clientela
- Poter cedere ad altri i propri segni distintivi in modo da monetizzarli
- La competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale: questo è l’obiettivo cui tende la
regolamentazione giuridica dei segni distintivi
I tre segni distintivi sono regolati da diverse norme ma è possibile ricavare alcuni principi comuni:
- L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi, è tenuto però a rispettare
determinate regole per evitare inganno e confusione sul mercato
- L’imprenditore ha il diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi, si tratta però di un diritto non assoluto ma
relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva rispetto ai concorrenti; non si può perciò impedire
che altri adottino il medesimo segno distintivo se, per via della diversità d’impresa o del mercato servito, non vi è
pericolo di confusione e sviamento della clientela
- L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi sempre che questo non vada a trarre in inganno il
pubblico
Da ciò emerge che la tutela ha carattere relativo e rende controverso inquadrare o meno i segni distintivi tra i beni
immateriali e quindi definire o meno il diritto di proprietà sul bene immateriale. Tutto sommato l’inquadramento può
essere accettato essendo accettato dalla dottrina il concetto di proprietà industriale
A. LA DITTA
2. Formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta.
La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore che lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività
d’impresa ed è segno distintivo necessario in quanto in mancanza di diversa scelta essa coincide con il nome civile
dell’imprenditore. Non è necessario che corrisponda al nome civile e può essere scelta dall’imprenditore ma nella
scelta incontra due limiti:
- Rispetto del principio della verità (art. 2563): ha contenuto diverso a seconda che di tratti di
 Ditta originaria: deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore per rispettare il principio della
verità, l’imprenditore è poi libero di completare come preferisce la propria ditta
 Ditta derivata: è quella formata da un imprenditore e successivamente trasferita ad altro imprenditore insieme
all’azienda, in ogni caso nessuna norma impone a chi la utilizzi di integrarla col proprio cognome o sigla
- Rispetto del principio della novità: la ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e
tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui è esercitata; chi adotta per primo una ditta
ha perciò diritto all’uso esclusivo della stessa, chi successivamente adotta una ditta simile può essere costretto ad
integrarla o modificarla allo scopo di differenziarla. Per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o
modifica spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore, tende tuttavia a
prevalere l’opinione che la ditta registrata per prima prevalga solo quando chi ha preusato la stessa ditta senza
registrarla non riesca a provare la conoscenza del proprio preuso da parte dell’altro imprenditore.
Il diritto all’uso esclusivo è relativo in quanto sussiste solo se i due imprenditori sono in rapporto concorrenziale tra
loro, è perciò consentita l’omonimia tra ditte che non creano confusione nel mercato in quanto l’oggetto dell’impresa
e/o il luogo in cui questa è esercitata è differente. In ogni caso la confondibilità:
- per l’oggetto e per il luogo di esercizio deve essere valutata tenendo conto anche dell’attitudine dell’impresa ad
espandersi in attività complementari, simili o affini e delle prevedibili possibilità di espansione territoriale risultanti
dalle dimensioni e dall’organizzazione dell’impresa
- deve essere valutata sulla base delle ditte effettivamente utilizzate anche se diverse da quelle ufficiose
- si deve dare rilievo al nucleo caratterizzante e predominante e non a indicazioni marginali (bar, ristorante…)

Appunti di Gabriele Longo 27


Si tenga infine presente che il principio di novità opera anche nei rapporti tra la ditta e gli altri segni distintivi, parliamo
del principio di unitarietà dei segni distintivi in base al quale il diritto di esclusiva che spetta al titolare ha effetto nei
confronti di tutti i segni distintivi usati da altri imprenditori.
3. Il trasferimento della ditta.
È trasferibile ma solo assieme all’azienda ed è necessario il consenso dell’alienante nel caso di atto tra vivi, mentre si
trasmette al successore salvo diversa disposizione testamentaria nel caso di successione per causa di morte.
Il collegamento tra circolazione della ditta e dell’azienda consente al titolare di monetizzare l’avviamento connesso
alla ditta e al tempo stesso di tutelare i soggetti che hanno avuto rapporti con l’imprenditore originario ma:
- Tutela più il pubblico dei consumatori contro un improvviso e radicale mutamento delle caratteristiche oggettive
dei beni prodotti o servizi venduti dall’impresa
- Tutela molto meno i soggetti che fondano i loro rapporti anche sulla persona dell’imprenditore ossia i creditori
La circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad individuare l’attuale titolare
dell’impresa espone i terzi a possibilità d’inganno, pericolo accentuato dal fatto che si ammette il trasferimento della
ditta anche quando non è trasferita l’intera azienda ma un solo ramo della stessa dotato di organica unità.
Questi soggetti vengono però tutelati dal fatto che si addossa all’alienante l’onere di portare a conoscenza dei terzi
l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta dato che se il terzo ritiene di trattare col cedente, questi sarà
responsabile in solido con l’acquirente dei debiti contratti spendendo la ditta derivata.
4. Ditta e nome civile. Ditta e nome delle società.
L’imprenditore individuale ha un nome civile che lo individua come soggetto di diritto e può avere una ditta che lo
individua; ditta e nome civile assolvono però ad una diversa funzione, sono diversamente tutelati e formano oggetto
di diritti diversi. Il nome civile è attribuito per legge, è a struttura fissa, è unico e non deliberatamente modificabile;
un imprenditore invece può avere più ditte.
Nome civile Ditta
È tutelata come mezzo di attrazione
È un attributo della personalità e come
della clientela e come valore
tale è tutelato dagli artt. 7-9
patrimoniale
Non è consentita omonimia tra ditte di
Omonimia tra nomi civili è sempre imprenditori in rapporto di concorrenza,
ammessa anche se corrispondenti ai rispettivi
nomi civili
È indisponibile e intrasmissibile È disponibile e trasmissibile

Questa distinzione è valida anche per le società ed è fondamentale per l’interpretazione dell’art. 2567 che stabilisce:
- Ragione sociale delle società di persone e denominazione delle società di capitali e delle cooperative sono regolate
dalle norme dettate in sede di disciplina dei singoli tipi di società
- Si applica il divieto di utilizzare ditta uguale o simile a quello di altro imprenditore concorrente (2564)
- Non sono invece richiamati la scelta della ditta (2563) e il trasferimento della ditta (2565)
Questo fa pensare ad una disparità di trattamento rispetto agli imprenditori individuali dato che quanto detto porta a
pensare che le società non possono formare liberamente la loro ditta, non possono utilizzare una ditta derivata né
possono trasferire la ditta originaria, ma si è chiarito che ragione e denominazione sociale non vanno identificate con
la ditta, in quanto costituiscono il nome necessario delle società e vanno poste sullo stesso piano del nome civile della
persona fisica dato che servono ad individuarle come soggetti di diritto. Il regime che vale per le società va ricostruito:
- Le società devono avere una ragione o una denominazione sociale formata rispettando sia le norme dettate a
riguardo sia il 2564: il nome non può perciò essere uguale o simile a quello prescelto da altra società concorrente
e non è trasferibile
- Le società possono inoltre avere una ditta originaria formata rispettando le norme sulla ditta, ossia dovrà includere
ragione o denominazione sociale
- Le società possono avere una o più ditte derivate, ditte sempre distinte dal nome che a differenza di questo
potranno essere trasferite con l’azienda
In questo modo è ristabilita la parità di trattamento fra imprenditori individuali e società.

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