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PLUTARCO

(Cheronea, prima del 50 d.C. – ca. 125 d.C.)


dalla scheda di Diego Fusaro

La vita

Quasi tutto ciò che sappiamo circa la vita di Plutarco si ricava da riferimenti interni alle sue
stesse opere: in esse, egli ricorda (Moralia 385 b) di essere stato discepolo del platonico
Ammonio nell’età in cui Nerone soggiornò in Grecia (66-67 d.C.); da questo riferimento, è
possibile collocare la nascita di Plutarco poco prima del 50 d.C. Sempre nei suoi scritti, egli
narra che la sua famiglia fu funestata dalla scomparsa prematura dei cinque figli che Plutarco
ebbe dalla moglie Timòssena.
Plutarco trascorse la maggior parte della propria esistenza nella nativa Cheronea, in Beozia,
(diceva scherzosamente di non volerla rendere più piccola andandosene), ma ciò non gli impedì
di fare importanti viaggi sia in Grecia sia nelle altre zone dell’Impero: e così si recò ad Atene
(ove fu insignito della cittadinanza onoraria), a Sparta, ad Alessandria e forse anche in Asia;
ebbe modo di visitare l’Italia e di soggiornare a Roma, senza però riuscire ad impadronirsi alla
perfezione della lingua latina per via dei molteplici impegni politici e culturali che lo tennero
costantemente occupato (Vita di Demostene, 2, 2).
Divenne cittadino romano col nomen di Mestrio (tratto dall’amico Mestrio Floro) e gli fu
conferita da Traiano la dignità consolare, da Adriano quella di suo ambasciatore in Grecia. È
curioso che di queste cariche prestigiose, di cui ci dicono Eusebio e il lessico Suda, Plutarco
non faccia mai menzione nei suoi scritti: questa apparente stranezza è probabilmente dovuta
sia alla modestia di Plutarco che alla sua fierezza greca: per tutta la vita egli non volle vantarsi
di cariche esercitate in favore del potere romano. Quest’ipotesi trova una potente conferma nel
fatto che egli elenchi nei suoi scritti una dopo l’altra tutte le cariche da lui rivestite in Beozia
(arconte eponimo, sovrintendente all’edilizia pubblica, telearco). L’incarico che più ebbe a cuore
fu però quello di sacerdote delfico, che detenne per circa un ventennio e che molta influenza
ebbe sulla sua spiritualità. Molte incertezze permangono sulla data della morte di Plutarco, che
dovette in ogni caso coglierlo in età piuttosto avanzata: se prestiamo fede a Eusebio, Plutarco
non sarebbe morto dopo il 119 d.C., anche se c’è chi sposta la data fino al 125.

La personalità

Plutarco, a differenza dei retori della Seconda Sofistica, non cercò la fama attraverso tournée in
tutto il mondo conosciuto, ma, al contrario, divenne celebre trasformando la sua cittadina e la
sua stessa casa un polo di attrazione per tutti gli intellettuali dell’epoca, ed anche per le
persone comuni: la sua casa era infatti un vero e proprio centro culturale di grandissimo
successo, aperto a tutti e frequentato da personaggi illustri provenienti da ogni parte
dell’impero, ma da Plutarco si recava chiunque avesse bisogno anche soltanto di un consiglio o
di conforto.
La moglie Timòssena, donna cólta e scrittrice ella stessa, gli fece da segretaria ed
amministratrice, mentre i figli maschi furono attivi collaboratori del padre in questo progetto.
Uomo profondamente retto, non abbandonò mai la sua squisita sensibilità umana e la sua
semplicità di fondo, che seppe coesistere armonicamente con la sua cultura e lo rese
disponibile nei confronti di chiunque, oltre che amante degli animali (era vegetariano); a chi si
stupiva nel vederlo impegnato in lavori umili, come misurare tegole o trasportare pietre e calce,
replicava: «Lo faccio per la patria, non per me!».
Convinto che la virtù sia il frutto del graduale formarsi di una coscienza morale,
educazione della volontà e componente essenziale dello spirito, che permette a tutti di
raggiungere la meta di una crescita personale e civile, sosteneva che per approdare alla virtù è
necessario seguire una via lunga e impegnativa; la prima tappa è la coscienza di sé.
La filosofia per Plutarco è la medicina dell’anima: le passioni possono essere frenate
esercitando la ragione. La terapia si basa sulla meditazione e su esercizi spirituali che
impegnano a fondo la sfera psichica, come dialogare ed ascoltare attentamente
l’interlocutore. Giudiziosamente Plutarco scrisse: «Non è difficile muovere obiezioni al discorso
pronunciato da altri, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso, invece, è contrapporne uno
migliore.» Oltre al dialogo, Plutarco pone l’accento sulla lettura, la ricerca e la scrittura.
Le opere

I titoli delle opere scritte da Plutarco ci sono stati tramandati dal cosiddetto “catalogo di
Lampria”, nome che il lessico Suda attribuisce erroneamente ad un figlio di Plutarco stesso,
che avrebbe compliato il catalogo degli scritti del padre. In alcuni manoscritti il catalogo è poi
preceduto da un’epistola nella quale un mittente anonimo scrive ad un altrettanto anonimo
destinatario chiedendo di inviargli una lista degli scritti del proprio padre.
Oggi si pensa che tanto l’epistola quanto il catalogo siano di epoca posteriore, e si è fissata alla
notevole cifra di 260 il numero delle opere di Plutarco (di cui però alcune sono sicuramente
spurie). Di questa impressionante produzione a noi è giunto soltanto un terzo.
Le opere di Plutarco possono essere suddivise in due grandi gruppi: le Vite parallele (che ci
sono giunte in numero di 50) e i Moralia (Ethicà), dei quali sono sopravvissuti circa 70 scritti
(non contando quelli sicuramente falsi).

Le Vite parallele

Le 50 Vite parallele non sono altro che 50 biografie di uomini illustri del mondo greco e
romano (con l’eccezione di quella del persiano Artaserse); di queste, 44 risultano ordinate
secondo coppie di personaggi appartenenti ai due popoli (Alessandro-Cesare, Demostene-
Cicerone, e così via), aspetto che giustifica la denominazione di “parallele”. Nella sua opera,
infatti, Plutarco instaura un vero e proprio parallelo tra le vite di illustri Romani e quelle di
illustri Greci, operando poi un confronto (sýnkrisis) tra il personaggio greco e quello romano
presi in esame e spiegando le ragioni di tale parallelismo.
Solo quattro vite (Arato, Artaserse, Galba, Otone) sono singole, e una delle coppie risulta
costituita da due personaggi per parte (Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco), il che porta
il numero delle biografie a 50.

Nei manoscritti, le 22 coppie ci sono state tramandate nel modo seguente:

1. Teseo-Romolo; 12. Emilio Paolo-Timoleonte;


2. Solone-Publicola; 13. Sertorio-Eumene;
3. Temistocle-Camillo; 14. Filopemene-T. Flaminio;
4. Aristide-Catone il Vecchio; 15. Pelopida-Marcello;
5. Cimone-Lucullo; 16. Alessandro-Cesare;
6. Pericle-Fabio Massimo; 17. Demetrio-Antonio;
7. Nicia-Crasso; 18. Pirro-Mario;
8. Alcibiade-Coriolano; 19. Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco;
9. Demostene-Cicerone; 20. Licurgo-Numa;
10. Focione-Catone il Giovane; 21. Lisandro-Silla;
11. Dione-Bruto; 22. Agesilao-Pompeo.

I paralleli sopra indicati col numero 3, 10, 16 e 18 sono gli unici privi del confronto.
Il procedimento del confronto tra personaggi illustri non era certo una novità (basti pensare
alla celebre comparatio tra Catone e Cesare nel cap. 54 della Congiura di Catilina di Sallustio),
ma è sicuramente innovativo l’uso che ne fa Plutarco: egli accosta un personaggio greco ad uno
latino con l’intenzione (insieme politica e culturale) di avvicinare i due popoli e le due civiltà,
superando i rispettivi pregiudizi. In un contesto in cui il dominio romano è una realtà
indiscutibile, ma in cui al tempo stesso la Grecia, col suo glorioso passato, non vuole essere
relegata ai margini come mera colonia, Plutarco sa bene che la sua è una missione storica di
unificazione e conciliazione tra due realtà diverse e potenzialmente in conflitto. Il mondo greco
e quello romano sono da Plutarco intesi come due mondi complementari, quasi come se quello
romano non fosse altro che una riproposizione in parallelo degli antichi eroi greci, migrati a
Roma. Il mondo romano non segna dunque la fine di quello greco, ma piuttosto la sua
continuazione.
Ma non è questo l’unico scopo dell’opera plutarchea: ve n’è un altro, altrettanto importante,
che Plutarco enuncia nell’esordio della Vita di Emilio Paolo, allorché spiega che, “guardando
nella storia come in uno specchio”, egli prova a modellare in qualche modo la sua vita sulle
virtù dei protagonisti della storia, aggiungendo che “non esiste modo migliore e più piacevole
di migliorare i propri costumi”. Le virtù degli eroi storici sono dunque un paradigma da cui mai
bisogna allontanare lo sguardo e che dev’essere conosciuto per poter essere imitato.
Plutarco sa bene che, per questa via, si esce dai sentieri della storiografia per imboccare
quelli della biografia, e lo dichiara programmaticamente nella Vita di Alessandro (I, I, ss.):
“Noi non scriviamo storie, ma biografie. […] Come dunque i pittori ricavano le
somiglianze dal volto e dai tratti esteriormente visibili, attraverso i quali si manifesta il
carattere, così a noi dev’essere concesso di penetrare maggiormente nei segni rivelatori
dell’animo e mediante questi dare un’immagine della vita di ciascuno, lasciando ad altri
le grandezze e le contese”.
Nel tratteggiare la vita dei suoi personaggi, Plutarco procede per tempora, secondo il modello
biografico peripatetico, e non per species, secondo l’impostazione alessandrina: parte
solitamente dalla gioventù, su cui si sofferma con particolare insistenza, giacché la intende
come il momento di formazione dell’uomo e del suo éthos; poi passa alle imprese storiche
compiute (che sono una diretta emanazione dell’éthos) dal personaggio cresciuto, per poi
concludere con la vecchiaia e con la morte; numerosi sono gli aneddoti e le frasi celebri (“meglio
essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma”, dice ad esempio Cesare).

Il pensiero filosofico: i Moralia

Se dalle Vite parallele ci è restituita l’immagine di un “Plutarco storico” o, meglio, biografo,


quello che affiora dai Moralia è un “Plutarco filosofo” a trecentosessanta gradi.
Il titolo di Moralia, attribuito all’opera plutarchea da Massimo Planude (XIII d.C.), pare dunque
riduttivo, perché trascura il carattere enciclopedico dell’indagine plutarchea.
Queste le operette divise per argomenti (i titoli si citano comunemente in latino):

• Una prima serie di scritti filosofici è quella di contenuto etico, che dà il titolo alla raccolta
e che sviluppa argomenti di filosofia spicciola; es.: De adulatore et amico; De virtute et vitio;
Coniugalia praecepta; De cohibenda ira; De tranquillitate animi; De curiositate; De invidia et
odio; Consolatio ad uxorem; Amatorius.
• 5 sono le opere pedagogiche: De liberis educandis; De audiendis poetis; De audiendo; De
musica; Pro nobilitate.
• Seguono gli scritti politici; es.: Ad principem indoctum; An seni res publica gerenda sit; De
esilio; Institutio Traiani.
• Presentano un contenuto speculativo alcune opere che passano in rassegna, non senza
intenti polemici, le diverse posizioni assunte dalle varie scuole filosofiche; es.: Platonicae
quaestiones; De Stoicorum repugnantiis; Stoicos absurdiora poetis dicere; Non posse suaviter
vivi secundum Epicurum; Adversus Coloten; De latenter vivendo; De anima.
• Di argomento spiccatamente scientifico sono una serie di opere al cui centro sta l’indagine
del mondo fisico e animale; in esse Plutarco prende posizione contro l’uso alimentare
della carne; es.: De facie in orbe lunae; De primo frigido; De sollertia animalium; Bruta
animalia ratione uti; De esu carnium.
• Altri scritti sono dedicati alla storia della religione e a problematiche teologiche; es.: De
superstitione; De Iside et Osiride; De E apud Delphos; De defectu oraculorum; De sera
numinis vindicta; De genio Socratis.
• Presentano un taglio antiquario ed erudito scritti che trattano, in forma rigorosamente
eziologica, di riti e usanze greche e romane; es.: Aetia Romana; Aetia Greca;
Apophthègmata Laconica.
• Plutarco si occupò anche di critica letteraria, di poetica e di retorica, anche se i suoi
scritti circa questi argomenti sono andati perduti. Due però ci sono giunti e sono
rispettivamente dedicati ad un raffronto tra Aristofane e Menandro e alla malignità di
Erodoto (malignità dimostrata soprattutto ai danni dei Corinzi e dei Beoti): De comparatione
Aristophanis et Menandri epitome; De Herodoti malignitate.
• Prove di declamazione sono alcuni scritti (probabilmente giovanili) in cui Plutarco esercita
la propria bravura retorica: De fortuna; De Alexandri Magni fortuna; Aquane an ignis sit
utilior; An virtus doceri possit; An vitiositas ad infelicitatem sufficiat; Animine an corporis
affectiones sint peiores; De fato.
• Contenuto miscellaneo e difficilmente classificabile hanno infine due opere: Septem
sapientium convivium; Quaestiones convivales.

Le due forme stilistiche che Plutarco sembra di gran lunga preferire nel fare filosofia sono
quella del dialogo alla maniera platonica e quella del trattato: ma il dialogo platonico, nelle
mani di Plutarco, muta radicalmente essenza e non di rado finisce per essere solo una cornice
entro cui inserire l’esposizione dell’argomento sotto forma di trattato. Lo stesso trattato assume
una forma particolare, declinandosi ora come declamazione oratoria, ora come invettiva,
talvolta come diàtriba di derivazione cinica.
Plutarco fu un ingegno enciclopedico, che si occupò di tutto, mosso da una curiositas che lo
spingeva a interrogarsi su ogni cosa. È soprattutto a Platone che Plutarco si richiama
espressamente, anche se la sua etica ha molti tratti comuni con quella aristotelica:
dall’Accademia egli mutua l’atteggiamento antidogmatico e scettico, che lo porta spesso a
ricorrere alla sospensione del giudizio (epoché), rendendolo consapevole dell’impossibilità di
raggiungere in via definitiva la verità. Ma il dubbio e la sospensione del giudizio vengono
esercitati da Plutarco limitatamente al mondo fisico, cioè al mondo della dòxa, dell’opinione e
della congettura; per quel che invece riguarda l’ambito delle eterne verità religiose e morali,
egli è invece profondamente dogmatico.
Sulle orme dell’amato Platone, Plutarco non ritiene assurdo o impossibile conciliare la fede in
un Dio unico col politeismo della religione tradizionale, verso la quale nutre un incredibile
rispetto. Non a caso egli fu sacerdote di Apollo e venne iniziato anche ai misteri dionisiaci,
nutrendo una fede incrollabile nell’immortalità dell’anima e nell’aldilà.
Suggestionato dal pitagorismo, Plutarco credeva anche nella trasmigrazione delle anime:
questo spiega il suo vivacissimo interesse per il mondo animale, per il vegetarismo (o
vegetarianesimo) e per la lotta contro l’uso alimentare delle carni.
Seguace fedele del dio delfico, Plutarco credeva alla funzione dell’arte mantica e alla veridicità
degli oracoli, il cui silenzio egli prova a spiegare nel De defectu oraculorum, attraverso le tesi
esposte dai vari interlocutori: una di tali tesi ipotizza addirittura l’esistenza di dèmoni, ossia
di esseri intermedi tra l’umano e il divino, coi quali in altri scritti si cerca di render conto anche
del male nel mondo e della sua apparente inconciliabilità con la provvidenza divina.
Interessato alla religione egizia, egli interpreta il mito di Iside e Osiride alla luce delle nozioni
(desunte dal Timeo di Platone) di intelletto, anima del mondo e materia come ricettacolo.
All’interno dei suoi dialoghi, Plutarco non esita ad introdurre, ancora una volta seguendo le
orme di Platone, miti escatologici sul destino dell’anima dopo la morte.
Richiamandosi alle Leggi di Platone, Plutarco tenta poi di render conto del male nel mondo,
ammettendo l’esistenza, accanto ad un principio divino razionale e buono, di un principio che
genera il male (De Iside et Osiride, 49, 371 a).
Come abbiamo detto, Plutarco nutre un atteggiamento profondamente ostile allo stoicismo e
all’epicureismo: degli stoici, egli mette in luce le innumerevoli contraddizioni teoriche che
inficiano il loro sistema, sottolineando anche l’incompatibilità tra l’impegno politico a cui essi
esortano e il loro totale disimpegno e agnosticismo politico praticato nella vita di tutti i giorni.
La stessa pretesa stoica di eliminare le passioni è un’assurdità degna di essere derisa: ad essa
Plutarco contrappone l’antica strategia platonica di misurazione ragionata delle passioni,
recuperando in toto l’antica tripartizione platonica dell’anima: una tripartizione che, com’è
noto, lungi dal liquidare le passioni, le sottopone alla guida lungimirante della ragione.
Dell’epicureismo Plutarco attacca ogni parte, schierandosi con particolare accanimento contro
l’etica: non è un caso che il giovane Marx, nella sua dissertazione dottorale (Differenza tra le
filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, 1841), non esiti ad individuare in Plutarco
(insieme con Cicerone) il massimo nemico dell’epicureismo. In particolare, Plutarco afferma che
– parafrasando il titolo di un suo scritto – è impossibile vivere felicemente seguendo Epicuro (si
veda soprattutto Adversus Coloten, contro l’epicureo Colote).
Il pensatore di Cheronea, così critico verso le diverse scuole di pensiero, assume un
atteggiamento di acquiescenza verso la realtà politica presente, tessendo a più riprese le
lodi di Roma, alla quale riconosce il merito di assicurare la pace, la sicurezza e la libertà. Il vero
obiettivo politico da raggiungere è quello della concordia tra i cittadini, rimuovendo ogni lotta
tra loro: a questo scopo, Plutarco propone un ritorno alla paideìa, sulla scia di Platone. In
un’epoca in cui il disegno politico platonico è ormai irrealizzabile, resta comunque viva la linea
pedagogica del filosofo delle idee, a patto che la si adatti alla nuova temperie culturale.
Come Cicerone, Plutarco non elabora un sistema proprio, ma si pone in costante dialogo
con le menti illustri del passato, di cui cerca di riproporre i temi, ma senza imitarli
pedissequamente. Nell’Amatorius, ad esempio, egli elabora una sorta di rifacimento del
Simposio platonico, ma scostandosi talvolta notevolmente dagli insegnamenti platonici;
l’obiettivo stesso del dialogo è profondamente antiplatonico: dimostrare la superiorità
dell’amore eterosessuale rispetto a quello omosessuale; verso l’omosessualità, infatti,
Plutarco mostra una vera e propria repulsione, pur senza giungere a condannarla
inappellabilmente (giacché era pur sempre stata un costume di grandi ingegni antichi).
Plutarco, a tale scopo, pone al centro dell’Amatorius una vicenda paradossale, seppure
realmente accaduta: la ricca vedova Ismenodora, follemente innamorata del giovanissimo
Baccone ed intenzionata a sposarlo contro il parere della famiglia di lui, inscena un rapimento
per mettere i genitori del ragazzo di fronte al fatto compiuto, ed ottiene in tal modo il suo scopo.

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