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CORSO DI LITURGIA

VALERIO MANNUCCI
LUCA MAZZINGHI

BIBBIA
COME PAROLA DI DIO
Introduzione generale
alla sacra Scrittura

Nuova edizione
interamente riveduta e aggiornata

QUERINIANA
Prima edizione 1981

Nuova edizione 2016


(21a edizione interamente riveduta e aggiornata)

© 201621 by Editrice Queriniana, Brescia


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ISBN 978-88-399-0118-7

www.queriniana.it

Stampato da Grafiche Artigianelli Srl - Brescia


Presentazione

Mettere il prologo a un libro di un proprio alunno è sentirsi un po’


nonno, o come fare da padrino al battesimo di un nipote. Momento
pericoloso per cadere nel sentimentalismo, cercando nel germoglio tratti
simili alla propria fisionomia, o per abbandonarsi a ricordi nostalgici.
Bisognerà sforzarsi di guardare con serena distanza, non come un riti-
rato per forza ma come uno che prosegue attivamente la sua carriera di
scrittore.
Un libro di Introduzione generale alla sacra Scrittura pubblicato nel
1981 non può sottrarsi alla condizione di apparire quindici anni dopo
il concilio Vaticano II. I libri di Introduzione generale alla Scrittura
avevano acquistato, prima di quella data, una cristallizzazione, cioè una
fisionomia stabile: armonica e organica nei casi buoni, rigida e di ma-
niera nei cattivi. Che fare dopo quel­­l’evento ecclesiale? Continuare a
ripetere, come se niente fosse successo oppure progredire sotto lo stimolo
del nuovo?
Alcuni, ma piuttosto pochi, tentarono di prolungare il nuovo e anche
di arricchirlo inseguendo nuove strade di riflessione. In quindici anni
sono nate alcune idee nuove e si sono diffuse in diversi campi; però non
sono arrivate a fondersi in un corpo organico capace di formare tradi-
zione. Mi torna alla memoria il discorso conciliare di mons. Neophitos
Edelby, e non conosco nessuna opera che abbia sviluppato sistematica-
mente le sue intuizioni teologiche.
Un’altra strada era quella di commentare la costituzione conciliare Dei
Verbum, e ciò è stato fatto in varie lingue e in forme diverse. Si scrissero
commenti letterali e anche letteralisti. Si praticò pure la riflessione criti-
ca, intendendo per “critica” la distanza capace di valutare senza mancare
6 Presentazione

di rispetto. Un commento critico al testo conciliare poteva segnalare la


presenza di idee conosciute e già accettate, poteva indicare il nuovo in
contrasto con posizioni prima comuni, compreso ciò che rimaneva da
fare, come pure segnalare porte e strade aperte per proseguire il cammino.
Un commento simile cessava di essere letterale, per prendere il volo e al-
largare la visuale. Commenti a Dei Verbum letterali o critici, brevi o estesi,
fiorirono negli anni successivi al concilio, come attesta l’Elenchus Biblicus
del p. Nober. Ebbero la loro diffusione e pare che si siano esauriti. Voglio
dire che si esaurirono le edizioni e si esaurì di fatto anche il genere; come
se fosse un prodotto meno didattico o poco commerciale. Non so fino a
che punto si leggano ancora quei libri pubblicati dieci o dodici anni fa.
Da quanto ho detto circa i testi scritti e pubblicati, non bisogna se-
parare la diffusione e quasi tradizione orale di molti professori che ne-
gli anni dopo il concilio si dedicarono al­­l’insegnamento o rinnovarono
quello che stavano praticando o si unirono al movimento biblico. Tra
tutti, realizzarono un meritorio lavoro di diffusione del magistero con-
ciliare della chiesa. Senza dubbio questa tradizione orale di tanti col-
laboratori è stata fattore decisivo della splendida rinascita biblica nella
chiesa cattolica.
Succede che qualcuno di loro passi dal magistero orale al magistero
scritto, in diverse forme o livelli, intorno al tema che ci riguarda. Per
esempio, preparando un manuale che, raccogliendo le esperienze pre-
cedenti, si collochi nel­­l’alveo conciliare e compia un passo in avanti. È
il compito che si è prefisso Valerio Mannucci dopo averlo maturato in
anni di insegnamento e in precedenti pubblicazioni.
Il carattere didattico da un lato, il momento della pubblicazione
dal­­l’altro, condizionano il lavoro senza limitarlo. Cominciamo dal­­
l’architettura generale. Se prendiamo un trattato classico, per esempio
l’eccellente Institutiones Biblicae (P.I.B., ultima edizione del 1951) e lo
confrontiamo con quello del Mannucci, apprezziamo il mutamento
della disposizione della materia e l’ampliamento del contesto teologico:

Parola di Dio come rivelazione


parola umana
rivelazione attraverso la storia
Trasmissione della Parola
la formazione dei libri della Bibbia
lingue bibliche e testo biblico
Presentazione 7

Ispirazione La Bibbia Parola di Dio


fatto e natura testimonianze del­­l’AT e del NT
estensione ispirazione: azione dello Spirito
effetto: inerranza storia della teologia del­­l’ispirazione
criterio
Canone Canone
storia del canone del­­l’AT e del NT del­­l’AT e del NT nella tradizione giudaica
e cristiana
libri apocrifi discussioni protestanti recenti
la verità della Bibbia
Interpretazione Interpretazione della Scrittura
noematica, sensi biblici: letterale, tipi- résumé storico
co, plenior
euristica il problema ermeneutico attuale
dati interni ed esterni l’ermeneutica nella teologia contem-
poranea protestante e cattolica
generi letterari i sensi biblici
proforistica la Scrittura nella vita della chiesa

La costituzione conciliare ha dettato la collocazione del tema nel con-


testo più ampio della rivelazione e della sua trasmissione (capp. I e II di
Dei Verbum). Studi postconciliari hanno suggerito di concedere maggio-
re importanza al tema della parola in se stessa e nella sua relazione con la
storia. Acquista ampiezza nuova l’esposizione del problema ermeneutico
attuale, che il trattato del 1951 neppure immaginava. Cioè il trattato
di Mannucci appare, già nella sua architettura, molto più aperto alla
teologia e ad alcune scienze moderne del­­l’uomo.
A un trattatista chiediamo capacità di sintetizzare e organizzare, abilità
del formulare. Se aggiunge riflessioni personali e il tono personale alle
altrui riflessioni, la sua voce risuonerà con più autorità. Ritengo che
l’autore ci sia riuscito.
E come incorporare il nuovo? – O concedendo la parola o riassumen-
do il pensiero di altri. Nel migliore dei casi l’espositore riuscirà a mostra-
re un processo evolutivo, nel peggiore risulterà un informatore eclettico.
Pertanto, informare mettendo chiarezza e ordine in materiali efferve-
scenti è già sforzo valoroso e apporto meritorio. Mannucci concede la
parola senza discriminazioni, non cerca di mettere d’accordo quelli che
dissentono, conduce con tatto la discussione, interviene riassumendo e
indirizzando. Forse l’ultima parte del libro, quella sul­­l’interpretazione
8 Presentazione

della Scrittura, è la più valida sotto questo aspetto. Si tratta di un terreno


in via di esplorazione, nel quale mette paura avventurarsi. Molti senti-
vano la necessità di possedere in linguaggio accessibile e con la chiarezza
di un trattato quel capitolo difficile e trascendentale del­­l’ermeneutica
biblica. L’esposizione precedente di G. Savoca ha prestato i suoi servizi.
Mannucci è riuscito a chiudere il suo trattato con questi validi capitoli
finali.
E ora il libro, generato e dato alla luce con fatiche vitali, si separa
dal­­l’autore per arrivare nelle mani di alunni e professori. Un nonno
non sentimentale augura al libro un’accoglienza altrettanto vitale da
parte dei professori: che lo collochino di nuovo nella tradizione orale
del­­l’insegnamento e se lo facciano collaboratore nella diffusione e assi-
milazione degli insegnamenti conciliari.
Un libro è una sosta nella vita. Che il movimento in avanti prosegua!

Luis Alonso Schökel


decano del Pontificio Istituto Biblico
Natale 1980
Prefazione alla prima edizione

«La Luce non viene mai da sola in noi.


Essa porta sempre con sé una compagna,
che ha nome Gioia»
(dalle Avventure della Sapienza)

Perché un nuovo manuale di Introduzione generale alla sacra Scrittura?


Chi come me ha insegnato questa disciplina nei Seminari e negli
Istituti di teologia fin dagli anni Sessanta, ha dovuto sintonizzarsi con
la svolta conciliare del Vaticano II. Ritengo anche che lo abbia fatto con
l’entusiasmo di quella splendida stagione, grazia singolare per chi l’ha
vissuta. I manuali preconciliari, pur ottimi sotto molti punti di vista
(per esempio, nel­­l’area biblica italiana, i volumi di Höpfl – Leloir, Per-
rella – Vagaggini, Spadafora – Romeo – Frangipane, Bonatti – Martini
ecc.), si dimostrarono più o meno inadeguati al confronto con la nuova
impalcatura della costituzione dogmatica Dei Verbum, consacrazione
ufficiale del rinnovamento biblico in campo cattolico, fiduciosa apertura
ai nuovi appuntamenti delle scienze bibliche e della riflessione teologica
con il mistero della Bibbia.
In Italia, il manuale di P. Bonatti, nella sua terza edizione del 1968,
fu rielaborato da Carlo M. Martini – ora arcivescovo di Milano – nei
trattati sul­­l’ispirazione e sul­­l’ermeneutica, ritoccato in quelli del testo
e del canone. Rimane forse il manuale migliore, anche se convivono in
esso l’impostazione preconciliare e quella conciliare. Apparve poi, nel
1975, l’impegnativo e prezioso volume I libri di Dio a cura di Carlo M.
Martini e Luciano Pacomio, al quale il presente volume fa spesso rife-
rimento. Ma più che di un manuale, si tratta di una raccolta di ottimi
contributi “monografici”, non sempre però esaustivi dei temi di una
Introduzione generale, né omogeneamente collegati tra loro nonostante
i testi di collegamento dei curatori.
Così ho ritenuto di rendere un servizio utile ai professori e agli studen-
ti, traducendo in un manuale l’esperienza di quindici anni di insegna-
10 Prefazione

mento del corso di Introduzione generale alla sacra Scrittura nello Studio
teologico fiorentino. Il lavoro conserva tutti i rischi di una impresa, vista
la varietà dei temi trattati, ognuno dei quali vuole puntuale e specifica
competenza. Ma soprattutto in un manuale è consuetudine, per ovvii
motivi di concorso di competenze, attingere anche al­­l’esperienza di col-
leghi biblisti e teologi, sia cattolici che protestanti. La loro voce risuona
di frequente nelle mie pagine e i loro contributi sono citati, in forma più
o meno abbreviata, specialmente all’inizio di ciascun capitolo, con i dati
bibliografici completi nella bibliografia generale. In particolare, l’antico
maestro p. Luis Alonso Schökel, decano del Pontificio Istituto Biblico,
mi ha guidato con preziosi consigli e ha onorato il volume con una sua
Presentazione. A lui un grazie tutto personale.
La costituzione Dei Verbum del Vaticano II è stata il punto di riferi-
mento primario del mio lavoro, che ne costituisce – per molti versi –
una specie di commento. Sarebbe già un grosso premio alla mia fatica,
se queste pagine invogliassero i giovani studenti di teologia a leggere e
meditare più attentamente quella grande costituzione dogmatica sulla
Parola di Dio, a consultarne nelle biblioteche i tanti commenti già esau-
riti da tempo, a ripercorrerne le tappe davvero avventurose negli Acta
et Documenta (antepraeparatoria, praeparatoria) e soprattutto negli Acta
Synodalia del concilio Vaticano II.
Un manuale ha un suo genere letterario, quanto a linguaggio. Se tal-
volta – e non soltanto nella pagina introduttiva a ciascuna delle cinque
parti – me ne sono distaccato, è perché sono convinto che ogni discorso
di credenti su La Bibbia come Parola di Dio per noi deve non soltanto
“informare”, ma anche “esprimere” e “appellare”: «Nei Libri sacri, infatti,
il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi
figli e discorre con essi…» (DV 21).
Ai lettori del libro, studenti che si preparano al ministero di presbiteri,
laici che sempre più numerosi si aprono allo studio della Bibbia, persone
alla ricerca della Parola che rischiari il cammino della vita e della storia,
auguro che queste pagine arrechino non soltanto un supplemento di
sapere, ma anche più gioia di vivere.

Valerio Mannucci
Studio teologico fiorentino
Firenze, 24 settembre 1980
25° anniversario del mio presbiterato
Prefazione alla quarta edizione riveduta

In poco più di due anni si sono esaurite tre edizioni di questo libro,
segno evidente del­­l’interesse che ha suscitato un nuovo manuale di Intro-
duzione generale alla sacra Scrittura, elaborato secondo le linee direttrici
della costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Vaticano II.
Gli stessi recensori, pur con alcune critiche anche giuste, lo hanno
accolto positivamente come «il tentativo attuale più serio di rielaborare
il classico trattato cattolico di ‘Introduzione generale’», anzi lo hanno
additato come «l’unico manuale esistente su questa linea, che non ha pari
in nessuna lingua» (P. Grech). E molte Facoltà di teologia, molti Istituti
teologici e Seminari lo hanno adottato come libro di testo.
Scrivere un libro è gioia e fatica insieme. Elaborare un manuale è
impresa sempre rischiosa. Se abbiamo reso un servizio utile ai colleghi
professori e agli studenti di teologia, come del resto ci ripromettevamo,
vuol dire che rischio e fatica non sono stati vani. Soprattutto, ci è stato
concesso ancora una volta di sperimentare che «vi è più gioia nel donare
che nel ricevere» (At 20,35).
La quarta edizione riveduta si presenta sostanzialmente identica alle
precedenti. Ho integrato e aggiornato la Bibliografia al­­l’inizio di ciascun
capitolo e nelle note a pie’ di pagina; ho apportato alcune aggiunte o cor-
rezioni in qualche pagina del testo e ho inserito non poche note nuove.
Aggiunte, correzioni e note nuove, per le quali mi sono valso anche dei
suggerimenti degli amici lettori e dei colleghi recensori (ai quali esprimo
sincera gratitudine), mi hanno consentito di proporre ulteriori piste di
riflessione e di ricerca, talvolta di arricchire il contenuto della pagina.
L’orizzonte teologico ed ermeneutico, da me scelto per riproporre
nella linea di Dei Verbum i contenuti del trattato classico di Introduzio-
12 Prefazione

ne generale alla sacra Scrittura, ha finito per sacrificare un po’ alcune


parti, pur importanti, del discorso: per esempio, la rassegna dei “generi
letterari” nel cap. 6, la storia del testo biblico nel cap. 7 ecc. Convengo
con i recensori che questi capitoli avrebbero bisogno di una ristesura
più ampia e completa. Mi riprometto di farlo in una prossima edizione.
Questa quarta edizione esce a vent’anni dal­­l’inizio del concilio Vati-
cano II e del lungo faticoso cammino percorso dalla costituzione Dei
Verbum, prima di giungere alla sua promulgazione avvenuta il 18 no-
vembre 1965. Voglio ancora una volta augurarmi che il mio manuale
aiuti gli studenti di teologia a rivisitare questa fondamentale costituzione
e, con essa, lo stesso evento conciliare. Infatti il concilio Vaticano II,
come ebbe a scrivere tempo fa mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare
di Roma, costituisce per tutti un costante punto di riferimento sapien-
ziale per il suo “spirito” e il suo “metodo”, prima ancora che per i suoi
“contenuti”. Un metodo di «indagine severa, approfondimento, studio,
rigorosità senza sbavature, discussione e confronto talvolta vivaci e for-
ti…». Uno spirito di intelligenza che «porta l’uomo più in profondità che
in superficie, in serietà piuttosto che in leggerezza». In ultima istanza,
una sapienzialità tutta biblica che è «capacità di incontrare gli uomini,
di capirli e di amarli».

Valerio Mannucci
Studio teologico fiorentino
Firenze, 8 settembre 1983
Festa della Natività di Maria
Prefazione a questa nuova edizione

Questo manuale di introduzione alla sacra Scrittura, pubblicato da


Valerio Mannucci per la prima volta nel maggio 1981, ha conosciuto fin
da subito un successo immediato, tanto che è stato rivisto e ristampato
dal­­l’autore in ben 15 edizioni, l’ultima delle quali, nel 1997, pubblicata
postuma. Mannucci era infatti improvvisamente scomparso il 27 feb-
braio 1995. Valerio Mannucci non ha pubblicato molto: si veda l’intera
sua bibliografia raccolta in S. Tarocchi – L. Mazzinghi (edd.), “Ecco
l’uomo”. Studi in memoria di mons. Valerio Mannucci, in Vivens Homo 8/1
(1997) 202-207. Mannucci si è tuttavia dedicato con enorme impegno
alla didattica e, allo stesso tempo, al dialogo con il mondo della cultura
universitaria. Chi scrive è stato suo alunno e ricorda con entusiasmo le
lezioni sul Pentateuco che don Valerio teneva in I teologia al­­l’allora Stu-
dio teologico fiorentino, nel­­l’anno accademico 1979-1980; l’anno suc-
cessivo preparammo l’esame di introduzione alla sacra Scrittura proprio
su questo stesso libro ancora in bozze! Non va poi dimenticato l’impegno
e la passione che Mannucci, sulla scia del­­l’episcopato di Giovanni Benelli
e Silvano Piovanelli, mise nel trasformare in Facoltà Teologica l’allora
Studio diocesano, ancora aggregato alla Pontificia Università Gregoriana,
una passione che lo ha letteralmente consumato.
La ragione del­­l’immediato e duraturo successo del volume di Man-
nucci risiede a mio parere in tre aspetti: il primo è il fatto che in Italia
non esisteva ancora un manuale di introduzione alla Bibbia che ripren-
desse in modo sistematico l’impostazione e le tematiche della Dei Ver-
bum. Il secondo aspetto è relativo al coraggio che Mannucci ebbe nel
proporre un manuale profondamente conciliare, superando non poche
resistenze e perplessità, sulla scia dei lavori del p. Luis Alonso Schökel,
14 Prefazione

che al­­l’Istituto Biblico di Roma era stato il suo maestro. Mannucci non
soltanto propone una Introduzione alla Scrittura sulla scia della Dei
Verbum, come ho appena detto, ma si confronta, o almeno inizia a
farlo, con la teologia protestante, in un tempo nel quale il dialogo ecu-
menico iniziava a sembrare realmente possibile; Mannucci si apre anche
agli apporti delle ermeneutiche filosofiche contemporanee, precorrendo
quanto farà nel 1993 il documento della Pontificia Commissione Bi-
blica. Ricordo bene l’opposizione che Mannucci incontrava talvolta a
lezione da parte di studenti appartenenti a movimenti ancora oggi poco
inclini ad aprirsi alle novità del concilio, ma anche da parte di qualche
docente molto tradizionalista. Un terzo aspetto che ha aiutato il successo
del manuale è stata la chiarezza del linguaggio, la serietà della proposta
unita alla semplicità d’uso da parte degli studenti. Dopo più di trent’anni
il manuale di Mannucci compare ancora nella bibliografia di molti corsi
di Introduzione alla Scrittura, nelle diverse Facoltà teologiche italiane.
Vale la pena di ricordare, a questo punto, che il manuale di Mannucci
si presentava senz’altro come un manuale cattolico, pur se teneva conto –
come si è appena detto – degli apporti delle altre chiese, specialmente in
ambito protestante. Diciamo subito con molta onestà che questa revisio-
ne non modifica sostanzialmente tale impostazione; questo volume resta
una introduzione per lo più teologica alla Scrittura, scritta quasi come un
commento alla Dei Verbum e dunque inserita nel­­l’ambito della teolo-
gia cattolica. Questo manuale, dunque, pur senza chiudersi al­­l’apporto
ecumenico, ha in mente prima di tutto studenti che si formano nel­­
l’ambito delle Facoltà ecclesiastiche. E tuttavia, si è cercato di attenuare
o in qualche caso eliminare del tutto alcune affermazioni ancora un po’
troppo apologetiche o che tendevano a contrapporre in modo troppo
netto l’impostazione cattolica con quella delle altre chiese cristiane.
Ho dunque accolto l’invito di Queriniana per rivedere l’intero manua-
le di Mannucci alla luce delle nuove acquisizioni della scienza biblica,
della teologia e del Magistero della chiesa cattolica. Il manuale non
teneva ancora conto, per esempio, del­­l’appena ricordato documento
del 1993, dei successivi due documenti della PCB sul Popolo ebraico
e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001) e su Ispirazione e
verità (2013), né degli ulteriori sviluppi teologici relativi al canone, al­­
l’ispirazione, alla verità biblica, per non parlare di cambiamenti radicali
nelle prospettive esegetiche (cfr. il caso degli studi sulla formazione del
Pentateuco, dopo il crollo della teoria documentaria classica, che Man-
nucci dava per scontata). C’è poi da tener conto della ricezione effettiva
Prefazione 15

della Dei Verbum nella vita della chiesa, sino alla Verbum Domini di
Benedetto XVI, frutto del Sinodo sulla Parola del 2008.
Come criterio di revisione, ho cercato di rispettare, per quanto pos-
sibile, l’impostazione generale originaria del libro; ho cercato di ridurre
al­­l’essenziale le aggiunte e i tagli al­­l’opera originale, cercando di non eli-
minare, per quanto è possibile, lo stile e il linguaggio di Mannucci. Sono
infatti convinto che l’impostazione generale del testo sia ancora valida.
Ho ritenuto opportuno non appesantire poi questa nuova edizione con
l’indicazione puntuale di tutte le omissioni o aggiunte al testo originale
di Mannucci, che qui di seguito segnalo.
Tra le principali omissioni, segnalo il taglio di alcuni paragrafi, per-
ché non più attuali o perché totalmente rifusi: cap. 17, A2 (l’erme-
neutica critico-liberatoria di J. Habermas); cap. 17, A5 (l’ermeneutica
del­l’«empirismo logico»); cap. 17, B6 (dal­­l’interpretazione secolare del
Vangelo ai teologi della “morte di Dio”); cap. 18, B4 (l’ermeneutica bi-
blica a servizio della storicità e della verità della Scrittura); quasi tutto il
cap. 18, B6 (il “comprendere” nella fede e il problema dei “sensi biblici”).
Le aggiunte più significative sono invece: cap. 2, il finale del § 1; la
conclusione di cap. 2, § 5.4; aggiunte al cap. 3, § 2.1; § 7.3 (sul senso
della fede); cap. 4, § 2 (sulla tradizione nel giudaismo rabbinico). La
prima parte del cap. 5 è stata profondamente rivista, specialmente alla
luce degli studi più recenti sulla formazione del testo biblico (cfr. in
particolare per quanto riguarda il Pentateuco); nuova è anche gran parte
del testo del capitolo 6, §§ 3-4 e del cap. 7, § 4. Nuovi sono il cap. 8, §
1.3; così pure gran parte del § 7 del cap. 11. Si vedano ancora le aggiunte
al cap. 16 § 1; § 3.3 (la violenza nella Bibbia); § 3.4 (la synkatábasis); il
§ 3 del cap. 20 (la necessità di tradurre e diffondere le Scritture); il § 7
dello stesso capitolo (Bibbia e catechesi); il § 8 (i “voti” del concilio in
DV 26 e i loro sviluppi).
In alcuni casi, come per esempio il cap. 12 e il cap. 13 sul canone, la
revisione ha toccato un po’ tutto il capitolo, senza tuttavia modificarne
sostanzialmente l’impianto; un capitolo nuovo, rispetto al­­l’originale, è
invece il cap. 14, nel quale abbiamo raccolto e ampliato in modo più
sistematico le riflessioni teologiche circa il problema del canone.
Ampie revisioni sono state fatte in particolare sui capp. 17-19 dedicati
al­­l’ermeneutica, soprattutto alla luce del ricordato documento della PCB
sulla Interpretazione della Bibbia, revisioni e integrazioni che non elen-
chiamo nel dettaglio; il lettore curioso e attento potrà verificare per suo
conto. È stata inserita, in particolare, una sezione totalmente nuova circa
16 Prefazione

i metodi esegetici; osservo a questo riguardo come si tratta tuttavia di


una sezione molto sintetica: una trattazione completa di questa tematica
– i metodi esegetici – avrebbe richiesto un volume davvero troppo esteso.
Sarà cura di ogni lettore, e in particolare del docente, nel caso questo
volume sia usato come testo per il corso di Introduzione alla Scrittura,
suggerire qualche lettura più approfondita su argomenti come questo.
Nel­­l’opera di revisione mi sono fatto aiutare in modo particolare da
tre amici docenti: il prof. Stefano Grossi e la prof.ssa Serena Noceti,
entrambi di Firenze e il prof. Flavio Dalla Vecchia (Brescia). Al primo
sono dovute in particolare le aggiunte nel cap. 1 § 3 su “come opera la
parola” e, nel cap. 18 § 1, le integrazioni circa i paragrafi su Dilthey,
Gadamer, Pareyson (paragrafo quest’ultimo interamente nuovo) e su
Ricœur. A Serena Noceti sono dovuti molti numerosi suggerimenti bi-
bliografici sul tema della rivelazione e della Tradizione e su altri temi più
specificamente teologici. Al prof. Flavio Dalla Vecchia è dovuto invece
il rifacimento integrale del cap. 15 sul canone nel protestantesimo, un
capitolo che era divenuto ormai obsoleto (a questo riguardo, un grazie
speciale ai professori Fulvio Ferrario ed Eric Noffke della Facoltà Valdese
di Roma, oltre che al professor Angelo Maffeis di Brescia). A questi tre
colleghi, il mio ringraziamento di cuore per i loro contributi.
Una parola sulla bibliografia: sono stati tolti molti riferimenti bi-
bliografici offerti da Mannucci, perché ormai obsoleti; molti altri sono
stati lasciati perché testimonianza diretta dei testi sui quali Manucci si
è formato e ai quali ha attinto. Molti altri riferimenti sono stati invece
aggiunti. La bibliografia è forse eccessiva per un manuale di studio; sarà
cura del docente – nel caso il testo venga usato al­­l’interno di un corso
di Introduzione – guidare lo studente nella “selva oscura” di tanti testi
citati. Ma si è comunque pensato che un’ampia bibliografia possa costi-
tuire in ogni caso una risorsa per lo studio.
E per concludere: questo volume non intende sostituire molti e validi
manuali di introduzione alla Scrittura pubblicati dopo il testo origina-
le di Mannucci. Credo tuttavia che l’impostazione offerta dal volume
originale e qui sostanzialmente conservata e aggiornata possa costituire
ancora un ottimo punto di riferimento per gli studenti delle Facoltà
Teologiche e degli Istituti di scienze religiose e per chiunque voglia acco-
starsi allo studio delle Scritture, nella prospettiva aperta dal Vaticano II.
Un grazie sincero al­­l’editrice Queriniana che mi ha affidato questo
incarico e un grazie anche a chi continuerà a leggere e utilizzare questo
manuale. Ma il grazie più grande va certamente a don Valerio Mannucci;
Prefazione 17

a titolo personale aggiungo che io non sono mai riuscito a insegnare In-
troduzione alla sacra Scrittura nella Facoltà teologica dell’Italia Centrale,
a Firenze, dove ho insegnato per ben ventisette anni: questa revisione che
ho accettato di curare è per me un omaggio a un uomo che ha condotto
generazioni di studenti a un primo serio contatto con il testo biblico e
ci ha svelato la ricchezza di una parola di Dio incarnata nella debolezza
delle nostre parole umane: parola di Dio in parola di uomini.

 Luca Mazzinghi
parte prima
LA PAROLA DI DIO
La biografia del­­l’uomo è, in fondo, una biografia della parola. Col suo
respirare l’uomo è essere vivente, col suo camminare è essere mobile, col
suo colpire è essere forte. Soltanto con la sua parola, soprattutto quella
rivolta al­­l’altro, l’uomo diventa essere personale, interamente uomo.
La parola autentica è mistero, perché ha nel­­l’essere la sua scaturigine. I
profeti e i poeti – ma ogni uomo è un po’ profeta e poeta – sono i pastori
del­­l’essere. Essi conoscono bene le frontiere del­­l’essere, donde scaturi-
sce la vita misteriosa della parola: «Tu non spieghi niente, o poeta, ma
attraverso di te tutte le cose diventano spiegabili» (P. Claudel); «Io non
invento, io scopro» (Ch. Péguy). Mediante la parola l’uomo penetra il
senso delle cose, dà loro un nome, le umanizza, le comunica.
La parola invoca l’ascolto. Nella biografia della parola entrano il par-
lare e l’ascoltare. Alla parola del­­l’altro, l’essere più profondo del­­l’uomo
ha un fremito: «Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! il mio
diletto che bussa… Il mio essere ha avuto un sussulto alla sua voce» (Ct
5,2-4). L’ascolto della parola dà inizio alla grande avventura, la ricerca
del­­l’altro (Ct 3,1-3), che accomuna tutti: «Dove si è recato il tuo diletto,
perché noi lo possiamo cercare con te?» (Ct 6,1).
L’uomo è davvero un essere essenzialmente visitato, e la parola è la casa
della sua ospitalità. Chi sa custodire parole autentiche diventa dimora,
anzi icona per le cose, gli eventi, le persone che lo visitano, preparandosi
così ad ospitare il Poeta assoluto, Dio. La biografia del­­l’uomo, ovvero
della sua parola, è una crescita, fino a quando l’uomo non si identifica
con la Parola che Dio ha pronunciato a suo riguardo. Quella Parola sta
alla nostra porta e bussa; se apriamo, essa entra e cena con noi (Ap 3,20).
1.
Il mondo della parola umana

Bibliografia: L. Alici, Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di


Agostino, Studium, Roma 1976; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Bre-
scia 19692, 103-155; D. Antiseri, La filosofia del linguaggio: metodi, problemi e teorie,
Morcelliana, Brescia 1972; J.L. Austin, Quando dire è fare, Marietti, Torino 1974; K.
Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Jena 1934 ; R. Duval, Parole,
Expression, Silence. Recherche sur la parole comme révélatrice d’autrui, in RSPT 60 (1976)
226-260; U. Eco, Trattato di Semiotica Generale, Bompiani, Milano 1975; Id., Il segno,
Mondadori, Milano 19802; Id., Lector in Fabula. La cooperazione interpretativa nei testi
narrativi, Bompiani, Milano 1985; A.J. Greimas, Semantica strutturale, Meltemi, Roma
2000; Id., Del Senso 2, Bompiani, Milano 1984; A.J. Greimas – J. Courtes, Semiotica.
Dizionario ragionato di teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007; Groupe
d’Entrevernes, Segni e Parabole. Semiotica e testo evangelico, ElleDiCi, Leumann 1982;
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, Città Nuova, Roma 1970; M. Heidegger, In cam-
mino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973; R. Jakobson, Saggi di linguistica generale,
Feltrinelli, Milano 19827; B. Mondin, L’uomo: chi è? Elementi di antropologia filosofica,
Massimo, Milano 1975, 147-172; A. Pieretti, Il linguaggio come comunicazione, Città
Nuova, Roma 1978; J.R. Searle, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boring-
hieri, Torino 1976; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, spec.
10-55.

Un capitolo dedicato alla parola umana ci è parso l’inizio opportuno e


coerente di una introduzione teologica alla Bibbia. La professione della
fede cristiana sulla Bibbia, infatti, non dice semplicemente: «Dio ha
parlato nella sacra Scrittura», ma: «Dio ha parlato nella sacra Scrittura
per mezzo di uomini e alla maniera umana» (DV 12).
La storia della Bibbia è storia della parola di Dio agli uomini: «Dio,
che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai
padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio…» (Eb 1,1-2). L’AT e il NT non fanno altro
Il mondo della parola umana 23

che descriverci l’itinerario della parola di Dio, la quale crea il mondo


(Gen 1), chiama Abramo (Gen 12,1ss.) e Mosè (Es 3,7ss.), porta a com-
pimento la promessa della terra (Gs 1,1ss.; 21,43-45), «viene rivolta
ai profeti» d’Israele (Os 1,1; Ger 1,2 ecc.), prende un volto d’uomo in
Gesù di Nazaret (Gv 1,1-14), «si diffonde, cresce e si afferma con forza»
col dilatarsi della chiesa apostolica (At 6,7; 12,24; 19,20), regola la fine
di questo universo e l’inizio del mondo nuovo (Ap 19,11-16; 21,1ss.).
Ma in nessun luogo della Bibbia noi incontriamo la parola di Dio
direttamente. Dappertutto essa ci viene donata per il tramite di tale o tal
altro uomo, sempre alla maniera umana e in linguaggio umano; e il rac-
conto del dialogo di Dio con i suoi interlocutori prescelti è interamente
redatto da uomini. L’antico Israele confessava il suo stupore, perché
aveva «udito la voce di Dio di mezzo al fuoco e dal­­l’alto del cielo» (Dt
4,32-36). Lo stupore diventa vertigine per i credenti in Cristo, chiamati
a sperimentare l’inaudito accostamento tra «la parola di Dio [che] era
al­­l’inizio, era presso Dio, era Dio» (Gv 1,1) e «la parola di Dio [che]
si fece carne» (Gv 1,14); tra «ciò che era da principio», «la vita eterna
che era presso il Padre» e «la Parola della vita che abbiamo udito, che
abbiamo veduto con i nostri occhi, che contemplammo, che le nostre
mani toccarono» (1 Gv 1,1-4).
Proprio in questo si è manifestata «l’ammirabile “condiscendenza” di
Dio e la sua ineffabile benignità»:

Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al
parlare del­­l’uomo, come già il Verbo del­­l’eterno Padre, avendo assunto le
debolezze del­­l’umana natura, si fece simile al­­l’uomo (DV 13).

Il carattere autenticamente umano delle sacre Scritture, già da solo,


rivela il profondo segreto di Dio che è la sua philanthrōpía (Tt 3,4): Dio
ama gli uomini. Parlando nel loro linguaggio, Dio comunica con essi, si
fa loro comprendere e, al tempo stesso, restituisce al linguaggio umano
la sua veridicità.
24 La parola di Dio

1. «Homo loquens»

Non sappiamo se la definizione del­­l’uomo come animale che parla


sia più esatta rispetto ad altre1. Forse è la più decisiva, quella che le
comprende tutte. La parola è la soglia d’ingresso nel­­l’universo umano.
Parlare, dare un nome, è in qualche misura chiamare al­­l’esistenza, trar-
re dal nulla. Finché l’uomo non prende la parola, la realtà intrinseca del
mondo resta là, non solo inservibile ma senza significato reale. Friedrich
Nietzsche chiamava gli uomini di genio dei “nominatori”: «Essi vedono
qualcosa che non porta ancora un nome, benché tutti lo abbiano sotto
gli occhi»2. L’Adamo biblico penetra l’essere di ciascun animale per dar-
gli un nome; gli animali sono là, creati da Dio, ma non sono reali per
l’uomo finché egli non li «nomina» (cfr. Gen 2,19s.). Pur successiva alla
creazione, l’imposizione del nome è un «atto del­­l’attività ordinatrice con
cui l’uomo si impadronisce spiritualmente delle creature, obiettivandole
davanti a sé»3. Dunque, mediante la parola, l’uomo penetra nel groviglio
del mondo e con essa gestisce la sua interiore inclinazione a conoscere,
interpretare, approfondire, ordinare, destinare.
Ma non basta. Mediante la parola l’uomo prende dimora anche in
se stesso e in qualche modo si appropria di sé. Parlando, egli si avven-
tura nel suo universo interiore che è confuso, indistinto, molteplice,
fatto di enigmi e di incertezze; parlando, egli insegue quella sua “au-
tocomprensione”, sempre bisognosa di ulteriore ricerca. È questo il
mistero del­­l’essere-uomo, mai totalmente esauribile e dicibile. Egli ha
bisogno della disciplina della parola per comprendersi ed esprimersi,
pur restando nel doveroso convincimento – pena la morte del­­l’essere e
della parola – che l’essere (la vita) non sopporta sedimentazione nella

1
«Secondo una tradizione antica, noi, proprio noi, siamo gli esseri che sono in grado di
parlare e che perciò già possiedono il linguaggio. Né la facoltà del parlare è nel­­l’uomo solo
una capacità che si ponga accanto alle altre, sullo stesso piano delle altre. È per contro la
facoltà che fa del­­l’uomo un uomo. Questo tratto è il profilo stesso del suo essere. L’uomo
non sarebbe uomo, se non gli fosse concesso di parlare, di dire: “è” – ininterrottamente,
per ogni motivo in riferimento ad ogni cosa, in varie forme, il più delle volte tacendo. In
quanto il linguaggio concede questo, l’essere del­­l’uomo poggia sul linguaggio. Già dal­­
l’inizio noi siamo dunque nel linguaggio e con il linguaggio». Così reputa M. Heidegger,
In cammino verso il linguaggio, 189.
2
Cit. in G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 42.
3
G. von Rad, Genesi, Paideia, Brescia 19782, 102.
Il mondo della parola umana 25

parola, come non lo sopporta nel­­l’avere: «La parola è sempre una real-
tà per difetto, rispetto al­­l’essere autentico […]. Non esiste un’ultima
parola nel­­l’affermazione personale, al di qua del momento ultimo del­­
l’esistenza stessa»4.
Infine – è l’aspetto più noto – la parola permette al­­l’uomo il suo
inserimento nel mondo dei rapporti umani e sociali, gli consente la
comunicazione con l’altro. Ma anche in questo ambito la parola umana
esprime – o dovrebbe esprimere – non una “fisica”, ma una “meta-
fisica” dei rapporti. La possibile, anzi facile, contraffazione della parola
non accade soltanto quando la parola diventa “menzogna”, ma anche
– ed è il pericolo più grave – quando essa non coincide più col valore
e si fa “etichetta”. Se le parole non riflettono e non mettono in essere
la dinamicità creativa del rapporto, se le parole non vengono di conti-
nuo riprese e attualizzate, esse sono destinate a degradarsi. La dignità e
l’autenticità del­­l’uomo lo chiamano a vivere responsabilmente la «sua
ora» anche nel linguaggio. Altrimenti, il reale continuerebbe la sua corsa
fuori del­­l’orbita del linguaggio, che invece ha il compito di configurare,
ordinare e destinare il reale. La parola nasconderebbe soltanto il silenzio,
il silenzio della morte.

2. Le tre funzioni principali della parola5

Dalla “biografia della parola” appena abbozzata emergono le tre fun-


zioni principali del linguaggio umano: la prima, in rapporto alla natura,

4
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 46-49. È chiaro che, per un cristiano, questa
“ultima” parola è in realtà soltanto la “penultima”, perché a Dio soltanto, e al suo progetto
metastorico sul­­l’uomo, spetta la Parola definitiva.
5
Secondo la classica tripartizione di K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion
der Sprache; cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 118s.; B. Mondin, L’uomo: chi è?,
158-167. Invece R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, 181-218, distingue sei funzioni
del linguaggio. Innanzitutto le funzioni emotiva, referenziale e conativa (corrispondenti alle
tre funzioni che Bühler denomina: espressione, informazione, appello), e inoltre la funzione
fàtica o di contatto (serve a stabilire, verificare, prolungare o interrompere la comunica-
zione tra “mittente” e “destinatario”), la funzione metalinguistica (serve a verificare se il
“mittente” e/o il “destinatario” utilizzano lo stesso codice linguistico), infine la funzione
poetica o estetica che è la messa a punto rispetto al “messaggio” in quanto tale, cioè l’ac-
cento posto sul messaggio per se stesso (essa non è affatto limitata alla sola poesia; pone
26 La parola di Dio

al mondo e alla storia, è l’informazione; la seconda, in rapporto a se


stessi, è l’espressione; la terza, in rapporto agli altri, è l’appello6. Queste
tre funzioni non si trovano, nella realtà del linguaggio, allo stato puro,
sempre ed esattamente distinte l’una dal­­l’altra. Per lo più esse

funzionano avvinghiate, reciprocamente condizionate; quel che possiamo


fare, di fronte ad una unità di linguaggio, è distinguere il suo carattere
di simbolo (informazione, rappresentazione), di sintomo (espressione del­­
l’interiorità), di segnale (appello ad un altro)7.

Saper distinguere e cogliere le tre funzioni della parola nella loro spe-
cificità, risulta determinante per comprendere la parola di Dio nella
Bibbia, che spesso abbiamo impoverito riducendola a pura “informa-
zione”. Dio ha assunto la parola umana nella totalità e integrità delle
sue manifestazioni.

2.1. La parola è “informazione”

La parola informa su fatti, cose, avvenimenti, impiegando di solito


un verbo al­­l’indicativo e alla terza persona. Delle tre funzioni, questa è
la più oggettiva ed è propria soprattutto della scienza, della didattica,
della storiografia8.
Nel linguaggio delle scienze esatte, pur essendovi interessate anche
le funzioni di “espressione” e di “appello”, è il valore oggettivo del­­
l’informazione che prevale. Il linguaggio si fa qui formulario tecnico e
rigoroso, al quale solo gli “addetti ai lavori” hanno accesso.

in risalto l’evidenza dei segni linguistici usati al di fuori delle regole del parlare comune, e
lo fa attraverso due processi fondamentali di costruzione linguistica: la selezione e la com-
binazione). Anche queste sei funzioni naturalmente si accavallano e si sovrappongono nel
processo comunicativo. La struttura verbale di un messaggio dipende prima di tutto dalla
funzione predominante; la diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio del­­l’una o
del­­l’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse.
6
Cfr. B. Mondin, L’uomo: chi è?, 158-167.
7
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 119.
8
Qui si prescinde dal linguaggio puramente utilitaristico, al quale ricorre l’homo faber
per le sue quotidiane necessità. Si tratta qui di un’informazione “neutra”, nella quale i
luoghi comuni sostituiscono la “persona”. Per conversare del cibo o del tempo che fa, non
c’è bisogno che intervenga la persona; e in questo tipo di discorsi ci si intende benissimo,
proprio perché… le persone non hanno niente da dirsi!
Il mondo della parola umana 27

Anche nel linguaggio della didattica prevale l’obiettiva informazione;


ma ogni docente sa bene di non poter prescindere da quella decisiva
dimensione “formativa”, quindi interpersonale, che ogni insegnamento
deve porre in atto. La funzione didattica o dottrinale della parola, con
la sua buona dose di linguaggio “tecnico”, è fondamentale nella stessa
rivelazione biblica. Pur nel più ampio e ricco contesto di parola inter-
personale ai fini di una comunione di vita, essa possiede il dato obiettivo
di verità rivelate, offerte al­­l’assenso intellettuale.
Infine, il linguaggio della storiografia, dove il “raccontare” non può
esaurirsi nel puro resoconto dei fatti e degli avvenimenti (= cronaca),
ricuperati con una rigorosa critica storica, ma deve assumerli e proporli
nella loro interiore intelligibilità, nel loro significato, nei loro collega-
menti, nella loro finalità. L’autentico storico non prescinde, nel suo
lavoro, da una certa dose di soggettività positiva: la parola, che dà vita
al fatto narrato, è “sua” (espressione) e chiama in causa il lettore (appello).

2.2. La parola è “espressione”

Ogni essere umano che parla si esprime, dice qualcosa di sé, sempre,
anche quando non coniuga verbi alla prima persona. Un viso del tutto
inespressivo non sarebbe più un viso umano. Una parola che non espri-
messe più nulla del­­l’intimo essere di colui che parla sarebbe l’anticame-
ra della morte9. Anche per comunicare, anche per “informare” l’essere
umano deve in una qualche misura ex-primersi, vale a dire mettere in
moto il suo essere, rischiare l’uscita da sé, disporsi a un pur minimo
smascheramento della sua interiorità.
Ci sono tuttavia situazioni-limite nelle quali la dimensione “espres-
siva” della parola primeggia. Così tutte le varietà del grido, esprimenti
in mille modi sorpresa, gioia, paura. Così le confessioni, quando l’in-

9
«Perché scompaia il bisogno di esprimersi, bisogna che venga colpito il gusto stesso di
vivere: “Non ho più una grande curiosità di ciò che la vita può ancora portarmi”, afferma
in una delle sue ultime pagine André Gide. “Ho detto più o meno bene ciò che pensavo
di dover dire, e ho paura di ripetermi…”. E il grande scrittore, constatando di non aver
più niente da dire, si pone il problema del suicidio. Così ogni vecchio si prepara alla
morte allenandosi al silenzio definitivo. L’uomo vivo, scrittore o no, ha sempre qualcosa
da dire, come un contributo alla realtà del mondo, in cui ha il compito di affermarsi» (G.
Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 71).
28 La parola di Dio

namorato non può impedirsi di gridare la sua felicità, il convertito la


sua fede, il perseguitato e l’oppresso la sua disperazione. Così il mondo
multiforme della lirica e della poesia, là dove il poeta vive l’eterno dis-
sidio del coniugare il linguaggio comune, necessario per comunicare,
con la parola “nuova” che va a captare le mai totalmente sondabili ed
esprimibili risorse del­­l’essere, quello originale e creativo della persona,
quello fecondo della natura, della vita e della storia.

2.3. La parola è “appello”

L’uomo parla il mondo, ne fa emergere l’essere e il divenire, ma non


parla al mondo. La parola umana, per sua natura, cerca l’altro, possie-
de la passione del­­l’altro, perché l’uomo è relazione. Ancora una volta
l’Adamo biblico è emblematico. Egli dà un nome agli animali, ma non
parla agli animali; creato per “essere-con”, l’uomo cerca un “tu” che gli
sia simile (Gen 2,18), un interlocutore capace di capire e di accogliere
l’interiore esigenza di donarsi liberamente. Egli vive per incontrare e
comunicare, vive di incontro e di comunione. La parola è il trait d’union
per eccellenza tra l’“io” e il “tu”, originale principio di ogni rinnovata
comunione.
La funzione “appellativa” della parola primeggia in alcune tipiche
forme letterarie, quali la “chiamata”, la “vocazione”, il “comando” ecc.
Ma, in fondo, è nascosta dentro ogni parola, persino nelle forme più
pure di espressione. Il solo rompere il silenzio, fosse pure con un grido
d’angoscia o mediante un canto senza parole, è sempre un indirizzarsi a
qualcuno, prenderlo a testimone, chiamarlo. Persino il rifiuto più netto
e consapevole della comunicazione implica, nel fondo, la nostalgia della
comunicazione come valore, nasconde la ricerca di una comunicazione
autentica.

3. Come opera la parola

Nel Novecento, oltre ai contributi sulla filosofia del linguaggio già cita-
ti, si possono annoverare ulteriori ricerche che costituiscono un riferimen-
to anche per le discipline bibliche, non solo in ambito filosofico, ma anche
Il mondo della parola umana 29

semiotico. Tre contributi, in particolare, meritano di essere ricordati: la


riflessione di Wittgenstein sui giochi linguistici; la semiotica narrativa di
Greimas e, sempre in ambito semiotico, la teoria dei codici di Eco.

3.1. L. Wittgenstein, il linguaggio ordinario


e i giochi linguistici

Dopo una lunga pausa successiva alla stesura del Tractatus logico-
philosophicus (1921), Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche (1953)
abbandona definitivamente il progetto di costituire un linguaggio per-
fetto rivalutando la funzione del linguaggio ordinario. Quest’ultimo non
sembra più essere una sorgente continua di imprecisioni, confusione ed
errori, ma il tramite valido della comunicazione fra le persone.
Il passaggio dalla ricerca di un linguaggio perfetto alla considerazione
dei molti linguaggi in uso correntemente nasce anche dalla critica alla
teoria della relazione speculare tra linguaggio e realtà, per la quale ogni
parola deve avere un corrispettivo empirico. Ora, questa tesi appare a
Wittgenstein manifestamente parziale, se non falsa. Cade anche la pre-
tesa di univocità in favore della considerazione di un uso multivoco dei
termini e, quindi, del fatto che il loro significato dipende dal contesto
linguistico in cui sono inseriti.
Perciò, in sintesi, si può asserire che: il significato di una proposizione
dipende dal suo uso nel linguaggio più che da un’indagine analitica;
l’oggetto da studiare non è tanto il linguaggio formalizzato, quanto i
linguaggi comuni nei loro vari usi; lo scopo del­­l’indagine sul linguag-
gio non è di eliminarne le ambiguità (terapia del linguaggio), ma di
descriverne i modi specifici con cui gli uomini utilizzano i termini del
linguaggio stesso.
Prende così corpo una riflessione nella quale ciascun linguaggio è as-
similato metaforicamente a un gioco, così da sottolinearne, da un lato,
la socialità in cui ogni linguaggio si inscrive, dal­­l’altro la necessità di
una serie di regole ordinate e coordinate che stabiliscano come i termini
devono essere collegati fra loro.
Per esprimere il fatto che il significato dipende dal­­l’uso, Wittgenstein
introduce due nozioni “aperte”: non vere e proprie definizioni, ma idee
allusive, evocative: «Gioco linguistico», cioè le differenti modalità di uso
delle proposizioni ciascuna con regole proprie, e «Forma di vita», cioè la
partecipazione a un contesto sociale e culturale di attività e consuetudini.
30 La parola di Dio

L’inserimento dei vari linguaggi nel contesto storico-sociale in cui


sono realmente parlati, conduce a valutarli esclusivamente in funzio-
ne del loro uso: la verità di una proposizione dipende dal­­l’uso che
se ne fa nel parlare. L’indagine filosofica, di conseguenza, di fronte
a un problema sul significato della parola ha il compito di chiarirlo
mediante un’analisi serrata degli usi linguistici dei termini coinvolti,
in modo da mettere in luce eventuali cortocircuiti, incomprensioni
e paradossi originatisi da usi impropri delle parole. Per esempio: dire
«“x” è diventato rosso» varia di significato se ci riferiamo: ai colori,
alla collocazione politica, al­­l’etnia; ma anche se l’uso è: descrittivo,
accusatorio, scherzoso. Tutto questo ha evidenti conseguenze se appli-
cato alla Bibbia: lo studio attento del linguaggio acquista per il lettore
delle Scritture un valore prioritario.

3.2. U. Eco, la semiotica e la teoria dei codici

La ricerca di Eco condensata nel Trattato di Semiotica Generale (1975)


mira ad allargare il campo di interesse della semiotica a tutte quelle
situazioni in cui qualcosa è assunto come segno, e quest’ultimo è tutto
ciò «che può essere assunto come sostituto significante di qualcos’altro»;
la conclusione – apparentemente paradossale – è che la semiotica è la
disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire.
Il primo passo è di distinguere, attraverso un’apposita definizione, il
campo della comunicazione da quello della significazione, senza però
che ne risultino due livelli del tutto separati. Perciò con processo comu-
nicativo indichiamo il passaggio di un Segnale da una Fonte, attraverso
un Trasmettitore, lungo un Canale, a un Destinatario (produzione fisica
di informazione); mentre con processo di significazione intendiamo il
processo di interpretazione del segnale attraverso un codice. Il codice,
nozione chiave per Eco, è un sistema di significazione che accoppia entità
presenti e sensibilmente percepibili ad entità assenti.
Considerando l’esempio della diga, utilizzato da Eco, possiamo vi-
sualizzare meglio la cosa: vogliamo conoscere momento per momento
lo stato del­­l’acqua entro un bacino artificiale (fonte), per far questo
poniamo in esso un galleggiante capace di inviare un segnale elettrico a
seconda del livello del­­l’acqua (trasmittente), il segnale elettrico tramite
un cavo (canale) porta il segnale a valle, alla cabina di controllo del baci-
no, dove un’apposita strumentazione (ricettore) lo registra e lo converte
Il mondo della parola umana 31

nel­­l’accensione di una serie di spie luminose su un pannello di controllo


(messaggio) in modo che un operatore possa prendere al­­l’occorrenza una
serie di decisioni (destinatario).
In questo esempio, si nota la presenza di tre “sistemi” detti rispet-
tivamente: sintattico (perché costituito da segnali capaci di veicolare
contenuti) dato dai segnali elettrici; semantico (perché composto di
nozioni circa delle situazioni reali) cioè il livello del­­l’acqua nel bacino;
pragmatico (perché costituito da possibili risposte comportamentali)
ovvero le decisioni che occorre prendere in ciascun caso. In tale contesto,
il «codice» è la regola che, associando i precedenti sistemi, svolge nei loro
confronti praticamente due funzioni: li rende significativi (correlazioni
semantiche) e idonei alla comunicazione (combinabilità sintattica). Eco
chiama «codice» in modo proprio solo quest’ultimo, mentre i tre sistemi
vengono detti s‑codici, per distinguerli dal precedente.
Il codice, quindi, svolge il ruolo fondamentale di mettere insieme
un elemento sintattico con un elemento semantico così che il secon-
do risulti il «contenuto» del primo, e questo, a sua volta, possa esser
considerato l’«espressione» del­­l’altro. Così si ha anche una definizione
estremamente generale di segno come tutto ciò che consente di collegare
il piano del­­l’espressione con quello del significato: i segni sono i risultati
provvisori di regole di codifica che stabiliscono correlazioni transitorie
in cui ciascun elemento è, per così dire, autorizzato ad associarsi con
un altro elemento (elementi funtivi) e a formare un segno solo in date
circostanze previste dal codice.
Se prendiamo in considerazione il ruolo del­­l’interprete nei confronti
delle varie funzioni segniche ci accorgiamo che non si limita alla pura
e semplice decodifica, ma spesso – soprattutto in presenza di messaggi
complessi (testi) o di codici non ancora culturalmente definiti (istitu-
zionalizzati) – diviene una vera e propria operazione interpretativa in
cui si mostra la necessità di costruire nuovi codici. È proprio per spie-
gare i meccanismi semiotici che regolano questa necessità e capacità di
innovazione che vengono introdotte le nozioni di “ipercodifica” e di
“ipocodifica”.
Con “ipercodifica” si intende il movimento che per spiegare il caso
concreto ricorre a codici esistenti più ampi, dal cui punto di vista il caso
di partenza appare come un sottocodice più analitico. Con “ipocodifica”,
invece, si intende la spiegazione del caso concreto attraverso l’istituzione
di un codice non‑esistente precedentemente, ma pur sempre possibile
(potenziale).
32 La parola di Dio

Dato poi che, nei casi reali, le situazioni possono presentarsi in modo
estremamente complesso e sfumato al punto che non è facile riconoscere
a quale dei due procedimenti si è fatto ricorso, si introduce la categoria
generica di “extracodifica” per abbracciare entrambi. Queste attività di
extracodifica hanno come effetto il mutamento del­­l’aspetto informativo
dei segni e l’interazione fra codici, così che il testo appare sempre più
come «aperto»: lo stesso messaggio può essere decodificato da diversi
punti di vista e in riferimento a diversi sistemi di convenzioni, così
anche se la denotazione di base può essere intesa secondo l’intenzione
del­­l’emittente, le connotazioni possono mutare perché il destinatario
segue percorsi di lettura diversi da quelli previsti dal­­l’emittente. Tutto
questo ha ripercussioni importanti per l’interprete della Bibbia, che deve
sempre tener conto del fatto che il testo è appunto “aperto” e permette
diversi percorsi di lettura.

3.3. A.J. Greimas, semiotica e dimensione narrativa

Riprendendo e sviluppando le analisi di V. Propp sulla struttura delle


fiabe, Greimas si interessa dello studio semiotico dei testi narrativi, cioè
del modo in cui nei testi si realizza la narratività. Il suo testo classico,
Semantica strutturale (1966), invita a far emergere il significato di una
narrazione attraverso la messa in luce del programma narrativo che la
guida e la struttura e che si rende percepibile attraverso un’analisi delle
situazioni che si succedono. A tal proposito diviene essenziale la com-
prensione delle trasformazioni che reggono i passaggi da una situazione
al­­l’altra e, progressivamente, guidano verso il compimento della storia;
qui entrano in gioco in modo particolare le relazioni, i rapporti, che
legano soggetti e oggetti della narrazione, sia che manifestino il loro
congiungersi o disgiungersi. Per esplicitare, quindi, il sistema che con-
sente a un testo di significare, secondo Greimas occorre muoversi per
tappe, seguendo le fasi attraverso cui si genera il senso. Queste tappe
possono riassumersi nel cogliere, progressivamente, quattro dinamiche:
la grammatica fondamentale cioè le opposizioni che reggono il testo e
ciò che permette di passare dal­­l’una al­­l’altra; la grammatica narrativa “di
superficie” in cui svolgono una funzione fondamentale l’individuazione
degli astanti e dei ruoli attanziali; le strutture discorsive con la messa
in luce di quali siano i protagonisti della storia (attori) e quale ruolo
attanziale rivestano, di volta in volta, luoghi e tempi in cui agiscono;
Il mondo della parola umana 33

infine la manifestazione testuale, il modo concreto con cui si realizza


una struttura narrativa.
Con questo tipo di approccio, Greimas non intende offrire un metodo
che conduca ad una lettura univoca né definitiva di un testo; molto più
modestamente propone una metodologia euristica che fin dal­­l’inizio
assuma il principio della pluralità delle letture possibili come fondante
e che, di conseguenza, consenta e supporti una lettura capace continua-
mente di scoprire qualcosa di non ancora conosciuto e di imprevisto.
Riprenderemo diverse di queste considerazioni a proposito della cosid-
detta “esegesi narrativa”10.

4. La parola è creativa11

La parola, direttamente o indirettamente, è sempre appello a un altro


ed esige, per sua natura, una risposta. Sarà assenso o rifiuto, ammirazio-

10
Cfr. pp. 505-506.
11
L’odierna filosofia del linguaggio (cfr. J.L. Austin, Quando dire è fare) introduce
felicemente la distinzione fra enunciati constativi (quelli che si limitano a dire qualcosa,
a descrivere un fatto o uno stato di cose) ed enunciati performativi (dal verbo inglese to
perform: quelli che non si limitano a dire qualcosa, ma fanno qualcosa, cioè portano den-
tro di sé ciò che vogliono comunicare, e comunicando lo instaurano). Alla radice di tale
distinzione Austin individua una tripartizione degli atti linguistici: atto locutorio (cioè l’atto
di dire qualcosa, l’atto del produrre dei suoni appartenenti a un certo lessico, organizzati
secondo le regole di una certa grammatica e che possiedono un certo significato); atto
illocutorio (l’atto che, oltre a ciò che esso compie in quanto è anche locuzione, produce
qualcosa nel dire: per questo si usa il prefisso il-); atto perlocutorio (l’atto che, oltre a fare
tutto ciò che fa in quanto locuzione e illocuzione, produce qualche cosa per il fatto di dire,
donde il prefisso per-; ciò che allora si produce non è necessariamente la stessa cosa che
si dice di produrre: per esempio, «Io ti avverto» è una perlocuzione se colui a cui parlo
è allarmato – e non semplicemente avvertito – dalle mie parole). J.R. Searle, in Atti
linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, elabora, in maniera più sistematica rispetto
ad Austin, una teoria quadripartita degli atti linguistici: atto enunciativo, cioè l’enunciare
parole (morfemi, frasi); atto proposizionale, cioè il far riferimenti e il predicare (il far rife-
rimenti serve a individuare o identificare un “oggetto” o “entità” o “particolare” distinto
da altri oggetti, a proposito del quale il parlante dirà poi qualche cosa, o porrà qualche
domanda ecc.; il predicare, con cui si predicano, in rapporto ad oggetti, non gli universali
ma le espressioni, le uniche – per Searle – a potere essere dette vere o false); atto illocutivo,
cioè l’affermare, il domandare, l’ammonire, l’ordinare, il promettere ecc.; atto perlocutivo,
che – collegato al­­l’atto illocutivo – indica le conseguenze o effetti che tali atti hanno sulle
azioni, i pensieri, le credenze ecc. degli ascoltatori (per esempio, argomentando posso
34 La parola di Dio

ne stupefatta o scostante ironia, la parola non potrà non provocare una


libera risonanza nel “tu” che ne viene intimamente toccato. Lungi dal­­
l’essere «soltanto un suono e un soffio (nur Schall und Rauch)», la parola
personale possiede una forza creativa, colpisce, avvince, libera. Qualcosa
della trascendenza del­­l’essere-uomo vi si manifesta e vi si comunica.
La parola dà a ciascuno la rivelazione di sé nel rapporto reciproco con
l’altro. L’uomo si fa “io” nel dialogo con un “tu”: «Nella reciprocità del
parlare e del­­l’ascoltare si attualizzano in me delle possibilità sopite: ogni
parola, profferita o intesa, è la possibilità di un risveglio, la scoperta forse
di un valore al cui appello non ero sensibile»12.
Nella reciprocità del­­l’“io” e del “tu”, la parola tende a creare l’unità del
“noi”, quella autentica comunità, ben diversa dalla collettività di massa
che non è unione ma affastellamento13.
Infine, la parola umana è aperta al futuro della storia che in essa si
preannuncia, lo attende, lo provoca. Per usare un’espressione di J. Molt-
mann, la parola «chiama ciò che promette dal non-ancora-essere del
futuro al­­l’essere del presente»14. Essa diventa forza motrice nel divenire
della storia15.

persuadere o convincere qualcuno; ammonendolo posso spaventarlo o metterlo in guardia;


chiedendo posso fargli fare qualcosa; informandolo posso illuminarlo, edificarlo, ispirarlo,
renderlo consapevole ecc.: le espressioni in corsivo denotano atti perlocutivi).
12
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 68. Egli cita (ibid., 69) la testimonianza di
Wagner, che in un periodo doloroso della sua vita scriveva a un confidente: «Privo di ogni
stimolo esterno, ridotto a nutrirmi sempre della mia propria sostanza, ho bisogno, per
poter conservare una minima parte della mia energia vitale, dei più attivi e incoraggianti
rapporti con l’esterno: da dove mi verrebbe dunque finalmente ancora il desiderio di
comunicare ciò che si agita nelle più intime fibre del mio essere, se incontrassi ovunque
il silenzio intorno a me?» (Lettere a Hans von Bülow, 1928).
13
Tornano alla memoria le parole attualissime di Martin Buber: «Chi, in queste collet-
tività di massa che si frammischiano marciando, sa ancora che cosa è la comunità verso la
quale crede di tendere? La collettività non è unione, ma affastellamento: individui messi
insieme con individui, armati insieme, allineati insieme; tra uomo e uomo vi è soltanto il
quantitativo di vita sufficiente per incitare il passo di marcia. Lo zelo di quest’epoca per
la collettività è la fuga dalla prova di una vera comunità delle singole persone, dal dialogo
vitale nel cuore del mondo che esige l’impegno di ogni persona. Dialogo e monologo tac-
ciono. Senza Tu, ma anche senza Io, gli uomini affastellati, quelli di sinistra che vogliono
abolire la memoria e quelli di destra che la vogliono regolare, schiere separate e nemiche,
marciano nel­­l’abisso comune» (M. Buber, Il principio dialogico, Edizioni di Comunità,
Milano 1958, 141-143).
14
J. Moltmann, Prospettive della teologia. Saggi, Queriniana, Brescia 1973, 126.
15
Vedi sotto, cap. 3.
Il mondo della parola umana 35

5. Il linguaggio del­­l’amicizia e del­­l’amore

È nel linguaggio del­­l’amicizia e del­­l’amore che la triplice funzione del-


la parola sopra descritta trova la sua più alta sintesi. Salva l’individualità
irripetibile del­­l’io e del tu, attraverso una sempre più libera comunicazio-
ne e in vista di una più profonda comunione di vita e non solo di idee,
amici e sposi si parlano e trovano nel mistero della vicendevole parola la
sorgente pura del loro dinamico coesistere.
Nel­­l’amicizia e nel­­l’amore, lo stesso dilemma tra “espressione” e “co-
municazione” – più io mi esprimo e più difficilmente comunico – si
avvia faticosamente ma realmente a risolversi. Nel­­l’incontro amicale con
l’altro l’amico non teme di compiere la tremenda fatica di liberare il
senso segreto del suo essere, quel profondo “io” che è «incantesimo in-
dicibile, autenticità di un pensiero ribelle a ogni formulazione, effusione
mistica, poesia pura»16. E, dopo aver comunicato liberamente il suo io e
averlo offerto al libero accoglimento del­­l’altro, l’amico può ricominciare
l’itinerario mai definitivo della scoperta di sé e del­­l’altro, della reciproca
comunicazione, del vicendevole accoglimento.
Nel­­l’amicizia e nel­­l’amore, anche l’obiettività del­­l’informazione e l’e-
satta precisione dei termini perdono di peso di fronte alle ulteriori pos-
sibilità che si aprono al­­l’espressione e alla comunicazione interpersonali.
Mezze-parole, allusioni, silenzi, sguardi, possono dire molto di più che
non le molte esattissime parole. In questo stare l’uno di fronte al­­l’altro, la
magia della presenza si aggiunge al­­l’efficacia propria della parola e carica
di incantesimo la pur minima parola.
Nella parola del­­l’amicizia e del­­l’amore, «ciascuno dona al­­l’altro l’o-
spitalità essenziale, nel meglio di sé; ciascuno riconosce l’altro e rice-
ve da lui quella stessa riconoscenza, senza la quale l’esistenza umana
è impossibile»17. Torna alla memoria l’elogio che sant’Agostino fa del­­
l’amicizia: «Due cose sono necessarie in questo mondo: la vita e l’ami-
cizia. Dio ha creato l’uomo perché egli esista e viva: ecco la vita. Ma
perché l’uomo non sia solo, l’amicizia è pure un’esigenza della vita»18;

16
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 56. Il dialogo come comunicazione amicale tra
“sposi” trova la più sublime esaltazione poetica e teologica nel Cantico dei cantici: cfr. V.
Mannucci, Sinfonia del­­l’amore sponsale, ElleDiCi, Leumann 1982, 25-38.
17
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 69.
18
Agostino d’Ippona, Sermone 16, 1: PL 46, 870.
36 La parola di Dio

e ancora: «Se non abbiamo amici, nessuna cosa in questo mondo ci


apparirà amabile»19.
Nel­­l’amicizia e nel­­l’amore, il “noi” della comunione può avere l’am-
piezza del­­l’intero universo, tutto può trasfigurare e rinnovare. Il mondo
sorge come «nuovo spazio che non è semplicemente “dato” ma nasce
come “funzione” (e ambito) della libera autodonazione […]. La nostra
presenza nel mondo, anche il nostro prossimo, coloro che da lungo
tempo conosciamo, si cambiano alla luce del­­l’amore»20.
Infine, nel­­l’amicizia e nel­­l’amore accade una pregustazione anticipata
del Tutto del­­l’Essere, del compimento definitivo. Potremmo dire che
l’“io” e il “tu”, diventati “noi” nel­­l’amicizia, toccano l’invisibile e intoc-
cabile “Tu” divino. Questo parve di sperimentare ad Agostino e a sua
madre Monica, in quel­­l’intima, amicale conversazione a Ostia Tiberina,
rievocata in una pagina delle Confessioni:

Al­­l’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te


noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi miste-
riosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati ad una finestra
prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là presso Ostia Tiberina,
lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo
viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con
grande dolcezza […]. Cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei
tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi […]. Aprivamo avidamente la
bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita […]. Ele-
vandoci con più ardente impeto d’amore verso l’Essere stesso, percorremmo
su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo […]. E ancora ascendendo
su noi stessi con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue
opere, giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere
la plaga del­­l’abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo
della verità, ove la vita è la Sapienza […]. E mentre ne parlavamo e anelavamo

19
Id., Lettera 130, 2,4 (PL 35,494). Trascriviamo l’intero brano: «Nel caso che so-
vrabbondassero le ricchezze, che non ci capitasse nessuna perdita di figli o del coniuge,
che fossimo sempre sani di corpo, che abitassimo nella patria preservata da sciagure, ma
convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e
da cui non dovessimo temere e sopportare inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è
forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia
e dolcezza proveremmo in essi? Poiché, se non abbiamo amici, nessuna cosa in questo
mondo ci apparirà amabile [nihil est homini amicum sine homine amico]» (cfr. Le Lettere,
vol. II, Città Nuova, Roma 1971, 77).
20
L. Boros, Il Dio presente, Queriniana, Brescia 19884, 21-23: si legga l’intera medi-
tazione dedicata a «L’amore» (ibid., 15-27).
Il mondo della parola umana 37

verso di lei la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando
vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere poi al suono
vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine21.

21
Agostino d’Ippona, Confessioni, 9,10, 23s. (cfr. Le Confessioni, Città Nuova, Roma
1965, 279-281): vedi il commento di L. Boros, Incontrare Dio nel­­l’uomo, Queriniana,
Brescia 19724, 60-74. Una raccolta di testi agostiniani sull’amicizia è in R. Piccolomini
(ed.), Sant’Agostino. L’amicizia, Città Nuova, Roma 1994. Ancora sul­­l’amicizia, cfr. Gre-
gorio Nazianzeno, Discorsi 43,15-21 (In lode di Basilio il Grande): PG 36, 313-524.
2.
La parola amicale di Dio

Bibliografia: L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 15-39; Associazione Teologica


Italiana, La teologia della rivelazione, a cura di D. Valentini, Messaggero, Padova 1996;
M. Epis, Teologia fondamentale. La ratio della fede cristiana, Queriniana, Brescia 2009,
391-482; P.L. Ferrari, La Dei Verbum, Queriniana, Brescia 2005, 42-62; H. Fries – R.
Latourelle, La rivelazione, in MS I, 225-339; Cl. Geffré, Esquisse d’une Théologie de la
Révélation, in G. Coppieters De Gibson (ed.), La Révélation. Paul Ricoeur, Emmanuel
Levinas, Edgard Haulotte, Etienne Cornelis, Claude Geffré, Facultés universitaires Saint-
Louis, Bruxelles 19842, 171-205; H. Haag – J. Guillet, Révélation, in DBS X/36 (1982)
586-618; R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 19806, 251-358;
G. Lorizio, Rivelazione in G. Barbaglio – G. Bof – S. Dianich (edd.), Teologia, San
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chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine. Constitution dogmatique «Dei Verbum»
I («Unam Sanctam» 70a), du Cerf, Paris 1968, 157-302; G. Marzillo, Dio sulle tracce
del­­l’uomo: saggio di teologia della rivelazione, San Paolo, Cinisello B. 2012, 198-214; G.
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Rivelazione, in DTI III, 148-166 (cfr. Id., Rivelazione, in NDT 1332-1352); N. Schif-
fers – K. Rahner – H. Fries, Rivelazione, in SM VII, 191-226; P. Sequeri, Rivelazione
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Bologna 2006, spec. 38-42; G. Vignolo – L. Giangreco, Rivelazione, in R. Penna –
G. Perego – G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 2010,
1174-1184; J. Wicks, La divina rivelazione e la sua trasmissione: manuale di studio, PUG,
Roma 20022, 41-45.

La costituzione Dei Verbum del concilio Vaticano II parla in questi


termini della rivelazione:

Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel
suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-
15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla
comunione con sé (DV 2).
La parola amicale di Dio 39

Il dettato conciliare, e quello biblico sul quale il magistero si fonda,


descrivono dunque la rivelazione di Dio con la categoria della parola,
anzi del dialogo amichevole. Volendosi rivelare, Dio ha parlato agli uomi-
ni e ha assunto il linguaggio umano del­­l’amicizia, in vista di una precisa
finalità che è una comunione di vita. Il posto che abbiamo riservato nel
cap. 1 al tema della parola umana, con particolare riguardo al linguaggio
del­­l’amicizia e del­­l’amore, assume ora più chiaro significato.

1. Il concetto di rivelazione nei concili Vaticano I e Vaticano II

Per individuare meglio lo sviluppo che il concetto di rivelazione ha


avuto nella comprensione della chiesa in quest’ultimo secolo, trascrivia-
mo in sinossi i testi della costituzione Dei Filius del Vaticano I e della
costituzione Dei Verbum del Vaticano II, riguardanti la rivelazione.

Vaticano I: Dei Filius, cap. II Vaticano II: Dei Verbum, 2.6

La stessa santa madre chiesa ritiene e in- Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza
segna che Dio, principio e fine di ogni rivelare se stesso e manifestare il mistero
cosa, può essere conosciuto con certezza della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante
con la luce naturale della ragione umana il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
a partire dalle cose create: «Le sue invisi- Verbo fatto carne, nello Spirito Santo
bili perfezioni, infatti, si fanno palesi al­­ hanno accesso al Padre e sono resi par-
l’intelletto fin dalla creazione del mondo tecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18;
attraverso le sue opere» (Rm 1,20); ma 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti
che è piaciuto alla sua sapienza e bontà Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17)
rivelare se stesso e gli eterni decreti della nel suo grande amore parla agli uomini
sua volontà per altra via – soprannatura- come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-
le –, dal momento che l’apostolo afferma: 15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38),
«In molte maniere ed in molti modi un per invitarli e ammetterli alla comunione
tempo Dio parlò ai padri per mezzo dei con sé. Questa economia della rivelazione
profeti. Ora, in questi nostri tempi, ci avviene con eventi e parole intimamente
ha parlato per mezzo del Figlio suo» (Eb connessi, in modo che le opere compiute
1,1-2). da Dio nella storia della salvezza, mani-
Si deve a questa divina rivelazione, se le festano e rafforzano la dottrina e le realtà
verità che per loro natura non sono inac- significate dalle parole, e le parole dichia-
cessibili alla ragione umana nel­­l’ordine rano le opere e chiariscono il mistero in
divino, nella presente condizione del ge- esse contenuto. La profonda verità, poi,
40 La parola di Dio

nere umano, possono essere conosciute sia di Dio sia della salvezza degli uomini,
da tutti facilmente, con assoluta certezza per mezzo di questa rivelazione risplen-
e senza alcun errore. Non è, tuttavia, per de a noi in Cristo, il quale è insieme il
questo motivo che la rivelazione, asso- mediatore e la pienezza di tutta intera la
lutamente parlando, è necessaria; ma rivelazione (DV 2).
perché Dio, nella sua infinita bontà, ha Dio, il quale crea e conserva tutte le cose
ordinato l’uomo a un fine soprannaturale, per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre
a partecipare, cioè, i beni divini, che su- agli uomini nelle cose create una peren-
perano del tutto le possibilità del­­l’umana ne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19.20),
intelligenza. «Occhio, infatti, non vide, e inoltre, volendo aprire la via della so-
orecchio non intese e cuore umano non prannaturale salvezza, fin dal principio
poté mai desiderare quello che Dio ha manifestò se stesso ai progenitori. Dopo
preparato per quelli che lo amano» (1 la loro caduta, con la promessa della re-
Cor 2,9). denzione, li risollevò nella speranza della
Questa rivelazione soprannaturale, secon- salvezza (cfr. Gen 3,15), ed ebbe assidua
do la fede di tutta la Chiesa, illustrata dal cura del genere umano, per dare la vita
santo sinodo di Trento, è contenuta nei eterna a tutti coloro, i quali cercano la
libri scritti e nella tradizione non scrit- salvezza con la perseveranza nella pratica
ta, che, ascoltata dalla bocca dello stesso del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo
Cristo dagli apostoli, o quasi trasmessa chiamò Abramo, per fare di lui un grande
di mano in mano dagli stessi apostoli per popolo […] (DV 3). […] (DV 4-5).
ispirazione dello Spirito Santo è giunta Con la divina rivelazione Dio volle ma-
fino a noi (CE 761s.; cfr. FC 23s.). nifestare e comunicare se stesso e i decre-
ti eterni della sua volontà riguardo alla
salvezza degli uomini «per renderli cioè
partecipi di quei beni divini che trascen-
dono la comprensione della mente uma-
na» (Vaticano I).
Il sacro sinodo professa che «Dio, princi-
pio e fine di tutte le cose, può esser cono-
sciuto con certezza con il lume naturale
del­­l’umana ragione dalle cose create» (cfr.
Rm 1,20); insegna inoltre che va attribui-
to alla rivelazione divina il fatto che «tut-
to ciò che nelle cose divine non è di per sé
impervio al­­l’umana ragione, possa, anche
nel presente stato del genere umano, esse-
re conosciuto da tutti speditamente, con
ferma certezza e senza mescolanza d’erro-
re» (Vaticano I)» (DV 6).

Dal confronto dei due testi conciliari emergono alcune differenze


degne di rilievo.
La parola amicale di Dio 41

a) Rapporto tra rivelazione soprannaturale e naturale

Il Vaticano I parte dalla rivelazione naturale e dalla possibilità della


conoscenza di Dio (il concilio parla di “conoscenza”, non di “dimostra-
zione”) alla luce della ragione umana, per concludere poi alla rivelazione
soprannaturale. Esso difendeva1 la prima, contro coloro che umiliavano
la ragione umana negandole ogni possibilità di arrivare, per via ascen-
dente, alla conoscenza di Dio; difendeva la seconda, contro coloro che
accordavano alla ragione umana piena autonomia e piena sufficienza, ri-
ducendo la rivelazione cristiana a realtà puramente immanente al­­l’uomo.
La prospettiva del Vaticano II appare in qualche modo capovolta. Il
concilio parla subito – e diffusamente – della rivelazione personale e
storica di Dio culminante in Gesù Cristo (DV 2-4), nonché della fede
come adeguata risposta alla rivelazione soprannaturale (DV 5), assicuran-
do così, fin dal­­l’inizio, lo specifico della rivelazione e della fede biblico-
cristiane; d’altronde, l’assenza di un contesto apologetico cli difesa con-
tro errori dottrinali consente al Vaticano II di offrirci una teologia più
espositiva del mistero e dei contenuti della rivelazione soprannaturale.
Soltanto alla fine del cap. I, DV 62 recupera il dato del Vaticano I sulla
rivelazione naturale e sulla possibilità per l’uomo di conoscere Dio, un
recupero indubbiamente importante per il nostro tempo, quando si
pensi alla pretesa scientificità del­­l’ateismo contemporaneo.

b) Piacque a Dio…

Si deve anche rilevare che il Vaticano II, oltre a capovolgere la pro-


spettiva delle due rivelazioni, permette di intendere meglio la distinzione
e l’unità tra creazione-rivelazione naturale, da una parte, e rivelazione
soprannaturale, dal­­l’altra. Nel Vaticano I, e in DV 6 che lo cita, le due
rivelazioni vengono dialetticamente raccordate mediante l’affermazione
della necessità morale, nelle condizioni attuali della storia salvifica, di una
rivelazione soprannaturale anche per le verità di per sé non inaccessibili

1
Per le diverse forme di errori dottrinali contro cui il Vaticano I imposta la sua teologia
difensiva, cfr. R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 260-265.
2
La sua formulazione e ancor più il suo posto nel cap. I della costituzione Dei Verbum
hanno avuto in concilio un lungo e faticoso iter: cfr. H. de Lubac, Commentaire du préam­
bule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine I, 263-272.
42 La parola di Dio

alla ragione umana; e il «piacque a Dio…» in Dei Filius ha una precisa e


legittima sfumatura, quella cioè di sottolineare il contrasto tra lo sforzo
religioso del­­l’uomo alla ricerca di Dio (cfr. At 17,26-31) e il dono che Dio
fa al­­l’uomo rivelando se stesso in Gesù Cristo. In Dei Verbum, invece, il
«piacque a Dio…» apre in assoluto il discorso sulla rivelazione e pone
l’accento sulla libera e gratuita iniziativa di Dio nel suo atto di rivelarsi:
la rivelazione è grazia! «Con la sua centralità cristologica», inoltre, DV
3 «permette di intendere meglio l’unità e la distinzione tra creazione e
rivelazione. La distinzione viene descritta mediante un insuper (inoltre),
come emergenza di una novità rispetto al­­l’orizzonte precedente. L’unità
invece è data dalla creazione nel Verbo»3: poiché già la creazione è avvenu-
ta nel Verbo, essa possiede quindi un’intrinseca destinazione cristologica.

c) Rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà…

Circa l’oggetto della rivelazione, Dei Verbum segue il Vaticano I («… ri-


velare se stesso…»): la rivelazione, prima di far conoscere qualcosa, ci
mette di fronte a Qualcuno, il Dio vivente in Gesù Cristo. Tuttavia Dei
Verbum sostituisce la parola “decreti” con l’espressione paolina «il miste-
ro della sua volontà»: con ciò, si intende evocare tutto intero il disegno
salvifico svelato e attuato in Gesù Cristo4 e sottolineare quel­­l’unità tra
rivelazione e salvezza che viene poi espressa dalla proposizione che se-
gue: «Mediante il quale gli uomini… hanno accesso al Padre e sono resi
partecipi della natura divina».

d) Con questa rivelazione infatti Dio invisibile


nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici…

Di ciò non v’è traccia nel Vaticano I. Alcuni padri del concilio Vati-
cano II fecero osservare che era forse eccessivo dire che «Dio parla agli
uomini come ad amici» e avrebbero preferito l’espressione «come a figli»,
conforme a un uso più frequente nella Bibbia5. Nondimeno, la formula

3
G. Ruggieri, Rivelazione, in DTI III, 162.
4
Ossia il carattere cristocentrico della rivelazione: vedi sotto, cap. 3.5. Cfr. A. Martin,
Un enigma “intrigante”: il concetto di mistero nelle lettere agli Efesini e ai Colossesi, in PdV
60/1 (2015) 18-23.
5
Cfr. H. de Lubac, Commentaire, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine, 172; Acta
La parola amicale di Dio 43

«come ad amici», ugualmente biblica, rimase nel testo definitivo: essa


esprime stupendamente quella risonanza personalistica e amicale di tutta
la rivelazione biblica6, che Dei Verbum ama riproporre anche nel­­l’ultimo
capitolo: «Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta
amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi» (n. 21).

e) Questa rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi…

Secondo il Vaticano I l’oggetto formale della rivelazione è l’insegna-


mento da parte di Dio delle verità che superano la capacità naturale
della ragione umana. Gli avvenimenti fondatori della storia della sal-
vezza (historia salutis) non fanno parte formalmente della rivelazione:
costituiscono soltanto l’occasione dello svelamento del contenuto della
rivelazione; il Cristo come avvenimento storico che compie la rivelazione
non occupa che un posto secondario. Per Dei Verbum, invece, la rivela-
zione avviene «con gesta e parole (gestis verbisque)»: è sì parola di Dio, ma
anche e inseparabilmente avvenimento, manifestazione e svolgimento
del disegno di Dio in una storia7.

Occorre poi ricordare che il cap. I della Dei Verbum non figurava nella
prima stesura dello schema De fontibus revelationis; una prima redazione,
ad opera del vescovo M.G. Garrone, con il contributo di Y. Congar e J.
Daniélou, ricevette molte critiche, sino ad essere trasformata nel­­l’attuale
cap. I, sotto la guida di P. Smulders, nella primavera del 19648.
Per quanto riguarda DV 2, la prospettiva che il documento conciliare
apre circa la rivelazione, lascia ancora aperti alcuni interrogativi: per
esempio, la possibilità del rifiuto della rivelazione stessa da parte degli
esseri umani ai quali la rivelazione è rivolta; il rapporto tra rivelazione
cristiana e altre fedi religiose; il rapporto tra il dichiarato valore univer-
sale della rivelazione e la sua dimensione storica. Dei Verbum non offre
inoltre alcuna indicazione sul­­l’accesso concreto degli uomini di questo

Synodalia, vol. IV, pars I, p. 342 e pars V, p. 683. Cfr. F. Gil Hellin, Constitutio dogmatica
de divina rivelatione Dei Verbum. Concilii Vaticani II Synopsis, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1993, 18-19.
6
Vedi qui sotto, § 2.
7
Vedi sotto, cap. 3.
8
Cfr. R. Burigana, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei Verbum”
del Vaticano II, il Mulino, Bologna 1998, 258-260.
44 La parola di Dio

tempo alla rivelazione divina, non cogliendo il fatto che è nel rapporto
tra lettore e narratore che la rivelazione si rende attuale9.
Del cap. I, e in particolare del n. 2, val la pena di sottolineare tuttavia
una serie di elementi fondamentali, che restano oggi dei punti fermi per
la riflessione della chiesa cattolica sulla rivelazione: la forte ispirazione
biblica e l’abbandono deciso di una visione dottrinale della rivelazione
(da “istruzione” a “comunicazione”; cfr. Ch. Theobald, sopra citato), in
nome di una concezione che mette decisamente al centro l’evento della
autocomunicazione divina, non più considerata soltanto un fatto del
passato, ma anche del presente, un atto assolutamente gratuito («Placuit
Deo…»); si noti, al riguardo, la presenza, in DV 2, della espressione “sto-
ria della salvezza”, che colloca la rivelazione divina anche al­­l’interno di
una precisa dimensione storica (cfr. anche oltre, al cap. 3). Il “presente”
della rivelazione nasce dalla dimensione cristocentrica della rivelazione
stessa, che ingloba tuttavia in sé sia l’aspetto trinitario che quello antro-
pologico del­­l’autocomunicarsi di Dio; cfr. anche DV 4. «Per il Vaticano
II la comunicazione di Dio non si limita dunque a “rendere nota” la
salvezza, ma effettivamente la “comunica”, rendendola accessibile in ter-
mini di relazioni interpersonali»10. Nasce così quel “Dio in dialogo” di cui
parla Benedetto XVI in VD 6 con un richiamo esplicito al­­l’importanza
capitale di DV 2: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto
che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi».

2. La Bibbia testimone del carattere dialogico-amicale


della rivelazione

Presentando la rivelazione come un dialogo (conversatio) di Dio con


gli uomini dovuto al­­l’iniziativa del suo amore, Dei Verbum si esprime

9
Cfr. Ch. Theobald, «Seguendo le orme…» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche
di lettura, EDB, Bologna 2011; cfr. il cap. I: «La rivelazione. Dei Verbum quarant’anni
dopo», 11-30.
10
P.L. Ferrari, La Dei Verbum, 59; cfr. anche G. O’Collins, Rivelazione: passato e
presente, in R. Latourelle (ed.), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo
(1962-1987), Cittadella, Assisi 1987, 125-135.
La parola amicale di Dio 45

con le parole di Bernardo di Chiaravalle11 e – più estesamente – sembra


essersi ispirata a una pagina del­­l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI12.
Ma le uniche citazioni, che essa porta a suffragio del carattere dialogico-
amicale della rivelazione, sono tratte piuttosto dalla Bibbia13. Le esami-
niamo brevemente.

Es 33,11: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla
con un suo amico».

Mosè non è soltanto il mediatore del­­l’esodo e del­­l’alleanza; è il per-


sonaggio-tipo nella cui esperienza si compie e si esprime il progetto di
Dio su Israele, anzi su ogni uomo. I diversi “esodi” di Mosè scandiscono
anche l’itinerario spirituale e di testimonianza di ogni credente. «Uscito
verso i fratelli oppressi» (Es 2,11) in un gesto generoso di solidarietà, il
primo Mosè, braccato dal Faraone, fugge nel deserto (Es 2,15), scopre la
presenza di Dio nel roveto che brucia ma non si consuma (simbolo della
sua stessa vita?) e di mezzo al fuoco intende la voce di Dio che gli affida la
missione del­­l’esodo di liberazione e lo conforta della sua presenza: «Ora
va’… Fa’ uscire dal­­l’Egitto il mio popolo… Io sarò con te» (Es 33,10-12).
È questo secondo Mosè che libera Israele e lo conduce al Sinai fumante,
perché un intero popolo intenda la voce di Dio di mezzo al fuoco (Es
19–24). Ma una terza esperienza lo attende: nella «tenda del convegno»
egli entra da solo per conoscere quel Dio che «gli parlava faccia a faccia,
come un uomo parla con un suo amico» (Es 33,11). Lo scrittore biblico

11
«Ego arbitror praecipuam invisibili Deo fuisse causam, quod voluit in carne videri,
et cum hominibus homo conversari, ut carnalium videlicet, qui nisi carnaliter amari non
poterant, cunctas primo ad suae carnis salutarem amorem affectiones retraheret, atque ita
gradatim ad amorem perduceret spiritualem»: Bernardo di Chiaravalle, In Cantica,
Sermo 20, 6: PL 183, 870B.
12
«La rivelazione, che è il rapporto soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa
di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata come un dialogo nel quale il Verbo di
Dio si esprime con l’Incarnazione e poi col Vangelo. Il colloquio paterno e santo interrotto
tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, ha meravigliosamente ripreso nel corso
della storia. La storia della salvezza racconta precisamente questo lungo e vario dialogo
che parte da Dio e annoda con l’uomo una conversazione varia e meravigliosa. È in que-
sta conversazione del Cristo con gli uomini (Bar 3,38) che Dio fa comprendere qualche
cosa di se stesso, il mistero della sua vita, assolutamente una nella sua essenza, trina nelle
Persone: è qui che egli dice come vuole essere conosciuto: egli è Amore, e come tale vuole
essere onorato e servito. Il nostro comandamento supremo è amore. Il dialogo si fa pieno
e fiducioso: il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si smarrisce […]» (AAS 56 [1964] 632).
13
Cfr. L. Mazzinghi, Percorsi biblici nella Dei Verbum, in PSV 58 (2008) 35-54.
46 La parola di Dio

ha cercato di esprimere l’inesprimibile intimità di Dio con Mosè con la


categoria del dialogo amichevole, veicolo della più profonda comunio-
ne14. E Mosè, sospinto e incoraggiato da quel dialogo amicale, si mette
in cammino per l’ultimo “esodo”, gridando: «Signore! Fammi vedere la
tua faccia, la tua gloria» (Es 33,18-23). Il Mosè leader della liberazione
ha sete di contemplazione. Porterà nella tomba una duplice nostalgia:
la terra e il volto personale di Dio.
La citazione di Es 33,11 ci inserisce nel cuore del­­l’esperienza di libe-
razione di Israele e della alleanza al Sinai, nella quale la libertà precede
il dono della Legge che garantisce piuttosto il rimanere nella libertà ot-
tenuta (cfr. Es 20,1). L’incontro di Mosè con Dio «come con un amico»
ci fa comprendere come l’idea di alleanza non può essere ridotta alla sola
osservanza della Legge, ma viene ampliata fino a includere un rapporto
personale con Dio; al termine del libro del­­l’Esodo, infatti, la costruzione
della tenda-santuario permette a tutti gli israeliti di entrare in rapporto
con il loro Signore.

Bar 3,38: «La Sapienza è apparsa sulla terra e ha conversato tra gli uomini».

Al­­l’epoca del libro di Baruc (forse l’inizio del II secolo a.C.) la sapien-
za, benché personificata, non ha ancora un volto umano. È «il libro dei
decreti di Dio, la legge che sussiste nei secoli» (Bar 4,1), è insomma la
Parola-rivelazione che Dio ha comunicato ai figli di Abramo (cfr. Bar
3,37), perché essi a loro volta la donassero ai figli di Adamo. Dio, con-
versando con il suo popolo, ha inteso intrattenersi e conversare con tutti
gli uomini. Sarà Gesù Cristo in persona questa sapienza di Dio apparsa
definitivamente sulla terra15, sarà lui «la nuova tenda di convegno» della
esperienza mosaica: «E il Verbo (la Parola) si fece carne e venne ad abi-
tare (eskḗnōsen, lett. “piantò la sua tenda”) tra noi e noi vedemmo la sua
gloria» (Gv 1,14).

14
Cfr. G. Auzou, Dalla servitù al servizio (Il libro del­­l’Esodo), EDB, Bologna 1975, 273.
15
Il testo di Bar 3,38 viene spesso citato dai Padri della chiesa, i quali vi vedono una
figura del mistero del­­l’incarnazione; e il NT accosta la sapienza a Cristo, unica e autentica
parola di Dio: cfr. P.E. Bonnard, La sagesse en personne annoncée et venue: Jésus Christ,
du Cerf, Paris 1966; J.N. Aletti – M. Gilbert, La sapienza e Gesù Cristo, Gribaudi,
Torino 1981.
La parola amicale di Dio 47

Gv 15,14-15: «Voi siete miei amici… Non vi chiamo più servi, ma vi ho


chiamati amici».

In Gesù Cristo l’invisibile volto di Dio si è reso visibile: «Filippo,


chi vede me vede il Padre» (Gv 14,8-9; cfr. 1,18), e la parola di Dio si
è fatta carne (1,14), è divenuta presenza e dialogo amichevole con gli
uomini. Credere in Gesù Cristo significa, per il Vangelo di Giovanni,
andare dietro a Gesù sul­­l’esempio dei primi due discepoli di cui si legge
in Gv 1,38-39: «Andarono dietro a Gesù», «videro dove egli abitava»
e «rimasero presso di lui»16. L’ora del­­l’incontro e della conversazione
con Gesù è «l’ora decima», l’ora cioè del compimento e del­­l’approdo
definitivi per l’inquietante ricerca di ogni essere umano17. Quel primo
incontro dà inizio a una prolungata storia di dialogo tra Gesù e i di-
scepoli, culminante nei discorsi durante l’ultima cena (Gv 13–17). I
discepoli sono diventati davvero «gli amici di Gesù» in virtù della sua
libera e gratuita scelta, garantita dal­­l’atto supremo della sua agápē che
è l’offerta della sua vita per amore. Per i discepoli, diventati amici, non
esistono più segreti: Gesù ha comunicato loro tut­­t’intera la rivelazione
(14,6-7) e, mediante il dono dello Spirito Santo, la farà loro compren-
dere (14,25-26; 16,12-15).
A questi testi citati in DV 2 potremmo ancora aggiungere Is 41,8, là
dove Dio chiama Abramo «mio amico». L’avventura della parola di Dio
con gli uomini comincia infatti con Abramo, per la cui memoria il narra-
tore genesiaco si era preso la stupenda affascinante libertà di presentarci
un Dio che «non può tenere nascosto il suo progetto ad Abramo» (Gen
18,17), addirittura asseconda il suo invito a «rinfrancarsi il cuore» e a
«mangiare» alla maniera umana fuori della tenda (cfr. Gen 18,1.8). La
storia biblica esordisce con una duplice nostalgia: Dio ha nostalgia del­­
l’uomo e Abramo ha nostalgia del Dio unico, del­­l’Assoluto. In Abramo,
«amico di Dio» e «padre dei credenti», tutti gli uomini sono invitati al
rapporto amicale con Dio. Anche in questo – per usare l’espressione di
Pio XI – «i cristiani sono spiritualmente dei semiti» (cfr. p. 383).

16
Cfr. V. Mannucci, Evangelo di Giovanni, in ER 2, col. 1471.
17
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Vandenhoeck & Ruprecht, Göt-
tingen 196418, 70.
48 La parola di Dio

3. Il dettato di Dei Verbum

È dunque dalla Bibbia stessa che il concilio Vaticano II ha ricupe-


rato il carattere interpersonale, esistenziale, dinamico e oblativo della
rivelazione-parola di Dio, apportando così una necessaria integrazione
al concetto piuttosto statico e riduttivo di “rivelazione” che i manuali di
teologia avevano ereditato dagli Scolastici.

Seguendo san Tommaso, essi affermano che parlare è manifestare il proprio


pensiero a qualcuno per mezzo di segni. Si mette l’accento sullo svelamento
del pensiero operato dalla parola e sulla partecipazione di conoscenza che
essa realizza18.

Ma l’intento di insegnare delle verità, che l’uomo da solo non può


conoscere, non esaurisce il progetto rivelatorio di Dio. Dio non è sol-
tanto un maestro che insegna. Rivelandosi, Dio parla il linguaggio del­­
l’amicizia e del­­l’amore:
– Dio chiama, convoca, interpella gli uomini (funzione appellativa
della parola); i credenti che ascoltano, accolgono e vivono la parola
di Dio sono i klētói, cioè i “chiamati”19; la comunità dei credenti è la
ekklēsía, l’assemblea dei convocati.
– Dio racconta, interpreta l’uomo, l’esistenza e la storia, insegna (fun-
zione informativa della parola). Così la parola di Dio si fa giudizio, mi-
naccia, promessa, consolazione, insegnamento. Si fa anche svelamento
del­­l’essere umano a se stesso, diventa “autocomprensione”, giacché «l’uo-
mo non vive soltanto di pane, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di
Dio» (Dt 8,3). In altri termini, l’uomo conosce se stesso e la pienezza del
suo essere e del suo destino non da ciò che egli stesso produce, ricerca
e ottiene attraverso la propria attiva esperienza, ma ascoltando la parola
di Dio20.
– Dio si esprime, parla di sé, rivela agli uomini se stesso e la sua inti-
ma vita (funzione espressiva della parola), per invitarli e ammetterli alla
comunione di vita con sé. Non parla a distanza, ma si fa presente: porta

18
R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 364.
19
Così Paolo apostolo chiama i cristiani: cfr. Rm 1,6.7; 8,28; 1 Cor 1,2.24 ecc.
20
Questo carattere “antropologico” della rivelazione è diffusamente espresso dalla costi-
tuzione Gaudium et spes del Vaticano II: cfr. R. Latourelle, La rivelazione, in MS I, 248s.
La parola amicale di Dio 49

il nome di Yhwh, cioè “Colui che c’è, che è presente, che è con”21, è
l’Emmanuele, Dio-con-noi. L’avventura millenaria della parola di Dio
(cfr. Eb 1,1-2) approda a un uomo che è la parola di Dio diventata carne
(Gv 1,14a), la tenda nella quale Dio abita (Gv 1,14b) e si intrattiene
con l’umana famiglia: la parola di Dio si chiama Gesù (= Yhwh salva).
Già il Proemio di Dei Verbum, facendo proprie le parole di Giovanni
– «Annunziamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e si manifestò
a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche
voi abbiate comunione con noi e la nostra comunione sia col Padre e
col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3) –, contiene in germe tutto ciò
che il cap. I della costituzione afferma sulla rivelazione. Vi si trovano
chiaramente indicati l’oggetto, il modo, la trasmissione e la finalità della
rivelazione di Dio.
a) L’oggetto. – È «la vita eterna», che per Giovanni è il più radicale degli
attributi di Dio: «eterna» evoca «non una vecchiaia senza fine, ma una
incorruttibile giovinezza»22. Una tale vita non è separabile da «la luce»
(Gv 1,4), che in Giovanni è sinonimo di “rivelazione”. Ebbene, vita e
luce sono identiche a «la Parola» che «in principio esisteva già, era presso
Dio, era Dio» (Gv 1,1). L’oggetto della divina rivelazione, lo si chiami
Dei Verbum o Vita aeterna, è dunque Dio stesso che si apre agli uomini
e si comunica ad essi come «verità e vita».
b) Il modo. – La vita eterna di Dio si manifestò a noi in Gesù Cristo,
il quale rivela Dio non solo con le parole, ma con la sua stessa presenza
attiva, con tutto il suo essere (cfr. DV 4). La presenza del Verbo di Dio
incarnato è qualcosa di più che un puro insegnamento dottrinale. In
lui la parola di Dio si è fatta non soltanto “udire”, ma anche “vedere” e
“toccare”. Gesù Cristo è la definitiva teofania del Padre.
c) La trasmissione. – L’annuncio di Giovanni è una testimonianza;
tale è pure l’annuncio della chiesa, fondato sulla testimonianza degli
apostoli. Prima di essere “maestra”, la chiesa è “discepola”; prima di
annunciare la parola di Dio, la chiesa si pone «in religioso ascolto» della
medesima; prima di comunicare la vita, la chiesa la riceve. Come dice
DV 8: «La chiesa perpetua e trasmette tutto ciò che essa è, tutto ciò che

21
Secondo l’interpretazione più probabile del nome Yhwh, rivelato da Dio a Mosè
(Es 3,13-15): cfr. G. Auzou, Dalla servitù al servizio, 130-135; M. Noth, Esodo, Paideia,
Brescia 1977, 36.
22
L. Bouyer, Il quarto Vangelo, Borla, Torino 1964, 32.
50 La parola di Dio

essa crede»; e gli strumenti della sua tradizione sono «la sua dottrina, la
sua vita, il suo culto».
d) La finalità ultima. – Essa viene espressa dalla Prima lettera di Gio-
vanni e dal Proemio di Dei Verbum in termini di koinōnía, di “comu-
nione” con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo: è questa la vita eterna
manifestata e donata agli uomini dal Verbo fatto carne. Ma tutto ciò non
è una faccenda privata, affidata al rapporto privato delle singole persone
con la rivelazione. L’incontro con Cristo, Verbum Dei, passa attraverso
il suo sacramento che è la chiesa, segno visibile ed efficace della comu-
nione degli esseri umani con Dio e della loro comunione fraterna (cfr.
LG 1). Giovanni non scrive: «Annunziamo la vita eterna…, affinché
anche voi abbiate comunione col Padre…»; ma: «… affinché anche voi
abbiate comunione con noi», e aggiunge: «e la nostra comunione sia col
Padre e col Figlio suo Gesù Cristo»23. L’annuncio della Parola edifica la
chiesa, comunità dei figli di Dio (cfr. AG 1), e la rende sacramento di
comunione con Dio per tutto il genere umano.

4. Rivelazione e alleanza

Poiché la rivelazione è il dialogo tra Dio e l’umanità in vista di una


comunione di vita che la Bibbia chiama alleanza, le tappe che scandisco-
no la storia progressiva del­­l’alleanza ritmano anche i termini del dialogo
rivelatorio tra Dio e l’essere umano.
Da quando Dio ha rivolto ad Adamo la prima parola-interrogazione:
«Dove sei?» (Gen 3,9), la definizione biblica del­­l’uomo è in questa in-
terrogazione:

23
Già sant’Agostino commentava: «In questo passo siamo noi stessi ritratti e designati.
S’avveri dunque in noi quella beatitudine che il Signore ha preannunciato per le future
generazioni; restiamo saldamente attaccati a ciò che non vediamo, perché essi che videro
ce lo attestano. “Affinché”, afferma Giovanni, “anche voi abbiate parte con noi”. Che c’è
di straordinario a far parte della società degli uomini? Aspetta ad obbiettare; considera
ciò che egli aggiunge: “E la nostra vita sia in comunione con Dio Padre e Gesù Cristo suo
Figlio. Queste cose ve le abbiamo scritte, perché sia piena la vostra gioia”. Proprio nella
vita in comune, proprio nella carità e nel­­l’unità, Giovanni afferma che c’è la pienezza della
gioia» (Agostino d’Ippona, Commento al­­l’Epistola ai Parti di S. Giovanni, I, 3, in Opere
di S. Agostino XXIV, Città Nuova, Roma 1968, 1643 [PL 35,1980]).
La parola amicale di Dio 51

Il progetto biblico concerne l’uomo interpellato; l’economia biblica situa il


tu del­­l’uomo in faccia al­­l’io di Dio… L’assillante domanda divina non è
l’indizio d’una aggressività, d’una gelosia o d’un odio, ma il segno del­­l’amore
di Dio che ha bisogno del­­l’uomo per costruire la sua opera, realizzare cioè
la Città umana di Dio24.

Dio dice: Il popolo risponde:


«Voi siete miei servi» (Lv 25,42) «Tu sei il nostro Signore» (Sal 8,2.10)
«Io sono il vostro re» (Ez 20,33) «Dio è il nostro re» (Is 33,22)
«Voi siete i miei testimoni» «Tu sei il nostro creatore» (Is 45,7).
(Is 43,10; 44,8).

Man mano che l’alleanza si approfondisce, però, assumendo come


simbolo l’amore coniugale, i due partner (Dio e il popolo) si avviano ver-
so un dialogo tra “eguali”. Essi sono l’un l’altro “amanti” e, chiamandosi,
si invocano con termini eguali. Il dialogo si fa armonioso e parallelo:

Dio dice: Il popolo risponde:


«Io vi amo…» (Ger 31,2; Ml 1,2) «Amate Dio, amanti di Dio»
(Sal 31,24; 97,10)
«Ti farò mia sposa per sempre…» «… e tu mi chiamerai marito mio»
(Os 2,18.20).
«Il mio diletto è per me…» «… e io per lui» (Ct 2,16)

Ma, in fondo, neppure a questo punto si arresta il dinamismo pro-


gressivo della rivelazione di Dio e della risposta del­­l’uomo. È proprio
l’amore coniugale che, informando l’alleanza, la rende dinamica. La
“relazione-partecipazione di vita” tra gli sposi si modifica e si approfondi-
sce incessantemente al­­l’interno d’un amore stabile: «I gradini del­­l’amore,
l’attesa e la pienezza di un incontro, il rimpianto della separazione, la
nostalgia del­­l’essersi conosciuti ieri e il desiderio di ritrovarsi domani:
ecco altrettanti ritmi che inseriscono la partecipazione degli sposi in
un perpetuo divenire»25. L’alleanza, assumendo il simbolo del­­l’amore
coniugale, non smette di essere “storia”, anzi prende ancor più il signi-
ficato d’una filosofia esistenziale della storia, che è la patetica tragedia

24
A. Neher, Existence biblique et histoire, in Id., L’existence juive. Solitudes et affronte-
ments, Seuil, Paris 1962, 28.
25
Ibid., 31.
52 La parola di Dio

d’un amore coniugale e delle sue vicissitudini. La rivelazione biblica,


lungi dal­­l’essere soltanto informazione dottrinale e dettato etico, diventa
partecipazione a un destino comune del divino e del­­l’umano.

5. Conseguenze per la lettura e la comprensione della Bibbia

Vogliamo qui sottolineare alcune qualità che ogni lettura della Bibbia
deve possedere per essere fedele alla natura dialogica, interpersonale della
rivelazione (vedi più avanti, cap. 20).

5.1. La Bibbia non è riducibile a pura funzione informativa

Se la rivelazione di Dio si assimila interamente al linguaggio umano


– tranne che nel­­l’errore – e ne assume tutte e tre le funzioni26, non si
può leggere la Bibbia con una lettura che riduca il Libro sacro in varie
migliaia di proposizioni, riassuntive di verità che si impongono al solo
assenso intellettuale.

Non è legittimo estirpare tutti gli elementi emozionali e tutto quanto fa


appello a una nostra risposta. La sacra Scrittura bisogna leggerla come opera
di linguaggio totale, nella pienezza della sua funzione, l’opera in cui Dio
mi parla27.

Per suffragare tale affermazione, Alonso Schökel adduce come esem-


pio due testi biblici, non riducibili alla pura funzione ‘informativa’, pena
la mortificazione del loro messaggio: Os 11,1-9 e Rm 7,14-25.
È chiaro che il brano di Osea, nel quale Dio parla in prima persona,
vuol proclamare l’amore di Dio verso il suo popolo. Ma i versetti di
Osea mettono in azione anche le altre funzioni del linguaggio, perché
in essi Dio si esprime e mi impressiona. Se la pagina del profeta lascia il
lettore freddo e indifferente, pur avendogli permesso di leggervi l’af-

26
Vedi sopra, cap. 1.
27
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 121.
La parola amicale di Dio 53

fermazione del­­l’amore di Dio per Israele, vuol dire che non ha saputo
leggerla.
Quando Paolo in Rm 7 descrive pateticamente, e in prima persona,
la lotta interiore che si combatte nel cuore di ogni uomo, là dove coe-
sistono non pacificamente la “città di Dio” e la “città di Satana”, quel
vigoroso crescendo letterario esprime molto di più che non la semplice
verità della frattura interiore del­­l’uomo. Paolo non vuole semplicemente
informare, se, alla domanda quasi disperata: «Me infelice! Chi mi libe-
rerà da questo corpo votato alla morte?» (v. 24), egli risponde non con
una fredda proposizione come farebbe intendere la versione latina della
Vulgata («Mi libererà la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore»), ma con un grido di liberazione: «Siano rese grazie a Dio per
mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (così il testo greco). È evidente
per Paolo che soltanto la grazia di Dio in Gesù Cristo lo può liberare;
e ciò viene anche implicitamente affermato. Ma egli ha già fatto espe-
rienza di tale liberazione e ne ringrazia Dio. Paolo non enuncia soltanto:
esclama, prega, grida, si esprime e ci impressiona.
È ben vero che non tutte le pagine della Bibbia sono di questo tipo.
L’importante è non accedere alla pagina biblica con l’esclusiva preoccu-
pazione di apprenderne gli enunciati:

Quel che possiamo e dobbiamo fare di fronte ad un’unità di linguaggio è


distinguere il suo carattere di simbolo (informazione, rappresentazione), di
sintomo (espressione del­­l’interiorità), di segnale (appello ad un altro)28.

5.2. Il primato del­­l’ascolto

Se la rivelazione è parola personale di Dio, se il centro della rivelazione


non è una verità astratta o un complesso di verità concettuali e basta
ma una Persona che mi (ci) parla, mi cerca, mi chiama e invita, allora la
parola di Dio va innanzitutto ascoltata. La spiritualità biblica è prima-
riamente spiritualità di ascolto di un interlocutore presente. «Ascolta,
Israele (Šema‘ Yiśrā’ēl)» (Dt 6,4); «Ascoltate, oggi, la voce di Dio» (Sal
95,8): la Bibbia vuole un popolo, vuole ogni credente in ascolto. «L’udire

28
Ibid., 119.
54 La parola di Dio

del­­l’uomo è la sua risposta alla rivelazione della parola e rappresenta


quindi sostanzialmente la forma in cui la religione biblica si appropria
la rivelazione divina»29. Per questo Salomone dette prova di una grande
sapienza quando innalzò la sua preghiera a Dio, non già per ottenere
una lunga vita, il regno o la morte dei suoi nemici, ma perché gli fosse
concesso «un cuore disponibile al­­l’ascolto» (cfr. 1 Re 3,9-12). L’ascolto
è la prima attitudine del dialogo. Anche nel dialogo misterioso di Dio
con gli uomini ci viene richiesto di essere innanzitutto uditori attenti:
un’attenzione non solo al messaggio, ma a chi pronuncia il messaggio30.
Un po’ alla maniera di Maria di Magdala la quale, proprio nella sua
attenzione al­­l’ortolano e al modo con cui la chiamava per nome, riuscì
a percepire la presenza del Signore, a riconoscere il Maestro, a compren-
derne il messaggio (cfr. Gv 20,11-18).

5.3. Lettura sapienziale

Il termine “sapienziale” indica che lo scopo della “lettura” [della Bibbia]


non è tanto una scientia, cioè una conoscenza intellettualmente elaborata,
quanto piuttosto una sapientia, cioè una conoscenza vitale, assaporata, che
mette in gioco tutte le facoltà del­­l’uomo e sfocia in quella “fede obbediente”
di cui parla Paolo, la quale è consenso, abbandono, impegno che afferra
tutta la vita31.

Accade così anche nel dialogo del­­l’amicizia e del­­l’amore, che investe


l’intimo delle persone e interessa la totalità della loro vita: una comu-
nione di cuori, di intenti, di progetti, di vita. E i vangeli sono espliciti
nel condannare chi volesse intendere la comunione con Dio, scopo della
rivelazione, in termini intimistici o soltanto intellettuali. Si è «fratello,
sorella e madre per Cristo» – sono questi i termini nei quali Gesù esprime

29
R. Kittel, ἀκούω, in GLNT I, col. 583.
30
Sul­­l’originalità del­­l’atto di ascoltare, come apertura al­­l’essere e alla persona prima
ancora e più ancora che alle parole, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Mila-
no 19763, 195-203; Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 199s.; R.
Duval, Parole, Expression, Silence, in RSPT 60 (1976) 250-257.
31
M. Magrassi, La Bibbia nella vita della Chiesa, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975,
617.
La parola amicale di Dio 55

la comunione dei credenti con lui –, se si è disposti a «fare la volontà del


Padre celeste» (cfr. Mt 12,46-50).

5.4. Il magistero della chiesa a servizio della parola di Dio

Se la rivelazione fosse riducibile a pura e semplice esposizione di dot-


trine (funzione informativa-dottrinale della Parola), l’insegnamento del
magistero della chiesa sarebbe superiore alla parola di Dio per il solo
fatto che la chiesa, nelle sue definizioni dogmatiche come pure nel suo
insegnamento ordinario, esprime le verità rivelate mediante concetti e
formulazioni più precisi, più distinti e raffinati. In questo caso la Bibbia
apparirebbe come un modello arcaico delle verità rivelate oggi esprimi-
bili più adeguatamente, un modello non più necessario.
Al contrario, il concilio Vaticano II ha riaffermato la permanente
trascendenza della parola di Dio sul magistero della chiesa: «Il magistero
non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve» (DV 10)32. Tale
superiorità non è dovuta soltanto al fatto che gli enunciati dogmatici
non sono, in se stessi, né rivelati né ispirati, ma anche al fatto che quegli
enunciati, pur presi nella loro globalità, non riproducono mai per intero
la parola di Dio che è inesauribile, mai totalmente sondabile proprio
perché è Parola vivente e personale di Dio.
«La chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza
della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di
Dio» (DV 8); essa non smette mai di essere “discepola” della parola di
Dio (DV 1), né mai interrompe – finché dimora sulla terra – questo
itinerario di comprensione sempre più profonda della trascendente pa-
rola di Dio, al fine di adempiere la sua funzione magisteriale di «esporre
fedelmente la parola di Dio» (DV 10) agli uomini di ogni generazione33.
Tutte le forme, anche le più solenni, nelle quali può rivestirsi l’inse-
gnamento della chiesa, hanno dunque un ruolo subordinato rispetto
a quello della parola di Dio e del­­l’espressione che la parola di Dio si è

32
Sul problema del ruolo del magistero in DV 10 e del fatto che il concilio non arrivi
ancora a parlare di una chiesa sub verbo Dei, cfr. C. Theobald, La Chiesa sotto la Parola
di Dio, in G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II 5, EDB, Bologna 2001, 285-
370 (in particolare pp. 326-327).
33
Vedi sotto, cap. 20.
56 La parola di Dio

data nella rivelazione scritta (Bibbia): il ruolo cioè di rendere visibile e


leggibile qualcosa de «la Forma prima»34.
Neofitos Edelby, arcivescovo di Edessa, nel suo intervento al concilio
Vaticano II del 5 ottobre 196435, proponeva come «ultimo – ma non
minimo – principio» di interpretazione della sacra Scrittura «il senso
del mistero»:

Dio che si rivela è infatti il Deus absconditus. La rivelazione non deve farci di-
menticare la dimensione abissale della vita di Dio, Uno e Trino, che il popolo
credente vive ma in nessun modo può esaurire. La Chiesa orientale afferma
che la rivelazione è innanzitutto “apophatica”, cioè una realtà che si vive nel
mistero prima ancora che sia proclamata in parole. Questa nota “apophatica”
della rivelazione è nella chiesa il fondamento di tutte quelle ricchezze della
tradizione, che sono sempre vive. E una delle cause delle difficoltà che la
teologia ha sperimentato in questi ultimi secoli consiste precisamente nel
fatto che i teologi hanno voluto racchiudere il Mistero in formule. Invece,
la pienezza del Mistero travalica non soltanto la formulazione teologica, ma
anche i limiti della lettera della sacra Scrittura36.

Tra i più recenti contributi sul concetto di “rivelazione”, considerato


nel­­l’ottica di una introduzione alla Scrittura (si tratta in realtà di un ar-
gomento normalmente trattato, nelle Facoltà Teologiche, al­­l’interno del
corso di Teologia fondamentale) si segnala in modo particolare quello
di P. Bovati e P. Basta; i due autori inseriscono il tema della rivelazione

34
«Per quanto affilata possa essere quindi la forma linguistica di una definizione della
chiesa, di un canone conciliare e così via dicendo, questa forma così accurata non può
essere ammirata e apprezzata per se stessa, perché sta unicamente al servizio della forma
di Cristo che essa vuole conservare e custodire. Per motivi di prassi pastorale l’annuncio
ecclesiale deve quindi possedere il massimo di chiarezza, e questo anche in vista della
situazione storico-ecclesiale e teologica in cui si colloca, ma questa chiarezza non entra in
concorrenza con la forma e la formulazione della Scrittura. Essa non sostituisce, non alza
la pretesa di esprimere in modo migliore, più completo e moderno, ciò che la Scrittura ha
detto in modo ingenuo, frammentario, popolare e non scientifico, essenzialmente condi-
zionato dal tempo e quindi bisognoso di riforma. Le espressioni magisteriali si trovano su
tut­­t’altro piano. Esse sono interpretazione e non già fondazione della rivelazione, esse non
tendono ad un sistema espressivo che potrebbe essere in grado di sostituire, totalmente o
in parte, la Scrittura […]. Esse non fanno altro che rimandare a qualcosa che è diverso da
quello che esse sono, qualcosa che le sovrasta essenzialmente ed è collocato sul piano della
rivelazione divina» (H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, I: La percezione
della forma, Jaca Book, Milano 1975, 520).
35
Vedi sotto, cap. 19, 1.4.
36
Acta Synodalia, vol. III, pars III, 308.
La parola amicale di Dio 57

al­­l’interno del­­l’idea biblica di profezia: «sono i profeti a dire che Dio


parla; è questo l’evento essenziale di cui sono testimoni»37; la rivelazione
di Dio attraverso i profeti è un appello che diviene perciò normativo.
L’atto stesso del­­l’autocomunicarsi di Dio, nel quale consiste la verità
divina, si compie pienamente nella rivelazione del Figlio. La proposta
di Bovati – Basta appare innovativa se compresa nel quadro degli studi
recenti di ermeneutica biblica, ma riprende in realtà un approccio non
estraneo alla tradizione cristiana antica. Ricordiamo anche come in
IBC si trovi, benché di passaggio, l’espressione “rivelazione attestata”:
ciò che caratterizza l’interpretazione cattolica (cfr. oltre, p. 99 e 509),
«è il suo situarsi consapevolmente nella tradizione vivente della chiesa,
la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata dalla
Bibbia»38, una formula felice, benché non sfruttata appieno, che lega
strettamente la rivelazione alla Bibbia intesa come sua attestazione (e
allo stesso tempo attestazione interpretativa), e, insieme, alla tradizione
che la trasmette39.

37
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San
Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2012, 47 e, più in generale, l’intero cap. II.
38
C. III (EB 1424).
39
Cfr. G. Angelini (ed.), La Rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia, Raccolta
di Studi in onore del cardinale Carlo Maria Martini arcivescovo di Milano per il suo LXX
compleanno («Quodlibet 7»), Glossa, Milano 1998; P.A. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio
di teologia fondamentale (BTC 85), Queriniana, Brescia 1996, 203, n. 1.
3.
La rivelazione nella storia
e attraverso la storia

Bibliografia: Oltre alle opere citate nella bibliografia del cap. 2, cfr. L. Alonso Schökel,
Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970, cap. III: «La storia rivelatrice e la sua
interpretazione»; H.U. von Balthasar, Gloria I, Jaca Book, Milano 1975, 393-491; O.
Cullmann, Cristo e il tempo, il Mulino, Bolona 19652; Id., Il mistero della redenzione nella
storia, il Mulino, Bologna 1966; P. Grelot, Sens chrétien de l’Ancien Testament, Desclée,
Paris 19622; H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy
(ed.), La Révélation divine I, 175-272; V. Mannucci, Storia della salvezza, in ER 5, coll.
1355-1387; L. Mazzinghi, Parola di Dio e storia del­­l’uomo, in Diocesi di Cassano Allo
Ionio, Sulla Tua Parola, Atti del Convegno Diocesano, Cerchiara di Calabria (CS), 27-
28 novembre 2007, Velar, Gorle 2008, 23-42; W. Pannenberg et alii, Rivelazione come
storia, EDB, Bologna 1969; G. von Rad, Teologia del­­l’AT, I: Teologia delle tradizioni
storiche d’Israele, Paideia, Brescia 1972; E. Schillebeeckx, Rivelazione e teologia, Edizioni
Paoline, Roma 1966, 11-96; G.E. Wright, God Who Acts. Biblical Theology as Recital,
SCM, London 19699.

Il Dio della rivelazione biblica è il Dio che agisce1. Per comunicare con
gli esseri umani non gli basta la parola del­­l’amicizia e del­­l’amore. Egli
pone in atto una presenza, e una presenza operante. Dio si rivela agendo.
L’uomo contemporaneo si interessa da protagonista alla storia: darle
un senso, dirigerla verso un futuro di giustizia e di pace è il suo com-
pito. Il Dio della Bibbia non contesta né attenua questa responsabilità.
Agendo nella storia degli esseri umani, Dio l’assume come un’avventura
comune; infonde coraggio e fiducia al­­l’impresa umana di cercare e di
dare un senso alla storia, proprio perché essa ha già ricevuto un senso
dal suo agire. Non si tratta dunque di un perenne esodo destinato ad

1
Cfr. G.E. Wright, God Who Acts.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  59

abortire sulla cima di un emblematico monte Pisga (cfr. Dt 34,1-7),


fuori di una terra promessa tangibile soltanto con uno sguardo utopico.
Il “sarà” della pacificazione messianica è, sì, un futuro, ma un futuro reale
perché ancorato alla promessa indefettibile di Dio e al suo agire effica-
ce in compagnia con gli esseri umani. Non una favola o una chimera,
dunque, ma il rinvio alla serietà di una comune avventura nella storia,
anche nella sua dimensione presente.
Certo, chi volesse fondare il senso della storia unicamente sul­­
l’autonomo operare umano non incontrerebbe la rivelazione biblica. La
tradirebbe anche chi, in nome della Bibbia, si impegnasse nella storia
negandone la dimensione trans-storica, poiché la salvezza cristiana tra-
valica la storia2. Ma non minore tradimento compirebbe chi ritenesse
il Dio della Bibbia estraneo al farsi della storia. Nel­­l’ebraismo e nel cri-
stianesimo, “rivelazione” e “salvezza” non hanno significato se non nella
storia e attraverso la storia.

1. Storia e rivelazione

«Noi abbiamo visto, inteso, toccato il Verbo della vita», diceva l’apo-
stolo Giovanni (cfr. 1 Gv 1,1-4). La rivelazione, afferma il concilio, si è
compiuta «con eventi e parole (gestis verbisque)»:

Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente


connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole e le
parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La
profonda verità, poi, sia di Dio sia della salvezza degli uomini, per mezzo di
questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore
e la pienezza di tutta intera la rivelazione (DV 2)3.

2
Vedi sotto, cap. 19, 2.4.
3
A chi proponeva di sostituire gestis con factis, la relazione al n. 2 del textus denuo
emendatus, il 20 settembre 1965, rispondeva: «Vocabulum gesta est magis personale ac
traditionale» (Acta Synodalia, vol. IV, pars I, p. 342: cfr. F. Gil Hellin, Dei Verbum, 20).
Normalmente le versioni italiane di Dei Verbum traducono il gesta latino con “gli eventi”;
tuttavia sarebbe più esatto tradurre con “le gesta” (= le azioni gloriose e memorabili), che
ha una risonanza più personale e richiama i magnalia Dei della storia biblica.
60 La parola di Dio

È del tutto nuovo il fatto che in un documento del magistero l’eco-


nomia della rivelazione sia così descritta, profondamente ancorata a una
dimensione storica. La presentazione abituale dei manuali di teologia
preconciliari non soltanto prediligeva nella rivelazione l’aspetto dottrina-
le (le parole) a scapito della storia e degli eventi, ma addirittura opponeva
la rivelazione soprannaturale che avviene «attraverso le parole (per ver-
ba)» alla rivelazione naturale che avviene «attraverso i fatti (per facta)»4.
È significativo il fatto che ben 139 padri conciliari chiesero una for-
mulazione diversa del testo di DV 2 che privilegiasse piuttosto la rivela-
zione divina attraverso le parole le quali manifestano il senso delle opere;
si poneva così l’accento sul verbum Dei e sulla fede richiesta in esso. La
risposta della commissione è chiara: in DV si tratta dell’intera economia
della rivelazione, quindi non solo delle parole, ma anche delle opere,
intese come omnia facta salutaria5.
È piuttosto curioso che, in passato, si siano potuti opporre in questi
termini i due tipi di rivelazione. Se c’è una particolarità del discorso
biblico sulla rivelazione, questa è propriamente il suo carattere essen-
zialmente storico. Dio si è fatto conoscere attraverso l’esperienza storica
della sua presenza. La parola (in ebraico, dābār) del Dio vivente è sem-
pre attiva: opera salvezza nella storia; svela il misterioso disegno di Dio
nella vicenda storica e in essa fa conoscere il suo volto; impegna l’essere
umano, lo giudica, lo salva appellandolo alla fede. La storia di Dio con
il suo popolo è una storia che parla.
Prima di comunicare i dieci comandamenti (in realtà, le “dieci pa-
role”), Dio pronuncia il suo nome Yhwh dinanzi al popolo: «Io sono
Yhwh (il Signore), tuo Dio» (Es 20,2a); e prosegue dicendo: «Colui che
ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es
20,2b). Dunque, per spiegare il nome Yhwh non ci si richiama a una
natura di Dio misteriosamente recondita, bensì al­­l’azione divina della
liberazione dal­­l’Egitto appena compiuta. In quella vicenda storica Dio
si è manifestato al suo popolo come Yhwh, cioè: «Colui che c’è, che
è presente, è per, è con»6. Dio è presente con Mosè e con il popolo per
liberarlo dalla schiavitù e renderlo libero di servire Dio e servirsi recipro-

4
Si veda per esempio Ch. Pesch, che nelle sue Praelectiones dogmaticae (vol. I, Herder,
Freiburg i. Br. 1898, § 151, p. 109) scriveva: «Revelatio naturalis fit per facta, revelatio
supernaturalis per verba».
5
Cfr. F. Gil Hellin, Dei Verbum, 19.
6
Vedi sopra, cap. 2, p. 49, nota 21.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  61

camente in una rinnovata solidarietà nella vita e nella storia. In questi


termini Dio intende farsi conoscere dal suo popolo.
Incontriamo la stessa teologia nel­­l’annuncio dei profeti, araldi del­­
l’incontro storico di Dio con Israele. Al termine dei loro oracoli si trova
di frequente la formula: «… e voi conoscerete che io sono Yhwh» (cfr.
Is 49,26; 60,16; Ez 6,10; 7,4.9.27; 13,9.14.21.23; 25,7.17 ecc.). Dio
si rivela nel­­l’azione storica su Israele: come giudice presente durante
terribili catastrofi, ma anche – al di là di questa zona di morte e in virtù
della sua fedeltà al­­l’antica promessa – come colui che aiuta il popolo a
ridestarsi a nuova vita.
Con il NT appare ancor più evidente che il centro della rivelazione
è Uno solo: non una profonda gnôsis, ma una persona storica. Tutto il
discorso del NT è sul­­l’uomo Gesù di Nazaret e sulle sue vicende, per
attestare che egli – uomo vero in mezzo alla storia degli uomini – è
la definitiva parola di Dio (cfr. Gv 1,1-18; 1 Gv 1,1-4; 4,2s.). E come
vigilano gli evangelisti e gli altri scrittori del NT, affinché questa Parola
non venga intesa come un mito fuori del tempo! Essi insistono nel volere
stabilire la genuina essenza storica di quella Parola e nel­­l’indicarla come
adempimento, realizzazione ultima e suprema della Parola precedente-
mente proclamata da Dio ai patriarchi e ai profeti.
Anche l’Apocalisse di Giovanni è «rivelazione di Gesù Cristo che Dio
gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere»
(Ap 1,1.19; 4,1). Le “visioni” del­­l’Apocalisse non disvelano una verità
che, di fronte al “temporaneo”, si presenta come “eterna”; sono l’annun-
cio di una storia, quella decisiva degli uomini e del mondo, già iscritta
nella vicenda di Gesù Cristo e della chiesa primitiva perseguitata e che
faticosamente si avvia verso la Gerusalemme celeste, verso i cieli nuovi
e la terra nuova.
Certo, come vedremo più innanzi, dire che Dio si rivela nella storia
non significa affermare che la storia è automaticamente, chiaramente e
semplicemente rivelazione di Dio. In tal caso conoscere la rivelazione
equivarrebbe a un puro procedimento di interpretazione della storia.
Proprio il centro della rivelazione, che è la persona di Gesù di Nazaret,
dimostra che la storia non è rivelazione sic et simpliciter. La disfatta
umana di Gesù sulla croce, a guardarla in se stessa, è soltanto pazzia
e scandalo. Se ci è concesso di trovarvi un senso profondo, è soltanto
perché quel­­l’evento-nascondimento è preceduto e seguito da una Parola
esplicativa e insieme creatrice di senso: è la parola-promessa che, attra-
verso il sigillo della risurrezione, ci restituisce il Risorto, il Vivente, Colui
62 La parola di Dio

che viene, Colui la cui vittoria ha già avuto e avrà ancora l’ultima parola.
Dunque, non l’evento isolato ma una storia di eventi è rivelatrice; non
la storia da sola è rivelatrice, ma la storia accompagnata da una Parola,
pronunciata nella storia con pienezza di poteri e che sa di essere molto
più che una semplice interpretazione della storia.

2. Il molteplice rapporto tra rivelazione e storia

Per comprendere meglio l’assunto conciliare e verificarne la novità,


vediamo innanzitutto i diversi legami della rivelazione con la storia.

2.1. La rivelazione si può localizzare e datare

È un dato di fatto che, su 242 casi nei quali nel­­l’AT viene usata l’e-
spressione «la parola di Dio», in ben 214 essa significa una comunica-
zione fatta da Dio ad un profeta o indirizzata al popolo per mezzo di un
profeta. La parola di Dio sorprende un uomo storico – il profeta – in un
luogo preciso, in un tempo determinato, la cui storia politica e religiosa
viene brevemente delineata. Si legga, per esempio, la vocazione profetica
di Geremia (Ger 1,1-3), o quella di Giovanni Battista, l’ultimo profeta
del­­l’AT (Lc 3,1s.). Non il mito, bensì la storia costituisce lo scenario della
rivelazione biblica. Addirittura, un uomo concreto, Gesù di Nazaret,
nato in terra di Israele sotto l’imperatore Cesare Augusto al­­l’inizio della
nostra èra (Lc 2,1), comparso sulla scena pubblica sotto il suo successore
Tiberio Cesare (Lc 3,1) e infine giustiziato dal procuratore imperiale
Ponzio Pilato (Lc 23; Gv 18–19), ha l’ardire di presentarsi come la de-
finitiva rivelazione di Dio agli esseri umani.

Il testo appena ricordato di Lc 3,1-2 è emblematico:

Nel­­l’anno quindicesimo del­­l’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato


era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo
fratello, tetrarca del­­l’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca del­­l’Abilène,
sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni,
figlio di Zaccaria, nel deserto (Lc 3,1-2).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  63

Luca scrive imitando gli storici classici del suo tempo e, allo stesso
tempo, richiamandosi allo stile delle storie dei re contenute nelle Scrit-
ture di Israele, in particolare in 1–2 Re. Al di là dello stile utilizzato,
lo scopo principale del terzo evangelista, nel riportare questa lista di
personaggi illustri, è piuttosto quello di mostrare come la parola di Dio
non sia una realtà astratta, atemporale, ma una parola profondamente
incarnata nella storia degli uomini7. In ciò che Luca scrive c’è tutta-
via qualcosa che sorprende: in un momento storico ben preciso, ossia
nel­­l’anno quindicesimo del regno del­­l’imperatore Tiberio, la parola di
Dio scese su Giovanni nel deserto. Questo accostamento è senza dubbio
paradossale: il quindicesimo anno del regno di Tiberio è un fatto noto
e ben verificabile a tutti; non così, invece, per quanto riguarda la se-
conda affermazione di Luca, relativa alla discesa della parola di Dio su
Giovanni in un luogo remoto del­­l’Impero. Non c’è storico, infatti, che
possa registrare o provare un tale evento. Ciò significa che, nonostante
gli intenti dichiarati nel prologo (cfr. Lc 1,1-4), Luca non è uno storico
in senso moderno né i vangeli intendono proporsi come “testimoni ocu-
lari” di fatti realmente verificabili alla stregua di un testimone chiamato
a deporre in un processo.
Scrivendo in questo modo, Luca vuol farci comprendere come la pa-
rola di Dio che scende sul Battista nel deserto è una parola viva, immersa
nella storia degli uomini in un tempo e un luogo ben preciso: il regno
di Tiberio, il deserto. Fatti apparentemente insignificanti, avvenuti in
un angolo remoto del vasto impero romano, segnano così l’intera storia
del­­l’umanità. Parola e storia vengono a trovarsi inscindibilmente legate
tra loro. Il compito di Luca è perciò quello di aiutare il credente a leggere
la storia nella quale vive nel­­l’ottica della fede in un Dio che in questa
storia parla agli uomini.

Chi ancora serbasse nostalgie per una concezione di tipo greco, se-
condo cui l’ordine della verità e delle essenze è irriducibile al­­l’ordine

7
Sulla teologia della storia in Luca si veda G. Rossé, La crono-teologia lucana, in PSV
47 (2003) 121-134. Cfr. V. Fusco, Progetto storiografico e progetto teologico nel­­l’opera lu-
cana, in La storiografia nella Bibbia. Atti della XXVIII Settimana Biblica, EDB, Bologna
1986, 122-182: «Si rivelano fallaci le contrapposizioni tra “Luca lo storico” e “Luca il
teologo”. Né storiografia fine a se stessa, né speculazione teologica astratta, ma riflessione
teologica che passa attraverso la narrazione, la ricostruzione di ben determinati avveni-
menti: impegno storiografico nel­­l’orizzonte della fede» (p. 152).
64 La parola di Dio

del­­l’esistenza, dei fatti e della storia, patirebbe scandalo di fronte alla


parola biblica.

Dal punto di vista greco, c’è troppo particolare, troppi nomi propri, troppa
geografia, troppe date, troppa storia nei libri d’Israele per potervi cercare
una metafisica. Troppe cose contingenti: la verità è necessaria. Troppe cose
sensibili: la verità è astratta. Troppe persone particolari: la verità non guarda
in faccia a nessuno. Troppa geografia: la verità è fuori dello spazio. Troppi
avvenimenti storici: la verità è fuori del tempo. Troppe realtà particolari: la
verità è universale […]. Tutte le nostre abitudini intellettuali ereditate dal
pensiero greco si oppongono a questo passaggio attraverso l’esistente per
insegnare una verità, a questa “nascita” della verità, a questa manifestazione
della verità in e attraverso una realtà particolare, esistente e concreta. Questo
metodo – che è il metodo del­­l’incarnazione – cozza con il dualismo profon-
do congenito nel nostro pensiero: separazione irriducibile fra ciò che appar-
tiene al­­l’ordine delle essenze, l’intelligibile, e ciò che appartiene al­­l’ordine
del fatto, del­­l’esistente, che è contingente e assurdo […]. Ora, precisamente,
la Scrittura è una metafisica e una teologia sotto le specie del racconto storico8.

2.2. La rivelazione ha come oggetto non verità astratte,


ma eventi concreti

La stessa parola umana è creativa, dicevamo sopra. Chi pronuncia


parole, mette in moto potenze; qualcosa che non c’era ha cominciato
ad essere, in virtù della parola pronunciata.
Anche il Dio della rivelazione biblica è un «Dio che agisce»; mediante
la sua Parola, Dio parla e crea (cfr. Gen 1). Non soltanto la creazione
cosmica e umana, ma gli stessi avvenimenti portanti della storia della
salvezza sono effetto della parola di Dio (cfr. Is 55,10s.). Giosuè ha
potuto condurre in porto l’avventura di Mosè, perché la parola di Dio
è efficace e fa storia:

Il Signore assegnò dunque a Israele tutta la terra che aveva giurato ai padri
di dar loro, e gli Israeliti ne presero possesso e vi si stabilirono […]. Non
una parola cadde di tutte le promesse (in ebraico, debārîm, “parole”) che il
Signore aveva fatto alla casa d’Israele: tutto si è compiuto (Gs 21,43.45).

8
Cl. Tresmontant, Essai sur la pensée hébraïque, du Cerf, Paris 1953, 69s.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  65

Questi eventi storici, creati dalla parola di Dio, sono anche il con-
tenuto della fede. Se la rivelazione si concretizza in fatti, la fede, quale
risposta alla rivelazione, li proclama, li racconta. Il credo d’Israele (Dt
26,5-9) è un «credo storico»9, racconto di un’avventura: da Giacobbe,
l’arameo errante, al dono della terra promessa. Il credo apostolico in
bocca a Pietro nel suo discorso a Cornelio (At 10,34-43) è, sì, l’annuncio
de «la parola che Egli ha inviato ai figli d’Israele», ma questa parola si
risolve in un racconto di «ciò che è accaduto in tutta la Giudea, comin-
ciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come
Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò
beneficando e risanando tutti…». Gesù Cristo, unto di Spirito Santo,
passò, fece del bene, predicò, fu ucciso, Dio lo ha risuscitato, apparve a
noi e noi di tutto ciò siamo testimoni: questo è il credo di Pietro. Non
diversamente Paolo, nel discorso ad Antiochia (At 13,16-31), esprime la
sua fede: attraverso l’anello «Davide» si saldano i fatti del­­l’AT (vv. 17-22)
e le gesta di Gesù, il Salvatore (vv. 23-31). La “buona notizia” annunziata
da Paolo (v. 32) è il racconto, in sintesi, del­­l’intera storia salvifica.
Tuttavia, la professione di fede del giudeo e del cristiano (anche il
credo delle chiese cristiane, nelle sue varie formulazioni, ha sempre
un’andatura storica) non si limita ad affermare la storicità di quei fatti,
come se volesse semplicemente affermare: «Questi eventi sono realmente
accaduti; ci credo». La fede parte dalla storicità dei fatti e li presuppone;
ma essa li proclama nel loro significato rivelatorio e nella loro portata sal-
vifica10. Poiché Dio si rivela attraverso quelle gesta, dal loro accoglimento
mediante la fede cambia la comprensione di Dio, del­­l’essere umano, del
senso del­­l’esistenza e della storia, cambia la conduzione della vita e della
storia. Si è in grado di capire l’argomento della storia, solo in quanto si
è aperti a intendere l’interpellanza esigente della storia11.

9
Cfr. G. von Rad, Teologia del­­l’Antico Testamento, I: Teologia delle tradizioni storiche
d’Israele, Paideia, Brescia 1972, 150ss.
10
È la distinzione tra historisch e geschichtlich introdotta da Heidegger, ripresa da Bult-
mann ed entrata nel vocabolario corrente della teologia. Possibile nella lingua tedesca, essa
diventa problematica in italiano: historisch qualifica il fatto come tale, come realmente
accaduto, e potrebbe essere tradotto con “storico”, relativo a “storia”; geschichtlich, invece,
qualifica il fatto nella sua significatività: qualcuno lo traduce con “istoriale”, relativo a
“istorialità-storicità”.
11
«Soltanto se si ha coscienza di essere mossi dalle forze storiche, non quali osservatori
neutrali, e soltanto se si è pronti ad ascoltare l’esigenza della storia, si comprende ciò di cui
si tratta nella storia»: R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 1972, 100.
66 La parola di Dio

2.3. La rivelazione assume credibilità attraverso alcuni eventi

Pietro esordisce nel discorso di Pentecoste presentando Gesù di Na-


zaret con queste parole: «Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio
presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece
tra voi per opera sua, come voi ben sapete – …» (At 2,22). Il fatto viene
qui assunto in quello che suol dirsi il valore apologetico del miracolo,
ben noto anche nella rivelazione anticotestamentaria: tutta una serie di
prodigi-segni, per esempio, vuol accreditare la missione divina di Mosè
presso il popolo e presso il faraone (cfr. Es 7,8–12,36). Lo stesso Gesù
fece appello alla funzione apologetica della guarigione del paralitico a
Cafarnao, a riprova che Dio gli aveva concesso il potere di rimettere i
peccati (cfr. Mc 2,1-12).
Il valore apologetico dei miracoli, che costituiva l’interesse quasi esclu-
sivo della manualistica teologica preconciliare, è biblico e va mantenuto.
Esso non esaurisce tuttavia il rapporto tra fatti e rivelazione, e la stessa
ermeneutica apologetica del miracolo va approfondita12. Non il “pro-
digioso” per il prodigioso che costringa l’uomo al­­l’assenso, ma che lo
lascerebbe nella sua impotenza, interessa la Bibbia; anche Gesù lo ha
rifiutato (cfr. la tentazione sul pinnacolo del tempio, in Mt 4,5-7 e Lc
4,9-12). I miracoli del­­l’AT e dei vangeli sono costantemente di un certo
tipo, esprimono cioè una salvezza, una guarigione, un portare allo stato
di pienezza e di vita ciò che stagnava in una situazione di infermità, di
sofferenza, di schiavitù, di morte. Non a una qualsiasi “meraviglia” del­­
l’uomo i miracoli fanno appello, ma a quella precisa “meraviglia” che
colpisce l’uomo nella sua profonda dimensione di essere storico alla
ricerca di senso e di salvezza. I miracoli non sono una dimostrazione
arbitraria del­­l’onnipotenza di Dio, ma sono contestuali alla storia sacra

12
Alonso Schökel scrive: «Una considerazione apologetica [del miracolo], quando è
integrata nella totalità della teologia, è necessaria; un’analisi apologetica dei miracoli e
delle profezie può manifestare una parte del senso di tali fatti. Il pericolo nasce quando
l’atteggiamento apologetico tende a diventare predominante o esclusivo, dettando legge
alla riflessione teologica» (L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, Paideia,
Brescia 1970, 70s.). Sulla polivalenza del “miracolo”, cfr. R. Latourelle, Teologia del-
la Rivelazione, Cittadella, Assisi 19806, 447-466; L. Monden, Miracoli di Gesù, e J.B.
Metz, Miracolo, entrambi in SM V, coll. 292-299 e 299-304. Cfr. ancora R. Latourelle,
Miracolo, in G. Barbaglio – S. Dianich (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni
Paoline, Cinisello B. 1988, 931-945; A. Borrell, Miracolo, in R. Penna – G. Perego
– G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 2010, 851-857.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  67

della promessa salvifica. Essi palesano che è attualmente operante la


signoria di Dio, la sua potenza escatologica di guarigione e di salvezza,
e perciò convalidano (aspetto “apologetico”) i detentori storici di questa
promessa: patriarchi, profeti, Gesù Cristo. «Se io scaccio i demòni per
virtù dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Mt
12,28 / Lc 11,20): il regno di Dio annunciato da Gesù è, in questo caso,
la liberazione dal dominio di satana; il miracolo non è solo prodigio,
ma è segno del regno presente, dimostrazione fattuale di una parola-
promessa13.

3. La storia è rivelatrice

La stessa analisi dei fatti come “contenuto” e come “prova” della ri-
velazione ci ha aperto l’ultima prospettiva del rapporto fra rivelazione
e storia. Le “gesta” dei patriarchi, dei profeti, di Gesù Cristo sono in se
stesse rivelanti, portatrici di senso e di salvezza. Dio parla, rivela salvezza
e la comunica attraverso quelle “gesta”. La storia è rivelatrice.
Oltre a ciò che dicevamo al­­l’inizio di questo capitolo (§ 1), si deve
prestare attenzione ad alcuni dati scritturistici:
– Nella Bibbia, oltre alla dialettica: «Dio parla – l’uomo ascolta»,
abbiamo anche l’altra: «Dio ha fatto vedere – l’uomo deve ricono-
scere» (cfr. Dt 5,24; 11,7; 29,1.2; Sal 98,1-3 ecc.). Nel Sal 111,2 si
legge: «Grandi sono le opere del Signore, le ricerchino (lett., degne
di essere investigate da) coloro che le amano», dove l’“investigare”
traduce il verbo ebraico dāraš, caratteristico per lo studio, la ricerca
e l’investigazione approfondita della parola di Dio. Le opere del
Signore sono da indagare, perché sono ricche di significato e perciò
inducono alla lode del Signore. Questo loro significato fonda il tema
del «ricordo dei prodigi» del Signore (Sal 111,4) nella tradizione
orale, nel libro sacro, nella proclamazione liturgica. Si ricordano le
opere del Signore per aprirsi al significato che esse custodiscono per
ogni generazione di credenti.

13
Cfr. V. Mannucci, Gesù Cristo, in ER 3, coll. 56-61 («I miracoli e la proclamazione
del Regno»).
68 La parola di Dio

– Fra le tante leggi consegnate da Dio a Israele c’è anche la lex nar-
randi14: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci
hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai loro figli, raccontando
alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore, e
le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3s.). Il popolo di Dio
deve raccontare la storia passata, perché essa rivela e impegna il suo
presente e il suo futuro; e il dimenticare le opere di Dio è peccato e
fonte di peccati (Sal 106,7.13.21), perché non si tratta di semplice
dimenticanza di fatti di cronaca, ma del­­l’oblio di Dio, il quale si
rivela e salva operando nella storia.
– Quanto sia ricco il potenziale di significato delle “gesta” divine nella
storia, ce lo mostra la teologia dei segni nel Vangelo di Giovanni15.
Per Gesù, i miracoli fanno parte delle opere che egli compie; tutta-
via egli non le chiama «le mie opere», ma sempre «le opere di colui
che mi ha mandato» (Gv 5,36; 9,3; 10,25.32), poiché è il Padre
che agisce in Gesù e attraverso Gesù, rivelandolo come Figlio suo
e rivelando se stesso come Dio della salvezza. Per lo stesso motivo
l’evangelista Giovanni privilegia (cfr. Gv 2,11; 12,37; 20,30 ecc.),
per i miracoli di Gesù, il vocabolo “segni” (in greco, sēmêia): un’in-
dicazione che lascia intravedere nel miracolo la realtà nascosta della
persona e del­­l’opera del Padre in Gesù e a quella rimanda. Il “segno”
non è soltanto una garanzia del­­l’autenticità della missione divina
di Gesù, ma anche e soprattutto è epifania – manifestazione – della
presenza (dóxa, gloria) del Padre nel Figlio, attuazione simbolica
della sua opera di salvezza. È lotta vittoriosa contro il «principe
delle tenebre» (luce per il cieco nato) e «l’omicida fin dal­­l’inizio»
(risurrezione per Lazzaro); è simbolo prefigurativo del compimento
escatologico (vino del­­l’eterno banchetto di nozze, acqua viva della
vita eterna, risurrezione per la vita eterna). I miracoli e l’intera opera
di Gesù, tuttavia, diventano “segni” significanti per gli esseri umani
solo allorquando sono attraversati da quel “vedere” della fede tipico
di Giovanni16, che è un penetrare i fatti per incontrarsi con la realtà

14
Vedi sotto, cap. 4, §§ 2.-3.
15
Cfr. R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, I parte, Paideia, Brescia 1974, 476-
493 (Excursus IV: «I “segni” giovannei»); R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo
spirituale, vol. II, Cittadella, Assisi 1979, 1472-1481 (Appendice III: «Segni e opere»).
16
Cfr. D. Mollat, Saint Jean maître spirituel, Beauchesne, Paris 1976, 83-93 [trad.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  69

profonda, creatrice del senso. È proprio la biblica rivelazione nelle


gesta e attraverso le gesta di Dio con gli uomini a invocare ed esigere
la stupenda pedagogia del “vedere”, che in Giovanni è sinonimo del
“credere”.

4. Gesta e parole intimamente connesse

Le gesta di Dio e di Gesù Cristo sono giunte a noi attraverso una


tradizione17. Noi non abbiamo a che fare direttamente e in maniera
immediata con quei fatti, ma solo con testimonianze di fatti, ovvero con
racconti. Una “parola” li ha interpretati e ce li ha trasmessi. La Bibbia è il
racconto e l’interpretazione per noi del­­l’avventura di Dio con gli esseri
umani nella storia e attraverso la storia.
La storia, dicevamo già, non è autonomamente, chiaramente e sem-
plicemente rivelazione di Dio. Neppure le gesta umane sono immedia-
tamente autosignificanti. Certamente l’uomo rivela se stesso attraverso
i suoi gesti più che con le sole parole; l’agire umano è significativo della
persona, perché è la persona che si esprime nel­­l’agire. Ma è altrettanto
vero che le azioni umane sono estremamente ambigue, passibili cioè
di molti sensi e di molte interpretazioni. Non siamo in grado di inter-
pretare in termini sicuri i gesti altrui, i perché, le intenzioni, il senso di
ciò che fanno; e spesso ci sfugge il senso dei nostri stessi gesti. Anche
quando il fatto umano è autentico, frutto cioè di una scelta libera e re-
sponsabile, esso resta profondamente e positivamente ambiguo, a motivo
della sua densità e unicità18. Nel fatto umano si esprime il mistero di
quella irripetibile persona, mistero mai totalmente sondabile e dicibile
neppure dal proprio io. Inoltre ogni gesto umano, quando non è banale,
ha sempre la novità e l’unicità della persona: nessun modello precosti-
tuito, anche frutto del­­l’esperienza dei gesti precedenti, lo imprigiona
e lo esaurisce.

it., Giovanni, maestro spirituale, Borla, Roma 1980]; Id., Jean l’évangeliste (Saint), in DSp
VIII, coll. 217-220.
17
Vedi sotto, cap. 4.
18
Cfr. L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, 85-89.
70 La parola di Dio

Come si risolve allora la positiva ambiguità del­­l’agire? Talvolta un


fatto isolato, inserito in una serie di eventi simili (mai identici!), assume
significato. Un esempio dalla Bibbia: Dio ha salvato una volta, poi salva
ancora, anzi salva di continuo in ogni generazione; allora ogni atto di
salvezza, inserito in una serie costante, rivela che l’«amore fedele (in
ebraico, h.esed) di Dio è per sempre» (Sal 136), investe cioè l’intero arco
del tempo, è presente in ogni atto e lo trascende. Talvolta – come accade
nella vita – ci sono svolte decisive o approdi compiuti che illuminano
a ritroso eventi lontani, che prima apparivano isolati e senza significato
e ora si rivelano finalizzati a quella scelta o a quel compimento, perciò
significativi. Un esempio dalla Bibbia: l’ingresso nella terra promessa
illumina definitivamente il rischioso e ambivalente esodo dal­­l’Egitto:
«Dio ci fece uscire di là [dal­­l’Egitto] per condurci nella terra che aveva
giurato ai nostri padri di darci» (Dt 6,23), e non «per farci morire di
fame in questo deserto» (cfr. Es 16,3).

4.1. Gesta e parole

Il mezzo ordinario per risolvere l’ambiguità delle gesta umane (e divi-


ne) è tuttavia la parola che le interpreta. La vita e la storia degli uomini
hanno i loro interpreti, i loro “carismatici”. Alcuni uomini posseggono
per natura il fiuto del senso, privilegiati pastori del­­l’essere – per dirla con
Heidegger – che intendono il richiamo della profondità del­­l’essere e gli
rispondono con una parola che lo interpreta e lo decifra. Sono i poeti, gli
artisti, i grandi narratori, i grandi registi. Altri possono apprendere questa
pedagogia del “vedere dentro” i fatti, amando e studiando i fatti: è il caso
dello storico, del sociologo, dello psicologo. E tutti gli esseri umani sono
– o dovrebbero essere – un po’ poeti, artisti, storici, sociologi e psicologi.
La rivelazione biblica ha assunto anche questa dimensione umana, che
è un aspetto del­­l’incarnazione: la parola, interprete dei fatti. La profezia è
essenzialmente interpretazione dal punto di vista di Dio dei grandi gesti,
positivamente ambigui, della storia della salvezza. La tradizione giudaica
lo aveva ben compreso, quando dava il nome di “profeti anteriori” a
quella che è stata poi definita “storia deuteronomistica” comprendente
i libri di Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. La profezia è storia
interpretata; raccontando la storia, essa scopre e palesa il senso di Dio nei
fatti di Israele, collega la storia del passato con ciò che deve o dovrebbe
essere al presente, con ciò che accadrà nel futuro.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  71

4.2. La parola prima e dopo l’evento

L’interpretazione dei fatti avviene nella rivelazione, come del resto


nella vita e nella storia degli uomini, mediante una parola che precede il
fatto e manifesta l’intenzione e il senso di ciò che uno si appresta a com-
piere, oppure segue il fatto e lo interpreta nel suo significato conforme
al­­l’intenzione del­­l’agente19.
La parola prima del fatto può assumere il carattere di predizione in
senso stretto (cfr. 2 Re 19,5-37), di chiamata e missione (cfr. Gen 12,1ss.;
Es 3,7-12), di comando (cfr. Os 3,1-5).
La parola dopo il fatto è proclamazione (cfr. Dt 26,3.5-10; Es 12,1-
14), è spiegazione (cfr. Gv 13,12.20), è meditazione (si medita il fatto
per comprenderlo e raccoglierne tutte le interpellanze: cfr. Ger 32), è
soprattutto racconto. L’intera Bibbia, in ultima analisi, è l’interpretazione
della storia della salvezza sotto le specie del racconto.
Il raccontare è una delle forme elementari a disposizione del­­l’uomo
per interpretare gli eventi. Si tratta di narrazione e interpretazione dei
fatti, non di pura e nuda cronaca:

Quello che ci appare come un raccontare “oggettivo” è in realtà un colossale


lavoro di selezione di dati importanti, “significativi” (significanti per chi?);
esso consiste nel collegare e concatenare piccoli eventi, dare peso e impor-
tanza ai diversi momenti e personaggi, scegliere protagonisti e antagonisti e
distribuire ruoli secondari, prendere un atteggiamento di interesse, passione
o distacco (tanto l’interesse quanto il distacco sono atteggiamenti del sog-
getto, anche se il positivismo ha ingenuamente pensato che il distacco o la
neutralità non fossero tali)20.

La narrazione non solo interpreta, ma possiede anche il compito di


esporre e rappresentare: «La buona narrazione, quella che chiamiamo
“poetica” in senso largo, rende i fatti vivi e presenti; in tal modo, salvando
la distanza temporale, crea una contemporaneità ideale, e offre i fatti a
una riflessione ulteriore»21.
Se questo è il compito del narrare-interpretare, si capisce perché non
una sola parola, ma più parole narrative si rifanno allo stesso evento o

19
Cfr. ibid., 89-93.
20
Ibid., 91s.
21
Ibid., 92.
72 La parola di Dio

agli stessi eventi per interpretarli e rappresentarli. Le diverse tradizioni


confluite nel Pentateuco, come anche i quattro vangeli22 non sono che
un esempio di questo molteplice e mai compiuto approccio agli eventi
della storia salvifica, inesauribili (per noi) nel loro significato. Una quinta
parola e un quinto vangelo, pur non ispirati, sono perennemente in cerca
di autore. La historia salutis attende di essere reinterpretata, rappresentata
e rivissuta da ciascuna generazione di credenti, in ogni stagione della
loro storia23.

4.3. Intima, organica relazione

La rivelazione avviene «con eventi e parole intimamente connessi»24, e


DV 2 prosegue spiegando brevemente la stretta dipendenza e il servizio
reciproco del­­l’“evento” e della “parola” nella struttura sacramentaria del-
la rivelazione: «… in modo che le opere, compiute da Dio nella storia
della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate
dalle parole e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in
esse contenuto». In altri termini, l’evento che è già in se stesso rivelatore
dona solidità e consistenza alla parola, e il senso degli eventi giunge a
maturazione nella parola. Prendiamo un esempio dal­­l’AT e uno dal NT.
La liberazione dalla schiavitù del­­l’Egitto (l’esodo) manifesta l’interven-
to di Yhwh salvatore e la stessa salvezza, e conferma la promessa fatta
da Dio a Mosè di voler salvare il suo popolo; d’altronde, senza la parola
di Mosè che in nome di Dio interpreta l’esodo come la prima tappa del
lungo cammino verso l’alleanza del Sinai e verso la terra promessa, quel­­
l’evento non sarebbe stato così ricco di significato da costituire il fonda-
mento della religione d’Israele e segnarne l’intera sua storia, nonché la sua
interpretazione. Così la risurrezione di Gesù Cristo, che già in se stessa
esprime il suo sovrano dominio sulla morte e sulla vita, conferma la verità
della sua testimonianza e della sua missione come Figlio del Padre venuto
a liberare gli uomini dal peccato e dalla morte; d’altronde, sarà la parola
della predicazione apostolica a dirci che la risurrezione di Cristo non è

22
Vedi sotto, cap. 5.
23
Vedi sotto, cap. 19.
24
La relazione al n. 2 del textus denuo emendatus, il 20 settembre 1965, dice: «Gestis
verbisque inter se connexis: ut exprimatur ea non posse disgiungi, sed mutuam habere priori-
tatem et compenetrationem» (Acta Synodalia, vol. III, pars III, p. 75).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  73

soltanto un miracolo, ma anche l’intronizzazione di Gesù come Messia e


Signore, in conformità alle Scritture (cfr. per esempio At 2,22-36).
Tuttavia, una simile interazione tra “evento” e “parola” nella dinamica
del processo rivelatorio non va intesa soltanto in chiave funzionale, ai fini
di una loro più chiara significatività. Se così fosse, l’accento sulla “parola”
o sulla “storia” potrebbe condurre a una unilateralizzazione esclusiva
del­­l’una o del­­l’altra nel concetto di rivelazione e approdare alle “teologie
della Parola”, in antitesi alle “teologie della storia della salvezza”. Storia
e kḗrygma sono intrinsecamente connessi e dialetticamente interagenti:
possiamo attingere l’evento salvifico soltanto attraverso l’interpretazione
dei testimoni, ma è altrettanto vero che possiamo comprendere l’inter-
pretazione e quindi la rivelazione soltanto riferendoci al­­l’evento stesso,
il cui senso gli è immanente e non gli proviene dal­­l’interprete come
da un agente esterno. Storia e kḗrygma sono intrinsecamente connessi
perché ambedue, e insieme, esprimono l’una e identica parola di Dio
che, da una parte, realizza i disegni di Dio nella storia, e, dal­­l’altra, si
traduce in parole umane sulle labbra degli inviati di Dio, suoi interpreti.
Il debār Yhwh (parola di Dio) ha un duplice, inscindibile valore: significa
e opera salvezza. Il «dicere Dei est facere» di san Tommaso d’Aquino25 può
essere rovesciato: «facere Dei est dicere»26. Il dābār ebraico non è un lógos
nel senso classico della lingua greca profana, cioè una parola-pensata,
ma è evento (cfr. dābār in Gen 15,1; 18,14; 20,8; 22,1 ecc.; rhêma in
Lc 1,37.65; 2,15.17.19.51), oltre che parola. E, anche come parola, il
dābār letteralmente “de-signa”, fa segno, annuncia e destina, impegna
un futuro, dice non tanto ciò che le cose sono quanto piuttosto ciò per
cui esistono, ciò che saranno (cfr. il nome nuovo per indicare un destino
nuovo, una nuova storia in Gen 17,5; Gv 1,42; Mt 16,18s.). L’intrin-
seco, ontologico legame tra evento e parola raggiunge il suo culmine
nella pienezza dei tempi della rivelazione, allorquando «la parola di Dio»
preesistente, che «era al­­l’inizio», «era presso Dio», «era Dio», «era la vita e
la luce degli uomini», «diventò carne e pose la sua tenda tra gli uomini»
(cfr. Gv 1,1-14). Gesù Cristo, compimento del mistero di Dio, ovvero
del misterioso divino disegno di rivelazione e di salvezza, è ad un tempo

25
In 2 Cor 2,1; Tommaso cita Sal 32,9: dixit, et facta sunt.
26
H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La
Révélation divine I, 177.
74 La parola di Dio

dono e rivelazione del dono, azione redentrice e annuncio di redenzione,


mistero come atto di presenza salvifica e mistero proposto alla fede.
È, in fondo, questa diversa concezione della parola che fa del­­l’ebreo
e del cristiano un soggetto responsabile più che un soggetto pensante.
La parola biblico-cristiana vuole obbedienza, più che riflessione. Il gre-
co riflette su una teoria; il giudeo/cristiano obbedisce alla verità che è
accaduta e che gli viene proposta e interpretata perché in lui accada di
nuovo: egli ha il compito di «operare la verità» (Gv 3,21).

4.4. Gesta, parole e presenza salvifica

La connessione tra evento e parola conduce alla saldatura tra rivela-


zione e salvezza. Il prologo di Dei Verbum parla di «annuncio di salvezza
(praeconium salutis)»; l’intero cap. I, in vari modi, collega intimamente la
rivelazione e il suo scopo, ovvero la manifestazione e il dono che Dio fa di se
stesso27. Il punto di concentrazione della rivelazione, che è Cristo, significa
«compimento del­­l’opera di salvezza», «che cioè Dio è con noi per liberarci
dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna».
Davvero, per dirla con san Bernardo, Dio «dando revelat et revelando
dat»28. Il dono è rivelazione e la rivelazione è dono. Il Verbum Dei è
anche Verbum salutis (At 13,26), è «Parola della verità, vangelo della
vostra salvezza» (Ef 1,13). Paolo poteva ben dire ai cristiani di Corinto:
«Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il vangelo» (1 Cor
4,15); e, poiché Cristo stesso è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1
Cor 1,24), anche il vangelo è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque
crede» (Rm 1,16). Dio agisce e, agendo, si rivela al­­l’uomo allo scopo di
unirlo a sé e comunicargli la sua stessa vita, cioè allo scopo di salvarlo:
«… propter nos homines et propter nostram salutem» (simbolo niceno-
costantinopolitano).

27
Vedi l’insistente terminologia della “salvezza” nel cap. I di Dei Verbum.
28
Bernardo di Chiaravalle, In Cantica canticorum, Sermo 8, 5: PL 183, 812B (ed.
it., Opere di san Bernardo, V/1: Sermoni sul Cantico dei cantici. Parte prima, 1-35, Introdu-
zione di Jean Leclercq, a cura di Claudio Stercal, Scriptorium claravallense - Fondazione
di studi cistercensi, Milano 2006).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  75

5. Carattere cristocentrico e trinitario della rivelazione

Dei Verbum opera una sorta di “concentrazione cristologica” nel de-


scrivere la rivelazione: Gesù Cristo è «insieme il mediatore e la pienezza
di tutta la rivelazione» (DV 2). È «il mediatore», perché è l’ultimo inviato
del Padre, la via scelta da Dio per comunicare la verità e la vita (cfr. Gv
14,6); è «la pienezza», non solo perché in lui il Padre si rivela definitiva-
mente, ma anche perché egli è insieme il messaggero e il contenuto del
messaggio, il rivelatore e il rivelato, il rivelatore al quale si deve credere
e la verità personale rivelata nella quale si deve credere. È lui «il mistero
della volontà» del Padre (Ef 1,9), che «al Padre piacque rivelare, insieme a
se stesso» (cfr. DV 2); in Gesù Cristo la rivelazione raggiunge il suo com-
pimento e la sua perfezione: «… revelationem complendo perficit» (DV 4).
Tuttavia, tale concentrazione cristologica non risolve la rivelazione in
un puro cristocentrismo, né tanto meno in un “cristonomismo”29, perché
in Dei Verbum è integrata in una dimensione trinitaria. Il movimento
della rivelazione parte da Dio Padre, ci incontra per mezzo di Gesù
Cristo e ci procura l’accesso alla comunione di Dio nello Spirito Santo
(DV 2). Inoltre Gesù Cristo, pienezza della rivelazione, è la Parola del
Padre, «parla le parole di Dio», «compie l’opera affidatagli dal Padre»,
rivela il volto del Padre («Chi vede me, vede il Padre»: Gv 14,9 e DV
4): «La faccia (prósōpon) di Dio è il Lógos, per il quale Dio si fa vedere e
conoscere»30. Infine, Gesù Cristo «compie e completa la rivelazione me-
diante l’invio dello Spirito Santo» (DV 4), che è opera di Gesù, l’ultimo
suo gesto terreno. Il ruolo dello Spirito, come apprendiamo dal Vangelo
di Giovanni, è quello di donare la conoscenza di Cristo, di introdurre
«dentro l’intera sua verità», di convincere o di confutare il mondo al
riguardo di Gesù, di dispiegare il mistero di Cristo nella coscienza dei
credenti e di far loro sentire gli effetti della sua potenza (cfr. Gv 14,26;
16,12s.).

29
Cfr. H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.),
La Révélation divine I, 183s. Si ricordi al riguardo la teologia patristica del Verbum abbre-
viatum (ripresa da Benedetto XVI in VD 12); cfr. G. Benzi, Verbum abbreviatum. Cristo
come chiave ermeneutica della Scrittura, in N. Valentini (ed.), Le vie della rivelazione di
Dio. Parola e tradizione, Studium, Roma 2006, 47-72.
30
Clemente d’Alessandria, Pedagogo 1, 57, 2: PG 8, 320 (ed. it., Il Protrettico. Il
Pedagogo, a cura di M.G. Bianco, UTET, Torino 1971, 242).
76 La parola di Dio

6. Il progresso della rivelazione: rivelazione e salvezza definitive?

Se la rivelazione avviene nella storia e attraverso la storia, allora vuol


dire che esiste una storia della rivelazione e che il tempo della rivelazione
storica è anche la misura del suo progresso.
Dei Verbum afferma a più riprese e in diversi modi il carattere storico-
progressivo della rivelazione biblica. Ne descrive le tappe più salienti,
sino a Gesù Cristo il quale «compie e completa (complendo perficit) la
rivelazione» e «porta a compimento (consummat) l’opera di salvezza» (DV
3s.); parla de «l’ammirabile “condiscendenza” del­­l’eterna Sapienza», che ha
«contemperato il suo parlare» alla natura umana (DV 13); afferma che «i
libri del­­l’Antico Testamento, sebbene contengano anche cose imperfette
e temporanee (imperfecta et temporanea), dimostrano tuttavia una vera pe-
dagogia divina» (DV 15); vi si legge che «la parola di Dio […] si presenta
e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del NuovoTesta-
mento» (DV 17), e che «tra tutte le Scritture, anche nel NuovoTestamen-
to, i vangeli meritamente eccellono…» (DV 18). Ciò significa che nella
rivelazione biblica, appunto perché storica, c’è posto per un vero sviluppo,
non soltanto nel NT rispetto al­­l’AT, ma già al­­l’interno del­­l’AT31. Le grandi
verità su Dio, sul­­l’essere umano, sulla salvezza-redenzione, sul­­l’alleanza tra
Dio e il suo popolo, sulla chiesa-popolo di Dio ecc.32 si approfondiscono
e si purificano nel corso della rivelazione storica33.
Dunque la storia della rivelazione è una economia, un disegno, una
teleologia, cammina cioè verso un punto culminante e definitivo, che
è Gesù Cristo e il NT nella sua interezza. Ma in che senso va intesa
questa definitività della rivelazione? DV 4 afferma: «L’economia cri-
stiana dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà
mai, e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della
manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (cfr. 1 Tm
6,14 e Tt 2,13).

31
Cfr. Th.C. Vriezen, An Outline of Old Testament Theology, Basil Blackwell, Oxford
1960, 12-38 («Il carattere storico della rivelazione anticotestamentaria. Osservazioni fon-
damentali e fattuali»).
32
Il lettore può inseguire la traiettoria di questi e altri temi in un dizionario di teologia
biblica: GLNT, a cura di G. Kittel; DTB, a cura di X. Léon-Dufour; DB, a cura di J.
McKenzie ecc.
33
Vedi sotto, nel cap. 16, le ripercussioni di ciò sul problema de «La verità della Scrittura».
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  77

In fondo, è la questione posta già a suo tempo dal Battista a Gesù: «Sei
tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,2). E
Gesù risponde che in lui sono venute a compimento le promesse rela-
tive a «Colui che deve venire» (cfr. Mt 11,4ss.). In Gesù Cristo la storia
della rivelazione è pervenuta al suo termine, e, in senso stretto, anche
la storia della salvezza è compiuta («opus salutare consummat»). Il NT
non è semplicemente un «secondo Testamento», che potrebbe essere
seguìto da un “terzo” o un “quarto”: è, come dice il concilio, alleanza
nuova e definitiva. La rivelazione cristica non può accettare aggiunte di
origine umana, né sostituzioni, né abolizioni. «Nessuno può porre un
fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1
Cor 3,11); «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato
agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati»
(At 4,12). Ciò significa porre una

distinzione fondamentale tra rivelazione e tradizione, tra origine e seque-


la, tra sorgente e flusso, tra costituzione normativa e continuazione, tra
determinante e determinato. Con ciò viene ancora una volta espresso il
carattere assolutamente unico e irrepetibile della rivelazione compiutasi
in Gesù Cristo e nella sua opera, la quale non rende più possibile nessun
nuovo inizio di rivelazione nel senso di una personale automanifestazione
di Dio, ma solo ancora una tradizione mediante la quale viene tramandato
l’inizio, ed uno sviluppo che conduce alla comprensione reale della “pie-
nezza originale”, secondo la sua altezza, la sua latitudine, la sua longitudine
e la sua profondità. Ogni futuro è il futuro della rivelazione compiuta in
Gesù Cristo34.

Il concilio Vaticano II non ha ritenuto di accogliere la formula tra-


dizionale: «La rivelazione si è chiusa con la morte degli apostoli», il cui
tenore letterale non trovava concordi i teologi. Ha invece aggiunto a
“rivelazione” l’aggettivo pubblica, non volendo di per sé escludere suc-
cessive rivelazioni private35. Soprattutto, DV 4 ha distinto la rivelazione
definitiva, fatta agli uomini nella loro condizione terrena e temporale,
dalla manifestazione del Signore glorioso alla fine dei tempi, che è di

34
H. Fries, Le due forme e le due maniere di realizzazione della rivelazione alla luce
della Bibbia, in MS I, 311.
35
Per una breve storia della discussione in concilio del problema, cfr. H. de Lubac,
Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine,
231-233.
78 La parola di Dio

natura diversa (di qui la scelta del termine “manifestazione” e non “ri-
velazione”) ed è oggetto di attesa.
L’esortazione apostolica Verbum Domini (n. 14) ricorda al riguardo
la definitività della rivelazione attraverso una citazione di DV 4, inserita
però nel contesto di un paragrafo dedicato alla «dimensione escatologica
della parola di Dio». Ma Benedetto XVI prosegue ricordando con chia-
rezza la distinzione tra rivelazione pubblica e rivelazioni private; queste
ultime possono costituire «un aiuto che ci è offerto, ma del quale non è
obbligatorio fare uso».
Detto questo, però, va subito affermato che il carattere definitivo
della rivelazione-economia cristiana, lungi dal­­l’essere incompatibile con
uno sviluppo di comprensione e di attuazione, lo comporta e lo esige,
come dice il cap. II di Dei Verbum sulla tradizione. Il mistero di Cristo
è fecondo e non cessa di illuminare le situazioni sempre mutevoli della
storia degli uomini: «Semper novum, quod semper innovat mentes, nec
unquam vetus, quod in perpetuum non marcescit»36. La tradizione non è la
custodia di un deposito passato alla maniera di un museo, né la contem-
plazione intemporale della verità rivelata, bensì confronto costante della
verità rivelata con gli avvenimenti del mondo in divenire, con le diverse
culture dei popoli; è verifica della potenza esplicativa delle verità di fede
nel contesto mutevole della storia; è comprensione del­­l’essere umano,
della sua natura, del suo destino e della sua storia nelle situazioni più
diverse, alla luce del­­l’indefettibile storia della salvezza rivelata da Dio37.

7. Conseguenze teologiche e pastorali

Dalla dimensione storica della rivelazione, nei termini che abbiamo


delineato, derivano conseguenze teologico-pastorali d’importanza note-
vole. Ne segnaliamo alcune.

36
Bernardo di Chiaravalle, In vigilia nativitatis Domini, Sermo, 6: PL 183, 112A
(ed. it., Opere di san Bernardo, IV: Sermoni diversi e vari, Introduzione di Jean Leclercq,
a cura di Domenico Pezzini, Scriptorium claravallense - Fondazione di studi cistercensi,
Milano 2000).
37
Vedi sotto, cap. 19.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  79

7.1. Una teologia più storica

Poiché la rivelazione è avvenuta nella storia e attraverso la storia, an-


che la teologia – in quanto riflessione sul dato rivelato – deve essere più
storica, più narrativa. Per capire chi è il Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe, per capire chi è Gesù Cristo, devo innanzitutto raccontare le
grandi gesta del Dio biblico e del supremo rivelatore Gesù Cristo nel­­
l’intero arco della storia della salvezza: è quanto si fa, in sintesi, in DV
3.4.14.17. Per comprendere che cos’è la chiesa, devo innanzitutto rifarmi
alla sua storia primitiva e fontale, quella narrata negli Atti degli apostoli
e nel­­l’epistolario del NT. Anzi, dovrò impegnarmi in una lettura della
storia bimillenaria della chiesa per conoscere i modi concreti nei quali il
popolo di Dio, nel corso dei secoli, ha tradotto nella sua vita, nelle sue
scelte e nelle sue istituzioni, oltre che nella sua riflessione e nel suo inse-
gnamento, il disegno salvifico di Dio rivelato e attuato in Gesù Cristo.
Auspicare e costruire una teologia «concreta e storica», «centrata sulla
storia della salvezza»38, non significa voler trascurare l’aspetto dottrinale
e scientifico della riflessione teologica. Significa invece ricomporre anche
nella teologia una sintesi tra evento e parola, fra storia e riflessione, tra
vita e pensiero39.

7.2. Una fede obbediente nella vita


Credere non significa semplicemente ammettere una o più dottrine,
aderire a una o più verità sul­­l’autorità di Dio rivelante, ma è anche – e
soprattutto – pronunciare e vivere un amen, un sì che impegna tutto

38
In una udienza riservata agli osservatori non cattolici durante la seconda sessione
del concilio Vaticano II, il 17 ottobre 1963, al­­l’auspicio espresso in tal senso dal presi-
dente Skydsgaard, Paolo VI rispondeva testualmente: «Questi sviluppi che voi auspicate
di una “teologia concreta e storica”, “centrata sulla storia della salvezza”, noi volentieri li
sottoscriviamo da parte nostra e il suggerimento ci pare del tutto degno di essere studiato
e approfondito. La chiesa cattolica possiede già istituzioni, che niente impedirebbe di
specializzare meglio in questo genere di ricerche, salvo anche il creare un’istituzione nuova
a questo scopo, qualora le circostanze lo suggerissero» (AAS 55 [1963] 880). Sul­­l’esigenza
di una “teologia narrativa”, cfr. i lavori pioneristici di H. Weinrich, Teologia narrativa, in
Concilium 9/1973, 846-859; J.B. Metz, Breve apologia del narrare, in Concilium 5/1973,
80-99; B. Wacker, Teologia narrativa, Queriniana, Brescia 1981; Ch. Theobald, I rac-
conti di Dio. Pensare la teologia narrativa, EDB, Bologna 2015. Si veda anche oltre, circa
la narratologia applicata alla Bibbia (pp. 505-506).
39
Vedi sotto, cap. 20, § 4.
80 La parola di Dio

l’uomo, conoscenza e amore, in gioiosa e fattuale obbedienza a Dio: «A


Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede” (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5;
2 Cor 10,5s.), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tut­­t’intero libe-
ramente, prestandogli “il pieno ossequio del­­l’intelletto e della volontà”
e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (DV 5).
Poiché Dio agisce nella storia e si rivela attraverso la storia, la fede
– come risposta alla parola di Dio – ha nella vita e nella storia uno
dei suoi luoghi privilegiati. La fede, come affermava Kierkegaard, «ap-
profondimento nel­­l’esistenza»; oppure, per dirla con Moltmann, «non
soltanto un giudizio storico di accertamento, bensì un giudizio di ade-
sione alla promissio che è insito in questo evento (la risurrezione di Gesù
Cristo) e un giudizio di rifiuto di ogni realtà la quale non corrisponde
ancora alla promissio»40. Il tema sarà ripreso nel cap. 18.
Della fede intesa come risposta a Dio che parla si occupa Benedetto
XVI in tutta la sezione di VD 22-28; cfr. in particolare VD 24; partendo
dai Salmi intesi come le parole con cui l’uomo può rivolgersi a Dio, Be-
nedetto XVI scrive che «in tal modo, la parola che l’uomo può rivolgere
a Dio diventa anch’essa parola di Dio, a conferma del carattere dialogico
di tutta la rivelazione cristiana […]. La parola di Dio rivela qui che tutta
l’esistenza del­­l’uomo è sotto la chiamata divina»; cfr. anche VD 25, su
«parola di Dio e fede».

7.3. Esperienza di fede e comprensione della Parola

Se la rivelazione è manifestazione e parola di Dio attraverso gesti-


eventi che cambiano il corso della vita e della storia, allora occorre ac-
cogliere e sperimentare concretamente il messaggio rivelato, se vogliamo
comprenderlo davvero. Non vi può essere una vera lectio divina della
Scrittura là dove non c’è esperienza di fede, o almeno non si cerca una
sperimentazione della realtà nuova per la quale la parola di Dio appella,
guida e sostiene. «L’esperienza data da una più profonda conoscenza

40
«Ci si prepara a diventare attenti al cristianesimo non con la lettura di libri, né
con le prospettive storico-mondiali, ma attraverso l’approfondimento nell’esistenza» (S.
Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze
1972); J. Moltmann, Prospettive della teologia. Saggi, Queriniana, Brescia 1973, 147; cfr.
Id., Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia
cristiana, Queriniana, Brescia 1973, 20088, 13-16 («La speranza della fede»).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  81

delle cose spirituali» – secondo DV 8 – è uno dei fattori dello sviluppo e
della crescita della comprensione nella chiesa della tradizione di origine
apostolica41. Del resto, Gesù ha affermato: «La mia dottrina non è mia,
ma di colui che mi ha mandato. Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà
se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso» (Gv 7,16s.).
Da questo punto di vista, ha ragione Semmelroth a descrivere la chiesa
come «la comunità di coloro che ascoltano la parola di Dio per metterla
in pratica e la mettono in pratica per meglio comprenderla»42. La chiesa,
per comprendere il Cristo rivelatore e salvatore e annunciarlo al mondo,
deve vivere evangelicamente, deve fare esperienze di vangelo43.
Acquista così una fondamentale rilevanza ermeneutica ciò che la tra-
dizione ha chiamato il sensus fidei o il sensum fidelium, una dimensione
che LG 12 ha riportato al­­l’attenzione della chiesa cattolica. Il «senso
della fede» può essere ben descritto come la «capacità di riconoscere
l’esperienza intima del­­l’adesione a Cristo e di giudicare tutto, in base a
questa intelligenza […]. In base a questa intuizione il credente giudica
le possibili interpretazioni del mistero nonché la convenienza o con-
flittualità tra il mistero vissuto e compreso da una parte e, dal­­l’altra, le
realtà e le rispettive teorie che emergono dal di fuori»44. La categoria di

41
Il textus emendatus della commissione dottrinale parlava, nel n. 8 di Dei Verbum, di
«ex intima spiritualium rerum experientia». In concilio la frase fu criticata da alcuni padri,
perché sembrava un diretto richiamo a qualcosa di eterodosso: il senso religioso moder-
nista, o comunque un criterio interpretativo di carattere puramente soggettivo. Il textus
denuo emendatus della stessa commissione, onde evitare ogni ombra di soggettivismo,
modificò l’espressione in «ex intima spiritualium rerum quam experiuntur intelligentia» (cfr.
F. Gil Hellin, Dei Verbum, 65). Dunque, nel testo definitivo di DV 8, pur coniugata con
la categoria di “intelligenza”, rimase la categoria di “esperienza”, del resto già presente nel­­
l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI: «Il mistero della chiesa non è una verità che possa
contenersi entro i limiti della scienza teologica, ma deve passare nella stessa vita pratica;
tanto che i fedeli, prima di averne una chiara nozione intellettuale, possono conoscere
questa verità attraverso l’esperienza ad essi come connaturale» (AAS 56 [1964] 624).
Sulla storia e la discussione della frase in questione di DV 8, cfr. U. Betti, La rivelazione
divina nella Chiesa, Città Nuova, Roma 1970, 136.137.138.231. Sul­­l’esperienza religiosa
del­­l’essere umano come «apertura a un orizzonte illimitato del­­l’essere», e sulla rivelazione
come «parte del processo globale del­­l’esperienza del­­l’autocomunicazione divina», cfr. G.
O’Collins, Teologia fondamentale, capp. II-III.
42
O. Semmelroth, Teologia della Parola, Ed. Paoline, Bari 1968, 148s.
43
Vedi sotto, cap. 19, 2.3.
44
Z. Alszeghy, Senso della fede e sviluppo dogmatico, in R. Latourelle (ed.), Il Va-
ticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1, Cittadella, Assisi 1987, 144; cfr.
l’intero articolo (136-151) con ampia bibliografia sul­­l’argomento. Si aggiungano ancora
D. Vitali, «Universitas fidelium in credendo falli nequit» (LG 12). Il sensus fidelium al
82 La parola di Dio

“esperienza” è dunque centrale nella considerazione del sensus fidei; in


DV 8 si tratta dunque del­­l’esperienza cristiana, che non è mai indipen-
dente dai contenuti della fede.
Notiamo come il dettato di DV 8 inserisca pienamente il popolo di
Dio, proprio attraverso la categoria del sensus fidei, al­­l’interno del cam-
mino di comprensione della parola di Dio e ne faccia quindi un soggetto
attivo nella ricezione e nel­­l’ermeneutica delle Scritture. «Il sensus fidei è
l’intelligenza della fede mediante la quale il popolo di Dio riceve “non
più una parola umana, ma veramente la parola di Dio”»45. Se il corpo
dei fedeli possiede realmente un tale sensus fidei, il ruolo del magistero,
di conseguenza, deve essere esercitato in ascolto di tale realtà: esiste ad-
dirittura un “diritto” dei fedeli ad essere ascoltati46.

7.4. Esistenza e storia rivelatrici?

Se la storia biblica fu l’ambito e il tramite della rivelazione, pur muo-


vendo dal carattere “definitivo” della rivelazione cristica (cfr. § 6), si deve
affermare che anche l’esistenza e la storia presenti sono, in certo modo,
rivelatrici. Dio parla ancora nel bel mezzo del­­l’esistenza di ognuno e
attraverso i grandi eventi della storia contemporanea, purché noi sap-
piamo leggere la vita e la storia con i criteri che la storia della salvezza,
profeticamente interpretata nella Bibbia, ci offre. La storia di Israele e
la storia di Gesù Cristo sono il paradigma, come una grande “tipologia”
della nostra esistenza e della nostra storia, che siamo chiamati a capire e
a vivere come historia salutis. Si legga, in proposito, il Sal 66: anzitutto
una liturgia comunitaria di ringraziamento, che commemora le opere
stupende di Dio nel passato, centrate sul passaggio del mare (vv. 5-7); poi

concilio Vaticano II, in Gregorianum 86 (2005) 607-628; Id., La totalità dei fedeli non
può sbagliarsi nel credere (LG 12): il sensus fidelium come voce della Tradizione, in Ur-
baniana University Journal 66 (2013) II 37-70; S. Noceti, Laici e sensus fidei, in C.
Militello (ed.), I laici dopo il Concilio: quale autonomia?, EDB, Bologna 2012, 87-101.
Studi fondamentali sono quelli di D.J. Finucane, Sensus fidelium. The Use of a Concept in
the Post-Vatican Era, International Scholars Publications, San Francisco 1996; O. Rush,
The Eyes of Faith. The Sense of the Faithful and the Church’s Reception of Revelation, Catholic
University of America Press, Washington 2009.
45
Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della chiesa
(2014), n. 92.
46
Ibid., n. 74. Cfr. anche la ripresa di questo tema in EG 119.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia  83

un inno di grazie per una liberazione recente (vv. 8-12); infine, cessato il
canto del­­l’assemblea, prende la parola un individuo per cantare la pro-
pria esperienza della misericordia salvatrice di Dio (vv. 16-20): «Venite,
ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto in me ha fatto (Dio)»
(v. 16). Tornano alla memoria le parole di Maria: «L’anima mia magnifica
il Signore…, perché ha guardato l’umiltà della sua serva… Grandi cose ha
fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome» (Lc 1,46-49). Davvero,

Dio si rivela al­­l’uomo nella propria vita: entrando in essa, configurandola,


dandole un senso […]. Alla luce del­­l’esperienza storica e della parola che
l’accompagna, l’uomo è in grado di comprendere il senso di un evento per-
sonale. La sua vita diventa rivelatrice per sé e per gli altri47.

7.5. I “segni dei tempi”48

La teologia dei “segni dei tempi” si basa sul dato biblico che la storia
è luogo e tramite della rivelazione di Dio e del suo appello. Quello che
valeva per Israele, al quale Gesù rimproverò di non sapere leggere i segni
dei tempi (cfr. Lc 12,54-56), e per la comunità cristiana primitiva alla
quale Luca si indirizzava, vale per la chiesa di oggi, di sempre. Il concilio
Vaticano II lo ha insegnato a chiare note: «È dovere permanente della
chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo
[…]. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo
nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammati-
che» (GS 4); e ancora: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede
di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca
di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui
prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano
i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11).
La storia, tut­­t’intera fino al suo compimento escatologico, ha assun-
to il valore di epifania del divino e i “segni dei tempi” ne costituiscono
l’emergenza privilegiata. Ma: come individuarli, come leggerli? Il primo
e fondamentale criterio di lettura è la sacra Scrittura. È con il suo metro
che i credenti possono e debbono misurare gli eventi della storia contem-

L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, 96.


47
48
Cfr. C. Boff, Segni dei tempi, Borla, Roma 1983; A. Steccanella, Alla scuola del
Concilio per leggere i «segni dei tempi», EMP, Padova 2014.
84 La parola di Dio

poranea, per coglierne il valore di appello divino, per comprendere se tali


eventi sono nella direzione della storia della salvezza oppure nella direzio-
ne opposta. Il secondo criterio è quello della verifica ecclesiale, a cui ogni
lettura dei segni dei tempi deve sottoporsi. Dobbiamo, cioè, confrontare
la nostra personale interpretazione degli eventi con quella dei fratelli e
delle sorelle nella fede, e soprattutto con coloro – i vescovi – che, nella
chiesa, hanno il compito e il carisma di guidarci autorevolmente nella
lettura dei segni dei tempi. Con un costante atteggiamento, necessario
in tutti: essere pronti a farsi mettere in questione dallo Spirito di Dio,
liberissimo e ininterrottamente operante nella storia, senza la pretesa di
avere ottenuto con definitività assoluta l’intuizione della verità.
parte seconda
LA TRASMISSIONE
DELLA PAROLA DI DIO
«Noi non possiamo né vogliamo conoscere una rivelazione diversa da
quella che ci è stata tramandata» (G. Gloege, citato in MS 1, p. 325,
nota 1). La parola di Dio è‚ per noi che la riceviamo, la Parola autorita-
tivamente trasmessaci.
DV 1 esordiva con queste parole: «Piacque a Dio, nella sua bontà e
sapienza, rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà…»;
il cap. II attribuisce «la trasmissione della divina rivelazione» alla stessa
gratuita disposizione divina: «Dio con somma benignità dispose che
quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti rimanesse per
sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni» (DV 7). Se la
Rivelazione fosse la comunicazione diretta, immediata di Dio e del suo
progetto salvifico a ciascun uomo individualmente, non si parlerebbe che
di Rivelazione. Al contrario (vedi cap. 3) la rivelazione biblico-cristiana
si può e si deve localizzare e datare, poiché – di fatto – Dio si è voluto
rivelare a un popolo particolare, in una fetta di storia ben precisa e deli-
mitata, culminante in Gesù di Nazaret. Soltanto per alcuni testimoni il
Verbum salutis fu una rivelazione immediata, e soltanto a partire da essi
piacque a Dio far pervenire a tutti gli uomini la Parola della salvezza.
Dunque il concetto di Rivelazione biblica, proprio perché rivelazio-
ne in una storia particolare e attraverso di essa, include il concetto di
tradizione, di trasmissione. Davvero, noi non possiamo e non vogliamo
conoscere una rivelazione diversa da quella che ci stata tramandata. Da
essa partiamo e con essa ci confrontiamo per essere soggetti attivi di una
tradizione vivente in gesti e parole, per l’oggi del­­l’uomo e della storia.
4.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico
e del Nuovo Testamento

Bibliografia: M. Adriani, Tradizione, in ER 5, coll. 1848-1852; Associazione Teo-


logica Italiana, Fare teologia nella Tradizione, Glossa, Milano 2014; J.-G. Boegelin,
La question de la Tradition dans la théologie catholique contemporaine, du Cerf, Paris 1998;
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Bibbia. XXXVII Settimana Biblica Nazionale (Roma, 9-13 settembre 2002), in Ricerche
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Cinisello B. 1999; T. Citrini, Tradizione, in DTI 3, 448-463; Y.M. Congar, La tra-
dizione e le tradizioni, 2 voll., Edizioni Paoline, Roma 1965; A. Franzini, Tradizione e
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350; K. Rahner – J. Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia 1970;
G. Segalla, Scrittura, Tradizione, tradizioni nel loro mutuo rapporto, in Lateranum 74
(2008) 29-68; F. Serafini, Tradizione, in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (edd.),
Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 2010, 1447-1453; N. Valentini (ed.),
Le vie della rivelazione di Dio. Parola e Tradizione, Studium, Roma 2006; K.H. Weger,
Tradizione, in SM 8, coll. 398-410.

Come nel­­l’evento della “rivelazione-parola” e della “rivelazione-storia”,


anche nel­­l’evento della tradizione l’economia di Dio assume il modello
umano. L’homo loquens è anche homo socialis e homo culturalis: quindi,
homo tradens.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  89

1. La tradizione, struttura umana e struttura della religione

Noi non viviamo isolati. Noi facciamo parte di un mondo. La tradi-


zione, intesa qui nel senso più ampio, è un aspetto della legge generale
secondo cui gli uomini sono dipendenti gli uni dagli altri, devono fare
qualcosa gli uni per gli altri. «Questa struttura d’interdipendenza umana
o di mediazione fraterna è una caratteristica perenne e profonda della
condizione umana innanzitutto, e della condizione cristiana poi. Noi vi-
viamo in un mondo»1. Un essere può votarsi alla morte, non può donarsi
la vita. Da solo non può venire al mondo, crescere, educarsi; da solo non
può soddisfare i suoi più elementari bisogni, né tanto meno realizzare le
sue aspirazioni più elevate. Ogni uomo è homo socialis.
L’homo socialis è anche homo culturalis. Intendiamo qui per “cultura”
«l’ambiente artificiale, secondario che l’uomo sovrappone a quello na-
turale. Esso comprende il linguaggio, le abitudini, le idee, le credenze,
i costumi, l’organizzazione sociale, i prodotti ereditari, i procedimenti
tecnici, i valori»: se «la cultura è un’eredità sociale che l’individuo riceve
e trasmette»2, allora la tradizione inerisce necessariamente ad ogni cul-
tura. M. Heidegger, evidenziando la storicità del­­l’uomo, ha sottolineato
nello stesso tempo la dipendenza del­­l’uomo dal­­l’«esistenza tramandata»,
la quale gli offre delle possibilità di comprensione che influiscono non
solo sulle sue decisioni pratiche, ma sulla sua stessa autocomprensione
fondamentale3; H.G. Gadamer4 ha riabilitato la tradizione e l’autorità
in un’ermeneutica filosofica.
La multiforme tradizione, legata al­­l’uomo in quanto homo socialis-
culturalis, è anche necessariamente tradizione religiosa: religione e tradi-
zione sono per loro natura connesse, essendo la religione un fenomeno
sociale. Dove c’è religio, padri e figli si trovano insieme, si radunano in
determinati luoghi “sacri” e in precisi tempi “sacri” per compiere i propri
riti di culto, per esprimerne e comunicarne il senso profondo: miti e
dottrine arcane. Il costante ripetersi del rito (ciò che il rito contiene, cioè
miti e dottrine) è già consegna della religione al tempo e verifica della sua

1
Y.M. Congar, La tradizione e le tradizioni, 2: Saggio teologico, Edizioni Paoline,
Roma 1965, 22.
2
H.R. Niebuhr, Christ and Culture, Harper, New York 1956, 32s.
3
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19763, 458-463.
4
Vedi sotto, cap. 18, pp. 423ss.
90 La trasmissione della parola di Dio

tenuta e della sua sussistenza attraverso il succedersi delle generazioni.


Ma, alla base della tradizione quale strumento di conservazione della
religio, sta l’esperienza originaria del sacro. La tradizione è

iterazione assidua e fedele della consegna originaria della verità o della legge
o del dogma […]. II fatto religioso di base è e rimane l’evento del­­l’apertura,
della comunicazione divina nel­­lo happening straordinario e irripetibile della
teofania, nel suo comunicare con la sponda umana tramite la figura sinte-
tica e rappresentativa del sovrano, del sommo sacerdote, del­­l’egemone, del
profeta […]. Ma quel­­l’evento non rimane isolato, il fatto religioso, cioè,
non si consuma in un hápax legómenon, bensì è destinato, secondo lo stesso
precetto divino, confessato o soltanto alluso che sia, a correre nel tempo in
una sequenza di punti, di tramiti qualificati, cioè la serie delle consegne e dei
passaggi, di livello in livello, lungo una scala coerente perché religiosamente
autorevole in virtù del carattere ieratico conferito dal medesimo tradere5.

Questa tradizione religiosa, quale vehiculum, vis tradens vera e propria


della verità religiosa, vive nel­­l’intreccio di due forme: tradizione orale e
tradizione scritta. La coscienza religiosa antica le percepì sempre nel
loro rapporto reciproco e complementare: da una parte, la dimensione
tradizionalistica come atto ininterrotto di conservazione non statica, non
inerte, ma di propulsione assidua del bene prezioso della rivelazione,
a tutela e a garanzia della sua disponibilità e funzione sempre piena e
attuale (tradizione orale); e, dal­­l’altra, il carattere in ultima analisi apo-
logetico e quindi la sua stretta anzi intima colleganza con l’ortodossia
(tradizione scritta)6. È il caso non soltanto del­­l’ebraismo e del cristiane-
simo, ma anche di altre grandi religioni: si pensi al­­l’islam, al­­l’hinduismo,
al buddhismo7.

5
M. Adriani, Tradizione, col. 1849.
6
Cfr. ibid.
7
Cfr. le rispettive voci, in ER, voll. 1 e 3.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  91

2. La tradizione nella fede d’Israele

Nella fede d’Israele, come abbiamo già ricordato8, la tradizione non


è soltanto un dato di fatto:

Ciò che abbiamo udito e conosciuto, e i nostri padri ci hanno raccontato,


non lo terremo nascosto ai loro figli; racconteremo alla generazione futura le
azioni gloriose del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto (Sal 78,3s.).

È una legge, un imperativo di Dio (la già ricordata lex narrandi):

Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele,


che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché le
conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno
a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non
dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi (Sal 78,5-7).

La storia degli interventi di Dio e delle risposte d’Israele è affidata a


una memoria viva, affinché tutti i figli d’Israele si consegnino fiduciosi
a Dio e al­­l’osservanza dei suoi comandi.
Tradizione orale-vitale e tradizione scritta sono le due forme di questa
memoria viva che lega vicendevolmente le generazioni d’Israele a una
storia di salvezza la quale, a un tempo, le attraversa e le trascende. È
acquisizione comune della critica biblica contemporanea che la com-
posizione letteraria dei libri del­­l’AT, come noi li possediamo, è stata
preceduta da una lunga storia, sia di tradizioni orali, sia di singole unità
letterarie minori9. Anzi, successivamente alla messa in scritto delle tra-
dizioni e parallelamente alle sacre Scritture, perdura una tradizione viva
che a suo modo continua quella dei secoli passati, benché – in linea di
diritto – non possa pretendere di avere la stessa autorità normativa del-
la Scrittura. Essa è eminentemente tradizione interpretativa, a servizio
del­­l’attualità della rivelazione scritta, con il compito di svilupparne le
virtualità e di farne scattare la contemporaneità10.

8
Vedi sopra, cap. 3.
9
Vedi sotto, cap. 5.
10
Vedi sotto, cap. 19.
92 La trasmissione della parola di Dio

Volendo sintetizzare il significato e il carattere della tradizione in Israe-


le, potremmo dire che:
a) si tratta di una tradizione viva che si esprime in forme varie e mu-
tevoli: tradizione orale, unità letterarie minori (confessioni, inni, saghe,
detti), tradizioni scritte (le cosiddette – ed ora discusse – tradizioni J,
E, D, P, per il Pentateuco e le tradizioni profetiche)11, stesura definitiva
del libro, tradizioni interpretative attualizzanti che si nutrono della sacra
Scrittura e l’accompagnano.
b) Si tratta di una tradizione che già nel suo formarsi manifesta in
Israele – ma ciò vale anche per la chiesa apostolica – una coscienza della
canonicità, ovvero normatività di fede, sia delle tradizioni orali-vitali, sia
delle tradizioni scritte12. Scrive giustamente T. Citrini:

La coscienza della canonicità interferisce nella formazione letteraria stessa degli


scritti. Gli scritti biblici prendono forma infatti nella tradizione del­­l’alleanza,
e la loro autorità se non altro ha spesso radici determinanti nel­­l’autorità delle
formulazioni orali che precedono lo scritto (cfr. le tradizioni del Pentateu-
co, molti oracoli profetici, la tradizione delle parole di Gesù…). Spesso la
canonicità delle tradizioni ne domanda e ne comanda la scrittura, e fonda,
almeno in certa misura, la canonicità dello scritto stesso […]. Il processo
di canonizzazione insomma non è cominciato solo a prodotto letterario
ultimato13.

c) L’ambiente di questa multiforme tradizione è la vita del popolo


di Dio nei suoi vari ambiti, strutture e manifestazioni: soprattutto, la
famiglia (cfr. Dt 4,10; 7,6.20.25; 31,13); il culto (cfr. Es 13,8.14) attor-
no ai santuari e, a partire dal tempo di Salomone, attorno al tempio di
Gerusalemme; la corte del re.
d) Il contenuto della tradizione è determinato fin dal­­l’inizio

dalla coscienza del­­l’elezione al­­l’alleanza con Yhwh; viene poi arricchito,


grazie al ripetersi degli interventi di Dio in mezzo al suo popolo (nonostante
le cadute, le infedeltà e le punizioni); subisce reinterpretazioni di diverso

11
Vedi sotto, cap. 5.
12
Vedi sotto, capp. 5 e 8.
13
T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scrit-
ture (LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 14. Per una trattazione più ampia, cfr. J.-A.
Sanders, Identité de la Bible. Torah et Canon («Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975;
B.S. Childs, Introduction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979, 25-106.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  93

tipo (materiale storico, profetico, inni di lode, salmi sapienziali) e, dopo


la fissazione scritta, trasmette soprattutto l’esegesi autentica degli scribi14.

e) La tradizione combina due caratteri complementari:

Da una parte la stabilità: i suoi elementi fondamentali sono fissi, in materia


di credenze, di diritto, di culto (monoteismo, dottrina del­­l’alleanza, usi
provenienti dai patriarchi e legge mosaica ecc.). Dal­­l’altra parte il progresso:
la rivelazione stessa si sviluppa, a misura che nuovi inviati divini comple-
tano l’opera dei loro predecessori in funzione dei bisogni concreti del loro
tempo15.

La tradizione di Israele, dunque, vive tra due poli che non possono
essere isolati: la conservazione-fedeltà alle origini, il progresso-crescita
legati allo sviluppo della rivelazione e alla sua attualizzazione nella vita
e nella storia.

Un capitolo importante è poi quello relativo alla tradizione al­­l’interno


del giudaismo rabbinico, nel quale emerge, in particolare, il rapporto
tra oralità e Scrittura. Semplificando un tema molto complesso, riman-
diamo alla brevissima presentazione contenuta nel documento della
Pontificia Commissione Biblica del 2001, Il popolo ebraico e le sue Sacre
Scritture nella Bibbia cristiana (I C.1). In un primo momento, è la stessa
tradizione che nel giudaismo dà vita alla Scrittura, un processo che alla
fine del I secolo della nostra era sembra ormai compiuto. In un secondo
momento, la Tradizione dà origine a una «seconda Scrittura»; nessuna
Scrittura, infatti, è in grado di esaurire tutta la ricchezza della tradizione;
si sviluppano così la Mišnâ (“Ripetizione”), già al­­l’inizio del III secolo,
seguita poi dalla Tôseftâ (“Supplemento”) e, infine, dal Talmûd, giunto
a noi in due forme (di Babilonia e di Gerusalemme). Questi scritti
rabbinici non hanno lo stesso valore degli scritti biblici e la loro validità
sta nella misura della loro conformità alla Tôrah mosaica. E tuttavia,
secondo il trattato ’Ābôth, posto al­­l’inizio del Talmûd, la tradizione,
intesa come Legge orale, acquista un valore pari alla Legge scritta (cfr.
’Ābôth 1,1)16. Nel passo di ’Ābôth 1,1 si afferma che Mosè ricevette da

14
P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo della rivelazione, 369s.
15
P. Grelot, Tradizione, col. 1295.
16
Su tutto questo, si può consultare l’introduzione di G. Stemberger, Il giudaismo
94 La trasmissione della parola di Dio

Dio la Tôrah sul Sinai; dove per Tôrah occorre intendere sia la tradizione
orale (Tôrah šebe‘al pê), sia quella scritta (Tôrah šebikhethab). Tôrah scritta
e Tôrah orale appaiono legate tra loro da un rapporto dinamico; l’una
non può essere pensata senza l’altra dato che entrambe contengono la
medesima rivelazione divina.

3. La tradizione nelle origini cristiane

La lex narrandi si perpetua nel tempo della rivelazione neotestamen-


taria. Essa coinvolge l’autentica rivelazione d’Israele e la nuova definitiva
rivelazione portata da Gesù Cristo, compimento del­­l’antica Parola.
Gesù si presenta, sì, come accusatore e oppositore deciso degli abusi
della tradizione puramente umana, anche se chiamata “tradizione degli
antichi”: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradi-
zione degli uomini. Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento
di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,8s.). E lo dimostra ai
farisei e ai dottori della legge con un esempio concreto, la tradizione del
voto del korbān (Mc 7,10-13) che finiva per tradire il comandamento
divino del­­l’amore verso i genitori e verso il prossimo.
Non per questo Gesù è nemico del­­l’autentica tradizione d’Israele, fis-
sata ne «la legge e i profeti» (cfr. Mt 5,17-19). Neppure condanna in as-
soluto la tradizione interpretativa della Scrittura (cfr. Mc 1,44), compresa
quella dei farisei: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non
agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,3).

classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al 1040), Città Nuova, Roma 1991,
spec. 154-210; cfr. A.C. Avril – P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Qjqaion,
Magnano 1984, spec. 15-19 e 75-101 (P. Carucci Viterbi, «Le regole ermeneutiche per
l’interpretazione del testo biblico»). Cfr. anche P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per
mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Roma - Milano 2012, 188-193;
sul tema più generale del rapporto tra oralità e scrittura cfr. W.J. Ong, Orality and Literacy.
The Technologizing of the Word, Methuen, London - New York 1982 [trad. it., Oralità e
scrittura. Le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986]. Per una applicazione del­­
l’idea al campo delle Scritture, cfr. S. Niditch, Oral World and Written Word. Ancient
Israelite Literature, Library of Ancient Israel - Westminster John Knox, Louisville 1996.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  95

3.1. La tradizione di Gesù

Tuttavia, con le sue parole e i suoi gesti, Gesù dà origine a una tra-
dizione nuova. Radicalmente nuova è l’interpretazione della Scrittura
data da Gesù:

Legge e tradizione, chiuse e assolutizzate fino allora come scopo della rea-
lizzazione di una vita religiosa, vengono aperte in due direzioni: verso la
volontà originaria e totale di Dio, così come era «dal­­l’inizio» (Mc 10,6), e
verso il cuore del­­l’uomo, il quale è propriamente toccato e significato dalla
legge e dalla tradizione (Mc 7,14-23)17.

Ma la sostanziale novità di Gesù è un’altra: il suo agire e il suo pre-


dicare costituiscono l’inizio di una nuova tradizione. Gesù ha la precisa
coscienza di essere il portatore definitivo della rivelazione e della salvezza,
e come tale parla e agisce18. L’«io vi dico», avanzato da Gesù in antitesi
alla legge (Mt 5,21ss.), usato imperativamente nelle guarigioni (Mc 2,11;
9,25), nelle parole di invio in missione (Mt 10,16) e nelle espressioni
di conforto (Lc 22,52), unito alla coscienza di parlare con autorità (Mc
1,27), prepara e suffraga la rivoluzionaria rivendicazione di Gesù, se-
condo cui la salvezza o la dannazione degli esseri umani si decidono a
seconda della posizione che costoro assumono nei confronti di lui (Mt
10,32s. e par.).
A questa multiforme e insieme univoca coscienza messianica di Gesù
dobbiamo unire alcuni fatti, riconducibili al Gesù storico: la forma fissa
(e quindi facilmente memorizzabile) data da Gesù alle sue parole; la
chiamata degli apostoli e dei discepoli; il fatto della missione autoritativa
loro consegnata già prima della risurrezione; il comando di predicare.
Da questi fatti non possiamo che trarre una conclusione: Gesù è l’ini-
ziatore di una nuova tradizione in gesti e parole giunta fino a noi, le cui
caratteristiche sono la formazione cosciente di una tradizione e l’ordine
autoritativo di trasmetterla19. In senso vero e storico, al­­l’inizio vi fu Gesù
di Nazaret e la tradizione di Gesù che già per se stessa è tradizione auto-
ritativa e quindi canonico-normativa.

17
P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo della rivelazione, 377.
18
Cfr. sotto, cap. 8, 2.1a.
19
Cfr. H. Schürmann, La tradizione dei detti di Gesù, Paideia, Brescia 1966.
96 La trasmissione della parola di Dio

3.2. La tradizione degli apostoli su Gesù

Con la risurrezione di Gesù Cristo e con la Pentecoste ha inizio la


predicazione postpasquale degli apostoli e dei discepoli, e – con essa – la
tradizione su Gesù, anch’essa già con carattere storicamente canonico-
normativo20.
Il metodo della “storia delle forme” ha permesso di recuperare criti-
camente il fenomeno della tradizione e l’ambiente della sua formazione
in rapporto al materiale letterario confluito poi nei vangeli scritti21. Non
solo l’evangelo di Gesù ma anche l’evangelo su Gesù è stato vissuto e
predicato, prima di essere consegnato allo scritto. Le raccolte evangeliche
fissano sostanzialmente una tradizione già esistente che è la tradizione di
Gesù; ma «conservano sempre il carattere di predicazione» (DV 19), e
quindi traducono e interpretano quella tradizione in base alle determi-
nate esigenze dei predicatori e delle loro comunità, come per esempio
la missione, la catechesi, la liturgia, la polemica.
La continuità e lo sviluppo tra le due tradizioni (quella di Gesù e
quella su Gesù) sono fondati sul fatto che «gli apostoli, dopo l’ascen-
sione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto
e fatto, con quella più piena intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli
eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità (cfr. Gv 14,26;
16,13), godevano» (DV 19). Il contenuto della biforme (orale-vitale e
scritta) tradizione su Gesù è qualitativamente il medesimo: la tradizione
si distingue dalla Scrittura, non perché si comporrebbe solo di parole,
ma perché non è scritta. Sul rapporto fra Scrittura e tradizione, come due
forme non materialmente ma formalmente distinte della rivelazione, cfr.
più sotto e il cap. 1422.

3.3. La tradizione della chiesa apostolica

L’evangelo di Gesù e su Gesù non è scindibile dalla tradizione autorita-


tiva che si forma nella chiesa apostolica e ha come contenuto la dottrina,
la vita e il culto della stessa chiesa apostolica. Gli apostoli hanno ricevu-

20
Cfr. T. Citrini, Identità della Bibbia, 31-34.
21
Vedi sotto, cap. 5.
22
Vedi sotto, cap. 14, 2.2.1.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  97

to da Gesù stesso la missione autoritativa, sostenuta dal­­l’influsso dello


Spirito di Gesù risorto e vivente, di dare testimonianza alla parádosis di
Gesù Cristo, di conservarla, spiegarla, applicarla alle nuove situazioni.
L’apostolo Giovanni esprime questa continuità fra la tradizione di
Gesù e la tradizione della chiesa apostolica nei termini di fedeltà a ciò che
era fin dal­­l’inizio (cfr. 1 Gv 2,24; 3,11); e il servizio di “testimonianza”
degli apostoli si rende necessario affinché i credenti mantengano la co-
munione con gli apostoli e, per loro tramite, con il Padre e con il Figlio
suo Gesù Cristo (cfr. 1 Gv 1,1-3).
L’apostolo Paolo si appella alle tradizioni ricevute e tramandate (cfr. 1
Cor 11,23; 15,3). Addirittura, lui che sa di avere ricevuto la sua missione
direttamente da Cristo Gesù (cfr. Gal 1,12) può scrivere ai cristiani di
Corinto: «Cristo parla in me, lui che non è debole ma potente in mezzo
a voi» (2 Cor 13,3), e può dare atto ai Tessalonicesi di «avere accolto
la sua parola non come parola di uomini ma, qual è veramente, come
parola di Dio che opera in voi credenti» (1 Ts 2,13).
Nelle lettere pastorali, al termine parádosis (tradizione) si sostituisce
quello di parathḗkē (deposito affidato). È già stagione di lotta contro i
falsi dottori che appoggiavano la loro dottrina su tradizioni nascoste;
si comprende allora l’opportunità di evitare il termine “tradizione” e la
necessità, da parte dei ministri ordinati mediante l’imposizione delle
mani, di «custodire ciò che ti è stato affidato» (1 Tm 6,20; 2 Tm 1,13s.)
che è la tradizione apostolica. «Essa non può più ricevere elementi ve-
ramente nuovi: la rivelazione è chiusa. Il suo sviluppo nella storia della
chiesa è di altro ordine; non fa che esplicitare le virtualità racchiuse nel
deposito apostolico»23. Soltanto gli apostoli, in qualità di testimoni della
risurrezione del Cristo Gesù, sono soggetti di tradizione in senso stretto;
i loro successori sono stabiliti dagli apostoli al servizio della tradizione
apostolica.

23
P. Grelot, Tradizione, col. 1229s.; cfr. anche P. Iovino, Il deposito della fede e la
sana dottrina, in G. De Virgilio (ed.), Il deposito della fede. Timoteo e Tito, EDB, Bologna
1998, 163-177. La tradizione, nelle lettere pastorali, è una realtà vitale che si esprime
prima di tutto nella liturgia e cresce grazie al­­l’azione dello Spirito e al­­l’insegnamento dei
ministri della comunità.
98 La trasmissione della parola di Dio

4. Tradizione nel­­l’Antico e nel Nuovo Testamento a confronto

Dal confronto fra le due tradizioni, emergono alcune note comuni: una
tradizione viva, biforme (orale-vitale e scritta), con caratteri di stabilità
e di crescita24. Ma ancora più importanti sono le differenze, derivanti
soprattutto dalla diversa pretesa religiosa che le due correnti di tradizioni
avanzano25:
a) Le tradizioni anticotestamentarie vivono della promessa fatta una
volta e degli interventi di Dio già sperimentati, e attendono per il futuro
il vertice storicamente sperimentabile del­­l’intervento divino. La tradi-
zione neotestamentaria, invece, sa che il vertice del­­l’azione di Dio‚ per
cosi dire, è alle sue spalle: il Messia è già venuto, è Gesù Cristo risorto e
Signore, del quale si attende il ritorno glorioso alla fine dei tempi.
b) La tradizione neotestamentaria ha quindi carattere definitivo: sorge
al­­l’inizio del­­l’eone definitivo e implica la pretesa di annunciare in manie-
ra irrevocabile e definitiva la rivelazione di Dio, cosicché ogni annuncio
ulteriore deve scaturire dal­­l’originaria testimonianza divino-apostolica ed
essere in sintonia con quella. Ma possiede anche una singolare efficacia:
la parádosis della nuova alleanza ha la forza di attuare ciò che le sue pa-
role dicono e annunciano, comunica al credente la realtà annunciata nel
messaggio. Ciò accade non in forza di se stessa, ma in virtù del Signore
risorto, che nel suo Spirito Santo continua ad essere presente e operante.
c) La tradizione giudaico-rabbinica è caratterizzata dalla sostituzione
dei profeti con i maestri della Tôrah, che è stata trasmessa a Israele da
Dio stesso. La parádosis del Cristo Gesù continua a essere sostenuta, an-
che dopo la morte degli apostoli, dal­­l’influsso dello Spirito Santo nella
chiesa di Gesù Cristo. La responsabilità ultima della continuazione e
della purezza della parádosis in entrambe le tradizioni non riposa così
nei tradenti umani; nel caso della tradizione cristiana, riposa nel Signore
risorto e nel­­l’altro Paràclito, il suo Spirito Santo (Gv 14,16), nel quale e
mediante il quale si compie anche nel futuro ogni tradizione autentica
(cfr. DV 8).

24
Vedi qui sopra, § 2.
25
Sintetizziamo con le stesse parole di P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo
della rivelazione, 394-400.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  99

5. Le fonti della rivelazione e la Bibbia come “rilettura”

Offriamo qui una più ampia riflessione sul cap. II della Dei Verbum
e, in particolare, sul rapporto tra Scrittura e tradizione e sul concetto di
“rilettura”26. Si tratta di una sintesi orientativa, relativa a questioni che
nelle Facoltà Teologiche vengono di solito affrontate al­­l’interno dei corsi
di Teologia fondamentale.

5.1. “La” o “le” fonti della rivelazione

La tradizione della chiesa è, nella concezione propria del­­l’esegesi cat-


tolica, un concetto irrinunciabile; leggiamo infatti in IBC:

L’esegesi cattolica non cerca di distinguersi usando un metodo scientifico


particolare […]. Ciò che la caratterizza è il suo situarsi consapevolmente
nella tradizione vivente della chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà
alla rivelazione attestata dalla Bibbia27.

Sino al concilio Vaticano II si parlava di Scrittura e di tradizione come


di due fonti distinte della rivelazione; si veda il decreto tridentino sulle
sacre Scritture del­­l’8 aprile 1546 (EB 57), pur se soltanto nella teologia
post-tridentina si svilupperà l’idea di due fonti della rivelazione. In real-
tà, come scrive W. Kasper, per la teologia post-tridentina:

Scrittura e tradizione sono [state] solo remote fonti della fede; la fonte più
diretta e vicina era il magistero della chiesa. Si pensava che nel magistero si
realizzasse il Vangelo e che il magistero garantisse per se stesso e fosse per se
stesso sufficiente. Le sacre Scritture rappresentavano più o meno una cava
di pietra a cui riferirsi per ulteriori prove scritturali28.

26
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 187-225; per DV
7-10, cfr. P.L. Ferrari, La Dei Verbum, Queriniana, Brescia 2005, 63-93.
27
IBC III (EB 1423-1424).
28
Cfr. W. Kasper, Dei Verbum audiens et proclamans, in «Gottes Wort voll Ehrfurcht
hören und voll Zuversicht verkünden». Die Offenbarungskonstitution Dei Verbum, 3 (www.
c-b-f.org/deiverbum/Paper/kasper_d.pdf ); U. Berges, La predica e la lezione. L’interpre-
tazione della Bibbia tra chiesa e università, EDB, Bologna 2014, 25-29, che osserva come
il Catechismo della chiesa cattolica del 1992 non sfugga a questo limite.
100 La trasmissione della parola di Dio

Soltanto a partire da DV 7-10 si è fatta strada l’idea di un’unica ri-


velazione e dunque di Scrittura e tradizione come di un’unica realtà;
già l’abbandono dello schema de fontibus revelationis segnò la fine del­­
l’impostazione della dottrina delle due fonti. Resta tuttavia un duplice
rischio: quello di considerare la Scrittura come superiore alla tradizione,
e dunque giungere a una sorta di idolatria del libro, ma anche quello di
subordinare la Scrittura alla tradizione, che diverrebbe così una realtà
autoreferenziale e chiusa in se stessa. IBC parla di una «tradizione viven-
te» (cfr. DV 12: «tradizione viva»), dunque una tradizione in cui l’oralità
è in relazione con la parola scritta (cfr. sopra, in relazione al concetto
ebraico di tradizione), e di una tradizione caratterizzata dalla fedeltà alla
Scrittura stessa. Il concetto di «tradizione vivente» (cfr. Il dinamismo
della Tradizione di L. Alonso Schökel più volte ricordato, e le opere di
Y. Congar del quale il concilio è certamente debitore) costituisce uno
dei guadagni più rilevanti di DV II.
La novità di DV II è evidente in modo particolare in DV 9:

La sacra tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte


e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sor-
gente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine.

La Dei Verbum ha avuto il merito di aprire una strada nuova, nella


quale Scrittura e tradizione non possono più essere considerate come
realtà separate. Anzi, costituiscono «un solo sacro deposito» (DV 10).
«Di conseguenza, anziché parlare di subordinazione della tradizione alla
Scrittura o viceversa, si dovrebbe piuttosto arrivare a formulare per que-
ste due realtà una sorta di legge della complementarietà: l’una richiama
l’altra perché l’una ha bisogno del­­l’altra»29. Da questo punto di vista, la
stessa Scrittura è già in se stessa un fatto della tradizione.
Nonostante le sue significative aperture, DV II manifesta ancora qual-
che limite; la conclusione di DV 9 rivela ancora un certo conservatori-
smo («… ne risulta così che la chiesa attinge la certezza su tutte le cose
rivelate non dalla sola Scrittura…») che dimostra come l’impostazione

29
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 205; cfr. anche p. 206. Su
DV 7-10 cfr. anche P.L. Ferrari, La Dei Verbum, 63-97; una breve storia di DV 7-9 è in
R. Saccenti, «L’unico sacro deposito della Parola di Dio». Storia del capitolo secondo della
Dei Verbum, in PdV 60 (2015) 6-10; cfr. anche L. Mazzinghi, Bibbia e tradizione vivente
della Chiesa: un nuovo rapporto (Dei Verbum 7-9), in PdV 60 (2015) 29-35.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  101

delle «due fonti» non sia stata ancora del tutto superata; d’altra parte
DV II non definisce mai con sufficiente chiarezza che cosa intenda per
“tradizione” né propone alcun criterio ermeneutico per il discernimento
critico di ciò che è davvero “tradizione”, al contrario di quanto si pro-
pone in DV 12 per l’ermeneutica della Scrittura.

Purtroppo il concilio ha mancato di chiarire in modo approfondito la fun-


zione critica della parola di Dio […]. Nel testo del concilio, mancano, di
fatto, criteri concreti attraverso i quali si possa differenziare quando nella
chiesa viene ascoltata la parola di Dio, una parola semplicemente umana o,
in alcune circostanze, una parola addirittura contraria a Dio30.

Inoltre, per quanto riguarda il rapporto tra Scrittura, magistero e


tradizione, pur riconoscendo che il magistero è al servizio della parola
di Dio (cfr. DV 10), non si arriva a considerarlo come ad essa sottoposto
(cfr. sopra). E tuttavia, DV II pone l’accento sul­­l’aspetto ecclesiale della
tradizione, intesa come trasmissione della fede (cfr. DV 8: «…e così
la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e
trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa
crede»). Quanto al magistero, esso si situa al­­l’interno della chiesa e non
sopra di essa, al servizio della parola di Dio e della tradizione, animato
dallo Spirito. Con la Parola e la tradizione, il magistero costituisce una
unità vitale, al servizio della salvezza degli uomini31.

5.2. La Bibbia come “rilettura”32

La Scrittura mostra il suo profondo rapporto con la tradizione già


nel fatto di essere capace di rileggere e interpretare se stessa (vale qui il
vecchio assioma Scriptura sui ipsius interpres). Prima di tutto perché la

30
Cfr. W. Kasper, Dei Verbum audiens et proclamans, 8. Su questo aspetto, cfr. P.L.
Ferrari, La Dei Verbum, 95-97.
31
Su questa nuova visione del magistero in DV 10 si veda la buona sintesi di S. Noce-
ti, Il Magistero vivo (DV 10). L’interpretazione autentica della Parola di Dio e la vita della
chiesa, in PdV 60 (2/2015) 36-41.
32
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 206-215 (con ampia
bibliografia). Cfr. anche il numero 43 (2001) di Parola Spirito e Vita dedicato a: «La
Scrittura secondo le Scritture», con diversi contributi significativi, seppure di taglio più
divulgativo.
102 La trasmissione della parola di Dio

Scrittura si sviluppa a partire da una tradizione orale che il testo scritto


configura, rilegge, interpreta e, alla fine, consacra in una determinata
forma. Ma c’è di più: si riconosce oggi che la Bibbia è frutto di riletture,
ovvero di scritti che reinterpretano scritti precedenti, un fenomeno al
quale si è dato il nome di “intertestualità”, studiato con una metodologia
esegetica che ha preso il nome di «esegesi intra-biblica» («Inner-biblical
exegesis»)33.

Ciò che contribuisce a dare alla Bibbia la sua unità interna, unica nel suo
genere, è il fatto che gli scritti biblici posteriori si basano spesso sugli scritti
anteriori. Fanno allusione ad essi, ne propongono delle “riletture” che svi-
luppano nuovi aspetti di significato talvolta molto diversi dal senso primitivo
o ancora vi si riferiscono esplicitamente o per approfondirne il significato o
per affermarne il compimento34.

Un ottimo esempio, tratto dal­­l’Antico Testamento, è il libro della


Sapienza, che, alle soglie del­­l’era cristiana, rilegge nel contesto del giu-
daismo di Alessandria d’Egitto l’intera tradizione esodica; si veda in
particolare Sap 10–19, dove i testi esodici vengono riletti, alla luce anche
di altri testi biblici, nel contesto culturale ellenizzato proprio del­­l’autore
del libro. Ma già i testi di Is 40–55, nel contesto del ritorno dal­­l’esilio
babilonese, reinterpretavano le più antiche tradizioni esodiche. Agli inizi
del II secolo a.C., il libro di Ben Sira, specialmente nell’elogio dei padri
(Sir 44–50), rileggeva e reinterpretava una vasta gamma di testi biblici
già esistenti35. Il fenomeno è frequentissimo; si pensi al libro di Daniele
che reinterpreta le profezie di Geremia in un contesto del tutto nuovo
(cfr. Dan 9,2). Il Nuovo Testamento, da parte sua, non è neppure con-
cepibile se staccato dai testi del­­l’Antico che continuamente rilegge e
reinterpreta. Come si legge in IBC:

33
Uno studio pionieristico è stato quello di M. Fishbane, Biblical Interpretation in
Ancient Israel, Oxford 1985. Cfr. anche D. Marguerat – A. Curtis (edd.), La Bible en
échos, Génève 2000; un buon punto della situazione è poi in P. Grech, La reinterpreta-
zione intra-biblica e l’ermeneutica moderna, in Studia Patavina 49 (2002) 641-662 (= Id.,
Il messaggio biblico e la sua interpretazione, 89-108).
34
IBC III.A.1 (EB 1428).
35
Sul libro della Sapienza si veda M. Gilbert, Wisdom of Solomon and Scripture, in
M. Sæbø (ed.), Hebrew Bible / Old Testament, The History of Its Interpretation, I: From the
Beginnings to the Middle Ages (Until 1300), Göttingen 2000, 606-617 (adesso in Id., La
Sagesse de Salomon, PIB, Roma 2011, 45-64). Su Ben Sira, cfr. J. Corley – W. Skemp
(edd.), Intertextual Studies in Ben Sira and Tobit, CBQ Mon. Ser. 38, Washington 2005.
La tradizione nel tempo del­­l’Antico e del Nuovo Testamento  103

I rapporti intertestuali acquistano una densità estrema negli scritti del Nuovo
Testamento pieni di allusioni all'Antico Testamento e di citazioni esplicite.
Gli autori del Nuovo Testamento riconoscono al­­l’Antico Testamento valore
di rivelazione divina. Essi proclamano che questa rivelazione ha trovato il
suo compimento nella vita, nel­­l’insegnamento e soprattutto nella morte e
risurrezione di Gesù36.

Vista nel­­l’ottica della “rilettura”, la Bibbia appare come un testo che


non solo reinterpreta e codifica la tradizione orale, ma anche la stessa
tradizione scritta attraverso allusioni a testi precedenti o vere e proprie
citazioni, come spesso avviene nel Nuovo Testamento. Parlare di “rilet-
tura” richiede tuttavia anche la consapevolezza che non sempre il nuovo
testo supera, migliora o addirittura abolisce il precedente; «quello che
invece la Bibbia insegna è piuttosto il rapporto, o meglio la reciproca
illuminazione che vi è tra le varie Scritture»37. Così, per limitarci a un
esempio tratto dal­­l’Antico Testamento, sia la tradizione profetica che
quella sapienziale presuppongono, rileggono e reinterpretano spesso i
testi della Tôrah, senza mai tuttavia sostituirsi ad essi, così che la Tôrah
mosaica resta comunque un testo fondante.
Non solo dunque la Bibbia rilegge, ma anche "riscrive" se stessa; il
concetto di "riscrittura" sta in modo particolare alla base del lavoro di P.
Beauchamp, pur se egli usa il poco felice neologismo di "deuterosi", in
riferimento al rotolo biblico che veniva riavvolto dopo la lettura sinago-
gale; si tratta «della legge fondamentale dell'insieme della composizione
scritturistica»38.

36
IBC III.A.2 (EB 1433).
37
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 213.
38
Cfr. P. Bovati, Deuterosi e compimento, in Teologia 1 (2002) 20-34; R. Vignolo,
Leggere Beauchamp – Leggere con Beauchamp, ibid., 3-10.
5.
La Bibbia è la memoria scritta
del popolo di Dio

Bibliografia: Vedi, nella Bibliografia generale, la sezione dedicata a Introduzioni ai libri


del­­l’AT e del NT.

Abbiamo già visto nel capitolo precedente che la tradizione religio-


sa vive nel­­l’intreccio di due forme, complementari tra loro: tradizione
orale-vitale e tradizione scritta. È di questa seconda forma privilegiata
o «speciale» (DV 8) della tradizione biblica che vogliamo parlare ora.
Un popolo non comincia la sua storia scrivendo libri. Prima si vive, poi si
scrive per ricordare quello che si è vissuto e offrirlo come lezione di vita alle
future generazioni. I libri sono la memoria privilegiata dei popoli. Anche
il popolo di Dio ha fissato la sua storia e la sua esperienza in una memoria
scritta: la Bibbia. Giudei e cristiani aprono quei libri per leggervi e ascol-
tarvi quella parola di Dio che ha scosso alle fondamenta la storia umana,
imprimendole una direzione irreversibile e un significato definitivo. La
parola di Dio si trova, in quelle pagine tanto umane, rivelata e a un tempo
nascosta. La rivelazione divina, per i credenti, sta alla sacra Scrittura come
la realtà-evento sta alla notizia che ce la rende nota.
La Bibbia, però, non è un libro caduto dal cielo. Lo pensano i musulmani
del loro libro sacro, il Corano, dettato a Muh.ammad dal primo al­­l’ultimo
capitolo da parte di un angelo, il quale non fa che attenersi a un celeste ar-
chetipo scritto che porta il nome di «Tavola custodita»1. I giudei e i cristiani
pensano diversamente il loro libro sacro. La Bibbia non è stata dettata da

1
Cfr. Corano, sûra III, 6-7: «Non v’è dio al­­l’infuori di Lui, l’Eccelso, il saggio. È Lui
che ha fatto scendere il Libro su di te»: Il Corano, a cura di H.R. Picardo, Al Hikma,
Imperia 1994, 66.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  105

alcun angelo, ma fu scritta da varie decine di autori, uomini veri, alcuni


noti e i più sconosciuti, nel­­l’arco di più di dieci secoli. Tanti e così diversi
autori ebbero in comune la preoccupazione di raccontare e testimoniare
le gesta millenarie del loro popolo, che Dio aveva scelto come suo popolo.
Tuttavia, la storia della formazione letteraria dei libri del­­l’AT e del
NT non è impresa agevole. Gli ambienti, gli autori, le epoche dei libri
fanno spesso problema; accanto a conclusioni critiche certe, talvolta ci
si può affidare soltanto a soluzioni probabili o possibili. Il bilancio della
critica letteraria al quale facciamo riferimento in questa sintesi appare
oggi sostanzialmente attendibile, pur se sempre soggetto ad ulteriori
approfondimenti. I successivi corsi di sacra Scrittura preciseranno allo
studente i dati letterari qui appena accennati; soprattutto affronteranno
i problemi di critica storica posti dalle tradizioni sui patriarchi o sul­­
l’esodo di Mosè2, dai quali prescindiamo. Lo scopo di questo capitolo è
dimostrare l’intima connessione tra il divenire di una storia, il progresso
della sua comprensione e il farsi di una memoria, prima orale-vitale e
poi scritta. Esso fa anche intravedere, dal punto di vista storico, cioè
al­­l’interno della tradizione di Israele e della chiesa apostolica, la forma-
zione progressiva del canone dei libri sacri3. Il “genere letterario” del
presente capitolo è narrativo: esso vuol raccontare a grandi linee la storia
della salvezza nel suo divenire memoria scritta nella Bibbia.

1. Come si è formato l’Antico Testamento4

1.1. Dalle forme letterarie al testo

Nei diversi libri del­­l’Antico Testamento sono riflesse forme espres-


sive, orali o scritte, caratteristiche dei più diversi ambienti vitali del

2
Cfr. J. Bright, A History of Israel, SCM, London 19863, 74-78; R. de Vaux, Histoire
ancienne d’Israël. Des origines à l’installation en Canaan I, Gabalda, Paris 1971, 155-440;
per un approccio più divulgativo, cfr. L. Mazzinghi, Storia di Israele. Dalle origini al­­
l’epoca romana, EDB, Bologna 2007, capitolo I. Per la critica storica applicata ai Vangeli,
vedi sotto, cap. 19, 1.2c e 2.1.
3
Vedi sopra, cap. 4, e sotto, capp. 8, 12, 13 e 14.
4
Riprendiamo qui quanto già scritto in L. Mazzinghi, Introduzione al­­l’Antico Te-
stamento, in F. Dalla Vecchia – A. Pitta (edd.), La Bibbia, Piemme, Casale M. 1995,
106 La trasmissione della parola di Dio

popolo d’Israele: la famiglia, il culto, la prassi giuridica, l’ambito delle


istituzioni civili e della monarchia, la profezia… Tutto ciò non ci dice
ancora, tuttavia, come si sia giunti al­­l’Antico Testamento quale noi oggi
lo leggiamo. Anche il ricorso alla tradizione orale sembra oggi evidente;
da questa tradizione, infatti, nascono moltissimi testi biblici; ma resta
molto difficile provare l’esistenza e la consistenza di una tale tradizione, e
il suo impatto sui testi che effettivamente abbiamo. Il lettore della Bibbia
deve sempre poi ricordare che l’aver scoperto la ricchezza e la varietà delle
forme espressive contenute nei libri biblici non significa aver esaurito la
comprensione di quello o quel­­l’altro testo. Si può facilmente dimostrare,
infatti, come ogni autore biblico si serva delle diverse tradizioni e forme
letterarie a sua disposizione per produrre qualcosa di nuovo, con un in-
tento che è spesso primariamente teologico. Ciò è evidente, per esempio,
nel caso dei racconti patriarcali (Gen 12–50); chi ci ha offerto il testo
così come noi oggi lo leggiamo non si limita a mettere insieme le diverse
narrazioni a sua disposizione relative ad Abramo, Isacco e Giacobbe, ma
le rilegge in un preciso quadro teologico, riproponendole al­­l’Israele del
post-esilio come un messaggio che riguarda le radici stesse del popolo.
Così, chi ha composto 1 e 2 Sam e 1 e 2 Re riprende le forme letterarie
tipiche degli annali di corte e le rielabora al­­l’interno di una visione teo-
logica relativa alla storia di Israele. Anche i testi profetici, messi spesso
in forma scritta dopo la morte del profeta cui si riferiscono, subiscono
rielaborazioni e ampliamenti in seguito al­­l’inserimento in contesti vitali
differenti da quelli presupposti dal messaggio originale del profeta. In
questo modo, la storia della formazione dei testi del­­l’Antico Testamen-
to è anche la storia della continua rilettura e del costante adattamento
del messaggio divino a nuove situazioni storiche (cfr. anche sopra, pp.
101s.).

19-51.3178-3189. Cfr. anche M. Priotto, Disegno storico della letteratura ebraica, in R.


Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia (Logos. Corso di studi biblici 1), ElleDiCi,
Leumann 20062, 259-280. Per una panoramica della storia di Israele, cfr. L. Mazzinghi,
Storia di Israele. Ricordiamo, di passaggio, che parliamo di “Antico Testamento”, con una
certa semplificazione, quale è inteso nel concetto che ne ha la chiesa cattolica (cfr. oltre
circa le questioni sul canone).
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  107

1.2. La storia della formazione del Pentateuco:


un caso emblematico

Fin dal XVII secolo gli studiosi della Bibbia avevano chiaro il fatto
che, nonostante una tradizione secolare in merito, il Pentateuco non
poteva essere attribuito al­­l’opera scrittoria di Mosè. Nella Chiesa catto-
lica, i decreti pubblicati dalla Pontificia Commissione Biblica nel 1906
ancora impedivano agli esegeti cattolici di assumere una tale posizione
critica. Sin dalla fine del XIX secolo, l’origine dei testi del Pentateuco
trovò una spiegazione ritenuta soddisfacente in quella che è nota come
la teoria documentaria, legata al nome di J. Wellhausen5.
L’impostazione classica della teoria documentaria presuppone l’e-
sistenza di una prima opera scritta, relativa alla storia di Israele, dal-
le origini del mondo sino al cammino nel deserto. Tale opera venne
convenzionalmente chiamata “Yahwista” (spesso indicata con la lettera
J), dal­­l’uso del nome sacro Yhwh fatto in questi testi, e generalmente
datata in epoca salomonica (metà del X secolo a.C.). Si tratterebbe del
primo nucleo scritto del futuro Pentateuco, che si riflette in passi ce-
lebri come Gen 2–3.4; 11,1-9 ecc. Poco più tardi, nel regno del Nord,
si sarebbe sviluppata una seconda opera, la cosiddetta fonte “Elohista”
(E), così chiamata dal termine ebraico ’ elōhîm, “Dio”. Dopo il crollo
del regno del Nord (721 a.C.) le due fonti sarebbero state fuse insieme
da un redattore (RJE). Al­­l’epoca della riforma religiosa operata dal re
Giosia (622 a.C.) troviamo invece la cosiddetta fonte deuteronomista
(D), mentre, al­­l’epoca del­­l’esilio babilonese (586-531 a.C.), una quar-
ta ed ultima fonte, definita “sacerdotale” (P, dal tedesco Priestercodex);
un quarto autore compone dunque una nuova narrazione della storia
di Israele. Dal­­l’unione delle quattro fonti così descritte sarebbe nato il
Pentateuco nella sua forma attuale, ad opera di un redattore da collocarsi
più o meno al­­l’epoca di Esdra (intorno al 400 a.C. circa).
La teoria documentaria, ritenuta sino agli inizi degli anni Settanta
del secolo scorso il cardine di ogni spiegazione relativa alla nascita del
Pentateuco, è oggi in grave crisi; la storia della formazione dei testi del

5
Nella mole di studi pubblicati intorno alla questione della nascita del Pentateuco
rinviamo qui soltanto a un manuale recente, nel quale il lettore può trovare un’ottima e
aggiornata introduzione: G. Galvagno – F. Giuntoli, Dai frammenti alla storia. Intro-
duzione al Pentateuco, ElleDiCi, Leumann 2013.
108 La trasmissione della parola di Dio

Pentateuco è infatti ben più complessa di quanto si era immaginato. In


particolare, la suddivisione del Pentateuco in quattro fonti datate con
tale precisione non sembra più così sicura. Mentre sembra definitiva-
mente tramontata l’ipotesi di una fonte E, la fonte J – per chi l’accetta –
viene spostata più avanti nel tempo, sino al­­l’epoca immediatamente pre-
cedente l’esilio. L’idea stessa di “fonte” è stata poi messa in discussione,
a vantaggio del concetto di “redazione”.
Alcuni punti fermi, tuttavia, possono essere offerti, in un quadro oggi
in piena evoluzione. L’attenzione si sposta sempre più sulla redazione
cosiddetta deuteronomista, il cui sviluppo potrebbe essere databile al­­
l’epoca di Giosia, ma senz’altro da vedersi completata in epoca esilica.
Questa redazione, nata come supporto a un tentativo di forte riforma
religiosa (legata alla figura del re Giosia) e come risposta a un grave mo-
mento di crisi (quello rappresentato dal­­l’esilio), ha dato origine a quei
libri che sono oggi il Deuteronomio, e con esso Giousè, Giudici, 1-2 Sa-
muele, 1-2 Re; d’altra parte, la redazione deuteronomista ha influenzato
anche molti altri testi del Pentateuco.
L’altro polo di interesse è rappresentato dalla redazione sacerdotale,
che caratterizza l’epoca del­­l’esilio e del­­l’immediato ritorno in patria; i
testi sacerdotali riprendono tradizioni antiche che rielaborano teologica-
mente per riferirle alla nuova situazione del­­l’Israele in esilio. L’opera deu-
teronomista è maggiormente centrata sul­­l’idea del “patto” o “alleanza”
tra Dio e Israele, un patto che richiede da parte del popolo l’osservanza
della legge che regola il patto stesso. L’opera sacerdotale, invece, mette
in rilievo il valore della promessa divina, sganciata da ogni condizione,
e il valore del culto, come via per la comunione con Dio. Il Pentateuco
attuale nasce come sintesi di queste due diverse prospettive teologiche.
Non è tuttavia ancora del tutto chiaro quando e come, tra il V e il IV
secolo a.C., il Pentateuco abbia assunto la sua forma attuale; ciò avvenne
comunque in un’epoca in cui la Tôrah mosaica acquistò un’importanza
tale da far sì che i primi cinque libri della Bibbia – che si chiudono in
Dt 34 non con l’ingresso in Canaan ma con la morte di Mosè – fossero
separati dagli altri e considerati un’opera a sé; questo fatto ci rinvia al
più vasto problema del canone del­­l’AT (vedi oltre).
Quando detto sopra sottolinea l’importanza che ha questo tipo di
problematica, apparentemente solo di carattere storico-letterario, in re-
lazione al­­l’interpretazione dei testi del Pentateuco: se l’epoca di compo-
sizione principale del Pentateuco si colloca infatti tra il VII e il IV secolo
a.C. è evidente che le narrazioni di eventi lontani, quali i patriarchi o
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  109

l’esodo (collocati tradizionalmente nel XVIII e nel XII secolo a.C.) non
corrispondono ai nostri criteri di storicità; la prospettiva di questi testi
è dunque primariamente teologica (com’è evidente nel racconto delle
origini, in Gen 1–11) e la storia che in essi è contenuta è piuttosto storia
interpretata, alla luce della fede nel Dio di Israele.

1.3. La composizione del­­l’Antico Testamento


e la storia di Israele

a) L’epoca monarchica (X-VI secolo a.C. circa)

La storia della formazione del Pentateuco ha messo in luce come


nessuno dei primi cinque libri della Bibbia abbia avuto origine prima
del regno salomonico. Ciò vale anche per gli altri libri del­­l’Antico Testa-
mento: benché le tradizioni che li compongono possano essere, in diversi
casi, anteriori alla monarchia, come pure le forme espressive usate dagli
autori, è soltanto con l’avvento del regno, a partire dal X secolo a.C., che
si iniziano a scrivere i primi testi che finiranno nel canone biblico, anche
se il raggio dei testi scritti in tutta l’epoca monarchica non sembra molto
ampio. Solo alcuni testi isolati potrebbero vantare un’antichità maggiore:
si potrebbe pensare, per esempio, a Es 15 (il canto del mare), oppure a
Gdc 5 (il canto di Debora). Già in epoca salomonica potrebbero essere
nate alcune raccolte confluite poi nel libro dei Proverbi, o alcuni singoli
salmi (per esempio il Sal 110).
Nel regno del Nord, sino al momento del suo crollo ad opera degli
Assiri (721 a.C.), si collocano, verso l’VIII secolo, i due primi profeti
scrittori, Amos e Osea, seguiti, poco più tardi, nel regno del Sud, da
Isaia, Michea, Sofonia, Naum, e, negli anni di poco precedenti al­­l’esilio
babilonese, Geremia e Abacuc; entrambi vedono l’inizio del­­l’esilio6. Nel
corso del VII secolo, intorno alla riforma di Giosia (622 a.C. circa),
nasce probabilmente la prima stesura del­­l’opera deuteronomista (cfr.
sopra).

6
Per una storia della composizione del corpus profetico si può far riferimento a J.
Blenkinsopp, Storia della profezia in Israele, Queriniana, Brescia 1997.
110 La trasmissione della parola di Dio

b) L’epoca del­­l’esilio babilonese (597/586-531 a.C.)

L’esilio segna per Israele un momento di grande crisi che si ripercuo-


terà prima di tutto sul piano teologico. Il popolo di Israele è costretto
a ripensare la visione della propria storia, nel tentativo di comprendere
la tragedia in cui è piombato. Nascono così la redazione “sacerdotale”
del Pentateuco (P) e, probabilmente, anche la definitiva stesura della
cosiddetta “storia deuteronomista”, due diversi tentativi di rileggere
il proprio passato, remoto e recente, alla luce della fede nel Dio di
Israele (vedi sopra).
Durante l’esilio si colloca poi l’attività di due grandi profeti, Ezechiele,
prima di tutto; la sua opera si apre con la visione della gloria di Dio che
abbandona Gerusalemme, ma si chiude con la visione del ritorno del
Signore nel tempio posto all’interno di una città santa ideale (Ez 40–48).
Abbiamo poi il cosiddetto Deuteroisaia, l’anonimo autore di Is 40–55,
noto come il libro della consolazione, scritto per gli Israeliti in esilio a
Babilonia, poco dopo l’avvento del re Ciro che, conquistando Babilonia,
aprirà le porte al ritorno degli Israeliti in patria.
Ancora in epoca esilica possiamo collocare la redazione di alcuni Sal-
mi e del libretto delle Lamentazioni, che si riferisce alla distruzione di
Gerusalemme.

c) L’epoca persiana (531-333 a.C.)

I primi anni dopo il ritorno in patria, che Israele vive sotto il dominio
persiano, sono segnati dalla presenza delle ultime voci profetiche: Aggeo
e Zaccaria (la prima parte del libro: Zc 1–8), che operano nel­­l’immediato
periodo del ritorno e segnano, con la loro opera, la ricostruzione del
tempio già distrutto dai Babilonesi. Nei primi anni del ritorno possiamo
collocare anche i capitoli finali di Isaia (= Is 56–66) e, forse, il piccolo
libretto di Abdia.
Tra il V e il IV secolo, al­­l’epoca di Neemia e di Esdra, nasce la reda-
zione finale del Pentateuco. Probabilmente verso la fine del IV secolo
ha origine poi l’opera detta del Cronista (1 e 2 Cronache) che rilegge la
storia di Israele, riprendendo in una chiave diversa la già esistente opera
deuteronomista e presupponendo l’esistenza del Pentateuco nella sua
forma attuale. I libri canonici di Esdra e Neemia risentono dello stesso
ambiente storico.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  111

Nel periodo persiano giungono a compimento le prime importan-


ti opere della letteratura sapienziale, in un momento in cui Israele ha
iniziato ormai ad aprirsi al mondo circostante; ricordiamo la redazione
finale del libro dei Proverbi e, in particolare, il libro di Giobbe7. Anche
molti Salmi possono essere datati in questo periodo.

d) L
 ’epoca ellenistica e romana
(dal 333 a.C. sino agli inizi del­­l’era cristiana)

A partire dalla conquista di Alessandro Magno, da collocarsi per quan-


to riguarda la Giudea attorno al 333-332 a.C., anche Israele deve iniziare
a confrontarsi con la cultura greca: il periodo del­­l’ellenismo diviene così
un’ulteriore, feconda occasione, di crescita culturale e teologica.
Intorno al III secolo si colloca il libro del Qoèlet, nella scia della tra-
dizione sapienziale antica e, allo stesso tempo, un primo confronto tra
Israele e il mondo greco. Della stessa epoca sembra essere il celebre poe-
ma d’amore del Cantico dei Cantici, che si propone così come risposta
ebraica alla visione greca del­­l’amore.
A lato della letteratura sapienziale si collocano altresì, nel periodo
ellenistico, le narrazioni a sfondo teologico e morale contenute nei libri
di Rut, Giona, Ester, Tobia, Giuditta (questi ultimi due libri giunti sino
a noi soltanto in greco).
Poco prima del­­l’epoca maccabaica, verso il 180 a.C., si colloca il libro
del Siracide, erede diretto della tradizione sapienziale di Israele, un testo
che nel 132 a.C., ad Alessandria d’Egitto, verrà tradotto in greco dal
nipote, nella lingua in cui è giunto integro sino a noi.
Le ultime voci dei profeti comprendono il libro di Malachia, che chiu-
de la raccolta dei cosiddetti dodici profeti minori. Il libro di Gioele e la
seconda parte di Zaccaria (Zc 9–14) ci proiettano già verso la letteratura
apocalittica, che riceverà un impulso decisivo dalla crisi causata dalla
lotta con Antioco IV, a partire dal 164 a.C. Dopo questa data e quindi
dopo la rivolta maccabaica va collocato il libro di Daniele. Interesse del­­
l’apocalittica è il problema del male, che questa tradizione risolve spesso
in chiave dualistica e deterministica; Gioele, Zaccaria e Daniele (come

7
Sulla letteratura sapienziale e la sua storia, cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco sapienziale.
Proverbi, Giobbe, Qohelet, Siracide, Sapienza, EDB, Bologna 2012.
112 La trasmissione della parola di Dio

altri frammenti apocalittici sparsi nel corpus profetico) sfiorano soltanto


questo mondo, che si esprime soprattutto nella tradizione che porterà
alla nascita del cosiddetto Libro di Enoch8.
Al termine del periodo maccabaico, verso la fine del II e l’inizio del I
secolo a.C. viene composto, probabilmente in greco, il libro di Baruc.
I due libri dei Maccabei, opera di due diversi autori, narrano anch’essi,
in greco, la storia della rivolta maccabaica e l’inizio della dinastia degli
Asmonei. È in questo periodo che il libro dei Salmi riceve la sua forma
definitiva, forse nella diaspora; studi recenti hanno dimostrato come al
cuore del libro dei Salmi, se letto nella sua forma attuale, vi siano i temi
della Tôrah e del Messia, cardini della fede di un Israele povero e esiliato,
che viveva lontano dalla sua terra e dal tempio di Gerusalemme.
Al termine di questo cammino, ricordiamo, alle soglie ormai del Nuo-
vo Testamento, il libro della Sapienza, composto ad Alessandria d’Egitto
da un giudeo ellenizzato durante l’impero di Ottaviano Augusto (30 a.C.
- 14 d.C.), direttamente in greco. Nel libro della Sapienza si incontrano,
in una prima e geniale sintesi teologica, la fede espressa nelle Scritture
d’Israele, la tradizione che nel mondo giudaico stava già sviluppandosi a
lato delle Scritture, e le istanze culturali del mondo ellenistico, nel quale
il saggio autore del libro si trova a vivere.

2. Come si è formato il Nuovo Testamento

Dopo lungo silenzio, finalmente «la parola di Dio venne su Giovanni,


figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,2). Giovanni Battista è l’ultimo
profeta del­­l’AT, mandato da Dio «a preparare la via del Signore» (Lc
3,3-6), a «rendere testimonianza alla parola di Dio che si era fatta carne»
in Gesù di Nazaret (Gv 1,6-8.15.19-34). Siamo al­­l’incirca negli anni
28-30 del­­l’era cristiana.

8
Sulla storia, soprattutto letteraria, del giudaismo in questo periodo storico, cfr. G.
Boccaccini, I giudaismi del Secondo Tempio. Da Ezechiele a Daniele, Morcelliana, Brescia
2008.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  113

2.1. Gesù di Nazaret

Il nuovo rabbî di Nazaret, ricevuto il battesimo per le mani di Gio-


vanni, dà inizio al suo ministero di Messia salvatore. Agisce e parla. Le
sue parole e i miracoli che compie impressionano le folle e i capi dei
giudei: agisce e parla con un’autorità mai conosciuta in un profeta (cfr.
Mc 1,22.27; 2,12). Perdona tutti i peccatori, senza distinzione. E pone
alla gente le più gravi questioni che riguardano il rapporto con Dio e
con i fratelli. Apre il cuore dei discepoli, da lui chiamati a seguirlo, alla
novità della sua persona e impegna la loro vita per la costruzione del
regno di Dio.
Aveva esordito dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è
vicino; convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15). Il regno di Dio è
due cose insieme: la presenza di Dio come azione salvifica nella storia
presente (sovranità di Dio), ma anche lo stato finale-escatologico che
porrà fine al vecchio mondo, dominato dal peccato e dalla morte, e
inaugurerà il mondo nuovo della risurrezione universale, anche cosmica
(regno di Dio). La sovranità di Dio è per il presente, convoca e impegna
nel presente; se accolta mediante la fede, libera dal male e libera per il
bene. Il regno di Dio (giudizio finale, parusía del Signore, nuova crea-
zione) è per il futuro, è ad-ventus. Non c’è tuttavia totale discontinuità:
quello che nel mondo futuro sarà pienamente visibile e trasparente, è
già al­­l’opera quaggiù, nascostamente.
Gesù di Nazaret non si limita a raccontare le parabole del regno. La
sua persona e la sua vita costituiscono da sole una sconvolgente parabola
del regno: «Ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21). La sua
vita è subito e coerentemente marcata dal­­l’effetto d’urto, come si vede
in Mc 2,1–3,6. Sono cinque storie conturbanti, che costringono i testi-
moni presenti a prendere posizione: il perdono dei peccati al paralitico,
il pranzo con i pubblicani e i peccatori, la difesa dei discepoli che non
digiunano e che colgono spighe durante il riposo sabbatico, una gua-
rigione in giorno di sabato. La conclusione delle cinque storie anticipa
quella che sarà la fine: «E i farisei uscirono subito con gli erodiani e
tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Soprattutto di
lui, il Profeta, il mondo non era degno (cfr. Eb 11,38). La fede cristiana è
anche adesione non facile al­­l’imprevedibile, scandaloso (per gli umani!)
modo di inaugurare il regno da parte di Gesù.
Gesù doveva morire, rifiutato dai capi del popolo e appeso ad una
croce, come egli stesso aveva annunciato (cfr. Mc 8,31-33; 9,30-32).
114 La trasmissione della parola di Dio

Aveva aggiunto, nondimeno, che «dopo tre giorni sarebbe risuscitato


dai morti». La sua risurrezione conferma definitivamente agli occhi dei
discepoli la verità delle parole di Gesù e del­­l’intera sua missione, quale
inviato da Dio e Messia d’Israele, quale Signore vivente. I discepoli,
rinfrancati dalle apparizioni di Gesù risorto e illuminati dal suo Spirito
nella Pentecoste, proclamano ora con scoperta franchezza la loro fede:
Gesù non è soltanto il Cristo, cioè il Messia, ma il Signore e Salvatore
unico, il Figlio di Dio fatto uomo.
Molti fra i giudei credono in Gesù Cristo e la chiesa si sviluppa rapi-
damente; ma i più rifiutano Gesù e la chiesa nascente. L’apostolo Paolo,
lui pure israelita, chiamato da Cristo a portare il vangelo oltre i confini
di Israele nei centri più importanti del mondo greco-romano, al rifiuto
di Israele dà il nome di «mistero» (Rm 11,25): anch’esso, dunque, mi-
sterioso divino progetto di universale salvezza.

2.2. La predicazione degli apostoli e gli scritti di Paolo

La predicazione degli apostoli fu al­­l’inizio soltanto orale9. Le sacre


Scritture per gli apostoli e per i cristiani, come per Gesù, erano al­­l’inizio
le stesse di Israele, cioè quello che noi chiamiamo Antico Testamento.
L’organo di trasmissione del messaggio cristiano fu la chiesa, strutturata
attorno ai dodici apostoli e a Pietro loro capo, unitamente alla sua viva
tradizione: esempi di vita, culto e istituzioni.
Tuttavia i primi scritti cristiani non tardarono molto ad apparire, quali
testimoni e strumenti di quella viva tradizione. I primi testi sono del­­
l’apostolo Paolo, il quale indirizza diverse lettere alle comunità da lui
fondate o con le quali intende stabilire una comunione. Tra gli anni 30
e 60 scrive la Prima e (forse) la Seconda lettera ai Tessalonicesi, la Prima
e la Seconda lettera ai Corinzi, la Lettera ai Filippesi (altri la pongono tra
le cosiddette lettere della prigionia), quella ai Galati e quella ai Roma-
ni. Dal 61 al 63, mentre è prigioniero a Roma, Paolo redige le “lettere
della prigionia”: quella ai Colossesi, quella agli Efesini, quella a Filemo-
ne10. Un’ultima serie di lettere ha come destinatari persone singole, cioè

9
Vedi sopra, cap. 4.
10
L’autenticità paolina delle lettere agli Efesini e ai Colossesi è molto discussa; chi non
la riconosce (ormai la maggioranza degli studiosi), pensa a testi scritti intorno agli anni
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  115

pastori di anime: di qui il titolo di “lettere pastorali” dato alla Prima e


Seconda lettera a Timoteo, alla Lettera a Tito. Siamo negli anni 63-67, se
queste lettere sono di Paolo; ma la critica vi rileva evidenti differenze di
linguaggio e di stile rispetto alle precedenti missive del­­l’apostolo, nonché
una diversa situazione storica ed ecclesiologica11, che meglio si adatta al­­
l’ultimo decennio del I secolo d.C.
Il complesso del­­l’epistolario paolino rende testimonianza di come il
vangelo trasformi persone e comunità. Il lettore ne rimane avvinto: le
speranze delle comunità nascenti, i loro successi, i conflitti interni e il
confronto costante con le religioni e le culture esterne sono – in fondo –
gli stessi della chiesa di sempre, anche della nostra.
La Lettera agli Ebrei, attribuita a Paolo dalla tradizione orientale anti-
ca, ma oggi considerata quasi unanimemente come non paolina, è frutto
di un ignoto autore che si ricollega alla tradizione paolina, in un’epoca
anch’essa incerta, forse in risposta ai problemi sollevati dalla distruzione
di Gerusalemme nel 70 d.C. Al cuore della lettera, l’idea che Cristo è il
vero sommo sacerdote e dunque l’unico mediatore tra Dio e gli uomini.
Soltanto verso la fine del I secolo d.C. inizia a costituirsi un corpus di
lettere paoline che solo in seguito assumerà la forma attuale; ma è co-
munque significativo il fatto che il Nuovo Testamento abbia conosciuto
come prima forma scritta quella della lettera: una parola diretta a persone
concrete e in riferimento a situazioni reali delle diverse comunità.

2.3. I vangeli sinottici

La redazione definitiva dei primi tre vangeli, Marco, Matteo e Luca,


segna un altro periodo letterario che va dal 65 al­­l’80 circa d.C. La chie-
sa si diffonde ampiamente nel mondo e si allontana sempre di più dai
giorni del Gesù di Nazaret e della Pentecoste; la sola memoria orale e
vitale si diluisce nel tempo e rischia di travisare la figura, il messaggio

80. Il biglietto a Filemone, invece, riconosciuto come paolino, può essere collocato intor-
no al 56. Discussa è anche l’autenticità della Seconda lettera ai Tessalonicesi che, nel caso
non fosse autentica, andrebbe datata alla fine del I secolo, come reazione agli eccessivi
entusiasmi suscitati da 1 Ts. Sulla cronologia delle lettere di Paolo si veda una rapida, ma
informata sintesi in R. Penna, La formazione del Nuovo Testamento nelle sue tre dimensioni,
San Paolo, Cinisello B. 2011, 52-79.
11
Vedi sotto, cap. 15.
116 La trasmissione della parola di Dio

e il mistero di Gesù Cristo; diventa necessario un punto di riferimento


scritto, essenziale. Nascono così i vangeli di Marco, Matteo e Luca, detti
vangeli sinottici perché, disposti in colonne parallele, possono essere letti
con un solo sguardo che ne scopre somiglianze e divergenze. La sostan-
ziale conformità del loro contenuto si spiega a motivo della comune
tradizione orale, omogenea e ben strutturata, che ha preceduto la messa
per iscritto dei vangeli, come pure mediante l’impiego di fonti scritte
comuni e la dipendenza di Matteo e di Luca da Marco. Le divergenze
invece sono dovute sia alla differente personalità e al rispettivo punto
di vista degli evangelisti, sia alle diverse situazioni e problematiche delle
comunità, destinatarie degli scritti evangelici (cfr. DV 19).
Il Vangelo di Marco è diretto a cristiani provenienti dal paganesimo.
Con un linguaggio da narratore popolare e uno stile vivo e pittoresco
che pone il lettore a contatto immediato con i fatti, oggetto privilegiato
del suo racconto, l’evangelista si propone di svelare progressivamente il
mistero di «Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1), culminante nella passione
che tale lo rivela al centurione pagano (15,39). Si è parlato di Marco
come del “vangelo del catecumeno”: una guida per accostarlo gradual-
mente al «mistero del regno di Dio» (4,11), in un itinerario non facile
di fede e di sequela, a imitazione dei dodici.
Il Vangelo di Matteo è scritto per giudeo-cristiani e presenta Gesù
come il Messia preannunciato dalle Scritture ebraiche: Gesù è l’Emma-
nuele, cioè Dio-con-noi, affermazione che apre (1,23) e chiude (28,20:
«Io sono con voi») questo vangelo. Convinto che il vero giudeo è‚ pa-
radossalmente, colui che si fa cristiano ed entra nella ekklēsía, Matteo è
l’unico evangelista che mette in bocca a Gesù la parola “chiesa” (16,18
e 18,17). Nel riferire le parole di Gesù, raggruppate in cinque grandi
discorsi, egli pensa continuamente alla vita della comunità: un vangelo
che potremmo chiamare il “vangelo del catechista”, una lunga catechesi
che guida i cristiani a formare la comunità e traccia per essi un codice
di vita comunitaria.
Il Vangelo di Luca attinge la sua singolarità dal fatto di essere il primo
quadro del dittico lucano: il Vangelo, che è il tempo di Gesù e la storia di
Gesù, e gli Atti degli spostoli, che sono il tempo della chiesa e la storia della
chiesa. Quando Luca scrive, si è già maturato il senso di una chiesa distesa
nei tempi lunghi della storia della salvezza e impegnata nel­­l’opera di evan-
gelizzazione e di conversione. Il suo vangelo invita la chiesa a confrontarsi
con la solidità (aspháleia: Lc 1,4) delle origini, ovvero con l’autentica
tradizione di Gesù, l’unica che assicuri una vera contemporaneità della
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  117

chiesa ad ogni stagione della storia. Il Gesù di Luca è marcatamente il Si-


gnore e il Salvatore di tutti gli uomini, un Cristo misericordioso in perenne
ricerca dei peccatori, dei poveri, degli esclusi; ma la sua misericordia non
attenua le radicali esigenze del vangelo, particolarmente sottolineate da
Luca, che il credente deve tradurre nella vita di ogni giorno (9,23). Dopo
il vangelo del catecumeno e quello del catechista, avremmo con Luca il
«vangelo del cristiano testimone nel mondo»12.
Gli Atti degli apostoli sono una continuazione del vangelo di Luca.
La bella notizia di Gesù salvatore di tutta l’umanità diventa qui la bella
notizia della salvezza annunciata e testimoniata dalla chiesa apostolica
presso tutti i popoli allora conosciuti. Gli Atti sono un’opera aperta,
un libro la cui conclusione non è in realtà una fine: l’apostolo Paolo è
prigioniero a Roma, confinato in una casa «con un soldato di guardia…,
legato da questa catena» (28,16.20), ma «annuncia il regno di Dio e
insegna le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza
e senza impedimento» (28,31). L’antinomia di Paolo, prigioniero ma
evangelizzatore, è la perenne e salutare antinomia della chiesa.

2.4. Le lettere cattoliche

Altri scritti apostolici – la Lettera di Giacomo, quella di Giuda, la


Prima e la Seconda lettera di Pietro, le tre lettere di Giovanni – sono
stati raggruppati, dopo il IV secolo, sotto la denominazione di “lettere
cattoliche”, cioè universali, perché destinate non a comunità particolari,
ma ai cristiani in genere. Sono messaggi, in forma di lettera, di apostoli
o di uomini della loro cerchia che ogni generazione di credenti deve
accogliere e vivere: la fede vuole essere verificata nelle opere (Giacomo);
i falsi dottori sono già giudicati (Giuda); dobbiamo essere pronti a ri-
spondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (Prima
lettera di Pietro); vivere nel­­l’attesa del giorno del Signore (Seconda lettera
di Pietro); vivere nel­­l’amore e amare nella verità (Prima, Seconda e Terza
lettera di Giovanni)13. Quanto alla Seconda lettera di Pietro, la critica è

12
Cfr. C.M. Martini, in R. Latourelle– G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive
di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, 85-91.
13
Le lettere di Giovanni, assieme al vangelo omonimo, presuppongono l’esistenza di
una vera e propria comunità giovannea, la cui storia è stata riassunta da R.E. Brown, La
comunità del discepolo prediletto, Cittadella, Assisi 1986. Verso la fine del I secolo vengono
118 La trasmissione della parola di Dio

concorde nel­­l’attribuirla a un discepolo del­­l’apostolo, che scrive alla fine


del I secolo o agli inizi del II14.

2.5. Gli scritti giovannei

L’opera cosiddetta giovannea chiude la collezione degli scritti del NT.


Oltre alle tre lettere già menzionate, la tradizione cristiana fin dai suoi
albori ha attribuito al­­l’apostolo Giovanni il quarto vangelo, uno scritto
maturato a lungo in successive redazioni le quali, tuttavia, hanno lasciato
viva e intatta l’impronta del testimone oculare, l’apostolo Giovanni, suo
primo autore. La forte personalità di lui e della sua tradizione, parallela
ma indipendente rispetto a quella confluita nei sinottici; il nuovo contesto
culturale ed ecclesiale in cui si sviluppa la tradizione di Giovanni; una più
matura riflessione cristologica possibile soltanto alla fine del I secolo: tutto
questo spiega a sufficienza la diversità del Vangelo di Giovanni, che Cle-
mente Alessandrino chiamò «il vangelo spirituale». Lo si direbbe il “vangelo
del credente contemplativo”, giunto a un’esperienza cristiana matura.
Nella vicenda così profondamente umana di Gesù di Nazaret (la sárx,
cioè la “carne” del Verbo), culminante nella passione e morte che costi-
tuiscono la sua ora, si rende visibile e tangibile la gloria di Dio, ovvero
la presenza della verità e della vita che sono di Dio e discendono da Dio
attraverso il Verbo incarnato e si offrono al­­l’accoglimento della fede.
Giovanni si indirizza espressamente al lettore sconosciuto, chiamandolo
a entrare nel gioco drammatico della opzione pro o contro Gesù: «Gesù,
in presenza dei discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti
in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è
il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo
nome» (Gv 20,30s.). Leggendo il quarto vangelo, si ha l’impressione di
assistere a un prolungato processo, prodotto dalla rivelazione progressiva
in eventi e parole di Gesù, rivelazione che pone gli spettatori in stato di
allerta e di contesa e si conclude con un giudizio (krísis), cioè con una
separazione: l’incredulità colpevole dei giudei, da una parte, e la fede
dei discepoli, dal­­l’altra. Ma il processo continua: i contemporanei di

scritte le prime due lettere; subito dopo, forse verso gli inizi del II, viene completato il
Vangelo di Giovanni con l’aggiunta del cap. 21 e viene scritta la terza lettera.
14
Vedi sotto, cap. 9, § 3.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio  119

Gesù rappresentano tutti gli esseri umani di tutti i tempi, nel cui animo
quello stesso dramma continua a comporsi e a risolversi. La parola di
Gesù non lascia nessuno com’era prima, ma lo obbliga a mostrare senza
compromessi il suo vero volto, lo giudica al­­l’istante (cfr. 3,19; 12,31).
La fede o l’incredulità colpevole anticipano il giudizio finale15.
Infine, l’Apocalisse. L’autore dello scritto ha nome Giovanni (1,1.9; 22,8),
ma la firma può anche essere frutto del ricorso alla pseudonimia, tipica del
genere letterario apocalittico: chi scrive ama riallacciarsi idealmente a una
celebre figura, con la quale sente una particolare affinità. E infatti, se alcuni
temi del­­l’Apocalisse richiamano il quarto vangelo, la sua lingua (stile a parte)
se ne discosta totalmente. Tutto fa pensare a un discepolo del­­l’apostolo
Giovanni, interprete apocalittico nel suo tempo del grande maestro.
L’Apocalisse è una parola profetica (1,3; 22,7) singolare, un libro scritto
in un linguaggio simbolico-misterioso che intende risvegliare la coscienza
della chiesa nel tempo difficile della persecuzione sotto l’imperatore Do-
miziano, ma anche sfuggire al controllo dei persecutori e della censura.
Nel­­l’ambiente privilegiato della assemblea liturgica – uno legge e gli altri
ascoltano, come si dice in 1,3 – la chiesa è urgentemente chiamata alla con-
versione e alla purificazione (cfr. i capp. 2s.); così purificata, sarà in grado di
«comprendere dal punto di vista di Dio le cose che devono accadere» (cfr.
4,1), capire cioè la sua ora nella storia della salvezza (capp. 4–20). Il «libro
sigillato», che l’Agnello immolato ma vittorioso apre e legge per la chiesa,
traccia le linee del suo impegno nella storia: la chiesa pellegrina nel mondo,
testimone e martire in un perpetuo itinerario pasquale, cammina verso la
nuova Gerusalemme, la nuova città di Dio e degli uomini (capp. 21s.).

3. Concludendo

Era nostro intendimento, come dicevamo al­­l’inizio del capitolo, mo-


strare che il divenire della Bibbia corre parallelo al divenire della storia di
Israele e della prima comunità cristiana. Abbiamo cercato di individuare
– e la sintesi imponeva una certa dose di approssimazione – le piste prin-
cipali di una storia, di una tradizione orale e di una memoria scritta, tra

15
Cfr. V. Mannucci, Evangelo di Giovanni, in ER 2, coll. 1442-1483.
120 La trasmissione della parola di Dio

loro intimamente connesse. Lo studente di teologia nei successivi corsi di


sacra Scrittura, e il lettore attraverso lo studio personale16, avranno modo
di approfondire la storia biblica, la formazione letteraria dei grandi com-
plessi e dei singoli libri della Scrittura, soprattutto il messaggio religioso
di una storia “profetica” che sfida l’oggi della chiesa e del mondo. Fermo
restando che questo capitolo trova il suo logico e necessario complemento
nei capp. 12s., là dove trattiamo del canone del­­l’AT e del NT17.

16
Rimandiamo alla bibliografia indicata al­­l’inizio del presente capitolo.
17
J.M. Sánchez Caro, in una recensione apparsa in Salmanticensis 30 (1983) 94-96
alla prima edizione del volume di Mannucci, ritiene che «a suo giudizio» non sia suffi-
cientemente giustificata la scelta di porre il canone della Bibbia nella «Parte quarta», dopo
l’ispirazione: «El canon es producto de la tradición y no está necesariamente ligado a la noción
de inspiración bíblica, al menos históricamente». Lo stesso Sánchez Caro sceglie, nella sua
introduzione, Bibbia e parola di Dio, di porre la questione del canone prima di quella
sul­­l’ispirazione. A questo proposito ecco alcune precisazioni. 1. È vero che «il canone è il
prodotto della tradizione», ma nel problema del canone la tradizione entra a due livelli,
inscindibili tra loro: tradizione biblica (al­­l’interno della storia d’Israele e della chiesa
apostolica) e tradizione post-biblica (tradizione rabbinica e tradizione post-apostolica).
Ora sappiamo bene che la tradizione biblica (vedi sotto, cap. 12,2.3a; cap. 13,1), sia per
i giudei sia per i cristiani, da sola non risolve tutti i problemi del canone (cfr. DV 8; vedi
sotto, cap. 13,2). Pertanto nella «Parte seconda» dedicata a «La trasmissione della parola
di Dio» nella sua duplice forma (orale-vitale e scritta) nel tempo del­­l’AT e del NT, il
problema del canone biblico non poteva trovare posto in maniera esaustiva ma soltanto
parziale, come si è cercato di far vedere nei capp. 4 e 5 (cfr. anche 8), con riferimento
alla sintesi di T. Citrini, Identità della Bibbia, e agli studi di J.-A. Sanders, Identité de la
Bible (Torah et Canon); J. Blenkinsopp, Prophecy and Canon. A Contribution to the Study
of Jewish Origins, University of Notre Dame, London 1977; B.S. Childs, Introduction
to the Old Testament as Scripture, Part One. 2. Anche per quanto riguarda il rapporto
“ispirazione-canone”, è indubbio che «l’affermazione della sacralità, della radice divina
della Scrittura è obiettivamente (sottolineatura nostra) precedente a quella della canoni-
cità: le Scritture sono canoniche perché sacre» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 105).
«Se [poi] ci chiedessimo, da un punto di vista storico, se sia maturata prima la fede nella
canonicità o quella nel­­l’origine divina degli scritti, probabilmente porremmo la domanda
in modo molto grezzo. Nei diversi momenti della storia della coscienza della fede e della
riflessione teologica, l’intreccio dei due aspetti si è probabilmente presentato in modo
diverso […]. Risalendo ai momenti più tranquilli della tradizione, troviamo che la duplice
consapevolezza probabilmente è stata serenamente concomitante. Ma alle origini, almeno
per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo l’impressione che la consapevolezza della
loro autorità e la prassi ecclesiale corrispondente abbiano preceduto la riflessione sulla
specificità della loro origine e la loro collocazione in un unico canone con le Scritture
del­­l’Antico Testamento […]» (ibid., 107s.). E ancora: «L’ispirazione è e si coglie come
il fondamento della canonicità, cioè del­­l’autorità assoluta della Bibbia come libro del­­
l’alleanza del popolo di Dio, come libro della fede» (T. Citrini, Canone e ispirazione,
in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi [edd.], Temi teologici della Bibbia, 146). Anche
la recente introduzione di P. Bovati – P. Basta («Ci ha parlato per mezzo dei profeti») fa
precedere la trattazione del­­l’ispirazione a quella del canone.
6.
Il linguaggio umano della Bibbia

Bibliografia: si veda la sezione sulle Introduzioni ai libri del­­l’AT e del NT, nella Biblio-
grafia generale; cfr. inoltre L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Brescia 19692;
Id., Il dinamismo della Tradizione, Paideia, Brescia 1970, 121-157; Id., Poésie hébraïque,
in DBS 8, coll. 47-90; L. Alonso Schökel – J. Asurmendi – F. García Martínez –
J.M. Sánchez Caro, Bibbia e letteratura, in L. Alonso Schökel et alii, La Bibbia nel
suo contesto, Paideia, Brescia 1994, 315-375; G. Auzou, La Parole de Dieu. Approches
du mystère des Saintes Écritures, De l’Orante, Paris 1960, 88-163; P. Grelot, La Bible
Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture Sainte, Desclée, Paris 1965,
82-96; G. Lohfink, Ora capisco la Bibbia. Studio sulle forme letterarie della Bibbia, EDB,
Bologna 1977 (divulgativo); G. Ravasi, Caratteristiche generali del linguaggio biblico, in R.
Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia (Logos. Corso di studi biblici 1), ElleDiCi,
Leumann 20062, 281-290; J. Schildenberger, Realtà storica e generi letterari del­­l’AT,
Paideia, Brescia 1965.
Sul problema del­­l’inculturazione della parola di Dio, cfr. Aa.Vv., Fede e cultura alla luce
della Bibbia: atti della sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica: Discorso
di Giovanni Paolo II, ElleDiCi, Leumann 1981.

La Bibbia dunque non è caduta dal cielo. È la memoria scritta del


popolo di Dio, in cammino nel tempo e nella storia, e – come tale – in
primo luogo e in tutta la sua ampiezza parola umana. Anche lo storico
non credente può servirsi della Bibbia come una fonte letteraria per la
storia della civiltà e delle religioni del Vicino Oriente, nel­­l’ultimo mil-
lennio prima del­­l’era cristiana e nel I secolo di questa.
La Bibbia non è un unico libro, ma una piccola biblioteca di volumi.
Un lettore che la prende in mano si imbatte in una vasta raccolta di libri,
così diversi gli uni dagli altri sia per forma sia per contenuto. Vi incontra
racconti in prosa, codici di leggi, proverbi e massime morali, epistolari,
poesia lirica e drammatica, un genere di letteratura che può definirsi
“profetica”, una letteratura liturgica espressamente destinata al culto…
122 La trasmissione della parola di Dio

Anzi, se il lettore è credente e accosta la Bibbia come parola di Dio,


essa gli apparirà tanto umana da patirne inizialmente scandalo. Imper-
fezioni, lacune, limiti scientifici, filosofici e anche religiosi di alcuni
testi; carattere sconcertante di una storiografia così lontana dalle odierne
esigenze critiche; estraneità di tanti tratti che appaiono folcloristici e
leggendari; livello morale notevolmente arretrato di certi gesti o costumi;
inesattezze cronologiche o topografiche; divergenze nella trasmissione
delle stesse parole di Gesù ecc. Come conciliare questi dati con la verità
della parola di Dio e con l’inerranza-verità della Scrittura, giustamente
e incessantemente affermata dalla chiesa1? Davvero difficile – se non
impossibile – cogliere in flagrante lo Spirito Santo con il metodo della
ricerca storica: l’ispirazione della Bibbia non è il risultato di un’indagine
scientifica. «Bibbia: parola di Dio in parola umana» (G. Lohfink), «La
Bibbia: parola umana e messaggio di Dio» (J. Levie), «La parola di Dio in
linguaggio umano» (P. Grelot), «La Parola dietro le parole» (C. Mesters):
sono alcuni modi di esprimere il “mistero” della Bibbia. La costituzione
Dei Verbum lo accosta al mistero del Verbo incarnato: «Le parole di Dio,
espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare del­­l’uomo, come
già il Verbo del­­l’eterno Padre, avendo assunto le debolezze del­­l’umana
natura, si fece simile al­­l’uomo» (DV 13). Fedeltà al mistero della Bibbia
vuol dire innanzitutto prendere atto fino in fondo della sua umanità,
pena il rischio di diventare biblicamente “monofisiti”. La parola umana,
nella Bibbia, non è stata “assorbita” dalla parola di Dio, ma “assunta”;
non si incontra la parola di Dio se non “toccando” e “attraversando”
tutto lo spessore della parola umana.

1. Le lingue della Bibbia2

La Bibbia parla tre lingue: l’ebraico, l’aramaico e il greco.


In ebraico fu scritto quasi tutto l’AT. Alcune sezioni di libri, nelle
edizioni ebraiche della Bibbia, sono scritte in aramaico; esattamente:

1
Vedi sotto, cap. 16.
2
P. Auvray – P. Poulajn – A. Blaise, Le lingue sacre, Edizioni Paoline, Catania 1959;
A. DÍez Macho, Aramaico, in Enciclopedia della Bibbia 1, ElleDiCi, Leumann 1970,
Il linguaggio umano della Bibbia 123

Esd 4,8–6,18; 7,12-26; Dn 2,4–7,28; due parole in Gen 31,47 e una


frase in Ger 10,11. In greco furono scritti originariamente il libro della
Sapienza e il Secondo libro dei Maccabei. Vi sono poi libri, o parti di libri,
i cui testi originali – verosimilmente in ebraico o in aramaico – sono
andati perduti e sono giunti a noi in antiche versioni greche: il Primo
libro dei Maccabei, il libro di Giuditta e quello di Tobia, alcune sezioni
di Daniele (3,24-90; 13s.) e le aggiunte greche di Ester (al­­l’inizio, prima
di 1,1; dopo 3,13; dopo 4,17; nei primi due versetti del cap. 5; dopo
8,12 e alla fine del testo ebraico, dopo 10,3).
In una particolare situazione si trova il Siracide (detto anche libro di
Gesù ben-Sirach o del­­l’Ecclesiastico), che si presenta da sé come versione
greca dal­­l’ebraico (cfr. il Prologo del libro). Il testo ebraico, andato per-
duto fin dai tempi di Girolamo, fu ritrovato per due terzi nel 1896 e nel
1931 nella Genizâ del Cairo; altri frammenti del testo ebraico sono stati
poi trovati a Qumran e a Masada. Sempre a Qumran sono venuti alla
luce piccoli frammenti di un manoscritto in ebraico e di tre manoscritti
in aramaico del libro di Tobia.
Tutto il Nuovo Testamento fu scritto in greco3.
La lingua4 non è soltanto un sistema convenzionale di segni cui ci
si riferisce in un gruppo sociale in vista della comunicazione. Essa è
soprattutto un modello interpretativo del reale e, come tale, configura
le caratteristiche spirituali di un popolo, la sua sensibilità nei confronti
delle cose, riflette e suppone una certa originale presa sul mondo e sul­­
l’esistenza: in una parola, è espressione della cultura di un popolo. Di
conseguenza lingue diverse costituiscono modi realmente diversi con cui
i popoli si configurano la realtà. È pur vero che, tra le diverse lingue,

coll. 643-654; P. Boccaccio, Ebraico biblico, in Enciclopedia della Bibbia 2, ElleDiCi,


Leumann 1970, coll. 1076-1088; J. Barr, Semantica del linguaggio biblico, il Mulino,
Bologna 1968; M. Hadas-Lebel, Manuel d’histoire de la langue hébraïque. Des origines à
l’époque de la Mishna, POF-Études, Paris 1976; G. Garbini – O. Durand, Introduzione
alle lingue semitiche, Paideia, Brescia 1994; A. Sáenz-Badillos, Storia della lingua ebrai-
ca, Paideia, Brescia 2007. Più sintetico, il testo di M. Hadas-Lebel, Storia della lingua
ebraica, Giuntina, Firenze 1994. Un’introduzione più semplice è in M. Carrez, Le lingue
della Bibbia dai papiri alle Bibbie a stampa, Edizioni Paoline, Cinisello B. 1987.
3
Le testimonianze antiche (di Papia, Ireneo, Origene ed Eusebio) sul Vangelo di Matteo
scritto originariamente in aramaico, sono oggi ridimensionate dalla critica (vedi la Biblio-
grafia generale, Introduzioni ai libri del NT); che esistesse una raccolta di detti o discorsi
di Gesù in aramaico, è sommamente probabile.
4
Cfr. C. Molari, Linguaggio, in NDT, 778-814.
124 La trasmissione della parola di Dio

resta possibile la comunicazione, visto che lo spirito umano è ovunque


fondamentalmente lo stesso; ma

le lingue non sono per questo meno irriducibili le une alle altre, poiché i
diversi aspetti del­­l’esperienza umana vi sono avvertiti e resi differentemente:
tanto che, per comprendersi dal­­l’una al­­l’altra lingua, occorre sempre un
difficile sforzo di distacco da sé e di comprensione del­­l’altro5.

Si dirà: «Ci sono le traduzioni!». Sì, ma ogni traduzione comporta


necessariamente una certa alterazione della pagina scritta dal­­l’autore.
Si perderà sempre qualcosa del senso che lo scrittore ha posto nelle sue
parole, e dal­­l’altra parte entrerà nel testo tradotto qualcosa del mondo
culturale del traduttore. Il problema del tradurre la Bibbia è antichis-
simo; già gli ebrei di lingua greca sentirono il bisogno di traduzioni in
greco (cfr. la Bibbia dei Settanta, vedi oltre); quelli che vivevano in terra
d’Israele e che ormai parlavano aramaico, di una traduzione in tale lingua
(cfr. i Targumîm; vedi oltre); le prime comunità cristiane d’occidente si
preoccuparono di tradurre le Scritture in latino (Vetus Latina e Vulgata;
vedi oltre)6.
Ogni traduzione della Bibbia è soltanto un sussidio, decisamente ne-
cessario, ma appunto un “sussidio”; e nessuno può affermare di conosce-
re a fondo un’opera letteraria se non la sa leggere nella lingua originale (si
veda quanto scrive al riguardo il nipote nel Prologo al libro del nonno,
il Siracide)7. Prendiamo un esempio dal­­l’AT, indicativo di come ogni
traduzione sia necessariamente imperfetta. Is 5,1-7 è una canzone che
Dio canta al suo popolo: la canzone del­­l’amore deluso. Il profeta Isaia
prende parte alla festa dei vendemmiatori e s’improvvisa menestrello,
intonando a nome dello sposo il canto sulla vigna. L’innocente idillio
con cui aveva esordito (vv. 1-2a) si trasforma in accusa schiacciante (vv.
2b-6), buttata in faccia agli ascoltatori presenti (v. 7). E un tragico gioco
di parole chiude la canzone-parabola: il diletto si aspettava “giustizia”
(mišpāṭ), ed ecco “spargimento di sangue” (miśpāḥ); attendeva “rettitu-
dine” (ṣedāqâ), ed ecco “grida di oppressi” (ebraico ṣe‘āqâ). Il gioco di

5
P. Grelot, Tradizione, 91.
6
Sulle difficoltà del tradurre la Bibbia, specialmente nelle lingue moderne, è stato
scritto moltissimo; cfr. più avanti, cap. 20, § 3.
7
Ciò rimanda al­­l’importanza dello studio delle lingue bibliche durante il curriculum
teologico, uno studio spesso carente, specie per quanto riguarda l’ebraico.
Il linguaggio umano della Bibbia 125

parole, le ingegnose allitterazioni del testo isaiano difficilmente possono


trasparire in una versione.
Non è nostro intendimento fare una storia (genesi e sviluppo) delle
lingue bibliche; ci preme soltanto rilevarne alcune caratteristiche che
fanno trasparire un modello culturale diverso dal nostro e che dobbiamo
conoscere se vogliamo aprirci l’accesso al mondo della Bibbia.

1.1. L’ebraico8

L’ebraico è una lingua semitica alfabetica. Come in tutte le lingue


semitiche, la sua struttura fondamentale è la parola-radice, composta di
tre consonanti, che esprime il significato-base di tutte le parole derivate.
Queste si costruiscono mediante l’aggiunta di prefissi e/o di suffissi; ciò
vale sia per i verbi che per i sostantivi e gli aggettivi. La scrittura arcaica
del­­l’ebraico contava solo consonanti. Furono i rabbini del­­l’alto Medioe-
vo che inventarono un sistema di punti-vocali, riportati nel testo delle
Bibbie ebraiche correnti9, per facilitarne la lettura.
L’ebraico è una lingua semplice, non ricca né differenziata quanto a
vocabolario e a sintassi come le nostre lingue. Pur possedendo congiun-
zioni subordinative (per esempio: kî, ’ ašer = poiché, affinché; ’im, lû =
per timore di, perché non, se; lûlê = se… non; ecc.), l’ebraico si serve
soprattutto della coordinazione: il lettore deve supplire indovinando le
sfumature suggerite dal contesto. Per esempio: «Noè aveva seicento anni
quando venne il diluvio» alla lettera suonerebbe «Era Noè di seicento
anni e avvenne il diluvio» (Gen 7,6); oppure: «Potrò davvero partorire,
dal momento che sono vecchia?» alla lettera sarebbe «Potrò davvero
partorire, e io sono vecchia?» (Gen 18,13).
L’ebraico possiede aggettivi (per esempio gādôl = grande; qāton = piccolo;
kābed = pesante; ecc.). Tuttavia l’aggettivo viene frequentemente sostituito
da un complemento del nome: «il luogo di santità (meqôm haqqodeš)» per
dire «il luogo santo»; «re di clemenza (malkê ḥesed)» per dire «re clemente»;
«una casa di eternità (bêth ‘ôlām)» per dire «una casa eterna».

8
Cfr. P. Auvray, L’ebraico e l’aramaico, in Le lingue sacre, 30-46. Oltre ai testi citati
nella nota 2, ricordiamo, tra le principali grammatiche ebraiche, l’ormai celebre testo
di P. Joüon – T. Muraoka, A Grammar of Biblical Hebrew (Subsidia Biblica 27), PIB,
Roma 2006.
9
Vedi sotto, cap. 7.
126 La trasmissione della parola di Dio

Manca in ebraico la forma del comparativo, che viene espresso non


modificando la forma del­­l’aggettivo, ma unicamente con una costruzio-
ne che indica il confronto, cioè premettendo al termine di paragone la
preposizione mîn. Per esempio: «più grande di tutto il popolo» si dice
«grande più-che (mîn) tutto il popolo»; «più numerose della sabbia del
mare» si dice «numerose più-che (mîn) la sabbia del mare». Il superlativo
relativo non esiste e le soluzioni sono diverse: ripetendo l’aggettivo (il
«Santo, santo, santo» di Is 6,3, cioè «santissimo»); si ricorre a una costru-
zione al genitivo («il Cantico dei cantici», cioè «il più bel Cantico»); si
pone l’articolo davanti al­­l’aggettivo attributo («Il giovane dei suoi figli»,
cioè «il più giovane dei suoi figli»; «la bella delle donne», cioè «la più
bella delle donne»).
Caratteristico anche l’uso del­­l’infinito per rinforzare il senso di un
verbo: per esempio in Gen 2,17 si legge «morire morrai», per dire «cer-
tamente dovrai morire»; un’espressione analoga si trova (ma in greco)
in Lc 22,15: «con desiderio ho desiderato» (così alla lettera), per dire
«ho tanto desiderato». Anche l’avverbio è raro in ebraico, e talvolta lo
si sostituisce con un verbo quasi-ausiliare; così, per tradurre il nostro
“ancora”, si usa il verbo ebraico šûb (alla lettera: “ritornare”): per dire
«egli scavò ancora»‚ si dice «egli tornò e scavò (wayyāšāb wayyaḥpor)»
(Gen 26,18); o per dire «essa sarà di nuovo», si dice «ed essa ritornerà e
sarà (wešābâ wehāyethâ)» (Is 6,13).
Le parole astratte sono rare, per lo più sostituite da plurali concre-
ti: «cose perverse (tahpukhôth)» per indicare «perversità»; «cose vecchie
(zeqûnîm)» per indicare «vecchiaia»; «cose giovani (ne‘ûrîm)» per indicare
«giovinezza». Si pensi alla parola derek, il cui primo senso è «via», «cam-
mino», ma che poi passa a significare la «attività», il «modo di agire»,
il «modo di pensare», la «regola di vita»; e in questo senso si trova di
frequente anche nel NT (in greco hodós). Tutti ricordano l’inizio del
Qoèlet: «Vanità delle vanità – dice Qoèlet –‚ vanità delle vanità: tutto
è vanità» (1,2). Ma in ebraico la parola usata per “vanità” è hebel, che
significa piuttosto “soffio”, “nebbia leggera”, qualcosa insomma come il
vapore che si vanifica e fugge.
Il verbo ebraico è ricco, perché può esprimere le sfumature e i diversi
aspetti del verbo; è povero, perché non abbraccia tutti i nostri tempi
e i nostri modi. Prendiamo per esempio il verbo qāṭal, cioè “uccide-
re”. In quest’unica radice “trilitterale” vi è materia per tre forme di-
verse: forma semplice (uccidere), forma intensiva (massacrare) e forma
causativa (far uccidere). Ciascuna di queste può coniugarsi non solo
Il linguaggio umano della Bibbia 127

al­­l’attivo (le tre forme di cui sopra sono allora rispettivamente qāṭal,
qiṭṭel, hiqṭil), ma anche al passivo (niqṭal, quiṭṭal, hoqṭal) e al riflessivo
(niqṭal e hitqaṭṭel)10, Di fatto però ci troviamo di fronte soltanto a sette
forme, perché il “causativo-riflessivo” non esiste, e il “semplice passivo”,
se esistito, è scomparso per essere sostituito dal riflessivo. Come si vede,
dalla prima forma “semplice” – che esprime nel modo più elementare
l’azione o lo stato significato dalla radice – derivano le altre sei forme,
mediante uno sviluppo della radice: o per il raddoppiamento di una delle
tre radicali (intensivo attivo, e passivo), o per l’aggiunta di una sillaba
(attivo causativo, passivo causativo, riflessivo semplice e intensivo), e per
cambiamento di vocale (tutte le forme).
Una volta riconosciute le sette forme verbali del­­l’ebraico, la coniu-
gazione è una cosa facile: essa comprende due tempi al modo indica-
tivo, un imperativo, un doppio infinito e un participio. I due tempi
del­­l’indicativo si chiamano abitualmente “perfetto” (meglio: qāṭal) e
“imperfetto” (yiqṭol); l’uno indica l’azione perfetta ossia completa, l’altro
l’azione imperfetta ossia incompleta; ma si esprimono indirettamente
altri punti di vista: azione istantanea e unica (perfetto), o azione duratura
o ripetuta (imperfetto).
Tuttavia l’ebraico, pur così ricco di sfumature nei suoi “verbi”, dà in
modo molto incerto il tempo in cui l’azione o lo stato sono considerati.
Per cui spesso non si capisce bene – o non subito – se l’autore parla del
presente, del passato o del futuro. Le grammatiche parlano talvolta di un
“passato” (a proposito del perfetto) e di un “presente” o di un “futuro”
(a proposito del­­l’imperfetto), ma questo non è completamente vero. Ci
sono casi frequenti che contraddicono questa terminologia: per esempio
«Così era solito fare (lett., ya‘aśê: un imperfetto, ma che indica un’azione
nel passato) Giobbe tutti i giorni» (Gb 1,5).

1.2. L’aramaico

L’aramaico è strettamente imparentato con l’ebraico, anch’esso classifi-


cato come lingua semitica nord-occidentale; ma non è – come talvolta si
pensa – una forma corrotta della lingua ebraica, che gli ebrei avrebbero

10
Le grammatiche definiscono in genere le sette forme ricordate con nomi diversi: qal,
pi‘el, hif‘il, nif‘al, pu‘al, hof‘al, hitpa‘el.
128 La trasmissione della parola di Dio

portato con sé di ritorno dal­­l’esilio babilonese. La lingua aramaica è


una lingua originale come l’ebraico, più arcaica sotto certi aspetti, ma
nettamente più evoluta sotto altri.
Fu la lingua delle tribù nomadi che durante il secondo millennio a.C.
invasero in tappe successive l’alta Mesopotamia e la Siria, e nel primo
millennio, sotto il nome di caldei, la Babilonia meridionale. Questi
“aramei” agivano da intermediari nel commercio tra la Mesopotamia,
l’Asia minore e le coste del Mediterraneo; così la loro lingua divenne la
lingua commerciale internazionale, e – dalla metà del primo millennio –
la lingua delle cancellerie e dei diplomatici.
Dal­­l’epoca del­­l’esilio gli ebrei – non soltanto in Babilonia, ma anche
in patria – parlavano l’aramaico accanto alla loro lingua materna ebraica;
dopo l’esilio, però, l’aramaico finì per soppiantare l’ebraico che rimase
come lingua della tradizione, della letteratura sacra e della liturgia. L’a-
ramaico fu anche la lingua materna di Gesù, degli apostoli e della prima
chiesa di Gerusalemme; è proprio questo dialetto aramaico che sta alla base
delle parole di Gesù, tramandateci dai vangeli soltanto in lingua greca.
Nelle sue caratteristiche linguistiche l’aramaico è molto simile al­­
l’ebraico.

1.3. Il greco biblico

Il greco della Bibbia si distingue per certi aspetti dalla lingua dei
classici greci. Si tratta di uno stadio di sviluppo tardivo del greco, che
dal­­l’epoca di Alessandro Magno, ossia dalla metà del IV secolo a.C.,
divenne in tutto il bacino orientale del Mediterraneo la lingua comune-
mente parlata e scritta: la koiné11.
Rispetto al greco classico, soprattutto dal punto di vista della sintassi,
il greco della koiné tende alla semplificazione e alla soppressione delle dif-
ficoltà: coordinazione spesso preferita alla subordinazione; frasi più bre-
vi; stile diretto; una certa libertà, condotta sino alle licenze linguistiche.
Tuttavia il greco biblico non è la koiné pura e semplice, bensì una
koiné semitizzata. Esso infatti ha ricevuto dagli scrittori biblici e dal

11
Ci limitiamo a segnalare una delle più importanti e diffuse grammatiche del greco
neotestamentario: F. Blass – A. Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento,
nuova edizione a cura di F. Rehkopf, Paideia, Brescia 1982.
Il linguaggio umano della Bibbia 129

loro ambiente una forma mentis e un bagaglio di idee, di immagini e di


procedimenti, tipici della lingua ebraico-aramaica. Si trovano frequenti
ebraismi, come: «egli parlò dicendo»; «e avvenne che»; «figli della luce»;
«vaso di elezione»; vocaboli presi in prestito direttamente dal­­l’aramaico,
come: geenna, satan, šabbat, amen. Vocaboli greci prendono un senso
nuovo: “calice” per indicare “sorte”, “lingua” per indicare “nazione”,
“cammino” per indicare “dottrina” ecc.; oppure i vocaboli greci si cari-
cano di valori nuovi e specificamente cristiani, come: “giustizia, grazia,
pace, amore, gloria, redenzione, credere, carne, spirito, giorno” ecc.

2. Il genio ebraico

Dicevamo già che la lingua è un modello interpretativo del reale,


espressione delle caratteristiche spirituali di un popolo, in una parola
della sua cultura. La distanza del lettore odierno della Bibbia non è
dunque soltanto distanza di lingua, bensì di cultura. La Bibbia, Nuovo
Testamento compreso, è un libro orientale; il suo clima psicologico e
culturale, il suo ambiente di nascita e di evoluzione sono semiti. Se
l’occidentale – com’è ognuno di noi – vuol comprendere la Bibbia, deve
spogliarsi della sua mentalità, deve operare una sorta di “conversione”
psicologica e culturale, una specie di ri-acclimatazione.
Intendiamoci. Qui non si tratta di canonizzare una lingua e una cultura
particolari, in alternativa – per esempio – alla nostra cultura o mentalità
occidentali, come non si tratta di canonizzare il genio ebraico in alterna-
tiva al genio greco. Il passaggio dal­­l’ebraico o dal­­l’aramaico al greco, com-
piuto già con la versione greca dei Settanta (Lxx)12 e ancor più con il NT,
dimostra che il disegno biblico della salvezza era suscettibile di traduzione
e di espressione in tutte le lingue e nelle rispettive culture. Chi opponesse
in misura eccessiva il pensiero ebraico al pensiero greco sino a identificare
la rivelazione esclusivamente con il primo, partirebbe con il piede sbaglia-
to e si metterebbe in un vicolo cieco. Basti pensare al­­l’antropologia biblica
e ai suoi risvolti in merito al problema del­­l’immortalità del­­l’anima e della
risurrezione dei morti. Certamente, un’antropologia che volesse fondarsi

12
Vedi sotto, cap. 7.
130 La trasmissione della parola di Dio

sul “corpo” e sul­­l’“anima” intesi come realtà eterogenee e antagoniste nel­­


l’essere umano, si orienterebbe in senso opposto al­­l’antropologia della
rivelazione biblica del­­l’AT e del NT, la quale ha nel­­l’unità composita
e concreta del­­l’uomo uno dei suoi tratti caratteristici. Ma questa unità
resiste – e non è stravolta – allorquando il linguaggio-cultura di tipo elleni-
stico entra espressamente nel libro della Sapienza scritto in greco (cfr. Sap
8,19-20; 9,15), e – seppure in maniera più velata – in certi brani di Paolo.
Del resto, è proprio questa non ipostatizzazione del­­l’unità composita
del­­l’uomo nel solo linguaggio di stampo semitico (il quale verrebbe ad
assumere un valore universale e assoluto, che invece non ha) che rende
possibile la rilettura che la tradizione tomista – sulla scia della concezione
aristotelica del­­l’uomo – ha fatto del dato biblico, assumendo la termi-
nologia dualisticheggiante di “anima” e di “corpo”, ma sottolineando
sempre e fortemente l’unità concreta della persona umana13.
A proposito della sopravvivenza e sussistenza del­­l’“anima” dopo la
morte, per fare un esempio, la lettera della Congregazione per la dottrina
della fede su «Alcune questioni concernenti l’escatologia» scriveva nel
1979:

La chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di un


elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale
che l’io umano sussista. Per designare un tale elemento, la chiesa adopera la
parola “anima”, consacrata dal­­l’uso della sacra Scrittura e della tradizione.
Senza ignorare che questo termine assume nella Bibbia diversi significati,
essa ritiene tuttavia che non esista alcuna seria ragione per respingerlo e
considera, inoltre, che è assolutamente indispensabile uno strumento verbale
per sostenere la fede dei cristiani14.

Da questa formulazione, nella quale si evita di parlare di “immortalità


del­­l’anima”, emergono alcuni dati interessanti: 1) appartiene al dato rive-
lato, e quindi al dato di fede, che l’“io” umano sopravvive e sussiste, dopo
la morte; 2) questo dato ha bisogno, in ogni caso, di uno “strumento
verbale” per essere espresso: la fede, la si deve poter esprimere, racconta-

13
Cfr. H.W. Wolff, Antropologia del­­l’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1975; i
«Dizionari di teologia biblica» citati alla n. 31 di p. 76.
14
AAS 71 (1979) 939-943; Il Regno - documenti 24/25 (1979) 356-357. Sul­
l’argomento, cfr. C. Ruini, Immortalità e resurrezione nel Magistero e nella Teologia oggi,
in RdT 21 (1980) 102-115.189-206.
Il linguaggio umano della Bibbia 131

re; 3) il termine “anima”, pur nel suo significato polivalente, può essere
tuttora considerato come uno strumento linguistico atto a esprimere e
sostenere il dato di fede. E tuttavia, proprio questo esempio ci richiama
ad un’antropologia teologica che sia, nella sua radice, profondamente
biblica e dunque presenti sempre più l’essere umano come una “unità”,
escludendo ogni forma di dualismo corpo/anima15.

Per concludere, condividiamo l’opinione di P. Grelot:

Per quel che riguarda il linguaggio, la creazione di un modo di espressione


specifico adattato alle esigenze della rivelazione si è attuata in un primo
momento sulla base di una lingua particolare (l’ebraico), di cui la parola di
Dio ha assunto le strutture e utilizzato i valori propri; si è poi continuata
nel quadro della lingua greca. A ogni tappa, essa si è lasciata permeare dalla
mentalità del­­l’ambiente, così variabile a seconda dei tempi e dei livelli cul-
turali. Certamente questo non significa che le categorie mentali del­­l’ebraico
e del greco o la mentalità di coloro che parlavano allora queste lingue, siano
state in qualche modo canonizzate da Dio, ma resta pur vero che le realtà
divine sono state tradotte in linguaggio umano per mezzo di idee e parole il
cui valore significante deve essere valutato in funzione del­­l’ambiente in cui
la rivelazione ha preso corpo16.

3. L’Antico Testamento come letteratura

Quando entriamo in una biblioteca moderna, vediamo che i libri vi


sono classificati secondo il tipo letterario di ciascuno: romanzi e novelle,
poesia, storia, biografie, opere di teatro ecc. La Bibbia, produzione lette-
raria di una cultura che durò circa due millenni, assomiglia un po’ ad una
piccola biblioteca: contiene 46 libri per l’AT e 27 per il NT, soprattutto
abbraccia un’infinità di forme letterarie.
Un implicito riconoscimento di diverse forme letterarie nella Bibbia
era già alla base della divisione ebraica del­­l’AT in «Legge, Profeti e Scrit-

15
Cfr. le considerazioni di C. Molari in G. Barbaglio – G. Bof – S. Dianich (edd.),
Teologia, San Paolo, Cinisello B. 2002, 46-72.
16
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 112.
132 La trasmissione della parola di Dio

ti», e della divisione cristiana in «Libri storici, profetici e sapienziali»


(AT), in «vangeli, Atti degli apostoli, lettere e Apocalisse» (NT).
Tuttavia questa distinzione si è rivelata estremamente sommaria. Una
più attenta analisi letteraria dei testi, e ancor più la scoperta delle lette-
rature dei popoli contemporanei al mondo biblico, hanno permesso di
individuare nel complesso dei libri biblici una quantità notevolmente
più ricca di tipi letterari17.

3.1. Tradizione orale e scrittura;


la nascita del­­l’Antico Testamento

Per molto tempo gli studiosi hanno pensato di poter ricostruire la


storia della formazione dei testi del­­l’Antico Testamento e di interpretarli
in base soltanto al metodo della critica storica e letteraria (è celebre la
figura di J. Wellhausen per quanto riguarda lo studio del Pentateuco).
Verso la metà del XX secolo la cosiddetta scuola scandinava ha messo in
risalto l’importanza della tradizione orale. Alla base dei testi scritti del­­
l’AT, è necessario presupporre una lunga serie di tradizioni precedenti
che venivano trasmesse oralmente. Ciò non esclude che alcune cose
fossero messe direttamente per iscritto; nondimeno la stesura scritta della
maggior parte di queste tradizioni, relative al popolo di Israele e alla sua
storia, è avvenuta in tempi relativamente più recenti, spesso in seguito
a momenti di forte crisi, che obbligarono Israele a una più profonda
riflessione. Ne è un buon esempio l’esilio babilonese, durante e dopo il
quale nacquero o si svilupparono molti testi biblici, a partire dallo stesso
Pentateuco (cfr. sopra, pp. 107s.).
L’esistenza della tradizione orale ci conduce a una seconda osserva-
zione: la comunicazione orale si serve di forme fisse di trasmissione che
si adattano al tipo di messaggio da trasmettere e sono spesso relative
al contesto storico e alla situazione in cui nascono. Ogni testo scritto
rivela così l’appartenenza a un ben definito “genere letterario”. Nei pri-

17
Per ciò che segue, cfr. L. Mazzinghi, Introduzione al­­l’Antico Testamento, 19-51.3178-
3189. Sulle forme letterarie della Bibbia si veda anche L. Alonso Schökel – J. Asur-
mendi – F. García Martínez – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e letteratura, in Aa.Vv., La
Bibbia nel suo contesto, 315-375. Per le forme letterarie della Bibbia ebraica sono molto
utili i due volumi di A. Rofé, Introduzione alla letteratura della Bibbia ebraica. I. Pentateuco
e libri storici. II. Profeti, Salmi e libri sapienziali, Paideia, Brescia 2011.
Il linguaggio umano della Bibbia 133

mi decenni del ventesimo secolo Hermann Gunkel (1862-1932) iniziò


ad applicare questa idea ai testi biblici (alla Genesi e ai Salmi, prima di
tutto), creando così quella che oggi definiamo la critica delle forme: la
tradizione orale crea precisi generi letterari, i quali sono a loro volta in
relazione con quello che Gunkel chiamava la situazione o l’ambiente
vitale, ovvero la concreta situazione storica nella quale nascono i diversi
testi biblici.
Di qui la definizione o, meglio, la descrizione di “generi letterari” che
oggi in genere si dà: sono le varie forme o maniere di scrivere usate comu-
nemente tra gli uomini di una data epoca e regione e poste in relazione
costante con determinati contenuti. Ciò che è specifico e decisivo in un
genere letterario è il chiaro legame tra forma letteraria, contenuto che si
vuol esprimere, e situazione vitale che determina sia la forma che il conte-
nuto. Chi voglia conoscere il significato (contenuto) delle pagine bibliche
non può non tenere conto dei generi letterari; il loro uso è divenuto fon-
damentale nella chiesa cattolica dopo l’enciclica Divino afflante Spiritu di
Pio XII e la costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Vaticano II18.
H. Gunkel (1862-1932) aveva applicato la “critica delle forme” ai
Salmi e alla Genesi19. M. Dibelius, K.L. Schmid e R. Bultmann l’appli-
carono ai vangeli sinottici20. Si trattava, anche in questi scritti, di staccare
dal­­l’attuale cornice redazionale i singoli brani evangelici (per esempio,
miracoli, parabole ecc.) e stabilire le caratteristiche dei generi letterari o
“forme” a cui i brani appartengono, presupponendo come loro ambiente
vitale (Sitz im Leben) la primitiva comunità cristiana con la sua predi-
cazione, il suo culto, i suoi problemi. Scriveva Gunkel che «chi vuole
capire un genere letterario antico deve prima chiedere dove sono le sue
radici nella vita (Sitz… im Volksleben)»21.

18
Vedi sotto, cap. 19.
19
Cfr. H. Gunkel, Einleitung in die Psalmen, Göttingen 1933, ed. post. a cura di J.
Begrich; Id., Die Genesis, Göttingen 19646.
20
Cfr. M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1919; K.L.
Schmidt, Der Rahmen der Geschichte Jesu, Berlin 1919; R. Bultmann, Die Geschichte
der synoptischen Tradition, Göttingen 1921 (trad. fr., L’histoire de la tradition synoptique,
du Seuil, Paris 1973); H. Zimmermann, Metodologia del Nuovo Testamento, Marietti,
Torino 1971, 110-191.
21
H. Gunkel, «Die israelitische Literatur», in P. Hinneberg (ed.), Die Kultur der Ge-
genwart: die orientalischen Literaturen, Berlin - Leipzig 1906, 53. La celebre espressione
Sitz im Leben sembra usata per la prima volta da Gunkel proprio in questo passo.
134 La trasmissione della parola di Dio

3.2. L’ambito della famiglia, della tribù, della comunità

Molte forme letterarie presenti nei libri del­­l’AT riflettono in primo


luogo gli usi comuni della vita familiare, o, più in generale, della vita
quotidiana della tribù o della comunità. Ogni famiglia, tribù, comunità,
possiede tradizioni relative agli antenati, che, in forma di racconto, ven-
gono tramandate oralmente nel corso delle generazioni. Si parla a questo
riguardo di saghe e di leggende, di narrazioni relative a personaggi illustri
del proprio passato: in tali narrazioni l’interesse non sta nella storia in se
stessa quanto nel significato che essa riveste per gli ascoltatori. In questo
modo si sono formati i racconti sui patriarchi contenuti nella Genesi:
frammenti della storia di una comunità, continuamente riproposti per il
significato attuale che continuamente assumono alle orecchie degli ascol-
tatori. I racconti presenti nel­­l’AT sono spesso caratterizzati dal desiderio
di spiegare, attraverso il ricorso a un fatto del passato, una realtà presente;
si parla allora di “narrazioni eziologiche” (dal greco aítion, “causa”). In
questo modo gli israeliti scoprono, per esempio nelle storie patriarcali,
le proprie radici più profonde e vi ritrovano la propria identità.
Un’altra forma letteraria che si sviluppa in ambito familiare è il māšāl,
il proverbio, un breve detto che nasce dal­­l’osservazione della realtà alla
luce del­­l’esperienza. Gran parte della letteratura sapienziale trova dunque
la sua origine nella vita ordinaria della famiglia e della società. Esiste
infatti una sapienza familiare che ha come scopo l’educazione dei gio-
vani e che si esprime con formule fisse che compaiono a più riprese nei
testi biblici. Possiamo ricordare a questo proposito anche i primi testi
legislativi (rintracciabili specialmente in Es, Lv, Nm) relativi al com-
portamento da tenere al­­l’interno della comunità, nei rapporti reciproci
tra gli altri membri della società tribale. Infine, tra le forme letterarie
nate nel­­l’ambito familiare, da ricordare i canti, espressione privilegiata
di alcuni momenti forti della vita comunitaria. Così nel­­l’AT troviamo
canti d’amore, canti conviviali (cfr. Is 22,13; 56,12), lamenti funebri (2
Sam 1,19-27; l’intero libro delle Lamentazioni).

3.3. Il problema del linguaggio mitico

I racconti sulla creazione (Gen 1–11), molti testi dei Salmi o di Giob-
be, testi profetici di Isaia ed Ezechiele, mostrano sorprendenti contatti
con i miti propri dei popoli vicini, in particolare quelli del­­l’area meso-
Il linguaggio umano della Bibbia 135

potamica. Al mito è oggi riconosciuta una funzione particolare: esso è


un’interpretazione del­­l’enigma del­­l’esistenza, una risposta ai “perché”
della vita umana espressa attraverso un linguaggio narrativo e simbolico.
Il mito non si oppone alla storia, ma va al di là della storia stessa, ricer-
candone le radici più profonde. Per questo il mito fa sempre riferimento
al tempo delle origini e la sua “verità” non sta nel­­l’ambito della veridicità
storica, ma del messaggio annunziato.
L’AT ben conosce i miti dei popoli vicini. Da un lato, l’atteggiamento
degli autori biblici è quello di una cosciente e radicale opera di demi-
tizzazione: elementi e motivi propri dei racconti mitici vengono ripresi
e inseriti in un contesto storico preciso, eliminando ogni riferimento
politeistico. Così, per esempio, Is 51,9-11 (cfr. Sal 74,13-14) riprende
il motivo mitico della lotta degli dèi contro i mostri del caos primor-
diale, applicandola alla vittoria del Signore che fa uscire gli esiliati da
Babilonia.
D’altra parte, è evidente che molti testi del­­l’AT continuano a utiliz-
zare un linguaggio mitico: basti pensare alle strette relazioni esistenti tra
Gen 1–11 e i miti mesopotamici di creazione. Per “linguaggio mitico”
intendiamo il rappresentare aspetti della realtà umana o divina in forma
di racconto e attraverso l’uso di immagini e simboli proprie appunto
del mito. Nel mito, la realtà storica rivive nella sua perenne attualità
simbolica: «In questo caso, infatti, il termine “mito” non designa un
contenuto fabuloso, ma semplicemente un modo arcaico di esprimere
un contenuto più profondo. Senza alcuna difficoltà, sotto lo strato del­­
l’antica narrazione, scopriamo quel contenuto, veramente mirabile per
quanto riguarda le qualità e la condensazione delle verità che vi sono
racchiuse»22.

3.4. La sfera giuridica

Ogni comunità ha da sempre posto tra le sue preoccupazioni principa-


li la salvaguardia del­­l’integrità della comunità stessa; così essa tende a do-
tarsi di regole e norme e, allo stesso tempo, di organismi o procedure atte
a garantire l’osservanza delle norme stesse e la punizione del­­l’eventuale
trasgressore. In Israele la preoccupazione per il diritto, comune anche ai

22
Giovanni Paolo II, Udienza generale del 7.11.1979.
136 La trasmissione della parola di Dio

popoli vicini, ha dato origine a forme letterarie che caratterizzano una


vasta serie di testi biblici.
In epoca premonarchica, l’amministrazione della giustizia è deman-
data al padre, nel­­l’ambito familiare, o, nel­­l’ambito tribale, al capotribù.
In seguito, con la sedentarizzazione e la nascita di un primo apparato
statale l’intera comunità dei cittadini maschi, adulti e liberi diviene l’i-
stanza competente per l’amministrazione della giustizia: l’espressione
biblica “stare alla porta” indica il radunarsi della comunità per discutere
un caso di giustizia, alla porta della città appunto, luogo ordinario di
ritrovo. In epoca monarchica anche il re eserciterà funzioni di giustizia (il
ben noto caso di Salomone, 1 Re 3,16-28), ma la procedura giudiziaria
è ormai ben stabilita.
La convocazione del tribunale e dei testimoni apre il dibattito pub-
blico (Sal 50,1-6; Mi 6,1-2; Is 41,1), al­­l’inizio del quale vi è sempre il
discorso di accusa della parte lesa. Molti testi del­­l’AT riflettono questo
tipo di discorso: cfr. Dt 21,20; 1 Sam 12,7-17; Sal 50,7-21; Is 5,1-7
ecc. Al­­l’accusa segue la difesa del­­l’accusato: cfr. quella di Geremia in
Ger 26,12-15; testi profetici come Ger 2,29-35 e Mi 6,1-5 risentono di
questo genere letterario. Parte importante del processo è la confessione
del­­l’accusato, con la quale egli si riconosce colpevole (2 Sam 12,13);
molti testi di “confessione dei peccati” sono costruiti su questo schema
giuridico: cfr. il Sal 51. Nel post-esilio la “confessione dei peccati” di-
viene un genere letterario ben definito, come attestano Esd 9–10; Ne 9;
Dn 3,24-45; 9; Bar 1,15–3,8. La sentenza, di assoluzione o di condanna,
chiude il processo; formule frequenti come “merita la morte” (2 Sam
12,5), “non merita la morte” e altre simili rilevano direttamente dal
linguaggio giuridico.
Alla base delle decisioni giudiziarie troviamo evidentemente le leggi,
che costituiscono una parte notevole dei testi del­­l’AT; ricordiamo in
particolare i tre codici legislativi raccolti nel Pentateuco: il codice del­­
l’alleanza, il più antico (Es 20–23); il codice deuteronomico (Dt 12–26)
e il codice di santità (Lv 17–26). Le singole leggi si caratterizzano per
la loro formulazione, “casuistica” o “apodittica”; nel primo caso (cfr.
molti esempi in Es 21) la legge si occupa di singole situazioni concrete,
adattando il giudizio alla complessità e diversità della situazione stessa. Il
diritto apodittico è formulato invece senza possibilità di attenuanti (cfr.
Gen 9,6) e quasi sempre è relativo a trasgressioni gravi nel­­l’ordine etico-
religioso (omicidio, sacrilegio…) che comportano in genere la pena di
morte.
Il linguaggio umano della Bibbia 137

3.5. La sfera del culto

Nel mondo antico il culto costituisce un elemento essenziale per la


vita della società; Israele non fa eccezione. Intorno alla sfera del culto si
cristallizzano in Israele, sin dal­­l’epoca premonarchica, tradizioni e os-
servanze che, ben presto, verranno messe in forma scritta o influiranno,
in qualche modo, nella stesura dei testi.
Sin dalle epoche più antiche la vita cultuale tende a stabilirsi intorno a
luoghi ben precisi, i santuari, punti di ritrovo per il pastore seminomade
e, in seguito, centri della vita religiosa delle popolazioni locali, ormai
sedentarizzate. Così avviene per tutte le località legate in diversi modi
alle tradizioni sui patriarchi: Betel, Mamre, Bersabea, Sichem, Dan…
Molti di questi luoghi sacri custodiscono tradizioni e racconti relativi a
episodi legati alla nascita del luogo stesso: sono proprio tali tradizioni
che, in un secondo tempo, entreranno a far parte di un più vasto rac-
conto scritto; è il caso, per esempio, di Gen 28,10-22; Gdc 6,11-24.
La narrazione sul­­l’Arca (2 Sam 4–6) contiene in sé la spiegazione della
nascita del santuario di Gerusalemme.
Intorno ai santuari si sviluppano poi le tradizioni legate alle feste religio-
se, le più importanti delle quali sono feste di pellegrinaggio, come la Pasqua
o la festa delle Capanne, in origine feste di natura pastorale (la Pasqua,
festa di primavera) o agricola (le Capanne, festa autunnale del raccolto).
Intorno a queste feste nascono racconti che ne legittimano e ne spiegano
l’origine e raccolte di prescrizioni di carattere cultuale. Il testo di Es 12–13,
pur composto di diversi strati redazionali, è comunque una spiegazione
“storica” della festa di Pasqua e un’esposizione delle norme più importanti
relative alla celebrazione della festa. In epoca post-esilica il libro di Ester (Est
9,20ss.) giustifica e spiega la festa ebraica di Purîm mentre, alla fine del II
secolo a.C., 1 Mac 4,36-61 fonda l’esistenza della festa della Dedicazione.

La sfera del diritto, di cui ci siamo occupati nel paragrafo precedente,


nelle società antiche riguarda anche l’ambito del culto. Così non è infre-
quente trovare nel­­l’AT testi che devono la loro origine a forme espressive
proprie della legislazione cultuale. È questo il caso, prima di tutto, dei
calendari delle diverse festività israelite (cfr. Lv 23, Nm 28 e Dt 16,1-
17) che stabiliscono la cronologia delle feste utilizzando evidentemente
tradizioni ben consolidate. Nel post-esilio, i libri delle Cronache sono
una buona espressione di questa preoccupazione liturgica; le feste hanno
ormai rituali stabiliti che spesso vengono descritti minuziosamente.
138 La trasmissione della parola di Dio

I primi capitoli del libro del Levitico (Lv 1–7) contengono una accu-
rata descrizione dei rituali relativi ai sacrifici, parte essenziale del culto
divino. Questi testi scritti nascono evidentemente da tradizioni cultuali
preesistenti, trasmesse oralmente dai sacerdoti e soltanto dopo (anche
in seguito alla catastrofe del­­l’esilio babilonese) messe in forma scritta.

Il libro dei Salmi resta la migliore espressione di testi nati nel­­l’ambito


del culto. Buona parte del Salterio è occupata da Salmi che possono
essere definiti di “lamento”: il salmista si rivolge a Dio in una situazione
difficile, personale o collettiva, che può essere a seconda dei casi una
malattia (per esempio, il Sal 6), la morte ormai vicina (per esempio, il Sal
88), l’esilio (Sal 42-43), il proprio peccato (Sal 51), una sciagura nazio-
nale (Sal 80) ecc. Il gruppo dei “salmi di ringraziamento” (per esempio,
il Sal 30) esprime la gioia del fedele per la salvezza ritrovata; gli “inni”,
anch’essi molto numerosi, celebrano le lodi del Dio di Israele, visto ora
come creatore (Sal 8; 102) ora presente nella “città santa”, Sion (Sal
46, 48 ecc.). I “salmi regali” (cfr. il Sal 110) sono composizioni nate in
relazione a cerimonie liturgiche in favore del re. I cosiddetti “salmi delle
salite” (120–134) costituiscono una sorta di manuale del pellegrino che
sale per le feste a Gerusalemme. Quasi tutti i Salmi, dunque, trovano il
loro luogo di nascita nella liturgia, sia come preghiere di singoli fedeli, sia
come celebrazioni di tutto il popolo, anche se, in molti casi, i particolari
delle diverse celebrazioni ci sfuggono. In ogni caso, l’origine liturgica dei
Salmi ne rende esplicito il contenuto: in quanto preghiere, essi inten-
dono celebrare il rapporto stretto tra il Dio di Israele ed il suo popolo.
I Salmi sono senza dubbio, da un punto di vista letterario, composi-
zioni poetiche; anche se la scoperta di questa loro dimensione letteraria
è cosa più recente. Partendo dalla frase programmatica di H. Gunkel
secondo cui «lo scopo autentico e definitivo (dello studio dei generi
letterari) è comprendere l’opera letteraria», L. Alonso Schökel afferma,
a proposito dei Salmi, che

non occorre ripetere quello che lui ha fatto o continuare a fare ciò che già lui
faceva […]; piuttosto occorre rivedere, o fare quanto lui non ha fatto. […]
Gunkel voleva capire l’opera definendo i suoi fattori generici e cogliendo i
suoi motivi. Io cerco di comprendere l’opera poetica nella sua unità e uni-
cità e validità, fusione di contenuto e di forma, come espressione in parola
poetica di una esperienza umana […]. Benché questa ricerca non debba la
sua impostazione a Gunkel, l’esposizione può venire facilitata riferendosi
Il linguaggio umano della Bibbia 139

per contrasto ad alcuni suoi princìpi. Di fronte al genere, l’individuo: uni-


cità; oltre allo schema generico, altri modelli e l’organizzazione specifica:
unità; rimpiazzare molte volte motivi con simboli: linguaggio poetico; oltre
il contesto originale, il contesto attuale: validità […]. Il fattore decisivo che
costituisce l’unicità di un salmo, di un poema, è l’organizzazione interna,
la sua unità23.

Il lettore può trovare, nel commentario sui Salmi di Alonso Schökel,


l’applicazione di questo metodo che consiste nello scoprire, attraverso
i mezzi stilistici, l’organizzazione e articolazione unitaria di un poema,
in cui si realizza e si manifesta il suo senso. Sulla stessa linea, e con tutta
l’originalità che gli è propria, si muove G. Ravasi24.
La poesia ebraica non è limitata al solo libro dei Salmi: molti altri testi
del­­l’AT, in particolare testi profetici e sapienziali, sono stati concepiti e
trasmessi in forma poetica; il Cantico dei Cantici è un poema di nozze;
il celebre inno di Es 15 è un canto di vittoria (cfr. anche Gdc 5).

3.6. L’ambito delle istituzioni civili; la monarchia

Nelle monarchie del Vicino Oriente antico si sviluppano molte forme


letterarie legate alla vita della corte e al­­l’amministrazione dello stato;
gli annali regali registrano gli eventi importanti della vita del re. Così
anche in Israele, con la nascita della monarchia e, in conseguenza, di
una organizzazione statale ben delineata, si sviluppano forme letterarie
precise. Già forse prima della nascita della monarchia esistevano liste
tribali relative alla distribuzione dei territori secondo le diverse tribù;
tali liste sono probabilmente rispecchiate in Gs 13–19. In epoca monar-
chica, il genere letterario delle liste, per noi arido, acquista una notevole

23
L. Alonso Schökel, Trenta Salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, 13s.
(vedi tutta la Introduzione, pp. 5-30); cfr. anche P. Ricœur, Metafora viva, Jaca Book,
Milano 1981.
24
L. Alonso Schökel – C. Carniti, I Salmi, 1-2, ed. it. a cura di A. Nepi, Borla,
Roma 1992-1993; G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. 1 (1-50),
vol. 2 (51-100), vol. 3 (101-150), EDB, Bologna 1981.1983.1984. Raccomandiamo al
lettore le pagine della Introduzione, in particolare «II salterio, microcosmo simbolico» e
«… microcosmo poetico» (vol. 1, pp. 30-37, con bibliografia). Ricordiamo come oggi
l’esegesi del Salterio si muova piuttosto su linee di carattere sincronico: il salterio come
libro; cfr. T. Lorenzin, I Salmi, Edizioni Paoline, Cinisello B. 2000.
140 La trasmissione della parola di Dio

importanza. Le liste dei funzionari regali (cfr. 2 Sam 8,13-18; 20,13-26;


1 Re 4,2-6; se ne vedano i paralleli in 1 e 2 Cr) servono a legittimare
l’esistenza e l’ordinamento della monarchia israelita. Le lunghe liste più
tardive contenute nei libri di Esdra e Neemia (cfr. Esd 2; Ne 7; cfr. 1 Cr
1–9) hanno lo scopo di garantire l’integrità e l’appartenenza al popolo
di Israele delle famiglie dei rimpatriati dal­­l’esilio babilonese.
Nel caso di Israele non possediamo alcuna raccolta di annali di corte.
Eppure più volte i libri di Samuele e dei Re, come pure le Cronache, rin-
viano al­­l’esistenza di testi come “gli atti di Salomone”, la “cronaca dei re
di Israele e Giuda”. Si tratta di atti ufficiali del regno a noi sconosciuti,
ma che tali non erano agli autori dei libri citati e che, anzi, sono serviti
loro da fonti.
Intorno alla monarchia, e probabilmente al­­l’interno della stessa corte
israelita, si sviluppano inoltre i primi nuclei di narrazioni che entreranno
poi a far parte dei testi storici del­­l’AT (soprattutto 1 e 2 Sam; 1 e 2 Re
e 1 e 2 Cr).

3.7. La letteratura sapienziale

La letteratura sapienziale nasce prima di tutto nel­­l’ambito delle corti


regali in Egitto e in Mesopotamia, fin dal secondo millennio a.C., come
educazione al­­l’arte del buon governo per i futuri funzionari del re. Si
tratta di una sapienza pragmatica, che fa ricorso al­­l’esperienza comune
della vita. Si sviluppa anche una corrente sapienziale, che, ribellandosi
al­­l’ottimismo tradizionale, inizia a riflettere sulle contraddizioni della
vita umana e, molto spesso, sul problema capitale del male.
La letteratura sapienziale che si sviluppa in Israele a partire dal­­l’epoca
monarchica si caratterizza come “arte del vivere” e come educazione
integrale del­­l’uomo. Pertanto, come si è detto, la sapienza ha alla base
la forma letteraria del “proverbio” (māšāl), nato in ambiente familiare
o popolare, come espressione di una esperienza vissuta. Per il saggio, la
realtà ha un senso; Dio è infatti presente nella sua creazione e garantisce
l’ordine delle cose. La sapienza antica di Israele, quale si rispecchia per
esempio nei Proverbi, ma, in seguito, anche nel Siracide, è essenzialmente
ottimista.
Come avviene in Egitto e in Mesopotamia, anche in Israele la sapienza
si sviluppa nel­­l’ambito della monarchia. Non a caso il re Salomone ci
viene presentato come il “saggio” per eccellenza (1 Re 5,9-14); molti
Il linguaggio umano della Bibbia 141

dei detti sapienziali contenuti nelle parti più antiche dei Proverbi (Pr
10–30) si riferiscono al re o comunque alle doti che deve possedere chi
è chiamato a compiti di responsabilità. Diversi testi sapienziali riflettono
la probabile esistenza di vere e proprie scuole: i discorsi della sapienza
in Pr 1–9 sembrano indirizzati a giovani studenti; così è stata avanzata
l’ipotesi che la storia di Giuseppe (Gen 37–50) fosse un testo didattico
a sfondo sapienziale.
La corte, da un lato, e la vita del popolo, dal­­l’altro, costituiscono così
i due ambiti principali dove la letteratura sapienziale nasce e si sviluppa.
Ma a partire dal ritorno dal­­l’esilio babilonese la sapienza israelita acquista
una dimensione più profonda, giungendo a contestare l’impostazione
tradizionale. Con Giobbe e il Qoèlet, tra il V e il III secolo a.C., la sa-
pienza israelita acquisterà una dimensione più speculativa, riflettendo
a fondo sui problemi del dolore, della morte, della giustizia di Dio.
Tuttavia il punto di partenza di questo tipo di letteratura continuerà
ad essere l’esperienza concreta della vita quotidiana. Solo alla fine del I
secolo a.C., con il libro della Sapienza, scritto ad Alessandria d’Egitto
da un ebreo versato nella cultura greca, il mondo della filosofia inizierà
a far sentire il suo influsso al­­l’interno delle correnti sapienziali.

3.8. La letteratura profetica

Il profeta è forse l’espressione più caratteristica della fede israelita. Il


Signore, il Dio di Israele, è Dio della storia, presente nelle vicende del
popolo. Il profeta è mosso dalla convinzione di essere inviato da Dio
perché il popolo possa comprendere il senso di tale presenza. Il profeta
è così un uomo che sa leggere la storia del suo tempo alla luce della
fede, ammonendo i trasgressori e minacciando castighi o ripetendo le
promesse divine di salvezza e solo in questo senso, partendo dal presente,
arriva a parlare del futuro.
Il fenomeno profetico ha origine in Israele molto prima del­­
l’apparizione dei primi due profeti scrittori, Amos e Osea (circa nel­­
l’VIII secolo a.C.). Già in 1 Sam 10,5-6.10-13; 19,18-24 si parla di
gruppi di profeti che sembrano esistere in epoca premonarchica. Ciò fa
pensare che l’ufficio profetico fosse in qualche modo istituzionalizzato.
In seguito i profeti appariranno legati alla monarchia: si pensi ai profeti
di corte del re David, Natan e Gad (2 Sam 7.12; 1 Sam 22,5 ecc.) e, più
avanti, ai rapporti tra Elia ed Acab (1 Re 17–19). Spesso il rapporto re/
142 La trasmissione della parola di Dio

profeta viene visto in chiave conflittuale: è il caso, per esempio, di Isaia


e di Geremia.
I primi testi relativi ai profeti si presentano sotto forma di narrazioni
isolate o raggruppate in cicli più vasti. Quest’ultimo è il caso di grandi
cicli di racconti sul profeta Elia (1 Re 17–19.21; 2 Re 1) e su Eliseo (2 Re
2–8). Al­­l’interno di questi cicli si possono identificare sezioni più ridotte
relative a singoli miracoli o fatti della vita di quel determinato profeta,
tramandati in forma orale e solo in seguito inseriti in forma scritta al­­
l’interno di una narrazione più vasta.
A partire da Amos e Osea, e, soprattutto, con la figura di Isaia, vissuto
verso la fine del­­l’VIII secolo a.C., iniziano ad apparire i primi testi scritti
che raccolgono i detti e i fatti dei più importanti profeti. La Bibbia stes-
sa fa pensare che raramente i libri profetici in nostro possesso possano
essere fatti risalire al­­l’opera personale dei singoli profeti. È noto il caso
di Geremia e del suo “segretario” Baruc; ma anche Isaia (cfr. 8,16; 30,8)
fa pensare a una cerchia di discepoli che sarebbero i responsabili della
stesura scritta dei testi del maestro.
Una delle forme letterarie tipiche della letteratura profetica è costi-
tuita dai resoconti delle visioni avute dal profeta; sono celebri le visioni
avute da Ezechiele e Zaccaria. Alla base dei testi relativi alle visioni sta
l’esperienza personale del profeta che spesso aggiunge alla visione una
parola di spiegazione. La visione di Isaia nel tempio (Is 6) e la visione
della gloria di Dio in Ez 1 contengono allo stesso tempo il racconto della
vocazione del profeta.
La forma più tipica del linguaggio profetico è rappresentata dal co-
siddetto “vocabolario di missione”; i testi profetici usano una serie di
formule fisse e facilmente distinguibili: «La parola del Signore fu sopra
x» (Os 1,1; Ez 1,3 ecc.); «così dice il Signore» (ben 425 volte in tutto
l’AT!); «oracolo del Signore» (più di 300 volte): il profeta si presenta
infatti come “messaggero” del Signore, di cui porta la parola. Queste
formule di missione introducono gli oracoli profetici propriamente detti
che, dal punto di vista del contenuto, possono essere suddivisi in parole
di salvezza, parole di minaccia, oracoli di giudizio. Normalmente le
parole di minaccia precedono immediatamente l’oracolo di giudizio,
introdotto dalla suddetta formula del messaggero: è il caso di Am 3,10-
11; Mi 2,1-3; Ger 23,13-15. Tra gli oracoli di giudizio spiccano quelli
diretti contro popoli stranieri: presenti già in Am 1,3–2,3, questi ora-
coli sono raggruppati in raccolte indipendenti (Is 13–23; Ger 46–51;
Ez 25–32) non di rado posteriori al profeta stesso. Gli oracoli contro i
Il linguaggio umano della Bibbia 143

popoli stranieri annunziano da un lato la salvezza per Israele, dal­­l’altro il


giudizio divino sul mondo. Talora gli oracoli di giudizio sono preceduti
da ammonimenti che rendono l’annunzio profetico condizionato dal
comportamento degli uditori. Le parole di salvezza invece sono quasi
sempre incondizionate, ovvero rimandano a un futuro che è intera-
mente nelle mani di Dio. I testi di Is 40–55 sono i più ricchi di questa
forma letteraria che viene descritta, a seconda dei casi, come “oracolo”,
“promessa” o “annuncio” di salvezza; in ogni caso si tratta di testi rivolti
al futuro e relativi alla salvezza promessa dal Signore a Israele. Occorre
comunque osservare come i profeti utilizzino tutte queste forme lette-
rarie con grande libertà.
Nei libri profetici non è raro trovare l’uso di forme letterarie tipiche
di altri ambienti vitali del popolo di Israele. Così Isaia, Amos, Michea
utilizzano il genere delle lamentazioni funebri per piangere sulla triste
sorte di Israele (cfr. Is 3,25–4,1). Non è raro trovare nei profeti forme
tipiche del­­l’ambito giuridico: il rapporto tra Dio e Israele è spesso visto
come un dibattito processuale, che presuppone una situazione di con-
flitto tra il Signore e il suo popolo; così avviene per esempio nei testi del
Deuteroisaia (Is 40–55).

3.9. L’apocalittica

Con “apocalittica” si indica qui un tipo di letteratura fiorita a partire


dal II secolo a.C.; l’origine del­­l’apocalittica resta tuttora incerta, anche
se è probabile una sua derivazione dal filone profetico. Già in Is 24–27;
34–35; Gl 3–4; Zc 9–14 ci troviamo di fronte a testi che già riflettono
una tendenza apocalittica. La letteratura apocalittica è una forma lette-
raria tipica di un periodo di crisi; il libro di Daniele nasce per esempio
in seguito alla persecuzione di Antioco IV e alle lotte maccabaiche. La
visione della storia e del mondo è fondamentalmente pessimista: ci si
attende un intervento risolutore di Dio che segnerà la fine di questo
mondo malvagio e la nascita di un mondo nuovo. Gli autori dei testi
apocalittici, che si moltiplicheranno tra il IV secolo a.C. e il I secolo d.C.
(cfr. il libro apocrifo di Enoch), ma che non saranno accolti nel canone
biblico, si presentano come depositari di una rivelazione particolare ed
espongono il loro messaggio con ricchezza di immagini e di simboli,
facendo frequentemente ricorso al­­l’allegoria.
144 La trasmissione della parola di Dio

4. Il Nuovo Testamento come letteratura

La letteratura neotestamentaria va inserita anch’essa al­­l’interno di un


contesto letterario più vasto, che spazia dalla cosiddetta letteratura apo-
crifa a quella giudaica del tempo (Qumran, prima di tutto, e la nascente
letteratura rabbinica), senza ignorare gli apporti della letteratura elleni-
stica25. Ci limitiamo ad alcune rapidissime osservazioni circa le forme
letterarie più tipiche della letteratura neotestamentaria, da approfondire
nello studio dedicato a ciascuno di questi testi.

4.1. I Vangeli e gli Atti

Con il termine greco euanghélion, “buona notizia”, già in Mc 1,1 si


inizia a indicare non soltanto il contenuto del messaggio su Gesù Cristo,
ma anche un vero e proprio genere letterario, che proprio con Marco
segna il suo inizio e la sua originalità: il “vangelo”, inteso come opera
letteraria – anche se in tal senso si inizierà a parlare di “vangelo” soltan-
to a partire dal II secolo –, non ha alcun parallelo nella letteratura del
tempo. Il vangelo si caratterizza come una narrazione originale, relativa
a quel messaggio di salvezza il cui contenuto è la persona stessa di Gesù e
il suo rapporto con la comunità dei discepoli. Si può affermare, nel caso
dei vangeli, che ci troviamo di fronte a quel tipo di opera letteraria nella
quale il contenuto eccede la forma e dove gli autori scompaiono quasi
del tutto dietro la loro opera. Al­­l’interno dei vangeli dobbiamo notare
la presenza di altre forme letterarie, come quella della “parabola”, o dei
detti attribuiti a Gesù, sia di carattere profetico che sapienziale. Un caso
a parte è la storia della passione, che presenta in tutti e tre i Sinottici una
sua struttura specifica e un suo preciso orientamento teologico.
Alla base dei “vangeli” scritti è riconosciuta l’esistenza di una tradizio-
ne orale su Gesù, risalente sia a Gesù stesso – che, giova ripeterlo, non
ha lasciato nulla di scritto! – che alla predicazione della prima comunità

25
Rimandiamo al­­l’ottima presentazione di F. García Martínez, Il contesto letterario
del Nuovo Testamento, in La Bibbia nel suo contesto, 334-351. Sulla dimensione letteraria
del NT si veda una sintetica introduzione in R. Penna, La formazione del Nuovo Testa-
mento nelle sue tre dimensioni, 38-107.
Il linguaggio umano della Bibbia 145

apostolica. Le lettere di Paolo, in particolare, attestano ripetutamente


l’esistenza di una tale predicazione e ci permettono di recuperare forme
primitive, come le confessioni di fede (cfr. 1 Cor 15,3-5 e Rm 1,3b.4a)
e le acclamazioni liturgiche, come «Gesù (è) il Signore» (cfr. 1 Cor 12,3;
Rm 10,9; Fil 2,11) o «Signore, vieni!» (1 Cor 16,22). Il testo di Fil 2,6-
11 può ben essere considerato un primitivo inno cristiano, forse il più
antico conosciuto.
Dai tre vangeli sinottici si distacca il quarto vangelo; il Vangelo di
Giovanni si propone come un’opera letteraria ancor più originale. Il
Vangelo di Giovanni, anche se può e deve essere considerato un vangelo
come gli altri tre, anzi «il frutto più maturo di questo genere di scritti e la
perfetta incarnazione di ciò che il vangelo vuole essere nel suo contenuto
più profondo», persegue un fine suo proprio che «è certamente quello
di porre in primo piano, nelle azioni terrene e nei discorsi di Gesù, la
figura eccelsa del Rivelatore e Salvatore escatologico, mettere in luce la
gloria del Lógos che scende sulla terra per abitare in mezzo a noi, indicare
infine il permanente significato salvifico dei fatti storicamente passati»26.
Il genere letterario “testimonianza”27 rende ragione solo in parte della
singolarità del quarto vangelo.
Gli Atti degli apostoli si avvicinano al genere degli “atti” di un qual-
che personaggio famoso, come li conosceva il mondo ellenistico. Ma si
potrebbero anche definire come la storia del­­l’avanzata del vangelo nel
mondo; al­­l’interno della narrazione l’autore – tradizionalmente iden-
tificato con Luca – si serve di diversi tipi di forme letterarie, in modo
particolare dei discorsi.

4.2. Le lettere

Le lettere di Paolo costituiscono, in realtà, il vero e proprio inizio di


quel corpus letterario che diventerà il NT; alle sette lettere sicuramente
autentiche (cfr. sopra, pp. 114s.) si aggiunge una ricca tradizione che
presto fa nascere un vero e proprio corpus paolino. È interessante notare
come il NT non si apra – dal punto di vista cronologico – con opere

R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni 1, Paideia, Brescia 1973, 12.51s.


26

Cfr. I. de La Potterie, San Giovanni, in Id., Introduzione al Nuovo Testamento,


27

Morcelliana, Brescia 19712, 879-887.


146 La trasmissione della parola di Dio

storiche o filosofiche, e neppure con i vangeli, ma con scritti d’occasione,


che ci portano nel vivo delle prime comunità cristiane e dei loro pro-
blemi più immediati: le lettere di Paolo, appunto. Benché Paolo segua
spesso nelle sue lettere le regole della retorica antica, il suo stile è sempre
personale ed egli cerca non la chiarezza, ma la densità e la ricchezza del
contenuto. Dal corpus paolino si distacca la più tardiva Lettera agli Ebrei,
il cui genere letterario si avvicina piuttosto a quello del­­l’omelia. Tra le
cosiddette “lettere cattoliche” anche quella di Giacomo sembra meno
una lettera che uno scritto omiletico; la Prima lettera di Pietro contiene
dal canto suo molti elementi di carattere liturgico e catechetico. Anche
le altre lettere “cattoliche” (1 Gv, 2 Pt, Gd) si avvicinano al genere omi-
letico, mentre 2 e 3 Gv sono dei biglietti di circostanza.

4.3. L’Apocalisse

Il libro del­­l’Apocalisse riprende infine la forma letteraria del­­l’apocalittica


già ben nota al giudaismo (cfr. sopra) e da non confondersi necessaria-
mente con il contenuto. Nel libro del­­l’Apocalisse, l’uso di un linguaggio
fortemente simbolico e, in diversi casi, allegorico, si coniuga molto bene
con il tono di carattere profetico e con l’idea di una rivelazione ricevu-
ta dal veggente attraverso un mediatore celeste; come già si è notato,
l’apocalittica è letteratura per un tempo di crisi e il libro del­­l’Apocalisse
non fa eccezione. Nel contesto della persecuzione imperiale, alla fine
del I secolo, il libro del­­l’Apocalisse intende svelare ai suoi lettori il senso
profondo della storia che essi stanno vivendo e stimolarli alla speranza
con una visione alla fine positiva della storia stessa.

5. Gli scrittori biblici sono veri autori

Gli scrittori della Bibbia non sono strumenti inerti e passivi nelle
mani di Dio e neppure semplici raccoglitori di materiale preesistente.
Li offenderemmo se non riconoscessimo loro, con tutti i diritti, il titolo
di «veri autori» (DV 11).
Il linguaggio umano della Bibbia 147

5.1. La storia della redazione

La stessa critica letteraria ha operato una correzione di rotta. Poiché


la “storia delle forme” (Formgeschichte) aveva insistito troppo sulla tra-
dizione delle piccole unità letterarie preesistenti alla redazione finale,
negli ultimi decenni gli studi redazionali hanno posto in primo piano
l’intenzione particolare e la concezione teologica di ciascun autore o re-
dattore finale. Alla “storia delle forme” si è così accompagnata la “storia
della redazione” (Redaktionsgeschichte)28. Gli scrittori anticotestamenta-
ri, come pure gli evangelisti, che ci hanno lasciato le loro grandi opere
narrative, evidentemente non erano soltanto dei compilatori, né le loro
produzioni letterarie soltanto dei serbatoi di raccolta. Fra il materiale
tramandato essi hanno fatto un lavoro di selezione, di strutturazione,
di coordinamento mediante annotazioni personali, facendone risultare
così un insieme nuovo. L’indagine storico-redazionale cerca di rintrac-
ciare le idee-guida di quegli uomini e il senso che essi hanno voluto
dare alle piccole unità attraverso il loro ordinamento nel­­l’insieme dello
scritto.

5.2. La fatica personale e lo stile dello scrittore

Anche gli autori biblici conoscono la fatica dello scrivere. L’autore


del Secondo libro dei Maccabei parla di «sudori e veglie» quale costo del
suo lavoro (2,24-33) e lo affida alla benevola verifica del lettore (15,39).
Luca, nel prologo al suo vangelo (1,1-4), parla di personali «ricerche
accurate» e del suo proposito di fare «un resoconto ordinato». Nella
Prima lettera ai Corinzi, Paolo interrompe il corso del pensiero per in-
serire un ricordo casuale (1,14-16) e scrive currenti calamo, precisando
cioè progressivamente il suo pensiero, proprio come potrebbe fare ogni
altro scrittore di lettere.
Gli scrittori della Bibbia rimangono con il loro temperamento, la loro
mentalità, le loro idee, il loro stile, il loro linguaggio, ben diversi nel­­l’uno
e nel­­l’altro. Per esempio, la spontaneità popolare del Vangelo di Marco è

28
Cfr. H. Zimmermann, Metodologia del Nuovo Testamento, 192-233; R. Latourelle,
A Gesù attraverso i Vangeli. Storia ed ermeneutica, Cittadella, Assisi 1989, capp. X e XIV
(con bibliografia).
148 La trasmissione della parola di Dio

ben distinta dalla gravità quasi dottorale di Matteo; e il fascino del­­l’uno


e la maestà del­­l’altro mettono in evidenza, per contrasto, l’eleganza e la
chiarezza del Vangelo di Luca.
Amos, Osea, Isaia e Geremia sono tutti profeti, cioè portavoce della
parola di Dio, ma: Amos ha l’anima e lo stile del proletario di campagna
(4,1-3; 6,1-7); Osea traduce nel linguaggio la sua passione di marito
tradito ma innamorato (2,1-25) e il suo affetto di padre (11,1-11); Isaia,
anche nella requisitoria (in ebraico: rîb) contro i peccati d’Israele, man-
tiene l’espressione nobile del­­l’uomo di cultura e l’ironia del politico
(3,16–4,1); Geremia porta nei suoi oracoli la contraddizione implicita
nella sua vocazione («sradicare e demolire, distruggere e abbattere, edi-
ficare e piantare»: 1,11): egli è l’uomo lacerato da conflitti insostenibili,
profeta di violenza e di misericordia. Amante della gioia di vivere, del­­
l’amore e della partecipazione, Geremia è chiamato da Dio alla solitu-
dine e al­­l’isolamento (16,11-13); l’estraneità degli altri ce lo fa ritrovare
curvo sul suo diario, traboccante di confessioni (11,18–12,16; 15,10-21;
17,12-18; 18,18-23; 20,7-18).
7.
Il testo della Bibbia

Bibliografia: Oltre alle Introduzioni ai libri del­­l’AT e del NT, elencate nella Bibliografia
generale, cfr. R.E. Brown – C. Buzzetti – D.W. Johnson – K.G. O’Connel, Testi e
versioni, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1418-1463;
C.M. Martini, Il testo biblico, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. In-
troduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975, 502-551 (con bibliografia):
al saggio di Martini è largamente debitore questo capitolo; C.M. Martini – P. Bonatti,
Il Messaggio della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 153-214;
J. Scharbert, La Bibbia. Storia, autori, messaggio, EDB, Bologna 1972 (il lettore può
trovarvi facilmente una sufficiente documentazione fotografica di scritture antiche, alfa-
beti, papiri, pergamene, rotoli, codici ecc.); E. Würtwein, The Text of the Old Testament,
Grand Rapids/MI 1981.
Una sintetica e buona introduzione al testo e alla critica testuale di entrambi i Te-
stamenti si ha poi in La Bibbia e il suo contesto, Paideia, Brescia 1994, 394-512 (parte
curata da A. Trebolle Barrera – B. Chiesa). Cfr. una trattazione più completa in P.D.
Wegner, Guida alla critica testuale della Bibbia. Storia, metodi e risultati, San Paolo,
Cinisello B. 2009. Una sintetica introduzione ai problemi di critica testuale del­­l’Antico
Testamento è offerta da J. Joosten, in M. Bauks – Ch. Nihan (edd.), Manuale di esegesi
del­­l’Antico Testamento, EDB, Bologna 2010, 15-44. Per la critica testuale del Nuovo Te-
stamento, rimandiamo invece al­­l’opera di B.M. Metzger, Il testo del Nuovo Testamento,
Paideia, Brescia 1996.

Di nessuna opera letteraria del mondo classico possediamo l’originale.


Ciò è vero anche della Bibbia, i cui testi autografi sono irrimediabilmen-
te perduti. Un breve accenno alle condizioni in cui si trovava l’editoria,
prima della scoperta della stampa, ne rende sufficiente ragione.
150 La trasmissione della parola di Dio

1. Papiri e pergamene

Le prime testimonianze di scrittura provengono da Uruk (Warkah),


a sud di Babilonia, per opera dei sumeri che sono ritenuti gli inventori
della scrittura (3.500 circa a.C.). Scrivevano su tavolette d’argilla ancora
tenera, vi imprimevano segni a forma di cuneo per mezzo di uno stiletto
di legno o di metallo – di qui il nome di scrittura cuneiforme –, poi le
essiccavano al sole o le cuocevano come mattoni. I documenti poterono
in questo modo conservarsi quasi a tempo indefinito. Di fatto, centinaia
di migliaia di tavolette in scrittura cuneiforme sono venute alla luce
durante gli scavi archeologici a Ninive, Mari, Hattusas, Ugarit ecc., e ad
Ebla1. Si tratta di veri e propri archivi.
Gli egiziani, invece, conoscevano un altro materiale per la scrittura,
molto più pratico ma anche facilmente deteriorabile, il papiro, usato in
Egitto già dal 3.000 a.C. La canna di papiro, che cresce abbondantemen-
te sulla riva del Nilo, veniva tagliata in strisce; queste venivano incrocia-
te, poste una sul­­l’altra e poi incollate, pressate e lisciate. Si ottenevano
così dei fogli di papiro sui quali si scriveva per mezzo di inchiostro o co-
lore, usando un pennello o una specie di penna. I singoli fogli potevano
essere incollati o cuciti uno dopo l’altro, ottenendo delle strisce anche
di diversi metri di lunghezza. Ponendo due bastoncini alle estremità,
la lunga striscia di papiro poteva essere arrotolata: è il rotolo di papiro.
Il papiro fu importato dal­­l’Egitto in Palestina attraverso le città co-
stiere della Fenicia e divenne materiale ordinario di scrittura anche per
l’antico Israele: Ger 36 ne è un esempio esplicito. Il costume di incidere
la scrittura su blocchi di pietra, come per gli egiziani e per i popoli del­­
l’Asia minore, anche per gli ebrei era riservato a documenti importanti
ma brevi: per esempio trattati, leggi (cfr. Es 31,18; 34,1ss.; Gs 8,32).
Soltanto più tardi gli ebrei conobbero dai persiani un materiale più
duraturo, ma anche più costoso: la pelle di animale. La preparazione del
cuoio di montone e di capra, per tale uso, fu perfezionata nella città di

1
Cfr. Aa.Vv., Qumran et découvertes au désert de Juda, e Ras Shamra, in DBS IX, coll.
737-1014.1124-1466; P. Matthiae, Ebla. Un impero ritrovato, Einaudi, Torino 1977; M.
Dahood, Ebla, Ugarit e l’Antico Testamento, in CC 129 (1978) 328-340; 1 libri profetici e
sapienziali alla luce delle scoperte di Ebla e di Ugarit, ibid., 347-357; G. Pettinato, Ebla. Un
impero inciso nel­­l’argilla, Mondadori, Milano 1979; cfr. le riviste Revue de Qumran, Paris
1979…; Studi Eblaiti, Istituto di Studi del Vicino Oriente, Università di Roma 1979…
Il testo della Bibbia 151

Pergamo verso il 100 a.C., da cui si derivò il nome di pergamena (cfr.


2 Tm 4,13s.). Anche i fogli di pergamena venivano cuciti l’uno dopo
l’altro, formando un lungo rotolo. La forma del codice di pergamena,
ovvero del libro formato con fogli posti l’uno sopra l’altro e quindi le-
gati, entra in uso dal I secolo d.C. in poi. Il nuovo sistema si applicava
anche al papiro; i celebri papiri del NT, di cui diremo, hanno appunto
il formato di codice.

2. Testi originali (perduti) e testimoni del testo

Se anche la Bibbia è nata in tale situazione editoriale, si comprende


benissimo perché gli originali siano andati perduti. I papiri, ancor più
delle pergamene, si deteriorano presto. Praticamente solo in Egitto il
clima asciutto e l’arida sabbia del deserto favoriscono una lunga conser-
vazione dei papiri, che tuttavia – per quanto concerne la Bibbia – non
sono mai testi originali. Il caso di Qumran è stato una nuova fortunata
circostanza. L’arido deserto di Giuda e le sue caverne asciutte hanno
permesso di conservare fino al 1948, anno della scoperta fortuita, una
notevole quantità di rotoli e di codici, certo antichissimi (fino al IX
secolo a.C.), ma non originali, per di più fortemente danneggiati2.
Si deve inoltre tenere conto del fatto che rotoli e codici originali,
presto deteriorati dal­­l’uso, rendevano necessaria una riscrittura a breve
termine. Le trascrizioni di un testo biblico si succedevano rapidamente
e aumentavano di conseguenza anche gli errori di copiatura, operata
su copie di copie. Così nessuna meraviglia che le lezioni riconosciute
come erronee dai critici si trovino già nei più antichi testimoni del testo
biblico, oggi a nostra disposizione.
Non possediamo dunque l’originale di alcun testo biblico, ma abbia-
mo testimoni del testo, cioè esemplari del testo giunti a noi attraverso un
indefinito numero di trascrizioni durante le quali il testo ha subito errori,

2
SuIle scoperte di Qumran, cfr. J.T. Milik, Dieci anni di scoperte nel deserto di Giuda,
Marietti, Torino 1957; Aa.Vv., Qumran et découvertes au désert de Juda, in DBS IX, coll.
737-803. La bibliografia su Qumran è ormai enorme; per ciò che riguarda i testi qumra-
nici ci limitiamo a suggerire la lettura del­­l’introduzione ai testi di Qumran in F. García
Martínez (ed.), Testi di Qumran, ed. it. a cura di C. Martone, Paideia, Brescia 1996.
152 La trasmissione della parola di Dio

correzioni, modificazioni e anche revisioni assai ampie. Di qui nasce la


necessità della critica testuale3, il cui scopo è appunto quello di ricostruire
un testo il più possibile vicino al­­l’originale, partendo dai testimoni del
testo oggi disponibili.
I testimoni del testo sono di varia natura. Si chiamano testimoni diretti
quelli che riproducono il testo per se stesso: o per intero (rotoli e codici
di papiro o pergamena), oppure per sezioni (per esempio lezionari di
vario tipo), o per brani molto brevi (per esempio gli óstraka, cocci di
ceramica di vario tipo, sui quali venivano scritti pochi versetti biblici). Si
chiamano testimoni indiretti quelli che riproducono brani della Bibbia
in occasione di altre opere letterarie, come le citazioni dei Padri nei loro
scritti. Testimoni sui generis sono le versioni antiche, la cui importanza
per la critica testuale deriva dal fatto che furono compiute su manoscritti
non molto distanti dagli originali.

3. Il testo ebraico e aramaico del­­l’Antico Testamento

3.1. Testimoni diretti

Fino alle scoperte del XX secolo i più antichi manoscritti ebraici a


nostra disposizione arrivavano al massimo al X secolo d.C. Le edizioni
critiche odierne della Biblia Hebraica4 riproducono, come testo base,
il manoscritto di Leningrado B 19a, del­­l’anno 1008 o 1009 d.C. Al
codice di Leningrado si aggiunge il codice di Aleppo, della metà del
X secolo d.C., del quale è in corso una edizione critica, e che offre un
testo ebraico completo proveniente da una diversa tradizione testuale
(cfr. oltre). Questi due codici sono gli unici manoscritti antichi completi
della Bibbia ebraica.
Nel 1896 in una Genizah5 della città antica del Cairo furono scoperti
numerosi frammenti di codici, il più famoso dei quali è un testo mano-

3
Vedi qui sotto, § 7.
4
Vedi qui sotto, § 8.
5
La Genizah è il ripostiglio nel quale venivano ammassati i manoscritti di una sinagoga,
ormai non più in uso, ma che non possono essere distrutti. Nel 1931 sono stati scoperti
altri frammenti del Siracide.
Il testo della Bibbia 153

scritto ebraico del libro del Siracide. Essi risalgono al VI-VII secolo d.C.
Tra i frammenti della Genizah, va segnalato anche il codice contenente
il testo dei profeti anteriori e posteriori, datato al­­l’895 d.C., codice del
quale è stata tuttavia messa in dubbio la purezza testuale.
Nel 1948 i manoscritti biblici scoperti nelle grotte di Qumran6 hanno
introdotto un capitolo nuovo nella storia del testo ebraico del­­l’AT. A
Qumran si sono trovati frammenti più o meno ampi di tutti i libri del­­
l’AT, ad eccezione di Ester, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Baruc, Sapienza.
Di Isaia, Abacuc e Salmi c’è il testo completo. I manoscritti di Qumran
risalgono a un periodo che va dal II secolo a.C. al I d.C.; sono dunque
anteriori di ben mille anni ai manoscritti che conoscevamo, se si pre-
scinde dal piccolo papiro di Nash (II o I secolo a.C.), contenente appena
il decalogo e Dt 6,4.
Un caso singolare è costituito dal Pentateuco samaritano, cioè il testo
del Pentateuco proveniente dalla comunità-setta dei samaritani, tuttora
esistente, che si separò dal giudaismo in epoca post-esilica e conservò
per proprio conto il Pentateuco come unico libro ispirato. Anche se non
possediamo manoscritti anteriori al X secolo d.C., il testo del Pentateu-
co samaritano è importante per la critica testuale perché ha avuto una
trasmissione indipendente e si rifà a un tipo di testo ebraico anteriore a
quello fissato dai masoreti7.

3.2. Versioni antiche del­­l’Antico Testamento

a) Versione greca detta dei Settanta8

Il nome Settanta (sigla: Lxx) è derivato dalla Lettera dello pseudo-Ari-


stea, uno studioso ebreo del II secolo a.C., che intende dare un resoconto

6
Cfr. P.W. Skehan, Littérature de Qumran. Textes bibliques, in DBS IX, coll. 803-822.
L’anno 1948 segna soltanto l’inizio delle scoperte qumraniche.
7
Vedi qui sotto, § 4.
8
La versione greca detta dei Settanta apre una serie di problemi che qui non possiamo
affrontare; l’interesse verso i Settanta è negli ultimi anni notevolmente cresciuto. Riman-
diamo ad alcune introduzioni specifiche, in particolare a M. Cimosa, Guida allo studio
della Bibbia greca (Lxx), Società biblica Britannica e Forestiera, Roma 1995; N. Fernán-
dez Marcos, La Bibbia dei Settanta (Introduzione allo studio della Bibbia, Supplementi
6), Paideia, Brescia 2000. È oggi disponibile la prima traduzione italiana dei Settanta, con
introduzioni, testo greco a fronte e note filologiche, a cura di P. Sacchi. Sono usciti i primi
154 La trasmissione della parola di Dio

sul­­l’origine della versione9. Da questo documento si può almeno ricavare


che una versione greca del Pentateuco, fatta per le comunità ebraiche
della diaspora che non parlavano più ebraico, esisteva già dal III secolo
a.C. e che si tramandava la memoria di una sua origine egiziana. Inoltre,
il prologo del Siracide, scritto verso il 130 a.C., accenna al­­l’esistenza di
traduzioni in lingua greca de «la legge, i profeti e gli altri libri», in pratica
del­­l’intero canone ebraico. Pertanto, verso la fine del II secolo a.C. esisteva
certamente una versione greca della Bibbia ebraica, frutto di più versioni
fatte in tempi diversi e da vari autori, i quali non possedevano la stessa
perizia nel tradurre. La lettera di Aristea testimonia in ogni caso la fiducia
che gli ebrei alessandrini avevano nel­­l’ottima qualità della traduzione greca
dei Settanta, che originariamente doveva limitarsi al solo Pentateuco e
gradualmente si estese agli altri testi delle Scritture ebraiche, inglobando
alla fine anche testi scritti direttamente in greco, come per esempio il libro
della Sapienza e i quattro libri dei Maccabei.
La storia del testo dei Lxx costituisce un capitolo a parte ed esige
una sua specifica “critica testuale”, la quale sta dando i suoi frutti nelle
due edizioni critiche ancora in corso di pubblicazione10. I manoscritti

tre volumi: P. Sacchi – L. Mazzinghi – C. Martone (edd.), La Bibbia dei Settanta, I:


Il Pentateuco, a cura di P. Lucca, Morcelliana, Brescia 2012; II: Libri poetici, a cura di C.
Martone, Morcelliana, Brescia 2013; II/1: Libri storici, a cura di P.G. Borbone, Morcel-
liana, Brescia 2016.
9
Il racconto di Aristea è in realtà piuttosto una leggenda: si afferma che Tolomeo
II Filadelfo (283-246 a.C.) desiderava avere nella grande biblioteca che egli fondò ad
Alessandria di Egitto la traduzione dei libri sacri ebraici. Dietro sua richiesta, 72 uomini
(cifra che verrà in seguito arrotondata da Giuseppe Flavio in 70), sei per ciascuna delle
dodici tribù, furono inviati da Gerusalemme per eseguire la traduzione. Il racconto si
arricchì di ulteriori tratti leggendari. Secondo il filosofo ebreo Filone di Alessandria, i 72
furono segregati in celle separate nel­­l’isola di Faro; ciascuno eseguì l’intera versione in
72 giorni e – culmine della leggenda – si trovò che le versioni risultarono, al confronto,
miracolosamente identiche (vedi sotto, cap. 10, 1.2). Per una versione e un commento
critico della lettera, cfr. R. Tramontano, La lettera di Aristea a Filocrate, Napoli 1931; A.
Pelletier, Lettre d’Aristée à Philocrate (SC 89), du Cerf, Paris 1962; F. Calabi, Lettera di
Aristea a Filocrate (I classici della BUR), Rizzoli, Milano 1995 [con testo greco a fronte].
10
Una a Cambridge, A.E. Brooke –N. McLean – H.St.J. Thackeray, The Old Te-
stament in Greek, Cambridge 1906-1940 (sono stati pubblicati soltanto i libri cosiddetti
storici); l’altra a Göttingen, J. Ziegler – J.W. Wevers, Vetus Testamentum Graecum auc-
toritate Societatis Litterarum Gottingensis editum, Göttingen 1931… (sono usciti Gen, Es,
Nm, Lv, Dt, Rut, 1-2 Esd, Est, Gdt, Tb, 1-3 Mac, Sal [con le Odi], Gb, Sap, Sir, Dodici
profeti, Is, Ger, Bar, Lam, Lettera di Geremia, Ez, Dn [con le parti deuterocanoniche], 1-2
Cr). Tra le edizioni critiche manuali, va ricordata principalmente quella di A. Rahlfs,
oggi disponibile in edizione riveduta: A. Rahlfs – R. Hanhart, Septuaginta. Editio altera,
Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2006.
Il testo della Bibbia 155

completi più antichi dei Lxx sono i codici cristiani Vaticano e Sinaitico,
entrambi del IV secolo d.C. Ma a Qumran, e in altre zone del deserto
di Giuda, sono stati trovati frammenti di una versione greca di Levitico,
Esodo, Lettera di Geremia e profeti minori, risalente probabilmente alla
seconda metà del I secolo d.C. A questi vanno aggiunti i papiri greci di
Ryland e Fouad, con frammenti del Deuteronomio, e i papiri Chester
Beatty, con frammenti di Numeri e Deuteronomio: tutti del II secolo
d.C.11. Vanno aggiunti ai manoscritti dei Settanta le citazioni presenti
nel Nuovo Testamento, negli scritti di Filone, Flavio Giuseppe e dei
Padri greci. Non si dimentichi, infatti, che la versione dei Settanta co-
stituisce di fatto il testo biblico utilizzato dagli autori neotestamentari e
dai Padri della chiesa di lingua greca12.

b) Versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione

Quanto più intense diventavano le dispute tra cristiani e giudei, tanto


più la versione dei Lxx, diventata la Bibbia dei cristiani, perse di con-
siderazione presso i giudei. Sorsero così nel II secolo d.C. nuove tradu-
zioni greche del­­l’AT per l’uso dei giudei in diaspora. Sono le versioni
di Aquila, Simmaco e Teodozione, delle quali san Girolamo espresse
concisamente questo giudizio: «Uno [Aquila] cerca di rendere parola
per parola; l’altro [Simmaco] dà piuttosto il senso; il terzo [Teodozione]
non differisce molto dagli antichi [cioè i Lxx]»13. Origene († 234 d.C.)
le aveva raccolte, unitamente ai Lxx, disponendole in colonne parallele
insieme al testo ebraico e ad una translitterazione del testo ebraico in
lettere greche: sono le cosiddette Esapla (= sei colonne parallele), opera
monumentale della quale purtroppo possediamo soltanto frammenti.

c) Versioni aramaiche, dette Targumîm

Già prima di Cristo, quando l’ebraico era stato sostituito dal­­l’aramaico


come lingua popolare e quindi non era più compreso dal popolo14, il

11
Vedi qui sotto, § 5.
12
Per il problema della ispirazione e del­­l’attualità del testo dei Settanta cfr. oltre, p. 208.
13
Girolamo, Praef. in 2 Chron. Eusebii: PL 27, 223.
14
Vedi sopra, cap. 6, 1.2.
156 La trasmissione della parola di Dio

lettore nella sinagoga ebraica traduceva direttamente il testo ebraico,


spesso parafrasandolo ai fini di un’interpretazione del testo sacro: ecco il
targûm, parola aramaica che significa “traduzione”. Queste versioni ara-
maiche, dapprima orali, furono poi redatte in iscritto. Anche a Qumram
si è trovato un frammento di targûm su Giobbe. Disponiamo di diversi
targumîm (sigla Tg): sul Pentateuco, Tg di Jonatan (o Gerosolimitano I),
Tg Gerosolimitano II (che probabilmente corrisponde a quello ritrovato,
nel 1956, nel codice Neofiti I della Biblioteca Vaticana), e Tg di Onkelos;
sui libri storici e profetici, Tg di Jonatan ben Uzziel; altri targumîm sui
libri profetici e didattici. I targumîm ci sono pervenuti in manoscritti
relativamente recenti; tuttavia la loro prima redazione è molto antica,
anche se non va oltre il V secolo d.C. Trattandosi per lo più di versioni
parafrasate del testo ebraico, i targumîm sono importanti più per la
conoscenza del­­l’antica esegesi giudaica che non per la critica testuale.

d) Altre versioni antiche

Delle altre versioni antiche del­­l’AT, molte furono fatte sul testo greco
dei Lxx: così la Vetus latina (sigla: vl) del II secolo15, le versioni copte (co)
del III secolo, quelle armena (arm) del V secolo, etiopica (eth) del IV e
V secolo, gotica (go) del IV secolo, georgiana (gg) del V secolo.
Le uniche versioni antiche fatte sul testo ebraico sono: la versione
siriaca detta Peshitta, cioè “comune” (syp), a partire dal II secolo; la ver-
sione latina dei libri protocanonici del­­l’AT, fatta da san Girolamo (IV
secolo) direttamente dal­­l’ebraico e confluita poi nella versione latina
detta Vulgata (vg).16

4. Breve storia del testo ebraico del­­l’Antico Testamento

La storia della trasmissione del testo della Bibbia ebraica è storia


complessa e per molti aspetti appassionante che mostra la vitalità e la

15
Vedi qui sotto, § 5.2a.
16
Vedi sotto, cap. 12.
Il testo della Bibbia 157

ricchezza del testo biblico. Ne offriamo qua una sintesi estremamente


concisa, rinviando alle opere citate nella nota 10, per una visione più
completa e approfondita. Notiamo come non sia in questione, nel nostro
caso, la storia della formazione dei diversi libri biblici, ma la storia della
trasmissione del loro testo.
Del­­l’attività letteraria ebraica anteriore al­­l’esilio babilonese conosciamo
in realtà molto poco. Durante l’esilio babilonese, e subito dopo il ritorno
in patria, a partire dal 530 a.C. circa, alcuni scritti ebraici, come in parti-
colare il nucleo di ciò che oggi chiamiamo Tôrah o Pentateuco, assumono
un carattere normativo e vengono ormai considerati come libri sacri. A
partire da questo momento, inizia così il processo di trasmissione del
testo, durante il quale, tuttavia, si introducono ancora, nel testo stesso,
varianti e recensioni diverse dello stesso libro, come avviene per esempio
per il profeta Geremia, per i libri di Samuele e Re e per le diverse raccolte
confluite poi nel libro dei Salmi. Se per il Pentateuco la fedeltà nella tra-
smissione del testo è in genere molto marcata, visto il carattere fortemente
normativo del Pentateuco stesso, tale fedeltà diminuisce nei testi profetici
e negli altri scritti, la cui redazione è spesso molto più tardiva.
La scoperta dei manoscritti del Mar Morto (vedi sopra) attesta il fatto
che tra il III secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C. è necessario ammet-
tere in Israele l’esistenza di una pluralità testuale piuttosto marcata. Se il
rotolo di Isaia trovato a Qumran si mostra sorprendentemente vicino al
testo ebraico Masoretico, a noi noto dal manoscritto di Leningrado, altri
testi qumranici dimostrano invece che lo stesso libro biblico poteva pre-
sentarsi in forme testuali assai diverse. Secondo una teoria elaborata da
F.M. Cross negli anni Settanta del secolo scorso, sarebbe possibile parlare
di tre diverse tradizioni testuali locali: quella palestinese, conservata in
parte a Qumran e nel Pentateuco samaritano; quella egiziana, corrispon-
dente al testo ebraico che avrebbe costituito la base per la traduzione dei
Settanta, i quali si servono evidentemente di un testo ebraico diverso da
quello Masoretico; infine, la tradizione babilonese o “proto-masoretica”,
alla base cioè del testo Masoretico.
L’impulso maggiore alla fissazione di un testo ebraico unico e definiti-
vo venne senza dubbio dagli eventi legati alla distruzione di Gerusalem-
me del 70 d.C., che misero in moto un processo di revisione e selezione
del testo. I rabbini, già alla fine del I secolo d.C., scelsero il testo ebraico
“babilonese” o “proto-masoretico” del quale ormai viene offerta una ver-
sione definitiva; si ricordi che in questo periodo il testo ebraico scritto è
soltanto un testo consonantico; così come nei manoscritti di Qumran le
158 La trasmissione della parola di Dio

vocali non venivano utilizzate. Le versioni greche di Aquila, Simmaco e


Teodozione (v. sopra) attestano l’esistenza di un tale testo consonantico
“proto-masoretico” ormai sufficientemente ben fissato.
Soltanto più tardi, tra il VI e l’VIII secolo d.C., il testo ebraico conso-
nantico inizia ad essere vocalizzato, con due diversi sistemi vocalici, quello
“babilonese” e quello “tiberiense”, utilizzato nelle attuali Bibbie ebraiche.
Emerge qui l’opera dei “masoreti” (il termine māsôrâ significa “tradizio-
ne”), scribi le cui due famiglie più celebri sono quella dei ben Asher e
quella dei ben Naftali, entrambe di Tiberiade; si tratta di scribi vissuti
tra il 780 e il 930 d.C. Il loro sistema di vocalizzazione del testo ebraico
consonantico è quello utilizzato ancora oggi nelle Bibbie ebraiche (da qui
il nome di “testo masoretico”). Alla vocalizzazione del testo i masoreti
aggiungono, al­­l’interno dei manoscritti biblici, una serie di indicazioni
relative al testo stesso e alle sue parole, indicazioni scritte sopra, sotto e ai
margini del manoscritto stesso, o alla fine del testo biblico, in modo da
costituire una vera e propria “siepe” attorno al testo, che protegga ormai il
testo sacro da ogni possibile aggiunta o ulteriore correzione. Anche quan-
do il testo ebraico appariva evidentemente corrotto, i masoreti lo lasciano
inalterato, segnando soltanto in margine la loro proposta di correzione.
Da questo testo masoretico, conosciuto attraverso i due manoscritti
di Leningrado e Aleppo, nascono le prime edizioni a stampa della Bib-
bia ebraica (la prima, quella di Soncino, risale al 1488), fino alle attuali
edizioni critiche, la celebre Biblia Hebraica Stuttgartensia (edd. K. Elliger
e W. Rudolph; Stuttgart 1977), basata sul codice di Leningrado, ma che
già tiene conto dei manoscritti di Qumran, una edizione oggi in corso
di totale riedizione (Biblia Hebraica Quinta Editione).

5. Il testo greco del Nuovo Testamento17

5.1. Testimoni diretti

Del testo greco del NT possediamo più di 5.000 manoscritti. Di


questi, ai fini della critica testuale, sono importanti soprattutto i circa

17
Cfr. P. Sacchi, Alle origini del Nuovo Testamento, Le Monnier, Firenze 1965.
Il testo della Bibbia 159

299 manoscritti maiuscoli o unciali, scritti cioè in caratteri maiuscoli


alti circa un’oncia, e i 96 papiri18. Le sigle usate sono: P con un numero
in esponente (per esempio, P1), per i papiri; una lettera del­­l’alfabeto
latino, greco o ebraico (per esempio, A, B, C, Θ, ‫)…א‬, oppure un
numero arabo preceduto da zero (per esempio, 047 ecc.), per i codi-
ci maiuscoli; un numero (per esempio, 13, 69, 124 ecc.) per i codici
minuscoli, scritti cioè in calligrafia corrente; la lettera latina ‘l’ con un
numero in esponente (per esempio, l2), per i lezionari. I codici maiu-
scoli vanno dal III all’XI secolo; i minuscoli vanno dal IX secolo fino
al­­l’invenzione della stampa.

a) Codici maiuscoli più importanti

S = 01: codice Sinaitico, scoperto in due riprese (1844 e 1859) da


Konstantin von Tischendorf nel monastero di S. Caterina sul Sinai,
oggi conservato al British Museum di Londra. È designato anche con la
lettera ebraica alef (‫ ;)א‬contiene AT e NT; è del IV secolo.
B = 03: codice Vaticano, conservato nella Biblioteca apostolica Va-
ticana, da cui il nome. Contiene l’AT (versione dei Lxx) e il NT (con
lacune); è del IV secolo.
A = 02: codice Alessandrino, pure conservato al British Museum.
Contiene AT e NT (con lacune); è del V secolo.
C = 04: codice palinsesto, detto «di Efrem riscritto» perché nel XII
secolo vi furono riscritte, dopo raschiatura, opere di sant’Efrem in greco;
è conservato alla Biblioteca nazionale di Parigi; contiene AT e NT (con
lacune); è del V secolo.
D = 05: codice di Beza, dal nome di chi lo donò nel 1581 alla bi-
blioteca del­­l’Università di Cambridge, per cui è chiamato anche Codex
Bezae Cantabrigensis. Contiene vangeli e Atti degli apostoli: in greco nella
pagina destra e nella versione latina in quella sinistra; è del V secolo.
D = 06 (siglato anche DP): è il codice detto Claromontano, perché a
lungo rimase nel monastero di Clermont; attualmente conservato alla
Biblioteca nazionale di Parigi. Contiene le lettere di Paolo, sia in greco
che nella versione latina; è del V secolo.

18
Il numero esatto dei manoscritti esistenti è tuttora difficile da precisare; i dati offerti
seguono quelli forniti in K. Aland – B. Aland, The Text of the New Testament, Grand
Rapids - Leiden 19892, 83 [trad. it., Il testo del Nuovo Testamento, Marietti, Torino 1987].
160 La trasmissione della parola di Dio

W = 032: codice di Washington, lì conservato. Contiene i vangeli,


nel­­l’ordine preferito dagli antichi in Occidente: Matteo, Giovanni, Luca,
Marco. del secolo VI.
Θ = 038: codice di Koridethi, proveniente dal monastero omonimo
sul Mar Nero e conservato a Tbilisi, capitale della Georgia. Contiene i
vangeli (con lacune); è del­­l’VIII secolo.

b) Papiri più importanti

P52: il più antico manoscritto conosciuto del NT. Scoperto in Egitto,


risale alla prima metà del II secolo e contiene Gv 18,31-33.37s.; appar-
tiene alla John Ryland’s Library di Manchester. Esso prova che il quarto
vangelo, benché scritto in Asia, era già conosciuto nella valle del Nilo
verso l’anno 120-130, e quindi non poté essere composto più tardi della
fine del I secolo.
P45, P46, P47: chiamati papiri di Chester Beatty perché acquistati in
Egitto dal­­l’inglese A. Chester Beatty negli anni 1930/1931. P45 contiene
in modo frammentario i quattro vangeli, oltre a testi apocrifi; P46 si com-
pone di ottantasei fogli e riporta le lettere di Paolo, nel­­l’ordine: Romani,
Ebrei, 1 e 2 Corinzi, Efesini, Galati, Filippesi, Colossesi, 1 Tessalonicesi (2
Tessalonicesi seguiva probabilmente nei fogli oggi perduti); P47, in dieci
fogli, contiene Ap 9,10–17,2. I tre papiri sono assai importanti per la
loro antichità (prima metà del III secolo) e per l’ampiezza dei testi in
essi contenuti.
P66: Papiro Bodmer II, conservato alla Biblioteca Bodmeriana di Co-
logny (Svizzera). Scritto intorno al 200, comprende quasi per intero Gv
1–14 e frammenti dei capitoli seguenti.
P72: Papiro Bodmer VII-VIII. Scritto nel III-IV secolo, contiene il
testo più antico finora ritrovato della Lettera di Giuda e delle due lettere
di Pietro.
P75: Papiro Bodmer XIV-XV. Scritto al­­l’inizio del III secolo, contiene
gran parte di Luca e dei primi quindici capitoli di Giovanni.
Il testo della Bibbia 161

5.2. Versioni latine antiche19

La storia del testo del NT è interessata soprattutto alle due versioni la-
tine20: la Vetus latina detta anche Itala, e la Vulgata. Tralasciamo in questa
sede la storia e l’importanza per la critica testuale del Nuovo Testamento
di molte altre versioni antiche (siriaco, copto, armeno, arabo, georgiano,
etiopico, oltre al gotico e al paleo-slavo), per le quali rimandiamo a corsi
specifici di critica testuale.

a) La Vetus latina (vl)

Sin dalla fine del I secolo la chiesa avvertì il bisogno di una versione
latina per il popolo che poco o nulla capiva di greco, particolarmente
nel­­l’Italia settentrionale, in Africa, nella Gallia e in Spagna, più lontane
dai centri di irradiazione ellenica.
Già gli Atti dei martiri di Scillium in Africa, verso il 180, attestano che
uno di questi uomini del popolo (che certamente ignorava il greco) aveva
con sé «i libri usati tra noi e le lettere di Paolo». Tertulliano, nel­­l’anno
200 circa, allude nei suoi scritti a traduzioni o “interpretazioni” della
Bibbia; ancora in Africa, san Cipriano († 258) cita sempre nello stesso
modo la Bibbia in latino: evidentemente trascrive da una traduzione già
determinata e in uso. Lo stesso accade in Novaziano († 257 ca.) a Roma;
ma la versione latina da lui supposta è diversa da quella utilizzata da san
Cipriano. Esistevano dunque, nel III secolo, almeno due versioni latine,
una a Roma e l’altra in Africa?
Il problema se ci fossero più traduzioni indipendenti, oppure una re-
censione italiana (Roma) della traduzione diffusa in Africa, resta tuttora
aperto. Pertanto si preferisce usare per l’antica Bibbia in latino l’espres-
sione Vetus latina, cioè l’antica latina. I benedettini di Beuron ne stanno
curando l’edizione critica21, sulla base delle citazioni dei Padri latini e di
un ristretto numero di codici, spesso parziali e frammentari.

19
Per notizie più ampie e dettagliate sulla Vetus latina e sulla Vulgata, cfr. C.M. Mar-
tini – P. Bonatti, Il Messaggio della salvezza, 1: Introduzione generale, 199-214.
20
Per le altre versioni, vedi sotto.
21
Vetus latina. Die Reste der altlateinischen Bibel nach Petrus Sabatier neu gesammelt und
herausgegeben von der Erzabtei Beuron, Herder, Freiburg 1949… Sono previsti 27 volumi,
dei quali una ventina sono stati sinora pubblicati.
162 La trasmissione della parola di Dio

b) La Vulgata (vg)

La versione latina Vulgata, cioè “divulgata, diffusa” tra il popolo, fatta


da Girolamo alla fine del IV secolo, si basa per l’AT (libri protocanonici)
sul testo ebraico. Per il NT,

Girolamo si limitò a rivedere l’antica versione latina sulla base di alcuni


codici greci. Per vari secoli vetus latina e vulgata lottarono tra loro, finché
a partire dal­­l’VIII-IX secolo la vulgata non ebbe il sopravvento. Per lunghi
secoli la storia del testo della vulgata fu intimamente connessa con la storia
della teologia, della liturgia e della spiritualità della chiesa latina. Nel 1546
il concilio di Trento dichiarò essa “autentica”, cioè da usarsi come testo nor-
mativo di riferimento a preferenza di altre versioni latine, senza escludere per
questo il ricorso ai testi originali. Nel 1592 ne fu pubblicata un’edizione uf-
ficiale (la Sisto-Clementina), che però non voleva essere un’edizione critica22.

Successivamente furono stampate edizioni critiche23.

6. Breve storia del testo greco del Nuovo Testamento

Dal confronto dei testimoni diretti del testo greco del NT – codici
e papiri –, delle antiche versioni specialmente latine e delle citazioni
dei Padri, risulta un numero notevole di varianti, anche prescindendo
da quelle attribuibili con certezza a errori scribali e quindi facilmente
eliminabili. Sono queste varianti “consapevoli” l’oggetto di interesse per
chi si prefigge di ricostruire la storia del testo greco del NT. Ebbene,
coordinando le diverse tendenze dei manoscritti, in maniera sistematica,
e componendo i singoli testimoni di tali tendenze, la critica odierna è
giunta a individuare – in linea di massima – quattro tipi di testo24:

22
C.M. Martini, Il testo biblico, 550s.
23
Molto celebre l’edizione critica della Vulgata per il NT, curata da J. Wordsworth e
H.J. White (il primo fascicolo uscì nel 1889 e l’ultimo, con l’Apocalisse, nel 1954). Cfr.
l’edizione critica a cura dei benedettini del­­l’Abbazia di S. Girolamo in Roma, Biblia
Sacra, iuxta latinam Vulgatam Versionem ad codicum fidem, Polyglottis Vaticanis, Romae
1926-1995.
24
Cfr. C.M. Martini, Il testo biblico, 521-530.
Il testo della Bibbia 163

a) Testo alessandrino. – Si tratta di un tipo di testo che si va formando


in Egitto (papiri e codici di questo tipo provengono dal­­l’Egitto). È rap-
presentato da manoscritti antichi, in genere molto buoni: i maiuscoli
B ed S; i papiri P75; il maiuscolo A (fuori dei vangeli); il palinsesto C;
i minuscoli 33, 892, 1241. Questa tradizione testuale è il risultato di
un processo di trasmissione molto controllato. Rifugge dalle armoniz-
zazioni e in genere da ogni ampliamento del testo (scelta costante del
textus brevior).
b) Testo occidentale. – È anch’esso molto antico; viene chiamato “oc-
cidentale” perché testimoniato specialmente nella chiesa occidentale.
È rappresentato dal codice unciale D, dalle antiche versioni latine e
siriache, da scrittori e padri come Marcione, Giustino, Taziano e Ire-
neo. Rispetto al testo alessandrino, quello occidentale ha tendenza al­­
l’armonizzazione e alle parafrasi, contiene aggiunte riguardanti eventi
meravigliosi, come pure significative omissioni.
c) Testo cesariense. – È chiamato così perché si è vista l’affinità fra
questo tipo di testo e quello usato da Origene ed Eusebio, il che fa
pensare alla chiesa di Cesarea nel III secolo, come patria di origine. È
rappresentato da due gruppi di codici minuscoli (13, 69, 124, 346 e 1,
118, 131, 209) e dai maiuscoli W e Θ.
In realtà il testo cesariense è molto vicino a quello alessandrino, salvo
una maggiore accuratezza nelle forme linguistiche e l’infiltrazione di
alcuni elementi del testo occidentale.
d) Testo bizantino. – La quasi totalità dei manoscritti greci del NT, a
partire dal VII-VIII secolo, presenta un tipo di testo assai uniforme, con
varianti interne di non grande rilievo e con notevoli differenze rispetto
al testo di altri codici più antichi. È chiamato “bizantino” perché usato
dal Medioevo fino ad oggi nella chiesa orientale. Il processo recensionale
di tipo bizantino sembra avere i suoi inizi già nel V secolo con il codice
unciale A (per i vangeli) e nelle citazioni di Giovanni Crisostomo, Teo-
doreto di Ciro e Cirillo d’Alessandria. Le tendenze di questo testo sono:
forma linguistica più elegante; maggiore chiarezza del testo, ottenuta
mediante cambiamenti di vocaboli; armonizzazione dei passi paralleli
dei vangeli, spinta sino al­­l’uguaglianza; conflazione, ovvero fusione di
due o più lezioni varianti in un medesimo versetto.
164 La trasmissione della parola di Dio

7. Cenni di critica testuale

Ora possiamo comprendere il significato e il valore della critica te-


stuale, che soltanto una superficiale incompetenza può relegare tra le
scienze di nessun valore per la teologia e per la fede. Essa invece è auto-
revolmente imposta anche ai credenti25.
Il lettore comune dispone oggi, pur in una traduzione moderna, del
testo biblico ricostruito dal lavoro paziente degli studiosi della critica
testuale. Ciò che abbiamo precedentemente descritto sulla storia del
testo ebraico del­­l’AT e del testo greco del NT è il risultato del primo
lavoro di critica testuale, che consiste nel confrontare tra loro i testimo-
ni del testo oggi a disposizione, classificarli e ricostruire così le vicende
della trasmissione e trascrizione del testo biblico. A questo punto inizia
il secondo lavoro, quello cioè di ricostruire un testo il più possibile
attendibile, cioè vicino a quello originale andato perduto, partendo
dagli attuali testimoni del testo debitamente valutati e classificati. Una
scienza dunque a servizio della fede, per chi crede nella Bibbia come
parola di Dio ed è interessato alla ricostruzione del testo originale
ispirato da Dio.
Anche per coloro che non siano in grado di compiere, o verificare, il
lavoro di critica testuale, non è superfluo conoscere in breve gli strumenti
di lavoro di questa scienza.

25
Pio XII, nel­­l’enciclica Divino Afflante Spiritu del 1943, riguardo alla critica testuale
già affermava: «Oggi però questa tecnica, chiamata “critica testuale” e che viene applicata
con grande lode e frutto nel pubblicare libri profani, si esercita a pieno diritto anche
sui libri sacri per la stessa riverenza dovuta alla parola divina. Essa infatti per sua natura
ripristina, per quanto è possibile, il testo sacro in modo perfettissimo, lo purifica dagli
errori introdotti dalla debolezza degli amanuensi e lo libera secondo la propria possibilità
dalle glosse e dalle lacune, dalle inversioni di termini e dalle ripetizioni e da tutti gli altri
generi di errori che di solito si insinuano negli scritti tramandati per molti secoli […]. E
non è nemmeno il caso di ricordare a questo punto […] quanto la chiesa abbia tenuto in
considerazione questi studi di tecnica critica dai primi secoli fino alla nostra era. E tutti
sappiamo bene che questo lungo lavoro non solo è necessario per comprendere rettamente
gli scritti dati dal­­l’ispirazione divina, ma è postulato anche e fortemente da quella pietà
divina con la quale per la sua somma provvidenza Dio ha inviato questi libri come una
lettera paterna dalla sede della sua divina maestà ai suoi figli» (EB 548).
Il testo della Bibbia 165

7.1. Alcune regole di critica testuale

Non vanno prese come norme rigide, ma come indicazioni generali


di metodo. Ecco le principali:
– è da considerarsi genuina quella lezione variante, a partire dalla
quale si può spiegare l’origine delle altre;
– una lezione più difficile è da preferirsi a una più facile: infatti il co-
pista è propenso a facilitare un testo difficile, piuttosto che a rendere
difficile un testo più facile;
– una lezione più breve generalmente è da preferirsi a una più lun-
ga: infatti nel trascrivere si è tentati di aggiungere un’osservazione
esplicita a un testo difficile;
– una lezione difforme da un passo parallelo è da preferirsi a una
conforme.

7.2. Due esempi concreti

Offriamo al lettore due esempi di impiego della critica testuale, con


un evidente riflesso di questa per l’esegesi del testo biblico. Il primo è
tratto dal­­l’AT, il secondo dal NT.
Il TM di Is 21,8 suona così: «Allora un leone (’aryê) dice: Di sentinella,
Signore, io sto tutto il giorno». La cosa è molto strana. G. Luzzi, per
esempio, cercava di dare un senso alla frase traducendo: «E (la sentinel-
la) gridi con voce di leone ecc.»; G. Diodati traduceva: «E gridò come
un leone ecc.». Ebbene, nel rotolo di Isaia scoperto a Qumran (1Q Isa)
si legge invece: «Allora il veggente (haro’ê) gridò ecc.», lezione che offre
chiaramente un senso migliore e spiega l’origine della lezione del TM:
un errore di trascrizione, cioè il semplice scambio di due lettere ebraiche
(he con alef), ha fatto sì che «il veggente (haro’ê)» diventasse «un leone
(’aryê)». La Bibbia della CEI, seguendo il testo di Qumran, traduce: «La
vedetta (haro’ê, “colui che guarda”) ha gridato ecc.».
Nel­­l’episodio di Marta e Maria (Lc 10,38-42), al v. 42 le lezioni di-
vergono notevolmente:
– P45, P47, A, K, molti codici minuscoli, vg ecc. hanno: «Ma di una
cosa sola c’è bisogno» (vedi la traduzione CEI);
– D, vl e altri sopprimono la frase;
– 38, alcune versioni copte, la versione armena e georgiana, nonché
Origene, la sostituiscono con: «Ma di poche cose c’è bisogno» (in rife-
166 La trasmissione della parola di Dio

rimento al v. 41 e concernente la cena: si tratta di un’interpretazione di


tipo ascetico);
– P3, B, S corretto e altri, uniscono le due formule: «Ma di poche cose
c’è bisogno, anzi di una sola» (il che appare come un compromesso).
La prima lezione: «… ma di una cosa sola c’è bisogno» sembra preferi-
bile, perché spiega l’origine delle altre e ha il vantaggio di dare al­­l’episodio
di Marta e Maria il suo epilogo profondo: la parola di Gesù passa innanzi
ad ogni preoccupazione di ordine materiale (cfr. Lc 12,31 e At 6,2).

8. Le edizioni critiche del testo della Bibbia

Le ricerche sulla storia del testo biblico e le scelte testuali che vengono
fatte dai critici trovano espressione nelle edizioni critiche, le quali non
pubblicano soltanto il testo ricostruito sulla base del materiale docu-
mentario dei vari testimoni e riconosciuto dal critico come il più vicino
al­­l’origine, ma riportano anche, al fondo pagina, un apparato critico nel
quale vengono riferite le varianti principali dei papiri, dei codici unciali
e minuscoli, delle antiche versioni. Indichiamo qui le edizioni critiche
più note.

Per l’AT:
– R. Kittel – P. Kahle, Biblia Hebraica, Stuttgart 19517. Ha due ap-
parati critici: nel primo sono indicate le testimonianze dei codici e delle
versioni; nel secondo le lezioni da correggere, o sulla base dei testimoni
o per congettura.
– K. Elliger – W. Rudolph, Biblia Hebraica Stuttgartensia, Stuttgart
1967-1977. Il testo è rimasto quello del Kittel – Kahle, ma l’apparato
critico è ridotto a uno solo e completamente rinnovato.
– A partire dal 1998 è iniziata, a fascicoli, la pubblicazione della Biblia
Hebraica Quinta, di fatto un nuovo progetto di revisione della Stuttgar-
tensia; alla base resta il testo ebraico del Manoscritto di Leningrado, con
un apparato critico interamente rinnovato.

Per il NT:
– J.M. Bover – J. O’Callaghan, Nuevo Testamento Trilingue (graece,
latine, hispanice), Presentazione di C.M. Martini, BAC, Madrid 1977:
Il testo della Bibbia 167

riproduce le lezioni varianti del­­l’apparato critico in fondo pagina anche


nella versione castigliana: una novità interessante per i lettori che, in
genere, non dispongono di un apparato critico nelle versioni del NT
in lingue moderne; va anche lodata l’Introduzione, che è un piccolo
trattato di critica testuale.
– A. Merk, Novum Testamentum Graece et Latine, PIB - Roma 1964
(a cura di C.M. Martini): dà un testo critico e le varianti principali, re-
censendo oltre agli unciali maggiori e alle versioni più importanti anche
i principali codici minuscoli. In appendice al volume vengono riportate
le lezioni varianti dei papiri, scoperti di recente.
– B. Aland – K. Aland – J. Karavidopoulos – C.M. Martini –
B.M. Metzger, The Greek New Testament, Stuttgart 19934: riporta un
testo che è frutto della discussione del comitato, e alcune varianti più
importanti per il senso, con un’attestazione il più possibile completa.
Cfr. adesso B. Aland – K. Aland – J. Karavidopoulos – C. M. Mar-
tini – B.M. Metzger, The Greek New Testament, New York 20145.
– E. Nestle – K. Aland, Novum Testamentum Graece, Stuttgart
201228: dà le varianti principali, tenendo conto soprattutto degli un-
ciali più importanti e delle versioni più antiche. È l’edizione manuale
forse più utilizzata.
parte terza
LA BIBBIA È PAROLA DI DIO
La Bibbia è divenuta con il divenire stesso di una storia lunghissima.
Memoria scritta delle vicissitudini del­­l’unico popolo di Dio, in essa sono
andate a cristallizzarsi le espressioni più intense del­­l’identità del popolo
di Dio, chiamato ad essere strumento di universale salvezza. Come tale,
la Bibbia è in primo luogo, e in tutto lo spessore di significato, linguaggio
umano, parola di uomini (vedi sopra, parte seconda).
Ma i credenti non cessano di accostare il libro sacro come messaggio
di Dio che opera salvezza in chi lo accoglie mediante la fede e lo tradu-
ce in stile e opere di vita. La Bibbia è il libro della rivelazione di Dio,
culminante in Gesù Cristo; è «la messa in scritto della bella notizia della
salvezza» (DV 7); è la parola amicale indirizzata da Dio agli uomini nella
storia e attraverso la storia (vedi sopra, parte prima), appunto «contenuta
ed espressa in modo speciale nei libri ispirati» (DV 8 e 11).
Tuttavia il mistero della Bibbia non è ancora sufficientemente descrit-
to. La fede cristiana non si contenta di affermare: la Bibbia contiene la
rivelazione di Dio; essa proclama: «La sacra Scrittura è parola di Dio,
in quanto scritta per ispirazione dello Spirito Santo» (DV 9). La Bibbia
è parola di Dio in parole umane (parte terza).
In questa terza parte vogliamo vedere, con un procedimento di tipo
storico:
1. Come è nata e come si è espressa nel­­l’unico popolo di Dio la co-
scienza che non soltanto la realtà-evento della rivelazione è parola di Dio
ma anche la sua notizia scritta, cioè i libri sacri, sono parola di Dio nor-
mativa per la fede e quindi, almeno implicitamente, già canonici (cap. 8).
2. In che modo il dato di fede: «La Bibbia è parola di Dio», ha trovato
progressivamente nella riflessione del popolo di Dio un fondamento
172 La Bibbia è parola di Dio

sempre più esplicito, cioè la presenza e l’azione dello Spirito di Dio (=


ispirazione), il cui scopo è sempre stato –  e lo è tuttora – di spingere
l’umano al di là di se stesso, di promuoverlo, di trascenderlo affinché
l’umano diventi segno e strumento del divino. L’ispirazione biblica appa-
re come l’ultimo (o il penultimo?) stadio di un’azione carismatica dello
Spirito di Dio, che attraversa e sostiene l’intero processo storico della
rivelazione «in eventi e parole» e culmina nella messa in scritto della
rivelazione (cap. 9).
3. In che modo la chiesa post-apostolica, dai Padri apostolici sino ai
nostri giorni, nella sua ininterrotta riflessione guidata e promossa dal
medesimo Spirito, ha definito il «mistero della Bibbia» e lo ha via via tra-
dotto in categorie sempre nuove, più aderenti alla cresciuta comprensio-
ne del mistero e più consone alla contemporaneità del­­l’uomo (cap. 10).
4. Quali sono oggi, nella ricerca dei biblisti e dei teologi, i problemi
aperti circa la storia e la natura del­­l’ispirazione biblica (cap. 11).
8.
I libri della Bibbia sono parola di Dio

Bibliografia: A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e Parola di Dio, ed. it. a
c. di A. Zani, Paideia, Brescia 1994, 25-50; H. Haag, La Parola di Dio si fa Scrittura,
in MS 1, 408-419; E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nel­­
l’autotestimonianza della Bibbia, in RicStoBib 12 (2002); A. Marangon, La Bibbia parla
di sé, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra
Scrittura, Marietti, Torino 1975, 12-44; P. Procksch – G. Kittel, λέγω, in GLNT VI,
coll. 260-380; G. Schrenk, γραφή, in GLNT II, coll. 623-654. Si veda anche il docu-
mento della Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura,
tutta la prima parte (pp. 15-109).

La Bibbia conserva e trasmette la rivelazione di Dio, destinata agli


uomini di tutti i tempi. Potremmo dire: la rivelazione sta alla sacra
Scrittura come l’evento sta alla notizia che ce lo rende noto. Sia Israele
che la comunità cristiana considerarono parola di Dio non soltanto la
rivelazione (storia e parola), ma anche la sua notizia scritta, il libro sacro.
La Bibbia «non è soltanto il resoconto, sia pure fedele, delle parole di
Dio, né soltanto contiene la rivelazione fatta da Dio con la sua parola e
i suoi gesti salvifici, ma è realmente parola di Dio»1.
Vogliamo verificare questo assunto, sia per l’AT sia per il NT, scor-
rendo i grandi complessi letterari nei quali è andata a condensarsi la
rivelazione biblica.

1
R. Cavedo, Libro Sacro, in NDT 761.
174 La Bibbia è parola di Dio

1. Antico Testamento

1.1. La Legge di Dio (la Tôrah)

Israele considerò sempre la Tôrah come divina, perché donatagli da


Dio tramite Mosè (cfr. Abôth 1,1). Via via che la legge venne messa in
scritto nelle diverse epoche e con i successivi aggiornamenti, essa apparve
quasi automaticamente come l’espressione codificata della volontà di
Dio, partecipe della sua trascendenza e con valore di canonicità-norma-
tività per la fede2.

a) Il documento del «patto sinaitico»

Dio pronuncia le sue parole (Es 20,1ss.): Mosè riferisce al popolo


«tutte le parole del Signore e tutte le norme» (Es 24,3), e le scrive (24,4);
prende poi «il libro del­­l’alleanza e lo legge alla presenza del popolo», e il
popolo risponde: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo» (24,7).
«[In Es 24] non può essere espresso in maniera più chiara e più profonda
il fatto che la sacra Scrittura, trasmessa lungo le generazioni dalla comu-
nità di fede degli Ebrei e dei cristiani, tragga la sua origine in Dio anche
e proprio nel caso in cui sia stata redatta da uomini»3. Lo stesso accade
nel racconto del rinnovo del­­l’alleanza sinaitica: cfr. Es 34,27s.
Attraverso la lettura e l’ascolto della legge, Israele è posto a confronto,
in vista di una fede obbediente, con la stessa parola di Dio. Quando la

2
Sempre tenendo presente che la storia della tradizione, della redazione, della col-
lezione, del­­l’uso e del riconoscimento degli scritti del­­l’AT si intrecciano, ha ragione T.
Citrini di affermare: «La canonicità della Tôrah (Gen, Es, Lv, Nm, Dt) ha il volto, sia della
normatività della legge, sia ancor prima della normatività di una storia teologicamente
e non solo cronologicamente originante, in rapporto alla quale la legge stessa prende
senso (cfr. per esempio, l’introduzione al decalogo: Es 20,2). Tutti gli altri scritti del­­l’AT
hanno una canonicità relativa alla Tôrah, anche qualora la loro origine sia precedente alla
sua redazione definitiva e alla sua redazione esdrina (Ne 8ss.)» (T. Citrini, Identità della
Bibbia, 17; vedi sotto, anche note 7 e 16; vedi sopra, cap. 5, nota 17). Per una trattazione
più ampia e critica del problema, cfr. J.-A. Sanders, Identité de la Bible. Torah et Canon
(«Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975, 9-78 («Torah et histoire»); B.S. Childs, In-
troduction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979, 46-68; J. Blenkinsopp,
Prophecy and Canon. A Contribution to the Study of Jewish Origins, University of Notre
Dame, London 1977.
3
IVSS, n. 12.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 175

Tôrah avrà assunto, dopo l’esilio, l’attuale estensione letteraria del Pen-
tateuco, Israele si confronterà con Dio attraverso la lettura e l’ascolto di
quelle pagine: cfr. Ne 8,1-15; 9,33-36; 10,1-30.

b) La carta costituzionale del re d’Israele

Il libro della Legge, riscoperto secondo il racconto biblico sotto il


re Giosia durante i lavori di restauro al tempio di Gerusalemme, è al­­
l’origine di una radicale riforma religiosa e la ispira (cfr. 2 Re 22–23).
Si tratta probabilmente della sezione legislativa di Dt 12–264, di quella
«copia della Legge» di cui si legge in Dt 17,18-20: «Quando [il re] si
insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di
questa legge secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti. La terrà presso di sé
e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore
suo Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e tutti questi statuti».
Anche le famiglie degli israeliti dovevano cercare nei precetti e nella legge
scritta l’alimento quotidiano per la fede e la fedeltà al­­l’alleanza (cfr. Dt
6,6-9; 11,18-20)5.
Nel Deuteronomio «la parola» o «le parole» designano non più la parola
pronunciata da Dio ma la parola scritta, testimone il finale del libro in
cui si afferma che «Mosè scrisse questa legge…, scrisse su un libro tutte
le parole di questa legge», ordinando di «depositare il libro a fianco
del­­l’arca del­­l’alleanza» e di farne una lettura periodica dinanzi al­­l’intera
assemblea d’Israele (Dt 23,8ss.24ss).

La legge vi è considerata come l’espressione ormai codificata della rivelazione


divina, alla quale è proibito sottrarre o aggiungere alcunché (cfr. Dt 4,2;
13,1). Questa nozione è già quella del libro sacro, che si sviluppa dopo l’esilio
e finisce per inglobare non solo la Legge ma anche i libri nei quali venivano
conservati i discorsi dei profeti, e più tardi quelli dei saggi6.

4
Vedi sopra, cap. 5, 1.3.
5
Per il racconto di 2 Re 22–23, che molti ritengono una creazione letteraria a sup-
porto della riforma del re Giosia, cfr. I. Cardellini, Lo scritto normativo dimenticato e
ritrovato (2 Re 22,3–23,3)», in E. Manicardi – A. Pitta, Spirito di Dio e Sacre Scritture,
in RicStoBib 12 (2002) 39-57.
6
P. van Imschoot, Théologie de l’Ancien Testament I, Desclée, Tournai 1954, 205.
176 La Bibbia è parola di Dio

c) La Legge esaltata

Si legga il Sal 119, vero monumento di esaltazione della legge del


Signore. L’autore di questo Salmo post-esilico conosce probabilmente
già il Pentateuco, cui soprattutto sembra riferirsi.
Egli esalta la Legge, ma esalta a un tempo la Scrittura. Il Sal 119, salmo
“alfabetico”, è composto di 22 strofe, quante sono le lettere del­­l’alfabeto
ebraico, e secondo il loro ordine. Ogni strofa è composta di 8 versetti (7 +
1 = perfezione consumata), e i versetti di ogni strofa iniziano con la stessa
lettera del­­l’alfabeto. La Legge viene cantata ed esaltata con la scrittura.
Dall’alef alla taw l’autore recita e ama la Legge, che in ciascuna delle
22 strofe è ricordata con otto sinonimi: testimonianza, precetti, voleri,
comando, promessa, parola, giudizio, via. Penseremmo quasi ad una ipo-
statizzazione della legge scritta, se i vari sostantivi indicanti la legge non
fossero accompagnati da un possessivo: la tua legge, la tua parola, i tuoi
comandi… In ogni caso, in certi momenti, la legge prende il posto di
Dio stesso, è lodata per se stessa: il «Non nascondermi i tuoi comanda-
menti» del v. 19 ricalca l’espressione classica: «Non nascondermi il tuo
volto» (Sal 27,9; 44,25); nel v. 24 gli “ordini” sono personificati: «Anche
i tuoi ordini sono i miei diletti, persone di buon consiglio» (alla lettera);
la legge è essa stessa capace di miracoli, di meraviglie (vv. 18.27.129).
Il salmista, dunque, ha di fronte a sé il libro della Tôrah, ma non come
qualcosa di impersonale. Egli dialoga con Dio stesso che nella Tôrah
parla e si rivela; egli professa la Legge scritta come parola di Dio.

1.2. I libri dei profeti7

Il profeta in Israele è essenzialmente colui che comunica al po-


polo un messaggio da parte di Dio, come mostrano le formule

7
In questo paragrafo poniamo l’accento sui profeti scrittori, secondo il canone ebraico
i «Profeti posteriori» (Is, Ger, Ez e i 12 profeti cosiddetti “minori”), che hanno «un anda-
mento più estesamente oracolare» e nei quali «la forma oracolare mette più in evidenza
l’autorità della Parola che interpreta la storia». La loro canonicità-normatività si fonda
sul­­l’autorità sorgiva del­­l’oracolo profetico, la quale tuttavia «non solo non infirma il pri-
mato della Tôrah ma la sancisce in quanto la riconosce come documento di fondazione di
quel­­l’alleanza nel cui orizzonte la profezia si colloca, cioè come legge» (T. Citrini, Identità
della Bibbia, 18s.). Per i cosiddetti «Profeti anteriori», vedi oltre § 1.3. J. Blenkinsopp,
in Prophecy and Canon, avanza la tesi secondo cui la Bibbia ebraica nel suo insieme ha
I libri della Bibbia sono parola di Dio 177

profetiche8: «Mi venne la parola del Signore», «La parola del Signore
che ricevette il profeta…», «Ascoltate la parola del Signore», «Così
dice il Signore», «Oracolo del Signore». Il profeta è «la bocca di
Dio» (Ger 15,19), è «l’uomo di Dio» (1 Sam 2,27), tanto che non si
distingue tra la parola di Dio e quella del profeta: «Gli israeliti non
vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me» (Ez 3,7);
«Io inviai a voi i miei servi, i profeti, con premura e sempre, eppure
essi non ascoltarono me e non mi prestarono ascolto» (Ger 7,25s.).
Quando gli oracoli dei profeti vengono messi in scritto, talvolta dallo
stesso profeta (cfr. Is 8,16; 30,8; Ab 2,2; Ger 36,4.32; 45,1; 51,60), il
libro delle profezie viene di conseguenza a partecipare della trascendenza
del messaggio orale: esso può essere chiamato il libro del Signore, che
in Is 34,16 designa probabilmente una prima raccolta degli oracoli del
profeta.
Due testi sono particolarmente significativi:

a) Il rotolo di Geremia bruciato (Ger 36)

Il Signore ordina a Geremia di scrivere in un rotolo gli oracoli finora


pronunciati. Li detta al suo segretario Baruc, il quale va a leggerli pub-
blicamente nel tempio di Gerusalemme. L’empio re Ioiakim, avvertito,
manda a sequestrare il rotolo e, seduto nel palazzo d’inverno dinanzi
al braciere acceso, si mette a tagliare col temperino da scriba l’intero
rotolo, bruciandolo pezzo per pezzo. Le parole scritte da Geremia sono
«parole del Signore» (vv. 6.8.11); la distruzione del rotolo da parte del
re è interpretata dal profeta come un delitto contro la parola di Dio,
che va ad aggiungersi alle precedenti iniquità (vv. 27-31), per le quali
il profeta aveva preannunciato l’invasione babilonese. Il rotolo viene
riscritto (v. 32): la parola scritta del profeta, perché parola di Dio, non
deve andare perduta.
Dal testo di Ger 36 è possibile trarre una serie di importanti consi-
derazioni di carattere ermeneutico. In un primo momento, Ger 36,1-4
mostra come il testo scritto è considerato un supporto fedele della parola

uno stampo profetico, e la presenza della profezia – come una parte essenziale del canone –
significa che sarà sempre possibile e necessario rimodellare la tradizione come una sorgente
dotata di potere vivificante.
8
Cfr. Cl. Westermann, Grundformen prophetischer Rede, München 19642.
178 La Bibbia è parola di Dio

profetica, che è parola di Dio. In un secondo momento, Ger 36,5-26 sot-


tolinea la lettura (e insieme il rifiuto) del testo scritto; infine, Ger 36,27-32
mette in luce la riscrittura del testo, che tuttavia produce un testo nuovo.
Così occorre riconoscere come l’ispirazione sia legata a una persona (il
profeta), prima che al suo testo; ma che allo stesso tempo altre persone
(lo scriba Baruc, in questo caso) hanno partecipato alla stesura del testo
e alla sua trasmissione. Infine, entra in gioco il lettore, come interprete
del testo tràdito (ancora la figura di Baruc), ma anche come destinatario
dello scritto stesso, che può accogliere o rifiutare, come in Ger 36 fa il re9.

b) Il rotolo mangiato (Ez 2,3–3,11)

È opportuno che il lettore confronti la vocazione di Ezechiele con


quella analoga di Geremia (Ger 1). Geremia vede avvicinarsi Dio che
«stende la mano, gli tocca la bocca e gli dice: “Ecco, io metto le mie
parole sulla tua bocca”» (Ger 1,9). Geremia è chiamato da Dio «la mia
bocca» (Ger 15,19).
In Ezechiele, invece, si legge: «Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso
di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte
e dal­­l’altra… Mi disse: “Figlio del­­l’uomo, mangia ciò che ti sta davanti,
mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele…”. Io lo mangiai:
fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: “Figlio del­­
l’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole…”» (Ez
2,9–3,4). Il rotolo mangiato da Ezechiele è un segno inequivocabile di
quanto fosse radicata in quel tempo la convinzione che non soltanto l’ora-
colo del profeta ma anche il libro – l’oracolo scritto – era parola di Dio10.
Appare perciò del tutto logico che in seguito la tradizione giudaica ab-
bia aggiunto a diversi libri di profeti il titolo: «Parola di Dio rivolta a…»
Osea (1,1), Geremia (1,1s.), Michea (1,1), Gioele (1,1), Sofonia (1,1).
Questo titolo pone uno stretto rapporto tra parola scritta del profeta e
parola di Dio. Con la fissazione in scritto, la potenza della divina parola

9
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 152-162; possiamo
anche ricordare l’esempio di Ger 29, la lettera inviata dal profeta agli esuli a Babilonia.
L’intera prima parte del libro di Bovati – Basta imposta il tema del­­l’ispirazione proprio
a partire dal carisma profetico. Ad essa rimandiamo per una trattazione complementare
e alternativa insieme. Su Geremia, si veda anche R. Virgili Dal Prà, Geremia: il profeta
e il suo rotolo, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture, 25-38.
10
Cfr. H. Haag, La parola di Dio si fa Scrittura, 412.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 179

dei profeti fu in certo modo catturata e resa efficace per gli uomini di
tutti i tempi. Isaia vede in tale prospettiva la messa in scritto della sua
profezia: dopo avere indirizzato invano la parola di Dio agli uomini del
suo tempo, torna a casa e scrive il suo resoconto «perché resti per il futuro
in testimonianza perenne» (Is 30,8).

1.3. I cosiddetti “libri storici”

Per quanto concerne i cosiddetti “libri storici”, in particolare per quel-


la che è stata poi definita la “storia deuteronomistica” comprendente Gs,
Gdc, 1 e 2 Sam, 1 e 2 Re (vedi sopra, cap. 5), è significativo che la tradi-
zione giudaica li consideri nel complesso dei libri profetici, qualificandoli
come «Profeti anteriori». La storia vi è interpretata e narrata in modo
kerygmatico come il luogo e il tempo in cui Dio si è rivelato, ha agito,
ha parlato, ha punito, ha salvato. Per questo, più che di libri “storici”,
si tratta di libri “profetici”: testimonianza, da una parte, del­­l’intervento
di Dio e, dal­­l’altra, della fede e della speranza di un popolo chiamato da
Dio ad una missione in mezzo a tutti gli altri popoli. In essi è andata a
condensarsi la stessa parola di Dio creatrice di storia, affinché la parola
di Dio scritta servisse di ammaestramento alle future generazioni. La
loro canonicità-normatività si fonda sulla «mutua connessione» fra «la
storia fondante» (la Tôrah) e «la storia fondata» (i «Profeti anteriori»):
la storiografia dei «Profeti anteriori» si fonda su quella della Tôrah «ed
è interpretata secondo canoni di fedeltà a quella, intesa anche qui sia
come storia sia come legge»11.

1.4. La letteratura sapienziale

Verso la fine del II secolo a.C., accanto alla Tôrah e ai Profeti, viene
menzionato un terzo gruppo di libri, considerati ugualmente importanti
per la formazione spirituale e morale d’Israele, che il traduttore greco del
libro del Siracide (o Ecclesiastico), nel suo Prologo, designa semplicemen-
te con il titolo generico: gli altri scritti (vv. 1s.), gli altri libri dei nostri
Padri (vv. 8s.). Proprio il prologo di Ben Sira, scritto ad Alessandria

11
T. Citrini, Identità della Bibbia, 19.
180 La Bibbia è parola di Dio

d’Egitto nel 132 a.C., attesta come al­­l’epoca gli altri scritti, tra i quali lo
stesso libro di Ben Sira che il nipote traduttore sta presentando, venivano
considerati parte delle Scritture ispirate al pari della Legge e dei Profeti.
Anche nel­­l’epilogo del Qoèlet appare una certa coscienza canonica:

Le parole dei saggi sono come pungoli,


come picchetti ben piantati i testi delle (loro) raccolte,
[oppure: «(le parole) dei maestri delle assemblee»]
dati [oppure: «date»] da un solo pastore (Qo 12,11).

Il testo di Qo 12,11, opera probabile di un epiloghista forse verso la


fine del III secolo a.C., considera il libro del Qoèlet come parte di una
raccolta di «parole di saggi», le quali provengono da un solo pastore,
che può essere Dio stesso, oppure il re Salomone considerato autore di
queste massime, in ogni caso un uomo la cui sapienza proviene da Dio12.
Questo terzo gruppo comprende testi di carattere assai vario13, ma
il genere letterario prevalente è il genere sapienziale al quale possono
ricondursi – pur nella loro diversità – Giobbe, alcuni Salmi, Proverbi,
Qoèlet, Siracide e Sapienza.
Non è questo il luogo per affrontare il complesso problema della sa-
pienza in Israele e del suo genere letterario14. Basterà qui ricordare che la
sapienza in Israele avanti l’esilio, come in tutto l’antico Vicino Oriente, è
soprattutto scienza della vita, quella che «osserva attentamente gli avveni-
menti del mondo; scruta la molteplicità del mondo fenomenico; interroga
l’esperienza propria e altrui onde ricavarne le leggi e gli effetti costanti la
cui conoscenza è di grande utilità per l’impostazione della vita»15. Insom-
ma una specie di preziosissima arte umana di pilotare la vita: la si incontra
soprattutto nelle sezioni più antiche dei Proverbi (Pr 10–30) e in alcuni
Salmi di carattere sapienziale.

12
Cfr. L. Mazzinghi, «Date da un solo pastore» (Qo 12,11). L’epilogo del Qohelet e
il problema del­­l’ispirazione, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre
Scritture, 59-74.
13
Vedi sopra, cap. 5.
14
Cfr. sopra, p. 140, circa la forma letteraria del māšāl. Si veda l’opera classica di G.
von Rad, La Sapienza d’Israele, Marietti, Torino 1976; cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco
sapienziale. Proverbi, Giobbe, Qohelet, Siracide, Sapienza, EDB, Bologna 2012.
15
G. Ziener, La sapienza del­­l’Antico Oriente come scienza della vita. Nuova comprensione
e critica della sapienza in Israele, in J. Schreiner (ed.), Parola e messaggio. Introduzione
teologica e critica ai problemi del­­l’Antico Testamento, Edizioni Paoline, Bari 1973, 413.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 181

Ma questa saggezza tutta umana riceve presto un duplice attacco: la


smentita proveniente dai fatti (non esiste, per esempio, un rapporto
stabile tra un certo comportamento e una determinata condizione di
vita: vedi Giobbe e Qoèlet), e quello ancor più radicale proveniente dalla
rivelazione profetica e dalla tragica esperienza della storia d’Israele. L’e-
silio obbliga anche la sapienza israelita a un salto qualitativo: non solo
una specie di rivelazione “orizzontale” accanto alla fede in Yhwh, ma
anche una sapienza in stretto rapporto con la fede in Yhwh che trova
nella lingua della sapienza una nuova formulazione; non più l’individuo
come tale al di fuori dei suoi condizionamenti storici, ma l’israelita come
membro del popolo della elezione impegnato da Dio in una storia uni-
versale di salvezza, essa stessa diventata oggetto di riflessione sapienziale
(cfr. Sir 44,1–50,26).
La sapienza assume così un’impronta specificamente israelitica. Diventa
«donna sapienza», la sapienza di Dio (nella letteratura sapienziale tardiva si
nomina Dio più spesso che negli scritti più antichi), e questo Dio è sempre
più chiaramente il Dio di Israele, il Dio del­­l’alleanza (cfr. Sir 50,17-22),
che è lo stesso Dio della creazione (cfr. Sap 9,1s.). Essa è la primogenita di
ogni creatura di Dio: come la parola di Dio, assiste perciò alla creazione
del mondo, deliziandosi davanti a Dio e tra i figli degli uomini (cfr. Pr 8).
È maestra sulle piazze e sulle strade (cfr. Pr 1,20ss.), cerca una dimora tra
gli uomini (cfr. Sir 24,7), ma solo in Israele trova la sua dimora (cfr. Sir
24,8ss.) e partendo da esso si farà conoscere a tutto il mondo (cfr. Sap 7s.).
Ormai sono poste le premesse per una più ampia teologia della sa-
pienza. La si accosta alla Tôrah (cfr. Sir 24,22; Bar 4,1), alla stessa parola
dei profeti (cfr. Sir 24,31; Sap 9,17); viene assimilata alla parola di Dio
(cfr. Pr 1,20-23). I saggi d’Israele prolungano in qualche modo l’eredità
profetica, in una stagione in cui la voce dei profeti si è attenuata. Si
alimentano alla teologia della Tôrah e dei profeti (ai quali anche lette-
rariamente ci si riferisce sempre più spesso: il libro della Sapienza ha
ben pochi versetti che non si richiamino a scritti biblici più antichi!),
l’applicano alle nuove situazioni, ne approfondiscono il significato. La
sapienza è diventata, accanto alla parola profetica e alla legge di Dio,
una nuova forma di rivelazione, accolta da Israele con la stessa autorità
degli antichi scritti16.

16
La canonicità-normatività per la fede di questo terzo gruppo (nel canone ebraico
«gli altri scritti successivi», che però noi prendiamo nel­­l’estensione del canone cattolico
182 La Bibbia è parola di Dio

1.5. I Libri Sacri

a) Per il giudaismo biblico ed extrabiblico

In questo modo si venne formando nel­­l’Israele post-esilico la consa-


pevolezza di possedere una raccolta de I libri (tà biblía: 2 Mac 2,13). I
libri sacri (tà biblía tà hághia: 1 Mac 12,9), o anche semplicemente Il
libro sacro (hē hierá bíblos: 2 Mac 8,23).
La fede del giudaismo in questa raccolta di libri, ben distinti da altri
libri e chiamati appunto “libri sacri”, è così radicata che secondo la
Mišnâ (Yadayim 3,5c) «tutte le Scritture rendono impure le mani», per-
ché «scritti sacri» (kitbe ha-qodeš); per lo stesso motivo è lecito salvare da
un incendio in giorno di sabato «tutte le sacre scritture» (Šabbāth 16,1).
Giuseppe Flavio e Filone di Alessandria chiamano gli scritti biblici, e non
soltanto il Pentateuco, «i libri sacri» (hai hierài bíbloi), «le sacre scritture»
(tà hierà grámmata)17.

del­­l’AT) è più problematica a motivo della non omogeneità degli scritti che comprende,
dovuta alla «complessità formale e contenutistica del­­l’intreccio esistenziale del­­l’alleanza
stessa» cui fanno riferimento (cfr. J.-A. Sanders, Identité de la Bible, 119-145). Il pur
variopinto filone sapienziale, del quale abbiamo parlato nel breve paragrafo, ha un rap-
porto originale con l’alleanza e la sua storia perché «la sapienza è meditazione sulla vita
nei suoi vari aspetti alla luce della parola del­­l’alleanza (Legge e Profeti) o comunque nel
contesto segnato da essa», e pertanto si afferma come canonico-normativo «in quanto ca-
pace di far maturare fedelmente, coerentemente, la tradizione di fede del giudaismo» (T.
Citrini, Identità della Bibbia, 22s.). Il filone liturgico (molti Salmi, Lam) invita a cercare
il fondamento della sua canonicità-normatività nel­­l’uso liturgico degli scritti: «La liturgia
è luogo tipicamente pubblico, ufficiale del­­l’espressione della fede» (T. Citrini, Identità
della Bibbia, 22). Per i salmi dobbiamo anche aggiungere che «ogni salmo è testimonianza
di un rapporto vivo e forte con Dio e su questa base possiamo dire che proviene da Dio
ed è ispirato da Dio» (IVSS, n. 17). Per il cosiddetto filone edificante (Tb, Est, Dn 13s.,
Rt) è più arduo “rigorizzare” il concetto di canonicità-normatività: «forse [esso] media un
interessante suggerimento a pensare in termini non legalisti la normatività degli scritti
sacri» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 23). Gli altri scritti di questa terza collezione
possono ricondursi ad un filone che continua la lettura della storia di Israele e qui trovare
un fondamento della loro canonicità-normatività: «O come rilettura dei capitoli antichi
secondo moduli teologici particolari, o come presentazione di capitoli più recenti tut­­t’altro
che semplicemente ripetitivi (1 e 2 Cr, Esd-Ne, e poi 1 e 2 Mac), o ancora come proiezione
apocalittica tesa ad illustrare il senso della storia in un futuro di speranza assicurato dalla
fedeltà vittoriosa di Dio (Dn, Gdt)» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 23).
17
Filone, De vita Mos. I, 23 e II, 290; G. Flavio, Ant. iud. 20, 12,1; cfr. A.M. Di
Nola, La Bibbia nel Giudaismo, voce Bibbia, in ER 1, coll. 1107ss.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 183

b) Per Gesù e per la chiesa primitiva

Gesù e la chiesa apostolica hanno fatto propria la concezione che dei


libri del­­l’AT aveva l’ebraismo.
– Con un semplice: «sta scritto» (ghégraptai), cioè citando un passo
del­­l’AT, Gesù chiude qualsiasi discussione (Mt 4,4-10), o reclama un’au-
torità indiscussa (Mt 21,13). La Scrittura, unitamente al Padre, ai suoi
miracoli e al Battista, rende testimonianza alla persona e al­­l’opera di
Gesù (Gv 5,31-40). Per Gesù, «la parola di Dio (scritta) non può essere
annullata» (Gv 10,35).
– La formula: «affinché si adempisse la Scrittura» (o simili), usata
dagli evangelisti (Gv 19,28 ecc.) e da Pietro (At 1,16); le discussioni di
Paolo con i Giudei sulla base delle Scritture (At 17,2ss.) «per vedere se
le cose stavano veramente così» (At 17,11): sono tutti segni della loro
convinzione che gli scritti del­­l’AT sono un’entità irrefutabile cui non si
può sfuggire. Per Paolo «gli scritti sacri» del­­l’AT (Rm 1,2) sono il tramite
della consolazione e della speranza provenienti da Dio (Rm 15,4ss.);
rivelano il piano divino della salvezza (Rm 16,25ss.); preannunciano il
Cristo (1 Cor 15,3; Rm 1,2); sono «la voce divina» (Rm 11,4).
– Particolarmente degna di attenzione è la formula, spesso ricorrente
negli scritti del NT e con riferimento al­­l’AT: «dice la Scrittura» (léghei hē
graphḗ). In tutto l’impiego fatto dalla grecità del verbo léghein (= dire),
non lo si usa mai in rapporto alla manifestazione scritta del pensiero, ma
sempre e soltanto nel­­l’espressione parlata18. Il neologismo del greco nel
NT, traduzione del­­l’espressione giudaica ha-kāthûb (la Scrittura dice),
combina assieme due concetti antitetici: parola orale e parola scritta. «La
Scrittura è dunque contemporaneamente parola orale e scritta. Il Dio
vivente parla, e la sua parola, una volta pronunciata, si fa scrittura per
essere udita dagli uomini di tutti i tempi»19.

18
Cfr. GLNT VI, coll. 205-209.
19
H. Haag, La parola di Dio si fa scrittura, 419.
184 La Bibbia è parola di Dio

2. Nuovo Testamento

Nel NT assistiamo allo stesso fenomeno riscontrato nella coscienza


del­­l’antico Israele. Non solo avviene il passaggio spontaneo dalla parola
parlata alla parola scritta, ma quest’ultima assume lo stesso valore, la
stessa autorità vincolante della predicazione orale. Anzi, poiché esiste
già la Scrittura del­­l’AT che è parola di Dio, la memoria scritta della
comunità cristiana va a completare le antiche Scritture e ne partecipa la
stessa divina autorità20. Verifichiamo questo assunto per i vangeli e per
gli scritti apostolici.

2.1. I vangeli

a) Gesù è il compimento della rivelazione del Dio di Israele

Gesù parla con inaudita sicurezza. Dalla critica, pur severissima, che si
è messa alla ricerca di «Gesù e la coscienza della propria missione» sulla
base degli «ipsissima verba Jesu», un dato appare certo: Gesù ha avuto
la precisa coscienza di essere il portatore definitivo della rivelazione e
della salvezza, e come tale ha parlato e agito. Egli è l’inizio di una nuova
tradizione21.
Certo, come abbiamo detto sopra, Gesù cita l’AT e ne riconosce l’au-
torità; ma egli si pone anche al di sopra del­­l’AT. Egli disse di sé: «Uno più
grande del tempio è qui» (Mt 12,6), «Qui c’è più di Giona!» (Mt 12,41),
«Qui c’è più di Salomone» (Mt 12,42). Addirittura, di fronte alla legge
mosaica, base e fondamento di tutto l’ebraismo, osò opporre la sua più
alta autorità: «Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico!». A proposito
delle sei antitesi del discorso del monte (Mt 5,21-48), J. Jeremias scrive:
«Colui che pronuncia lo egṑ dè légō hymîn (= ma io vi dico) delle antitesi,

20
«Il corpus neotestamentario non sorge come parallelo o alternativo al­­l’AT, bensì come
Scrittura del compimento (solo in un secondo momento percepita come compimento
della Scrittura)»; e «anche per gli scritti del NT, come per quelli del­­l’AT, la storia della
tradizione, della collezione, del­­l’uso e del riconoscimento (canonicità-normatività) si in-
trecciano» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 31s.). Vedi l’intero capitolo di Citrini (pp.
31-39), e avanti, cap. 13.
21
Vedi sopra, cap. 4, 3.1.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 185

si presenta non solo come il legittimo interprete della Tôrah […] ma ha


l’ardire, unico e rivoluzionario, di porsi in contrasto con la Tôrah»22.
Ugualmente

senza paralleli nel­­l’ambiente di Gesù, e perciò sorprendente per i suoi con-


temporanei, è pure l’egṓ (= Io), unito alla coscienza di parlare con autorità
(cfr. Mc 1,27), usato imperativamente nelle guarigioni (Mc 9,25; 2,11),
come pure nelle parole di invio in missione (Mt 10,16) e nelle espressioni
di conforto (Lc 22,52). Questo egṓ è unito al­­l’Amen e perciò parla con per-
fetta autorità […], sostiene che nel giudizio finale la salvezza si decide nel
confessare lui (Mt 10,32ss. e par.)23.

Non parla in questo modo alcun maestro della legge, il quale deve sol-
tanto spiegare ciò che Dio ha detto in tempi antichi; Gesù parla «come
chi ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,22). Non ha parlato in que-
sto modo alcun profeta, il quale non faceva che trasmettere la parola di
Dio dicendo: «Così dice Dio…». La parola di Dio non proviene a Gesù
dal­­l’esterno, quasi sorprendendolo, ancora come accadeva ai profeti; il
NT non presenta mai Gesù nel­­l’atto di ricevere la parola di Dio, come
accadeva ai profeti. Egli predica la «sua parola» (cfr. Mc 2,2; 4,33) e le
folle vengono ad ascoltare «la parola di Dio» (cfr. Lc 5,1). Quel suo: «Ma
io vi dico!» dimostra che la sua missione di rivelatore si fonda su una
identità chiaramente definita tra la persona di Gesù e la parola di Dio.
In questo modo può parlare soltanto uno che afferma di sé, in forza di
un’autorità propria, di annunciare in modo definitivo la volontà di Dio.
Allora, quando la Chiesa primitiva vide in Gesù Cristo il «sì di tutte
le promesse di Dio» (2 Cor 1,20), l’ultima-definitiva parola di Dio agli
uomini (Eb 1,1s.), addirittura la parola di Dio che «si è fatta carne e ha
piantato la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14), essa non commise estra-
polazione alcuna. Si trattò soltanto di una formulazione perfettamente
coerente con ciò che esisteva già nella coscienza messianica di Gesù e
che egli stesso aveva palesato.
«Mediante la presentazione di Gesù, parola di Dio, i vangeli stessi
diventano parola di Dio»24. Il testo di Eb 1,1s., soprattutto, è particolar-

22
Cfr. J. Jeremias, Teologia del NT, 1: La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1972,
288-290.
23
Ibid., 289.
24
IVSS, n. 30.
186 La Bibbia è parola di Dio

mente importante; Dio parlò, scrive l’autore della lettera: non si dicono
tuttavia i contenuti di ciò che Dio ha detto, ma si nominano le persone
che con il parlare di Dio vengono poste in relazione: Dio stesso, il Fi-
glio, i profeti, i padri e “noi”; la relazione precede dunque i contenuti.
Nei «tempi antichi» Dio parlò in modi diversi “nei” profeti; “oggi” egli
parla a noi “nel” Figlio. La parola di Gesù è dunque parola di Dio, ma
essa non annulla né rende vane le parole in precedenza pronunciate da
Dio. E tuttavia il Figlio – Cristo – non si identifica con un testo scritto,
neppure con quello del Nuovo Testamento; sono entrambi i Testamenti
che attestano il suo essere compimento della rivelazione.

b) I vangeli sono parola di Dio

Quando la predicazione di Gesù e la sua opera di salvezza, «tutto


quello che Gesù fece e insegnò fino al giorno in cui fu assunto in cielo»
(At 1,1s.), diventarono parola scritta nei vangeli, secondo lo stesso pas-
saggio spontaneo riscontrato già nel­­l’AT, scattò quasi automaticamente
nella chiesa primitiva la coscienza di possedere, incarnata in un libro,
la definitiva parola di Dio che nella persona di Gesù Cristo si era fatta
presente. «L’annuncio della buona notizia (evangelo) del Messia Gesù»
(cfr. At 5,42), che «è potenza di Dio per la salvezza di quanti credono»
(Rm 1,16), diventava ora vangelo scritto: «Inizio del vangelo di Gesù,
Cristo, Figlio di Dio…» (Mc 1,1). La chiesa apostolica pone accanto
agli scritti del­­l’AT, che essa considera – come abbiamo visto – «le sacre
Scritture», alcuni suoi scritti a cominciare dai vangeli, perché hanno lo
stesso carattere divino dei primi. Ciò sembra riflettersi in 1 Tm 5,17s.,
che cita del tutto spontaneamente come Scrittura un testo del­­l’AT e un
detto di Gesù presente nel Vangelo di Luca: «I presbiteri che esercitano
bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice ricono-
scimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nel­­
l’insegnamento. Dice infatti la Scrittura: “Non metterai la museruola al
bue che trebbia” (Dt 25,4), e: “Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa”
(Lc 10,7)»25.

25
Su questo testo lucano cfr. anche p. 200 e p. 301.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 187

2.2. Gli scritti apostolici

a) La predicazione degli apostoli

Gli apostoli, forti del­­l’autorità che derivava dalla missione loro affidata
dal Gesù storico e dal Cristo risorto, annunciano l’evangelo della salvezza
nella lucida consapevolezza di essere mediazione umana della definitiva
parola di Dio, rivelata e attuata da Gesù Cristo.
È «la parola di Dio» (At 4,29.31), «la parola del Signore Gesù» (At 8,
25) che essi predicano ovunque «con coraggio» (At 4,31), ai giudei e ai
pagani. A quella Parola essi «rendono servizio e testimonianza» (At 6,4;
8,25); e l’azione missionaria degli apostoli e dei loro collaboratori fatta
anch’essa – come quella di Gesù – di gesti e di parole, provoca la crescita
della chiesa, che Luca descrive in Atti semplicemente come «crescita della
Parola» (At 6,7; 12,24; 14,20).
Con ciò si ha un’importante integrazione di quanto finora si è detto.
Dio non soltanto ha pronunciato in Cristo la sua parola ultima e de-
finitiva. Egli la manifesta anche quando Cristo viene annunciato nella
predicazione apostolica; meglio ancora, Dio continua nella predicazione
apostolica a proclamare la sua parola, la stessa che Dio ha pronunciato
in Cristo Gesù. In questo modo, Paolo può scrivere: «Proprio per questo
anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la
parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come
parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera
in voi credenti» (1 Ts 2,13).

b) Gli scritti degli apostoli

Attraverso Paolo, parla e opera con potenza il Cristo Gesù (cfr. 2 Cor
13,3); la fede e la salvezza non provengono altrimenti che dal­­l’ascolto
della parola del­­l’apostolo (Rm 10,17). Ma la stessa autorità vincolante
è attribuita da Paolo alla forma scritta della sua predicazione: «Perciò,
fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla
nostra parola, sia dalla nostra lettera» (2 Ts 2,15; cfr. 1 Tm 1,18; 4,11).
Alla lettera scritta da Paolo si deve obbedienza (2 Ts 3,14), come se egli
parlasse a viva voce; tutti i credenti della comunità dovranno leggerla
(1 Ts 5,27); anzi talvolta essa è concepita come lettera “circolare”, da
trasmettere alle comunità vicine (Col 4,16).
188 La Bibbia è parola di Dio

Allora non desta meraviglia che le lettere di Paolo vengano sempli-


cemente accostate ad altri passi delle sacre Scritture: «Perciò, carissimi,
nel­­l’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza
colpa e senza macchia. La magnanimità del Signore nostro consideratela
come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo,
secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle
quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da
comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre
Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,14-16). Lettere di Paolo e
scritti del­­l’AT sono posti nella coscienza della chiesa primitiva allo stesso
livello: sono «sacra Scrittura».
Lo stesso farà l’autore del­­l’Apocalisse. Se egli minaccia chiunque osi
aggiungere o togliere qualcosa alle parole del suo libro profetico (Ap
22,18s.), vuol dire che gli attribuisce la stessa autorità che si attribuiva
agli scritti degli antichi profeti. Anche l’Apocalisse è sacra Scrittura, alla
quale niente si può aggiungere o togliere (cfr. Dt 4,2).

Concludendo. – Sia per Israele che per la chiesa di Cristo, le sacre


Scritture non soltanto contengono la parola di Dio, quella parola che
Dio a più riprese e in più modi aveva indirizzato agli uomini mediante i
suoi messaggeri, ultimo dei quali il Figlio suo Gesù Cristo (cfr. Eb 1,1s.),
ma sono esse stesse parola di Dio: «Dio parlava e continua a parlare ed
operare in un eterno presente, per mezzo del libro»26.

26
A. Marangon, La Bibbia parla di sé, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri
di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, 44.
9.
L’ispirazione della sacra Scrittura

Bibliografia: oltre ai contributi di H. Haag e A. Marangon citati nella bibliografia del


cap. 8: W.J. Abraham, The Divine Inspiration of Holy Scripture, University Press, Oxford
1981; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Brescia 19692, 12-15.77-101;
A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, ed. it. a cura di A. Zani,
Paideia, Brescia 1994, 119-138; J. Barr, The Bible in the modern World, SCM, London
19772; P. Benoit, opere citate nella nota 5; R. Cavedo, Libro Sacro, in NDT 753-778;
H. Kleinknecht – F. Baumgärtel – W. Bieder – E. Sjöberg – E. Schweizer, πνεῦμα,
πνευματικός, θεόπνευστος, in GLNT X, coll. 767-1108; voce Spirito, in DCBNT 1784-
1798; voce Rūaḥ, in DTAT 2, coll. 654-678; C.M. Martini – P. Bonatti, Il Messaggio
della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 9-39; A. Milano,
Spirito Santo, in NDT 1533-1545.

Abbiamo visto che sia per Israele sia per la chiesa era parola di Dio
non soltanto la realtà della rivelazione in eventi e parole, ma anche la
sua notizia scritta, cioè la Bibbia.
Vogliamo ora verificare la stessa coscienza nei confronti del libro sa-
cro, partendo da un altro punto di vista parallelo al precedente, anzi ad
esso intimamente connesso, perché – in ultima istanza – ne costituisce
il fondamento. Si tratta, cioè, del carisma del­­l’ispirazione biblica che il
concilio Vaticano II pone a fondamento del rapporto «Bibbia = parola
di Dio»: «Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio, in quanto scritta per
ispirazione dello Spirito Santo» (DV 9).
Il carisma del­­l’ispirazione biblica ha trovato la sua piena ed esplicita
formulazione soltanto negli scritti più recenti del NT, come vedre-
mo. Ciò non deve stupire, visto che la riflessione sulla natura di un
fatto segue sempre l'affermazione del medesimo. Israele sapeva di
possedere la realtà della parola di Dio, fatta libro; ma non si diceva
ancora chiaramente in virtù di quale azione divina si fosse realizzata
190 La Bibbia è parola di Dio

l’incarnazione in un libro della parola di Dio. Per rispondere a questo


interrogativo, il NT ricupera la categoria veterotestamentaria del­­
l’azione dello Spirito Santo (cfr. 2 Pt 1,21) e introduce la categoria
più tecnica della Scrittura ispirata da Dio (2 Tm 3,17), desumendola
dal mondo ellenistico ma senza accogliere il senso ellenistico del­­
l’ispirazione mantica1.
Il tempo della chiesa apostolica, che è il «tempo dello Spirito Santo»
e della sua esplosione, favorisce la riflessione sul­­l’ispirazione biblica2. I
cristiani, vivendo nel contesto dello Spirito del Signore risorto, possono
dire: «Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito
di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,12). Il
“velo” che impediva di vedere è caduto (cfr. 2 Cor 3,12-18); il passato
biblico palesa ora chiaramente il futuro che esso indicava, cioè Cristo,
e questo accade «in virtù del­­l’azione dello Spirito del Signore» risorto.
Anzi, si arriva ad affermare che nei profeti del­­l’AT era presente ed agiva
lo stesso «Spirito di Cristo» (cfr. 1 Tt 1,10-12) che ora agisce nei creden-
ti. In questo nuovo contesto la riflessione di fede sui libri sacri compie
l’ultimo passo. Alla luce del Signore risorto, vivente in mezzo ai cristiani
come “Spirito”, la Bibbia rivela ora non soltanto il suo valore di itinerario
unico che conduce a Cristo, ma anche la sua origine: lo Spirito di Dio,
che è lo stesso Spirito del Signore risorto.

1. Il potente e liberissimo Spirito di Dio

La categoria “ispirazione” richiama e rimanda a quella originaria de


«lo Spirito di Dio», titolo privilegiato che l’AT dà alla potenza di Dio in
azione, per sottolinearne la forza creatrice e promozionale, la misterio-
sità, l’imprevedibilità, la perenne novità.
Afferrabile e inafferrabile insieme, invisibile e tuttavia potente, carico
di energia come il vento della tempesta, vitale come l’aria che si respira,
ora soggiogante ora lieve, inafferrabile mentre ti afferra: così gli uomini

1
Vedi sotto, cap. 10, 1
2
Cfr. C. Mesters, La Parola dietro le parole. Uno studio per trovare la porta di ingresso
nel mondo della Bibbia 1, Queriniana, Brescia 1975, 184-188.
L’ispirazione della sacra Scrittura 191

della Bibbia immaginarono lo «Spirito di Dio» e la sua azione misteriosa.


L. Alonso Schökel lo descrive in questi termini:

Lo Spirito è un “vento divino” (Gen 1,2), è una forza elementare: lo spirito


si librava appunto sul­­l’abisso al­­l’inizio della creazione, lo spirito investiva tu-
multuosamente l’eroe Sansone e lo spingeva alle gesta salvatrici del suo popolo
(Gdc 13,25), lo spirito convergeva dai quattro punti cardinali e vivificava le
aride ossa che Ezechiele, il profeta, contemplava (Ez 37,9); lo spirito era pure
un soffio divino che vivificava Adamo e una brezza soave che mitigava l’angu-
stia di Elia (1 Re 19,12), e un quadruplice docile vento che si posava sopra il
rampollo di Jesse (Is 11,1s.); lo spirito è un vento tempestoso e lingue di fuoco
il giorno di Pentecoste (At 2), ed è suggeritore a bassa voce del­­l’invocazione
“Padre” (Gal 4,6; Rm 8,15), ed è dispensatore di doni e di carismi policromi
nella chiesa di tutti i tempi (1 Cor 12,4-11). Così dobbiamo immaginare lo
Spirito: forte e liberissimo, attivo e molteplice, presente e invisibile. E in tale
contesto dinamico e aperto dobbiamo immaginarci l’ispirazione dei libri sacri3.

Ora, a ben guardare gli ambiti biblici della presenza dello Spirito di
Dio, si individua una costante nella sua opera ininterrotta e multiforme:
Dio, mediante il suo Spirito, investe l’umano e lo spinge al di là di se
stesso, lo promuove, lo consacra, ne fa un sacramento – ovvero segno e
strumento – del divino.
Lo «Spirito di Dio» (Gen 1,2) prese ad aleggiare sulle acque del caos
primordiale, e l'intera creazione cominciò ad assumere progressivamente
un volto ordinato. Dio «soffiò con il suo Spirito» (Es 15,10), e fu subi-
to per Israele passaggio dalla schiavitù alla libertà. Dio «manda il suo
Spirito» (Sal 104,30), e la faccia della terra è rinnovata. Dio «fa entrare
il suo Spirito» (Ez 37,14) in un mucchio di ossa aride, e il popolo di
Israele ritrova la speranza, rivive, torna a riposare nella sua terra. L’uo-
mo ha bisogno di essere rigenerato, ed è lo Spirito di Dio che gli dona
un’altra origine, lo rifonda, lo rende capace di essere, di agire e di parlare
in termini di novità assoluta (cfr. Gv 3,5-8; Gal 4,4-7; 5,16-23; Rm
8,14-17). Soffia lo Spirito della Pentecoste cristiana (At 2), e scatta la
rivoluzionaria novità: la divisione di Babele (Gen 11,1-9) è rovesciata,
la Parola risuona in assoluta franchezza (parrhēsía) e guadagna la fede di
molti, la chiesa si edifica in comunione di fede e di amore (koinōnía), il
mondo si apre alla salvezza.

3
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 13.
192 La Bibbia è parola di Dio

Davvero, dopo la creazione e soprattutto dopo il peccato, umanità,


esistenza e storia appaiono come creta in mano del vasaio, come un ma-
teriale morto che attende di essere promosso a vita o a vita maggiore, di
ricevere un senso, di superarsi, di trascendersi per divenire trasparente al
divino, anzi per permettere al divino di palesarsi, rivelarsi, comunicarsi.
C’è dunque un mistero di «ispirazione», cioè di presenza e di azione
dello Spirito di Dio, che pervade l’intero mondo della storia e della
rivelazione biblico-cristiana, e costituisce il contesto inscindibile del­­
l’ispirazione biblica propriamente detta. «La nostra idea del­­l’ispirazione
deve essere spaziosa, per poter accogliere tutti i casi e forme concrete di
opere ispirate, poiché non abbiamo il diritto di tracciare frontiere allo
Spirito»4.

2. Lo Spirito di Dio nella rivelazione in eventi e parole

Nel contesto generale della multiforme azione dello Spirito di Dio,


acquista particolare rilievo per l’ispirazione biblica la presenza attiva
ed efficace dello Spirito nei protagonisti carismatici della storia della
salvezza e nei suoi interpreti autentici che furono i profeti. P. Benoit5
ha messo in luce questa preistoria del­­l’azione dello Spirito di Dio, che
ha come finalità primaria quella di far agire e far parlare alcuni uomini
per conto di Dio, e che prepara e rende ragione del­­l’azione dello Spirito
– tutta singolare – su coloro che consegneranno allo scritto nei libri sacri
la rivelazione «in eventi e parole».
Con diverse immagini, concrete e dinamiche come: lo Spirito «è nel­­
l’ispirato» o «sopra» di lui, «riposa sopra» di lui, «discende su» di lui,
«viene» in lui, lo «ricopre», ecc., che preparano il termine tecnico «ispi-
razione», l’AT e il NT esprimono l’idea del potente Spirito di Dio, che
spinge il carismatico ad agire e a parlare per conto di Dio.

4
Ibid., 77.
5
P. Benoit ha espresso a più riprese la sua teologia sul­­l’ispirazione: in Initiation Biblique,
Desclée, Paris 19543, 35ss.; Les analogies de l’inspiration, in Sacra Pagina 1, Gabalda - Du-
culot, Paris - Gembloux 1959, 86-89; Révélation et Inspiration selon la Bible, chez Saint
Thomas et dans les discussions modernes, in RB 70 (1963) 321-370 [trad. it., Rivelazione e
ispirazione, Paideia, Brescia 1966]; Ispirazione e rivelazione, in Concilium 4/1965, 15-33.
L’ispirazione della sacra Scrittura 193

2.1. Antico Testamento

Più volte lo Spirito s’impossessa di un uomo per fargli compiere delle azioni
che strutturano la storia del popolo eletto. È lo Spirito che dà a Mosè e agli
anziani il compito di «portare il peso del popolo» nella guida del­­l’esodo
(Nm 11,17-25; cfr. Is 63,11-13), che abita in Giosuè mentre conquista la
Terra promessa (Nm 27,18) che anima un Gedeone (Gdc 6,34), uno Iefte
(Gdc 11,29), un Sansone (Gdc 14,6-19; 15,14) nelle loro imprese coraggiose
per liberare l’oppresso Israele. È lo Spirito che, dopo avere stimolato Saul
(1 Sam 10,6-10; 11,6) e averlo in seguito lasciato (1 Sam 16,14), «discende
sopra» Davide in occasione della sua unzione regale (1 Sam 16,13), in attesa
di discendere in pienezza sul rampollo della stirpe di Iesse, il Re Messia, che
governerà il popolo di Dio nella giustizia e nella pace (Is 11,1ss.; 42,1ss.;
61,1ss.). Non è forse lecito parlare in tutti questi casi di una specie di ispira-
zione «pastorale», che dirige i «pastori» del popolo eletto, e per mezzo loro la
storia santa nella quale si prepara la salvezza messianica?
Ma lo spirito fa anche parlare, oltre che agire. È necessario infatti che il po-
polo capisca la parola che gli spiega le opere di Dio, gli rivela le intenzioni e
gli appelli del suo cuore divino, gli prescrive i suoi comandamenti. I profeti
sono i messaggeri che trasmettono questa parola alle orecchie del popolo;
proprio per questo motivo essi sono animati dallo Spirito. È lo Spirito che
riposa su Ezechiele e lo fa parlare (Ez 11,5), che mette la parola di Dio sulla
bocca di Isaia e dei suoi successori (Is 59,21), che riempie Michea di forza, di
giustizia e di coraggio (Mi 3,8), che fa dire al profeta: «Ora il Signore Dio ha
mandato me insieme con il suo Spirito» (Is 48,16). Osea è un «uomo dello
Spirito» (Os 9,7). Il ministero dei profeti è l’opera dello Spirito (Ne 9,30; Zc
7,12). In questi prescelti si prepara l’era messianica nella quale lo Spirito si
diffonderà sopra tutti (Gl 3,1s.); effusione che san Pietro vede realizzata nel
giorno di Pentecoste (At 2,16ss.). Questo dono della Parola, che accompagna
e commenta quello del­­l’azione, non si può intendere forse come un altro
aspetto del­­l’ispirazione, che si potrebbe chiamare «orale» o «oratorio» e che
accompagna e completa l’ispirazione “pastorale”?6

2.2. Nuovo Testamento

L’una e l’altra ispirazione, cioè “pastorale” e “profetica”, continueranno e


troveranno il loro compimento al tempo della pienezza della rivelazione nel
Cristo. Gesù comanda ai suoi apostoli, non di scrivere libri, ma di predi-

6
P. Benoit, Ispirazione e rivelazione, 20s.
194 La Bibbia è parola di Dio

care il vangelo e di fondare la chiesa. Ed è ancora lo Spirito che dirige quei


nuovi pastori e profeti che sono gli apostoli. È lo Spirito che guida l’azione
missionaria di Filippo (At 8,29-39), di Pietro (At 10,19ss.; 11,12), di Paolo
(At 13,2-4; 16,6ss.), e «stabilisce delle guide per pascere la chiesa di Dio» (At
21,28). È lo Spirito che, secondo la promessa di Gesù (Mt 10,19ss.), sug-
gerisce agli apostoli le parole di conquista e di difesa della fede (At 2,4; 4,8;
13,9). È lo Spirito che per mezzo dei "carismi" concede ai cristiani i diversi
doni di azione e di parola, che costruiscono la comunità (1 Cor 12,4-11).
Nella nuova come nel­­l’antica economia – ma nella nuova in modo pieno – lo
Spirito ispira le azioni e le parole vive che illuminano e guidano il popolo di
Dio nella sua marcia verso la salvezza7.

Le due piste, sulle quali abbiamo inseguito lo Spirito di Dio nella


storia della salvezza proclamata e interpretata dai profeti sia nel­­l’AT che
nel NT, conducono ad una conclusione precisa. La rivelazione biblica «in
eventi e parole intimamente connessi»8 ha una matrice pneumatica, gode
essa stessa di una «ispirazione» che, pur non essendo ancora l’ispirazione
propriamente detta (quella biblica), le si accosta analogicamente, anzi
la annuncia e la prepara. Soltanto in virtù di questa analogica «ispira-
zione», la storia biblica diventa «storia della salvezza», «storia di Dio e
degli uomini», e la parola profetica diventa «parola di Dio in linguaggio
umano». In tale contesto, la presenza e l’azione dello Spirito nei libri
sacri della Bibbia appare una logica conseguenza alle premesse dello
Spirito nella storia e nella Parola. La Bibbia è il momento privilegiato
della conservazione e della trasmissione della rivelazione! Lo Spirito di
Dio non poteva certo assentarsi nel momento definitivo e determinante
in cui tutta la storia della salvezza rivelatrice del disegno di Dio veniva
consegnata alla memoria scritta, sì da raggiungere, per il tramite del libro
sacro, gli uomini di tutti i tempi in vista della costituzione del popolo
di Dio.

7
Ibid., 21s. In questo contesto va tuttavia sottolineato il ruolo dello Spirito di Dio su
Gesù Cristo, l’ispirato per eccellenza. In occasione del battesimo, «lo Spirito discende e
rimane su di lui» (Gv 1,33); a Nazaret, citando e applicando a sé Is 61,1s., Gesù pone tutto
il suo ministero pubblico «in gesta e parole» sotto il segno dello Spirito (cfr. Lc 4,16-21).
Egli potrà dire persino: «Le parole che vi ho detto sono spirito e vita» (Gv 6,63).
8
Vedi sopra, cap. 3.
L’ispirazione della sacra Scrittura 195

3. La sacra Scrittura è ispirata da Dio

L’intima connessione tra Spirito di Dio e parola di Dio scritta appare


in embrione già in alcuni testi del­­l’AT. Secondo Is 34,16, nel «libro di
Yhwh» – ossia nella parola profetica scritta – operano la bocca e lo Spi-
rito di Yhwh. Nella preghiera penitenziale di Neemia la parola scritta
della Legge (Ne 9,3) è attribuita allo Spirito di Dio (9,20). Lo stesso
si dice in Ne 9,30 della parola dei profeti: «Li hai ammoniti con il tuo
spirito per mezzo dei tuoi profeti». E in Zc 7,12 si legge: «Indurirono il
cuore come un diamante, per non udire la legge e le parole che il Signore
degli eserciti rivolgeva loro mediante il suo spirito, per mezzo dei profeti
del passato». L’intervento dello Spirito nella profezia è particolarmente
evidente in Ezechiele (cfr. Ez 2,2; 3,12.14.24 ecc.), mentre in Gioele
l’effusione dello Spirito assume una dimensione universale, al­­l’interno
di un contesto di carattere escatologico; l’esperienza di Geremia (cfr.
per esempio Ger 20,7-9) mette bene in luce come l’intervento dello
Spirito non annulli la personalità del profeta. Resta, come vedremo, il
problema del riconoscere l’ispirazione profetica, problema che coinvolge
un aspetto più vasto: come riconoscere che la Bibbia è ispirata da Dio
(cfr. cap. 10).
Anche la letteratura sapienziale è in qualche modo consapevole del­­
l’ispirazione divina; in Pr 9,1 la casa della sapienza dalle sette colonne
è una probabile allusione al libro stesso dei Proverbi, inteso appunto
come la “casa” di quella sapienza che in Pr 8,22-30 appare come “figlia”
di Dio. In Qo 12,11, come si è visto, gli scritti dei saggi vengono con-
siderati come «dati da un solo pastore», che può essere Salomone, ma
anche Dio stesso. In Sir 24,30-34 l’autore del libro è consapevole della
propria ispirazione profetica; così come in Sap 7,15 l’anonimo saggio
autore del libro della Sapienza9.
Il NT eredita dal­­l’AT il vincolo tra parola di Dio anche scritta e lo
Spirito di Dio, e lo applica esplicitamente agli scritti del­­l’antica allean-
za. Si dice che «era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu

9
Cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco sapienziale, 78.137.175. Per Sap 7,15, cfr. L. Maz-
zinghi, Testi autorevoli di epoca ellenistica in analogia con gli scritti biblici. Un esempio
illustre: il libro della Sapienza, in G.L. Prato (ed.), Israele fra le genti in epoca ellenistica:
un popolo primogenito cittadino del mondo, in RicStoBib 27/1 (2015) 157-176.
196 La Bibbia è parola di Dio

predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide» (At 1,16), e che «Dio
per mezzo dello Spirito Santo disse per bocca di Davide» (At 4,25). Si
introducono le parole di un salmo con la formula: «Come dice lo Spiri-
to Santo» (Eb 3,7). Gesù stesso cita un salmo con la formula: «Davide
stesso, infatti, mosso dallo Spirito Santo, ha detto…» (Mc 12,36; cfr. Mt
22,43). E Pietro, in un testo già ricordato, parlando dei profeti i quali
avevano preannunciato la grazia della salvezza riservata ai credenti in
Cristo, afferma addirittura che lo Spirito di Dio operante nella parola
dei profeti altro non era che lo stesso Spirito di Cristo (cfr. 1 Pt 1,10-12).
Veniamo ora ai testi classici del NT, nei quali si parla esplicitamente
del­­l’azione dello Spirito di Dio nella parola scritta, ossia nei libri sacri
della Bibbia. Si tratta della Seconda lettera di Pietro, un testo forse della
fine del I secolo d.C. o degli inizi del II, e della Seconda lettera a Timoteo,
una delle «lettere pastorali», forse redatte da un discepolo di Paolo, o da
un autore che si richiama alla tradizione paolina, nel­­l’ultimo decennio
del I secolo d.C.; i due testi di 2 Pt 1,16-21 e 2 Tm 3,14-17 sono signi-
ficativamente citati assieme in DV 1110.

3.1. 2 Pietro 1,16-21

Di fronte al ritardo della parusía, che costituiva un problema per i


cristiani (cfr. 3,1ss.), l’autore della lettera richiama innanzitutto la fede
cristiana circa l’avvento glorioso di Cristo, suffragandola con due argo-
menti. La trasfigurazione gloriosa di Gesù sul monte (Mc 9,2-10 e par.)
mostra che Gesù possiede già le qualità essenziali che saranno manife-
state nella parusía; inoltre, le parole dei profeti che preannunciavano la
gloria del Messia avranno sicuro e definitivo compimento, perché nei
profeti agiva lo Spirito di Dio e Dio stesso parlava per loro bocca. Tra-
scriviamo il testo per intero:

Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore no-


stro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente
inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli
infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce

10
Vedi sopra, cap. 5. Su questi due testi, cfr. R. Fabris, Lo Spirito e le Scritture in 2
Tm e in 2 Pt, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nel­
l’autotestimonianza della Bibbia, in RicStoBib 12 (2002) 297-320.
L’ispirazione della sacra Scrittura 197

dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il
mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo
mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la
parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada
che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei
vostri cuori la stella del mattino. Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura
profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai
venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da
parte di Dio (2 Pt 1,16-21).

Diciamo subito che qui non si fa distinzione tra profezia scritta e


profezia orale, per quanto concerne il loro carattere divino. Si passa au-
tomaticamente dalla «profezia della Scrittura», cioè «profezia scritta» del
v. 20 (prophētéia graphês: tradotto dalla CEI con «scrittura profetica»),
alla «profezia-parola dei profeti», cioè profezia orale del v. 21: ambedue
vengono poste sullo stesso piano e partecipano ugualmente dello Spi-
rito di Dio. Del resto, era soltanto la parola profetica scritta quella che
i cristiani possedevano e che poteva offrire loro una solida conferma
(v. 19) al­­l’annuncio apostolico della futura gloriosa venuta del Signore
Gesù (v. 16), già intravista e sperimentata nel­­l’attimo fuggente della
trasfigurazione sul monte (vv. 17s.). Dopo quel­­l’attimo di luce, e prima
che si levi il sole della folgorazione escatologica, la parola dei profeti
costituisce per essi la lampada che brilla e li guida nel cammino oscuro
del­­l’umana esistenza (v. 19).
Ebbene, di ogni profezia sia orale che scritta si dice che essa non pro-
viene esclusivamente dal­­l’umana iniziativa del profeta (v. 21a). I profeti
«parlarono da parte di Dio, perché mossi dallo Spirito Santo» (v. 21b):
non seguirono cioè l’impulso del loro cuore o del loro spirito, bensì
l’impulso dello Spirito Santo. Conseguentemente la loro profezia, nel
suo aspetto esteriore, è soltanto parola umana, ma nella sua intima na-
tura è parola di Dio. Dio parla per bocca dei profeti, perché i profeti
sono condotti interiormente dallo Spirito Santo, cioè – per dirla con un
termine tecnico – sono «ispirati da Dio». L’esperienza profetica è così la
via privilegiata per comprendere il carattere ispirato delle Scritture e le
Scritture, a loro volta, non sono altro che «la mèta del processo profetico
che ha la sua fonte in Dio, per mezzo dello Spirito Santo»11.

11
Ibid., 318.
198 La Bibbia è parola di Dio

Per questo la parola dei profeti, che è parola di Dio, non consente
un’interpretazione “privata”, arbitraria. Arbitraria, non perché opposta a
una interpretazione “ufficiale”, per esempio a quella del magistero eccle-
siastico, ma perché contraria alla natura divina della profezia consegnata
nelle Scritture. Viene così posto, nel testo di 2 Pt, un problema di carat-
tere ermeneutico: la ricerca di un criterio fondamentale per interpretare
le Scritture e tale criterio viene individuato nel loro carattere profetico e
dunque nel­­l’origine divina delle Scritture stesse, per mezzo dello Spirito.

3.2. 2 Timoteo 3,14-17

L’apostolo Paolo, di fronte al­­l’invasione dei falsi dottori «ingannatori e


ingannati allo stesso tempo» (3,13), i quali trovano facilmente discepoli
tra coloro che «stanno sempre lì ad imparare, ma che non riescono mai a
giungere alla conoscenza della verità» (3,6s.), esorta il discepolo Timoteo
a rimanere fedele a ciò che gli è stato insegnato sin dalla sua infanzia. La
madre Lòide e la nonna Eunìce (1,5), e soprattutto Paolo, ultimo suo
maestro, lo hanno educato sulla base delle sacre Scritture, le uniche che
possono istruire l’uomo alla salvezza:

Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dal­­
l’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante
la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per
insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio
sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tm 3,14-17).

«Tutta la Scrittura, ispirata da Dio (theópneustos), è anche utile per


insegnare…»: troviamo qui – ed è l’unico caso nel greco del­­l’AT e del
NT – il termine tecnico theópneustos, tradotto con «ispirato da Dio» e
applicato a pâsa graphḗ, che la versione CEI rende con «tutta la Scrittu-
ra». La traduzione alternativa, cioè «ogni Scrittura», non muta il senso
della frase: il riferimento è comunque a «le sacre Scritture» di cui si
parla nel v. 15. L’aggettivo theópneustos può essere letto in posizione
predicativa («tutta la Scrittura è ispirata da Dio»), oppure in posizio-
ne attributiva come nella versione CEI («tutta la Scrittura, ispirata da
Dio, è utile per insegnare, convincere ecc…»). Nel secondo caso, Paolo
affermerebbe direttamente l’efficacia della Scrittura sui lettori credenti,
L’ispirazione della sacra Scrittura 199

e soltanto indirettamente l’ispirazione della Scrittura. Ma il valore del


testo per l’ispirazione biblica non risulterebbe per questo attenuato, visto
che la Scrittura dispiega la sua efficacia per la vita dei credenti, appunto
perché ispirata da Dio. Anzi, nel­­l’affermazione indiretta, si coglie meglio
un dato pacificamente acquisito della coscienza della chiesa apostolica.
Restano da chiarire due interrogativi, sollevati dal testo.
1) Qual è il senso esatto di theópneustos? – Si tratta, come si è detto,
di un hápax legómenon nel greco biblico; ma il suo significato passivo (=
ispirata da Dio) e non attivo (= ispirante Dio, che ispira Dio) è ampia-
mente confermato, sia dal­­l’uso di theópneustos nella grecità ellenistica12,
sia dalla concezione biblica dello Spirito di Dio, secondo la quale Dio
o il suo Spirito agiscono come soggetti di un’ispirazione nei confronti
di persone o di realtà. A prescindere dal problema se la Bibbia «ispirata
da Dio» sia anche «ispirante Dio»13, vi è accordo pieno tra le varie con-
fessioni cristiane sul significato passivo di theópneustos. La «Traduzione
interconfessionale in lingua corrente» traduce: «Tutto ciò che è scritto
nella Bibbia è ispirato da Dio, e quindi è utile per insegnare la verità
ecc.»; la «Traduction oecuménique de la Bible» traduce: «Toute Écriture est
inspirée de Dieu et utile pour enseigner…».
Da 2 Tm 3,17 risulta pertanto che la Scrittura è concepita come una
realtà vivente ed efficace per la salvezza, proprio perché uscita dallo Spi-
rito di Dio, anche se nel termine theópneustos non c’è un riferimento
diretto allo Spirito; questo sarebbe in tal caso l’unico testo del corpus
paolino nel quale le Scritture sono poste in una qualche relazione con
lo Spirito. Il farsi libro della parola di Dio è attribuito al­­l’azione dello
pnêuma divino, esattamente come l’incarnazione della parola di Dio
nella persona di Gesù Cristo è opera dello stesso Spirito Santo (cfr. Lc
1,35). Tale origine divina della Scrittura la rende “utile” in vista della
formazione di ogni “uomo di Dio”. Le Scritture hanno un valore anche
pedagogico ed educativo, come avveniva per la sapienza di Israele (cfr.
Pr 1,2-4).
2) Di quale sacra Scrittura si parla? – Direttamente ed espressamente
Paolo parla del­­l’AT, perché egli si riferisce alle «sacre Scritture» che Ti-
moteo ha conosciuto da sua madre (v. 15) che «era giudea credente» (At
16,1). Indirettamente, e per estensione, la formula «tutta la Scrittura»

12
Cfr. E. Schweizer, θεόπνευστος, in GLNT X, coll. 1104-1108.
13
Vedi sotto, cap. 11, 7.
200 La Bibbia è parola di Dio

o «ogni Scrittura» del v. 16 potrebbe indicare ogni libro che va sotto il


nome di «Scrittura» o «sacre Scritture», in particolare quegli scritti che, al
tempo in cui viene redatta la 2 Tm, erano riconosciuti «ispirati» e perciò
facenti parte de «la Scrittura».
Né si tratta di pura ipotesi visto che in 1 Tm 5,17-1814 viene citato
come Scrittura, accanto a un testo del Deuteronomio (25,4), un detto di
Gesù che oggi figura nel Vangelo di Luca (10,7):

I presbiteri che esercitano bene la presidenza siano trattati con doppio onore,
soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nel­­l’insegnamento.
Dice infatti la Scrittura: «Non metterai la museruola al bue che trebbia»; e:
«Il lavoratore ha diritto alla sua ricompensa» (1 Tm 5,17-18).

Una cosa comunque è certa: nel periodo in cui viene scritta la 2 Pt


(fine del I secolo?) esiste già una raccolta completa (o quasi) delle lettere
di Paolo, nota al­­l’autore dello scritto e ai suoi destinatari e posta sullo
stesso piano de «le altre Scritture». Vi si legge infatti:

La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha


scritto anche il nostro fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data;
come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono
alcuni punti difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti travisano,
al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina (2 Pt 3,15-16).

Concludendo – Il NT si pronuncia sul­­l’ispirazione divina delle sacre


Scritture, cioè sul­­l’origine divina non solo del contenuto dei libri della
Bibbia, la rivelazione di Dio, ma anche dello strumento privilegiato che
la conserva e la trasmette. Dio stesso è al­­l’origine dei libri sacri, perché
il suo Spirito vi ha influito. Questo fatto appartiene al dettato biblico,
specialmente neotestamentario, indipendentemente dal come possa e
debba essere compreso15. D’altronde, esso non va staccato dal contesto
della multiforme azione e mozione dello Spirito di Dio nella storia della
salvezza e nella sua proclamazione profetica:

L’ispirazione “scritturistica” non ha nulla da temere se viene messa nel­­


l’insieme del­­l’ispirazione “biblica” della quale è una parte, vicina e dopo le

14
Per l’interpretazione controversa del brano, cfr. anche p. 186 e p. 301.
15
Sulla natura del­­l’ispirazione biblica, vedi sotto, cap. 10.
L’ispirazione della sacra Scrittura 201

ispirazioni “pastorale” e “oratoria”. Anzi non può che guadagnarne per il


realismo che la completa. Prima di essere scritto, il messaggio è stato vissuto
e parlato: questa esperienza vitale e questa parola concreta vibrano ancora nel
testo scritto, nel quale sono presentate come in un meraviglioso condensato
voluto da Dio. Esse però lo precedono, lo accompagnano, lo seguono, lo
superano e lo commentano. Tutta questa ricchezza viene sempre dal mede-
simo Spirito […]. Vista in questa luce, l’ispirazione scritturistica cessa di
essere il carisma di un singolo che lavora nel­­l’assoluto e consegna alla carta
delle “verità” suggerite al suo orecchio. Essa è invece l’ultimo tempo di una
lunga azione dello Spirito che, dopo aver preparato un piano divino-umano
nel quale la venuta del Figlio costituisce il vertice, e dopo aver fatto udire
in ogni modo la voce del Padre fino agli ultimi appelli del­­l’Erede (Eb 1,1),
consegna tutto ciò nei libri sacri, destinati a raggiungere tutti gli uomini di
tutti i tempi e di tutti i luoghi16.

4. Lo Spirito di Dio sempre in azione

Se l’ispirazione biblica propriamente detta non ha niente da temere


se collegata alle precedenti analogiche “ispirazioni” che la preparano, è
anche vero che essa acquista più pieno significato per la fede dei credenti,
se viene collegata con la presenza e l’azione dello Spirito di Dio nella vita
presente del popolo di Dio.
Per dirla ancora con P. Benoit17, l’ispirazione biblica, insieme ai suoi
analogici “precedenti”, possiede anche i suoi analogici “prolungamenti”
dai quali è ben distinta, ma dai quali non può essere isolata. Possiamo
verificare questa presenza e azione dello Spirito di Dio successiva al­­
l’ispirazione biblica, semplicemente scorrendo la Dei Verbum del con-
cilio Vaticano II.
La fede, risposta alla rivelazione, è impensabile senza una «mozione
dello Spirito Santo»:

A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede […]. Perché si possa pre-
stare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli

16
P. Benoit, Ispirazione e rivelazione, 23-26 (cfr. testo originale nel­­l’ed. fr. di Concilium
10/1965, 18s.21).
17
Cfr. P. Benoit, Les analogies de l’inspiration, 96-99.
202 La Bibbia è parola di Dio

aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio,
apra gli occhi della mente, e dia a tutti “dolcezza nel consentire e nel credere
alla verità” (DV 5).

L’intelligenza sempre più profonda della rivelazione avviene per opera


dello Spirito Santo:

Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda,


lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi
doni (DV 5).

Nel progresso della tradizione di origine apostolica, lo Spirito Santo è


l’agente principale nei diversi agenti storici che presiedono alla progres-
siva conoscenza e attualizzazione della rivelazione:

Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella chiesa con l’assi-


stenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose
quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti,
i quali le meditano in cuor loro, sia con l’esperienza data da una più profonda
intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con
la successione apostolica hanno ricevuto un carisma sicuro di verità (DV 8).

Anzi, è lo Spirito Santo che introduce i credenti dentro tut­­t’intera la


verità rivelata:

Lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del vangelo risuona nella
chiesa, introduce i credenti dentro tut­­t’intera la verità e in essi fa risiedere la
parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (DV 8).

La stessa sacra Scrittura deve essere letta e interpretata18 con l’aiuto


dello Spirito Santo:

Però, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso
Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei
sacri testi si deve badare con non minore diligenza al contenuto e al­­l’unità
di tutta la Scrittura… (DV 12).

18
Vedi sotto, cap. 19.
L’ispirazione della sacra Scrittura 203

Infine, nel­­l’ultimo capitolo dedicato a «La sacra Scrittura nella vita


della chiesa», la DV per ben due volte accosta in stretto parallelismo il
mistero della sacra Scrittura e quello del­­l’eucaristia:

La chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo


stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nu-
trirsi del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di
Cristo, e di porgerlo ai fedeli (DV 21)19.

Come dal­­l’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della


chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dal­­l’accresciuta
venerazione della parola di Dio, che “permane in eterno” (DV 26).

Anche l’eucaristia, che insieme alla parola della Bibbia edifica la chiesa
come comunità dei credenti, proviene dall’azione e dalla presenza effi-
cace dello Spirito Santo:

Padre veramente Santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’ef-
fusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù
Cristo, nostro Signore (II Canone della messa; cfr. l’identica epiclesi nei Ca-
noni III e IV della messa).

Noi t’invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo, manda il tuo Santo Spirito


sopra di noi e sopra questi doni posti qui sul­­l’altare e fa’ di questo pane il prezio-
so corpo del tuo Cristo e di ciò che è in questo calice il prezioso sangue del
tuo Cristo, trasmutandoli per virtù del tuo Santo Spirito, affinché per coloro
che si comunicano siano purificazione del­­l’anima, remissione dei peccati,
comunicazione dello Spirito Santo, adempimento del regno dei cieli, titolo
a libera confidenza davanti a te, non cagione di giudizio e di condanna (Dal­­
l’antica anafora, detta di san Giovanni Crisostomo).

Dunque, in virtù del­­l’azione e della presenza dello Spirito Santo, in-


vocato nella epiclesi della messa, i doni del pane e del vino diventano
realmente il corpo e il sangue di Cristo; non solo, ma attraverso l’eucari-
stia lo Spirito Santo prolunga la sua azione sulla comunità cristiana che
se ne nutre e vi attinge la sorgente di una fraterna, accresciuta carità. La
comunità dei credenti, nella celebrazione eucaristica, si ciba della parola

19
Cfr. anche sotto, cap. 20.1.
204 La Bibbia è parola di Dio

di Dio che l’ispirazione scritturistica ha reso presente a noi nel­­l’umana


parola degli scrittori sacri, e si nutre del corpo e del sangue di Cristo che
l’unico e identico Spirito Santo ha reso realmente presenti nei doni del
pane e del vino. La Bibbia è «una consacrazione della storia della salvezza
sotto le specie della parola umana»20.

Concludendo – Esiste dunque un mistero d’ispirazione che agisce nel


presente, dentro di noi, attorno a noi, sotto gli occhi della nostra fede:
è la misteriosa, ma reale, presenza e azione dello Spirito Santo, dello
Spirito del Signore risorto e vivente, senza la quale non si dà né la fede
né la chiesa.
Vivere e comprendere questo quotidiano mistero d’ispirazione è la
migliore premessa per capire l’ispirazione della Bibbia con tutte le sue
conseguenze, fermo restando – e ciò va riaffermato con inequivocabile
chiarezza – il carattere unico, specifico e irripetibile della rivelazione del
tempo biblico e del­­l’ispirazione della Bibbia.

20
Nel suo discorso al concilio Vaticano II del 5 ottobre 1964, S.E. Mons. Neofitos
Edelby, arcivescovo titolare di Edessa, portava in questi termini il contributo della chiesa
orientale al mistero della sacra Scrittura: «La sacra Scrittura è una realtà liturgica e profe-
tica. Essa è una proclamazione più che un libro scritto. È la testimonianza dello Spirito
Santo sul­­l’evento Cristo, e il suo momento precipuo e privilegiato è la celebrazione della
liturgia eucaristica. Mediante questa testimonianza dello Spirito Santo, l’economia del
Verbo rivela il Padre. La controversia post-tridentina vede nella sacra Scrittura innanzi-
tutto una norma scritta. Invece la chiesa orientale vede nella sacra Scrittura piuttosto una
consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana (consecrationem
quamdam Historiae salutis sub speciebus verbi humani), inseparabile però dalla consacrazio-
ne eucaristica nella quale si ricapitola tutto il Corpo di Cristo […]. Questa consacrazione
esige una epiclesi, ovvero l’invocazione e l’azione dello Spirito Santo; e l’epiclesi è precisa-
mente la sacra tradizione. Pertanto la tradizione è l’epiclesi della storia della salvezza, è la
teofania dello Spirito Santo senza la quale la storia del mondo è incomprensibile, e la sacra
Scrittura rimane lettera morta» (Acta Synodalia, vol. III, pars III, pp. 306s.).
10.
La chiesa si interroga
sul mistero della Bibbia

Bibliografia: W.J. Abraham, The Divine Inspiration of Holy Scripture, University Press,
Oxford 1981; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Brescia 19692, 40-76;
H. Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 493-521; G. Benedetti,
La Bibbia nella teologia patristica e medievale, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I
libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975, 53-118; J.
Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture, du Cerf, Paris 1972; O. Loretz, Das Ende
der Inspirations-Theologie. Chancen eines Neubeginns, 1: Untersuchungen zur Entwicklung
der traditionellen theologischen Lehre über die Inspiration der Heiligen Schrift, Katholisches
Bibelwerk, Stuttgart 1974; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza, 1:
Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 41-87; G. O’Collins, Teologia fonda-
mentale, Queriniana, Brescia 19883, 281-301; L. Pacomio, La Bibbia nella teologia dei
secc. XIII-XIV fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio, 53-122 e 123-194.
Cfr. anche tre trattati classici sul­­l’ispirazione: E. Florit, Ispirazione biblica, Agenzia
del Libro Cattolico, Roma 19512; H. Höpfl – L. Leloir, Introductio generalis in Sacram
Scripturam, D’Auria - Arnodo, Neapoli - Romae 19586, 19-118; Ch. Pesch, De Inspira-
tione Sacrae Scripturae, Herder, Freiburg i. Br. 1929, rist. (per una sintesi del medesimo,
cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 357-376).
A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, ed. it. a cura di A.
Zani, Paideia, Brescia 1994, 119-182; C. Buzzetti – M. Cimosa, Bibbia: Parola scritta
e spirito, sempre. Ispirazione delle Sacre Scritture (Sofia - Manuali e Sussidi per lo Studio
della Teologia) LAS, Roma 2004; M. Tábet, Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo,
Cinisello B. 1997, 25-88.
C.A. Alves, Ispirazione e verità. Genesi, sintesi e prospettive della dottrina sul­­l’ispirazione
biblica del concilio Vaticano II (DV11) (Scaffale aperto), Armando, Roma 2012; M.C.
Aparicio Valls, Ispirazione, Cittadella, Assisi 2014; P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato
per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2012,
17-180; P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata. Nuove prospettive sul­­
l’ispirazione biblica, San Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2013, con diversi saggi e ricchi
riferimenti bibliografici. Cfr. il già citato documento della Pontificia Commissione
Biblica, Ispirazione e verità.
206 La Bibbia è parola di Dio

Nelle illustrazioni dei libri medievali, come anche nella pittura del
Rinascimento, c’è un’immagine ricorrente. Si vede uno dei quattro evan-
gelisti che sta scrivendo il suo vangelo, con una penna in mano e un
piccolo leggìo davanti a sé, sul quale stanno i fogli di pergamena. Egli
è tutto concentrato nel suo lavoro, e tuttavia la sua testa è piegata di
lato, come fosse in ascolto: vicino al suo orecchio aleggia una colomba,
simbolo dello Spirito Santo che gli sussurra le parole da scrivere. Pro-
babilmente il pittore voleva soltanto esprimere il dogma cristiano, che
la Bibbia è ispirata da Dio e che Dio ne è l’autore principale, per cui lo
Spirito Santo si dà premura che sia veramente la parola di Dio ad essere
espressa dallo scrittore sacro. Tuttavia non si può negare che l’immagine
fa pensare agli scrittori sacri come a dei bravi e diligenti “segretari” di
Dio, ma nient’altro che “segretari”: una specie di macchina da scrivere
umana, sotto le dita di Dio.
È questo il modo in cui dobbiamo raffigurarci l’ispirazione della Bib-
bia? La fede cristiana non esige il sacrificium intellectus, ma impegna
l’intelligenza umana (è la fides quaerens intellectum) a riflettere sul dato
della rivelazione e a renderne ragione. Il credente non si accontenta
del Was (che cosa è stato rivelato e che cosa credere), ma ricerca anche
il Wie, il come della verità rivelata e offerta al­­l’accoglimento della fede,
non fosse altro perché la stessa rivelazione biblica del Was da credere è
sempre espressa con categorie umane che lasciano intravedere qualcosa
del modo in cui il mistero è accaduto. In ogni caso la chiesa, sin dal­­
l’epoca post-apostolica, non ha mai cessato di interrogarsi sul mistero
del­­l’ispirazione biblica, dando di volta in volta delle risposte in parallelo
con la sua ininterrotta riflessione guidata dallo Spirito Santo, la quale
cesserà soltanto quando la fede lascerà il posto alla visione.
È questo il momento della ricerca dei Padri, dei dottori e dei teologi,
ma anche il momento delle decisioni del magistero della chiesa che guida
la ricerca, la sollecita e la valuta sulla base del dato rivelato che esso ha il
compito di “custodire”. Dagli stessi autori del NT ai Padri della chiesa, al
concilio Vaticano II (cap. 10), sino alla riflessione della teologia contem-
poranea (cap. 11): due capitoli aperti di teologia del­­l’ispirazione biblica.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  207

1. Il giudaismo e gli autori del Nuovo Testamento

Gli autori più recenti del NT affermano expressis verbis l’ispirazione del-
la sacra Scrittura1; ci dicono qualcosa anche sulla natura del­­l’ispirazione?
La domanda è legittima dal momento che il mondo ellenistico – e l’uso
linguistico di theópneustos in 2 Tm 3,16 è ellenistico – aveva una conce-
zione “mantica” del­­l’ispirazione, e il mondo giudaico, dal quale il NT
ereditò la fede nel­­l’ispirazione biblica, aveva elaborato in forme diverse
una sua dottrina sul­­l’ispirazione.

1.1. L’ispirazione mantica del mondo greco-ellenistico2

Già nel mondo mesopotamico esisteva la convinzione che al­­l’uomo


possa arrivare un messaggio, un’idea, un oracolo o un sogno dal mondo
degli dèi, il concetto di ispirazione va dunque inteso in senso molto
ampio, come la possibilità di una comunicazione con il mondo divino3.
Interessante è il caso della profezia nella città di Mari; contrariamente
ai profeti biblici, quelli di Mari non si presentano come persone che
parlano a nome di Dio, ma come la divinità stessa che parla in loro4.
Nel mondo greco era comune l’idea di una ispirazione divina dei poeti,
fin dai poemi omerici, ispirazione attribuita alle Muse; vi si affiancava-
no – almeno secondo Platone (Fedro 265b) – l’ispirazione “telestica”
connessa con Dioniso e i culti misterici, l’ispirazione mantica, connessa
con Apollo, e quella amorosa, connessa con Afrodite, che per Platone è
da vedersi come la forma più alta di ispirazione.
Lo pnêuma della mantica indicava la forza del soffio divino che, inve-
stendo il sacerdote o la sacerdotessa, lo trasferiva in uno stato di raptus
estatico per cui il divinatore era fuori di sé, non più libero, spinto e tra-

1
Vedi sopra, cap. 9.
2
Cfr. H. Kleinknecht, πνεῦμα; E. Schweizer, θεόπνευστος, in GLNT X, coll. 805-
827.1104-1108; A.M. Di Nola, Estasi, Ebbrezza, Entusiasmo, in ER 2, coll. 1255-1268;
J. Sievers, L’ispirazione nel pensiero ellenistico, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni
Scrittura è ispirata, 33-46.
3
I. Hrůša, L’ispirazione divina nella Mesopotamia antica, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet
(edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 21-32.
4
Per i testi di Mari (XVIII-XVII secolo a.C.) cfr. L. Cagni, Le profezie di Mari, Paideia,
Brescia 1996.
208 La Bibbia è parola di Dio

scinato come un folle, e perciò capace di proclamare a nome di un Dio


l’oracolo divinatorio: si pensi agli oracoli della Pizia a Delfi (Plutarco,
Gli oracoli della Pizia, 397C).
L’uso linguistico di theópneustos non introduce il senso ellenistico
del­­l’ispirazione mantica nel NT, che anzi si fa scrupolo di evitare tutta
la gamma di sinonimi religiosi di pnêuma, correnti nel vocabolario
greco per esprimere fenomeni eccezionali di natura entusiastico-estatica
come: éntheos; enthusiasmós, epípnus, epípnoia, émpneusis ecc. L’ispira-
zione mantica non s’addice ai profeti del­­l’AT e del NT, né tanto meno
agli scrittori sacri, uomini in pieno possesso di tutte le loro facoltà,
uomini storicamente condizionati, testimoni della Parola per credenti
o comunità variamente impegnati e con problemi diversi. Un Paolo,
cui certamente non difettava lo Spirito, poteva scrivere, a proposito
delle vedove libere di risposarsi: «Ma se rimangono così (cioè vedove),
a mio parere è meglio: credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio»
(1 Cor 7,40).

1.2. L’ispirazione nel giudaismo5

Qualcosa di simile al­­l’ispirazione mantica si trova anche nello scrittore


ebreo ellenistico Filone, testimone dello sviluppo che in lui subisce la
leggenda del­­l’origine della versione greca dei Lxx6.
Nella Lettera di Aristea (ca. 130 a.C.) si afferma semplicemente che i
72 traduttori chiamati ad Alessandria per tradurre le Scritture ebraiche
in greco «procedettero al lavoro, mettendosi d’accordo tra sé su ciascun
punto della versione, mediante confronti [tâis antiboláis: cioè confrontan-
do le traduzioni provvisorie elaborate da ciascuno]. Del testo risultante
dal loro accordo, Demetrio faceva redigere una copia in bella e debita
forma»7.
Filone, invece, scrive:

5
Cfr. W. Bieder, πνεῦμα, in GLNT X, coll. 883-891; A.M. Di Nola, La Bibbia
nel Giudaismo, in ER 1, coll. 1107-1120; P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen
Testaments. Eine Hermeneutik («NDT Ergänzungsreihe» 5), Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1977, 48-30.
6
Vedi sopra, cap. 7.
7
Lettera di Aristea 302: SC 89, 230.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  209

Essendosi dunque stabiliti in quel luogo, senza alcun’altra presenza se non


degli elementi naturali: terra, acqua, aria, cielo, sulla cui origine si appre-
stavano a fare i sommi sacerdoti (hierophántēs) – poiché la Legge comincia
con la creazione del mondo – essi profetizzarono, come se Dio avesse preso
possesso del loro spirito (katháper enthusióntes prophetéuon), non ciascuno con
parole differenti, ma tutti con le stesse parole e gli stessi giri di frase, come se
ciascuno fosse sotto dettatura di un invisibile ispiratore (aóratos enechoúntos)8.

Da un lato Filone utilizza il linguaggio della mantica (cfr. il verbo


enthousiázō, che indica l’essere posseduto/ispirato dalla divinità); dal­­
l’altro inserisce l’ispirazione al­­l’interno del­­l’idea biblica di “profezia”.
L’altro autore giudaico di lingua greca, Giuseppe Flavio, non sembra
condividere questa concezione del­­l’ispirazione; in ogni caso, egli parla
soltanto del fatto del­­l’ispirazione:

Per una conseguenza naturale, direi necessaria – poiché tra noi non è per-
messo a tutti di scrivere la storia (e nei nostri scritti non esiste divergenza)
ma solo i profeti raccontarono con chiarezza i fatti lontani e antichi per
averli appresi mediante ispirazione divina (katà tên epípnoian tên apò theû
mathontôn) e quelli contemporanei per esserne testimoni – per una con-
seguenza naturale, dicevo, non esiste tra noi un’infinità di libri discordi e
contraddittori, ma ventidue soltanto che abbracciano la storia di tutti i tempi
e che sono giustamente considerati come divini9.

Anche Giuseppe Flavio fa rientrare l’ispirazione al­­l’interno della pro-


fezia: «solo i profeti hanno capito, per ispirazione da Dio, che cosa è
successo nei tempi più remoti e antichi, mentre hanno descritto esatta-
mente gli eventi a loro contemporanei» (Contra Ap., I, 37). In fondo,
Giuseppe Flavio non fa che affermare l’origine divina dei libri sacri in
forza del­­l’ispirazione, in conformità alla fede del giudaismo di cui la

8
De Vita Mosis II, 37: Les Oeuvres de Philon d’Alexandrie 22, du Cerf, Paris 1967, 208.
Cfr. anche II, 40: «Tutte le volte che ebrei che sanno il greco o greci che sanno l’ebraico si
trovano di fronte simultaneamente ai due testi, l’ebraico e la versione greca, li guardano
con ammirazione come due sorelle, o meglio, come un’unica e identica opera, tanto nella
sostanza che nella forma, e chiamano i loro autori non traduttori ma sommi sacerdoti e
profeti (hierophántas kài prophḗtas), perché ad essi fu accordato, grazie alla purità della loro
intelligenza, di andare di pari passo con lo Spirito che è il più puro di tutti, lo Spirito di
Mosè» (ibid., 208-210 [trad. it., Vita di Mosè, Rusconi, Milano 1999]).
9
Contra Apion. 1,8, 37-38: Flavius Josèphe. Contre Apion, «Les belles Lettres», Paris
1930, 9-10 [trad. it., Contro Apione, Marietti, Genova 2007].
210 La Bibbia è parola di Dio

stessa Lettera di Aristea era testimone quando, parlando della Tôrah come
tale, affermava che di essa non si fa menzione in nessun storico o poeta
«a motivo del carattere augusto di questa Legge e perché essa viene da
Dio (dià theû ghegonénai)»10.
Una concezione del­­l’ispirazione di tipo miracolistico s’incontra anche
nel giudaismo palestinese, almeno per quanto concerne la Tôrah che ha
una preminenza assoluta11 sugli altri scritti sacri:

Mentre per gli altri profeti possiamo anche parlare di ispirazione, nel caso
di Mosè dobbiamo pensare che egli si svuota totalmente di se stesso, divie-
ne un veicolo materiale della presenza divina. Le parole dei Profeti e degli
Agiografi sono parole ispirate, cariche di santità, laddove le Parole di Mosè
sono parole di Yhwh medesimo: «Colui che dice che la Torah non è venuta
dal cielo, non ha parte nel mondo futuro» (Talm. bab. Sanh. 10,1); «Anche
se qualcuno riconosce quest’origine celeste alla Torah, ma ne eccettua una
sola parola, che il Santo Unico, benedetto egli sia!, non avrebbe pronunciata
attraverso Mosè, costui non parla che secondo la sua opinione personale»
(Sanh. 99a) 12.

Questa preminenza assoluta della Tôrah e il singolare tipo di ispira-


zione che le compete per il giudaismo (ispirazione = dettatura di Dio,
in pratica), appare ancor più evidente in una speculazione largamente
diffusa, che tende a considerare la Tôrah come preesistente in Dio, prima
che egli la costituisse in rivelazione del Sinai13.
Lo stesso Libro dei Giubilei (II secolo a.C.) parla di tavole celesti sulle
quali si trova già scolpita non solo la legge (4,5.32), ma anche la storia
(23,32; 32,28). E nel 4 Libro di Esdra (I secolo d.C.), dopo che la Tôrah
è stata bruciata, Esdra prega Dio: «Se ho trovato grazia presso di te,
manda in me lo Spirito Santo e io scriverò tutto quello che tu hai fatto
nel mondo sin dal­­l’origine, tutto ciò che era scritto nella tua Legge» (4
Esd 14,22; cfr. 14,24-25.37-47).

10
Lettera di Aristea 313: SC 89, 234.
11
«L’ebraismo religioso ha sempre e costituzionalmente avvertito la profonda differenza
di livello tra le varie parti della collezione, considerando i profeti e gli agiografi (cioè il
terzo gruppo di scritti) come scritti che servono a riconfermare la rivelazione della Tôrah e
che soprattutto esprimono la dialettica storica del Patto costituito in Tôrah» (A. Di Nola,
La Bibbia nel Giudaismo, in ER 1, col. 1113).
12
Ibid.
13
Cfr. ibid., coll. 1113-1115.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  211

Esistono, dunque, due diversi modelli di ispirazione nel giudaismo


antico. Il primo intende l’ispirazione come «un evento di rivelazione
soprannaturale che trasforma gli autori biblici in strumenti che stanno
in ascolto di Dio, in strumenti di una dettatura di Dio», mediante «lo
Spirito di Dio che prende possesso dei testimoni ispirati eliminando
l’intelletto dei medesimi e rendendoli capaci della comunicazione di
una rivelazione divina»; il secondo intende l’ispirazione semplicemente
«come un processo di elezione e singolare autorizzazione del testimone
umano per la stesura della rivelazione di Dio»14. Del primo modello
non v’è traccia alcuna negli scrittori del­­l’AT come in quelli del NT: la
teoria del­­l’ispirazione mantica si fa strada soltanto in seguito. Il modello
d’ispirazione presente nella Bibbia è semmai il secondo, comunque un
modello che non separa l’azione dello Spirito dalla storia umana dei
testimoni biblici e dalla loro libera e consapevole attività letteraria.

1.3. Testimonianze bibliche15

Per l’AT prendiamo l’esempio dei profeti, i quali «non sono gli unici
ispirati, ma in essi appare con maggior forza e chiarezza l’azione dello
Spirito: sono i principes analogati»16. Analizzando l’opera letteraria e lo
stile peculiare «del classico Isaia, del romantico Geremia, del barocco
Ezechiele», non possiamo certo concludere che il profeta scrive sotto
dettatura, o che ripeta a memoria o alla lettera il messaggio appreso
mediante rivelazione.

Applicando una rigorosa analisi letteraria, apprezzeremmo il lavoro artigia-


nale del profeta: come egli ricerca un’onomatopea, come accumula assonan-
ze, come dispone un chiasmo di sei membri, come modifica espressivamente
una formula ritmica, come costruisce con ingegnoso calcolo l’oracolo, come
sviluppa un’immagine topica […]. Insomma, al profeta possiamo toccare
e asciugare il sudore della fronte, con cui ha estratto il poema o l’oracolo
dalla cava del linguaggio […]. Il fatto sta che non è un dettato. Se vogliamo
conciliare questi due fatti: il lavoro scolpito nel­­l’opera e la formula «parola
di Dio», dobbiamo indirizzare la nostra ricerca in altra direzione. L’azione

14
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments, 48s.
15
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 77-101.
16
Ibid., 77.
212 La Bibbia è parola di Dio

dello Spirito non può essere un dettare, né può essere meccanica; occorrerà
collocarla in una regione vitale del­­l’attività del linguaggio, e più concreta-
mente, del linguaggio letterario […]. Il divino e l’umano sono presenti: il
divino eleva l’umano, non lo sopprime. La vocazione eleva la personalità
del profeta, non la distrugge; polarizza la sua sensibilità letteraria, pone in
trance la sua attività letteraria17.

Le pagine biografiche dei profeti costituiscono un punto di osserva-


zione privilegiato per capire la psicologia del profeta ispirato. Geremia
può gridare:

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;


mi hai fatto forza e hai prevalso…
Quando parlo, devo gridare,
devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me
causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui,
non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo (Ger 20,7-9).

Geremia si sente come stretto, imprigionato tra la sua libertà e il


potere della parola di Dio; se continua a parlare, nonostante che la sua
predicazione gli provochi sospetti, beffe e odio, è perché la parola di Dio
si è impossessata di lui dal di dentro: come un cratere che non può fare
a meno di vomitare fuoco. Lucidamente tentato di cessare la missione
di profeta, altrettanto lucidamente risoluto a rimanere fedele alla sua
vocazione. Il suo, è soltanto un terribile “caso di coscienza”, come quello
di Ezechiele, il quale ha il compito della “sentinella” che deve gridare:
«Pericolo!». Se grida, non sarà responsabile della vita di coloro che non
credono al suo allarme; se non grida, ne sarà responsabile (Ez 33,1-9).
Negli studi più recenti la figura del profeta in rapporto al tema del­­
l’ispirazione appare sempre più rilevante. Come già nel caso di Mosè, per
i profeti è chiaro come l’ispirazione sia legata strettamente non soltanto

17
Ibid., 81s.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  213

alla parola, ma alla persona stessa del profeta; i casi di Geremia ed Eze-
chiele illustrano molto bene questa concezione “larga” del­­l’ispirazione
profetica. Nel caso di Geremia, in particolare, il dissidio tra i progetti
personali del profeta e la parola di Dio che lo spinge in direzioni diverse
attesta, in modo molto drammatico, l’autenticità di questa parola18. E,
tuttavia, l’intero corpus profetico è attraversato dal problema di poter
riconoscere il vero dal falso profeta; non bastano i criteri esterni, come
la vita stessa del profeta o la qualità oggettiva del suo messaggio. Occorre
un criterio più profondo: è necessario che l’uditore stesso sia in qualche
modo profeta19. Se, come si vedrà in DV 12 (cfr. pp. 469ss.), la Scrit-
tura dev’essere «letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu
scritta», è necessario affermare anche che «riconosce la Scrittura come
parola di Dio solo colui che vive dello stesso Spirito dei profeti»20, sulla
scia di quanto Paolo scrive in 1 Cor 2,7-16: le cose dello Spirito possono
essere giudicate solo per mezzo dello Spirito.
Se ci volgiamo ora al NT, scopriamo che gli apostoli ricevono come i
profeti la missione di proclamare la parola di Dio, che si è definitivamen-
te rivelata nella persona di Gesù Cristo: nel suo essere, operare e dire.
Ma, come avviene la predicazione apostolica su Gesù? Avviene tramite
un “ricordare”, un “capire”, un “testimoniare”, tutte facoltà pienamente
umane; e lo Spirito di Cristo, da lui promesso agli apostoli (cfr. Gv
14,25s.; 15,26s.; 16,13s.), ha proprio il compito di far loro “ricordare”,
“capire”, “testimoniare”, cioè di «riattivare in profondità la memoria e
l’intelligenza». E come avviene la redazione scritta dei vangeli?

Oltre alla memoria e al­­l’intelligenza, c’è tutto il travaglio letterario del com-
porre e del redigere. Tutto quanto appartiene a una attività letteraria, se lo
assume lo Spirito Santo per trasmetterci vive le parole di Cristo […]. Luca
parla espressamente della sua fatica e diligenza (Lc 1,1-4), perché i carismi di
Dio non risparmiano il lavoro umano, ma lo suscitano e dirigono. Chi abbia

18
Cfr. G. Barbiero, Le metafore e le immagini del­­l’ispirazione nella Torah e nei profeti,
in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 47-61.
19
«Noi abbiamo bisogno di profeti, ma, quando c’è un vero profeta, la regola vuole
che ci sia un falso profeta accanto a lui, e vuole anche che, almeno in definitiva, non vi
sia una regola per discernere tra i due. Il paradosso del profetismo è che, da ultimo, è
l’uditore che è costretto ad essere profeta» (P. Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura oggi,
Massimo, Milano 1990, 54).
20
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 133. Cfr. tutta la sezione
da p. 78 a p. 137 sul tema del riconoscimento del profeta.
214 La Bibbia è parola di Dio

studiato un po’ a fondo i procedimenti redazionali degli evangelisti, apprezzerà


il limpido e meticoloso lavoro di questi scrittori. Gli evangelisti composero
i loro libri divini col sudore della loro fronte e con il soffio dello spirito21.

La stessa Apocalisse di Giovanni, che si presenta come «Rivelazione


di Gesù Cristo, che Dio gli concesse perché la mostrasse ai suoi servi»,
come una attestazione «della parola di Dio e della testimonianza di Gesù
Cristo» (Ap 1,1s.), come la «scrittura in un libro delle visioni avute da
Giovanni afferrato dallo Spirito» (Ap 1,10s.; 4,1s.), non fa eccezione al
carattere di storicità e di testimonianza umana degli scritti del NT. «Il
profeta Giovanni non elenca semplicemente le visioni che gli soprag-
giungono, bensì formula il suo messaggio in una rielaborazione altamen-
te riflettuta che tiene presente la tradizione apocalittica a lui precedente
e la professione di fede in Cristo che lo sostiene»22.
Il documento della Pontificia Commissione Biblica su Ispirazione e
verità della Sacra Scrittura offre questa interessante sintesi conclusiva
sull’idea di ispirazione vista alla luce delle Scritture: «Secondo quanto
attestano gli scritti biblici, l’ispirazione si presenta come uno speciale
rapporto con Dio (o con Gesù), per cui egli dona a un autore umano
di dire – mediante il suo Spirito – ciò che egli vuole comunicare agli
uomini»; per comprendere l’idea biblica di “ispirazione” risultano dun-
que fondamentali alcuni aspetti: prima di tutto, il dono di un rapporto
personale con Dio, un rapporto nel quale l’autore biblico accoglie i
diversi modi nei quali Dio si rivela (creazione, storia, presenza di Gesù
di Nazaret). L’ispirazione è dunque analogicamente la stessa per tutti gli
autori dei diversi libri biblici, ma è allo stesso tempo variegata, a motivo
del­­l’economia della rivelazione divina23.

2. La voce dei Padri della chiesa

I Padri della chiesa non si limitano ad esporre la loro fede nel­­l’origine


divina della Bibbia, perché «ispirata da Dio», in continuità con gli scrit-

21
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 98s.
22
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments, 46.
23
Cfr. IVSS, n. 52.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  215

tori del NT24. Essi introducono anche, o approfondiscono, alcune ca-


tegorie che hanno lo scopo di chiarire in qualche modo il rapporto tra
parola di Dio e parola umana nella Bibbia, tra Dio che ispira lo scrittore
umano e lo scrittore che è mosso dallo Spirito Santo al fine di redigere
gli scritti sacri.

2.1. Lo scrittore sacro è “strumento” di Dio

Per lo più i Padri riprendono il concetto generale di strumentalità già


noto al NT, là dove si parla del profeta come «bocca di Dio» (Lc 1,70; At
1,16), come uomo che «è mosso dallo Spirito Santo» (2 Pt 1,20). Ma il
concetto viene anche espresso con il termine «strumento di Dio o dello
Spirito Santo», talvolta paragonato a uno strumento musicale. I profeti
sono «strumenti del Verbo», il quale li usa «come un plettro»; lo Spirito
fa uso dei profeti «come il flautista soffia in un flauto»; lo Spirito Santo è
«come un plettro divino» che si serve dei profeti «come di uno strumento
di cetra o di lira»; «i profeti sono strumenti della voce divina»25.
Queste immagini, appartenenti al­­l’insistenza oratoria dei Padri ai qua-
li premeva sottolineare l’origine soprannaturale dei libri sacri, vanno in-
tese in senso molto analogico, meglio ancora come simboli26, e non come
descrizioni tecniche che farebbero concludere allo scrittore sacro come
a un puro inerte strumento nelle mani di Dio, in una specie di monofi-
sismo scritturistico. I Padri ammettono una partecipazione attiva delle
capacità spirituali e intellettuali del profeta, esaltate ma non annientate
dal carisma dello Spirito. Anzi, quando si affacciò col montanismo la
concezione estatica del­­l’ispirazione che assimilava i messaggi della rive-

24
Per esempio: gli agiografi «sono divinamente mossi» e «parlano in virtù dello Spirito
di Dio» (Giustino); i diversi scrittori sacri sono concordi tra loro «perché sono tutti spinti
dallo Spirito e hanno parlato nello Spirito di Dio» (Teofilo di Antiochia); le Scritture «sono
perfette, essendo dette dal Verbo di Dio e dal suo Spirito» (Ireneo); i libri sacri sono scritti
«sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, per volontà del Padre, per mezzo di Gesù Cristo»
(Origene); «i profeti hanno parlato ispirati dallo Spirito divino, e perciò le Scritture, essen-
do state scritte dallo Spirito, contengono in sé un ingente tesoro» (Giovanni Crisostomo);
«tutta la Scrittura è chiamata theópneustos perché Dio ispira ciò che ha detto lo Spirito»
(Ambrogio): citati in C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1, 42ss.
25
Cfr. Ippolito di Roma, De Antichristo 2: PG 10, 728-729; Atenagora, Legatio pro
Christ. 9: PG 6, 908; Cohort. ad Graecos (di autore ignoto) 8: PG 6, 256ss.; Clemente
Alessandrino, Strom. 6,18,23-24: PG 9, 401.
26
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 48ss.56ss.
216 La Bibbia è parola di Dio

lazione biblica ai medium estatici degli oracoli pagani come una Pizia
o una Sibilla, e usava il paragone della lira e del plettro per concludere
che lo scrittore sacro agisce inconsciamente e meccanicamente, si evitò
di proposito il termine “estasi”, o addirittura si negò che i profeti aves-
sero parlato “in estasi”: «Non è vero, come si immagina Montano con
le donne insipienti, che i profeti abbiano parlato in estasi, così da non
sapere ciò che dicevano»27. L’enciclica Divino Afflante Spiritu utilizzerà il
termine “strumento”, ma ne formula il limite con due aggettivi: «L’auto-
re sacro, nel­­l’atto di comporre il suo libro, è strumento vivo e razionale
dello Spirito Santo (EB 556).
La categoria “strumento” non entrerà nelle definizioni dei concili.
Rimarrà invece il concetto già biblico di strumentalità, che permette di
considerare l’azione del­­l’uomo come azione vera e reale, tale da lasciare
una sua impronta nel libro sacro, pur rimanendo sempre sotto la dipen-
denza del­­l’azione divina dello Spirito Santo.

2.2. Dio è “autore” delle sacre Scritture

In Occidente, a cominciare da Ambrogio e Agostino, viene usato il


termine “autore” per esprimere il rapporto di Dio con la sacra Scrittura
divinamente ispirata.
A provocare questa formulazione fu la polemica con le varie eresie
di carattere dualistico (gnostici, Marcione, manichei) che tendevano
a contrapporre l’AT al NT, come fossero due diverse economie della
rivelazione, riconducibili a due diversi e opposti principi: diversamente
dal NT, l’AT non sarebbe di Dio ma di satana. I Padri rispondono che
Dio, e Dio soltanto, è l’autore di entrambe le economie di rivelazione e
di salvezza, che sono interdipendenti: direttamente si parla delle “econo-
mie”, implicitamente dei rispettivi “complessi letterari”. Agostino scrive:
«Come l’unico e vero Dio è il creatore dei beni temporali e dei beni
eterni, così egli medesimo è l’autore di entrambi i Testamenti, poiché
il Nuovo è figurato nel Vecchio, e il Vecchio è rivelato nel Nuovo»28. E

27
Girolamo, Prol. in Isaiam: PL 24,19. Cfr. anche l’opera di Milziade (perduta), il
cui titolo: Che il profeta non deve parlare in estasi ci è stato conservato da Eusebio, Hist.
Eccl. V, 17: PG 20, 473.
28
Agostino, Contra adversarios legis et prophetarum 1,17,35: PL 42, 623.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  217

secondo gli Statuta Ecclesiae antiqua (fine V secolo), a chi sta per essere
consacrato vescovo si richiede una professione di fede biblica in questi
termini: «Se ritenga Dio unico e identico autore del­­l’Antico e del Nuovo
Testamento, cioè della legge, dei profeti e degli apostoli» (EB 30).
L’espressione Dio autore del­­l’AT e del NT, autore cioè non solo del­­
l’economia antica e nuova della salvezza ma anche dei libri che la espri-
mono, fa parte della definizione di fede sulla Bibbia: essa ricorre espressa-
mente nei concili Fiorentino, Tridentino, Vaticano I e Vaticano II29. Ma

dal fatto della definizione non deriva il carattere concettuale o simbolico di


una formula – “ascendere”, “cieli” formulano simbolicamente un mistero
di Cristo glorificato –. Quale senso preciso ha la parola “autore” nelle defi-
nizioni dogmatiche? Nella nostra cultura “autore” ha un senso dominante
letterario o artistico, che diventa univoco quando procediamo sul terreno
della letteratura […]. Si può dire lo stesso per la sacra Scrittura? […]. Già,
abbiamo detto che l’impulso ispiratore di Dio non è puramente morale, ma
anche fisico. Nondimeno ci chiediamo: questo impulso fisico pone Dio nella
zona dello scrittore o in quella della causa? Dio è il vero autore letterario del
libro sacro, oppure è solo genericamente causa di esso? Queste distinzioni
ci offrono raffrontate due linee di opinione. Per ora infatti si tratta di una
questione opinabile30.

La storia della formulazione del testo in questione nel Vaticano I


dimostra che il concilio non volle inserire nella definizione il concetto
di autore letterario31; K. Rahner propone una sua ipotesi sul­­l’ispirazione
partendo dal presupposto legittimo che il Vaticano I non ha definito un
concetto univoco di autore, come autore letterario, quando ha definito
«Dio autore del­­l’Antico e del Nuovo Testamento»32.

Applicando allo Spirito Santo (o a Dio) la parola autore nella sua accezione
letteraria, ci muoviamo sul terreno delle analogie, che è incluso entro un
limite. Lo Spirito Santo è un autore speciale, che scrive per mezzo di altri,
che sono veri autori33.

29
Vedi sotto, cap. 10, 4.5.7.
30
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 70s.
31
Vedi sotto, cap. 10, 5.
32
Vedi sotto, cap. 11, 1.
33
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 75.
218 La Bibbia è parola di Dio

2.3. La Scrittura “dettato” divino –


La Scrittura è “la lettera di Dio”

Nella tradizione latina si incontra un’altra formula, non priva di equi-


voci se mal compresa: la Scrittura “dettato” di Dio. Girolamo, parlando
della Lettera ai Romani, scrive: «È così involuta ed oscura che per capirla
occorre l’aiuto dello Spirito Santo che quelle cose ha dettato per mezzo
del­­l’apostolo (qui per apostolum haee ipsa dictavit)»34. E Agostino afferma
che «le membra del Verbo fatto carne hanno scritto ciò che hanno cono-
sciuto per il dettato del capo (quod dictante capite cognoverunt)»; ma in
una frase precedente, e nello stesso contesto, egli impiega una formula
corrispondente: «Ciò che [il capo] ha loro mostrato e detto (quae ille
ostendit et dixit)»35. Ciò significa che l’attività attribuita a Dio, allo Spi-
rito Santo o al Verbo non è da intendersi nel senso di una dettatura ver-
bale. Il dictare latino aveva nel­­l’antichità un senso molto più ampio della
“dettatura”; significava anche “comporre”, “insegnare”, “prescrivere”36,
e per questo il concilio di Trento poté applicarlo alle “tradizioni orali”
degli apostoli, portatrici anch’esse della rivelazione37.
Ma, successivamente al concilio di Trento, si fece strada la concezio-
ne di un dettato puro e totale che convertiva l’agiografo in un semplice
amanuense: nel cattolico Bañez con la sua teoria del­­l’ispirazione verba-
le38, e nei protestanti cosiddetti ortodossi, che chiamano gli agiografi
“amanuensi e notai” dello Spirito Santo39. Si cadeva così in un monofi-
sismo biblico inaccettabile e dalle conseguenze deleterie: il razionalismo
protestante nel XIX secolo, che si pone al­­l’estremo opposto ed elimina
il gioco di Dio e dello Spirito Santo dalla Bibbia, ne è in qualche
modo il frutto, come afferma giustamente K. Barth40. Non a caso, il

34
Girolamo, Epist. 120,10: PL 22, 997.
35
Agostino, De consensu evangelistarum 1,35,54: PL 34, 1070.
36
II verbo dictare, nella lingua latina, ha molti usi, che vanno dalla “dettatura” stret-
tamente intesa al “comando” e al semplice “suggerimento”: cfr. E. Forcellini, Dictare,
in Totius Latinitatis Lexicon II, Schneebergae 1831, 702ss. Analoghi significati si trovano
nel latino degli autori cristiani: cfr. A. Blaise, Dictatio, in Dictionnaire latin-français des
auteurs chrétiens, Strasbourg 1954.
37
Vedi sotto, cap. 10, 4.
38
Vedi sotto, cap. 10, 5.
39
Per una documentazione, cfr. K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, Labor et
Fides, Genève 1955, 65-67; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 60.
40
Cfr. K. Barth, Dogmatique, 68s.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  219

dictare non comparirà più nelle definizioni conciliari, a cominciare dal


Vaticano I.
Anche la categoria patristica della Scrittura = lettera di Dio agli uo-
mini, è più pastorale ed omiletica che tecnica. Agostino scriveva: «Da
quella città rispetto alla quale noi siamo pellegrini, ci sono pervenute
delle lettere: sono le stesse Scritture»; e ancora: «La Scrittura di Dio do-
veva rimanere come un documento autoritativo (chirographum) di Dio,
che tutti coloro che camminano nel mondo potessero leggere e avere
per certe le sue promesse»41. L’immagine della «lettera» vuole soltanto
drammatizzare letterariamente il dato di fede del dialogo con gli uomini,
che Dio intrattiene attraverso la Parola scritta: «Dio parla ogni giorno ai
credenti per mezzo della testimonianza delle sante Scritture»; «Ciascuno
consideri che attraverso la lingua del profeta ascoltiamo Dio che discorre
con noi»42. La Dei Verbum riprende questo dato della tradizione, quando
afferma che «nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con molta amo-
revolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi» (DV 21).

2.4. L’autore e i suoi personaggi

Si tratta di un’altra analogia, dei “nuovi Padri” più che patristica. L.


Alonso Schökel43 l’attinge dal mondo della creazione letteraria, anche
se la introduce con una citazione di Giustino:

Quando ascoltate le parole dei profeti come pronunciate dalla bocca di un


personaggio, non pensate che le pronunzino gli ispirati, ma la parola di Dio
che li spingeva […]. È quello che potete constatare anche nei vostri scrittori:
uno solo è quegli che scrive tutto, ma introduce nel dialogo varie persone44.

Un grande scrittore (di romanzo, commedia o dramma) è capace di


creare personaggi autentici, quelli cioè che dicono le loro parole since-
ramente, dal di dentro: quanto essi dicono nel romanzo o nel dramma,
sono veramente parole loro. Più lo scrittore crea personaggi veri, più

41
Agostino, In Psalmos 90,2,1; 144,17: PL 37, 1159.1880.
42
Girolamo, Epist. 133,13: PL 22, 1160; Giovanni Crisostomo, In Gen. Hom.
2,15,1: PG 53, 119.
43
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 65-69.
44
Giustino, Apologia I, 36: PG 6, 385.
220 La Bibbia è parola di Dio

essi crescono nella mente del­­l’autore e quasi gli si impongono: «Nessu-


no come Pirandello ha descritto il crescere dei personaggi nella mente
del­­l’autore: non è già l’autore che cerca i suoi personaggi, ma i “sei per-
sonaggi” che cercano il loro autore, per poter vivere, agire, parlare». E
tuttavia le parole dei personaggi sono parole dello scrittore:

Il romanziere parla nel suo romanzo, non solo quando scrive autobiografi-
camente, non solo quando racconta fatti, ma anche quando parlano i suoi
personaggi […]. Shakespeare e Cervantes e Dostoevskij possono reclamare
come loro ciascuna delle parole pronunciate dai loro grandi personaggi; per-
sino quelle pronunciate dialetticamente dai personaggi antitetici: Chisciotte
e Sancio, Otello e Yago, Ivan e Smerdiakov45.

Questa «capacità del­­l’artista di convivere con i suoi personaggi, di


vivere nei suoi personaggi, di incarnarsi in essi», questa sua capacità di
«creare personaggi» e di «parlare attraverso le loro parole» costituisce per
Alonso Schökel una analogia con il fatto che Dio crea personaggi au-
tentici che sono gli scrittori sacri, parla attraverso le loro parole, convive
con essi, vive in essi. La Bibbia è questo grandioso dramma letterario
di cui Dio è l’Autore, nel quale la parola di Dio si incarna nelle parole
umane di personaggi liberi e veri, cioè i vari scrittori dei libri, creati da
Dio autore.
Certo si tratta di un’analogia come le precedenti, anch’essa con i suoi
limiti: «il personaggio letterario non è una persona viva e reale…; ed è as-
sai diverso il muovere dentro la fantasia personaggi, che sono di linguag-
gio, dal muovere un uomo responsabile nella sua attività di scrittore»46.
Ma, visto che possiamo esprimerci sempre e soltanto in termini analo-
gici quando parliamo del “mistero” della Scrittura divina, anche questa
analogia va assunta, soprattutto in una catechesi sul­­l’ispirazione bibli-
ca che fosse rivolta a persone che almeno posseggano gusto letterario:
essa avrebbe una presa tutta singolare. Inoltre – aggiungendo un’altra
riflessione personale – si deve ricordare che i personaggi-autori della
Bibbia sono personaggi di vita e di storia, nei quali l’uomo di sempre si
riconosce. Si tratta di parole che senti “tue” dopo averle lette o ascoltate,
parole che vorresti averle pronunciate tu stesso tanto ti sembrano vere, in

45
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 66s.
46
Ibid., 69.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  221

ogni caso parole che puoi ridire e riformulare come fossero tue. I lettori
credenti, senza distinzione, non si sentono estranei al gioco di Dio autore
e dei suoi personaggi nel­­l’opera letteraria della Bibbia.

3. Tommaso d’Aquino e il carisma della profezia47

Se dal­­l’età patristica si compie un salto fino a Tommaso d’Aquino,


non è per disinteresse alla teologia medievale. Sta di fatto che fino al XII
secolo i teologi medievali, in continuità con la tradizione dei Padri, da
una parte riaffermano la divinità delle Scritture in forza del­­l’ispirazione,
e, dal­­l’altra, riconoscono l’apporto umano dello scrittore sacro senza
tuttavia compiere un approfondimento critico sul rapporto che lega Dio
e l’uomo tramite l’ispirazione48. L’impegno dei medievali è soprattutto
rivolto a ordinare e a distinguere, con l’aiuto della dottrina dei «quattro
sensi della Scrittura», le multiformi ricchezze contenute nei libri sacri,
in se stessi e nel loro riferimento a Cristo49.
Soltanto con il sorgere della “scolastica” il concorso di Dio con lo
scrittore sacro nella composizione dei libri ispirati viene sottoposto ad
analisi critica: gli scolastici riprendono l’immagine dello strumento50, ma
la elaborano concettualmente secondo il sistema aristotelico della causa
efficiente, che può essere principale e strumentale.
Riserviamo una particolare attenzione al contributo di Tommaso, an-
che perché teologi contemporanei – come Pierre Benoit – si rifanno alle
sue premesse per una ulteriore riflessione sul problema.

47
Cfr. G.M. Perrella, L’ispirazione biblica secondo San Tommaso, in DivTh 49 (1946)
291-295; P. Benoit, Rivelazione e ispirazione secondo la Bibbia in San Tommaso e nelle
discussioni moderne, in Id., Esegesi e teologia II, Edizioni Paoline, Roma 1964, 143-220.
48
Cfr. G. Benedetti, La Bibbia nella teologia patristica e medievale, 86ss.
49
Vedi sotto, cap. 17, 3.
50
Vedi sopra, § 2.1.
222 La Bibbia è parola di Dio

3.1. Autore principale e autore strumentale

Per Tommaso d’Aquino «l’autore principale della Sacra Scrittura è lo


Spirito Santo, l’uomo invece ne è l’autore strumentale»51. La frase citata
si trova occasionalmente in rapporto con una quaestio sul molteplice
significato (senso) della Scrittura, nella quale Tommaso non affronta
direttamente il carisma del­­l’ispirazione né elabora una sua teologia sul­­
l’ispirazione.
Come egli intenda l’interazione tra autore principale e autore stru-
mentale in rapporto ai libri sacri, lo si può dedurre dalla sua teoria
filosofica della causalità strumentale52, che può riassumersi nei seguenti
termini:
1. La causa principale è quella che agisce in virtù propria; la causa
strumentale opera soltanto in forza della mozione ricevuta dalla causa
principale. 2. Nello strumento si distingue una duplice azione: quella
propria conforme alla natura dello strumento e quella strumentale, che
è razione dello strumento ma elevata dal­­l’agente principale e applicata
alle capacità proprie della causa principale. 3. Il risultato della coopera-
zione tra agente principale e agente strumentale dev’essere interamente
attribuito ad ambedue, anche se in modo diverso, quello proprio a
ciascuno dei due agenti. 4. Le due cause agiscono simultaneamen-
te nella produzione del medesimo effetto, ma è possibile scorgere in
esso le loro rispettive tracce. 5. La capacità del­­l’agente principale ha
un carattere permanente, quella invece del­­l’agente strumentale ha un
carattere transeunte, cessa quindi quando l’agente principale non usa
più dello strumento. Si applichi tutto questo – per fare un esempio –
alla penna in mano allo scrittore: lo strumento della penna è elevato
dal moto della mano del­­l’uomo per eseguire una serie di segni con
significato spirituale.
Non è difficile applicare la teoria della causalità strumentale a Dio e
al­­l’autore umano in rapporto alla Bibbia ispirata, tenendo evidentemente
conto che nel caso del­­l’ispirazione biblica e quindi dello scrittore uma-
no strumento di Dio, Dio agisce in lui e su di lui in modo pienamente

Tommaso d’Aquino, Quodl. 7,14,5.


51

Cfr. Tommaso d’Aquino, Comm. in 2 Tim. 3, lect. 3; Quodl. 7, a. 14, ad 5 e a. 16;


52

Summa Theol. II-II, q. 172, a. 2, ad 3; q. 173, a. 4.


La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  223

conforme alla sua natura di uomo libero e responsabile: lo scrittore non


è uno strumento inerte, bensì vivo, intelligente, libero53.

3.2. Il carisma della profezia e la sua dinamica

L’apporto più specifico di san Tommaso al­­l’ispirazione biblica viene


individuato dai teologi tomisti nella trattazione che san Tommaso riserva
alla profezia54.
Il carisma della “profezia”, che è per Tommaso un carisma formal-
mente conoscitivo, implica due aspetti o momenti: 1. la «acceptio sive
repraesentatio rerum», ovvero la raccolta del materiale che darà contenuto
alla profezia; 2. lo «iudicium de acceptis», ovvero il giudizio definitivo sui
contenuti della profezia. Quando lo Spirito Santo agisce su ambedue gli
aspetti, si ha la profezia propriamente detta (cfr. la rivelazione di Dio a
Mosè nel roveto ardente)55: lo Spirito rivela, per esempio attraverso una
visione, la realtà che il profeta non poteva conoscere da sé, e illumina
il profeta affinché egli giudichi sulla realtà rivelatagli in modo sopran-
naturale. Si dà comunque vera profezia anche quando lo Spirito Santo
interviene soltanto nel giudizio sui dati e sulle conoscenze che il profeta
ha acquisito dal­­l’esperienza o dalla sua umana riflessione (per esempio, il
re Baldassarre vede la mano che scrive sul muro, ma non ne comprende
il significato, che è invece svelato al profeta Daniele)56; in tal caso il cari-
sma gli consente di giudicare su questi dati “umani” in modo infallibile.
Questo secondo modo, afferma Tommaso, è il caso ordinario della
sacra Scrittura, ovvero degli scrittori sacri57, ai quali il carisma divino
accorda appunto la capacità di «giudicare secondo la verità divina» i dati
del­­l’esperienza o della storia umana e le lezioni religiose o morali che
ne derivano.
Alcuni teologi tomisti hanno interpretato rigidamente la distinzio-
ne di Tommaso tra i due casi di “profezia”, sino a farla coincidere con

53
Cfr., schematicamente e in sinossi, l’applicazione tomista della categoria auctor in-
strumentalis al­­l’autore umano della Bibbia: in I libri di Dio, 119s., nota 3.
54
Cfr. Quaest. Disput., q. 12 aa. 1256-1259; Summa c. Gentes III, 154; Summa Theol.
II-II, qq. 171-174.
55
Summa Theol. II-II, q. 173, a. 2-3.
56
Ibid.
57
Summa Theol. II-II, q. 174, a. 2, ad 3.
224 La Bibbia è parola di Dio

la distinzione tra rivelazione (il caso in cui il carisma produce, a un


tempo, contenuti e giudizio), e ispirazione nella quale si ha soltanto
l’illuminazione soprannaturale del giudizio. P. Benoit58 reagisce contro
quella che egli chiama una forzatura del testo di Tommaso, per il quale
– in realtà – “rivelazione” e “ispirazione” sono strettamente coordinate
al­­l’interno del carisma della profezia come due momenti o aspetti del
medesimo, addirittura interscambiabili: «Prophetia est (divina) inspira-
tio», e «Prophetia est divina revelatio»59.

Non che questi due termini siano perfettamente equivalenti. Ognuno di essi
connota un aspetto particolare del carisma, e san Tommaso si servirà del­­
l’uno o del­­l’altro a seconda del particolare rilievo che vorrà dare al­­l’aspetto
corrispondente. Perciò parlando delle rappresentazioni soprannaturali userà
volentieri revelatio poiché esse sono il canale normale della perceptio divi-
norum; quando invece l’accento sarà messo sulla causalità efficiente della
mozione divina, allora sulla sua penna ricorreranno i termini inspirare e
inspiratio, e sottolineeranno il modo transitorio di tale mozione […]. Ogni
rivelazione, cioè ogni percezione di verità divine, anche se acquisite indiret-
tamente per mezzo di conoscenze naturali, esige una elevazione sopranna-
turale dello spirito, cioè una “ispirazione”. E inversamente ogni elevazione
soprannaturale dello spirito, portando sul giudizio una luce divina, termina
a una certa percezione di verità rivelata, a una certa “rivelazione”, più o
meno intensa ed estensiva a seconda che la forza di questa luce comporta o
meno un’illuminazione delle stesse rappresentazioni che formano l’oggetto
della conoscenza60.

Si deve riconoscere che l’intima connessione tra “rivelazione” e “ispi-


razione” messa in luce da Tommaso corrisponde molto bene al det-
tato biblico che non limita l’“ispirazione” ai libri sacri ma la estende
– pur in maniera analogica – a tut­­t’intero il processo della rivelazione
in eventi e parole61. Ugualmente positivo resta il fatto che il problema
del­­l’ispirazione “scritturistica” non sia stato trattato da Tommaso per se
stesso ma nel contesto più ampio della profezia-rivelazione. Semmai va
detto che egli si muove ancora in una problematica di verità nozionale
di tipo greco, con tutti i limiti che questa comporta, per cui «non solo

58
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 7-32.
59
De Verit., q. 12, a. 1; Summa Theol. II-II, q. 171, a. 4, ad 2.
60
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 20-24.
61
Vedi sopra, cap. 9.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  225

la rivelazione è una percezione del­­l’intelligenza sopraelevata dalla grazia,


ma la stessa ispirazione, la quale sopraeleva l’intelligenza, è essa pure con-
cepita essenzialmente come un’illuminazione di ordine speculativo»62.
Inoltre, nella problematica di Tommaso,

l’azione degli autori ispirati era considerata soltanto entro il quadro ge-
nerale della profezia, cioè in funzione della conoscenza carismatica delle
verità divine che caratterizza i depositari della rivelazione. Ma il problema
del­­l’ispirazione scritturistica tocca meno questo aspetto delle cose, che non
invece, la comunicazione della rivelazione da parte di coloro che hanno la
missione di fissarla per iscritto, qualunque sia l’origine della conoscenza
che essi hanno63.

4. I concili Fiorentino e Tridentino

Il concilio Fiorentino (sessione IX - 4 febbraio 1442) non ripete sol-


tanto la formula tradizionale di Dio «autore del­­l’Antico e del Nuovo
Testamento», ma introduce – per la prima volta nei documenti del ma-
gistero – la categoria del­­l’“ispirazione” quale ragione e fondamento del
carattere divino dei libri sacri:

La santa chiesa romana confessa che un solo, identico Dio è autore del­­
l’Antico e del Nuovo Testamento, cioè della legge, dei profeti e del vangelo,
perché i santi del­­l’uno e del­­l’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispira-
zione del medesimo Spirito Santo (eodem Spiritu Sancto inspirante). Essa
accetta e venera i loro libri, che sono indicati da questi titoli… (EB 47; CE
500; FC 57).

Il concilio Tridentino non si trovò di fronte ad errori riguardanti l’ori-


gine divina dei libri sacri e la loro autorità, che anzi erano stati i capisaldi
dei Riformatori i quali avevano adottato la tesi del­­l’ispirazione letterale
o verbale della sacra Scrittura64. Basti citare Lutero: «Ut omne verbum

62
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 24.
63
P. Grelot, La Bibbia e la teologia, 100.
64
Cfr. un «excursus storico» sul­­l’ispirazione verbale nei Riformatori del XVI secolo, in
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 61-69.
226 La Bibbia è parola di Dio

vocale, per quemcumque dicatur, velut domino ipso dicente suscipiamus,


credamus et humiliter subiiciamus nostrum sensum. Sic enim iustificabimur
et non aliter»65; e Calvino:

È questo il principio che distingue la nostra religione da tutte le altre: cioè


noi sappiamo che Dio ha parlato a noi, e siamo certamente assicurati che
i Profeti non hanno parlato di loro propria iniziativa ma come organi e
strumenti dello Spirito Santo, che essi hanno annunciato soltanto ciò che
avevano ricevuto dal­­l’alto. Chiunque pertanto vorrà profittare delle sacre
Scritture tenga ben saldo in se stesso primariamente questo fatto: che la legge
e i profeti non sono affatto una dottrina affidata al­­l’appetito o volontà degli
uomini, ma una dottrina dettata dallo Spirito Santo […].
Le Scritture […] non possono avere piena certezza presso i fedeli a nessun
altro titolo che questo: quando i fedeli tengono come dato certo e definitivo
che le Scritture sono venute dal cielo e che in esse i cristiani intendono Dio
parlare con la sua propria bocca66.

Pertanto il concilio Tridentino si limitò a riaffermare, sulla traccia


del Fiorentino, il fatto del­­l’ispirazione biblica; tuttavia, contro l’assun-
to «sola scriptura» dei Riformatori, il concilio era interessato a defini-
re l’azione dello Spirito Santo, oltre che nei libri sacri, anche «nelle
tradizioni non scritte di Cristo e degli apostoli», alle quali applicò
la formula dictare che soprattutto qui non poteva avere il valore di
una «dettatura verbale» (le tradizioni orali, come tali, non hanno una
formulazione verbale definitiva), ma era sinonimo in ultima istanza
di “inspirare”67:

Il sacrosanto, ecumenico e generale concilio Tridentino, legittimamente


riunito nello Spirito Santo […] ha sempre presente che, tolti di mezzo gli
errori, si conservi nella chiesa la stessa purezza del vangelo, quel vangelo,
che, promesso un tempo attraverso i profeti nelle scritture sante, il Signore
nostro Gesù Cristo, figlio di Dio, prima promulgò con la sua bocca, poi
comandò che venisse predicato ad ogni creatura per mezzo dei suoi apostoli,
quale fonte di ogni verità salvifica e della disciplina dei costumi (tamquam
fontem omnis et salutaris veritatis et morum disciplinae).

65
Cit. in ibid., 61.
66
Cit. in ibid., 62.
67
Vedi sopra, § 2.3.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  227

E poiché il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri sacri
e nelle tradizioni non scritte – che, raccolte dagli apostoli per bocca dello
stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo
(Spiritu Sancto dictante), tramandate quasi di mano in mano, sono giunte
fino a noi – seguendo l’esempio dei padri ortodossi, con uguale pietà e pari
riverenza accoglie e venera tutti i libri, sia del­­l’antico che del nuovo Testa-
mento – Dio infatti è autore del­­l’uno e del­­l’altro – ed anche le tradizioni
stesse, che riguardano la fede e i costumi, poiché le ritiene dettate dallo
stesso Cristo oralmente dallo Spirito Santo (vel a Spiritu Sancto dictatas), e
conservate con successione continua nella chiesa cattolica. E perché nessuno
possa dubitare quali siano i libri accettati dallo stesso sinodo come sacri, esso
ha creduto opportuno aggiungere a questo decreto l’elenco… (Sessione IV,
8 aprile 1546; EB 57; CE 524ss.; FC 59).

La categoria del dictare, che il Tridentino usava soltanto per le tradi-


zioni orali, viene ripresa e applicata ai libri sacri dalla Providentissimus
Deus di Leone XIII (cfr. EB 89 e 124), nonché dalla Spiritus Paracli-
tus di Benedetto XV con riferimento alla dottrina di Girolamo (cfr.
EB 448). Anche qui, la formula non va intesa come un “dettare” alla
nostra maniera, non va forzata sino a farne uno strumento per spiega-
re la natura del­­l’ispirazione biblica. Essa mantiene lo scopo che aveva
nei Padri, quello di accentuare la primarietà del­­l’azione di Dio e dello
Spirito Santo nel­­l’origine del libro sacro. Tuttavia, proprio perché può
indurre facilmente ad equivoci, la formula non viene più ripresa nei
concili Vaticano I e Vaticano II e scompare anche nella Divino Afflante
Spiritu di Pio XII.

5. Dal concilio di Trento al concilio Vaticano I

Furono i teologi scolastici post-tridentini a riprendere in esame il pro-


blema teologico della natura del­­l’ispirazione biblica. La loro riflessione
prese due diverse direzioni.
Alcuni si schierarono per un’ispirazione verbale della Bibbia, il cui più
illustre rappresentante fu il domenicano Domenico Bañez († 1604), il
quale affermava: «Spiritus Sanctus non solum res in Scriptura contentas in-
spiravit, sed etiam singula verba quibus scriberentur dictavit atque suggessit
[Lo Spirito Santo non ispirò soltanto i contenuti della Scrittura ma dettò
228 La Bibbia è parola di Dio

e suggerì anche le singole parole mediante le quali quei contenuti veni-


vano scritti]»68. Bañez voleva così salvare la divinità della Scrittura, ma
finiva per negare una reale attività umana nello scrittore sacro e rendeva
difficile – tra l’altro – spiegare le diversità di linguaggio e di mentalità
che di fatto esistono tra gli scrittori della Bibbia.
Altri sostennero, pur con sfumature diverse, una specie di ispirazione
reale, un’ispirazione cioè limitata ai contenuti della Scrittura e quindi
non estesa al­­l’espressione verbale dei medesimi. Così il gesuita L. Lessio
(† 1623) si trovò censurate dalla sua Università di Lovanio tre tesi sul­­
l’ispirazione biblica69, dalle quali egli sembrava far coincidere l’ispira-
zione con una semplice assistenza dello Spirito Santo avente lo scopo di
assicurare l’inerranza degli autori e degli scritti sacri.
Spingendosi più avanti nella stessa direzione, J. Jahn († 1816) identi-
ficò l’ispirazione con l’assenza di errori negli scrittori sacri70, e il benedet-
tino D.B. Haneberg († 1886) pensò che una delle possibili ispirazioni,
accanto a quella “antecedente” e “concomitante”, fosse l’“ispirazione
conseguente”, cioè la successiva approvazione di un libro, come libro
sacro, da parte della chiesa71. Va anche ricordato come a partire da H.S.
Reimarus († 1768) si era iniziato a diffondersi, nel mondo della rifor-

68
D. Bañez, nel suo commento In Primam Partem Summae Theologiae, q. 1, a. 8.
69
Le tre tesi di Lessio erano così formulate: «1) Perché un testo sia Scrittura sacra,
non è necessario che le singole parole siano ispirate dallo Spirito Santo; 2) non è neppure
necessario che le singole verità e proposizioni siano ispirate immediatamente dallo Spirito
Santo allo scrittore; 3) se di un libro (come forse è il caso del Secondo libro dei Maccabei)
scritto per opera del­­l’uomo senza l’assistenza dello Spirito Santo, lo Spirito Santo attesta
che ivi non c’è nulla di falso, esso diviene Scrittura Sacra». Ai suoi accusatori Lessio rispose
nel maggio 1587, chiarendo di «aver soltanto voluto dire che non fu necessaria una nuova
e positiva ispirazione perché gli agiografi scrivessero ogni proposizione ed ogni parola
[…], ma che bastò un particolare impulso dello Spirito Santo perché scrivessero ciò che
avevano prima udito e veduto o altrimenti conosciuto e, simultaneamente, l’assistenza,
ed eventualmente la direzione dello Spirito Santo su tutte le proposizioni e le parole che
gli agiografi scrivevano». Questa precisazione fece sì che Roma dichiarasse le proposizioni
di Lessio «sanae doctrinae articulos». Da notare che la terza proposizione di Lessio non
cade di per sé sotto la condanna del Vaticano I: egli, infatti, parla di approvazione dello
Spirito Santo, né riduce l’ispirazione alla sola approvazione conseguente da parte della
chiesa. Sulle tesi di Lessio, cfr. C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1,
61ss.; L. Pacomio, La Bibbia nella teologia dei secc. XIII-XIV fino alla vigilia del Concilio
Vaticano II, 163; Ch. Pesch, De inspiratione Sacrae Scripturae, 279-281.
70
J.M. Jahn, Einleitung in die göttlichen Schriften des Alten Bundes 1/2, Vienna 18922,
91ss.104-111.
71
D. Haneberg, Versuch einer Geschichte der biblischen Offenbarung, Ratisbona 1850,
714.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  229

ma, un approccio di carattere razionalistico che portava a considerare la


Bibbia, anche nel contesto del­­l’illuminismo kantiano, non più che un
libro eticamente esemplare.
In data 24 aprile 1870 venne promulgata dal concilio Vaticano I la
«Costituzione dogmatica sulla fede cattolica». Nel cap. 2 della costi-
tuzione, dedicato a «La rivelazione», si afferma a proposito della sacra
Scrittura72:

La chiesa non ritiene i libri del­­l’Antico e del Nuovo Testamento sacri e ca-
nonici perché, composti per iniziativa umana, siano stati poi approvati dalla
sua autorità, e neppure solo perché contengono la rivelazione senza errore,
ma perché, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto in-
spirante conscripti), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati
alla chiesa (EB 77; CE 762; FC 62).

Innanzitutto, il Vaticano I respinge due opinioni minimaliste sul­­


l’ispirazione, in pratica quelle summenzionate di J. Jahn e di D.B. Ha-
neberg. Mediante la sua approvazione

la chiesa non può trasformare in parola di Dio ciò che era parola pu-
ramente umana. Nemmeno lo Spirito può attendere che il risultato sia
completo, per impadronirsene: non lo convertirà in tal modo in parola
sua. Allo stesso modo Gesù Cristo non è Dio per un’apoteosi tardiva nel
seno della chiesa, che tributa onori divini al suo eroe; e nemmeno per una
irruzione dello Spirito che si appropria di un uomo perfetto e lo deifica.
Non c’è nessun momento nella vita del­­l’uomo Gesù, in cui quest’uomo
non sia vero Dio73.

Sarebbe altresì errato affermare che nella Bibbia è contenuta la parola


di Dio, pur senza errore, come se un certo numero di frasi bibliche fos-
sero puramente parola umana, e il resto parola di Dio: «Se l’agiografo
ha scritto sotto l’impulso dello Spirito, le sue parole sono parole di Dio,
e ogni parola di Dio rivela Dio. Tutta la Bibbia è rivelazione per noi,

72
Cfr. N.Y. Weyns, De notione inspirationis biblicae iuxta Concilium Vaticanum, in Ang
30 (1953) 315-336; J. Salguero, El Concilio Vaticano I y la doctrina sobre la inspiración de
la S. Escritura, in Ang 47 (1970) 308-347; J. Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture,
66-69 (con note); C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1, 67-70.
73
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 45.
230 La Bibbia è parola di Dio

perché è parola di Dio; ma non tutta la Bibbia è stata composta con


rivelazioni previamente ricevute dagli autori»74.
Dopo queste due precisazioni negative, che costituiscono due limiti
che la teologia cattolica non può valicare, il Vaticano I ripete in positivo
la verità del­­l’ispirazione biblica, privilegiando però i termini del concilio
Fiorentino: usa infatti la formula «Spiritu Sancto inspirante conscripti»
e ricupera la categoria tradizionale di “Dio autore” dei libri sacri, senza
però assumerla necessariamente nel significato tecnico e preciso di “au-
tore letterario”; aggiunge che i libri sacri hanno una finalità ecclesiale
e come tali sono stati consegnati alla chiesa75. Lo schema proposto nel
dicembre 1869 determinava il senso di “autore” con le parole «hanno
Dio per autore e contengono veramente e propriamente la parola di Dio
scritta»; e nella spiegazione si affermava che «Dio è l’autore dei libri, o
autore della Scrittura, cosicché la stessa notazione o scrittura delle cose
si deve attribuire principalmente al­­l’operazione divina che agisce nel­­
l’uomo e per mezzo del­­l’uomo». Un nuovo schema corregge «contengo-
no» in «sono… parola di Dio scritta». Finalmente, chiusa la discussione,
il concilio omette l’ultima frase (cioè afferma soltanto: «Hanno Dio per
autore»), lasciando libera la discussione sul modo e sul­­l’estensione del
carisma76.

Concludendo – Il Vaticano I riafferma l’origine divina della Scrittura


in virtù del­­l’ispirazione, ma lascia aperto il campo per un’ulteriore ri-
flessione teologica sulla natura del carisma.

6. Verso il concilio Vaticano II

Il card. G.B. Franzelin, gesuita, che aveva partecipato attivamente ai


lavori del concilio Vaticano I, pubblicò proprio nel 1870 il suo Tractatus
de divina Traditione et Inspiratione. Egli parte dal concetto di “autore
letterario” e lo applica a Dio autore delle sacre Scritture.

74
Ibid., 46.
75
Vedi sopra, § 2.2.
76
Cit. in L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 72.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  231

In ogni libro, egli dice, ci sono due elementi: uno formale, cioè i
pensieri e i concetti; uno materiale, cioè le parole che li esprimono.
L’autore di un libro è tale anche se si limita ad offrire i pensieri e i con-
tenuti del libro e lascia l’impresa della loro formulazione scritta a un suo
collaboratore. Ebbene, Dio resta vero autore dei libri della Bibbia anche
se soltanto l’elemento formale della Scrittura («res, sententiae, argumen-
tum») è propriamente di Dio; l’elemento invece materiale (l’espressione
letteraria dei contenuti) è dello scrittore umano, il quale però in virtù
del­­l’ispirazione esprime in modo infallibilmente esatto quanto Dio vuole
comunicare attraverso i libri sacri.
Benché il Vaticano I non avesse accolto il concetto franzeliano di
“autore”, la teoria di Franzelin fece scuola per vari decenni, anche se
non mancò di trovare forti obiezioni. Merita di essere ricordato J.M.
Lagrange O.P. († 1938) il quale, in tre articoli apparsi in Revue Bibli-
que77, fece notare quello che oggi appare ancor più evidente, alla luce
della filosofia del linguaggio: che cioè, dal punto di vista della psicologia
di un autore letterario, non è concepibile una scissione tra pensieri e
linguaggio, visto che lo scrittore non concepisce pensieri se non in un
determinato linguaggio78.

6.1. D
 alla Providentissimus Deus
alla Divino Afflante Spiritu

I tempi successivi al Vaticano I furono segnati dalla cosiddetta


“questione biblica”, rivolta in modo particolare al problema della

77
J.M. Lagrange, Une pensée de Saint Thomas sur l’inspiration scripturaire, in RB 4
(1895) 563-571; Inspiration des livres saints, in RB 5 (1896) 198-220; L’inspiration et les
exigences de la critique, in RB 5 (1896) 495-518.
78
A proposito della “teoria” di Franzelin, L. Alonso Schökel (La Parola ispirata, 61)
scrive: «Attualmente tale impostazione è superata. Non solo la soluzione “Dio le idee,
l’uomo le parole”, ma la stessa impostazione “o le idee o le parole”, perché essa suppone
una concezione del linguaggio e dello stile che nella realtà non si avvera; è una distinzione
speculativa, di laboratorio, che pecca di intellettualismo, come se contassero soltanto le
idee. Inoltre il dilemma implicito nel­­l’argomentazione “O Dio detta le parole, o le parole
sono soltanto del­­l’agiografo” è scorretto; c’è un terzo corno del problema, che è l’impulso
vitale senza dettato in senso stretto. Attualmente la maggioranza dei teologi considerano
ispirato il concreto letterario, senza distinguere tra fondo e forma: il concreto letterario
è un sistema di parole significative. Ma ispirare non è uguale a dettare, nella comune
accezione del vocabolo».
232 La Bibbia è parola di Dio

verità delle Scritture, che polarizzò il dibattito teologico al­­l’interno


della chiesa cattolica, a scapito di quello sul­­l’ispirazione. L’enciclica
Providentissimus Deus di Leone XIII del 1893 è il primo documen-
to del Magistero ordinario che tenta una descrizione della natura
del­­l’ispirazione, attraverso un’analisi della psicologia dello scrittore
sacro nella sua triplice dimensione: intellettiva, volitiva e operati-
va. Nel contesto del problema del­­l’inerranza della sacra Scrittura e
dopo aver citato il testo del Vaticano I, l’enciclica descrive la natura
del­­l’ispirazione biblica «in termini che seguono molto da vicino la
presentazione di Franzelin»79:

Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini
come strumenti per scrivere, come se qualche errore abbia potuto sfuggire
non certamente al­­l’autore principale, ma agli scrittori ispirati.
Infatti egli stesso così li eccitò e li mosse a scrivere con la sua virtù sopran-
naturale, così li assisté mentre scrivevano di modo che tutte quelle cose
e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e
avessero la volontà di scriverle fedelmente e le esprimessero in maniera atta
con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l’autore di tutta
la sacra Scrittura (EB 125; FC 70).

L’enciclica Spiritus Paraclitus di Benedetto XV, emanata nel 1920 in


occasione del XV centenario della morte di san Girolamo, in conformità
con l’antico dottore sottolinea che l’influsso ispirativo, mentre impedisce
allo scrittore sacro di insegnare l’errore, non ostacola per nulla l’espres-
sione propria del suo genio e della sua cultura. E, quanto alla natura
del­­l’ispirazione, la descrive dal punto di vista della dinamica psicologica
dello scrittore, nella linea della Providentissimus Deus:

Dio conferita la grazia dà in anticipo un lume alla mente dello scrittore per
proporre agli uomini la verità come «da parte della persona di Dio» (san
Girolamo); e inoltre muove la sua volontà e la spinge a scrivere; e lo assiste
infine in modo speciale e continuo, finché abbia composto il libro (EB 448;
FC 76). (Segue poi la descrizione del­­l’ispirazione della Providentissimus Deus,
citata alla lettera).

79
J. Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture, 76.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  233

Infine, l’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII del 1943 richiama
esplicitamente l’idea di strumentalità cara a Tommaso d’Aquino e sot-
tolinea che le caratteristiche personali del­­l’autore umano non vengono
eliminate né ridotte dal­­l’attività dello Spirito. L’enciclica di fatto non
descrive la natura del­­l’ispirazione nei termini della Providentissimus Deus
o della Spiritus Paraclitus; essa afferma soltanto che su tale questione i
teologi moderni hanno potuto esplorare e proporre più adeguatamente
e perfettamente che non nei secoli passati la loro riflessione:

Essi, partendo dal fatto che l’agiografo nella composizione del libro sacro è
l’organon ovvero lo strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e do-
tato di intelligenza, fanno giustamente osservare che esso strumento, spinto
dalla mozione divina, usa talmente delle sue facoltà e delle sue forze che tutti
possono facilmente ricavare dal libro, che è sua opera, l’indole propria di
ciascuno, i suoi lineamenti, le sue singolari caratteristiche (EB 556).

6.2. Il modello “leonino”

Il modello “leonino”, come lo ha definito L. Alonso Schökel, ovvero la


descrizione della natura del­­l’ispirazione suggerita dalla Providentissimus
Deus di Leone XIII, ha dominato nella prassi di molti manuali cattolici80.
Vi sono descritte le varie fasi del­­l’attività umana che uno scrittore percor-
re in un lavoro letterario: la concezione mentale del­­l’opera, la decisione
di scrivere, l’esecuzione dello scritto; e si afferma che in tutte queste fasi,
sin dal­­l’inizio del­­l’impresa, gli agiografi furono mossi dal carisma dello
Spirito Santo e dal medesimo assistiti affinché approdassero al­­l’opera
letteraria, della quale Dio fosse l’autore.
Che dire del modello “leonino”?

Anzitutto, affermiamo la sua fondamentale validità. Uno schema psicologico


conserva la sua validità finché si accetta come schema, perde la sua validità
se si prende come forma adeguata ed esclusiva. Lasciando da parte la scrit-
tura automatica e altri casi anormali e patologici, ogni processo letterario

80
Cfr., per esempio: E. Florit, Ispirazione biblica; C.M. Martini – P. Bonatti, Il
messaggio della salvezza 1; H. Höpfl – L. Leloir, Introductio generalis in Sacram Scriptu-
ram; G.M. Perrella – L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, 1: Introduzione generale,
Marietti, Torino 1960; F. Spadafora – A. Romeo – D. Frangipane, Il libro Sacro, 1:
Introduzione generale, Messaggero, Padova 1958.
234 La Bibbia è parola di Dio

può scomporsi schematicamente in tre tempi: un tempo intellettuale di


conoscenza – di qualunque ordine sia –, un tempo di volontà libera verso
l’obbiettivazione letteraria, un tempo di esecuzione o realizzazione. Che
nella realtà i tempi possano accavallarsi, che ognuno di essi possa sdoppiarsi
e adottare forme diverse, non toglie allo schema il suo valore fondamentale81.

Proprio a motivo del fatto che nessuno schema può essere imposto
«come forma adeguata ed esclusiva» in assoluto, altri teologi, come lo
stesso L. Alonso Schökel, P. Benoit e K. Rahner82, hanno intrapreso altre
strade di riflessione.

7. Il concilio Vaticano II

Appare senz’altro utile un confronto sinottico fra il testo dello Schema


preparatorio, base della discussione conciliare, e il testo definitivo della
Dei Verbum, riguardanti l’ispirazione dei libri sacri.

Schema preparatorio «Dei Verbum»


«De fontibus Revelationis»

Definizione e natura propria Il fatto del­­l’Ispirazione


del­­l’Ispirazione

«Per comporre poi questa divina Scrit- «Le verità divinamente rivelate, che
tura, Dio stesso eccitò e mosse alcuni nei libri della Sacra Scrittura sono conte-
scrittori sacri o agiografi in modo tale nute ed espresse, furono scritte per ispira-
che essi concepissero rettamente con la zione dello Spirito Santo. La Santa madre
mente e consegnassero fedelmente allo chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e
scritto tutte quelle cose e quelle sole che canonici tutti interi i libri sia del Vecchio
egli [Dio] come Autore primario delle che del Nuovo Testamento, con tutte le
Scritture voleva (cfr. Providentissimus loro parti, perché scritti per ispirazione
Deus). dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm
La divina Ispirazione infatti, confor- 3,16; 2 Pt 1,19-21; 3,15s.), hanno Dio
me alla costante dottrina della chiesa, è per autore e come tali sono stati conse-

81
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 160.
82
Vedi sotto, cap. 11.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  235

un carisma speciale in ordine allo scri- gnati alla chiesa. Per la composizione dei
vere mediante il quale Dio, agendo nel­­ libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini
l’agiografo e attraverso di lui, parla agli nel possesso delle loro facoltà e capaci-
uomini mediante lo scritto, e perciò egli tà, affinché, agendo egli in essi e per loro
[Dio] viene chiamato ed è in senso vero mezzo, scrivessero come veri autori tutte e
l’Autore principale di tut­­t’intero il testo soltanto quelle cose che egli voleva fossero
sacro. L’agiografo invece, nel comporre scritte» (DV 11).
il libro, è l’organon ovvero lo strumento
dello Spirito Santo, ma strumento vivo
e dotato di ragione, la cui propria indole
pertanto insieme alle sue singolari ca-
ratteristiche possono essere raccolte dal
libro sacro (cfr. Divino Afflante Spiritu).
Perciò la chiesa a buon diritto disapprova
ogni tentativo di snaturare (extenuandae)
la natura del­­l’ispirazione, soprattutto il
tentativo col quale questo modo con-
giunto di scrivere di Dio e del­­l’uomo
viene ridotto ad un impulso meramente
naturale o a semplice moto del­­l’animo»
(De fontibus Revelationis 8).

Un confronto tra le due formulazioni mette in luce alcune diversità


di notevole importanza.

7.1. Lo schema «De fontibus Revelationis»

Esso fa propria l’analisi della Providentissimus Deus sulla psicologia


del­­l’autore umano nella sua triplice dinamica (intellettiva, volitiva ed
esecutiva) e da questa conclude alla categoria del «veluti scriptor» ( =
autore letterario) applicata a Dio:

Parimenti, essendo Dio stesso, per ispirazione del suo stesso divino Spiri-
to, autore di tutta la sacra Scrittura, e pertanto come lo scrittore («veluti
scriptor») di tutte le cose ivi redatte per mano del­­l’agiografo, ne consegue
anche che tutte e singole le parti, anche minime, dei libri sacri sono ispirate
(ibid., 11).

Esso cita la Divino Afflante Spiritu ed esplicita l’idea di strumentalità


nelle categorie tomiste di «autore principale di tut­­t’intero il testo sacro»,
236 La Bibbia è parola di Dio

che è Dio, e di «organo ovvero strumento» che è lo scrittore sacro. L’im-


pianto dello schema è, infine, di stampo scopertamente apologetico.

7.2. Il testo definitivo della Dei Verbum 83

La Dei Verbum prescinde dalla rigida analisi della psicologia del­­


l’autore umano nella sua triplice attività, non perché la ritenga falsa, ma
allo scopo di non legare indissolubilmente il dato di fede a una formu-
lazione teologica, che può anche cambiare.
La categoria di “autore” applicata a Dio permane, ma in quella acce-
zione generale che essa aveva nei concili Fiorentino, Tridentino e Vati-
cano I. Essa esprime, cioè, l’attività trascendente di Dio in ordine alla
Scrittura, non categorizzabile in termini univoci e immutabili, perfet-
tamente – se pur misteriosamente – coordinata al­­l’attività umana dello
scrittore sacro, che l’ispirazione suscita, dirige e avvolge interamente.
La Dei Verbum conserva l’idea di strumentalità applicata agli scrittori
sacri («agendo egli in essi e per loro mezzo») nel­­l’accezione fondamentale
che essa aveva già nel dato biblico84, nel senso che Dio, per comunicare
il suo messaggio di salvezza agli uomini, si serve dei suoi intermediari
che sono i profeti e gli scrittori sacri. Ma il Vaticano II non chiama
gli agiografi “strumenti”, bensì “veri autori”, quasi a voler dire che la
qualifica di “autore letterario” spetta – di per sé – soltanto allo scrittore
umano. In questo contesto viene ricuperato un dato della Divino Afflan-
te Spiritu («Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà
e capacità»), citato anche nello schema preparatorio, per significare che
l’ispirazione non elimina né sostituisce la piena, libera, consapevole atti-
vità del­­l’autore umano, quindi non si risolve in una “dettatura” da parte
di Dio e neppure è equiparabile ad un’ispirazione di tipo mantico.
Scompare dalla Dei Verbum la preoccupazione apologetica che portava
a considerare l’ispirazione come un carisma atto a confermare l’inerranza
delle Scritture. Si osservi che alla fine del paragrafo sopra riportato la

83
Per la storia delle successive redazioni che hanno portato dallo schema «De fontibus»
al testo definitivo sul­­l’ispirazione, cfr. A. Grillmeier, in Aa.Vv., Commento alla Cost.
Dogm. sulla Divina Rivelazione, ElleDiCi, Leumann 1967, 124-129.137-139. Cfr. an-
che F. Gil Hellin, Dei Verbum, 82; C. Aparicio Valls, L’ispirazione alla luce dei testi
del Vaticano II, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 321-335.
84
Vedi sopra, cap. 9.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia  237

Dei Verbum ribadisce, secondo un’idea già presente nella Providentis-


simus Deus (EB 125), che l’ispirazione riguarda «ea omnia eaque sola»,
tutte e soltanto quelle cose che Dio voleva fossero scritte («quae ipse
vellet»); non si tratta di un inciso polemico, ma del­­l’affermazione che
l’ispirazione non può ridursi soltanto a una parte delle Scritture, o che
le Scritture non siano nel loro insieme il risultato di una azione di Dio85.
L’ispirazione va pensata come una realtà organica che abbraccia la totalità
delle Scritture e l’intero rapporto Antico / Nuovo Testamento; tutto ciò
ha conseguenze importanti per l’ermeneutica delle Scritture, alla luce
soprattutto dei principi espressi in DV 12 (cfr. pp. 463-479).

Concludendo – La DV riepiloga i dati della fede cattolica sul­­l’ispirazione


biblica che sono gli stessi della Bibbia, ma arricchiti della riflessione della
sacra tradizione della chiesa nella sua voce magisteriale ufficiale. Tra
l’altro, la DV fa proprio il collegamento che già il concilio Vaticano I
aveva operato tra la categoria di “Dio autore” e quella del­­l’“ispirazione”,
indicando nel­­l’azione ispiratrice dello Spirito Santo il motivo per cui Dio
può dirsi – ed è realmente – «autore della sacra Scrittura».
Ma il concilio Vaticano II ha preferito astrarre da formulazioni più
precise, non volendo ufficializzarle e codificarle in una Costituzione
dogmatica. Con ciò ha lasciato ampio e libero spazio alle successive
riflessioni e investigazioni teologiche86, ma al tempo stesso fissa alcuni
limiti entro i quali dovrà muoversi sempre ogni ulteriore riflessione
teologica.
Infine, per quanto concerne le varie immagini che la Bibbia, la lette-
ratura dei Padri o la teologia ci hanno offerto per formulare e chiarire il
mistero del­­l’ispirazione biblica, esse vanno intese

come strumenti di conoscenza, come illustrazioni positive e valide, benché


limitate del fatto trascendente […], come una teologia “simbolica”, che
precede storicamente la teologia concettuale, e l’accompagna in tutte le sue
feconde tappe […]. La teologia non può prescindere da simboli e immagini
[…], e (il linguaggio umano) deve prestarci le sue immagini per salire, per
mezzo del­­l’analogia, al mistero del linguaggio divino in linguaggio umano87.

85
M.A. Tábet, Introduzione generale, 70-73.
86
Vedi sotto, cap. 11.
87
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 47-49.
238 La Bibbia è parola di Dio

A parte la maggiore o minore inadeguatezza di ciascuna delle analogie


incontrate, «esse ci offrono qualche conoscenza positiva sul­­l’ispirazione.
Tutte quante, con la conoscenza dei loro limiti, affermano il mistero
del­­l’ispirazione88.

88
Ibid., 76.
11.
Sviluppi successivi al Vaticano II
e problemi ancora aperti

Bibliografia: W.J. Abraham, The Divine Inspiration of Holy Scripture, University Press,
Oxford 1981; J. Barr, The Bible in the modem World, SCM, London 19772; J. Beumer, La
théologie contemporaine dépuis le milieu du XIXe siecle, in Id., L’inspiration de la Sainte Écri-
ture, du Cerf, Paris 1972, 70-79.123-125; R. Cavedo, Libro Sacro, in NDT, 753-778 ; T.
Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scritture (LoB
3.3), Queriniana, Brescia 1982; A. Dalles, Scripture: Recent Protestant and Catholic Views,
in Theology Today 37 (1980-1981) 7-26; H. Haag, Problematica attuale del­­l’ispirazione, in
MS 1, 474-482; L. Pacomio, Verso e oltre il Vaticano II, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975,
196-224. Cfr. anche la bibliografia già ricordata al­­l’inizio del cap. 10 (p. 205).
Sul­­l’autorità della Bibbia al­­l’interno del dialogo ecumenico vedi il documento su:
L’autorità della Bibbia della Commissione «Fede e Costituzione» del Consiglio Ecumenico
delle Chiese (CEC), approvato nella riunione di Lovanio nel 1971, la prima cui presero
parte come membri a pieno titolo teologi della chiesa cattolica: in La Bibbia. La sua
autorità e interpretazione nel movimento ecumenico, a cura di E. Flesseman-van Leer, ed.
it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, ElleDiCi - Claudiana, Leumann - Torino 1982, 61-
79; A. Maffeis, Il rapporto tra Scrittura, Tradizione e Magistero nei documenti del dialogo
cattolico luterano, in ATI, Teologia dalla Scrittura. Attestazioni e interpretazioni, Glossa,
Milano 2011, 325-350.

Già prima del Vaticano II la riflessione dei biblisti e dei teologi si era
spinta oltre i limiti di una trattatistica, più o meno ferma al­­l’analisi della
psicologia del­­l’autore ispirato. Ma la Dei Verbum, oltre a far tesoro di
quella riflessione1, ha indubbiamente favorito l’ulteriore approfondi-
mento di una problematica tuttora aperta.

1
Vedi sopra, cap. 10, 7.
240 La Bibbia è parola di Dio

Al criterio di una rassegna, per altro utilissima, dei nomi più presti-
giosi e delle rispettive posizioni2, preferiamo individuare nei contributi
dei biblisti e dei teologi contemporanei alcune piste di riflessione che
coincidono con i problemi ancora oggi in discussione circa la storia e
la natura del­­l’ispirazione biblica, confrontate con i dati delle scienze
bibliche odierne.

1. D
 io “autore” della Bibbia
e uomini “scrittori” dei libri sacri (la tesi di K. Rahner)

L’affermazione che Dio e l’uomo sono entrambi autori dei libri sacri
fa parte del linguaggio del magistero e del linguaggio teologico. Ma è
certo che l’attività di Dio come autore della sacra Scrittura non può
essere messa sullo stesso piano di quella esercitata dal­­l’uomo-scrittore,
dal momento che la medesima opera, considerata sotto il medesimo
aspetto, non può avere che un’unica causa. Se assumiamo il concetto di
“autore” e lo applichiamo ad ambedue i termini della questione (Dio e
l’agiografo) nel­­l’accezione di “autore letterario” e sotto lo stesso punto
di vista, non si esce dal dilemma: o Dio è l’autore della Bibbia, e allora
l’agiografo è un puro segretario; oppure l’agiografo è il vero autore della
Bibbia, e allora Dio è relegato in un ruolo secondario, per esempio il
ruolo di colui che approva con una specie di nihil obstat.
Karl Rahner3 parte da questa e da altre obiezioni per una riflessione
teologica dalla quale risulti

che Dio sia autore della Scrittura sotto un punto di vista che: a) lasci im-
pregiudicato un essere veramente Dio (anche se in modo analogo) autore
letterario, e nello stesso tempo non sia lo stesso punto di vista sotto cui l’uo-
mo è autore letterario, e precisamente, b) in modo tale che questo punto di

2
Cfr. un primo elenco in L. Pacomio, Verso e oltre il Vaticano II.
3
K. Rahner, Sul­­l’ispirazione della Sacra Scrittura («Quaestiones Disputatae» 1), Mor-
celliana, Brescia 1967. La tesi elaborata in questa monografia viene da lui stesso riassunta
in L’ispirazione della Scrittura, in K. Rahner et alii, Discussione sulla Bibbia (GdT 1),
Queriniana, Brescia 1966, 19-31; cfr. anche K. Rahner, Corso fondamentale della fede,
Edizioni Paoline, Alba 1977, 470-477.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  241

vista esiga (e non soltanto permetta –- e questo per di più solo con arbitrari
sotterfugi) che vi sia un autore letterario umano4.

La tesi di K. Rahner è così articolata (in sintesi):


1 – Dio vuole e crea la chiesa apostolica come fonte e norma della
fede di tutti i tempi posteriori, quindi con tutti i suoi elementi essenziali
e definitivi, e compie tutto ciò in maniera unica (cioè non trasferibile)
e definitiva. Infatti l’intera storia della salvezza culmina in Gesù Cristo
e nella chiesa apostolica da lui fondata, perché è in essa che si realizza la
definitiva presenza della grazia salvifica di Dio in questo mondo.
2 – Uno degli elementi costitutivi, quindi essenziali e definitivi, della
chiesa apostolica, voluta e creata da Dio come fonte e norma della fede
di tutti i tempi, è la sacra Scrittura. Infatti alla chiesa apostolica, perché
essa sia quello che Dio vuole e che Dio di fatto crea, non può non com-
petere la singolare capacità, non solo di discernere ciò che le è proprio,
ma anche di rappresentare e oggettivare autenticamente e puramente
la sua essenza. Ma questa attività della chiesa apostolica di esprimere se
stessa in formule permanenti e definitive, è soprattutto un’attività di og-
gettivazione letteraria: si dice “soprattutto” perché, accanto alla Bibbia,
c’è anche il modo complementare della tradizione orale e vitale della
chiesa apostolica. I libri sacri sono, di fatto, il modo privilegiato con
cui la chiesa apostolica esprime e oggettiva la sua essenza e la sua fede;
è dunque per il tramite dei libri sacri che la chiesa apostolica è posta da
Dio come fondamento e come norma di tutte le successive generazioni
di credenti. Rahner si accorda con la Dei Verbum nel momento in cui
egli cerca nelle libere decisioni divine la ragione profonda del­­l’ispirazione
della Scrittura.
3 – In questo modo Dio è autore non soltanto della chiesa apostolica
ma anche dei libri sacri, che sono uno dei suoi elementi costitutivi. Non
però sotto lo stesso punto di vista del­­l’autore ispirato, al quale soltanto
compete il titolo di autore letterario in senso proprio, cioè di compositore
di libri (Verfasser). Dio invece è autore di questi libri (Urheber), esat-
tamente nel senso che egli vuole con assoluta predisposizione la chiesa
apostolica come regola normativa dei tempi cristiani posteriori, e vuole

4
K. Rahner, Sul­­l’ispirazione della Sacra Scrittura, 21. Rahner osserva polemicamente
(p. 9) che gli esegeti cattolici sembrano in genere non voler avere niente a che fare con la
questione del­­l’ispirazione della Scrittura.
242 La Bibbia è parola di Dio

questa chiesa come norma oggettivata, in un modo che corrisponda a


quella sua realtà, cioè per mezzo di testimonianze scritte.
4 – Questo rapporto “unico” di Dio con la Scrittura non è soltanto
un rapporto trascendentale, sul tipo di quello tra «Dio-causa prima» e
«l’uomo-creatura» nel­­l’ambito del concorso divino al­­l’agire del­­l’uomo,
il quale non fa sì che Dio sia responsabile delle azioni e delle opere del­­
l’uomo. È invece un rapporto anche categoriale di Dio con la Scrittura,
poiché Dio, proprio per il fatto di essere autore della chiesa e della Scrit-
tura come suo elemento costitutivo nel senso sopra spiegato, crea autori
autenticamente umani, mira fin da principio a costituirli come tali.
La “tesi” di K. Rahner ha indubbiamente alcuni meriti, degni di essere
sottolineati:
– Egli considera l’ispirazione biblica in stretto rapporto con la storia
della salvezza, la quale trova il suo compimento in Gesù Cristo e nella
chiesa apostolica fondata da Cristo. Logico dunque che Rahner sviluppi
la sua teoria sul­­l’ispirazione partendo dal NT e non dal­­l’AT, il quale
può essere pienamente compreso soltanto alla luce della nuova allean-
za di cui è la preistoria. L’ispirazione del­­l’AT è ricuperata nella tesi di
Rahner in quanto la chiesa apostolica vede nei libri veterotestamentari
la testimonianza (voluta da Dio e realizzata dallo Spirito Santo) della sua
preistoria, dalla quale la chiesa non può prescindere per comprendere
se stessa e per offrire se stessa quale norma e fondamento della fede che
salva.
– Rahner coordina perfettamente l’aspetto personale e sociale del­­
l’ispirazione biblica, sottolineandone la connessione con la chiesa e quin-
di il senso ecclesiale degli autori e dei libri ispirati5.
Nella sua tesi non è necessario che l’autore ispirato, quando scrive, sia
consapevole (e di fatto, in genere, non lo è) di agire sotto un particolare
influsso ispirativo. L’ambito della sua consapevolezza è un altro; egli sa
che

il nucleo specifico delle sue affermazioni è dato dalla stessa rivelazione di


Dio in Cristo, che è avvenuta nella sua propria generazione e viene portata
e testificata da quella comunità santa cui egli appartiene e che ora in questo

5
Vedi sopra, 3. «La Scrittura appartiene al­­l’essenza concreta, pienamente sviluppata,
della chiesa, quindi ai suoi elementi costitutivi» (Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, 59).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  243

tempo si va formando appunto in modo tale che più tardi ci si debba atte-
nere unanimemente a questa dottrina e a questi fatti6.

Rahner offre un contributo importante alla soluzione del non facile


problema del riconoscimento da parte della chiesa post-apostolica del
carattere ispirato di tutti e singoli i libri della Bibbia, considerata la
lenta e non sempre uniforme storia del riconoscimento del­­l’estensione
esatta del canone biblico7. Per definire il canone della sacra Scrittura
non c’è bisogno di una nuova rivelazione: è sufficiente che la chiesa
post-apostolica riconosca uno scritto del­­l’età apostolica come espres-
sione legittima della fede della chiesa primitiva e della sua “preistoria”
nel­­l’AT, come oggettivazione autentica di quella fede che la chiesa anche
successiva custodisce e trasmette come punto di riferimento primario
della sua identità. In altri termini, basta che la chiesa si riconosca in
quei libri nati dal suo seno, si riconosca là come nella sua immagine.
Ed è lo Spirito Santo che la guida in questo processo di autoriflessione,
mediante la quale essa pone il primo fondamentale atto del suo solenne
infallibile magistero: quello appunto di conservare fedelmente (quindi,
non modificare o ampliare o restringere) il depositum fidei, cioè il dato
originale della fede che essa poi è chiamata a comprendere, predicare,
attualizzare fedelmente.

2. Autori ispirati ma anche opera letteraria ispirata

L’ispirazione biblica interessa a un tempo gli agiografi e la loro opera


letteraria, quella che è e resta per noi «sacra Scrittura», parola di Dio.
P. Benoit e L. Alonso Schökel prestano ambedue una particolare at-
tenzione alla complessità del lavoro letterario, che deve essere tenuta
presente quando si riflette sulla natura del­­l’ispirazione biblica. Tuttavia
il loro approccio di riflessione è indubbiamente diverso: Benoit accede
al problema da teologo sistematico, Alonso Schökel da biblista-teologo
dotato di singolare sensibilità letteraria.

6
Ibid., 69.
7
Vedi sotto, cap. 13.
244 La Bibbia è parola di Dio

2.1. Il modello «Benoit»

P. Benoit8 ripercorre criticamente la storia delle discussioni moder-


ne sul­­l’ispirazione biblica, a partire da Franzelin al quale si rimprovera
giustamente una distinzione semplicistica tra «le idee» e «le parole»: in
virtù del­­l’ispirazione «Dio porrebbe le idee, il pensiero», «lo scrittore
sacro porrebbe le parole, lo stile»9. E Lévêsque, contro Franzelin, afferma
che l’ispirazione non è data per conoscere la verità ma per trasmetterla
fedelmente10: l’ispirazione dice ordine unicamente alla composizione del
libro, non al­­l’acquisizione delle conoscenze che ad esso saranno affidate.
La disputa prosegue con l’ausilio d’una distinzione che viene introdotta
nel dibattito, partendo dalla acceptio rerum e dallo iudicium de acceptis
di Tommaso11, ma distinguendo lo iudicium de acceptis in giudizio spe-
culativo (col quale si afferma la verità delle idee o dei contenuti mentali,
dicendo: «È vero») e giudizio pratico (col quale si decide di scrivere
quanto si è giudicato per vero, dicendo: «È bene che lo scriva»). Per
alcuni (per esempio, Ch. Pesch), i giudizi speculativi, siano naturali o
soprannaturali per l’oggetto, sono soltanto prerequisiti: il carisma del­­
l’ispirazione va collocato solo nel­­l’ambito dei giudizi pratici. Per altri
(esempio J.M. Lagrange), l’ispirazione è primariamente un’illuminazio-
ne del­­l’intelletto che riguarda il giudizio speculativo sulla verità delle af-
fermazioni da scrivere. E, «in genere, sino alla seconda guerra mondiale,
si adottò un’opinione di compromesso in cui venivano ritenuti necessari
interventi divini sia sul giudizio pratico che sul giudizio speculativo, con
una maggiore accentuazione, in genere, di quest’ultimo».12
Benoit, dopo avere chiarito i termini esatti della teologia del­­
l’ispirazione in Tommaso d’Aquino13, applica in maniera più articolata
i criteri del giudizio teoretico (o speculativo) e del giudizio pratico alla
complessità del lavoro di formulazione letteraria del libro sacro, un dato
acquisito della moderna critica biblica. Con A. Desroches distingue non
due, ma tre tipi di giudizio: giudizio speculativo assoluto, che si riferisce

8
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, cap. 3, «Critiche e proposte riguardo alle discus-
sioni moderne», 56-92.
9
Vedi sopra, cap. 10, 6.
10
Cfr. E. Lévêsque, Questions actuelles d’Écriture Sainte, in RB 4 (1895) 420-428.
11
Vedi sopra, cap. 10, 5.
12
R. Cavedo, Libro Sacro, 766.
13
Vedi sopra, cap. 10, 4.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  245

alla verità in se stessa; giudizio speculativo di azione, che ha per oggetto


la verità nel suo riferimento al­­l’opera… in quanto possibile; giudizio
pratico, che ha per oggetto la verità pratica e tende nella forma dovuta
al­­l’opera come tale. Applica questi criteri al­­l’ispirazione della Bibbia e
riassume così la sua tesi:

1. La composizione dei libri sacri esige dei giudizi speculativi soprannaturali


oltre ai giudizi pratici.
2. Questi giudizi speculativi non sono forzatamente anteriori ai giudizi pra-
tici, ma possono essere anche concomitanti o posteriori ad essi.
3. Questi giudizi speculativi possono essere qualificati dal­­l’influenza dei
giudizi pratici14.

Ebbene, tutto il lungo e complesso processo letterario, che porta alla


composizione del­­l’opera e nel quale giudizi speculativi e giudizi pratici
si intrecciano con peso e sfumature diversi, deve porsi sotto l’influenza
del carisma divino.

2.2. Il modello «Alonso Schökel»

Alonso Schökel riconosce che il modello «Benoit» differenzia e per-


feziona il cosiddetto schema leonino, soprattutto «perché si avvicina
maggiormente alla realtà psicologica della creazione letteraria»; tuttavia,
a suo parere, esso «non soddisfa tutte le necessità: incentra tutto nel giu-
dizio, abbassa sempre a facoltà esecutive fattori eminentemente creativi
del poeta»15. E R. Cavedo imputa al modello «Benoit» una certa rigidità:
«È legato strettamente al concetto di verità da esprimere; sembra ancora
un po’ impastoiato in divisioni e sottodivisioni scolastiche»16.

14
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 71.
15
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 164s.
16
R. Cavedo, Libro Sacro, 767.
246 La Bibbia è parola di Dio

a) L’opera ispirata

Alonso Schökel17 pone l’accento sulla necessità di riequilibrare i due


aspetti del­­l’ispirazione biblica, quello de «gli scrittori sacri» e l’altro de
«l’opera letteraria». Egli parte dai due testi classici del­­l’ispirazione18, dei
quali uno si riferisce agli autori: «mossi dallo Spirito Santo alcuni uomini
parlarono in nome di Dio» (2 Pt 1,20), e l’altro alle loro opere: «tutta la
Scrittura è ispirata da Dio» (2 Tm 3,16). Quale delle due affermazioni
è più importante?
I Padri preferiscono la formula de «la Scrittura ispirata», come fa del
resto il NT quando cita l’AT, come fanno i commentatori medievali
quando applicano la teoria dei «quattro sensi della Scrittura»19 non agli
autori ma ai libri, alle opere. La stessa definizione del concilio Vaticano
I prende come oggetto i libri, i quali «sono sacri e canonici […] perché,
scritti sotto l’ispirazione dello Spirito, hanno per autore Dio e come tali
sono stati consegnati alla chiesa»20.
È stata la speculazione neoscolastica del secolo scorso sul carisma pro-
fetico a concentrarsi sul­­l’aspetto psicologico del­­l’ispirazione, cioè sulla
mente del­­l’autore, «con un esclusivismo – a parere di Alonso Schökel –
pericoloso». Pertanto, egli dice, «conviene equilibrare la messa a fuoco
psicologica con un’altra più letteraria […]. In ordine di importanza e
d’intenzione vengono al primo posto le opere, e tutta la fatica degli
autori e la loro vocazione si subordinano al­­l’opera»21.
D’altronde, questa impostazione del problema si ricollega con una
tendenza del­­l’attuale indagine letteraria: «Oggi gli studi affermano che
l’oggetto della scienza letteraria è l’opera letteraria; che l’autore, l’epoca,
la sociologia e l’ideologia interessano solo in quanto aiutano a com-
prendere l’opera»22. Pertanto il processo ispirativo sul­­l’autore è ordinato
al­­l’opera come al suo termine, e al­­l’opera letteraria nella sua «pluralità
strutturata»: l’opera infatti è una unità gestaltica che solo un’analisi fatta
in un secondo momento può dividere, e che soltanto un’«intuizione
totalizzante» può percepire nella sua visione unitaria. Anche nel caso

17
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 231-254.
18
Vedi sopra, cap. 9, 3.
19
Vedi sotto, cap. 17.
20
Vedi sopra, cap. 10.
21
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 232s..
22
Ibid., 233.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  247

che si percorra – come normalmente si fa e si deve fare in esegesi – la


strada di isolare unità e spiegarle separatamente, si deve poi risalire allo
stadio sintetico, quello appunto di una visione e comprensione unitaria
del­­l’opera, così come ci è stata trasmessa23.
Affermare l’ispirazione del­­l’opera letteraria nella sua concrezione
totale, unitamente a quella degli autori, rende anche migliore ragio-
ne della ricchezza molteplice della sacra Scrittura esaltata dagli autori
medievali, nonché del suo mistero di «espressione umile della divina
provvidenza»:

Affermare che tutti i piani del­­l’opera concreta cadono sotto l’ispirazione non
significa livellare tutti i piani: non significa elevare a proposizione infalli-
bile una frazione ritmica espressiva. Quando diciamo che la natura umana
di Cristo è assunta dalla Persona divina, da un lato non escludiamo dal­­
l’incarnazione alcun membro, né organo, né tessuto; dal­­l’altro non livellia-
mo in una massa uniforme il complesso organismo del­­l’uomo Cristo. Ogni
membro e organo è assunto secondo la sua funzione particolare […]. In
modo analogo dobbiamo concepire l’opera, che è l’immagine del­­l’uomo: è
ispirata la sua intera creazione, ogni elemento secondo la sua funzione nel
porgerci la rivelazione di Dio. Se ci pare che con ciò la semplice, spirituale,
purissima intellezione di Dio ne resti umiliata, accettiamo questo mistero
di umiliazione o “svuotamento” come rivelazione di amore. Assieme al­­
l’humiliavit semetipsum del­­l’incarnazione, i Padri ripetono l’occultamento
della divinità “nel­­l’espressione umile”24.

b) Un modello più letterario

Ma Alonso Schökel non si è limitato al­­l’affermazione di principio che


l’ispirazione biblica è innanzitutto e soprattutto un carisma che interessa
tutti i piani del­­l’opera letteraria completa come tale. Partendo non da un
concetto intellettualistico di autore letterario, bensì dal­­l’esperienza della
creazione letteraria come la conosciamo dalle confessioni di autentici
scrittori25 propone anch’egli uno schema in tre tempi26 che potremmo
sintetizzare così:

23
Cfr. ibid., 243ss.
24
Ibid., 239s.
25
Ibid., 165-170.
26
Cfr. ibid., 190-194.
248 La Bibbia è parola di Dio

1. Materiali. La materia può essere un’esperienza vitale, una serie di


esperienze proprie o altrui, esperienze dettate da una conoscenza pura, o
da informazioni, o da materiali letterari pre-elaborati: tutto questo non
cade ancora, necessariamente, sotto l’ispirazione biblica.
2. Intuizione. È il vero momento iniziale del­­l’opera letteraria e si
converte in una centrale di energia che fa lievitare tutti i materiali, mette
in moto e illumina tutto il processo successivo che condurrà al­­l’opera
scritta. Tale intuizione avviene, negli autori sacri, sotto l’impulso dello
Spirito ed è rivelatrice di una realtà (letteraria), benché non ancora in
forma di proposizione.
3. Esecuzione. Essa segue al­­l’intuizione, sia come una specie di neces-
sità interiore di scrivere o di comporre, sia soprattutto come processo
di realizzazione o esecuzione letteraria, messa in moto da quel­­l’impulso
interno. Tut­­t’intero questo processo di formulazione letteraria è un mo-
mento creativo, che dobbiamo concepire come svolto sotto l’azione dello
Spirito: l’ispirazione biblica è essenzialmente un carisma di linguaggio.
Inoltre – ed è, crediamo, il contributo più originale e interessante di
Alonso Schökel – egli compie un tentativo di penetrare nel mistero della
concreta opera letteraria ispirata della Bibbia, esaminando alcuni esempi
tratti soprattutto dal­­l’AT, che presenta una più ricca varietà letteraria:
l’ispirazione in un grande poeta, come Osea; in un semplice artigiano
del linguaggio, come l’autore del Sal 119; nella visione di un’immagine,
come accade in Ger 1,11s.; in una particolarità di stile, come quella di Is
1,21; in un Salmo di imitazione, come il Sal 29; in una narrazione, come
quella delle piaghe in Es 7–11; in una formazione letteraria progressiva,
come per esempio quella del Pentateuco attraverso le successive tradi-
zioni; nel­­l’intonazione epica, come quella che presiede alla narrazione
delle piaghe. Non è possibile riassumere qui queste pagine bellissime27,
ma volentieri le segnaliamo e le raccomandiamo al lettore.

27
Cfr. ibid., 170-187; 187-190, esempi dal NT (vangeli ed epistole).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  249

3. Autore ispirato o autori ispirati?

La maggior parte dei libri della Bibbia non è stata scritta di getto da
un solo autore; i libri biblici si sono spesso andati formando poco a poco
e con l’apporto di diverse persone per lo più rimaste anonime, prima
di acquistare la loro definitiva forma letteraria28. Il nostro concetto di
“autore”, usato oggi nella cultura delle editorie e dei libri stampati, non
basta più ad abbracciare e a spiegare la realtà nuova emersa dalla moder-
na ricerca biblica. Il problema del­­l’ispirazione biblica acquista così una
nuova complessità: è ispirato soltanto il redattore finale di un libro il cui
personale contributo poté anche essere non rilevante29, oppure hanno
goduto del carisma del­­l’ispirazione tutti gli autori che contribuirono alla
sua elaborazione?
Limitare l’ispirazione al­­l’ultimo autore e basta, equivarrebbe in di-
versi casi a trasformare in figure di primo piano collaboratori in ultima
analisi secondari, ed escluderebbe in pratica la diretta ispirazione di una
buona parte del testo di alcuni libri, appunto quello che il redattore ha
semplicemente usato come “fonte” limitandosi a farla propria e assicu-
randola al­­l’ispirazione solo attraverso tale procedimento. Sembra invece
più corretto estendere l’ispirazione ai diversi autori che hanno parteci-
pato alla formazione di un libro e nella misura del loro contributo: Dio
avrebbe guidato l’intero processo della formazione letteraria di un libro,
soprattutto nei suoi momenti decisivi.

Quindi, se un libro si è costruito poco a poco, bisogna allora parlare di più


autori ispirati. L’ispirazione di questi individui non riguarderebbe più la loro
opera immediata, presa in se stessa, ma la caratterizzerebbe in quanto essa era
da Dio ordinata, nel tenore e nel senso, al libro biblico definitivo […]. L’ispi-
razione dei molti, che hanno collaborato ad uno scritto biblico, sarebbe così

28
Vedi sopra, cap. 5. Cfr. J.-L. Ska, Ispirazione e metodo storico-critico, in P. Dubov-
sky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 77-99. L’ispirazione non è tanto nelle
parole, ma nella musica; vale a dire nel­­l’atto della lettura e nel­­l’atto del­­l’interpretazione;
non nei singoli libri, ma nella Scrittura nella sua totalità (cfr. p. 97).
29
Vedi sopra, cap. 5. Basti pensare al libro del profeta Ezechiele: la maggior parte del
testo è opera di Ezechiele, ma il libro delle sue profezie fu composto più tardi da un
discepolo; anzi il libro fu ripetutamente arricchito, subendo successivamente aggiunte e
rielaborazioni; in pratica, l’ultimo redattore sarebbe direttamente responsabile neppure
della centesima parte del libro attuale.
250 La Bibbia è parola di Dio

vista come un solo tutto e per questo produrrebbe il suo effetto d’inerranza
un’unica volta, al momento del risultato finale di questa collaborazione30.

Un caso emblematico è il problema suscitato dal libro del Siracide;


esso, com’è noto, è giunto a noi in forma completa soltanto nella tradu-
zione greca fatta dal nipote del­­l’autore, ad Alessandria d’Egitto intorno
al 132 a.C.; tale traduzione esiste a sua volta in due diverse recensioni
(Greco “breve” e Greco “lungo”). A partire dalla fine del XIX secolo
è stata riscoperta una buona parte del­­l’originale ebraico di Ben Sira,
anch’esso però in due diverse recensioni; la situazione testuale di Ben
Sira è complicata anche dal­­l’esistenza della versione latina presente nella
Vulgata, che offre in molti casi un testo ancora diverso. Quale versione
è da considerarsi ispirata? La chiesa cattolica non si è mai pronunciata
al riguardo; la revisione della Bibbia CEI 2008 ha scelto di tradurre il
testo greco lungo, perché si tratta della versione di Ben Sira attestata
nel­­l’uso liturgico; e tuttavia ha scelto di segnalare le aggiunte del greco
lungo rispetto al testo breve e, in nota, le principali divergenze con l’e-
braico. Oggi si tende a pensare che nella redazione del libro del Siracide
possono essere scorti almeno due diversi livelli redazionali; la soluzione
più ovvia è di considerarli entrambi come ispirati31. La storia del Sira-
cide rivela come la chiesa cattolica non ha considerato ispirato solo un
ipotetico “originale”, ma anche le sue traduzioni e, allo stesso tempo,
ha sempre attribuito grande importanza alle tradizioni liturgiche. Un
problema analogo si pone per il libro di Ester, la cui versione greca è
molto diversa dal testo ebraico; in questo caso la revisione della Bibbia
CEI 2008 ha scelto di tradurre entrambi i testi, considerandoli almeno
implicitamente come entrambi ispirati. L’ispirazione va dunque estesa
non solo alla formazione del testo, ma anche alla sua trasmissione, sino
alla sua canonizzazione32.

30
N. Lohfink, Il problema del­­l’inerranza, in Aa.Vv., La “verità” della Bibbia nel dibat-
tito attuale (GdT 21), Queriniana, Brescia 1968, 31 (21-63).
31
Si tratta della proposta di M. Gilbert: L’Ecclésiastique. Quel text? Quelle autorité?, in
Id., Ben Sira. Recueil d’études – Collected Essays (BETL 264), Peeters, Leuven 2014, 23-38.
32
Cfr. P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 344.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  251

4. Il carisma del­­l’ispirazione biblica non è un carisma isolato

Dire che esistono non uno ma più autori ispirati, non esaurisce tut-
tavia il problema. L’azione dello Spirito – come ha ben sottolineato P.
Benoit33 – è enormemente più ampia ed è precedente al­­l’atto di scrivere,
pur sempre finalizzata e collegata alla messa in scritto. Dio chiama, edu-
ca, promuove, giudica e salva il suo popolo per mezzo di intermediari
che il suo Spirito suscita e muove; prima che intervenga il carisma del­­
l’ispirazione scritturistica, i pastori ispirati costruiscono insieme a Dio,
come suoi strumenti, la storia della salvezza, e i profeti ispirati educano
lo spirito e la coscienza del popolo a comprendere la storia di Dio e degli
uomini, la interpretano e la proclamano a nome di Dio.
Anzi, il carisma del­­l’ispirazione biblica propriamente detta si inserisce
organicamente e in maniera specifica nel complesso dei carismi con-
cernenti l’annuncio e la conservazione della parola di Dio, carismi che
strutturano la comunità israelitica del­­l’AT e ancor più quella cristiana
del NT, scelta, mossa e assistita dallo Spirito del Signore Gesù risorto,
affinché sia in grado di ricevere e di trasmettere il sacro deposito della
rivelazione e di diffonderlo tra i popoli. È la tesi di Pierre Grelot34:

Dio ha provveduto a far pervenire la sua parola agli uomini e a farla conser-
vare integralmente nel suo popolo per mezzo di tre specie di carismi, affidan-
do agli uni la missione di profeta o di apostolo, assistendo altri nel­­l’esercizio
di diverse funzioni, ispirando altri ancora perché scrivessero dei libri35.

I profeti nel­­l’AT e gli apostoli nel NT sono, in virtù del loro cari-
sma specifico, gli agenti prìncipi della divina rivelazione. Tuttavia altri
membri della comunità, nella quale il messaggio rivelato viene ricevuto
e custodito, godono del­­l’assistenza divina dello Spirito anche in altre
forme. Sono questi, al parere di Grelot, «i carismi funzionali» che strut-
turavano la tradizione vivente del popolo di Dio. Per l’AT: «gli anziani»
(Nm 11,16ss.), «i sacerdoti leviti» (Lv 8,12.30), «i cantori» del tempio (1
Cr 25,1-3), «i saggi» e «gli scribi» (Sir 15,1-6; 24,33; 39,1-8; 51,22-30;
Sap 7,27); per il NT: «i presidenti» (Rm 12,8), «i pastori» (Ef 4,11), «i

33
Vedi sopra, cap. 9.
34
P. Grelot, La Bible Parole de Dieu, 48-66; La Bibbia e la teologia, 101-104.
35
P. Grelot, La Bibbia e la teologia, 101.
252 La Bibbia è parola di Dio

profeti» (1 Cor 12,10.28; Rm 12,6; Ef 4,11), «i maestri» (1 Cor 12,28;


Rm 12,7; Ef 4,11), «gli evangelizzatori» (Ef 4,11).
Ebbene, quando è un profeta o un apostolo che scrive, il carisma scrit-
turistico prolunga il carisma profetico o apostolico, pur con i necessari e
qualitativamente nuovi connotati che la messa in scritto della parola di
Dio esige. Per i libri invece non provenienti direttamente da un profeta
o da un apostolo, il carisma scritturistico si innesta su un carisma fun-
zionale o ministeriale già esistente, ma ha bisogno di promuoversi come
carisma speciale affinché quei libri giungano a possedere un’autorità
analoga a quella della stessa parola profetica o apostolica.

5. Dimensione comunitaria del­­l’ispirazione,


ma non ispirazione collettiva36

Il numero e, spesso, l’anonimato degli scrittori biblici non deve far


pensare ad un’ispirazione “collettiva”, cioè a un carisma dato alla col-
lettività come tale, alla quale si attribuirebbe un’esistenza autonoma e
preponderante in cui l’individuo scompare.
Una tale concezione della comunità, basata sui presupposti di É.
Durkheim, appare discreditata – per non dire falsa – agli occhi dei so-
ciologi moderni: la comunità non esiste da sola né tanto meno è crea-
trice, dipendente e debitrice com’è verso gli individui prescelti che la
dirigono. In ogni caso, il popolo suscitato e diretto da Dio nella storia
della salvezza non è un gruppo anonimo ma una comunità organica-
mente strutturata attorno a dei leader carismatici o istituzionali, i quali
la interpretano, la esprimono, la dirigono e la promuovono; e i libri della
Bibbia non furono redatti da una anonima collettività bensì da individui,
per quanto numerosi e spesso sconosciuti37.

36
Cfr. J.L. McKenzie, The social Character of Inspiration, in CBQ 24 (1962) 115-124;
D.J. McCarthy, Personality, Society and Inspiration, in TS 24 (1963) 553-576 (riprende,
sviluppa, ma anche ridimensiona la tesi di McKenzie); L. Alonso Schökel, La Parola
ispirata, 192-202 (riferisce le posizioni di McKenzie e di McCarthy, sottoponendole a
critica); M. Adinolfi, Aspetti comunitari del­­l’ispirazione, in RBI 14 (1966) 181-199.
37
La Sancta Mater Ecclesia (Istruzione sulla verità storica dei Vangeli) della Pontificia
Commissione Biblica, emanata durante il concilio Vaticano II (cfr. AAS 56 [1964] 712-
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  253

Ciò non toglie che tra società-comunità e scrittore-individuo esista


una reale interazione variamente articolata, che possiamo descrivere nel
modo seguente38:
a. L’autore resta condizionato dalla forza sociale della lingua della
sua comunità, anche se egli può – anzi deve – non lasciarsi sem-
plicemente “portare” dalla lingua del suo popolo. Un vero scrittore
adatta la lingua alle sue necessità e al suo temperamento, affer-
mando così una libertà creativa di fronte alla realtà della lingua
da cui dipende. Mediante la sua opera letteraria, lo scrittore agisce
indirettamente sulla comunità linguistica da cui proviene e da cui
dipende, sì da arricchirla di nuove possibilità di linguaggio che egli
stesso ha creato.
b. Lo scrittore è tributario, oltre che della lingua, anche delle prece-
denti forme letterarie che il gruppo sociale gli offre e che sono legate
a situazioni sociali specifiche, ovvero al «Sitz im Leben» o «posto
nella vita»39. Egli non può non assimilarle e utilizzarle, se vuol
farsi comprendere dal gruppo e comunicare con esso; e soltanto
se inserito in questa tradizione “letteraria”, potrà egli stesso creare
nuove forme letterarie e così arricchire il patrimonio letterario del
gruppo sociale cui appartiene.
c. Lo scrittore è l’interprete e il portavoce della sua comunità a tal
punto che il popolo si sente autore dei sentimenti espressi dal suo
cantore: vedi, per esempio, il caso di certa parte della letteratura
“liturgica”, delle narrazioni “epiche”, di repertori di “proverbi”. Ma
l’autore sa anche essere “aggressivamente sociale”, nel senso che non
interpreta più la comunità, bensì è provocato al­­l’opera letteraria
da un atteggiamento di “resistenza sociale”. Allora egli non è più

718; EB 644-659) afferma al n. 1: «Ove convenga, sarà lecito al­­l’esegeta esaminare gli
eventuali elementi positivi offerti dal “metodo della storia delle forme” per servirsene
debitamente per una più profonda intelligenza dei vangeli. Lo farà tuttavia con cautela
perché spesso il suddetto metodo è connesso con princìpi filosofici e teologici da non
ammettersi, i quali viziano non raramente sia il metodo stesso, sia le conclusioni in materia
letteraria». E tra questi princìpi l’istruzione ricorda appunto quello del­­l’anonima comu-
nità creatrice: «Altri fautori di questo metodo, infine, tenendo in poco conto l’autorità
degli apostoli in quanto testimoni di Gesù Cristo, nonché del loro ufficio e influsso nella
comunità primitiva, esagerano il potere creativo di detta comunità» (n. 1). Il paragrafo 19
della Dei Verbum non fa altro che riassumere l’istruzione Sancta Mater Ecclesia, e la cita
espressamente in nota.
38
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 201-209.
39
Vedi sopra, cap. 6.
254 La Bibbia è parola di Dio

portavoce del popolo, ma reagisce contro i sentimenti del popolo,


lo dirige verso nuove frontiere, arriva sino a contraddirlo. È il caso
tipico di grande parte della letteratura “profetica”.
d. A queste considerazioni occorre aggiungere l’importanza che oggi
ha sempre di più assunto l’analisi narrativa, un’importanza ricono-
sciuta da IBC 40. La narrativa biblica sa combinare in modo straor-
dinario il livello oggettivo del racconto con quello soggettivo del
lettore che legge, interpreta e vive il racconto stesso, al­­l’interno di
un processo di tradizione ricevuta e di nuovo trasmessa (l’idea deu-
teronomica dei “padri” che narrano ai “figli”; cfr. Sal 78,1-6 e Dt
6,12-15). Il popolo di Dio, nella prospettiva della narrativa biblica,
è dunque anch’esso in qualche modo “soggetto” del­­l’ispirazione.
e. La riflessione sul­­l’ispirazione deve inoltre tener conto degli apporti
recenti della linguistica; «il testo ispirato segue la natura della lingua
con le sue regole e il suo sviluppo, luogo di notevoli cambiamenti
[…]; in questo senso l’ispirazione si affida a una lingua umana, essa
stessa in mutamento. Ne sfrutta tutta la ricchezza, ma è anche legata
alla precarietà di ogni comunicazione linguistica»41.
Questa molteplice interazione fra comunità e scrittori rende anch’essa
ragione del carattere “ecclesiale” degli scritti biblici, che sono davvero «il
libro del popolo di Dio»42: in quei libri la comunità del­­l’antica e della
nuova alleanza si esprime, si rivela, si autodefinisce e si auto-trasmette43.
Tale interazione non annulla la personalità degli autori né la dissolve in
una massa amorfa cui competerebbe un’ispirazione vagamente collettiva.
Anche coloro che fanno opera di redazione finale, e spesso soprattutto
loro, sono «veri autori» (DV 11), con un proprio personale carisma.
Tuttavia, il carisma dello scrittore biblico ha sempre una dimensione
comunitaria, perché è rivolto alla chiesa, perché nasce nella «chiesa-
comunità», perché si ricollega ad altri carismi nella chiesa, perché in quel
carisma scritturistico si esprime in maniera autoritativa e normativa una
tessera della fede e della vita del popolo di Dio44.

40
Cfr. pp. 505-506.
41
P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 353.354; cfr. nello stesso
volume A. Gianto, Linguistica e ispirazione, 204-222.
42
B. van Iersel, La Bibbia come libro del popolo di Dio, in Concilium 4/1965, 34-48.
43
Vedi sopra, cap. 11,1.
44
«Dunque, è giusto affermare che, se la parola di Dio ha convocato e generato la
chiesa, è anche vero che la chiesa è stata in qualche modo la matrice delle Sacre Scritture,
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  255

6. Sacra Scrittura e parola di Dio

La testimonianza delle stesse Scritture è che la Bibbia è parola di


Dio45. L’ispirazione dei libri sacri46 dà fondamento e ragione ulteriore
a quest’affermazione della fede, tanto consueta nel credente che rischia
di non fargliene più avvertire l’aspetto inaudito, di mistero. Ma come
intenderla?
Certo, quando si aveva una concezione meccanica e miracolistica del­­
l’ispirazione, come se Dio avesse ispirato direttamente agli scrittori sacri,
a mo’ di dettatura, tutto ciò che dovevano scrivere in veste più o meno di
“segretari” di Dio, si poteva senza alcuna difficoltà equiparare immedia-
tamente la sacra Scrittura con la parola di Dio. Ma adesso la stessa critica
letteraria biblica ci ha obbligato a ritenere gli agiografi non dei segretari
ma «veri autori» letterari (DV 11), e la Bibbia un libro profondamente
e autenticamente umano, nel quale non ci viene offerta direttamente la
divina Parola, bensì la sua più autorevole testimonianza. La Scrittura
partecipa della causalità e della contingenza di tutto ciò che è umano, o
almeno anche umano; gli autori sacri «parlarono di Dio, come potero-
no», scrive Agostino al­­l’inizio del suo Commento al Vangelo di Giovanni:

Spiegare quanto lì è detto, nel suo pieno significato, è cosa infatti che supera
ogni capacità umana. Anzi non esito a dire, fratelli miei, che forse neppure
lo stesso Giovanni ne fu capace: parlò come poté, perché era un uomo che
parlava di Dio. Ispirato, certamente, però sempre uomo. Grazie al­­l’ispirazione,
qualcosa poté dire: se non fosse stato ispirato, non ci avrebbe detto proprio
niente. Ma, benché fosse ispirato, non poté dirci tutto il mistero: disse ciò
che un uomo poteva dire47.

questa chiesa che ha espresso o riconosciuto in esse, per tutte le generazioni future, la sua
fede, la sua speranza, la sua regola di vita in questo mondo. Gli studi degli ultimi decenni
hanno contribuito in misura importante a mettere in risalto il rapporto stretto e il legame
che uniscono indissolubilmente la Scrittura alla chiesa […]» (Paolo VI ai membri della
Pontificia Commissione Biblica sul­­l’Importanza degli studi biblici per l’attività della chiesa,
discorso pronunciato il 14 marzo 1974, in AAS 66 [1974] 235s.; per una citazione più
ampia del testo di Paolo VI, cfr. pp. 520-521).
45
Vedi sopra, cap. 8.
46
Vedi sopra, cap. 9.
47
In Joh. Evang. 1,1 (trad. it., Commento al Vangelo di Giovanni 1, Città Nuova, Roma
1965, 20 [PL 35,1379]).
256 La Bibbia è parola di Dio

Nondimeno la chiesa ritiene oggetto della propria convinzione di


fede e della propria esperienza che la Scrittura è parola di Dio, in quanto
parola che uscì e che esce da Dio, e presta testimonianza su Dio. Ancora
una volta: qual è il significato di questa professione di fede?

6.1. La parola di Dio è una realtà analogica48

La teologia cristiana riconosce che «la parola di Dio è un qualche cosa


che va visto a diversi livelli, in diverse situazioni. È un concetto analogo,
non è qualche cosa che si abbia univocamente e soltanto di una deter-
minata situazione sempre uguale»49.
K. Barth50 propone la distinzione tra: la parola di Dio rivelata (Gesù
Cristo), parola di Dio scritta (la Bibbia, ispirata da Dio), parola di Dio
predicata (la predicazione della chiesa). Non molto diversamente da
K. Barth, e facendo proprie le riflessioni di A. Schlatter e O. Weber, P.
Stuhlmacher51 afferma che già nel NT, come del resto anche nel­­l’AT, la
parola di Dio ha un molteplice aspetto:
1. parola di Dio come Parola accaduta che sta alla base e precede ogni
umana testimonianza: è la persona stessa di Gesù Cristo;
2. parola di Dio come Parola testimoniata, quando i discepoli di Gesù
e gli apostoli testimoniano Gesù Cristo come il Signore e il Salvatore: è il
NT stesso, come stesura e documentazione di quella parola testimoniata
innalzata a canone della chiesa, per il cui tramite la Parola accaduta è
divenuta terrenamente accessibile e storicamente tramandabile;
3. parola di Dio come Parola annunciata attraverso la predicazione
della comunità, sia nella forma di programmato annuncio missionario,
sia in quella di missionaria testimonianza fattuale. Per Stuhlmacher,
se vogliamo parlare della Scrittura come parola di Dio, è consigliabile
partire dal suo carattere di testimonianza e leggere la professione di

48
Cfr. C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, in Aa.Vv., Incontro con la Bibbia,
43-47 («Il libro sacro nel­­l’ambito della Parola di Dio»); P. Stuhlmacher, Vom Verstehen
des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik, 45-47 («Autorität und [dreifache] Gestalt des
biblischen Zeugniswortes»); O. Semmelroth, Teologia della Parola, 17-172; K.H. Schel­
kle, Sacra Scrittura e Parola di Dio, in Aa.Vv., Esegesi e Dommatica, 11-37.
49
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 44; cfr. anche Verbum Domini, n. 7.
50
Vedi sotto, § 7.2.
51
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  257

fede nel contesto della triplice (almeno) forma della parola di Dio e in
connessione reciproca:

La Bibbia è debitrice alla parola rivelata di Dio, che acquista nella persona
di Gesù Cristo la sua forma completa; essa è il documento, elevato a canone
della chiesa, della testimonianza di quella parola di rivelazione storicamente
sviluppatasi; è il documento che provoca l’annuncio della parola di Dio da
parte della chiesa e a un tempo ne legittima il contenuto52.

C.M. Martini propone una serie più lunga di distinzioni, ritenendola


«didatticamente più utile per aiutarci a cogliere le analogie della parola
di Dio»53. L’espressione “parola di Dio” può assumere cinque significati:
1. La parola di Dio è, nel linguaggio della rivelazione trinitaria, il Verbo
di Dio di Gv 1,1-18, che sta alla base di tutti gli altri significati del termine
ed esprime la comunicabilità di Dio che è il lógos di Dio, in tutta la sua
estensione e la sua intensità; 2. La parola di Dio è dunque, per eccellenza,
Gesù Cristo, il Verbo in mezzo a noi di Gv 1,14, Dio detto e manifestato a
noi nella storia. È Gesù in tutto l’arco della sua vita, morte, risurrezione
e signoria gloriosa nel­­l’universo, che ci manifesta il Padre: ogni realtà che
nella chiesa e nella storia merita in qualche modo il nome di parola di
Dio va riferita a Gesù Cristo. Si parla della “signoria gloriosa”, perché la
parola di Dio in Gesù Cristo non è soltanto quella che viene resa presente
nel Gesù storico culminante nella risurrezione, ma anche quella che sarà
presente in estensione massima nel regno di Dio consegnato al Padre nella
pienezza dei tempi (cfr. 1 Cor 15,24; DV 4, ultimo paragrafo): «Possiamo
dire che soltanto in questo momento la comunicazione di Dio al­­l’uomo
raggiungerà l’ambito definitivo massimo della sua espressione estensiva,
anche se riteniamo che l’ambito massimo della sua espressione intensiva
rimane la Croce e la Risurrezione»54. 3. La parola di Dio diventa parola
di Dio al plurale, «parole verso», «parole a»: sono le parole dette, le parole
parlate nella storia della salvezza dai profeti e dagli apostoli per manifestare
il piano divino da realizzarsi o che si realizza in Gesù Cristo. Sono queste
parole della predicazione profetica e apostolica che, di fatto, la Scrittura
chiama normalmente “parola di Dio”; e, in relazione alla pienezza esten-
siva della parola di Dio nel primo e nel secondo significato, si vede come

52
Ibid., 47.
53
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 42.
54
Ibid., 45.
258 La Bibbia è parola di Dio

già qui le parole di Dio hanno una qualche incompletezza, che ne mette
in luce il carattere dinamico: sono «Parole verso», «Parole a»55. 4. «Parole
di Dio sono anche le parole scritte di tutti coloro che, in connessione con
l’attività profetica e apostolica, hanno scritto per ispirazione divina. Sono
i profeti scrittori, gli apostoli, gli evangelisti, i saggi, i cronisti, i legislatori,
i poeti. Ecco la Bibbia, che appare in questo quarto momento di analisi
della parola di Dio. Soltanto ora passiamo dalla parola parlata alla parola
scritta. La Bibbia ci conserva le parole degli apostoli, dei profeti ecc., messe
in scritto per ispirazione di Dio, per manifestare il suo piano di salvezza
nel Cristo»56. 5. Infine, parola di Dio è la parola della predicazione cristiana
viva: quando si predica la fede, la conversione, Gesù Cristo, si ha nella
chiesa un evento che si può chiamare «parola di Dio»57.

6.2. La Bibbia è parola di Dio

Nel contesto di queste molteplici realtà tutte riconducibili alla forma


prima che è la parola di Dio, la quale trascende tutte le parole divine che
ne sono testimonianza e come tali ne fanno parte58, possiamo tentare di
descrivere il significato della professione di fede: «La Bibbia è parola di
Dio» con l’aiuto di alcune proposizioni successive:
1. La sacra Scrittura non è identificabile tout court, né con il lógos di
Dio e neppure con la rivelazione di Dio nella storia e nel mondo, una
rivelazione che ha avuto il suo culmine in Gesù Cristo; essa è la testi-
monianza storica privilegiata della rivelazione, è la «immagine canonica
della rivelazione»59. In virtù di questa privilegiata e canonica testimo-
nianza della rivelazione che è la Bibbia, si è resa possibile e aperta a tutti
gli uomini la presenza della parola di Dio e su Dio, fatta carne in Gesù
Cristo: parola vera di Dio, parola detta da Dio su se stesso, sul mondo,
su ogni essere umano.

55
Dobbiamo in realtà aggiungere anche quella “parola” di Dio che giunge a noi tramite
la creazione e tramite la storia; cfr. Verbum Domini, nn. 8-9.
56
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 46.
57
Cfr. la monografia di D. Grasso, L’annuncio della salvezza, D’Auria, Napoli 1970,
specialmente il cap. 2.
58
Cfr. H. Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 495-521; Mons.
N. Edelby, intervento al concilio Vaticano II: vedi sopra, cap. 2, 5.4 (p. 56).
59
H. Urs von Balthasar, Gloria 1, 509.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  259

2. In quanto testimonianza storica autoritativa della rivelazione, le


sacre Scritture non soltanto contengono la parola di Dio, ma sono parola
di Dio: «Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate,
sono veramente parola di Dio» (DV 24). È questo il punto discriminan-
te e decisivo della questione, intimamente legato ad una concezione,
adeguata o meno, robusta o attenuata, che si ha del­­l’ispirazione biblica.
Come scrive C.M. Martini:

La Bibbia ha da una parte una relazione immediata con la parola profetica


ed apostolica d’Israele e della chiesa primitiva, e dal­­l’altra con Cristo e con
il Padre, mediante lo Spirito che la ispira. Ed è per questo che la parola della
Bibbia rappresenta un momento privilegiato della rivelazione. Se essa fosse
soltanto una trascrizione storica degli oracoli profetici avrebbe valore come
libro delle origini, come documento della fede delle antiche generazioni,
senza contenere necessariamente e sempre una parola normativa per le ge-
nerazioni future. Invece la relazione che ha con il Verbo per mezzo dello
Spirito fa di questa parola una forza viva e permanente di manifestazione di
Dio per tutti i tempi60.

Fermo restando, e giova ripeterlo, che la Scrittura, se in forza del­­


l’ispirazione è essa stessa formalmente parola di Dio, non lo è immedia-
tamente: parola immediata di Dio è solo il lógos di Dio61. È decisiva, a
questo riguardo, anche la formulazione di DV 9: «La sacra Scrittura è
parola di Dio [locutio Dei] in quanto consegnata [consignatur] per iscritto
per ispirazione dello Spirito divino». Dei Verbum non vuole identificare
immediatamente la Scrittura con il verbum Dei, con la “parola” di Dio,
come lasciano pensare le traduzioni. Per il concilio la Scrittura è piut-
tosto il “parlare” di Dio (locutio). Il testo scritto della Bibbia riguarda
dunque l’atto del parlare. Il verbo consignatur è poi al presente, non al
passato: «Dunque, nella prospettiva della DV, la Scrittura è una parola
che rimanda ad altra Parola, è parola “testimonianza” che documenta
una Parola evento, è “verbum Dei de verbo Dei”, contiene la Parola più
che essere la Parola»62.
La relazione permanente che la Scrittura, in forza del­­l’ispirazione,
ha con Dio e con la sua parola, fa sì che la parola di Dio permanga at-

60
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 46.
61
Cfr. O. Semmelroth, Teologia della Parola, 140ss.
62
P.L. Ferrari, La Dei Verbum, Queriniana, Brescia 2005, 91-92.
260 La Bibbia è parola di Dio

traverso la Scrittura con tutta la sua forza viva ed efficace. L’ispirazione


non è soltanto un fatto isolato, passato, ma è una qualità permanente,
una forza spirituale quanto mai attuale e presente nella Scrittura, la
quale mantiene appunto tutto il potere della parola di Dio: «Perciò
si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto:
“vivente ed efficace è la parola di Dio” (Eb 4,12), “che ha la forza di
edificare e di dare l’eredità tra tutti i santificati” (At 20,32; cfr. 1 Ts
2,13)» (DV 21).
Certo, la Scrittura «non è parola di Dio in aspetto glorioso ma in
aspetto servile, nascosta e velata, come quella parola primordiale di Dio
al mondo, che è Cristo e di cui Fil 2,6-11 dice: “Egli, pur essendo di
natura divina […], spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
[…] sino alla morte di croce”. Tale è la Parola nel libro (il lógos embíblos),
nascosta e senza volto come la Parola nella carne (il lógos ensarkós), che
è il centro di verità della Scrittura»63.

7. La Scrittura «ispirata da Dio» è anche «ispirante Dio»?

In quel­­l’ampia e articolata contestualità pneumatica, precedente e


successiva al­­l’ispirazione biblica propriamente detta di cui abbiamo par-
lato64, trova più adeguata soluzione un problema ritornato attuale nel
dibattito ecumenico tra chiesa cattolica e chiese protestanti e riformate.
La Bibbia è parola di Dio perché «ispirata da Dio», oppure è tale perché
«ispira Dio, comunica Dio» nel cuore del credente? La Bibbia è in se
stessa parola di Dio, oppure diventa parola di Dio solo quando e in chi
l’accoglie come tale mediante la fede?
Un primo spunto interessante ci viene dalla Bibbia stessa; troviamo
nella Scrittura un libro notissimo e da sempre caro alla fede ebraica
e cristiana, il libro dei Salmi. Se letti dal punto di vista della teologia
del­­l’ispirazione, i Salmi creano una certa difficoltà; essi sono infatti pre-
ghiere espresse in forma poetica; ma, per definizione, la preghiera è ciò

63
K.H. Schelkle, Sacra Scrittura e Parola di Dio, 16s.
64
Vedi sopra, cap. 9.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  261

che gli esseri umani rivolgono a Dio. Il fatto che nella Bibbia si trovino
preghiere ha in realtà una conseguenza ermeneutica importante:

«Si rimane sorpresi, di primo colpo, che nella Bibbia vi sia un libro di pre-
ghiere. La Bibbia non è infatti tutta una parola rivolta a noi da Dio? Ora, le
preghiere sono parole umane, e perciò come possono trovarsi nella Bibbia?
Ma la Bibbia è parola di Dio anche nei Salmi! […]. Se la Bibbia contiene un
libro di preghiere, dobbiamo dedurne che la parola di Dio non è soltanto
quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi
rivolgere da noi»65.

«Così il concetto di ispirazione si arricchisce e diventa più complesso:


con i Salmi, riconosciuti come testi ispirati, la parola di Dio si comunica,
anzi si “incarna” non solo nel testo biblico ma anche in chi lo legge e
lo assume come preghiera. Il testo cresce con chi lo legge, come diceva
Gregorio Magno, e i Salmi crescono con chi li prega»66. Come sopra
abbiamo notato ricordando gli apporti del­­l’analisi narrativa e quelli della
linguistica pragmatica, il ruolo del lettore (in questo caso del­­l’ascoltatore
delle Scritture) è parte integrante del processo del­­l’ispirazione.
Approfondiamo adesso, alla luce degli apporti della teologia prote-
stante e riformata, alcuni aspetti relativi a questa qualità “oggettiva”
del­­l’ispirazione.

7.1. Lutero e Calvino67

Lutero e Calvino, i grandi padri della Riforma, accentuarono l’aspetto


oggettivo del­­l’ispirazione della Scrittura fino a sostenerne l’ispirazione
verbale68: nessun dubbio per Lutero sul significato passivo del theópneu-
stos di 2 Tm 3,16, che egli traduceva con von Gott eingegeben («infuso/
ispirato da Dio»)69.

65
D. Bonhoeffer, Pregare i Salmi con Cristo, Queriniana, Brescia 1978, 66.68.
66
B. Costacurta, Gli Scritti: una Parola che viene da Dio, in P. Dubovsky – J.P. Son-
net (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 75.
67
Cfr. L. Pacomio, Erasmo di Rotterdam e i riformatori protestanti: Lutero e Calvino,
in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio, 127-149; K. Barth, Dogmatique,
vol. I, tom. 2***, 61-69.
68
Vedi sopra, cap. 10, 4.
69
«Denn alle Schrift von Gott eingegeben ist nütze zur Lehre, zur Strafe…» (è questa la
262 La Bibbia è parola di Dio

Ma i Riformatori posero ugualmente l’accento sul­­l’aspetto soggettivo


del­­l’ispirazione, cioè sul­­l’intervento dello Spirito Santo nel lettore: nel
senso che la parola della Bibbia non può essere riconosciuta come pa-
rola di Dio se quello stesso Spirito non continua ad agire su coloro che
l’ascoltano e diventa anche per essi un evento. Per Lutero «Spiritus solus
intelligit Scripturas recte et secundum Deum. Alias autem, etsi intelligunt
non intelligunt»; «haereticus est, qui scripturas sanctas alio sensu quam
Spiritus Sanctus flagitat, exponit»70. Anche per Calvino, soltanto Dio può
testimoniare di sé: «Egli [Dio] solo è testimone sufficiente di sé, nella sua
Parola» prima, e «nel cuore degli uomini» dopo71; lo Spirito Santo pone
in atto la sua azione illuminatrice in ambedue le direzioni: «È necessario
dunque che lo stesso Spirito che ha parlato per bocca dei profeti entri
nei nostri cuori e li tocchi al vivo onde persuaderli che i profeti hanno
fedelmente esposto quanto era loro comandato dal­­l’alto»72. Ed è la stessa
sacra Scrittura lo «strumento con cui il Signore dispensa ai fedeli l’illu-
minazione del suo Spirito»73.
Tuttavia l’affermazione di principio della dimensione oggettiva del­­
l’ispirazione entra in crisi già in Lutero, allorquando, dovendo decidere
del­­l’estensione esatta del­­l’ispirazione nel NT, egli applica un criterio so-
stanzialmente soggettivo: Ist Bibel was Christum treibt, ovvero: è Bibbia
ciò che spinge / conduce a Cristo, un criterio che lo porta inevitabilmente
a distinguere nel NT tra libri ispirati e non, libri più ispirati e meno ispi-
rati74. Non diversamente in Calvino, per il quale il criterio qualificante la
realtà divino-ispirata della Scrittura e la sua canonicità non è la chiesa, ma
la stessa sacra Scrittura: infatti la Scrittura «è di per se stessa sufficiente

traduzione di Lutero di 2 Tm 3,16): cfr. Die Bibel oder die ganze Heilige Schrift des alten
und neuen Testaments II (nach der deutschen Übersetzung Dr. Martin Luthers), Köln
1859, 219.
70
Comm. ad Rom. 7,1; Ad lib. Ambr. Cath.; cit. in K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom.
2***, 63.
71
G. Calvino, Institutio christianae religionis 1,7,4 (cfr. Istituzione della religione cri-
stiana [1559], a c. di G. Tourn I, Torino 1971, 179).
72
Ibid.
73
Instit., 1,9,3 (G. Tourn I, 197s.).
74
Osserviamo come la frase citata non si trovi come tale nelle opere di Lutero. Cfr. la
prefazione alle lettere di Giacomo e Giuda citata al cap. 15.2. Il testo di Lutero che più si
avvicina è questo: «Auch ist dies der rechte Prüfstein, alle Bücher zu taddeln [= “indagare”
oppure “screditare”], wenn man sihet, ob sie Christum treiben oder nicht» (WA Deutsche
Bibel VII, 385,26).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  263

[…], ha tanta forza per commuoverci»75; essa «è in grado di farsi cono-


scere per virtù potente e infallibile, così come le cose bianche o colorate
mostrano il loro colore e le cose dolci o amare il loro sapore»76. Bibbia
ispirata e credenti che la riconoscono tale mediante l’illuminazione dello
Spirito chiudono il circolo teologico-ermeneutico della Scrittura.

7.2. K. Barth e E. Brunner77

K. Barth, nella linea dei padri della Riforma, sottolinea addirittura in


maniera polemica le due dimensioni del­­l’ispirazione biblica:

Noi l’abbiamo detto, lo stesso Paolo vede già nel canone del­­l’antica alleanza
una lettera santa, una scrittura rivestita di autorità divina, e considera le sue
parole come “dettate dallo Spirito”. Come negare che l’opera dello Spirito
Santo comporta ugualmente questo aspetto? Ma allora perché attaccar-
visi, per così dire, esclusivamente? Si comprende ancora ciò che significa
l’ispirazione dei profeti e degli apostoli, quando si dimentica che soltanto
attraverso lo Spirito essi hanno avuto comunicazione della rivelazione che
è alla base delle loro testimonianze parlate o scritte, e che i loro uditori e
lettori hanno essi stessi bisogno di questo medesimo Spirito per intenderle
veramente? Non significa oscurare pericolosamente l’intervento della libera
grazia, così chiaramente indicata in Paolo, il mettere in primo piano e come
alla nostra portata uno dei suoi effetti, dicendo: un giorno, in tale luogo,
alcuni hanno parlato e scritto sotto l’impulso dello Spirito Santo? Certo, la
cosa è perfettamente esatta: i profeti hanno parlato e scritto sotto l’impulso
dello Spirito Santo. È un fatto confermato da tutte le affermazioni di Paolo
stesso. Ma la grazia e il mistero che a ragione si sono riconosciuti in questo
fatto sono ancora la grazia e il mistero di Dio, della sua Parola nel senso
biblico del termine, quando se ne è ridotta la portata a quest’unico atto78?

Ma Barth, in coerenza con la sua teologia della analogia fidei contro


ogni analogia entis79, si accanisce contro ogni umana pretesa di capire

75
Instit., 1,8,1 (G. Tourn I, 183).
76
Instit., 1,7,2 (G. Tourn I, 176).
77
Cfr. anche B. Mondin, I grandi teologi del XX secolo, 2: I teologi protestanti e ortodossi,
Borla, Torino 1969, 21-84; B. Gherardini, La seconda Riforma 2, Morcelliana, Brescia
1966, 80-196; H. Bouillard, Karl Barth, 3 voll., Aubier, Paris 1957.
78
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 59.
79
L’analogia entis ritiene di poter dire qualcosa di Dio, della sua natura, dei suoi attri-
264 La Bibbia è parola di Dio

l’ispirazione biblica che è miracolo di Dio e basta, «di concepire (quel


miracolo) nella sua stessa inconcepibilità e di renderlo naturale in ciò
che ha di soprannaturale»80. In tutte e tre le forme in cui la parola di Dio
ci raggiunge: parola rivelata (rivelazione), parola scritta-ispirata (Bibbia)
e parola predicata (predicazione)81, la parola di Dio ha sempre questa
essenziale caratteristica: è Dei loquentis persona. Dio è e resta sempre il
soggetto della sua parola, e nessuna delle tre forme è in se stessa parola
di Dio consegnata alla conoscenza del­­l’uomo, bensì soltanto affidata al
riconoscimento della fede mediante lo Spirito di Dio: la conoscenza che
l’uomo può avere della divina Parola non può consistere che nel ricono-
scimento, e il riconoscimento non può divenire reale e comprensibile «se
non per l’azione di questa medesima Parola»82. Ciò vale anche, e soprat-
tutto, per la Scrittura che è «il concreto strumento mediante il quale la
chiesa può ricordare l’avvenuta rivelazione di Dio, e venire sollecitata,
autorizzata, guidata al­­l’attesa della rivelazione futura e, con essa, alla
predicazione»83. Allora, in che senso per K. Barth si può affermare: La
Bibbia è parola di Dio? Egli risponde:

La proposizione: «La Bibbia è la parola di Dio» è una confessione di fede,


una proposizione della fede la quale intende Dio stesso parlare nella parola
umana della Bibbia. E certamente, quando noi affermiamo questa propo-
sizione nella fede, noi la reputiamo vera indipendentemente dalla nostra
fede e al di sopra di ogni fede, noi la reputiamo vera contro la nostra stessa
incredulità, vera, non tanto come descrizione della nostra esperienza relativa
alla Bibbia, bensì come descrizione del­­l’azione di Dio nella Bibbia, quali che
siano d’altronde le esperienze che noi abbiamo potuto fare o non fare. Ma
è, precisamente, la fede quella che può distinguere e cogliere, al di là di se
stessa e di tutte le esperienze legate o meno alla fede, l’azione di Dio, il suo
accadimento in noi: cioè a dire, non è l’uomo che si impossessa della Bib-
bia, ma è la Bibbia che s’impossessa di lui. Così la Bibbia diventa parola di
Dio, e il termine “è” nella proposizione data: «la Bibbia è la parola di Dio»,
concerne il suo essere in questo divenire. Non è affatto a motivo del nostro

buti, partendo dal­­l’essere delle creature; l’analogia fidei è quella che si basa sulla rivelazione
divina e sulla sua grazia, che raggiunge noi e gli strumenti del nostro pensare e parlare, e
ci permette di fare uso degli strumenti (pensieri e parole) che la stessa rivelazione mette
a nostra disposizione.
80
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 59.
81
Cfr. K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 1*, 85-120.
82
Cfr. ibid., 192-220.
83
Ibid., 107.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  265

accordarle la nostra fede che la Bibbia diventa la parola di Dio, ma perché


essa diventa in questo modo, per noi, rivelazione. Ma d’altro canto, che la
Bibbia ci diventi rivelazione al di là della nostra fede, che essa sia parola di
Dio malgrado la nostra incredulità, è quanto noi non possiamo reputare
vero e confessare per nostro conto se non mediante la fede, contro ogni
incredulità, nella fede in seno alla quale noi guardiamo al­­l’azione di Dio
al di là della nostra fede o della nostra mancanza di fede – ma nella fede e
non nel­­l’incredulità. Ecco perché non possiamo prescindere dal­­l’azione di
Dio in virtù della quale la Bibbia deve diventare per noi, incessantemente,
parola di Dio84.

E. Brunner si muove nella stessa linea di Barth e della sua “teologia


dialettica”, fondata sul­­l’opposizione-contraddizione tra Dio e l’uomo,
tra la parola di Dio e il pensiero del­­l’uomo. Tuttavia Brunner si separa
da Barth quando si tratta di determinare la natura di questi due op-
posti e i rapporti tra loro esistenti. Mentre Barth non ha che dei no
per il polo umano, Brunner riconosce nel­­l’uomo un punto di contatto
(Anknüpfungspunkt), cioè il suo essere imago Dei che non è stata tolta
neppure al­­l’uomo peccatore e che lo rende capace di ricevere la parola
di Dio e di esserne responsabile:

La parola di Dio non causa nel­­l’uomo la capacità di ricevere la Parola. Tale


capacità egli non l’ha mai perduta; essa costituisce la condizione affinché
l’uomo possa udire la parola di Dio. Invece, il credere alla parola di Dio,
come pure la capacità di udirla alla maniera di chi credendo l’ascolta, sono
causati direttamente dalla parola di Dio85.

Ma, pur nel contesto di questa diversa teologia dialettica che in Brun-
ner diventa «teologia della corrispondenza, nella quale l’uomo è definito
come “essere responsabile”, “essere che risponde”, e, viceversa, la rivela-
zione è concepita come risposta di Dio mediante la sua automanifesta-
zione personale effettuata una volta per sempre»86, la risposta di Brunner
alla domanda: In che senso la Bibbia è parola di Dio, non è dissimile da
quella di Barth:

La fede cristiana è la fede nella Bibbia, nel senso che la Bibbia è il solo

84
Ibid., 106.
85
E. Brunner, Natur und Gnade, Furche, Berlin 1934, 19.
86
B. Mondin, I grandi teologi del XX secolo 2, 70.
266 La Bibbia è parola di Dio

luogo in cui Dio si indirizza a noi, ci giudica con la sua Parola, ci libera
dal giudizio e si comunica a noi come l’amore gratuito con il quale Dio ci
crea di nuovo87.

La parola della Bibbia diventa parola di Dio soltanto quando Dio stesso
ci parla. Ciò che nei confronti di Dio ci riempie di autentica adorazione,
di fiducia e di amore, non è questo principio assiomatico, ma l’autentico
incontro col Dio che si rivela a noi tramite la Scrittura […], ci chiama e si
intrattiene con noi88.

Soltanto Dio, in quanto colui che comunica se stesso a me, è parola di Dio. È
l’“Io” del Signore che mi eleva al rango di “suo servo” e che, al tempo stesso,
mediante la parola personale e paterna fa di me in Gesù Cristo il suo figlio.
Dio non ci istruisce su questo o su quello. Dio si apre personalmente a me
e con ciò mi apre ugualmente a me stesso. Tale è il significato che riveste
“la parola di Dio” nel suo incontro con me per mezzo della Bibbia: è un
dialogo tra persona e persona; ogni generalizzazione, ogni reificazione, ogni
oggettivazione è esclusa. La parola di Dio non è un qualcosa, qualcosa in
sé di obbiettivo, ma un processo diretto, una parola-esigenza e una parola-
grazia. La Bibbia non è “in sé” parola di Dio: lo è così poco quanto la fede
“in sé” è la fede. Ma in questo rapporto tra la parola di Dio e la fede, la
parola-atto di Dio, cioè quello che si è prodotto nella storia, viene per prima
come azione creatrice, e la fede viene sempre dopo come ciò che è creato89.

7.3. Dimensione “oggettiva” e “soggettiva” del­­l’ispirazione

Certo, ci può essere stata unilateralità da parte della teologia cattolica


nella difesa del­­l’ispirazione e del­­l’autorità divine del libro della Bibbia
in quanto tale; ci può essere stata un’insistenza unilaterale e radicalizzata
sul­­l’origine del­­l’ispirazione (Deus spirat), trascurando l’obiettivo che la
conferma (spirat Deum). Ma si deve proprio scegliere tra i due poli, o non
piuttosto recuperarli entrambi in una teologia completa del­­l’ispirazione
biblica e della parola di Dio? I cattolici hanno insistito sul­­l’origine della
Bibbia, che è Dio, autore di essa per mezzo del­­l’ispirazione; i protestanti
hanno insistito sul­­l’obiettivo della Bibbia, che è Dio che salva gli uomini

87
E. Brunner, Dogmatique III, Labor et Fides, Genève 1967, 299.
88
Ibid., 298.
89
Ibid., 306.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  267

attraverso la fede. Il teologo cattolico parlava di ispirazione, e pensava


per lo più al­­l’ispirazione che parte da Dio e fa di Dio l’autore della
Bibbia; molti teologi protestanti parlavano di ispirazione e pensavano
al­­l’ispirazione che esce dalla Bibbia e va verso la vita. Così da un lato è
necessario recuperare l’influenza e l’obiettivo che l’azione ispiratrice di
Dio vuol raggiungere nella vita degli uomini; dal­­l’altro non perdere la di-
mensione oggettiva del­­l’ispirazione, che è fondamento del­­l’obiettivo che
l’ispirazione si prefigge. La Bibbia non è soltanto una parola umana che
parla di Dio, ma è anche una parola detta da Dio: indipendentemente
da ciò che il lettore (credente o no) avverte dentro di sé, la realtà della
parola di Dio esiste per se stessa, obiettivamente.
Il dato biblico e di fede che la Bibbia è ispirata da Dio e perciò parola
di Dio non è una faccenda personale e soggettiva, dipendente dalla
fede o meno di chi l’accosta. La fede non trasforma con un intervento
soggettivo la parola umana della Bibbia in «parola di Dio»; la fede “sco-
pre” la parola di Dio nella Bibbia, non “fa” della Bibbia una parola di
Dio. Il paragrafo «sacra Scrittura e parola di Dio», redatto dal teologo
evangelico Ferdinand Hahn, figura nella trattazione comune nella quale
tutti i cristiani possono ritrovarsi, e non nella sezione delle «Questioni
aperte tra le chiese» del Nuovo Libro della Fede90. Formulato alla maniera
del­­l’evangelico Hahn, il problema trova – ci pare – adeguata soluzione,
pur lasciando a ciascuna confessione la sottolineatura che le è propria.
A proposito della frase: «Dovremmo dire piuttosto che la Bibbia non è
parola di Dio, bensì diventa parola di Dio per colui che crede in essa
come nella parola di Dio?», Hahn afferma:

Questa frase ha un suono pericoloso. Se ne potrebbe dedurre che la parola


di Dio sia una faccenda puramente soggettiva. Se s’intenda o non s’intenda
la Bibbia come parola di Dio sembra una faccenda di fede, e quest’ultima
dipende dalla volontà del­­l’uomo. Ma questo sarebbe un pernicioso equivoco.
La fede è l’unica capace di ascoltare la parola di Dio in quella biblica perché
essa è fondata appunto sul­­l’invito, che essa soltanto coglie nella parola bi-
blica, a costruire su Dio che si è annunciato liberatore nella storia d’Israele
e in Gesù Cristo […]. Per chi non accoglie questo invito, per chi non crede,
la Bibbia resta né più né meno la parola umana che di fatto è. Anche se lo
storico e in particolare lo storico delle religioni devono ammettere che questa

90
F. Hahn, Sacra Scrittura e Parola di Dio, in J. Feiner – L. Vischer (edd.), Nuovo
libro della fede, Queriniana, Brescia 1975, 104-108.
268 La Bibbia è parola di Dio

parola umana della Bibbia contiene una serie di sorprendenti peculiarità che
non è dato osservare altrove, ciò non significa affatto che in quanto storici,
in quanto studiosi di religioni, noi possiamo per così dire scientificamen-
te acclamare la presenza della parola di Dio nella Bibbia […]. Se quindi
affermiamo la piena autorità della parola di Dio scritta, ciò non vuol dire
affatto che la parola di Dio “sia lì”, in modo che non gli occorra far altro che
indicarla a chiunque sia capace di leggere. La parola di Dio viene al­­l’uomo
come promessa e pretesa, e ne avverte la forza solo colui che si espone a
quest’ultima. Altrettanto erroneo sarebbe affermare che la parola di Dio “av-
viene” là dove la parola biblica viene ascoltata come parola di Dio, La parola
di Dio, l’invito alla fede, ha di fatto trovato la sua verbalizzazione definitiva
nella Scrittura. È certo che la parola di Dio nella Bibbia appella alla fede
e tramite la fede si fa parola vivente e creatrice di vita: e tutto avviene non
senza un’azione “soggettiva”: non si dà fede che prescinda da una vita “sog-
gettiva”, personale e dal suo rapportarsi a una comunità. Che, ciononostante,
non scivoliamo in un certo qual “soggettivismo”, dipende dalla struttura
della fede stessa: la medesima fede che intende e sperimenta se stessa come
atto assolutamente personale del­­l’uomo, s’intende nel contempo non come
prestazione “soggettiva” del­­l’uomo, bensì come dono di Dio. Ma con ciò la
fede non “fa” della Bibbia la parola di Dio, con un intervento soggettivo:
essa la scopre come parola di Dio, facendosela scendere nel cuore inattesa,
incoercibile, insospettata, come apostrofe liberante di Dio91.

A queste riflessioni provenienti dal­­l’ambito della teologia protestante


dovremmo ancora aggiungere il risultato, se vogliamo molto meno teo-
logico, degli apporti della linguistica pragmatica, per la quale la comu-
nicazione è essenzialmente un evento interattivo92; in quest’ottica, l’ispi-
razione non può più essere concepita soltanto come una comunicazione
a senso unico: da Dio verso l’uomo. Dev’essere invece pensata come un
vero e proprio dialogo, nel quale interviene anche il lettore (cfr. sopra, pp.
44ss., circa il carattere dialogico della rivelazione). Così, ciò che la lingui-
stica definisce il lettore “empirico” è invitato a entrare in sintonia con il
testo, il quale diviene, allo stesso tempo, un testo “ispirato” e “ispirante”.
Le conseguenze per la dottrina del­­l’ispirazione sono notevoli: lo Spirito
che un tempo ha ispirato gli autori della Scrittura non cessa perciò di

91
Ibid., 106s. Sostanzialmente su questa linea si muove il Documento L’autorità della
Bibbia della Commissione «Fede e Costituzione» del CEC, approvato nel­­l’incontro di
Lovanio nel 1971 (vedi Bibliografia al­­l’inizio del capitolo).
92
Cfr. K.L. Berge, Communication, in J.L. Mey (ed.), Concise Encyclopedia of Prag-
matics, Oxford 1998, 140-142.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  269

ispirarne i lettori lungo tutti i secoli; «il momento del­­l’ispirazione avviene


nel momento in cui il testo si incontra con il lettore»93.
Appare chiaro dunque che, ancora una volta, si debba esprimere il
problema non nei termini di un «aut… aut», bensì in quelli di un «et…
et». Le dimensioni “oggettiva” e “soggettiva”, sia del­­l’ispirazione che della
densità teologica della parola di Dio, vanno ambedue conservate, di-
stinte ma non separate perché la prima è il fondamento della seconda.
La Bibbia, perché «ispirata da Dio», è già in se stessa parola di Dio in
linguaggio umano; ma questa parola di Dio scritta attende incessante-
mente di diventare parola di Dio vivente ed efficace per la salvezza degli
uomini, qui ed ora, mediante un ascolto e un accoglimento di fede. Per
scoprire la parola di Dio nella Bibbia occorre mettersi non “dal di fuori”,
ma “dal di dentro” (cfr. Mc 4,11s.), cioè occorre porre in atto la fede.
D’altronde non è possibile accedere alla parola di Dio mediante la fede,
senza la mozione e l’illuminazione dello stesso Spirito Santo (cfr. DV 5 e
12), che è al­­l’origine di quella parola di Dio (prima vissuta e parlata, poi
scritta) e che suscita anche la risposta del credente (di nuovo l’assunto
patristico Divina eloquia cum legente crescunt)94. Davvero, l’unica anten-
na capace di porsi in sintonia di obbediente ascolto della parola di Dio
è lo Spirito Santo presente nella Bibbia e presente nel­­l’uomo che crede.
Senza questo Spirito la Bibbia resta là, in ultima istanza inservibile, come
un potenziale di luce e di vita che l’uomo con le sole sue forze non può
innescare95. La preghiera di sant’Agostino dovrebbe essere la preghiera
di ogni lettore credente:

Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse
Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te
a te. Ora non lo posso interrogare. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei,
lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole […] invece non lo
posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità, Dio mio, da cui era perva-
so quando disse cose vere; mi rivolgo a te: perdona i miei peccati. E tu, che
concedesti al tuo Servo di enunciare queste cose vere, concedi anche a me
di capirle (et qui illi servo tuo dedisti haec dicere, da et mihi haec intelligere)96.

93
P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 355; cfr. M. Grilli,
L’“ispirazione” della Scrittura in chiave comunicativa, ibid., 222-240.
94
PL 76,843 («Nam tanto illa [divina eloquia] quisque altius intendit, quanto in eis altius
intendit»): Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, 1,7,8 (Città Nuova, Roma 19962).
95
Vedi sotto, cap. 19, 1.3.
96
Agostino, Conf. XI 3,5 (Le Confessioni, Città Nuova, Roma 1965, 370s.).
270 La Bibbia è parola di Dio

8. I libri sacri delle grandi religioni97

Gli storici distinguono le religioni secondo la presenza o l’assenza di


un libro sacro: religioni con una rivelazione scritta e religioni che vivono
sulla base di una tradizione orale.
A parte la legittimità o meno della distinzione, sta di fatto che molte
religioni, oltre quella ebraica e cristiana, trovano (o hanno trovato) la
norma della loro fede e della loro pratica morale e religiosa nei rispettivi
libri sacri. Si pensi, in riferimento alle grandi religioni viventi: al Corano
del­­l’islam, ai Veda del­­l’hinduismo, al Tripitaca del buddhismo, al Kojiki
e al Nihonshoki dello shintoismo ecc.
Il fenomeno del libro sacro può acquisire, globalmente o separatamen-
te, le seguenti caratterizzazioni98: esclusività del libro, considerato come
unico portatore di una rivelazione o di uno statuto salvifico o normativo,
con tendenza a fissarne l’esatta estensione (canone); uso liturgico dei testi
e tendenza a ritualizzare l’atteggiamento cultuale nei confronti del libro;
la sua funzione di tavola di fondazione delle strutture sociali del gruppo
e di norma dei suoi comportamenti; il conseguente approccio esegetico
al testo sacro, di tipo fondamentalista o ermeneutico.
Il significato e il valore dei libri sacri delle grandi religioni viventi è
oggi particolarmente vivo e ricco di conseguenze per il cristianesimo
che vive a contatto con altre religioni, come in India e in Africa, dove

97
Cfr. Aa.Vv., Libri Sacri e Rivelazione, La Scuola, Brescia 1975; A. Giudici, Reli-
gioni e salvezza. Un confronto tra la teologia cattolica e la teologia protestante, Borla, Roma
1978; L. Newbigin, Cristo valore definitivo: il vangelo e «le religioni», EDB, Bologna
1972; I. Vempeny, Inspiration in the non-biblical Scriptures, Theological Publications in
India, Bangalore 1973; P. Rossano, Teologia e Religioni: un problema contemporaneo, in
R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale,
Queriniana, Brescia 1980, 374-376 (359-378). Notiamo come tale questione sia oggi
piuttosto trascurata nel­­l’ambito cattolico; si pensi alle enormi difficoltà incontrate dal
saggio di J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia
1997, che ha tuttavia riscosso consensi da parte di pastori e teologi. Sul­­l’argomento, cfr.
anche B. Forte, La Parola di Dio nella Sacra Scrittura e nei libri sacri delle altre religioni,
in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congre-
gazione per la Dottrina della Fede, Roma, settembre 1999, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2001, 106-120.
98
A.M. Di Nola, Libro Sacro, in ER 3, coll. 1505-1513; P. Rossano., Il problema
teologico delle religioni, Edizioni Paoline, Catania 1975.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  271

il problema pastorale-liturgico del­­l’uso o meno di testi non cristiani


diventa spesso ineludibile99.
Nel contesto del­­l’ispirazione della Bibbia, oggetto del nostro interesse,
noi ci poniamo una sola questione: se, e – in caso affermativo – in quali
termini, si può parlare di “ispirazione” in riferimento ai libri sacri delle
altre grandi religioni. Si tratta, evidentemente, di un tentativo di risposta
dal punto di vista cristiano e cattolico.

8.1. La rivelazione e le grandi religioni non cristiane

Il tentativo di risposta parte da una premessa teologica, che ha i suoi


fondamenti nella sacra Scrittura e che la tradizione della chiesa, culmi-
nante per noi nel concilio Vaticano II, ha reso più esplicita. Pur con l’i-
nevitabile rischio di semplificazione, potremmo descrivere tale premessa
con una serie di proposizioni.
Noi crediamo nella volontà salvifica universale di Dio. Dio non è
una realtà che si nasconde, ma in vista del­­l’universale salvezza si rivela,
si rende accessibile, si auto-comunica. Dio non ha mai cessato, sin dai
primordi della creazione, di rivelarsi agli uomini mediante una rivela-
zione che raggiunge in molti modi ogni uomo e che possiamo chiamare
rivelazione naturale. La definitiva e completa rivelazione di Dio, in vista
del­­l’universale salvezza, è quella soprannaturale-storica che raggiunge
l’incomparabile in Gesù di Nazaret. Il carattere assoluto della rivelazione
di Dio in Gesù Cristo non cancella il carattere genuino di quelle rivela-
zioni che continuiamo a chiamare naturali, anche se avvenute tramite
esperienze religiose singolari di alcuni leader che sono al­­l’origine delle
grandi religioni non cristiane100. Gli elementi genuini di rivelazione e di
esperienza religiosa presenti in queste religioni tendono nel­­l’intenzione di
Dio, quindi oggettivamente, alla rivelazione compiuta biblico-cristiana,
così come i credenti non cristiani sono ordinati nel­­l’intenzione di Dio,
quindi oggettivamente, alla chiesa-popolo di Dio. I valori positivi delle
grandi religioni sono stati tradotti nei rispettivi libri sacri, anche se me-

99
Cfr. Concilium 2/1976, dedicato interamente a: «L’uso delle scritture indù, buddhi-
ste, musulmane nel culto cristiano».
100
Cfr. G. O’Collins, Cristo e i non cristiani, in Id., Teologia fondamentale, 144-162.
272 La Bibbia è parola di Dio

scolati – se considerati dal punto di vista cristiano – a visioni parziali o


persino ad errori più o meno gravi, sul piano sia dottrinale che morale.
Da ciò consegue l’atteggiamento del cattolicesimo nei confronti delle
altre grandi religioni, suggerito dallo stesso concilio Vaticano II:
La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei pre-
cetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto
essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di
quella verità che illumina tutti gli uomini […].
Essa perciò esorta i suoi Figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del
dialogo e la collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre ren-
dendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e
facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano
in essi (NA 2).

Ogni elemento di verità e di grazia presente e riscontrabile, per una nascosta


presenza di Dio, in mezzo alle genti, essa [chiesa] lo purifica dalle scorie del
male e lo restituisce intatto al suo autore, cioè a Cristo […]. Perciò ogni
elemento di bene riscontrabile nel cuore e nella mente umana, o negli usi
e civiltà particolari di popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato ed
elevato e perfezionato per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la
felicità del­­l’uomo (AG 9; cfr. anche AG 3 e le citazioni patristiche nella nota
2 dello stesso paragrafo).

8.2. Ispirazione e libri sacri delle altre religioni

Riconoscere nelle grandi religioni «elementi di verità e di grazia» o


«un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (si noti tutta-
via come il concilio eviti accuratamente il vocabolo “rivelazione” anche
naturale), significa porre in qualche modo il problema del valore dei
rispettivi libri sacri, strumento privilegiato di trasmissione e di conser-
vazione di quelle verità.
Alla questione che ci siamo posti al­­l’inizio: «Se possiamo parlare di
ispirazione di quei libri», proponiamo il seguente tentativo di risposta
descrittiva.
1 – I libri sacri delle altre religioni non possono essere chiamati ispi-
rati, nel senso del­­l’ispirazione che il cristiano applica alla Bibbia che è
parola di Dio perché scritta sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Scrive
M. Dhavamony:
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  273

Parlando di ispirazione, dobbiamo distinguere tra ispirazione numinosa o re-


ligiosa e ispirazione biblica. Dal punto di vista fenomenologico, l’ispirazione
numinosa è quel­­l’esperienza avvertita da una persona religiosa quando è in
contatto col sacro o col divino e lo esprime, siccome lo ritiene vero, auten-
tico e significativo, mediante composizioni orali o scritte. Una persona in
queste condizioni si sente chiamata a realizzare certi compiti religiosi […].
Le composizioni orali o scritte di questi uomini religiosi sono spesso dette
ispirate poiché contengono detti ispirati; gli uomini ne sono gli unici autori.
Ma l’ispirazione biblica comporta che sia lo Spirito al­­l’opera come impulso
vitale, come forza che tutto anima negli eventi e nelle parole contenute nella
Bibbia e che ha portato alla stesura. La Bibbia è l’opera dello Spirito nel sen-
so diretto e reale del termine. La stesura della Bibbia è parte della struttura
complessiva degli eventi guidati dallo Spirito. L’uomo e Dio sono, ad un
tempo, autori della Bibbia. Le Scritture indù (per esempio) possono essere
dette ispirate solo nel­­l’accezione numinosa del termine, nella misura in cui
esse contengono parole di elevato valore religioso pronunciate da uomini
che erano illuminati101.

La definizione del Vaticano I sul­­l’ispirazione delle sacre Scritture102


può essere qui opportunamente richiamata. Il fatto di «contenere la
rivelazione senza errore» non è argomento sufficiente per assicurare l’i-
spirazione della Bibbia; a maggior ragione, la presenza di frammenti
di verità o anche di parziali verità su Dio e sul­­l’uomo nei libri sacri
delle altre religioni, né fonda la loro ispirazione, né ha bisogno del­­
l’ispirazione per essere giustificata. L’ispirazione biblica propriamente
detta non riguarda tanto i contenuti dei libri quanto piuttosto l’attività
del linguaggio scritto; inoltre, manca assolutamente agli scritti sacri delle
religioni la garanzia ecclesiale della loro ispirazione (vedi il «come tali
sono stati consegnati alla chiesa» del Vaticano I), quella appunto che
l’economia storica della rivelazione ebraico-cristiana e del­­l’ispirazione
biblica richiede per sua natura.
2 – Esclusa l’ispirazione nel senso tecnico e cattolico, si può parlare
di “presenza” e di “attività” dello Spirito di Dio? È la scelta fatta nel
«Seminario di ricerca sulle Scritture non Bibliche» di Bangalore (India),
organizzato dal «Centro Nazionale Biblico Catechetico e Liturgico» tra

101
M. Dhavamony, Induismo. La posizione della liturgia cristiana nei confronti dei testi
sacri indù, in Concilium 2/1976, 30s.
102
Vedi sopra, cap. 10, 5.
274 La Bibbia è parola di Dio

l’11e il 17 dicembre 1974103. Nella Dichiarazione finale (nn. 45-78),


approvata al­­l’unanimità con una sola astensione, sono contenute le pro-
spettive dottrinali sulle quali i partecipanti al Seminario vorrebbero che
la chiesa cattolica in India impostasse la sua azione pastorale104.
La chiesa in India deve «cercare di comprendere come il pluralismo
delle religioni sia connesso con il mistero della presenza di Dio in Cristo,
ed il ruolo che le sacre Scritture, che custodiscono gelosamente queste
esperienze, occupano nel manifestare la venuta salvifica di Dio tra noi»
(n. 45). La nostra fede in Cristo non può isolarci dalle altre religioni:
«Noi siamo consapevoli nella nostra esperienza di fede di una reciproca
viva connessione con le esperienze di altre religioni» (n. 47). Mentre
Cristo continua a mantenere per noi un ruolo assolutamente unico (nn.
48-49), noi crediamo nel­­l’azione dello Spirito Santo nelle altre esperien-
ze religiose (n. 50). Se lo Spirito di Dio è attivo in queste religioni, è
anche «l’attività dello Spirito Santo a far sì che questi testi riflettano le
esperienze di queste comunità e dunque le renda autorevoli per queste
stesse comunità […]. Questa attiva presenza dello Spirito non comporta
il completo adeguamento ai singoli insegnamenti e alla concezione del
mondo di questi sacri testi; eppure noi cristiani crediamo che questa
azione dello Spirito porti a queste Scritture una suprema autorevolez-
za religiosa (an over-all religious authority) per queste comunità, come
mezzi donati da Dio per condurle al loro ultimo destino» (n. 54). «Lo
Spirito Santo ci conduce a riconoscere i suoi doni elargiti in questi testi.
[…]. Noi siamo chiamati ad un profondo dialogo con i nostri fratelli
delle altre religioni. È in questa prospettiva che dobbiamo considerare
l’uso delle Scritture non cristiane nella nostra vita e nel culto» (n. 55).
Nessuna dichiarazione cristiana, come questa di Bangalore – anche se
non porta nessun crisma di ufficialità della chiesa in India come tale –, si
era spinta fino a tanto. Nella risposta al problema: «Se e in che senso le
Scritture di altre religioni possano essere ritenute ispirate», nelle conclu-
sioni del Seminario di Bangalore si evitò l’uso del termine «ispirazione»,
ma la presenza e l’attività dello Spirito Santo nella formazione di quei te-
sti sacri venne esplicitamente riconosciuta, come un aspetto della divina

103
Cfr. Aa.Vv., Research Seminar on non-biblical Scriptures, Bangalore 1974.
104
Cfr. Statement of the Seminar, ibid., 681-695; per un breve resoconto sul «Semi-
nario» di Bangalore, cfr. J. Neuner, Induismo. Seminario sui testi sacri non biblici, in
Concilium 2/1976, 36-46.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  275

Provvidenza nei confronti di quei popoli e per la loro crescita spirituale.


La conclusione dello Statement (n. 78, p. 695) afferma:

In questo Seminario abbiamo offerto una nuova visione delle “meravigliose


opere di Dio” nascoste nelle tradizioni religiose del nostro paese. Abbiamo
riconosciuto, come mai prima d’ora, nei sacri testi delle altre religioni la
dinamica presenza dello Spirito, che porta i nostri connazionali sempre più
profondamente in quel mistero che ci è rivelato in Gesù Cristo105.

8.3. Parola di Dio e Spirito di Dio inseparabili

Certo, lo Spirito «soffia dove vuole» (Gv 3,8), e non possiamo limitar-
ne la presenza e l’azione. Ma come riconoscerlo, sì da poterne affermare
storicamente la presenza, sulla base di alcuni criteri che siano in qualche
misura oggettivamente verificabili? Chiamare in causa l’unità del proget-
to salvifico di Dio e l’orientamento a Cristo di ogni autentica esperienza
religiosa è ancora generico e non probativo, né tanto meno giustifica un
parallelismo dei libri sacri non cristiani con l’AT e i suoi libri, la cui ispi-
razione e relativo riconoscimento sono legati ad una precisa economia
storica, culminante in Gesù Cristo e nella chiesa apostolica.
Proponiamo pertanto la seguente riflessione. Da un capo al­­l’altro della
Bibbia, parola di Dio e Spirito di Dio non cessano di agire insieme106.
È lo Spirito di Dio che presiede, dal­­l’interno e dal profondo, alla prima
universale parola di Dio che è la creazione e che risuona nella coscienza
di ogni uomo «creato ad immagine di Dio», creato per Dio; è lo Spirito
di Dio che presiede alla storia della salvezza (storia e profezia) del­­l’unico
popolo di Dio, diventata libro umano e divino nella Bibbia, in virtù
del­­l’ispirazione. Ma il Verbo, «per mezzo del quale tutto è stato creato»,
«illumina ogni uomo» (Gv 1,3.9), e la «storia della salvezza» ha gli stessi
confini della prima e della seconda creazione. Riconoscere nella storia-
parola universale «i semi del Verbo» (Ireneo), significa simultaneamente
inverare la presenza e l’azione del­­l’unico e identico Spirito di Dio che
tutto predispone e attrae verso la pienezza della verità-salvezza, cioè Gesù
Cristo. «Tutto ciò che è vero, nobile, giusto…» (Fil 4,8) non può non

105
Aa.Vv., Research Seminar on non-biblical Scriptures, 695.
106
Vedi sopra, cap. 9.
276 La Bibbia è parola di Dio

scaturire dallo Spirito di Dio, che è «uno solo» (1 Cor 12,4-11; Ef 4,4-6);
la presenza dello Spirito Santo sui pagani (cfr. At 10,44) fu per la chiesa
apostolica la storica dimostrazione che «lo Spirito di Dio era stato effuso
sopra ogni uomo» (Gl 2,28; At 2,17s.).
Esistono, dunque, «semi del Verbo» ed anche «semi dello Spirito» nelle
grandi religioni e nei loro scritti sacri? Certamente, sì. Verità e valori,
non in contraddizione con il mistero della salvezza rivelato e attuato
in Cristo, anzi in profondo accordo con alcune verità della rivelazione
biblica, sembrano là disseminati, pur in maniera frammentaria, pur me-
scolati a deviazioni e inseriti in una concezione globale del mondo e della
storia divergente. Dal punto di vista cristiano e cattolico, non ci pare
che esista altro criterio storicamente verificabile che non sia quello del
confronto con le sacre Scritture del­­l’AT e del NT. Là dove le verità espresse
nei libri sacri non cristiani si incontrano con la rivelazione biblica, ivi è
il segno della presenza e del­­l’azione dello Spirito di Dio, ivi è anche il loro
misterioso orientamento a Cristo107.

Eternamente concepito, il Cristo fu lungamente generato: è questo uno dei


significati delle genealogie evangeliche, che sono per eccellenza “prepara-
zioni evangeliche”. L’incarnazione si preparava fin dal­­l’emissione del Verbo
efficace, mediante il quale Dio unisce a sé ciò che egli crea; si preparava poi
mediante la voce dei profeti d’Israele e anche (non però ugualmente) mediante
la voce della coscienza lucida degli uomini più sublimi di tutti i popoli, e
ancora mediante queste voci, diffuse e confuse, portatrici di tradizioni, che
formano il pensiero comune e l’eredità culturale di ogni società umana. È a
questa profondità che la grazia divina predispone l’umanità ad una progres-
sione che deve compiersi nella pienezza del Cristo totale108.

Riconoscere la presenza attiva dello Spirito di Dio nei frammenti o


raggi di verità contenuti nelle grandi religioni e nei rispettivi libri sacri,
non è un invito al sincretismo religioso o al relativismo, e neppure al­­

107
La rivelazione contenuta nelle Scritture è dunque la chiave ermeneutica per accoglie-
re le Scritture di altre religioni e valutarle alla luce di questa rivelazione di Dio in Cristo:
«pertanto, i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l’esistenza dei
loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi
presenti» (Dominus Iesus, n. 8).
108
J. Dournes, Lecture de la Déclaration par un Missionnaire d’Asie, in A.P.M. Henry,
Les relations de l’Église avec les Religions non chrétiennes. Déclaration «Nostra Aetate» («Unam
Sanctam» 61), du Cerf, Paris 1966, 91.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti  277

l’accettazione passiva di due tipi di verità religiose destinate a camminare


in parallelo senza mai incontrarsi. Mentre i cristiani sono chiamati a
scoprire vestigia della verità rivelata nei libri sacri delle altre religioni, i
non cristiani sono chiamati a vedere in Cristo e nelle Scritture ebraiche
e cristiane l’adempimento ultimo dei loro libri sacri e delle esperienze
genuinamente religiose che vi si riflettono. Il cristianesimo considera se
stesso come il culmine di tutta la divina rivelazione, ma guarda alle altre
religioni come capaci di illuminare la rivelazione assoluta di Dio in Gesù
Cristo, e, indirettamente, di renderla più chiara. Tornano alla memoria
le parole di R. Guardini:

C’è soltanto un individuo che potrebbe suggerire l’idea di un accostamento


a Gesù: Buddha. Grande è il mistero che circonda quest’uomo. La libertà
che egli possiede è enorme, quasi sovrumana. Egli però dimostra anche una
bontà straordinaria, possente, come lo è una forza di dimensioni mondiali.
Buddha sarà forse l’ultimo individuo con il quale il cristianesimo è chiamato
a confrontarsi. Ciò che egli significhi dal punto di vista cristiano non ce l’ha
detto ancora nessuno. Forse Cristo non ha avuto soltanto un predecessore
nel­­l’AT, Giovanni, l’ultimo dei profeti, ma anche un altro che viene dal cuore
della cultura antica, Socrate, ed un terzo che ha proferito l’ultima parola
della conoscenza e superamento religioso orientali. E costui è Buddha109.

109
R. Guardini, Der Herr, Würzburg 196112, 360 (il brano citato manca nella trad.
it., Il Signore, Vita e Pensiero, Milano 19502).
parte quarta
IL CANONE
DELLE SACRE SCRITTURE
Nel­l’esperienza umana tutto è provvisorio, relativo, ambivalente. È
così difficile trovare una norma sicura, un criterio universalmente valido
per il discernimento del bene, per l’orientamento della vita e della storia
degli uomini. Oggi, più di sempre, siamo alla ricerca di un canone. Ab-
biamo occhi, ma non vediamo. «Chi conosce i segreti del­l’uomo se non
lo spirito del­l’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li
ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio» (1 Cor 2,11).
Per la fede cristiana, Dio ha assunto uno dei mille cammini della
storia, quello appunto della tormentata vicenda del popolo ebraico cul-
minante in Gesù Cristo e nella chiesa apostolica, quale criterio sicuro
da offrire agli uomini per comprendere e vivere l’universale storia della
salvezza.
Il significato del canone della Bibbia, in fondo, è tutto qui. «Bibbia
alla mano», le persone possono “visitare” il mondo e la vita, non da sem-
plici turisti ma da pellegrini responsabili. La Bibbia è guida per leggere
e capire il progetto di Dio e realizzarlo. Grazie alla risurrezione di Gesù
Cristo e alla comunicazione del suo Spirito, sono nati gli occhi per vede-
re, il cuore per capire, la potenza per avanzare. La chiesa, in virtù dello
Spirito Santo di Cristo risorto, ha riconosciuto le tracce di Dio e dello
Spirito in alcuni libri, dei quali ha fatto un elenco preciso, chiamato
canone. Nelle Scritture sacre i credenti vanno a cercare i saldi punti di
riferimento per capire e vivere la vita a dimensione umana:
«Aprimi gli occhi, o Dio, perché io consideri
le meraviglie della tua legge.
Forestiero sono qui sulla terra:
non nascondermi i tuoi comandi.
282 Il canone delle sacre Scritture

Ho esaminato le mie vie,


ho rivolto i miei piedi verso i tuoi insegnamenti.
Prima di essere umiliato andavo errando,
ma ora osservo la tua promessa.
Sono più saggio di tutti i miei maestri,
perché medito i tuoi insegnamenti.
Lampada per i miei passi è la tua Parola,
luce sul mio cammino» (dal Sal 119).
12.
Il canone del­l’Antico Testamento

Bibliografia: Per il canone del­l’AT e del NT, oltre alle Introduzioni (vedi Bibliografìa
generale), cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, in Nuovo Grande Commentario
Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1355-1381; H. von Campenhausen, La formation
de la Bible chrétienne (1968), Delachaux & Nestlé, Neuchâtel - Paris 1971, capp. I-III;
T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scritture
(LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 11-46; Id., Il problema del canone biblico: un capi-
tolo di teologia fondamentale, in ScuolCatt 107 (1979) 549-590; H. Höpfl, Canonicité,
in DBS 1, coll. 1022-1045; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza, 1:
Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 113-152; P. Neuenzeit, Canone, in
DT 1, 200-216; Id., Canone, in SM 2, coll. 20-30; L. Pacomio, Scrittura (Sacra), in
DTI 1, 210-215.
J.-N. Aletti – E. Haulotte et alii, Le canon des Écritures. Études historiques, exégé-
tiques et systématiques sous la direction de C. Theobald («Lectio Divina» 140), du Cerf,
Paris 1990; A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e Parola di Dio, Paideia, Brescia
1994, 53-115; G. Aranda, Il problema teologico del canone biblico, in M. Tábet (ed.), La
Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di
Teologia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 13-35; G. Bellia – D. Gar-
ribba (edd.), Trasmettere la Parola nel I-II secolo: verso la formazione di un corpus cristiano
normativo. Atti del XV Convegno di Studi Neotestamentari (Bologna, 12-14 settembre
2013), in RicStoBib XXVII (2/2015); P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei
profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Milano - Roma 2012, 226-246; L.M.
McDonald, The Biblical Canon. Its Origin, Transmission, and Autorithy, Hendrickson,
Peabody/MA 2007; L.M. McDonald – J.A. Sanders (edd.), The Canon debate: On the
origins and formation of the Bible, Hendrickson, Peabody/MA 2002; J.-L. Ska, Forma-
zione del Canone delle Scritture ebraiche e cristiane, in Id., Il libro sigillato e il libro aperto,
EDB, Bologna 2004, 115-164; M. Tábet, Ispirazione biblica e canonicità dei Libri Sacri,
in A. Izquierdo (ed.), Scrittura Ispirata. Atti del Simposio internazionale sul­l’ispirazione
promosso dal­l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (Atti e Documenti 16), Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 80-117.

Per il canone del­l’AT, cfr. J. Blenkinsopp, Prophecy and Canon. A Contribution to the
Study of Jewish Origins, University of Notre Dame, London 1977; B.S. Childs, Intro-
284 Il canone delle sacre Scritture

duction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979; O. Eissfeldt, The Old
Testament. An Introduction, Basil Blackwell, Oxford 1966, 559-668 [trad. it., Introduzione
al­l’AT, 4: Il canone e il testo, Paideia, Brescia 1984]; S.A. Leiman, An Introduction to the
Canon and Masorah of the Hebrew Bible. Selected Studies with a Prolegomenon by S.Z.
Leiman, Ktav, New York 1971; Id., The Canonization of Hebraic Scripture. The Talmu-
dic and Midrashic Evidence, Archon Books, Hamden/CT 1976; R.E. Murphy – A.C.
Sundberg – S. Sandmel, A Symposium on the Canon of Scripture, in CBQ 28 (1966) 189-
207; J. Sanders, Torah and Canon, Fortress, Philadelphia/PA 1972 [trad. fr., Identité de
la Bible. Torah et Canon («Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975]; Id., Text and Canon:
Concepts and Method, in JBL 98 (1979) 5-29 A.C. Sundberg, The Old Testament of the
Early Church, Harvard University Press, Cambridge/MA 1964.

1. Storia e significato di una terminologia1

In molte religioni esiste un “canone” di Scritture sacre, di testi ricono-


sciuti come ispirati e normativi. Spesso si arriva al riconoscimento di un
tale corpus attraverso processi più o meno lunghi legati a una tradizione
orale, al­l’esclusione di alcuni libri sentiti come non corrispondenti alla
tradizione più antica e alla decisione di una comunità religiosa o dei suoi
rappresentanti circa l’appartenenza o meno di un determinato testo al
corpo delle Scritture riconosciute come sacre. Da quel momento, i testi
divengono intoccabili e si chiude il processo di trasmissione. Queste
osservazioni molto generali possono essere applicate anche alla storia del
canone biblico; possiamo pensare al canone come alla «forma fissata e
precisa alla quale non si deve aggiungere nulla e togliere nulla di quella
Scrittura ritenuta normativa per una comunità credente»2.

Abbiamo già intravisto il duplice significato del termine canone (dal


greco kanṓn). Il primo e fondamentale è quello di metro, norma, regola.
Paolo applicava la categoria di canone al suo insegnamento sul­l’irrilevanza
della circoncisione per la salvezza: «Non è infatti la circoncisione che
conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti
seguiranno questa norma (canone) sia pace e misericordia, come su tutto

1
Cfr. H.W. Beyer, κανών, in GLNT V, coll. 169-186; H. Höpfl, Canonicité, in DBS
1, coll. 1022-1024.
2
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 226.
Il canone del­l’Antico Testamento 285

l’Israele di Dio» (Gal 6,15s.). Nei primi tre secoli con il termine canone
viene designata «la magnifica e sublime regola della tradizione»3, secondo
la quale il cristiano deve vivere; oppure «la regola della fede» o «regola
della verità»4, cioè la verità vincolante quale è annunciata dalla chiesa.
Secondo Eusebio, Clemente Alessandrino ha scritto un’opera dal titolo:
«Il canone ecclesiastico»; questo canone abbracciava, verisimilmente, sia
la professione di fede battesimale considerata come «regola della verità»,
sia la dottrina vigente della chiesa in tutto il suo complesso5. Dunque,
fino al III secolo, il canone designa sostanzialmente «la regola della fede»
cristiana senza ancora un esplicito riferimento alla sacra Scrittura, pur
presupponendo che il contenuto della “regola” fosse biblico.
A cominciare dal IV secolo, a questo uso generale del termine se ne
aggiunge un altro complementare, quello appunto di elenco normativo
dei libri ispirati. Il concilio di Laodicea in Frigia (nel 360 ca.) stabilisce
nel can. 59: «Nel­l’assemblea non si devono recitare salmi privati o libri
non canonici, ma soltanto i libri canonici del NT e AT» (EB 11); e nel
can. 60 se ne dà l’elenco (cfr. EB 12-13). Atanasio, subito dopo il 350,
dice del Pastore di Erma che «non fa parte del canone» (cfr. EB 15). An-
filochio di Iconio, alla fine del IV secolo, conclude il catalogo degli scritti
sacri dicendo: «Questo sarebbe il canone verace delle Scritture ispirate da
Dio»6. Determinante per questo uso di canone fu il concetto di norma
implicito nel termine, ovvero il contenuto oggettivo dei libri ispirati,
inteso come «norma della verità cristiana». Da allora i libri ispirati, scritti
cioè sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, vengono detti libri canonici,
perché riconosciuti come tali dalla chiesa e da essa proposti ai credenti
come norma di fede e di vita.
Dopo il concilio di Trento, Sisto da Siena († 1569), per distinguere i
libri non accolti nel canone dei Riformatori dagli altri libri, introdusse
nella chiesa cattolica la terminologia tuttora vigente, anche se infelice,
di protocanonici e deuterocanonici7, che farebbe pensare a libri che en-

3
Clemente Romano, 1 Cor 7,2: PG 1, 224.
4
Ireneo, Adv. haer., 1,9,4 s.; 4,35,4: PG 7, 545.1089.
5
Cfr. Eusebio, Hist. eccl., 6,13,3: PG 20, 548. Clemente Alessandrino parla di
«canone della verità» (Strom. 4,1,3: PG 8, 1216), ma anche di «canone della chiesa»
(Strom., 1,19,96: PG 8, 813) che viene contraddetto da coloro che celebrano l’eucaristia
con pane e acqua, senza vino.
6
Anfilochio di Iconio, Jambi ad Seleucum 318s.: PG 37, 1598.
7
Sisto da Siena, Bibliotheca sancta I, 1, p. 10.
286 Il canone delle sacre Scritture

trarono nel canone biblico “in un primo tempo” e ad altri che vi entra-
rono “dopo”. Antichi autori cristiani greci, come Eusebio di Cesarea8,
avevano usato una terminologia forse più appropriata, tuttora in vigore
nella chiesa ortodossa: chiamarono homologúmenoi (cioè unanimemente
riconosciuti) gli scritti cosiddetti “protocanonici”, e antilegómenoi (cioè
contrastati) o amphiballómenoi (cioè discussi) i libri cosiddetti “deute-
rocanonici”.
I deuterocanonici sono sette per l’AT e sette per il NT. Per l’AT, oltre
ad alcune sezioni scritte in greco nei libri di Daniele (Dn 13s.) e di Ester
(Est 10,4–16,24): Tb, Gdt, 1 e 2 Mac, Bar ed epistola di Ger (= Bar 6),
Sir, Sap. Per il NT: Eb, Gc, 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd, Ap.
L’ebraismo esclude dal­l’AT i deuterocanonici sopra elencati (vedi oltre,
per il canone ebraico). I Riformatori protestanti optarono per il canone
degli Ebrei, chiamando “apocrifi” o “pseudoepigrafi” i deuterocanonici
del­l’AT9; per il NT, Lutero ed altri Riformatori tedeschi rifiutarono Gc,
Gd, Eb e Ap; le altre chiese riformate non misero invece in discussione il
canone del NT, e gli stessi protestanti tornarono al canone tradizionale
del NT nel XVII secolo. Nel protestantesimo odierno i deuterocano-
nici del­l’AT non hanno ritrovato la loro autorità canonica, ma quelli
del NT sono generalmente commentati alla stregua dei protocanonici
e nel­l’ordine tradizionale10. Le chiese ortodosse non hanno mai preso
una decisione ufficiale circa il canone; alcune di esse accettano il cano-
ne lungo per l’AT; altre invece, come quella russa, non lo includono.
In conclusione, non va mai dimenticato che di qualunque “canone” si
parli, si tratta di una realtà del tutto posteriore alle Scritture in quanto
tali, legata alla decisione di determinate comunità di fede.

8
Cfr. Hist. eccl., 3, 25, 4: PG 20, 268.
9
Il termine “apocrifo” (cioè “nascosto”) è in realtà di significato fluttuante; nel­l’antichità
cristiana indicava piuttosto quei libri sospetti di eresia; in seguito passò a indicare quei
libri considerati come non canonici.
10
Vedi sotto, cap. 15.
Il canone del­l’Antico Testamento 287

2. Il canone del­l’Antico Testamento presso gli Ebrei

2.1. La nascita di una coscienza canonica

Abbiamo già descritto a grandi linee la storia del lungo e progressivo


formarsi della letteratura del­l’AT11, dalla quale si apprende che Israele
ebbe coscienza nei vari periodi della sua storia di possedere dei libri, nei
quali andava ad ascoltare la parola di Dio, quale fonte di una regola di
fede e di vita12.
L’esistenza di una coscienza canonica è già verificabile nei libri del­l’AT;
il Pentateuco, al di là della discussa storia della sua composizione, attesta
la consapevolezza che esiste un “libro del­l’alleanza” (il Pentateuco stes-
so?) il quale è creduto come proveniente da Dio stesso (cfr. Es 24,1-11;
cfr. pp. 107ss.). Il racconto di 2 Re 22,1–23,3, relativo al ritrovamento
di un “libro del­l’alleanza” o “libro della Legge” al­l’epoca del re Giosia,
attesta che già nel VI secolo a.C. Israele aveva un testo che sentiva come
normativo e ispirato; forse il nucleo più antico del­l’attuale libro del
Deuteronomio (cfr. sopra, p. 108). Il testo di Ne 8, nel contesto di una
vera e propria liturgia della parola, ricorda la lettura pubblica del libro
della Legge, collocata nel contesto del ritorno dal­l’esilio; intorno alla
fine del V secolo a.C. già si era dunque formato un corpus considerato
come “canonico”, la Tôrah (Pentateuco); intorno al III secolo a.C., quan-
do ad Alessandria si iniziano a tradurre in greco le Scritture ebraiche,
cominciando proprio dalla Tôrah, è ormai evidente lo statuto canonico
almeno di questa parte della Bibbia. Nel corpo profetico, l’episodio di
Ger 36 (il rotolo bruciato, cfr. p. 177), oltre a una serie di considera-
zioni ermeneutiche circa l’ispirazione, attesta anche l’idea che la parola
scritta del profeta acquista un carattere normativo, ovvero “canonico”.
In precedenza (cfr. pp. 180ss.), abbiamo già accennato al­l’esistenza di
una coscienza canonica anche al­l’interno della letteratura sapienziale.

11
Vedi sopra, cap. 5.1.
12
Vedi sopra, in particolare, cap. 4, 2b; cap. 5,3, nota 17; cap. 8, note 2, 7, 16, 20. Là
abbiamo reso più esplicito il fatto che la canonicità-normatività degli scritti sia del­l’AT
sia del NT trova il suo primo fondamento nel­l’origine degli scritti dentro la storia della
comunità del­l’antico Israele e della chiesa cristiana, e si intreccia altresì con la storia della
tradizione, della collezione, del­l’uso e del riconoscimento dei medesimi.
288 Il canone delle sacre Scritture

Ora si tratta di stabilire – se possibile e con tutte le incertezze che


tuttora sussistono al riguardo – da quando nella storia di Israele si può
cominciare a parlare di un canone, nel senso di una raccolta ufficiale di
libri, di un corpus di Scritture sacre nettamente distinte e separate da
altri libri o tradizioni.

2.2. Il prologo del Siracide

Stando alle notizie che possediamo ciò avvenne molto tardi. Il primo
abbozzo di un canone del­l’AT lo troviamo nel prologo che il traduttore
greco (ca. l’anno 132 a.C.) premise alla sua versione dal­l’ebraico del
libro del Siracide. I libri che costituiscono il tesoro e la gloria del popolo
ebraico sono elencati in tre gruppi: «La legge, i profeti e gli altri scritti»
(prologo Sir 1.7-9.25-25).
La Legge, ovvero i cinque libri della Tôrah (Gen, Es, Lv, Nm, Dt)
costituiva già da tempo un’entità ben definita, da quando cioè aveva
ricevuto la sua forma definitiva, probabilmente sotto Esdra (cfr. Esd
7,1.25s.; Ne 8).
Lo stesso può dirsi del secondo gruppo, i profeti, comprendente i libri
di Gs, Gdc, 1 e 2 Sam, 1 e 2 Re (chiamati nel canone degli Ebrei «profeti
anteriori») e i libri di Is, Ger, Ez e dei dodici profeti minori (chiamati
«profeti posteriori»). Questa collezione è già un fatto compiuto almeno
intorno al 180, quando fu scritto il Siracide; infatti la «lode dei Padri» in
Sir 44–50 rievoca i principali personaggi ed episodi della storia ebraica
proprio secondo l’ordine e la successione di questo secondo gruppo.
Ben più complicata è la formazione e la fissazione del terzo gruppo,
designato con il termine generico gli altri scritti. Il traduttore del Sira-
cide sa di potervi introdurre l’opera di suo nonno che egli traduce, ma
per il resto non ci offre criteri per delimitare l’estensione del gruppo.
Tra l’altro, egli non cita nella sua «lode dei Padri» i personaggi di Esdra,
Ester o Daniele; e il passo di 2 Mac 15,9, di poco posteriore, menziona
soltanto «la legge e i profeti».
Il canone del­l’Antico Testamento 289

2.3. Esiste un canone “alessandrino”?

Allo scopo di delimitare più esattamente l’estensione di questo terzo


gruppo di libri, ci si appella alla versione greca dei Lxx13, iniziata nel
III secolo a.C. e portata a termine alle soglie del­l’era cristiana. Era una
tesi classica dei manuali, secondo cui ci sarebbero stati due canoni nel
giudaismo antico: il Canone palestinese, più corto, senza cioè i deutero-
canonici, fissato poi definitivamente nel cosiddetto sinodo di Jamnia alla
fine del I secolo d.C.; e il Canone alessandrino, più lungo, comprendente
anche i deuterocanonici, il cui testimone principale sarebbe appunto la
versione greca dei Lxx.
Questa tesi, che indubbiamente risolverebbe il problema, è stata sot-
toposta a severa critica14. Infatti, se l’AT fosse stato tradotto in greco
tutto insieme e più o meno nello stesso tempo, si potrebbe parlare di un
numero fisso di libri nel giudaismo alessandrino; ma, una volta ricono-
sciuto il carattere leggendario del­l’informazione di Aristea15 e accettato
il fatto che i Lxx sono il prodotto di tre secoli sia di traduzioni che di
composizioni originali in greco, diventa davvero problematico parlare
di un canone alessandrino fisso. Gli scritti di Filone d’Alessandria, nella
prima metà del I secolo d.C., non rivelano una sostanziale differenza tra
un supposto canone alessandrino e uno palestinese.
Inoltre non possiamo accertare l’estensione esatta della versione giu-
daica dei Lxx neppure al termine del suo lungo processo, non posseden-
do il testo originale, ma soltanto una trascrizione cristiana, i cui codici
– che sono poi gli stessi del testo greco nel NT – non vanno al di là del
III secolo d.C.
Infine, la pretesa rigidità del canone biblico ad Alessandria lascia adito
a dubbi, visto che i grandi codici cristiani dei Lxx non concordano in
tutto e per tutto quanto ad estensione. Per esempio, nel caso dei libri
dei Maccabei, il codice B non ne contiene nessuno, il codice S ha 1 e 4
Maccabei, il codice A li contiene invece tutti e quattro.

«Di conseguenza, è difficile negare la tesi di Sundberg che gli ebrei di Ales-
sandria non avevano un elenco fisso di libri. Essi si trovavano nella medesima

13
Vedi sopra, cap. 7.
14
Cfr. A.C. Sundberg, The Old Testament of the Early Church.
15
Vedi sopra, cap. 7, nota 9.
290 Il canone delle sacre Scritture

situazione dei loro cugini di Palestina nel I secolo d.C., cioè disponevano
di un gran numero di testi sacri, alcuni dei quali erano riconosciuti da tutti
come più antichi e più sacri di altri […]. Infatti, quando gli ebrei alessandrini
accettarono veramente un canone, non si comportarono diversamente dagli
altri ebrei residenti altrove e riconobbero quello fissato alla fine del II secolo
dalle scuole rabbiniche della Palestina»16.

2.4. Esiste un canone “palestinese”?

Anche prescindendo dalla tesi del “canone alessandrino”, la stessa


idea di un canone ristretto in vigore nel giudaismo palestinese presenta
delle difficoltà.
Ci si appella innanzitutto alla testimonianza di Giuseppe Flavio, nato
nel 37 d.C. e morto l’anno 100. Ma, quantunque vi si trovi qualcosa di
più prossimo a un “canone”, anche Giuseppe è testimone di una certa
incertezza e fluidità sul­l’estensione del terzo gruppo di scritti del­l’AT.
Egli scrive nel Contra Apionem 1,8, verso il 95 d.C.:

Non esiste tra noi un’infinità di libri discordi e contraddittori, ma ventidue


soltanto che abbracciano la storia di tutti i tempi e che sono giustamente
considerati come divini. Sono tra essi i cinque libri di Mosè, contenenti le
leggi e il racconto degli eventi svoltisi dalla creazione del­l’uomo fino alla
morte del legislatore degli Ebrei […]. Dalla morte di Mosè fino al regno di
Artaserse i profeti che succedettero a Mosè raccontarono in tredici libri i
fatti che si svolsero nel loro tempo. Gli altri quattro libri contengono inni
in onore di Dio e precetti utilissimi per la vita umana.
Da Artaserse a noi, gli avvenimenti sono stati parimenti messi per iscritto;
ma questi libri non hanno acquistato la stessa autorità dei precedenti, perché
la successione dei profeti non è stata bene stabilita17.

Giuseppe Flavio non dà l’elenco dei 13 libri dei profeti e degli altri 4.
Ordinariamente, secondo le indicazioni che si trovano in altri suoi scrit-
ti, l’elenco potrebbe essere così ricostruito: i ben noti 5 libri della Tôrah;
i 13 profeti che sarebbero: Gs, Gdc con Rt, 1 e 2 Sam (un solo libro), 1
e 2 Re (un solo libro), Is, Ger con Lam, Ez, i dodici profeti minori (un

R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1364.


16

Contra Apion. 1,8,38-41: Flavius Josèphe. Contra Apionem, «Les Belles Lettres», Paris
17

1930, 9s. [trad. it. cit.].


Il canone del­l’Antico Testamento 291

solo libro), Gb, Est, Dan, Esd e Ne (un solo libro), 1 e 2 Cr (un solo
libro); infine gli ultimi 4 libri, che sarebbero: Sal, Pr, Ct, Qo. Pochi anni
dopo lo scritto di Giuseppe Flavio, il 4 Esdra 14,18-47 fa menzione di
24 libri pubblicamente accettati dai Giudei, probabilmente gli stessi di
Giuseppe Flavio, ma con la computazione a parte di Rt e Lam.
Dal testo di Giuseppe Flavio si ricava che quei 22 libri «sono giusta-
mente considerati come divini», e quindi da tutti accettati; ed egli ne dà
una riprova, affermando subito dopo:

«La venerazione di cui circondiamo questi libri appare dal fatto che da tanti
secoli nessuno ha osato aggiungere, togliere o cambiare ad essi alcunché.
Si inculca infatti a tutti i Giudei, ben presto dopo la nascita, che bisogna
credere che si hanno là ordini di Dio, che bisogna osservarli, e se necessario,
morire volontariamente per essi» (ibid. 1,8,42).

Ma stabilire in quale misura egli intendesse escludere altri libri, o


comunque riflettesse – scrivendo in quel modo – l’unanime opinione
del giudaismo del suo tempo, è molto più arduo. Tra l’altro Giuseppe
Flavio, che cita la versione greca dei Lxx, fa uso nei suoi scritti di alcu-
ni libri che non facevano parte della lista dei 22: cioè 1 Mac, 1 Esd e i
supplementi di Est.

2.5. C’è un canone a Qumran?

Nonostante i notevoli e nuovi elementi che Qumran ha offerto al


problema del canone, neppure i reperti qumranici ci danno una chiave
sicura per sapere quale fosse l’estensione precisa del canone giudaico in
Palestina, prima del 70 d.C.
Dei libri protocanonici del­l’AT, tra i rotoli e i frammenti di Qumran,
manca soltanto Ester: e ciò può essere dovuto a un fattore accidentale.
Tuttavia, il fatto che Ester (ebraico) non fa mai menzione di Dio e soprat-
tutto mette in rilievo la festa dei Purîm (cosa certamente non gradita ai
Qumranici i quali mantenevano una posizione rigida a proposito del ca-
lendario e delle feste), può avere determinato un’esclusione consapevole.
Dei deuterocanonici del­l’AT sono presenti a Qumran la lettera di
Geremia (= Bar 6), Tb e Sir, questi ultimi due in più copie, anche se in
frammenti. Dei libri apocrifi si sono trovati in diverse copie: Giubilei,
Enoch e i Testamenti dei 12 patriarchi.
292 Il canone delle sacre Scritture

Che dire allora? Si faceva distinzione a Qumran (e quale distinzione)


tra i libri biblici? tra questi e gli apocrifi? tra questi e i libri della comu-
nità? «La Biblioteca di Qumran dà l’impressione di una certa selettività,
ma difficilmente si può parlare di sottile distinzione tra un canone chiuso
e tutti gli altri testi»18.

2.6. Fu stabilito un canone a Jamnia?

Si è pensato che il canone ebraico sia stato fissato in una specie di


sinodo rabbinico avvenuto a Jamnia (Jabneh è una città sulla costa me-
diterranea, ad ovest di Gerusalemme), dove Rabbi Johanan ben Zakkai
aveva stabilito la sua scuola al tempo della caduta di Gerusalemme.
Sempre secondo la tradizione talmudica, circa 10 anni dopo, Gamaliele
II divenne capo della scuola e nel periodo tra l’80 e il 117 d.C. egli ed
Eleazar ben Azariah ne furono i maestri più famosi. Si è appunto pro-
posto che verso il 90-100 un incontro dei rabbini a Jamnia abbia fissato
una volta per tutte la lista definitiva dei libri ispirati, cioè il cosiddetto
“canone palestinese” comprendente i 22-24 libri di Giuseppe Flavio e
del IV Esdra.
Anche questa tesi è stata sottoposta a critica19. Si impone pertanto una
maggiore cautela: 1. A Jamnia c’era sicuramente una scuola rabbinica per
lo studio della legge, ma non ci sono prove che vi sia stata compilata una
lista definitiva dei libri sacri né che un tale “sinodo” sia mai avvenuto; 2.
I rabbini riconobbero che certi libri erano sacri e “sporcavano le mani”,
per cui si rendeva necessaria la purificazione dopo il loro uso (Mišnâ
Yādhayim 3,2): ma questo era quanto già Giuseppe Flavio stabiliva a
proposito dei 22 libri della sua lista; 3. Una discussione specifica per
l’accettazione a Jamnia è documentata soltanto per Qo e Ct; d’altronde le
discussioni per questi due libri continuarono nel giudaismo anche dopo
Jamnia; 4. Non conosciamo libri che siano stati esclusi di proposito a
Jamnia. Per esempio, un libro come il Siracide – del quale è stato sco-
perto nel 1964 un rotolo ebraico anche nelle rovine di Masada, ultimo

18
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1363; di identico avviso è P.W. Skehan,
Qumran et le Canon de l’AT, in DBS IX, coll. 818s.
19
Cfr. J. Sanders, Torah and Canon; Id., Text and Canon: Concepts and Method; S.A.
Leiman, An Introduction to the Canon and Masorah of the Hebraic Bible; Id., The Cano-
nization of Hebrew Scripture.
Il canone del­l’Antico Testamento 293

rifugio della resistenza giudaica del 73 d.C., e che in seguito non sarà
compreso nella Bibbia ebraica – fu letto e riprodotto dai Giudei anche
dopo il periodo di Jamnia. È vero che la Tôsephtâ (Yādhayim 2,13) ricor-
da che il Siracide fu dichiarato come “non sporcante le mani”, cioè non
sacro, ma non ci dice né dove né quando ciò venne deciso.

2.7. Conclusione

La tesi di un canone palestinese più corto, fissato a Jamnia in oppo-


sizione a un più lungo canone alessandrino, non sembra avere quella
solidità critica che poteva sembrare. «Se ci fosse stato un canone pa-
lestinese, gli ebrei alessandrini, che seguivano l’indirizzo spirituale dei
rabbini di Gerusalemme, non avrebbero certamente pensato a formare
un canone differente»20.
Si è più vicini al vero quando si afferma:
1. Con la distruzione del tempio nel 70 d.C. la religione giudaica di-
venne sempre di più una religione «del libro», con la conseguente e logica
necessità di un canone normativo definitivo; ma la strada per arrivarvi
fu più lunga e complessa di quanto non si immagini.
2. Le dispute sorte al­l’interno del giudaismo, in particolare tra i Fari-
sei e le sètte giudaiche di tendenza apocalittica, hanno indubbiamente
costituito uno stimolo ulteriore alla fissazione di un canone, che del
resto la stessa concorrenza sollevata dai libri cristiani doveva affrettare.
3. Anche se nel I secolo d.C. si poteva parlare del­l’accettazione popo-
lare di 22 o 24 libri come sacri, non ci fu un canone ebraico rigidamente
fissato fino verso la fine del II o l’inizio del III secolo (cfr. un passo del
Talmûd bab., Bābâ bathrâ 14b-15a, che in questo periodo attesta l’esi-
stenza di un canone già fissato).
4. L’assunzione del canone più ampio fatta dai cristiani tramite la ver-
sione greca dei Lxx può essere stata il motivo ultimo ed anche il criterio
definitivo, in base al quale il giudaismo limitò il canone del­l’AT ai libri
più antichi e soltanto a quelli che di fatto circolavano allora nella lingua
originale ebraica o aramaica.

20
J. McKenzie, in DB, 152.
294 Il canone delle sacre Scritture

3. Il canone del­l’Antico Testamento presso i cristiani

Se è vera la conclusione che abbiamo tratto, ne consegue che la chiesa


apostolica non poté ricevere dalla sinagoga un canone già definito in tutti
e singoli i libri del­l’AT che poi faranno parte della Bibbia cristiana. La
storia del canone del­l’AT presso i cristiani ha anch’essa una sua comples-
sità, che cercheremo di delineare attraverso alcune tappe, le principali.
Oggi è tuttavia sempre più chiaro che l’opposizione tra un canone ebrai-
co e uno cristiano del­l’AT è in realtà meno grave di quanto si sia pensato
in passato; si tratta di due visioni che partono dai medesimi principi e
che si sviluppano a partire da uno stesso nucleo.

3.1. Gli scrittori del Nuovo Testamento21

Il NT conosce la tripartizione della Bibbia ebraica già segnalata dal


Prologo del Siracide, ma nei termini di: «La legge, i profeti e i salmi» (Lc
24,44). I salmi, cioè, danno il titolo al terzo gruppo di scritti, ma non è
detto che ne costituissero l’unico libro.
Una soluzione potrebbe venirci dal complesso delle citazioni del­l’AT
nel NT22, se queste non avessero carattere occasionale e quindi non diri-
mente; il silenzio per alcuni libri del­l’AT non equivale a disapprovazione.
In ogni caso, per i deuterocanonici, la situazione è la seguente: ci sono
nel NT allusioni abbastanza esplicite a Sap (cfr. Rm 1,19ss.; Eb 8,14),
Tb (cfr. Ap 8,2), 2 Mac (cfr. Eb 11,34s.), Sir (cfr. Gc 1,19), Gdt (cfr. 1
Cor 2,10). D’altronde, neppure tutti i protocanonici del­l’AT vengono
citati: mancano infatti Esd, Ne, Est, Rt, Qo, Ct (?), Abd, Na, Pr.
Si trovano addirittura allusioni a libri che verranno più tardi consi-
derati apocrifi, quali: Salmi di Salomone, 1 e 2 Esdra, 4 Maccabei, As-
sunzione di Mosè. La lettera di Giuda cita addirittura il libro di Enoch23,
introdotto tuttavia non con la formula classica: «Sta scritto» o «La scrit-
tura dice», ma con: «Profetò anche per loro Enoc, settimo dopo Adamo,
dicendo…» (Gd 14,15).

21
Cfr. H. von Campenhausen, La formation de la Bible chrétienne, capp. I-II.
22
Cfr. L. Venard, Citations de l’AT dans le NT, in DBS II, coll. 23-51.
23
Vedi sotto, cap. 14, 5.
Il canone del­l’Antico Testamento 295

È pur vero che, delle 350 citazioni del­l’AT nel NT, circa 300 corri-
spondono alla versione dei Lxx, come del resto accadrà ancora per la
letteratura cristiana dopo il periodo neotestamentario. I Lxx furono
dunque la fonte principale di queste citazioni; ma, poiché la versione
greca riflette essa stessa – come abbiamo detto sopra – l’assenza di un
canone rigidamente fissato nel giudaismo, ne consegue che gli stessi
cristiani non possedevano, nel periodo neotestamentario (dal 50 al 120
ca.), linee-guida precise al riguardo.

3.2. I Padri della chiesa24

Quando nella Palestina del II secolo iniziarono in seno al giudaismo


le discussioni sul canone che condussero poi al canone ristretto, queste
si rifletterono anche nelle diverse chiese cristiane.
I Padri apostolici, che citano dalla versione greca dei Lxx, hanno in-
dubbiamente familiarità con i deuterocanonici del­l’AT. La Didaché cita
Sir e Sap; Clemente Romano, nella 1 Corinzi, cita Gdt, Sap, Sir, Dn e
brani di Est greco; Policarpo, nel­l’Epistola ai Filippesi, cita Eb; il Pastore
di Erma cita Sir, Sap e 2 Mac. Tuttavia vi si incontrano anche citazioni da
libri apocrifi, come il libro di Enoch: segno dunque che un vero e proprio
canone non è ancora fissato. Lo stesso può dirsi per altri grandi autori
cristiani della fine del II e del­l’inizio del III secolo: Ireneo, Clemente
Alessandrino, Tertulliano, Ippolito, Cipriano e Dionigi Alessandrino.
Ma il progressivo fissarsi nel­l’ambito del giudaismo, verso la fine del
II secolo, di un canone ristretto, finì per avere ripercussioni – pur di tipo
opposto – sulle chiese cristiane che vivevano in contatto con comunità
ebraiche e su autori cristiani impegnati in controversie con i Giudei.
Giustino († ca. 165 d.C.) nelle sue dispute con i Giudei preferisce fare
riferimento ai soli protocanonici, ma afferma che si deve ritenere parte
della Scrittura tutto ciò che si trova nella versione dei Lxx, anche quelle
parti che a suo dire i Giudei arbitrariamente avrebbero tolto25. Invece
Melitone di Sardi († intorno al 193) ci fornisce la più antica lista di

24
Cfr. H. von Campenhausen, La formation de la Bible chrétienne, cap. III.
25
Cfr. Giustino, Dial. con Trif., 71: PG 6, 641-646.
296 Il canone delle sacre Scritture

libri del­l’AT usati dai cristiani, che praticamente coincide con il canone
ristretto degli ebrei26.
Addirittura, benché verso la fine del IV secolo – come attestano i
concili provinciali di Ippona (393) e di Cartagine (397) – la chiesa occi-
dentale finisse per accettare nel canone anche i deuterocanonici rifiutati
dagli ebrei, ancora nel IV secolo alcuni Padri sia di Oriente che di Occi-
dente optano per il canone ristretto degli Ebrei: in Oriente Atanasio (†
373), Cirillo di Gerusalemme († 386), Gregorio Nazianzeno († 390); in
Occidente, Ilario di Poitiers († 366), Rufino († 410) e Girolamo († 420).
La hebraica veritas sedusse soprattutto Girolamo, nel suo prolungato
soggiorno a Betlemme che lo mise a contatto stretto col giudaismo pa-
lestinese. Nel 390 ca., nella prefazione alla versione dal­l’ebraico dei libri
di Samuele e dei Re, inseriva l’elenco dei soli libri protocanonici a mo’ di
prologus galeatus, ovvero prologo ben armato contro tutte le possibili in-
trusioni di libri non canonici: «Hic prologus, quasi galeatum principium,
omnibus libris, quos de hebraico vertimus in latinum, convenire potest, ut
scire valeamus, quidquid extra hos est, inter apocripha esse ponendum»27. Per
far piacere agli amici, Girolamo tradusse in fretta Tb e Gdt, precisando
però che questi libri erano ritenuti apocrifi dagli ebrei28; tradusse anche,
in appendice alla sua Bibbia tradotta dal­l’ebraico, i supplementi greci di
Est e Dn, ma omise di tradurre gli altri deuterocanonici.
Che tale fosse l’opinione personale di Girolamo è fuori dubbio, ma è
altrettanto vero che egli non intendeva assolutizzare il suo insegnamento
contro il comune insegnamento della chiesa, che egli rispettava. Girola-
mo poté scrivere: «Melius esse iudicans Phariseorum displicere iudicio, et
episcoporum iussionibus deservire»29. Il prestigio di Girolamo non mancò
d’influire in Occidente anche successivamente, nel Medioevo e addirit-
tura fino al tempo del concilio di Trento, benché il concilio di Firenze
(1441) avesse ospitato il canone più ampio. Si espressero contro i deu-
terocanonici, o almeno contro alcuni di essi: Gregorio Magno († 604);
Ugo di San Vittore (XII secolo), Nicola da Lira (XIV secolo), Antonino
di Firenze (XV secolo) e il card. Caietano (XVI secolo).

26
La lista ci è conservata da Eusebio, Hist. Eccl., IV, 26, 12-14: PG 20, 396.
27
Girolamo, Praef. in Sam. et Mal.: PL 28, 600.
28
Cfr. Girolamo, Praef. in Job. et Jud.: PL 29, 23-26.39-42.
29
Girolamo, Praef. in Job.: PL 29, 25.
Il canone del­l’Antico Testamento 297

3.3. Le decisioni del magistero della chiesa,


fino al concilio di Trento

L’incertezza tra il canone più breve e quello più ampio si riflette, al­
l’inizio, anche nei pronunciamenti del magistero ordinario, ovvero nei
concili di provincia.
Se in Oriente il concilio di Laodicea di Frigia (ca. 360), nel canone 60
(EB 12), difende il canone ristretto ebraico30, in Occidente la lettera di
papa Innocenzo I a Esuperio di Tolosa (405) cita il canone completo (EB
21), che viene poi sanzionato dai concili africani di Ippona (393), I e II
di Cartagine (397 e 419). Ma nel concilio Trullano II (692) l’ambiguità
riemerge: vengono sanzionati, affiancandoli, i canoni diversi di Laodicea
di Frigia e di Cartagine.
Bisogna attendere il XV secolo per vedere un concilio ecumenico
prendere posizione sulla questione del canone. Il concilio di Firenze,
nel Decreto per i Giacobiti (1441), enumera il canone lungo (EB 47) che
in seguito sarà definito a Trento. Ma il pronunciamento di Firenze non
sembra avere il valore di un canone solenne, universale e normativo per
tutta la chiesa, visto che i Padri conciliari a Trento, prima di adottare e
definire il canone di Firenze, discussero a lungo quanto fosse vincolante
la decisione del concilio Fiorentino e tra i Padri stessi non mancò chi
– come il card. Caietano – difese la lista breve del canone ebraico.
A Trento però, contro i Riformatori protestanti31 per i quali il prin-
cipio della «sola Scriptura» rendeva la questione del canone particolar-
mente importante e che avevano optato per il canone ebraico ristretto,
nella sessione del­l’8 aprile 1546, il concilio definì solennemente, «semel
pro semper», il canone più ampio del­l’AT:

[…] Ritiene opportuno aggiungere al presente decreto l’elenco dei libri sacri,
perché nessuno possa dubitare quali siano quelli che vengono riconosciuti
come sacri dal medesimo concilio. Sono i seguenti.
Antico Testamento: I cinque libri di Mosè, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Nu-
meri, Deuteronomio; Giosuè, Giudici, Ruth, quattro libri dei Re, due libri

30
II can. 60 di Laodicea non è più riconosciuto come opera del concilio ma piuttosto
come una compilazione fatta in Asia Minore verso la fine del IV secolo. Tuttavia il do-
cumento mantiene un suo valore, perché espressione della fede in una parte della chiesa
della fine del IV secolo.
31
Vedi sotto, cap. 15.
298 Il canone delle sacre Scritture

dei Paralipomeni (o Cronache), libro I di Esdra e II di Esdra (o Neemia),


Tobia, Giuditta, Esther, Giobbe, Salterio di Davide di 150 Salmi, Parabole
(o Proverbi), Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Sapienza, Ecclesiastico, Isaia,
Geremia con Baruch, Ezechiele, Daniele, dodici Profeti minori, cioè Osea,
Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo,
Zaccaria, Malachia, il primo e secondo libro dei Maccabei.
Nuovo Testamento: I quattro vangeli, secondo Matteo, Marco, Luca, Gio-
vanni; Atti degli Apostoli scritti dal­l’evangelista Luca; quattordici Lettere
del­l’apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai
Filippesi, ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, a Tito, a File-
mone, agli Ebrei; due del­l’apostolo Pietro; tre del­l’apostolo Giovanni, una
del­l’apostolo Giacomo, una del­l’apostolo Giuda, e l’Apocalisse del­l’apostolo
Giovanni.
E se qualcuno non accogliesse come sacri e canonici gli stessi libri, interi,
con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e si tro-
vano nel­l’antica Vulgata latina, e consapevolmente disprezzasse le suddette
tradizioni: sia scomunicato (EB 57-60; CE 525-526; FC 59-60).

Il concilio di Trento, dunque, offriva anche due criteri sui quali fonda-
va la solenne dichiarazione circa il canone della Bibbia: la lettura liturgica
dei libri sacri nella chiesa, e la loro presenza nel­l’antica versione latina
detta Vulgata. I due criteri possono anche prestarsi a qualche difficoltà32;
in ogni caso si deve sempre ricordare che oggetto di fede definita è il
decreto conciliare, non le argomentazioni che gli stanno dietro.
Il concilio Vaticano I fa esplicito riferimento al decreto del Triden-
tino, per tagliare corto a qualsiasi discussione sui libri protocanonici e
deuterocanonici:

[…] Questi libri del­l’Antico e del Nuovo Testamento, presi integralmente


con tutte le loro parti – così come sono elencati nel decreto dello stesso
concilio (cioè il concilio di Trento) e come sono contenuti nel­l’antica edi-
zione della Vulgata – devono essere accettati come sacri e canonici (EB 77;
CE 762; FC 62).

La Dei Verbum del Vaticano II cita semplicemente il Vaticano I:

La santa madre chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti in-
teri i libri sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti,

32
Cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1365; vedi sotto, cap. 14, 2.
Il canone del­l’Antico Testamento 299

perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2
Pt 1,19-21; 3,15s.), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati
alla chiesa» (DV 11);

ma individua nella sacra tradizione il criterio definitivo per la defini-


zione del canone della Bibbia33:

È la stessa tradizione che fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri
sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente
operanti le stesse sacre lettere (DV 8).

33
Vedi sotto, cap. 14.
13.
Il canone del Nuovo Testamento

Bibliografia: N. Appel, The New Testament Canon: Historical Canon and Spirit’s Witness,
in TS 32 (1971) 627-646; T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispira-
zione delle Sacre Scritture (LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 31-46; Id., Il problema del
Canone biblico: un capitolo di teologia fondamentale, in Scuola Cattolica (1979) 549-590; I.
Frank, Der Sinn der Kanonbildung. Eine historisch-theologische Untersuchung der Zeit vom
1. Clemensbrief bis Irenäus von Lyon, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1971; A. George
– P. Grelot (edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, 5: Il compimento delle Scritture,
Borla, Torino 1978; E. Käsemann (ed.), Das Neue Testament als Kanon. Dokumentation
und kritische Analyse zur gegenwärtigen Diskussion, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
1979; W.G. Kümmel, Introduction to the New Testament, SCM, London 19822, 475-510
[ed. it., Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario, il
Mulino, Bologna 1976]; K.H. Ohlig, Woher nimt die Bibel ihre Autorität? Zum Verhält-
nis von Schriftkanon, Kirche und Jesus, Patmos, Düsseldorf 1970; A. Wikenhauser – J.
Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1981, 41-90.
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, in Aa.Vv., Interpretare la Scrittura (Quaderni teologici del Seminario di
Brescia 18) Morcelliana, Brescia 2008, 31-75; B.M. Metzger, The Canon of the New
Testament. Its Origin, Development, and Significance, Clarendon Press, Oxford 1988 [trad.
it., Il canone del Nuovo Testamento. Origine, sviluppo e significato, Paideia, Brescia 1997].

Anche la storia del canone del NT, come si è svolta nella cristianità
dei primi secoli, ha la sua complessità ed incertezza, seppure con mo-
tivazioni diverse rispetto a quelle riscontrate per il canone del­l’AT. Il
problema non sembra potersi ridurre ai termini con i quali normalmente
i manuali1 la risolvevano un tempo: a un primo periodo di universale

1
Cfr. per esempio, G.M. Perrella – L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, 1: Intro-
duzione generale, Marietti, Torino 1960, 97-103; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio
della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 139-152.
Il canone del Nuovo Testamento 301

e pacifica accettazione di tutti i libri oggi contenuti nel canone, sarebbe


succeduto un secondo periodo di dubbi circa alcuni di essi; infine il ri-
torno al­l’unanimità. Questa impostazione semplifica troppo il problema.
Per chiarezza, cercheremo di ricostruire brevemente la storia del canone
del NT attraverso i periodi che più la caratterizzano.

1. Il periodo del­l’età apostolica

Abbiamo già delineato una breve storia della formazione letteraria


dei libri del NT2 e dei motivi che determinarono la composizione delle
opere neotestamentarie, dal­l’anno 50 ca. d.C. al­l’inizio del II secolo.
Si pone ora il problema se e quando, durante questo periodo, si possa
parlare – o almeno in parte – di un canone biblico neotestamentario.
In 2 Pt 3,16 si legge che «le lettere di Paolo» sono messe alla pari con
«le altre Scritture»3. Dunque, al tempo in cui veniva scritta la 2 Pietro
(ma la data è incerta; forse a cavallo tra il I e il II secolo d.C.), erano state
già raccolte almeno alcune delle lettere di Paolo, le quali venivano lette
e interpretate come scritti ispirati alla pari delle altre Scritture.
Anche l’espressione della 1 Tm 5,18 potrebbe riferirsi indirettamente
al Vangelo di Luca come a un libro ispirato e riconosciuto come tale, se
ivi si intende citare come Scrittura il lóghion di Gesù presente in Lc 10,7,
citato in 1 Tm assieme a Dt 25,4. Nelle cosiddette “pastorali” è tuttavia
importante l’idea della successione apostolica (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6), sono
appunto gli epískopoi i garanti della tradizione, che comprende anche le
sacre Scritture; certamente l’AT, ma forse anche i detti del Signore.
Sappiamo inoltre che diversi scritti apostolici erano destinati a chiese
locali per far fronte a problemi particolari di questa o quella chiesa, e che
gli stessi quattro vangeli ebbero al­l’origine una destinazione particolare.
Tuttavia è anche vero che alcune lettere rivelano consapevolmente una
destinazione più vasta, anche se non universale: così Rm ed Ef, con le
loro trattazioni di valore universale; la lettera di Gc, destinata «alle 12
tribù della diaspora» (Gc 1,1); la 2 Cor destinata «a tutti i cristiani del­
l’Acaia» (2 Cor 1,1); la 1 Pt, inviata «ai fedeli di varie provincie del­l’Asia

2
Vedi sopra, cap. 5, 2.
3
Vedi sopra, cap. 9, 3.
302 Il canone delle sacre Scritture

minore» (1 Pt 1,1); la lettera ai Colossesi, della quale Paolo raccomanda


la lettura da parte dei cristiani di Laodicea, e quella ai Laodicesi (andata
perduta) raccomandata ai cristiani di Colossi (Col 4,16).
Queste poche notizie, di cui disponiamo, sembrano far concludere
che: le diverse chiese locali possedevano agli inizi soltanto una raccolta
incompleta di scritti sacri; verso la fine del I secolo o poco dopo esisteva
una collezione di lettere di Paolo, di entità indeterminata; i quattro
vangeli, benché destinati a comunità particolari, avevano acquistato
importanza singolare e venivano conservati, perché provenienti dagli
apostoli o da persone ad essi vicine e per il prestigio delle comunità alle
quali furono associati (Matteo con Antiochia, Marco con Roma, Luca
con Roma o con la Grecia, Giovanni con Efeso).

2. La Tradizione post-apostolica e il canone del Nuovo Testamento

2.1. Verso il concetto di Nuovo Testamento

Ignoriamo il momento preciso in cui furono riconosciuti come cano-


nici i quattro vangeli. Sappiamo anche che la stesura di diversi vangeli
(noti come apocrifi) a partire dal II secolo attesta che nella chiesa delle
origini è avvenuta una selezione che ha portato a considerare canonici
solo i quattro vangeli di Mt, Mc, Lc e Gv. Alla fine del I secolo (96-97
d.C.) la Prima lettera ai Corinti di Clemente di Roma sembra conoscere
le lettere ai Romani e la 1 Cor, senza che però sia chiaro se le considera
come Scritture sacre. La Didaché, alla fine del I secolo, sembra citare Mt
7,6 come Scrittura (cfr. Did. 9,5).
Giustino, verso la metà del II secolo, testimonia che i vangeli erano
letti insieme con gli scritti dei profeti nella liturgia eucaristica:

Nel giorno chiamato del sole [cioè alla domenica] ci raccogliamo in uno
stesso luogo, dalla città e dalla campagna, e si fa la lettura delle memorie
degli apostoli [in 1,66, Giustino aggiunge: “dette vangeli”] e degli scritti dei
profeti, sin che il tempo lo permette4.

4
Giustino, Apol. 1,67: PG 6, 429 (Le Apologie, a cura di I. Giordani, Città Nuova,
Roma 1962, 125).
Il canone del Nuovo Testamento 303

Giustino cita Mt 17,13 facendolo precedere dalla formula scritturisti-


ca “sta scritto” (Dial. 49,5); egli attesta altresì il passaggio dal­l’autorità
apostolica a quella degli scritti apostolici.
La cosiddetta seconda lettera di Clemente ai Corinti (150 ca.), dopo
aver citato Is 54,1 (cfr. 2 Clem 2,1), cita Mt 9,13 così: «Un’altra scrittura
dice: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”» (2 Clem
2,4).
Questi due testi, insieme alla 2 Pt 3,16, fanno già pensare all’esi-
stenza di un primo concetto di NT. Intorno al 130, Papia vescovo di
Gerapoli ricorda Marco come discepolo di Pietro e Matteo che «mise
in ordine i detti [del Signore] in lingua ebraica»; ma il valore della
testimonianza di Papia, a noi nota da Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl.
3,39,15-16), è molto discusso e non è certo se egli dava agli scritti
evangelici un vero e proprio valore canonico5.
Ma probabilmente fu Marcione (circa il 144), col suo rifiuto del­l’AT
in favore di una collezione limitata di 10 lettere di Paolo e del Vangelo
di Luca, a far emergere – per contrapposizione – che gli scritti cristiani
formassero una loro unità, accanto a quella del­l’AT6.
Un altro fatto sembra aver contribuito ad accelerare il processo di
precisazione del canone del NT, almeno per i vangeli, cioè il Diatessaron
di Taziano, una specie di «armonia evangelica», da lui composta a Roma
tra il 170 e il 180 d.C., prima della sua uscita dalla chiesa. Da una parte
il Diatessaron presuppone l’esistenza e il valore normativo dei quattro
vangeli ai quali attinge; dal­l’altra invece, vista la libertà con cui Taziano
lo compone (eliminando i doppioni, combinando i testi evangelici e
aggiungendo anche alcune tradizioni che poi risulteranno apocrife), il
Diatessaron rischiava di proporre alla lettura dei cristiani un’opera nuova,

5
Cfr. A. Saez, La trasmissione di tradizioni normative su Gesù da Papia a Giustino, in
G. Bellia – D. Garribba (edd.), Trasmettere la Parola nel I-II secolo: verso la formazione di
un corpus cristiano normativo. Atti del XV Convegno di Studi Neotestamentari (Bologna,
12-14 settembre 2013), in RicStoBib XXVII (2/2015) 149-184.
6
Su “il canone di Marcione” come fattore di accelerazione nel processo di formazione
del canone della chiesa attorno alla metà del II secolo, cfr. H. von Campenhausen, La
formation de la Bible chrétienne, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel - Paris 1971, 144-156;
W.G. Kümmel, Introduction to the New Testament, cit., 486-488; A. Wikenhauser – J.
Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, 58-61; T. Citrini, Identità della Bibbia, 37-
39. Cfr. anche J. Quasten, Patrologia 1, Marietti, Torino 19753, 236-240; M. Girolami,
Il “Vangelo” di Marcione. Criteri non scritti di scelte testuali, in G. Bellia – D. Garribba
(edd.), Trasmettere la Parola, 185-208.
304 Il canone delle sacre Scritture

riduttiva e alternativa rispetto ai quattro vangeli come accadde per la


chiesa siriaca fino a tutto il IV secolo7.
Melitone di Sardi verso il 170, elencando le scritture giudaiche, ne
parla come dei libri del Vecchio Testamento8 lasciando intendere im-
plicitamente che esiste un Nuovo Testamento.
Ma il primo ad usare l’attuale espressione di “Nuovo Testamento” fu
Tertulliano verso il 200 ca.9, e ciò coincide con la comparsa di liste di
libri del NT nel Frammento Muratoriano e in Origene10. Segno dunque
che in questo periodo si è già affermato il concetto di una collezione di
Scritture cristiane. Verso la fine del II secolo è Ireneo di Lione ad attestare
una vera e propria teologia del canone neotestamentario; egli conosce il
vangelo uno, ma tetramorfo (Haer. 3,11,8-9) e accetta come Scritture
gli Atti, il corpus paolino, 1 Pt, 1 Gv e l’Apocalisse11.

2.2. P
 rogressivo precisarsi
del­l’estensione del Nuovo Testamento

Dalle citazioni dei Padri nel II e anche nel III secolo, dato il carattere
occasionale delle medesime, è difficile trarre conclusioni definitive e uni-
versali sul canone del NT in questo periodo. Nessun autore cita infatti
tutti i libri del NT; e la non citazione in nessuno di loro di Fm e della 3
Gv (forse anche della 2 Gv; cfr. tuttavia Policarpo, Ad Philipp. 7,1) può
spiegarsi facilmente con la brevità di questi scritti e il loro non spiccato
contenuto dottrinale.
La comparsa delle prime liste di libri del NT è indubbiamente di
notevole interesse per il problema del canone del NT, perché implicano
l’accettazione di un libro come ispirato, specialmente quando esse non
sono separate ma accoppiate con le liste dei libri del­l’AT. Tuttavia, nep-
pure esse dirimono il problema.

7
Sul­l’incidenza del Diatessaron di Taziano nel processo di formazione del canone del
NT, cfr. I. Frank, Der Sinn der Kanonbildung, 133-143; A. Wikenhauser – J. Schmid,
Introduzione al Nuovo Testamento, 53s.; H. von Campenhausen, La formation de la Bible
chrétienne, 157s.; J. Quasten, Patrologia 1, 198-201.
8
Cfr. Eusebio, Hist. eccl. 4,26, 13-14: PG 20, 396s.
9
Tertulliano, Adv. Marc. 4, 1,6; 4, 22,3: PL 2, 390s.443.
10
Vedi sotto.
11
Cfr. E. Norelli, Sulla via del canone: la nuova sintesi di Ireneo, in G. Bellia – D.
Garribba (edd.), Trasmettere la Parola, 209-238.
Il canone del Nuovo Testamento 305

La lista ritenuta più antica è il celebre Frammento Muratoriano, sco-


perto nel XVIII secolo da L. A. Muratori (cfr. EB 1-7), che rappresenta
l’uso romano del NT verso la fine del II secolo. Nella prima categoria di
scritti, cioè «quelli che sono letti universalmente nella chiesa», non sono
inclusi Eb, Gc, 1 e 2 Pt, e – forse – la 3 Gv.
La lista di Origene del III secolo, riportata da Eusebio, solleva dubbi
a proposito della 2 Pt e della 2 e 3 Gv:

Pietro […] ci lasciò una lettera accettata incontestabilmente da tutti e, forse,


anche una seconda: la cosa è dubbia […]. Giovanni ci ha lasciato ancora
un’epistola molto breve, e forse due ancora, la cui autenticità non è ammessa
da tutti: insieme non comprendono più di cento righe12.

E tuttavia Origene utilizza testi come la lettera di Barnaba, il Pastore


di Erma, la Didaché…, segno che ancora non esisteva un canone ben
definito. Eusebio, verso il 310, dopo aver indagato sulle testimonianze
della tradizione circa i libri del NT, distingue esplicitamente tra «i libri
riconosciuti da tutti (homologúmenoi)», «i libri discussi (antilegómenoi)»
e «i libri spuri (nótha)»13: tra i secondi, cioè tra i “discussi”, cataloga Gc
e Gd.
Il “canone Claromontano” del IV secolo (così chiamato perché tra-
scritto nel codice Claromontano del VI secolo, ma risalente ad un tempo
anteriore al concilio di Ippona del 393) non menziona nella sua lista
Eb. Il “canone Momseniano” del 360 ca. (scoperto e pubblicato dal
Mommsen nel 1886) non elenca Eb, Gc e Gd.
In Occidente soltanto con le liste della fine del IV secolo, cioè di Ata-
nasio (la Lettera Pasquale 39), Agostino, dei concili di Ippona (393) e di
Cartagine (397), si ha la documentazione di un accordo in gran parte
della chiesa di Occidente (cfr. EB 16-20): esse danno il canone completo
che sarà poi ripreso dal concilio di Firenze e definito dal Tridentino. Lo
stesso Girolamo, alla fine del IV e al­l’inizio del V secolo, si dichiara de-
cisamente in favore di tutti gli scritti del NT, anche se ricorda precedenti
dubbi circa i deuterocanonici, ad eccezione di Gc. Ma il codice Sinaitico
del IV secolo, copiato in Egitto, contiene accanto ai libri che noi con-
sideriamo canonici anche l’Epistola di Barnaba e il Pastore di Erma; e il

12
Cfr. Eusebio, Hist. eccl. 6,25, 1-14: PG 20, 580-585.
13
Ibid., 3,25, 1-5: PG 20, 268-273.
306 Il canone delle sacre Scritture

codice Alessandrino del V secolo, anch’esso copiato in Egitto, riporta


oltre i libri consueti anche 1 e 2 Clemente. La considerazione goduta da
queste opere, che non faranno parte del canone del NT, è probabilmente
dovuta al fatto che, almeno alcune, portano il nome di discepoli di apo-
stoli: Barnaba era amico di Paolo; Clemente era ritenuto identico a quel
Clemente menzionato in Fil 4,3, che fu successore di Pietro a Roma.

La chiesa siriaca e quella antiochena costituiscono un caso tutto par-


ticolare. Quando nel IV secolo greci e latini incominciarono ad avvici-
narsi al canone completo di 27 libri, la chiesa di Siria usava un canone
composto di 17 libri soltanto: il Diatessaron di Taziano in sostituzione
dei 4 vangeli, Atti degli apostoli e 15 lettere di Paolo (compresa Ebrei e
3 lettere ai Corinti); mancano invece le 7 epistole cattoliche (1, 2 e 3
Gv; 1 e 2 Pt; Gd e Gc) e l’Apocalisse. Sono testimoni di questo periodo
gli scritti di Afraate, la Dottrina di Addai (inizio del V secolo) e il co-
siddetto «canone siriaco», un catalogo trovato alla fine del secolo scorso
tra i manoscritti del Monte Sinai e risalente al IV secolo. Agli inizi del
V secolo, nella chiesa di Siria, i 4 vangeli sostituiscono il Diatessaron; la
3 ai Corinti viene omessa; si recuperano 3 epistole cattoliche, cioè Gc, 1
Pt e 1 Gv. È questo il canone documentato dalla versione siriaca detta
Peshitta14, che omette 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd e Ap.
La chiesa antiochena subisce l’influsso della vicina chiesa siriaca e sem-
bra ignorare l’esistenza di 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd e Ap, che non sono citati (e
forse sconosciuti) da Giovanni Crisostomo († 407) e Teodoreto di Ciro
(† 458). Addirittura Teodoro di Mopsuestia († 428) sembra uniformarsi
al primo canone della chiesa di Siria, non citando mai nessuna epistola
cattolica, né l’Apocalisse. E i Nestoriani, la cui chiesa ebbe origine in An-
tiochia, sono gli unici cristiani che ancor oggi non riconoscono come
ispirati 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd e Ap.

Concludendo – La storia del canone del NT nei primi cinque secoli,


sia in Occidente che in Oriente, non è dunque così semplice, né ridu-
cibile – ci sembra – al rigido schema di un primo periodo di pacifico
riconoscimento, al quale sarebbe seguito il periodo dei dubbi, prima che
l’unità degli inizi potesse ricomporsi.

14
Vedi sopra, cap. 7.
Il canone del Nuovo Testamento 307

D’altronde, ciò non deve sorprendere se si considerano: la destinazio-


ne inizialmente particolare di alcuni scritti del NT; l’obiettiva difficoltà
di comunicazione tra le diverse chiese; il fatto che nella chiesa dei primi
secoli, come vedremo, il giudizio sulla canonicità era spesso determina-
to dalle tradizioni sulla paternità letteraria apostolica degli scritti, non
sempre sicura.

2.3. Cause delle incertezze sui deuterocanonici

Le cause delle incertezze e dei dubbi che qua e là vengono sollevati a


proposito dei deuterocanonici si comprendono meglio se partiamo dai
criteri che, nella tradizione post-apostolica, sono alla base della conser-
vazione e del­l’accettazione nel canone dei libri sacri cristiani. Tali criteri
possono ricondursi a due: 1. L’origine apostolica, reale o apparente, di un
libro; 2. La conformità di uno scritto con «la regola della fede», ovvero
col pensiero degli apostoli fondatori. Accade così che il dubbio sulla
paternità apostolica reale di alcuni scritti, e/o i loro presunti contrasti
dottrinali con la «regola della fede», finirono per renderne discutibile
l’ispirazione e la canonicità15.
Più in concreto:
– La canonicità di Ap, Eb e 2 Pt fu discussa, perché si dubitava che
fossero state scritte rispettivamente da Giovanni, Paolo e Pietro.
– L’Ap, in particolare, incontrò difficoltà dottrinali. In Occidente, i
Montanisti ne abusavano in senso “millenaristico”; gli Alogi, rifiutando
di ammettere il Lógos giovanneo, si opponevano al Vangelo di Giovan-
ni e al­l’Apocalisse. In Oriente, l’eresia “millenaristica” dei Chiliasti, che
interpretavano Ap 20,1-6 nei termini di un nuovo paradiso terrestre
instaurato da Cristo quaggiù prima della parusía, indusse la maggior
parte dei Padri della Siria e del­l’Asia Minore a rifiutare l’Ap, la cui cano-

15
T. Citrini (Il problema del canone biblico, 554-567) compie un’accurata analisi del
«criterio di apostolicità», distinguendo «il parametro della apostolicità in senso letterario»,
quello della «apostolicità in senso giuridico», e «il parametro del contenuto evangelico»,
e conclude che «nessuna di queste maniere di concepire l’apostolicità del NT è senza
valore, ma nessuna è decisiva. Nessuna è sufficiente, ma forse tutte sono in qualche modo
necessarie» (pp. 563s.). Si deve pertanto insistere sul «carattere consensuale e sintetico
del riconoscimento della canonicità». Cfr. anche Id., Identità della Bibbia, cit., 35s.; A.
Wikenhauser – J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, 88-100.
308 Il canone delle sacre Scritture

nicità era resa ancor più problematica dalla incerta paternità giovannea
dello scritto (il greco del­l’Ap non è quello del Vangelo di Giovanni, come
osservava Dionigi Alessandrino).
– La 2 e 3 di Gv poterono essere meno conosciute e meno apprezzate
per la loro brevità e il loro scarso contenuto teologico.
– Sulle lettere di Gc e Gd fu sollevata la questione della paternità let-
teraria; e il dubbio sulla loro canonicità fu rafforzato da alcune questioni
dottrinali ritenute sospette: in Gc, l’affermazione che «la fede senza le
opere è morta»; in Gd, la citazione del­l’apocrifo Enoch.
– Infine, taluni scritti del tempo sub-apostolico – come la 1 e 2 di Cle-
mente, la Didaché, Erma e Barnaba – poterono venire accolti da qualche
comunità come libri canonici, o perché portavano il nome di discepoli
degli apostoli (come dicevamo sopra), oppure per la loro indiscussa anti-
chità: per esempio la 1 Clemente e la Didaché possono essere state scritte
prima della canonica 2 Pt.

Concludendo – Facciamo nostre due riflessioni le quali, oltre a chiarire


le incertezze di cui sopra, illuminano già il problema del “criterio defi-
nitivo” della canonicità dei libri ispirati. Scrive P. Grelot:

Il criterio di apostolicità ha certamente svolto la sua parte (nella determi-


nazione del canone del Nuovo Testamento); ma non era molto semplice
servirsene. Da un lato si rischiava di ammettere nel canone certe opere
pseudoepigrafe, come il vangelo o l’apocalisse di Pietro; è appunto su questo
che si fondavano i gruppi eretici per fondare i loro libri. Dal­l’altro, invece, si
rischiava anche di legare la canonicità alla stretta autenticità letteraria degli
scritti, al punto da metterla in dubbio nel caso che questa autenticità fosse
discussa. Questo è il motivo del­l’esistenza di certi deuterocanonici in Oriente
come in Occidente. Questi opposti pericoli mostrano ancora l’insufficienza
dei criteri oggettivi usati da soli16.

D’altronde, solo oggi sappiamo che il problema della paternità let-


teraria è un problema storico che va risolto in base ai criteri scientifici
di stile e di contenuto di uno scritto, e che ad esso non può essere in-
dissolubilmente legato il carattere ispirato e canonico di un libro. Per
questo motivo,

16
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 134.
Il canone del Nuovo Testamento 309

la chiesa si è saggiamente astenuta da affermazioni dogmatiche circa l’au-


tore o la composizione dei libri della Bibbia. Anche le risposte date dalla
Pontificia Commissione Biblica negli anni 1905-1915 in merito agli autori
non erano di carattere dogmatico ma semplicemente cautelative, per cui la
libertà di ricerca degli studiosi cattolici romani non è stata limitata da queste
dichiarazioni17.

17
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1377.
14.
Il problema teologico del canone

Bibliografia: cfr. capitolo precedente.

1. Carattere definitivo del canone di Trento

Gli umanisti del XVI secolo avevano risollevato le antiche discussioni


a proposito di alcuni libri del NT. Lo stesso Erasmo fu censurato dalla
Facoltà teologica della Sorbona perché riprendeva, senza confutarli, gli
antichi dubbi circa l’opinione apostolica di Eb, Gc, 2 Pt, 2 e 3 Gv, Ap.
Lutero introdusse una distinzione nei libri del NT e attribuì un ruolo
secondario ad Eb, Gc, Gd e Ap, collocandoli alla fine della sua Bibbia
tradotta in tedesco, dopo gli altri che considerava «i veri, sicuri e più
importanti libri del NT»1.
Contro questo canone breve dei Riformatori, il concilio di Trento si
pronunciò con la solenne definizione già citata2 e che era stata preparata da
diverse enunciazioni del magistero precedente: la lettera di papa Innocen-
zo I ad Esuperio, vescovo di Tolosa (405), i concili provinciali di Ippona
(393), III e IV di Cartagine (397 e 419), il concilio di Firenze (1441).
Il concilio di Trento, dopo aver dato l’elenco definitivo dei libri del­
l’AT e del NT, aggiunge:

1
Vedi sotto, pp. 333-334.
2
Vedi sopra, cap. 12, 3.3.
Il problema teologico del canone 311

Se qualcuno poi non accetterà consapevolmente come libri sacri e canonici


questi libri, interi con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa
cattolica e si trovano nella edizione antica della Vulgata latina, e disprezzerà
consapevolmente le predette tradizioni, sia anatema (EB 60; CE 526; FC
60).

Con la precisazione contenuta nel­l’inciso: «interi con tutte le loro


parti», risulta dagli atti del concilio3 che il Tridentino ha voluto met-
tere al sicuro innanzitutto la canonicità di alcune brevi sezioni del
NT, messa in dubbio o negata al­l’epoca da alcuni, cioè: Mc 16,9-20
(il finale lungo di Marco, col racconto del­l’Ascensione); Lc 22,43s. (il
sudore di sangue) e Gv 7,53–8,11 (l’episodio del­l’adultera). Infatti i tre
brani, pur non godendo di sicura e universale attestazione nei testimoni
del testo greco (codici e papiri) del NT, si trovano nel­l’antica Vulgata
latina, che costituisce uno dei due criteri di canonicità – accanto alla
lettura ordinaria nella chiesa cattolica – indicati dal Tridentino. Né
viene qui posta in questione la difformità tra la Vulgata originale di
Girolamo e la Vulgata Sisto-Clementina (1592), cioè l’edizione ufficiale
della Vulgata prodotta per soddisfare la richiesta di Trento per un’edi-
zione più critica, poiché le due edizioni contengono entrambe i brani
in questione. Ritorneremo sulla questione della Vulgata (cfr. p. 321);
basti per ora notare che il parlare da parte del concilio di Trento della
autenticità della Vulgata costituisce un atto di carattere giuridico, non
tanto dogmatico.
Più difficile è la soluzione del problema della canonicità o meno degli
incisi di Gv 5,4 (l’angelo che agita le acque della piscina di Betzatà) e
1 Gv 5,7s. (il cosiddetto comma giovanneo), visto che la Vulgata Sisto-
Clementina li contiene, mentre li ignora la Vulgata di Girolamo. Il pro-
blema della loro canonicità «si dovrebbe risolvere attraverso gli esperti
piuttosto che applicare meccanicamente il principio di Trento»4.
Nella solenne definizione tridentina va sottolineato come il concilio
affermi che la chiesa “riceve e venera” libri e tradizioni non scritte rice-
vute dagli apostoli; la chiesa non decide il canone, ma lo accoglie con
un atto di fede; vanno poi accettate tutte le parole contenute nei libri

3
Cfr. A. Theinek, Acta genuina Concilii Tridentini, Zagabriae 1874, 17-78.84s.; il
brano in questione degli Acta è riportato da H. Höpfl – B. Gut, Introductio specialis in
Novum Testamentum, D’Auria - Arnodo, Neapoli - Romae 19495, 92.
4
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1378.
312 Il canone delle sacre Scritture

canonici, senza separazioni o omissioni, e nella forma in cui l’intero cor-


pus dei libri è giunto sino a noi, in un contesto dunque diverso da quello
originario. Tutto ciò ha evidenti conseguenze per l’interpretazione della
Scrittura. Si sottolinea poi il principio della tradizione, che ha origine
in Cristo e nello Spirito e che giunge sino a noi.
Su quest’ultimo aspetto nasceranno critiche da parte della teologia
protestante, che vede nella posizione tridentina un sottile circolo vizioso:
la chiesa si fonda sulle Scritture ma, contemporaneamente, legifera su
di esse in base a una tradizione ricevuta, non contenuta nelle Scritture
stesse; ritorneremo tra poco su questo problema (cfr. pp. 314ss.).
Il concilio Vaticano I5 si richiama esplicitamente al decreto del con-
cilio di Trento, ma aggiunge un paragrafo chiarificatore che spiega la
canonicità, come riconoscimento magisteriale da parte della chiesa del­
l’ispirazione dei libri sacri6.

2. Il criterio definitivo della fissazione del canone dei libri sacri

La Dei Verbum del Vaticano II non si limita a ripetere la dottrina del


Vaticano I sul­l’ispirazione e sul canone (DV 11), ma – parlando della
sacra tradizione della chiesa – fa un’importante ed esplicita affermazione
sul canone della Bibbia:

È la stessa tradizione che fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri
sacri (DV 8).

Qui si afferma non solo un dato di fatto, che del resto abbiamo am-
piamento verificato nel delineare una “storia” del canone del­l’AT e del
NT nella chiesa cristiana, ma un dato di fede, anche se la DV non dice
come e in base a quali argomenti o criteri la tradizione offra alla chiesa
la certezza dei libri sacri e canonici.

5
Vedi sopra, cap. 12.
6
Vedi sopra, cap. 10.
Il problema teologico del canone 313

2.1. Il criterio nella teologia protestante

Il problema dei “criteri di canonicità” si pose espressamente al­l’epoca


della Riforma, quando i riformatori sostituirono ai criteri esterni, legati
al­l’autorità della chiesa magisteriale e della sua tradizione, dei criteri
interni capaci di imporsi ad ogni credente e alla stessa chiesa7.
Lutero si appellava alla testimonianza resa dalla scrittura a Cristo e alla
sua opera redentiva, e su questa base distingueva diversi gradi di autorità
tra i libri sacri del NT. Calvino parlava di una sovrana decisione di Dio
che ha causato un consenso pubblico nella chiesa primitiva circa i libri
sacri. Le successive Confessioni di fede riformate accentuarono ancora
di più il ruolo dello Spirito Santo, il quale si fa garante nel cuore dei
credenti del carattere divino delle Scritture8.
Ma, a partire dal XIX secolo, si ritornò a dare peso ai criteri oggettivi.
T. Zahn9 pensa al ruolo di edificazione svolto nelle comunità cristia-
ne dagli scritti apostolici, che venivano letti nelle assemblee. A. von
Harnack10 pensa ai carismi ecclesiastici che avrebbero fatto considerare
come ispirati i libri scritti sotto il loro influsso. K. Barth afferma, sì, che
«la fissazione del canone, come regola della fede, è l’opera della chiesa
attorno agli anni 400»; ma afferma anche:

Discutendo il problema del canone, la chiesa non poteva fare altro che
cercare di fare chiarezza sul fatto che la regola della verità esisteva già e si
era già rivelata ad essa […]. Si può dire che i testi di cui si discute, proprio
perché erano già canonici, hanno potuto essere riconosciuti e proclamati
tali in seguito11.

O. Cullmann12 sembra dare maggiore consistenza al canone come


atto della chiesa: la fissazione del canone è appunto un atto della chie-

7
Vedi sopra, cap. 11, 7.
8
Cfr. S. De Dietrich, Le Renouveau Biblique, Delachaux, Neuchâtel 1949, 22s.
9
T. Zahn, Geschichte des neutestamentlichen Kanons I, Erlangen 1888; cfr. H. Höpfl,
Canonicité, in DBS 1 (1928) 1038s.
10
Cfr. H. Höfel, Canonicité, 1040s.
11
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 16s.
12
Cfr. O. Cullmann, La Tradition, in D.J. Callahan – H.A. Oberman – D.J.
O’Hanlon (edd.), Catholiques et Protestants. Confrontations théologiques, sur l’Écriture et
la Tradition, l’interprétation de la Bible, l’Église, les Sacrements, la Justification, du Seuil,
Paris 1963, 30-41.
314 Il canone delle sacre Scritture

sa, la quale mediante questo riconoscimento delle Scritture esprime la


sua sottomissione alla parola di Dio. M. Lods13, molto felicemente, ha
parlato di una specie di intuizione religiosa accordata alla chiesa del II
secolo per essere in grado di discernere quegli scritti (e quelli soli), che
sono portatori di una autentica rivelazione divina.
Questa breve carrellata sulla teologia del canone nei teologi protestan-
ti, ripresa da P. Grelot14, dimostra anch’essa – nonostante tutto – che non
si può saltare la chiesa, quando si tratta di affrontare il criterio della ca-
nonicità. E, in ultima istanza, è la concezione della chiesa che differenzia
cattolici e protestanti, molto più di quanto non li distingua il problema
del canone. Anzi, è proprio la nozione della chiesa nelle varie chiese
riformate, che rende spesso problematica la questione del canone, tanto
da poterla (o doverla!) ritenere una questione ancora aperta, per esempio
nei termini di «un canone nel canone». Con “canone nel canone” ci ri-
feriamo alla questione nata nel XX secolo in ambito protestante (cfr. in
particolare E. Käsemann, H. Conzelmann, O. Culmann) e relativa alla
ricerca di un centro teologico unitario del Nuovo Testamento, in base
al quale valutare la canonicità degli altri scritti biblici15.

2.2. Il criterio nella teologia cattolica

Come risolvere allora la questione dei criteri, in base ai quali la chiesa


ha operato definitivamente il discernimento di quali e quanti sono i libri
ispirati e canonici, cioè normativi della fede e del comportamento mora-
le? Oppure, riprendendo la formula della DV 8: in che modo «è la stessa
tradizione che fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri sacri?».

1. Il rapporto tra Scrittura e tradizione16 – Nei manuali di teologia,


prima del Vaticano II, sacra Scrittura e tradizione erano presentate come

13
Cfr. M. Lods, Tradition et Canon des Écritures, in Aa.Vv., Études théologiques et
religieuses, Paris 1961, 58.
14
Cfr. P. Grelot, La Bible Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture
Sainte, Desclée, Paris 1965, 156-138.
15
Cfr. anche pp. 334.337-338 e 341.
16
Cfr. anche pp. 321-322. Oltre alla bibliografia riportata all’inizio del cap. 4, cfr. T.
Citrini, Tradizione, in DTI 3, 448-463; il Documento Scrittura, Tradizione e tradizioni
della Commissione «Fede e Costituzione» del CEC approvato nel­l’Assemblea di Montreal
del 1963, in E. Flesseman-van Leer (ed.), La Bibbia. La sua autorità e interpretazione
Il problema teologico del canone 315

due forme materialmente distinte della rivelazione, e la tradizione costi-


tuiva la fonte più ampia: alcune verità rivelate, a cominciare dalla verità
del canone dei libri ispirati, sarebbero contenute nella tradizione e non
nella Scrittura17.
Prima ancora dell’inizio del concilio quello del rapporto tra Scrittura e
tradizione costituiva già uno dei temi più caldi e controversi. Lo «Sche-
ma preparatorio della Commissione teologica» del concilio Vaticano II
si presentava come una difesa del valore unico della tradizione, andando
anche al di là dello stesso concilio tridentino:

La tradizione, ed essa sola, è la via mediante la quale alcune verità rivelate,


prima di tutto quelle riguardanti l’ispirazione, la canonicità e l’integrità di
tutti e singoli i libri sacri, divengono chiare e si fan conoscere alla chiesa
(Schema, n. 5).

L’affermazione fu oggetto di interventi critici da parte di molti Padri


conciliari18, e l’intero Schema preparatorio fu respinto dalla maggioranza
relativa dei Padri, sulla scia dell’orientamento offerto da Giovanni XXIII
nella allocuzione Gaudet Mater Ecclesia circa il valore pastorale del conci-
lio, che non avrebbe avuto il compito di definire verità di fede o dogmi19.
Il testo finale della Dei Verbum vede diversamente i rapporti tra Scrit-
tura e tradizione, evitando accuratamente di contrapporle l’una all’altra:

La sacra tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente tra loro


congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina
sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso
fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazio-

nel movimento ecumenico, ElleDiCi, Leumann 1982, 32-46; A. Romita, La Tradizione


e le tradizioni nella vita della Chiesa (Storia di un dialogo ecumenico fra teologi orientali e
occidentali), ElleDiCi - Claudiana, Leumann - Torino 1983.
17
«Traditionem excedere amplitudine Scripturam patet ex his quae diximus de existentia
traditionum divinarum constitutivarum: dantur veritates revelatae nobis per traditionem
asservatae et transmissae, quae in Sacris Scripturis nullatenus continentur»: T. Zapelena, De
Ecclesia Christi (pars altera: Apologetico-Dogmatica), PUG, Roma 1954, 274.
18
Cfr. U. Betti, La rivelazione divina nella Chiesa, Città Nuova, Roma 1970, 56.
Per la storia delle successive redazioni del testo sul rapporto fra tradizione e canone, cfr.
ibid., 139.159s.175.237s.; R. Burigana, La Bibbia nel concilio, 31-34.75-80.355-361; G.
Ruggieri, Il primo conflitto dottrinale, in G. Alberigo (ed.), Storia del concilio Vaticano II,
II, il Mulino, Bologna 1995-2001, 259-293; per una raccolta di testi relativi alla discus-
sione conciliare, cfr. F. Gil Hellin, Dei Verbum, 46-51; cfr. anche sopra, p. 100, n. 29.
19
Vedi sotto, cap. 16, 2, a.1.
316 Il canone delle sacre Scritture

ne dello Spirito di Dio; la parola di Dio, affidata da Cristo e dallo Spirito


Santo agli apostoli, viene trasmessa integralmente dalla sacra tradizione ai
loro successori, affinché questi illuminati dallo Spirito di verità, con la loro
predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano […]
(DV 9; cfr. l’intero cap. II della DV).

Dunque, come già si è visto, il concilio ha parlato della sacra Scrit-


tura e della sacra tradizione come due modi diversi, ma anche tra loro
congiunti e comunicanti, di trasmettere l’unico e medesimo oggetto
che è la divina rivelazione; in altri termini, non ha parlato di due fonti
materialmente distinte come facevano alcuni teologi. Anzi, le discussioni
e gli atti del concilio dimostrano che i Padri conciliari non hanno voluto
dirimere la questione della distinzione solo formale o anche materiale20,
ma semmai si sono orientati – è lo spirito di tut­t’intero il cap. II della Dei
Verbum – verso la soluzione della distinzione soltanto formale, in armonia
con la costante prassi della chiesa la quale, nel definire le verità di fede
nel suo magistero solenne, le ha sempre giustificate con un richiamo più
o meno diretto alla Scrittura21.
Pertanto, l’assunto di DV 8 sul canone: «È la stessa tradizione che
fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri sacri» non deve essere
necessariamente interpretato come se la verità del canone fosse conte-
nuta soltanto nella tradizione e in nessun modo – neppure implicito
e indiretto – nella stessa sacra Scrittura. Del resto abbiamo già visto,
attraverso la storia del canone, quanto sia improponibile l’ipotesi che
suonerebbe più o meno così: «la cerchia degli apostoli, o addirittura
l’ultimo apostolo avrebbe “oralmente” pronunciato il proprio giudizio
sul canone delle Scritture, e questa voce – smarritasi nel corso del II-III
secolo – sarebbe stata poi ricuperata, non si sa come, dalla chiesa del
IV secolo».

2. Il criterio della tradizione nella definizione del canone (P. Grelot e


K. Rahner) – Certamente, nel definitivo riconoscimento da parte della

20
Cfr. U. Betti, La rivelazione divina nella Chiesa, cit.; Id., La tradizione della divi-
na rivelazione, in Aa.Vv., La costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, ElleDiCi,
Leumann 1967, 250-255; L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, Paideia,
Brescia 1970, 177-189.
21
Vedi, a titolo indicativo, un elenco di queste verità in U. Betti, La tradizione della
divina rivelazione, 252, nota 94.
Il problema teologico del canone 317

chiesa, hanno giocato un ruolo importante alcuni criteri esterni, quali


in particolare l’autorevolezza di chi ci ha trasmesso quei testi; la loro
appartenenza al tempo delle origini della chiesa e quindi la loro anti-
chità; la conformità di quel testo alla regola della fede; l’uso costante
nella liturgia. Ma ciascuno di questi criteri, da solo, non è sufficiente a
garantire la canonicità di un testo22.
La soluzione “cattolica” del problema deve essere cercata – ci pare –
nelle due direzioni, del resto convergenti nella sostanza, tracciate da P.
Grelot e da K. Rahner ma già preparate dagli studi di J.R. Geiselmann23,
nonché di P. Lengsfeld e Y. Congar24. Non dimentichiamo, dalla storia
del canone che abbiamo tracciato, che la chiesa cattolica è l’unica chiesa
ad aver definito il canone in modo solenne e definitivo: esiste dunque
un modo “cattolico” di concepire il canone, che dev’essere ulteriormente
esplorato. E tuttavia ogni interpretazione della Bibbia, sia nel­l’ebraismo
che nel cristianesimo, si rifà a una qualche tradizione canonica, anche
se questa non è fissata dogmaticamente o non è esplicitamente intesa;
dunque ogni interpretazione è, in qualche misura, di carattere confes-
sionale25.
Scrive P. Grelot, a proposito del compito della chiesa nella determi-
nazione del canone:

L’insufficienza dei criteri oggettivi induce a vedere nel discernimento il frutto


del­l’azione dello Spirito Santo. La teologia protestante ha ragione di affer-
marlo con forza. Resta da sapere quale sia il soggetto a cui perviene questa
testimonianza dello Spirito Santo. Su questo punto la sua dogmatica ha
una nozione della chiesa troppo insufficiente perché il suo giudizio sia ac-
cettabile. Non è infatti ai singoli credenti che lo Spirito Santo infonde una
persuasione relativa al canone. Non l’ha neppure data alla chiesa (o meglio
alle chiese) di un determinato secolo, più esattamente, del II secolo, perché
esse possano restare sottomesse a una tradizione apostolica ormai tagliata
fuori dalla tradizione vivente.

22
Sul valore e i limiti di questi criteri esterni cfr. la sintesi offerta da P. Bovati – P.
Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 231-235.
23
J.R. Geiselmann, La Tradition, in Questions théologiques aujourd’hui 1, Desclée de
Brouwer, Paris 1964, 95-148.
24
P. Lengsfeld, Tradition, Écriture et Église dans le dialogue oecuménique, Paris 1964;
Y.J.M. Congar, La tradizione e le tradizioni, 2 voll., Edizioni Paoline, Roma 1965.
25
Si riprendono qui in buona parte le conclusioni di P. Bovati – P. Basta, «Ci ha
parlato per mezzo dei profeti», 242.
318 Il canone delle sacre Scritture

Lo Spirito Santo che ispirò gli apostoli e gli autori sacri continua ad agire
nella chiesa con gli stessi carismi funzionali di cui il Nuovo Testamento
già parla esplicitamente, e in particolare con quelli che si ricollegano alle
funzioni di insegnamento e di autorità. Continua così ad assistere la chiesa
perché essa conservi fedelmente il deposito apostolico nella sua integrità.
È dunque a questo titolo e infine con questo mezzo che la chiesa di tutti i se-
coli può riconoscere nella sua tradizione vivente i libri che la mettono in con-
tatto diretto con la tradizione apostolica. In questo campo, come in qualsiasi
altro, il suo magistero gode del­l’infallibilità soltanto per conservare (non per
modificare o ampliare) il dato originale. Non si può trarre argomento dalle
variazioni che presenta la tradizione ecclesiastica sulla questione del canone
per mettere in dubbio questo indefettibile attaccamento al deposito aposto-
lico. Infatti un esame oggettivo dei casi particolari dimostra come, tanto per
l’Antico che per il Nuovo Testamento, essi si spieghino con l’interferenza di
influenze fondamentalmente estranee al problema della canonicità: appello
ai criteri interni (autenticità ecc.) o ricorso al­l’autorità del canone ebraico.
Tutti i problemi sollevati a proposito dei deuterocanonici vengono dal­l’una
o dal­l’altra di queste due cause. In questa prospettiva il canone ristretto dei
riformatori protestanti non può essere considerato veramente tradizionale; è
un canone mutilo e questa mutilazione denuncia il pericolo di una teologia
della chiesa in cui la Scrittura non si trova più al suo giusto posto, nel suo
rapporto reale con le altre strutture stabilite dagli apostoli26.

Per Grelot, dunque, la definizione del canone costituisce il primo (in


senso logico) atto solenne del magistero della chiesa post-apostolica nei
confronti del deposito della rivelazione, che essa è chiamata a conserva-
re e custodire per proclamarla agli uomini di tutti i tempi. Conservare
significa, innanzitutto, sapere individuare i limiti esatti del sacro depo-
sito, quindi non diminuirlo, non ampliarlo né modificarlo: è questo
lo “specifico” della definizione del canone della Bibbia. Nel fare ciò la
chiesa è guidata con assoluta infallibilità da quello stesso Spirito Santo
il quale, dopo avere ispirato gli apostoli nel proclamare autenticamente
la rivelazione portata da Cristo e gli autori sacri perché la fissassero in
scritto, ha assistito la chiesa per custodire il deposito della rivelazione
nella sua integrità (è in questo punto che si situa la definizione del cano-
ne) e continua ad assisterla nel suo proclamare e attualizzare fedelmente
la definitiva parola di Dio.

26
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 135.
Il problema teologico del canone 319

K. Rahner dà al problema una risposta analoga, ma teologicamente


più articolata, e affronta esplicitamente la questione di come anche la
verità del canone – pur nel suo carattere di unicità e singolarità – possa
avere un fondamento implicito nella sacra Scrittura. Dalla sua Tesi sul­
l’ispirazione della sacra Scrittura, che noi abbiamo già ricordato e descrit-
to27, Rahner trae le seguenti conclusioni a proposito del canone:

Se la tesi che abbiamo proposto è giusta, essa offre una via d’uscita dal
vicolo cieco (del problema del canone). Dobbiamo distinguere solo due
cose: da una parte la fondamentale rivelazione come tale (come evento)
sul­l’ispirazione di uno scritto, e dal­l’altra parte la formulazione in proposi-
zione riflessa, e l’atto di dare espressione a questa rivelazione. La prima deve
essere stata completa “con la morte del­l’ultimo apostolo”. Ma la seconda no.
[…]. La rivelazione del­l’ispirazione di uno scritto avviene semplicemente
perché lo scritto in questione sorge come genuina attuazione del­l’essenza
della chiesa. Con ciò la sua ispirazione è già sufficientemente rivelata, a meno
che si pretenda che possa esser rivelato qualcosa solo in una proposizione,
e non invece anche in un fatto, aperto alla comprensibilità diretta; il che
però è una concezione troppo stretta, falsamente concettualistica delle pos-
sibilità proprie della rivelazione. Il fatto poi, una volta presentatosi (posto
da un’azione di Dio nella storia) può essere compreso e formulato ancora in
modo riflesso anche nel periodo post-apostolico, senza che per questo av-
venga una nuova rivelazione. Non c’è nessuna contraddizione ad ammettere
che soltanto la chiesa possegga il dono di discernere con assoluta sicurezza,
necessario per scoprire che questo o quello scritto del tempo apostolico
(il tempo della chiesa delle origini) è un elemento intrinseco, omogeneo
del­l’autocostituzione della chiesa […]. La chiesa, riempita dallo Spirito,
giudica con “connaturalità”, inserisce un libro nella Scrittura in quanto que-
sto è qualcosa che risponde alla sua natura. Se questo è nello stesso tempo
“apostolico”, cioè un elemento nel­l’attuarsi della vita della chiesa primitiva
come tale, e come tale concepito, allora, secondo i presupposti della nostra
teoria, è ipso facto ispirato e come tale riconosciuto in modo riflesso, senza
che questa conoscenza, la quale diverrà riflessa eventualmente soltanto più
tardi, debba rappresentare il fatto stesso della rivelazione, o essere per lo
meno contemporanea con esso28.

27
Vedi sopra, cap. 11.
28
K. Rahner, Sul­l’ispirazione della Sacra Scrittura («Quaestiones Disputatae» 1), Mor-
celliana, Brescia 1967, 72s.
320 Il canone delle sacre Scritture

In sintesi, e traducendo il linguaggio di Rahner, si può concludere


così. Le Scritture, quando nascono come genuina auto-rappresenta-
zione della chiesa apostolica, e solo quelle, sono per ciò stesso “ispirate
e canoniche”, anche se il definitivo esplicito riconoscimento della loro
ispirazione e canonicità avverrà più tardi. Si deve distinguere – secon-
do Rahner – tra la rivelazione del carattere ispirato di certi libri, e la
sua percezione riflessa e formulata: sono due momenti tra i quali può
correre benissimo un buon lasso di tempo. La chiesa possedeva un
canone molto preciso, prima di averne piena e riflessa conoscenza,
prima di definirlo; la chiesa “sentiva” la singolarità di questi libri,
prima di averla dichiarata. Il successivo definitivo “riconoscimento”
del­l’ispirazione (l’atto cioè di definizione del canone) fu un atto “con-
naturale” alla chiesa nel senso che essa – con l’aiuto dello Spirito Santo
che sempre l’assiste, attraverso una risposta riflessa e senza l’aiuto di
sillogismi – riconobbe quegli scritti come gli unici che corrisponde-
vano alla sua natura e la esprimevano. La definizione del canone è un
atto, il primo in senso vero, di autocoscienza da parte della chiesa,
che ha per oggetto un aspetto fondamentale del suo essere, appunto
le sacre Scritture.
Ciò vale anche per l’AT, il cui canone viene stabilito definitivamente
soltanto dalla chiesa cristiana. Se è vero – com’è vero – che tutta la Scrit-
tura veterotestamentaria è ordinata a Cristo e al NT e soltanto per questo
rapporto è storia della salvezza e come tale può essere riconosciuta, allora
vale per l’AT ciò che è stato detto degli scritti del NT. I libri del­l’AT sono
ispirati, in quanto Dio li vuole e li realizza come memoria definitiva della
preistoria della chiesa, ovvero del­l’esperienza di Dio e della sua alleanza
che Israele aveva conosciuto per rivelazione: in questo modo Dio ispira la
Scrittura del­l’AT, la fa sua propria, ne diventa il suo autore. Ma, essendo
l’AT ordinato costitutivamente al NT e alla chiesa, su di esso la chiesa – e
soltanto essa in maniera definitiva – pone in atto, per “connaturalità”, la
sua autocoscienza mediante il riconoscimento esplicito del­l’ispirazione
e della canonicità dei libri di Israele29.

29
Cfr. ibid., 55-59.
Il problema teologico del canone 321

3. Ancora sul rapporto fra tradizione e canone: questioni dibattute

La Pontificia Commissione Biblica ha affrontato alcune questioni re-


lative al rapporto fra tradizione e canone nel suo documento del 1993;
IBC ribadisce la convinzione che è la tradizione a farci conoscere il
canone (cfr. il testo di DV 8 più volte ricordato) e precisa:

guidata dallo Spirito Santo e alla luce della tradizione vivente che ha rice-
vuto, la chiesa ha identificato gli scritti che devono essere considerati come
Sacra Scrittura […]. La fissazione di un “canone” delle Sacre Scritture fu la
conclusione di un lungo processo30.

L’ispirazione, dunque, non basta da sola a garantire la canonicità di un


determinato testo, ma è la comunità credente che, guidata dallo Spirito,
fissa quali libri debbano essere ritenuti come normativi: «In tal senso
Spirito e comunità credente sono entrambi protagonisti del processo
canonico»31.
Il problema del canone pone tuttavia altre questioni non ancora pie-
namente risolte: il concilio di Trento (cfr. sopra) stabilisce la Vulgata
come versione autentica; ma in realtà, il principio della hebraica veritas
che ha animato Girolamo nel tradurre la Vulgata viene affiancato, nella
Vulgata stessa, dalla presenza di libri che Girolamo non accettava come
canonici (come Siracide e Sapienza). La recente pubblicazione della Neo-
Vulgata, edizione dichiarata tipica per l’uso liturgico (cfr. l’istruzione del
2001, Liturgiam authenticam 37), ma che in realtà è molto diversa dalla
Vulgata, è un segno tangibile del fatto che la chiesa cattolica non ha mai
deciso per una determinata forma testuale e che il testo biblico è giunto
a noi in forma plurale (vedi sotto, il caso dei Lxx).
L’attenzione alla dimensione canonica delle Scritture mette poi in
discussione alcuni apporti del­l’esegesi moderna; la critica delle fonti,
per esempio, tende a scoprire i diversi strati di un testo e a mettere in
luce eventuali apporti redazionali, glosse o aggiunte. Se questo è lecito
a livello di critica letteraria, l’interpretazione delle Scritture in un con-

30
Cfr. EB 1448-1450. IVSS contiene una breve sintesi circa la storia della formazione
del canone, ma non porta sostanziali novità; cfr. § 4.2; pp. 92-109.
31
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 228.
322 Il canone delle sacre Scritture

testo canonico deve necessariamente tener conto del testo nel suo stato
finale32.

4. Per una “esegesi canonica”

IBC sottolinea altresì l’importanza di tre differenti approcci basati sul-


la tradizione: l’approccio canonico, il ricorso alle tradizioni interpretative
giudaiche, l’approccio attraverso la storia degli effetti33. Ciò che accomu-
na questi approcci è la necessità di leggere la Bibbia a partire dal testo
finale. Ognuno di questi approcci presenta tuttavia qualche problema.
L’approccio canonico nasce con gli studi di B.S. Childs e J.A. Sanders –
ma anche di P. Beauchamp, che IBC non cita. L’idea di fondo è che un
libro diventa “biblico” solo a partire dal­l’intero canone. In relazione a
questo approccio, non dobbiamo dimenticare come esso nasca al­l’interno
dello stesso ambiente culturale che ha prodotto l’esegesi storico-critica e
come, inoltre, esso crei subito la questione di quale “comunità canoni-
ca” stiamo parlando34. Ciò conduce inevitabilmente a problemi storici e
teologici non facili da risolvere, quali quello del rapporto chiesa-Israele
e tra chiesa cattolica e chiese non cattoliche. L’approccio mediante le
tradizioni interpretative giudaiche è senz’altro importante; ma occorre
ricordare che, per il giudaismo, la Bibbia è solo quella ebraica. Così, an-
che la storia degli effetti del testo è estremamente significativa; ma sorge
in questo caso il problema di come valutare i molti e differenti momenti
che hanno segnato l’interpretazione di questo o quel testo delle Scritture.
Alla luce delle questioni sinora sollevate, che cosa significa, dunque,
una esegesi della Bibbia che tenga conto del contesto canonico? Che cosa
si può intendere per “esegesi canonica” (cfr. VD 34)?

32
Cfr. ibid., 245-253.
33
IBC, pp. 45-50 (EB 1324-1342).
34
Cfr. J.A. Fitzmyer, The Biblical Commission’s Document “The Interpretation of the
Bible in the Church”. Text and Commentary (SubBi 18), Roma 1995, spec. p. 69. Per alcune
perplessità relative al­l’approccio canonico cfr. H. Simian Yofre, Introduzione. Esegesi, fede
e teologia, in Id. (ed.), Metodologia del­l’Antico Testamento (Studi biblici 25), EDB, Bologna
20022, 13; F. Mosetto, Approcci basati sulla tradizione, in G. Ghiberti – F. Mosetto
(edd.), L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, ElleDiCi, Leumann 1998, 162-194.
Il problema teologico del canone 323

Occorre prima di tutto tener presente che ogni brano biblico ha un


suo contesto storico, un suo contesto letterario, ma anche un suo con-
testo canonico. È inserito cioè in un “canone” che una determinata
comunità credente ha riconosciuto come ispirato.
L’esempio dei salmi è al riguardo interessante. Ogni salmo dev’essere
senz’altro letto nel suo contesto storico, dunque alla luce del­l’epoca nella
quale quel salmo è nato; dev’essere letto poi nel suo contesto letterario:
come poesia, secondo il genere letterario proprio di quel salmo… Il ben
noto commento ai salmi di G. Ravasi studia ogni salmo in questo senso,
come una unità indipendente e secondo il suo proprio genere lettera-
rio35. Ma un salmo dev’essere letto anche nel suo contesto canonico:
l’esegesi dei salmi ha oggi riscoperto il valore dei salmi come “libro”; si
tratta dello studio delle connessioni letterarie esistenti tra salmi vicini,
che permettono di comprendere come l’ordine dei salmi sia successivo
alla composizione del singolo salmo, ed abbia una valenza letteraria e
teologica insieme; esiste una logica interna al libro dei Salmi che supera
il valore del singolo salmo36. Allo stesso tempo, però, per un cristiano,
leggere i salmi in prospettiva canonica significa leggerli anche in rappor-
to al NT e in relazione alla figura di Cristo, che nel NT non solo prega
i salmi, ma ne è spesso il protagonista.
L’esempio del salterio ci insegna che non solo occorre interpretare
un testo biblico al­l’interno del suo contesto immediato; per esempio:
un versetto di un salmo va letto non isolatamente, ma nel contesto del­
l’intero salmo, e questi a sua volta dev’essere inserito nel contesto storico
e letterario al quale appartiene. Occorre tuttavia interpretare anche quel
determinato testo al­l’interno del­l’intero libro e quest’ultimo al­l’interno
del­l’intero corpus canonico. Perché, per portare un altro esempio, il corpo
dei Dodici profeti detti “minori” ci è stato trasmesso in un certo ordine?
E perché, nelle Bibbie cristiane, è proprio questo corpo a chiudere il ca-
none del­l’AT37? Il problema del canone è dunque connesso non soltanto
con il concetto di “chiesa”, ma con l’intera ermeneutica delle Scritture.

35
Cfr. G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, I-III, EDB, Bologna
1981-1984.
36
Cfr. per esempio il commentario di T. Lorenzin, I Salmi. Nuova versione, intro-
duzione e commento, Edizioni Paoline, Milano 2000.
37
Cfr. D. Scaiola, I Dodici profeti: perché “minori”? Esegesi e teologia, EDB, Bologna
2011.
324 Il canone delle sacre Scritture

5. Possono esistere libri “ispirati” ma non “canonici”?

Il concilio di Trento è stato estremamente chiaro nel definire quali


libri, insieme con le loro parti, dovessero essere accettati come ispirati
e canonici38. Ma Trento non ha detto “esplicitamente” che quelli erano
i soli libri ispirati. Esiste ancora uno spazio di discussione su eventuali
altri libri ispirati?
Per alcuni autori la discussione non avrebbe carattere puramente ac-
cademico, quando si presti attenzione ad alcuni casi concreti, che qui
elenchiamo.

5.1. Lettere di Paolo perdute

Da 1 Cor 5,9 apprendiamo che Paolo aveva già scritto «una precedente
lettera» ai Corinti; inoltre, Col 4,16 ricorda una lettera «ai Laodicesi», la
cui lettura Paolo raccomanda agli stessi cristiani di Colossi. Queste due
lettere sono andate perdute. Erano ispirate?
Non ci pare che il problema possa risolversi nei termini un po’ sbri-
gativi di R.E. Brown – R.F. Collins: «La paternità paolina non sarebbe
certo sufficiente [per deciderne l’ispirazione e la canonicità], perché,
se la mancanza di attribuzione a un apostolo non esclude l’ispirazio-
ne, nemmeno il contrario la renderebbe automaticamente implicita»39.
Riteniamo che si debba innanzitutto tenere presente la distinzione tra
“ispirazione” e “canonicità” (cfr. sopra, pp. 319ss.). Quando un testo
deriva da un apostolo e quel testo esprime e media il suo carisma e
ministero di apostolo, quel testo di per sé non può non avere anche il
carattere di libro “ispirato” e quindi “normativo” per coloro ai quali era
destinato. Se poi questo testo è andato perduto e conseguentemente
non ha potuto usufruire di un lungo uso nelle chiese come libro ispirato
(uno dei criteri accennati dal concilio di Trento), si capisce perché non
sia potuto entrare nel canone. Evidentemente lo scritto non aggiunge-
rebbe niente di nuovo e di sostanziale al deposito della rivelazione, già
contenuta nei libri ispirati e riconosciuti tali dalla chiesa; e – per quanto

38
Vedi sopra, § 1.
39
Cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1378.
Il problema teologico del canone 325

la questione suoni “accademica” – il giorno in cui un tale scritto fosse


ritrovato e si potesse provare con certezza (ma come?) che è lo scritto
apostolico di un apostolo, la chiesa non sarebbe obbligata a riaprire il
canone dei libri sacri, anche se ne ammettesse il carattere di ispirazione.
Né, atteso il modo storico che Dio ha scelto per rivelare la sua Parola e
per trasmetterla a tutti gli uomini, deve destare meraviglia il fatto che
non tutti i libri “ispirati” abbiano potuto essere conservati. È necessario
e sufficiente che il disegno storico di Dio abbia assicurato che il mes-
saggio rivelato del­l’universale salvezza giungesse integro attraverso quei
libri ispirati che ci sono stati conservati e che la chiesa ha riconosciuto
come canonici, cioè normativi.

5.2. Il caso di libri “apocrifi” citati nel Nuovo Testamento

La lettera di Giuda cita al v. 9 la disputa del­l’arcangelo Michele con il


demonio, che sembra tratta dal­l’Assunzione di Mosè; e ai vv. 14-16 cita l’a-
pocrifo Enoch 1,9, riferendosi ad esso come fosse una “profezia”: «Profetò
anche per loro Enoch, settimo dopo Adamo, dicendo: “Ecco il Signore è
venuto con le sue miriadi di angeli per fare il giudizio contro tutti…”».
Che dire? È fuori dubbio che il libro di Enoch godeva di una predi-
lezione speciale presso alcuni ambienti del giudaismo e che nella stessa
chiesa cristiana antica fu occasionalmente considerato e persino usato
come libro della sacra Scrittura: per esempio, nella Lettera di Barnaba
16,5; in Tertulliano, De idol. 15,6 e De Cultu femin. 1,3,1-3; in Cle-
mente Alessandrino, Eclogae Proph. 2,1 e 53,4; la chiesa etiope ha sem-
pre accolto e tuttora accoglie Enoch nel canone delle Scritture. È vero
d’altronde che i dubbi sollevati dalla chiesa antica sul­l’ispirazione e sulla
canonicità della lettera di Giuda derivavano proprio dal fatto che essa
citava o faceva riferimento a libri apocrifi. Segno dunque di una disparità
di giudizio e ulteriore conferma che in questo periodo non esisteva un
canone preciso e definitivo.
Al di là di una questione di carattere storico, resta tuttavia un proble-
ma teologico: che cosa l’autore della lettera di Giuda pensava del libro di
Enoch, che egli cita come «profezia»? Si è detto spesso che egli ha potuto
parlare di una “profezia” di Enoch alla maniera di Paolo che in Tt 1,12
chiama “profeta” Epimenide, senza con questo considerarlo “ispirato”.
Ma, anche nel caso che l’autore di Gd considerasse veramente ispirato
Enoch (come del resto faranno altri scrittori di epoca posteriore), non
326 Il canone delle sacre Scritture

ne deriva per questo l’ispirazione-canonicità di Enoch, che di fatto non


fu riconosciuta dalla chiesa. A questo proposito, scrive J. Michl:

Non è possibile spiegare i libri biblici secondo una teoria prefabbricata


del­l’ispirazione, costruita ad arte e non scevra da obbligazione di carattere
scientifico. Occorre distinguere tra la verità che l’autore insegna, e la forma
secondo cui la propone. Tali verità sono il giudizio di Dio sui peccatori e la
peccaminosità di ogni opposizione alla volontà divina. Ora per venire meglio
capito, l’autore di questa lettera sceglie esempi tolti da leggende ben note ai
suoi cristiani (cioè leggende giudaiche), al fine di rendere più evidenti gli in-
segnamenti e le ammonizioni da lui impartiti […]. Anche se l’autore (come
altri uomini del suo tempo e di quello posteriore) avesse ritenuto come
realmente ispirate da Dio le parole di Enoch, vale sempre la considerazione
che, al massimo, si ha un’idea del­l’autore (in realtà sbagliata), ma nessuna
affermazione della quale si possa dire che Dio abbia voluto insegnarla agli
uomini attraverso questa lettera40.

5.3. La versione greca dei Lxx

Di per sé non esiste, e non può esistere, un problema di ispirazione


delle versioni della Bibbia, anche se antiche. Destinatari del­l’ispirazione
biblica sono gli scrittori sacri, e l’oggetto del­l’ispirazione sono i testi
originali usciti dalle loro mani. Ma il problema è stato posto a proposito
della versione greca dei Lxx41, unica nel suo genere.
Un po’ di storia42. La credenza di un’ispirazione dei Lxx è nata nel giu-

40
J. Michl, Le lettere cattoliche, Morcelliana, Brescia 1968, 118: del­l’ultima frase
abbiamo dato una versione più precisa del testo originale (cfr. Die Katholischen Briefe,
Pustet, Regensburg 1968, 88). E tuttavia c’è chi sostiene che proprio la presenza di 1
Hen nel NT, attraverso la citazione di Giuda, crea un punto a favore della possibile ca-
nonicità del libro di Enoch: cfr. J. Hultin, Jude’s Citation of 1 Enoch: From Tertullian to
Jacob of Edessa, in J.H. Charlesworth – L.M. McDonald (edd.), Jewish and Christian
Scriptures. The Function of ‘Canonical’ and ‘Non-Canonical’ Religious Texts, T. & T. Clark,
Edinburgh 2010, 113-128.
41
Vedi sopra, cap. 7.
42
Cfr. P. Grelot, La Bible Parole de Dieu, 166-174; Id., La Bibbia e la Teologia, 136-
140. Cfr. anche M. Hengel, The Septuagint as Christian Scripture. Its prehistory and the
problem of its canon, Edinburgh - New York 2002. Una sintesi del­l’argomento è reperibile
in M. Harl, La Septante chez les Pères grecs et dans la vie des chrétiens, in M. Harl – G.
Dorival – O. Munnich, La Bible grecque des Septante. Du judaïsme hellénistique au
christianisme ancien, du Cerf, Paris 1988, 289-320.
Il problema teologico del canone 327

daismo alessandrino, e la leggendaria Lettera di Aristea del II secolo a.C.


potrebbe essere stata – al­l’inizio – un mezzo per esprimere una fede già
esistente, anziché una prova leggendaria per darle un fondamento. In ogni
caso, la leggendaria origine della versione, specialmente nel resoconto mi-
racolistico che ne dà Filone43, ha contribuito a mantenere (o a far nascere)
nel giudaismo sia alessandrino che palestinese la credenza nel­l’ispirazione
dei Lxx: vedi Filone di Alessandria44 agli inizi del­l’era cristiana, e Rabbi
Giuda il Santo, codificatore della Mišnâ verso il 150 d.C.45.
Questa credenza passò nella chiesa cristiana dei primi secoli, confor-
tata non soltanto dalla sua “leggendaria” origine ma da un nuovo argo-
mento: la versione greca dei Lxx era diventata praticamente la Bibbia
cristiana, più o meno in antitesi alla Bibbia ebraica più breve del giudai-
smo rabbinico. L’ispirazione dei Lxx è affermata da Giustino46, Ireneo47,
Clemente Alessandrino48, Cirillo di Gerusalemme49; nel­l’Oriente greco
la sua autorità è rimasta intatta nel corso dei secoli e la sua ispirazione
è professata ancor oggi nelle chiese orientali. Ma è attestata anche in
Occidente, dove l’antica versione latina, la Vetus latina sotto tutte le sue
forme, fu condotta sul testo dei Lxx. Agostino scrive:

A proposito di tutto quello che c’è nei Lxx e non nei manoscritti ebraici,
possiamo dire che lo Spirito di Dio ha voluto rivelarcelo attraverso gli scritti
del primo documento piuttosto che attraverso quelli del secondo, al fine di
mostrare che sia gli uni sia gli altri furono profeti50.

Girolamo, prima di iniziare la sua nuova versione latina dei testi ebrai-
ci, scrive che i traduttori greci «Spiritu Sancto pleni, ea quae vera fuerant
transtulerunt»51; ma successivamente la scoperta del­l’hebraica veritas lo

43
Vedi sopra, cap. 10, 1.2.
44
«Essi [i Lxx traduttori] profetizzarono, come se Dio avesse preso possesso del loro
spirito, non ciascuno con parole differenti, ma tutti con le stesse parole e gli stessi giri di
frase, come se ciascuno fosse sotto dettatura di un invisibile ispiratore» (De vita Mosis 2,37).
45
«Il Santo mise il suo consiglio dentro il cuore di ciascuno dei traduttori, e accadde
che essi si trovarono dello stesso avviso; tuttavia essi scrissero… (seguono 13 passi biblici
che i Lxx avrebbero alterato)» (Mišnâ, bT, Megillâ 9 a).
46
Apol I, 31: PG 6, 376.
47
Adv. haer. 3,21,2: PG 7, 947s.
48
Strom. 1,22: PG 8, 893.
49
Catech. 4,34: PG 33, 497.
50
De Civ. Dei 18,43: PL 41, 604.
51
Praef. in Paralip.: PL 29, 402 (424).
328 Il canone delle sacre Scritture

portò a criticare la versione greca: «Longum est nunc resolvere, quanta


Septuaginta de suo addiderint, quanta dimiserint»52, tanto da fargli dire
che gli apostoli la usarono soltanto quando essa non discrepava dal testo
ebraico! Così la nuova versione latina di Girolamo finì, nel­l’Occidente
cristiano, per far apparire i Lxx nient’altro che una delle tante versioni
greche.
Il colpo decisivo al­l’idea del­l’ispirazione dei Lxx fu inferto nel XVI
secolo, quando un numero crescente di studiosi rigettò come apocrifa
la leggendaria Lettera di Aristea. Infine, nel 1720 A. Calmet53 non solo
rifiutò la leggenda di Aristea, ma trovò una serie di argomenti per con-
futare l’ispirazione dei Lxx, primo fra tutti il fatto che lo Spirito Santo
non poteva essere l’autore dei molti errori di traduzione riscontrabili
nel­l’antica versione greca. Questa opinione si mantiene comune nel XIX
e XX secolo.
Il problema è stato risollevato a partire dagli anni Cinquanta del secolo
scorso, soprattutto ad opera di P. Benoit54 e P. Grelot55. Essi propendono
per una soluzione positiva del problema, basandosi sui seguenti argo-
menti: 1. La versione greca è una diretta e provvidenziale preparazione
alla successiva composizione del NT in lingua greca; 2. Diversi brani dei
Lxx non sono una semplice traduzione, ma rappresentano un progresso
e una evoluzione nei confronti delle idee del testo ebraico (per esempio,
Is 7,14 in Mt 1,23; Sal 16,8-11 in At 2,25-31 e 13,35-37; Gen 12,3 e
18,18 in Gal 3,9 e At 3,25; ecc.); 3. Alcuni testi del­l’originale ebraico
sono andati perduti e li riconosciamo di fatto nella sola versione greca;
4. Esiste in proposito la tradizione della chiesa d’Oriente, mai interrotta,
e la tradizione in Occidente nei primi tre secoli.
Il magistero della chiesa non si è mai pronunciato, lasciando libertà alla
discussione del problema. Circa gli argomenti a favore del­l’ispirazione
dei Lxx proponiamo le seguenti riflessioni:
1. Che tale versione (quale Bibbia degli agiografi del NT e della chiesa
cristiana nel momento della sua formazione, quale strumento provviden-

52
Ep. 57 ad Pammachium 11: PL 22, 577.
53
A. Calmet, Dissertation pour servir de prolégomènes de l’Écriture Sainte 1/2, Paris
1720, 79-93.
54
P. Benoit, La Septante est-elle inspirée?, in Id., Exégèse et Théologie 1, du Cerf, Paris
1961, 3-12; Id., L’inspiration des Septante d’après les Pères, in L’homme devant Dieu 1
(Mélanges H. de Lubac), Aubier, Paris 1964, 169-187.
55
P. Grelot, La Bible Parole de Dieu; Id., La Bibbia e la Teologia.
Il problema teologico del canone 329

ziale della lingua greco-biblica del NT che sarà veicolo della definitiva
rivelazione neotestamentaria) abbia un prestigio tutto particolare e co-
stituisca davvero un evento provvidenziale nella storia della trasmissione
della rivelazione, questo è fuori discussione. Ma, affermarne l’ispirazione,
significa forse porre molti più problemi di quelli che s’intende risolvere;
si pensi a libri presenti nei Lxx, ma non considerati canonici, come per
esempio le Odi di Salomone.
2. Si deve fare più attenzione al concetto articolato di ispirazione, con
tutti i suoi precedenti nella fase di trasmissione fattuale, orale e anche
parzialmente scritta nelle tradizioni che precedono il testo biblico de-
finitivo (vedi anche sopra, pp. 251ss.): proprio nei termini del­l’analisi
di P. Benoit e dello stesso P. Grelot. Esso consente di riconoscere una
particolare presenza e azione dello Spirito Santo in questi traduttori
greci, come tramite di una tradizione nel­l’ambito del popolo di Dio,
senza con ciò dover concludere al­l’ispirazione della loro versione alla
maniera degli scrittori sacri.
3. Per quanto concerne l’uso che gli autori del NT fanno talvolta di
alcuni testi del­l’AT conforme alla versione dei Lxx (e in difformità del
testo ebraico), l’ispirazione del testo del NT è più che sufficiente per
assicurare l’uso che si fa del­l’antica versione greca, senza che si debba
invocare l’ispirazione della medesima.
4. Un ultimo argomento in favore del­l’ispirazione dei Lxx, sul quale
P. Grelot insiste tanto, è costituito dai libri deuterocanonici del­l’AT dei
quali si è perduto l’originale ebraico o aramaico. Questi libri56, accolti
nel canone, sono pervenuti alla chiesa soltanto nella loro forma greca,
anche se – ad eccezione di Sap, 2 Mac, Bar 4,5–5,9 e i supplementi del
libro di Est – derivano tutti da originali semitici, in parte ritrovati nelle
grotte di Qumran (Tb, Sir), nelle rovine di Masada (Sir) e nella Genizah
del Cairo (Sir). In questi casi, dove si deve cercare l’originale ispirato? Nel
testo semitico perduto, e oggi – almeno in parte – ritrovato? Sarà forse
necessario, secondo l’ironica osservazione di Origene57, che la chiesa
chieda ai Giudei di comunicarle dei testi “puri”, allo scopo di correggere
la sua Bibbia? Senza dubbio, questo è l’argomento più consistente, ma
non lo riteniamo decisivo per un “sì” al­l’ispirazione nella versione dei
Lxx nella sua totalità. Infatti, quelle che risultano o risultassero vere e

56
Vedi sopra, cap. 6.
57
Lettera a Giulio Africano 4: PG 11, 57-60.
330 Il canone delle sacre Scritture

proprie aggiunte greche al­l’originale semitico, fanno parte di una tradi-


zione giudaica autentica e consacrata in uno scritto che ha tutti i crismi
del­l’ispirazione, al pari dei libri del­l’AT scritti originariamente in greco:
la chiesa cristiana ha riconosciuto l’AT ispirato e canonico con quella
estensione che la versione greca e poi latina gli danno. Per il resto dei
casi, ci pare che il problema sia innanzitutto e soprattutto un problema
di critica testuale, da risolversi con criteri di questa scienza piuttosto che
con criteri teologici.
Esiste oggi una forte tendenza intra-cattolica a rivalutare il testo dei
Lxx accanto e, in qualche caso, persino contro il testo masoretico, special-
mente per chi insiste sulla centralità del NT e della fede dei Padri, che
usavano appunto i Lxx come testo biblico a loro proprio. Qui vogliamo
soltanto osservare che per molti suoi lettori credenti, dalle origini sino ad
oggi, quella dei Lxx non è soltanto una semplice traduzione, ma un vero
e proprio testo biblico; si tratta di un fatto che non può essere ignorato.
Considerata come testo ispirato, la versione dei Lxx fu presto tradotta,
nel mondo cristiano, per poter essere utilizzata nella liturgia: nacquero
così, tra le altre, la versione copta (III secolo), quella armena (V secolo)
e quella etiopica (IV secolo), ancora utilizzate dalle rispettive chiese.
Anche l’Occidente tradusse i Lxx; oltre alla Vetus Latina non dobbiamo
dimenticare la versione gotica (IV secolo) e soprattutto quella in paleo-
slavo (IX secolo), che sta alla base delle versioni oggi usate nelle chiese
ortodosse di lingua slava58.
Pur non avendo mai preso una decisione definitiva riguardo al canone
dei libri sacri, le chiese ortodosse utilizzano tutte la versione dei Lxx
come testo liturgico del­l’AT. La chiesa greco-ortodossa, in particolare,
si serve direttamente del testo greco dei Lxx; si discute ancora sulla
possibilità di tradurlo in neo-greco per renderlo comprensibile a chi
ormai non comprende più il greco della Koiné. Esistono perciò chiese
cristiane per le quali ancor oggi il testo dei Lxx non è affatto un testo del
passato, al massimo utile per gli studiosi del giudaismo o dei problemi
storico-filologico-testuali della Bibbia. Quello dei Lxx è ancora per molti
cristiani un testo vivo dove si trasmette la parola stessa di Dio59.

Cfr. sopra, cap. 7,3.2.


58

Quest’ultimo paragrafo è tratto da L. Mazzinghi, Tradurre i LXX, in P. Sacchi –


59

L. Mazzinghi (edd.), La Bibbia dei Settanta, 1: Pentateuco, Morcelliana, Brescia 2012,


63-77.
15.
Il canone in prospettiva ecumenica

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332 Il canone delle sacre Scritture

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18), Morcelliana, Brescia 2008, 31-75; Id., Tra verità divina e critica storica. La trasfor-
mazione del concetto di canone biblico in epoca moderna, in Teologia 33 (2008) 357-393

Per molto tempo, il dialogo tra cattolici e protestanti sulla Bibbia interes-
sava soprattutto due problemi di fondo, preliminari ad ogni altra discussione1.
Il primo riguardava il rapporto tra Scrittura e tradizione. L’assunto
della Scriptura sola costringeva i Riformatori a ridurre la tradizione più
o meno a un’elaborazione umana, indebitamente aggiunta alla parola
di Dio scritta; per il cattolicesimo, invece, valeva – e vale – il dettato del
concilio di Trento2, ripreso e riassunto dal Vaticano I:

Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede di tutta la chiesa, illustra-


ta dal santo concilio di Trento, è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni
non scritte, che ascoltate dalla bocca dello stesso Cristo dagli apostoli, o
quasi trasmesse di mano in mano dagli stessi apostoli per ispirazione dello
Spirito Santo, giunsero sino a noi (EB 11; CE 762; FC 62).

Ma oggi il problema si pone in termini diversi anche presso i prote-


stanti. Gli studi biblici e la riflessione teologica hanno fatto prendere
coscienza a tutti, protestanti compresi, che Scrittura e tradizione non
sono due realtà dissociabili tra loro: la tradizione precede la Scrittura;
la stessa Scrittura è frutto del­l’elaborazione della tradizione, anzi il suo
momento privilegiato; la tradizione continua anche dopo la Scrittura; la
Scrittura – quale momento privilegiato della tradizione – costituisce il
primo criterio di validità per giudicare lo sviluppo successivo della tradi-
zione. E il concilio Vaticano II ha dato un contributo decisivo al dialogo
ecumenico sui rapporti fra Scrittura e tradizione, quando si è orientato
verso una distinzione soltanto formale, e non materiale, tra Scrittura e

1
Preferiamo parlare qui di “protestanti” o di “chiese della Riforma» (o “evangeliche”);
il termine “Riformati” lo riserviamo alle chiese di matrice calvinista (in tedesco: reformiert,
distinto da reformatorisch, cioè “della Riforma», protestante).
2
Vedi sopra, cap. 10, 3-4.
Il canone in prospettiva ecumenica 333

tradizione3. Il secondo problema riguardava l’estensione esatta del canone


sia del­l’AT sia del NT. Ma anche qui, come vedremo, le posizioni tra
cattolici e protestanti sono meno distanti di un tempo.

1. Le Bibbie protestanti, oggi

Per l’Antico Testamento, nel protestantesimo odierno specialmente


europeo ci sono segni di un ritorno alla posizione più moderata dei pri-
mi riformatori. Lutero, nella sua versione del­l’AT in tedesco del 1534,
raggruppava alla fine i deuterocanonici4, con il titolo di «Apocrifi» e
con questa premessa: «Apocrifi: questi sono libri che non sono ritenuti
uguali alle sacre Scritture, ma sono parimenti utili e buoni a leggersi». Il
termine Apocrifi, ovvero scritti nascosti, è applicato ai deuterocanonici,
perché esclusi dalla lettura liturgica.
Bisogna attendere il XIX secolo perché i deuterocanonici, posti fino
ad allora in appendice, siano totalmente esclusi nelle traduzioni della
Bibbia diffuse dalle varie Società bibliche5. Ma nella nostra epoca anche
le Bibbie protestanti riportano in appendice al­l’AT i cosiddetti «Apocrifi»,
pur corredandoli di una prefazione speciale che ne esplicita il carattere di
«libri esclusi dal canone degli Ebrei»6. Un caso diverso sono le traduzioni
interconfessionali della Scrittura che, come è il caso della TOB (Traduc-
tion oecuménique de la Bible), o, in Italia, della fortunata e diffusissima
versione in lingua corrente (la TILC), riportano i deuterocanonici raccol-
ti in una sezione a parte, con una breve introduzione esplicativa7.
Per il Nuovo Testamento, invece, nelle Bibbie protestanti odierne, non
soltanto figurano tutti i libri deuterocanonici del NT8, ma essi vengono

3
Vedi sopra, cap. 14, 2.2.1.
4
Vedi sopra, cap. 12, 1.
5
Cfr. La Sacra Bibbia, edita dalla «Società Biblica Britannica e Forestiera»: sia nella
traduzione di G. Diodati (1607), sia in quella rivista da G. Luzzi (1931).
6
Cfr. The New English Bible (with Apocrypha) 2, Oxford - Cambridge 1970, V-VII; La
Bibbia, 10: Apocrifi del­l’AT, tradotta e commentata da G. Luzzi, Fides et Amor, Firenze
1930.
7
Per quanto riguarda la TILC, cfr. l’ultima edizione disponibile: Parola del Signore. La
Bibbia in lingua corrente, ElleDiCi - ABU, Torino - Roma 2014.
8
Vedi sopra, cap. 12, 1.
334 Il canone delle sacre Scritture

riportati nel­l’ordine tradizionale, contrariamente a Lutero che per primo


ne aveva classificato i libri a seconda della loro importanza, anticipando
così, in qualche modo, la moderna discussione del «canone nel canone».
Egli, infatti, attribuiva un ruolo secondario a: Ebrei, Giacomo, Giuda e
Apocalisse9, collocandoli alla fine della sua versione, dopo gli altri libri
che egli considerava «i veri, sicuri e più importanti libri del Nuovo Te-
stamento». Lutero fu seguito da alcuni Riformatori tedeschi, ma le altre
chiese protestanti non misero in discussione il canone del NT; e gli stessi
luterani ritornarono al canone tradizionale nel XVII secolo10. Anche
le riserve che Lutero avanzava a proposito di Ebrei, Giacomo, Giuda e
Apocalisse, sono in genere cadute. Valga, come esempio, il giudizio di O.
Cullmann sulla lettera di Giacomo:

Contrariamente al giudizio negativo di Lutero che la chiamava “lettera di


paglia”, essa ha un incontestabile valore teologico. Vi ritroviamo alcuni echi
del Sermone della Montagna e soprattutto una reale preoccupazione per i
poveri. Presa a se stante non darebbe certo un’idea del messaggio cristiano,
ma essa ha il suo posto a fianco degli altri scritti del Nuovo Testamento11.

2. Lutero e la Riforma

Fin dagli esordi della Riforma protestante, la discussione sul canone


biblico presentò punti di contatto con le questioni sollevate dalle ricer-
che degli umanisti, in particolare riguardo alla difficoltà di individuare
con sicurezza gli autori dei libri ispirati, fatto che contrastava con l’at-
tribuzione tradizionale ad autori ben definiti. In breve volgere di tem-
po, però, il problema si spostò sul­l’autorità – ai fini della soluzione di
questioni dottrinali – spettante ad alcuni scritti dal­l’attribuzione incerta
o sulla cui appartenenza al canone erano stati sollevati dubbi.
Mentre, infatti, nelle prime lezioni esegetiche di Lutero (1513-1518)
i testi deuterocanonici sono citati senza difficoltà, con la disputa fra
Lutero e Johannes Eck, svoltasi a Leipzig nel 1519, si confrontano due

9
Vedi sopra, cap. 14, 1.
10
Cfr. sopra, cap. 12.1.
11
O. Cullmann, Il Nuovo Testamento, il Mulino, Bologna 1968, 115.
Il canone in prospettiva ecumenica 335

punti di vista differenti circa l’autorità dei libri deuterocanonici del­l’AT.


Nella discussione del 9 luglio 1519, Eck si richiama a diverse auctoritates
allo scopo di fondare la dottrina del purgatorio. Lutero, da parte sua,
non contesta direttamente questa dottrina, ma afferma di non trovare
nessuna prova biblica chiara a suo favore. Quando poi Eck adduce come
prova affermazioni presenti nei libri dei Maccabei (cfr. 2 Mac 12,46),
senza esitazioni Lutero afferma che non si possono stabilire articoli dot-
trinali sulla base di testi dalla dubbia autorità canonica. A Eck, il quale
sostiene che anche questi testi sono stati accolti dalla chiesa (cfr. WA
39,528), Lutero concede che effettivamente tale ricezione è avvenuta, ma
aggiunge che la chiesa non può conferire a un libro un’autorità che esso
non possiede e rimprovera al suo interlocutore di argomentare usando
in modo equivoco il concetto di “canone” (WA 39,529).
Con l’avvio della traduzione della Bibbia, Lutero si confronta con la
questione del canone in senso complessivo; proprio nella prefazione alla
versione tedesca del NT apparsa nel settembre 1522 si trova una prima
illustrazione della concezione luterana del canone biblico. Per Lutero,
l’unità del canone neotestamentario deriva dal­l’unico vangelo che ne
costituisce il contenuto essenziale. Non è perciò corretto affermare che ci
sono quattro vangeli e quattro evangelisti, oppure suddividere gli scritti
del NT in legali, storici, profetici e sapienziali, come per l’AT. Lutero
ammonisce a non trasformare Cristo in un Mosè o il vangelo in legge
o in libro di dottrina. Il centro del vangelo è costituito dal messaggio
di salvezza. D’altra parte, i libri neotestamentari contengono anche in-
segnamenti e precetti, i quali si collocano però su un livello inferiore
rispetto al centro propriamente soteriologico del NT.
Nella prospettiva di Lutero, dunque, «né un biblicismo letteralista,
né un fondamentalismo dottrinale sono in grado di cogliere il senso
contenuto nella sacra Scrittura, ma solo la fides iustificans che si affida
alla promissio della salvezza offerta nel vangelo»12. Alla dottrina della
giustificazione del peccatore per grazia, a motivo di Cristo, mediante la
fede, spetta perciò una decisiva funzione ermeneutica nel contesto della
comprensione luterana della Scrittura: essa infatti rappresenta per Lutero
non solo il criterio oggettivo sulla base del quale deve essere giudicata
ogni dottrina ecclesiale, ma rappresenta anche il criterio di giudizio per
ogni affermazione contenuta nella Scrittura. Inoltre, il principio teolo-

12
G. Wenz, Die Kanonfrage als Problem ökumenischer Theologie, 251.
336 Il canone delle sacre Scritture

gico attorno al quale è possibile assicurare l’unità del NT diviene per


Lutero anche principio che permette di stabilire una gerarchizzazione
degli elementi e degli scritti di cui si compone il NT, secondo la loro
coincidenza con il centro del messaggio neotestamentario, del legame
più o meno stretto e della maggiore o minore prossimità a quello.
Nella prefazione alle lettere di Giacomo e Giuda, il criterio indicato
trova la sua formulazione classica e, al tempo stesso, è applicato in senso
critico nei confronti di quei testi che sono in contrasto con il centro del
messaggio evangelico: «Questo è il giusto criterio per giudicare tutti i
libri: vedere se essi portano a Cristo o no, dal momento che tutta la
Scrittura mostra Cristo (Rm 3) e Paolo non vuole sapere altro se non
Cristo (1 Cor 2). Ciò che non insegna Cristo non è apostolico, anche
se lo insegnasse Pietro o Paolo; invece, ciò che annuncia Cristo, questo
è apostolico, anche se lo facessero Giuda, Anna, Pilato o Erode» (WA
DB 7,384)13.
Il criterio che definisce il canone è dunque per Lutero il medesimo
che fonda l’autorità della Scrittura: in essa si annuncia Cristo e ciò che
rende l’uomo beato. «Quando afferma che la Scrittura non ha bisogno
di alcun fondamento esterno della propria autorità, Lutero non nega
che la fissazione del canone scritturistico sia stata compiuta mediante
una decisione della chiesa. Questo atto deve però essere compreso nel
senso che la Scrittura si è dimostrata alla chiesa come parola di Dio.
La determinazione del canone da parte della chiesa non fonda alcuna
precedenza (o superiorità) della chiesa rispetto al canone, o meglio della
parola di Dio, rispetto alla chiesa»14.

3. La critica storica e la definizione del canone

Agli inizi del XX secolo, presentando la situazione della teologia evan-


gelica riguardo al canone, dopo il confronto con la critica storica del XVIII
e XIX secolo, J. Leipoldt insisteva sul fatto che la critica metteva in dubbio

13
Trad. di A. Maffeis, Tra verità divina e critica storica. La trasformazione del concetto
di canone biblico in epoca moderna, 368-369.
14
Ibid., 372s.
Il canone in prospettiva ecumenica 337

l’affidabilità storica degli autori neotestamentari, minando in tal modo


l’autorità della Bibbia stessa15. A ben guardare, tuttavia, per la teologia
evangelica del XX secolo, «più ancora che il dubbio sul­l’affidabilità storica
degli autori del NT, la questione centrale sollevata dalla critica storica ri-
guarda l’unità del NT e la possibilità di ricondurre a un messaggio unitario
e coerente la pluralità di prospettive in esso presenti»16. La critica storica
rileva che gli scritti neotestamentari accreditano una pluralità di prospetti-
ve teologiche e di interpretazioni del cristianesimo e che tale pluralità non
è superabile, a meno di percorrere la discutibile via del­l’armonizzazione.
La formulazione più influente circa la questione è offerta da E. Käsemann,
secondo il quale la pluralità di confessioni cristiane attualmente esistenti
ha la sua radice nella pluralità di prospettive teologiche presenti nel NT17.
Nello stesso tempo Käsemann è consapevole che quello storico non è
l’unico approccio possibile al NT. Se l’indagine storica conduce al ricono-
scimento della pluralità irriducibile di prospettive teologiche, il NT stesso
propone però al lettore anche il compito teologico del discernimento degli
spiriti, della distinzione tra spirito e lettera:

La Scrittura può diventare in ogni momento lettera, e lo diventa quando


non è più autorizzata dallo Spirito, ma è destinata ad essere autorità sem-
plicemente in quanto realtà che si propone, e a sostituire lo Spirito. La
tensione tra Spirito e Scrittura è costitutiva. Ciò significa che il canone
non è semplicemente identico al­l’evangelo, e che è parola di Dio solo nella
misura in cui è e diventa evangelo. In quanto tale, quindi, fonda anche
l’unità della chiesa. Poiché soltanto l’evangelo fonda l’unica chiesa, in tutti
i tempi e in tutti i luoghi. Tuttavia alla domanda che cosa sia l’evangelo non
può rispondere lo storico con una constatazione. Può deciderlo soltanto il
credente, condotto dallo Spirito e in ascolto della Scrittura. Per cui, anche
l’unità della chiesa non sarà mai un semplice dato di fatto, ma si verificherà
sempre e soltanto per fede18.

15
J. Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons. Zweiter Teil: Mittelalter und
Neuzeit, J.C. Hinrichts’sche Buchhandlung, Leipzig 1908, 164s.
16
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, 32.
17
E. Käsemann, Il canone neotestamentario fonda l’unità della chiesa?, in Id., Saggi
esegetici, Marietti, Casale M. 1985, 58-68 [orig. ted. in EvTheol 11 (1951/52) 13-21]: «Il
canone neotestamentario in quanto tale non fonda l’unità della chiesa. In quanto tale,
vale a dire nella condizione in cui si trova e si presenta allo storico, esso fonda invece la
molteplicità delle confessioni» (65).
18
Ibid., 67s.
338 Il canone delle sacre Scritture

Con quest’ultima prospettiva Käsemann riflette la linea classica della


teologia luterana che nel messaggio paolino della giustificazione indivi-
dua il canone nel canone19.
Una seconda questione che attraversa il dibattito contemporaneo sul
canone nella discussione ecumenica concerne il ruolo della chiesa nella
definizione del canone; la questione attiene al controverso tema del­
l’autorità della Scrittura e della sua relazione con la tradizione e l’auto-
rità della chiesa, che fin dal sorgere della Riforma ha visto contrapposti
cattolici e protestanti. La prospettiva della Riforma è ben rappresentata
da quanto afferma Karl Barth:

La Bibbia si rende essa stessa canone. Essa è canone perché in quanto tale si è
imposta alla chiesa e si impone sempre di nuovo. La memoria da parte della
chiesa della rivelazione divina compiuta ha dichiaratamente la Bibbia come
oggetto concreto perché, di fatto, questo e nessun altro oggetto è la promessa
della rivelazione divina veniente che può rendere l’annuncio di essa dovere
per la chiesa e darle coraggio e gioia per il compimento di questo dovere20.

Su questo tema, la III Conferenza mondiale di Fede e Costituzione


(Montreal 1963) ha dato un rilevante contributo a superare le angustie
della polemica confessionale e ha permesso di giungere a una valutazione
condivisa del fenomeno della tradizione, che precede la formulazione
scritta del­l’annuncio apostolico e la segue nella forma della predicazione
ecclesiale21. Nondimeno, negli studi preparatori, si rileva il persistere di
differenze non marginali tra la concezione cattolica e quella evangelica
circa il rapporto tra Scrittura e tradizione. Da parte evangelica, riserve
sono espresse soprattutto riguardo al­l’argomento classico della teologia
cattolica, secondo cui la canonizzazione della Scrittura è la prova del
valore normativo spettante alla tradizione a fianco della Scrittura:

Come la confessione di fede non conferisce autorità a ciò che confessa, ma


piuttosto ne riconosce e proclama l’autorità sperimentata come operante,

19
Cfr. F. Ferrario, Dio nella Parola. Frammenti di teologia dogmatica 1, Claudiana,
Torino 2008, 220-224.
20
K. Barth, Die kirchliche Dogmatik I/1. Die Lehre vom Wort Gottes. Prolegomena zur
kirchlichen Dogmatik, Chr. Kaiser, München 1932, 110.
21
Cfr. il rapporto della sezione II: Scrittura, Tradizione e tradizioni, in Enchiridion
Oecumenicum VI. Fede e Costituzione. Conferenze mondiali 1927-1993, EDB, Bologna,
nn. 1908-1946.
Il canone in prospettiva ecumenica 339

così la constatazione della canonicità, e correlativamente il giudizio sola


Scriptura, è un’asserzione confessionale. Essa si riferisce ultimamente al te-
stimonium spiritus sancti internum come modo in cui la “cosa” della Scrittura
si fa valere. Come la Scrittura non è separabile dal suo uso, dal­l’annuncio,
così anche il testimonium spiritus sancti internum non deve essere separato
dalla testimonianza della chiesa in quanto perdurante evento del­l’annuncio
nel quale si incontra concretamente la Scrittura22.

Se la sottolineatura del legame fra Scrittura e tradizione intende man-


tenere la Scrittura nel­l’ambito del­l’annuncio ecclesiale, non c’è motivo
di dissenso, che è invece inevitabile quando la chiesa pretende di fondare
l’autorità della Scrittura. Ne consegue che, per la teologia evangelica,
l’atto ecclesiale che sancisce l’estensione del canone biblico non fonda
la canonicità degli scritti e talvolta si ritiene che non sia una decisione
irreversibile ma, almeno in linea di principio, modificabile.
Dal punto di vista sistematico s’impone però la questione di una defi-
nizione appropriata della relazione tra il canone come realtà che precede
la decisione ecclesiale e che tale decisione non fa altro che constatare, e
il significato della decisione della chiesa, che pone innegabilmente una
realtà nuova e non esistente in precedenza in quella forma. Da una parte è
evidente che la chiesa, nel momento in cui con decisione formale stabilisce
i confini del canone, per molti aspetti ratifica un canone già esistente, ope-
rante e riconosciuto normativo nel­l’uso liturgico e nella pratica ecclesiale
del­l’interpretazione biblica. Dal­l’altra, il riconoscimento dei libri canonici
fatto sulla base della corrispondenza alla regola di fede, suggerisce un ruolo
più attivo della chiesa, la quale applica il criterio di conformità alla norma
della propria fede e su questa base esclude determinati libri.
Tenendo conto di questo intreccio tra ricezione di un corpo di scritti
già dato e determinazione degli scritti che a tale corpo appartengono,
Morwenna Ludlow rileva che la chiesa non è stata il recipiente pu-
ramente passivo di una raccolta di libri formatasi come risultato del­
l’interazione casuale di determinate forze sociali. Ancor meno questi testi
si sono imposti alla chiesa per un’azione di Dio che avrebbe conosciuto
le ragioni per cui questi testi erano da considerare canonici più di quanto
la chiesa stessa le conoscesse23. Il processo effettivo di formazione del

22
G. Ebeling, “Sola Scriptura” und das Problem der Tradition, in E. Käsemann (ed.),
Das Neue Testament als Kanon, 297.
23
M. Ludlow, “Criteria of Canonicity” and the Early Church.
340 Il canone delle sacre Scritture

canone non si comprende se non si tiene conto della presenza di una


ricezione passiva e di una decisione attiva da parte della comunità eccle-
siale, in una «relazione reciprocamente configurante (mutually-shaping
relationship) tra la chiesa e i suoi testi»24. Inoltre, tale modo di descrivere
la relazione tra la chiesa e i testi biblici nella formazione del canone non
si raccomanda solo perché ne rispecchia in modo più accurato lo svolgi-
mento storico effettivo, ma costituisce «una prospettiva importante per
la comprensione teologica della storia della Scrittura e della chiesa»25.
A livello sistematico, infatti,

una teoria del canone che voglia essere al­l’altezza dei dati storici relativi al
processo della sua formazione deve riuscire a pensare in forma unitaria e
coerente il duplice principio di unità del canone neotestamentario: il suo
principio di unità dal­l’interno, derivante dalla testimonianza del­l’evento
storico della rivelazione, che costituisce il contenuto essenziale degli scritti
canonici e il fondamento del loro carattere normativo, e il principio della
delimitazione verso l’esterno del corpo degli scritti canonici, che non è pen-
sabile se non in stretta connessione con l’uso ecclesiale di tali scritti e con la
loro ininterrotta interpretazione. Da questo duplice principio deriva anche
il differente significato che il concetto di canone può assumere: esso è norma
fondamentale della fede, che la chiesa riceve e non costituisce, ma è anche
norma che la chiesa stessa stabilisce con l’atto del suo riconoscimento e che
fa valere al proprio interno in forme analoghe a quelle con cui stabilisce la
norma dottrinale della propria fede26.

Tra le voci che, nella teologia evangelica contemporanea, hanno mes-


so in risalto lo stretto rapporto esistente tra Scrittura e chiesa, merita
di essere ricordata quella di Gerhard Sauter27. Prendendo le distanze
dalla tesi di E. Käsemann sulla pluralità delle teologie del NT come
fondamento della pluralità confessionale, egli afferma che la Scrittura
deve essere intesa come “totalità dinamica” che è legata essenzialmente
alla chiesa. La peculiarità della chiesa e la peculiarità del canone biblico,
secondo G. Sauter, non possono essere definite semplicemente a partire
dalla loro relazione reciproca o attraverso la ricostruzione della storia

24
Ibid., 92.
25
Ibid., 90.
26
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, 67s.
27
G. Sauter, Kanon und Kirche.
Il canone in prospettiva ecumenica 341

degli effetti del­l’una e del­l’altra, ma rimandano insieme al fondamento


comune che si trova al di là della Scrittura e della chiesa. Tale fonda-
mento comune, cioè il Cristo attestato dalla Scrittura come fondamento
della chiesa, costituisce il punto centrale della Scrittura che «non è dato
senza il canone, ma non è neppure dato solo con esso. La chiesa scopre
piuttosto il fondamento della propria unità nella sua vita con la Bibbia,
esponendosi alla totalità della Scrittura»28. G. Sauter da un lato critica la
posizione che cerca il canone nel canone e non accoglie la testimonianza
biblica nella sua totalità29, dal­l’altro recupera il senso e l’importanza
della delimitazione dei contorni esterni del canone: «La formazione del
canone ha tracciato delle linee di confine lungo le quali i cristiani si sono
mossi e in riferimento alle quali hanno sperimentato che qui la fede e la
vita cristiana si sono differenziate da altre esperienze religiose che pure
si richiamavano a Gesù di Nazaret»30.

28
Ibid., 251.
29
Ibid., 258.
30
Ibid., 256.
16.
La verità della Bibbia

Bibliografia: oltre ai vari commentari alla Dei Verbum (cfr. Bibliografia generale): Aa.Vv.,
La “verità” della Bibbia nel dibattito attuale (GdT 21), Queriniana, Brescia 1968, in par-
ticolare i saggi di P. Benoit, «La verità nella Bibbia. Dio parla il linguaggio degli uomini»
(pp. 149-179); P. Grelot, «La verità della Sacra Scrittura» (pp. 87-146 [orig. fr., «La vérité
de l’Écriture», in Id., La Bible Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture
Sainte, Desclée, Paris 1965, 96-134]); A. Grillmeier, «La verità della Sacra Scrittura. Sul
terzo cap. della Cost. Dog. ‘Dei Verbum’ del Vaticano II» (pp. 183-264); I. de La Potterie,
«Verità della Sacra Scrittura e storia della salvezza alla luce della cost. dog. ‘Dei Verbum’»
(pp. 281-306); N. Lohfink, «Il problema del­l’inerranza» (pp. 21-63). Vedi inoltre I. de La
Potterie, Storia e verità, in R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive
di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, 115-139; O. Loretz, La Verità della
Bibbia. Pensiero semitico e cultura greca, EDB, Bologna 1970; G. O’Collins, La verità
salvifica, in Id., Teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 19883, 295-301.
A.M. Artola, La Verità della Bibbia, in Id. – J.M. Sánchez Caro (edd.), Bibbia e
parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 183-203; G. Biguzzi, Il problema della verità biblica
nel Nuovo Testamento, in A. Izquierdo (ed.), Scrittura Ispirata. Atti del Simposio inter-
nazionale sul­l’ispirazione promosso dal­l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (Atti e
Documenti 16), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 233-248; P. Bovati
– P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP,
Milano - Roma 2012, 266-302; M.A. Grisanti, Inspiration, Inerrancy, and the OT Canon:
The Place of Textual Updating in an Inerrant View of Scripture, in Journal of the Evangeli-
cal Theological Society 44 (2001) 577-598; I. de La Potterie, Il Concilio Vaticano II e la
Bibbia, in Aa.Vv., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale M. 20002, 19-42; M. Tábet,
Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 1997, 95-109.

La verità della sacra Scrittura – nella terminologia cattolica preconci-


liare, la sua inerranza – è stata normalmente trattata nei manuali o nei
dizionari tra gli effetti o conseguenze del­l’ispirazione, anzi come una
delle conseguenze primarie1. Infatti, soltanto in virtù del­l’ispirazione, i

1
Cfr. per esempio: Aa.Vv., in MS 1, 482-488; R.F. Collins, in Nuovo Grande Com-
La verità della Bibbia 343

libri sacri della Bibbia sono per noi parola di Dio in linguaggio umano
e offrono al­l’uomo la verità senza errore che lo guida alla salvezza storica
ed escatologica. Pertanto questo capitolo poteva benissimo figurare come
conclusione della parte terza, dedicata a «La Bibbia: parola di Dio». Se
cade la fede nella verità della Scrittura sembra di conseguenza cadere
l’intero valore della Bibbia come testo ispirato. Questa connessione tra
verità e ispirazione è di nuovo alla base del documento del 2014 della
Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità; in un’ampia trat-
tazione relativa alla testimonianza degli scritti biblici sulla verità delle
Scritture, il documento connette la «verità per la nostra salvezza» di DV
11 non solo con il concetto di ispirazione, ma anche con l’approccio
canonico alle Scritture stesse, considerate nel loro insieme di AT e NT
e lette alla luce del mistero di Cristo2.
Così, la verità della Scrittura è un tema più complesso e può anche
venire considerata come la conclusione logica del «canone della Bib-
bia», almeno per due motivi: 1. il significato primo e fondamentale di
“canone” è quello di norma, regola della verità3; 2. la Bibbia è un’unità
intera e completa, AT e NT insieme, e soltanto nel contesto di questo
complesso unitario (una «analogia Scripturae» simile alla «analogia fi-
dei») ogni singolo elemento della Bibbia può essere inteso nel suo senso
autentico e può essere affermato come vero. Stabilito, cioè, il canone
del­l’AT e del NT nei suoi limiti precisi e definitivi, il discorso sulla verità
della sacra Scrittura trova nel canone un suo ambito e un suo contesto
perfettamente adeguati.
Come possiamo leggere la Scrittura senza negarne la verità, accoglien-
dola come parola di Dio e, allo stesso tempo, senza cadere nel fonda-
mentalismo e senza tuttavia negare l’esistenza, nella Scrittura stessa, di
evidenti errori, per esempio di carattere storico? È il grave problema che
la chiesa si è trovata ad affrontare nel corso dei secoli.

mentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1350s.; C.M. Martini – P. Bonatti, Il


messaggio della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 89-107; G.M.
Perrella – L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, 1: Introduzione generale, Marietti,
Torino 1960, 55-72; W. Harrington, Nuova Introduzione alla Bibbia, EDB, Bologna
1975, 63-74; ecc.
2
IVSS, nn. 62-103.
3
Vedi sopra, cap. 12, 1.
344 Il canone delle sacre Scritture

1. Breve storia del problema

Che la sacra Scrittura non inganni e non possa ingannare (inerranza di


fatto e di diritto) perché è parola di Dio, ciò è sottinteso nel dogma stesso
del­l’ispirazione4, in conformità alla fede giudaica e cristiana. Basti ricordare
quanto Filone affermava, riassumendo la fede dei giudei: «Le parole della
Tôrah furono poste a mo’ di oracolo nella mente del profeta da Dio stesso,
al quale non può essere attribuito nessun errore»5; si presti attenzione ad
alcune affermazioni del NT: «La Scrittura non può essere annullata» (Gv
10,35); «La Scrittura si deve compiere» (Lc 24,44; At 1,16); e la formula:
«Sta scritto», che introduce la Scrittura come argomento assolutamente
irrefutabile (cfr. Mt. 4,4; At 15,15; Rm 1,17; 1 Pt 2,6 ecc.).
Tuttavia già nel giudaismo erano ben presenti le discordanze, almeno
apparenti, tra i libri del­l’AT; e la tradizione rabbinica assicurava che una
delle benedizioni che si sarebbero ricevute al ritorno di Elia sarebbe stata
la spiegazione delle apparenti discordanze tra Ezechiele e la Tôrah (cfr.
b. Menahoth 45a). Le difficoltà crebbero per il cristianesimo primitivo,
obbligato ad un confronto tra AT e NT; ma gli scrittori cristiani pote-
rono dare soltanto una risposta dettata dalla fede: un approccio critico
al problema era al di là del loro orizzonte ermeneutico.
Due autori, un ebreo e un cristiano, sono testimoni delle difficoltà
incontrate dal­l’incontro tra il mondo biblico e quello greco. Se infatti
per l’uomo greco la verità si cela nella realtà attraverso le apparenze
ed è possibile scoprirla mediante la ragione, per l’uomo della Bibbia
la verità non sta dietro alle cose, o nelle cose, ma si identifica con un
essere personale, Dio. La verità sta così nel rapporto sempre nuovo tra
la parola di Dio e la sua attuazione nella storia; una verità che si coglie
nel­l’esperienza concreta della vita, vissuta nella fede nel Dio di Israe-
le. «Di conseguenza, la verità israelitica non si trova, a differenza della
logica greca, nella comprensione del senso degli enunciati, bensì nella
conformità tra l’enunciato biblico e la sua attuazione. È questa la grande
differenza tra la verità logica greca e la verità esistenziale del­l’israelita»6.

4
Vedi sopra, capp. 8-9.
5
De praem. et poen., 55.
6
A.M. Artola, La Verità della Bibbia, 185; cfr. anche I. de La Potterie, Verità della
Sacra Scrittura e storia della Salvezza.
La verità della Bibbia 345

Per il cristiano, poi, la verità sarà la manifestazione di Dio nella persona


del Cristo, «via, verità e vita» (Gv 14,6); allo stesso tempo è lo Spirito di
verità (Gv 14,17; 15,26; 16,13), colui che guida gli apostoli alla verità
intera (Gv 15,26s.); la verità ha così allo stesso tempo una dimensione
trinitaria, cristologica ed ecclesiale.
Il problema del rapporto tra la diversa concezione della verità nel
mondo biblico e in quello greco si pose forse per la prima volta ad Ales-
sandria d’Egitto; qui, nel I secolo d.C., già esisteva da tempo una scuola
di esegesi omerica; l’Iliade e l’Odissea creavano problemi a quei greci che
affrontavano tali poemi da una prospettiva razionalistica: una delle rispo-
ste fu trovata nella lettura allegorica, che permetteva di leggere Omero
senza bloccarsi sul problema della verità dei miti da lui narrati. La stessa
linea fu seguita dal­l’ebreo Filone di Alessandria che, nella prima metà
del I secolo d.C., raccoglie la sfida: come dare un senso a racconti biblici
inaccettabili per uno spirito greco. La soluzione allegorica permette non
solo di trovare una risposta di carattere apologetico, ma anche di scoprire
nei racconti biblici un “di più” di ordine spirituale e mistico7.
Nel campo opposto, quello pagano, un vero e proprio attacco alla
verità biblica fu portato nel 180 d.C. dal filosofo Celso, nel suo Discorso
vero (Alēthḕs lógos), a noi noto dalla polemica condotta da Origene nel
suo Contra Celsum. È interessante il fatto che Celso attacca il cristiane-
simo proprio a partire dalle sue Scritture. Scrive Celso:

I giudei, rincantucciati in un angolo della Palestina, senza mai aver sentito


dire che queste cose erano state cantate da Esiodo e da mille autori ispirati,
composero una storia inverosimile e veramente rozza: un uomo, modellato
dalle mani di Dio che ne riceve il soffio; una donna, tratta dal suo costato;
dei comandamenti di Dio; un serpente che si ribella contro di essi e il ser-
pente vittorioso delle prescrizioni di Dio. Racconti da donnicciole, in cui
l’empietà maggiore è questa fantasia che fa Dio tanto debole fin dal­l’origine
da non renderlo neanche capace di convincere il solo uomo che lui stesso
ha modellato8!

7
Cfr. P. Gibert, Breve storia del­l’esegesi biblica (GdT 238), Queriniana, Brescia 1995,
98-107. Sul­l’esegesi omerica e Filone cfr. M. Niehoff, Jewish Exegesis and Homeric Scho-
larship in Alexandria, Cambridge University Press, Cambridge 2011.
8
Origene, Contra Celsum, IV 36: PG 11,1083 [ed. it., Contro Celso, Morcelliana,
Brescia 2000]. Cfr. P. Gibert, Breve storia del­l’esegesi biblica, 118-129; F. Mosetto, I
miracoli evangelici nel dibattito tra Celso e Origene (BSR 76), LAS, Roma 1983.
346 Il canone delle sacre Scritture

Alle obiezioni di Celso, Origene risponde nello stesso senso di Filone,


proponendo una lettura allegorica delle Scritture: «Infatti è a partire dalle
profezie nelle quali vengono riportati i fatti storici, e non a partire dalla
storia, che ci si può convincere che anche i fatti storici sono riportati
in vista di una interpretazione allegorica»9. Origene – come del resto
Filone – non ignora e non nega il senso letterale delle Scritture, ma ai
problemi posti da Celso risponde attraverso una lettura allegorica dei
racconti biblici. Il problema è in realtà estremamente attuale: a che mi
serve, scrive Origene nelle sue omelie sul libro di Giosuè, conoscere
ciò che Giosuè ha fatto in guerre remote e lontane dai nostri interessi?
Si tratta di trovare nel racconto biblico un senso che interessi anche il
lettore cristiano: quello che in seguito è stato chiamato “senso spiritua-
le”. Ma sia Filone che Origene attestano, in campo ebraico e in campo
cristiano, che il problema della verità delle Scritture era già al­l’epoca un
problema grave; tuttavia, la soluzione allegorica non lo ha pienamente
risolto, anzi, per molti aspetti lo ha complicato; essa comporta infatti
un rischio enorme: l’allontanamento dalla storia e, dunque, la negazione
stessa del concetto ebraico di “verità”. Inoltre, per rispondere al­l’attacco
contro la verità biblica, da Origene in poi l’apologetica cristiana dovette
adottare le stesse armi degli avversari, trasferendo così, come vedremo, il
problema della verità biblica a quello di una verità assoluta, di carattere
filosofico e dogmatico, e chiudendo alla fine la Bibbia in un vicolo cieco,
almeno fino al­l’epoca contemporanea.

1.1. Dalle origini al XVI secolo

Giustino, al giudeo Trifone che voleva metterlo in imbarazzo po-


nendogli di fronte le contraddizioni delle Scritture, risponde: «Che le
Scritture possano contrastare fra loro mai oserò pensarlo né dirlo; e se
vi fosse qualche Scrittura che sembri essere tale, piuttosto confesserò
di non capire quel che significhi e cercherò di persuadere anche quanti
sospettano che le Scritture contrastino tra loro, affinché piuttosto la
pensino come me»10. Ireneo scrive:

9
Contra Celsum, IV, 49: PG 11,1107.
10
Dial. c. Triph., 65: PG 6, 625.
La verità della Bibbia 347

Se non possiamo trovare una soluzione a tutte le difficoltà che appaiono nella
Bibbia, sarebbe nondimeno la più grande empietà il voler cercare un Dio
diverso da quello che è. Dovremmo affidare tali cose a Dio che ci ha fatti,
riconoscendo che le Scritture sono perfette poiché sono state pronunciate
dalla parola di Dio e dal suo Spirito11.

Le discordanze nella Bibbia furono uno dei motivi per cui gli antichi
scrittori cristiani ricorsero volentieri al­l’interpretazione allegorica di al-
cuni passi biblici, come al­l’unico modo che consentiva loro di ritrovarvi
quella verità divina che altrimenti sembrava compromessa (vedi sopra).
Ciò valeva per l’AT, ma anche per i vangeli per quanto concerne le di-
scordanze tra i Sinottici e Giovanni. Così Origene, a proposito degli inizi
del ministero di Gesù nei Sinottici e in Giovanni, scrive:

Bisogna precisare che la verità, per quanto riguarda questi fatti, risiede nel
loro significato intelligibile, altrimenti, se non si dà una spiegazione della
discordanza nei resoconti evangelici (tra Giovanni e gli altri tre evangelisti),
(molti) perdono la fede nei vangeli, come se non fossero veritieri né scritti
per ispirazione di uno Spirito più divino né precisi nel ricordare i fatti […].
Orbene, coloro che accettano i quattro evangeli e sono anche convinti che
la discordanza apparente non si risolleva con l’interpretazione analogica, ci
spieghino allora, oltre alle difficoltà da noi accennate in precedenza, a pro-
posito dei quaranta giorni della tentazione che non possono assolutamente
essere inseriti nella narrazione di Giovanni, ci dicano quando il Signore ven-
ne a Cafarnao. Se egli ci venne dopo i sei giorni successivi al battesimo, dato
che nel sesto avvenne l’“economia” alle nozze di Cana in Galilea, è chiaro che
Gesù non è stato tentato, non è stato a Nazaret e Giovanni non era ancora
stato imprigionato […]. Ma anche su numerosi altri punti, se uno esamina
attentamente i vangeli sulla loro discordanza sotto l’aspetto squisitamente
storico […], gli viene il capogiro; e a questo punto o gli passa la voglia di
dimostrare la verità dei vangeli e allora, se non se la sente di eliminare del
tutto la fede su ciò che concerne il nostro Signore, sceglie uno dei vangeli
a capriccio e vi aderisce; oppure li accetta tutti e quattro e dirà che la loro
verità non consiste in ciò che è corporeo12.

Sempre a proposito di apparenti contraddizioni nei vangeli, in una


lunga lettera a san Girolamo, Agostino confessava: «Se in questi scritti

11
Adv. haer., 2,28,2: PG 7, 804s.
12
Origene, In Job. 10,2: PG 14, 309-311 (Commento al Vangelo di Giovanni, UTET,
Torino 1968, 382s.).
348 Il canone delle sacre Scritture

incontro qualcosa che abbia l’apparenza di essere contraria alla verità,


senza la minima esitazione, a nient’altro penso se non che il codice
(su cui leggo) è difettoso, oppure che il traduttore non è stato capace
di rendere il pensiero fedelmente, oppure che io non ho capito un bel
nulla»13. Si deve tuttavia rilevare che, almeno per quanto riguarda la pre-
tesa verità scientifica della Bibbia, Agostino aveva impartito una lezione
ben precisa, purtroppo disattesa ai tempi di Galileo: «[Il Signore] voleva
fare dei cristiani, non degli scienziati (christianos enim facere volebat,
non mathematicos)», né lo Spirito Santo è stato mandato per insegnare
come si muovano il sole e la luna14; e: «Lo Spirito di Dio che parlava
attraverso gli autori sacri non ha voluto insegnare agli uomini cose che
non sarebbero state di nessuna utilità per la loro salvezza»15.
Tommaso d’Aquino riaffermò il principio di fede: «Quidquid in sacra
Scriptura, verum est»16, cioè la verità della Scrittura non è soltanto una
questione di fatto ma di diritto, perché deriva dalla conoscenza profetica
di cui gli autori sacri hanno beneficiato. Ma affermò anche che il dato di
fede della verità della Scrittura deve essere oggetto di un esame critico.
Per risolvere le difficoltà del primo capitolo di Genesi, Tommaso afferma
che: 1. occorre fermamente ritenere la «verità della Scrittura»; 2. quando
la Scrittura dà adito a diverse interpretazioni, occorre scartare quelle che
la ragione dimostra inesatte, per non esporre la parola di Dio al dileggio
degli increduli e così precludere loro il cammino della fede17.

1.2. Il «caso Galilei»

La prima vera e propria contestazione del principio della verità della


Scrittura avviene soltanto in epoca moderna col caso Galilei, che in fondo
non fu altro che una discussione-scontro sul­l’inerranza della Scrittura,
posta a confronto con le scienze naturali. Il caso Galilei è emblematico
per i suoi risvolti spesso polemici nei confronti della chiesa cattolica e per
le difficoltà che la chiesa si è trovata ad affrontare, in relazione alla verità

13
Epist. 82, 1,3: PL 33, 277 (Le Lettere 1, Città Nuova, Roma 1969, 675-677).
14
De actis cum Felice Manichaeo 1,10: PL 42, 525.
15
De Gen. ad litt. 2,9: PL 34, 270; cfr. ibid. 2,10: PL 34, 271s.
16
Quodl. 12, q.17, a.1, ad 1; cfr. Summa Theol. II-II, q.171, a.6.
17
Cfr. Summa Theol. I, q.68, a.1.
La verità della Bibbia 349

biblica, se posta a confronto con le scienze naturali18. Con il far girare la


terra attorno al sole Galileo, a parere dei suoi giudici, attribuiva un errore
alla Bibbia che sembrava affermare il contrario. In verità la posizione
esegetica di Galileo, almeno quella che risulta dalla sua Lettera a Cristina
di Lorena Granduchessa di Toscana del 1615, era estremamente precisa e,
in pratica, anticipava quella adottata da Leone XIII nel­l’enciclica Provi-
dentissimus Deus del 1893. Dopo aver riportato le parole di Agostino19
secondo il quale «lo Spirito di Dio che parlava attraverso gli autori sacri
non ha voluto insegnare agli uomini cose che non sarebbero state di
nessuna utilità per la loro salvezza», Galileo scriveva:

Dalle quali cose descendendo più al nostro particolare, ne seguita per ne-
cessaria conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se
il cielo si muova o stia fermo, né se la sua figura sia in forma di sfera o di
disco o distesa in piano, né se la terra sia contenuta nel centro di essa o da
una banda, non avrà manco avuta intenzione di renderci certi di altre con-
clusioni del­l’istesso genere, e collegate in maniera con le pur ora nominate,
che senza la determinazione di esse non se ne può asserire questa o quella
parte; quali sono il determinar del moto e della quiete di essa Terra e del
Sole. E se l’istesso Spirito Santo ha pretermesso d’insegnarci simili proposi-
zioni, come nulla attinenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come
si potrà adesso affermare, che il tener in esse questa parte, e non quella, sia
tanto necessario che l’una sia de Fide, e l’altra erronea? Potrà dunque essere
un’opinione eretica, e nulla concernente alla salute delle anime? o potrà dirsi,
aver lo Spirito Santo voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io
qui direi quello che intesi da persona ecclesiastica in eminentissimo grado [il

18
Cfr. G. Pani, Il caso Galileo: il metodo scientifico e la Bibbia: Ratzinger-Galileo alla
Sapienza, a cura di V. D’Adamo, Sigma, Palermo 2008; un caso analogo sarà il problema
posto dalle teorie di Darwin sul­l’evoluzione. È in questo contesto polemico che dev’essere
inquadrata la discussione sulla inerranza biblica contenuta nella Providentissimus Deus
(vedi sotto). Cfr. anche A. Melloni, Galileo al Concilio. Storia di una citazione e della
sua ombra, EDB, Bologna 2014. Secondo Melloni, per i Padri del Vaticano II la vicenda
di Galileo, richiamata al concilio soltanto marginalmente in una nota a GS 36, diventa,
simbolicamente e paradossalmente, un modo con il quale scrutare l’abuso, «l’impianto
teologico che lo ha sorretto», la resistenza a rinnegarlo, il danno che ha causato «non
tanto alla reputazione della chiesa, ma alla sua trasparenza evangelica», il rischio che «la
mentalità che aveva presieduto al­l’errore del 1633 si riproponesse addirittura durante il
concilio su temi nuovi» (l’esegesi storico-critica, Teilhard de Chardin, la contraccezione,
la psicanalisi) e, infine, «la possibilità di ricavare da quella storia una lezione» sulla natura
del rapporto fra “fede e scienza”.
19
Vedi sopra.
350 Il canone delle sacre Scritture

Cardinal Baronio], ciò è l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci


come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo20.

E, a proposito del «férmati, o sole» di Gs 10,12-14, Galileo scriveva:

[…] Perché le sue [di Giosuè] parole erano ascoltate da gente che forse
non aveva altra cognizione de’ movimenti celesti che di questo massimo
e comunissimo da levante a ponente, accomodandosi alla capacità loro,
e non avendo intenzione d’insegnargli la costituzione delle sfere, ma solo
che comprendessero la grandezza del miracolo fatto nel­l’allungamento del
giorno, parlò conforme al­l’intendimento loro21.

1.3. Verso il concilio Vaticano II22

Il problema del­l’inerranza della Bibbia divenne ancora più acuto nel


XIX secolo con il progresso delle scienze e di quella storica in particolare.
Alla teoria evoluzionistica di Darwin si oppose il “concordismo”: per
esempio, nei giorni della creazione del racconto “sacerdotale” di Gen 1,
si pretendeva di ritrovare i diversi periodi geologici della scienza evolu-
zionistica. Ma la strategia concordistica si rivelò precaria e vana, sia per
il continuo evolversi dei sistemi scientifici, sia per l’inadeguatezza critica
di un’esegesi concordistica: nel caso di Gen 1, per esempio, è fin troppo
chiaro che l’autore biblico intenda i giorni della creazione come giorni
solari (cfr. il ritornello: «fu sera e mattina, primo giorno» ecc.).
Nel campo della scienza storica il problema era ancora più serio.
Con i progressi del­l’archeologia e lo studio delle lingue orientali e delle
letterature extra-bibliche, la conoscenza del­l’antico Vicino Oriente e
della sua storia si era fatta più precisa e sembrava contestare il valore
della Bibbia come fonte di informazione storica. Le risposte del­l’esegesi
cattolica furono al­l’inizio di un certo tipo: limitare, cioè, l’ambito del­
l’inerranza della sacra Scrittura. J.H. Newman riteneva che l’ispirazione

20
G. Galilei, Lettera alla Serenissima Madama la Granduchessa Madre (Cristina di
Lorena), in Le opere di Galileo 5, ed. Nazionale, G. Barbera, Firenze 1895, 319.
21
Ibid., 344.
22
Cfr. J. Levie, La Bible parole humaine et message de Dieu, Desclée, Paris - Louvain
1958, 9-226; L. Pacomio, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. Intro-
duzione generale alla Sacra Scrittura, 172-194.
La verità della Bibbia 351

(e quindi l’inerranza) non si estendesse agli obiter dicta della Scrittura,


cioè al materiale di scarsa importanza e meramente aneddotico, privo di
connessione con la materia di fede e di morale. Più tardi padre F. Prat, in
una serie di articoli sulla rivista Études del 1900-1902, elaborò la teoria
delle citazioni implicite, secondo la quale gli autori sacri, quando riferi-
scono narrazioni altrui senza citarne espressamente la provenienza, non
se ne renderebbero garanti. Ma giustamente la Pontificia Commissione
Biblica rispose nel 1905 che, ammesso che esistano citazioni implicite
nella Bibbia, si presuppone che l’autore le faccia proprie per il fatto che
non ne cita la fonte: il contrario dev’essere chiaramente provato (cfr.
EB 160).
La risposta che ha fatto più storia fu quella di limitare l’inerranza
biblica ai soli contenuti di fede e di morale. Mons. Maurice D’Hulst,
rettore del­l’Istituto Cattolico di Parigi, in un articolo apparso su Le Cor-
respondant del gennaio 1893 col titolo La question Biblique, formulava
così la sua teoria23:

Altro è rivelare, altro ispirare. La rivelazione è un insegnamento divino,


che non può che riguardare la verità. L’ispirazione è un’azione motrice che
determina lo scrittore sacro a scrivere, lo guida, lo spinge, lo sorveglia. Que-
sta mozione, secondo l’ipotesi che io espongo, garantirebbe lo scritto da
ogni errore nelle materie di fede e di morale; ma si ammetterebbe che la
preservazione (da errori) non va al di là; essa avrebbe allora gli stessi limiti
del­l’infallibilità della chiesa.

D’Hulst proseguiva, citando J. Didiot, Rettore del­l’Istituto Cattolico


di Lilla, e facendo propria la riflessione di lui:

La chiesa, quando esercita nei concili la sua autorità di interprete infallibile


della Scrittura, l’applica o la suppone applicata sempre alle cose di fede e
di morale, ma non l’applica alle altre. Ora è poco probabile – sembra – che
Dio abbia fatto la Bibbia infallibile in alcuni punti, in alcuni argomenti nei
quali la chiesa non lo sarebbe stata o almeno non avrebbe preteso di esserlo.
È difficile credere che l’infallibilità del custode sia meno ampia di quella del
tesoro da custodire.

23
Cit. in F. Spadafora – A. Romeo – D. Frangipane, Il Libro Sacro, 1: Introduzione
generale, Messaggero, Padova 1958, 163s., note 467 e 469.
352 Il canone delle sacre Scritture

La teoria di D’Hulst sembrava avere risolta definitivamente la que-


stione biblica, ma in realtà partiva da una distinzione artificiale e finiva
per pregiudicare la pur affermata universalità del­l’ispirazione:

Una distinzione del genere, tra la dottrina religiosa e le cose profane della
Bibbia, è abbastanza artificiale. Da una parte, presuppone una concezione
intellettualistica della rivelazione, come se Dio si fosse rivelato, comuni-
cando al­l’uomo soltanto delle dottrine; concezione che è stata felicemente
superata dal concilio […]. D’altra parte, la limitazione del­l’inerranza alle
sole cose religiose implicherebbe necessariamente che nella Bibbia molte
cose siano puramente profane. Ma come ammettere che Dio abbia ispirato
gli autori sacri allo scopo di far scrivere loro delle cose profane? Bisogna
dire invece che la parola di Dio, sempre e dappertutto, si riferisce al disegno
di Dio; è ovvio, pertanto, che la Bibbia ha sempre in qualche maniera un
carattere religioso24.

L’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII si affrettò (l’articolo


di D’Hulst era del gennaio 1893, l’enciclica è del dicembre dello stesso
anno) a condannare esplicitamente la soluzione di D’Hulst; ed egli man-
dò subito a Roma la sua ritrattazione. L’enciclica affermava:

È del tutto illecito, o restringere l’ispirazione ad alcune parti soltanto della


sacra Scrittura, o concedere che lo stesso autore sacro abbia sbagliato. Né si
può tollerare il modo di fare di coloro che, per disfarsi delle obiezioni (contro
la verità della Scrittura), non si peritano di affermare che l’ispirazione divina
concerne le cose di fede e di morale, e niente altro… L’ispirazione divina è
incompatibile con qualsiasi errore: per sua essenza stessa non solo esclude
ogni errore, ma l’esclude con la stessa necessità per cui Dio, somma verità,
non è autore di alcun errore. Questa è la fede antica e costante della chiesa
(EB 124; FC 69).

La condanna della limitazione materiale del­l’ispirazione e del­


l’inerranza biblica fu ripetuta dalle encicliche Spiritus Paraclitus di Be-
nedetto XV nel 1920 (cfr. EB 454), Pascendi di Pio X nel 1907 (cfr.
EB 279) e Divino Afflante Spiritu di Pio XII nel 1943 (cfr. EB 539s).
Si deve tuttavia riconoscere che nella posizione di D’Hulst c’era un’in-
tuizione giusta, che cioè bisogna in qualche modo interpretare la verità

24
I. de La Potterie, in La “verità” della Sacra Scrittura, 283-284.
La verità della Bibbia 353

biblica sotto l’aspetto religioso, come dirà il concilio Vaticano II nella


DV 1125.
Altre risposte, inadeguate o false, furono date successivamente alla Pro-
videntissimus Deus. La teoria della verità relativa e di una fallibilità parzia-
le dello scrittore sacro (praticamente si ammettevano errori nella Bibbia
per le cose scientifiche e storiche, e non nella religione e nella morale),
difesa tra l’altro dal modernista A. Loisy, fu condannata dalla Pascendi
di Pio X (cfr. EB 279). M.J. Lagrange e F. von Hummelauer dettero vita
alla teoria delle apparenze storiche, la quale estendeva alle sezioni narrative
storiche della Bibbia ciò che si può e si deve dire (lo affermava anche la
Providentissimus Deus: cfr. EB 121) delle cose scientifiche. Per essi l’agio-
grafo, come non descrive l’intima essenza del fenomeno scientifico ma
solo la sua apparenza sensibile, così può esporre non la realtà oggettiva dei
fatti ma i fatti come sono presentati dalla narrazione popolare. Ma anche
qui, pur ammettendo che talvolta il racconto della storia nella Bibbia
può assumere il genere letterario del racconto popolare, l’equivoco era
grande. Non c’è parità, in ordine alla rivelazione biblica, fra fenomeni
della natura ed avvenimenti storici nel­l’ambito della storia della salvezza.
Che storia mai sarebbe una storia «secondo le apparenze»? E infatti l’en-
ciclica Spiritus Paraclitus di Benedetto XV respinse fermamente questa
interpretazione, segnando la fine della teoria delle “apparenze storiche”:

Che somiglianza infatti può esserci tra le cose naturali e la storia, quando
le cose fisiche riguardano tutto ciò che appare sensibilmente e perciò deve
concordare col fenomeno, mentre al contrario la legge precipua della storia
è questa: la necessità che lo scritto concordi con le cose accadute, così come
realmente accaddero? (EB 457).

L’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII nel 1943 aprì una strada
nuova per la soluzione del problema del­l’inerranza della Bibbia, per
quanto riguarda le narrazioni storiche. Dopo aver ricordato che gli an-
tichi scrittori esponevano i fatti con una tecnica espositiva e linguistica
diversa dalla nostra, l’enciclica afferma:

Quando taluni presumono rinfacciare ai sacri autori o qualche errore storico


o inesattezza nel riferire i fatti, se si guarda ben da vicino, si trova che si tratta

25
Vedi sotto, § 2.
354 Il canone delle sacre Scritture

semplicemente di quegli usuali modi nativi di dire o di raccontare, che gli


antichi solevano adoperare nel mutuo scambio delle idee nella convivenza
umana, e che realmente si usavano lecitamente per comune tradizione (EB
560; FC 83).

In altri termini, la Divino Afflante Spiritu riconosce nella Bibbia una


varietà nel genere letterario “storico” e invita gli esegeti ad un uso am-
pio e corretto dei “generi letterari” per risolvere il problema della verità
biblica nelle narrazioni storiche26.
La riflessione sul problema della verità della Scrittura continuò tra
gli esegeti e i teologi cattolici anche dopo la Divino Afflante Spiritu,
ponendo così le premesse della soluzione sancita dal concilio Vaticano
II; recupereremo alcuni di questi contributi nel paragrafo finale27, dopo
aver assicurato la pietra miliare che la Dei Verbum ha segnato nel cam-
mino del­l’esegesi e della teologia.

2. La verità della sacra Scrittura secondo il concilio Vaticano II

La DV si esprime cosi:

Poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri
della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che
Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre lettere (DV 11).

Per capire il significato del testo conciliare e la sua portata storica,


è necessario percorrere – pur brevemente – l’itinerario delle successive
redazioni che il testo ha subito nel dibattito conciliare28, prima della sua
formazione definitiva. Trascriviamo in sinossi i vari schemi, per aiutare il
lettore ad un confronto critico.

26
Vedi sotto, § 3.2.
27
Vedi sotto, § 3.
28
Cfr. A. Grillmeier, La verità della Sacra Scrittura, 181-264; R. Saccenti, La parola,
la Scrittura e la storia. Storia del capitolo terzo della Dei Verbum, in PdV 60/3 (2015) 6-10;
F. Gil Hellin, Dei Verbum, 90-92.
La verità della Bibbia 355

SCHEMA I SCHEMA II SCHEMA III SCHEMA IV SCHEMA V

preconciliare - re- elaborato (Comm. rielab. (Comm. dot- discusso (4a sessio- promulgato (4a ses-
spinto (1a sess. 20 mista) - non disc. tr.) - disc. (3a sess., ne) 20-22 sett. 1965 sione) 18 nov. 1965
nov. 1962) (2a sess., 1963) 30 sett.-6 ott. 1964)

1 2 . L’ i n e r r a n z a 11. Ispirazione e iner­ 11. Ispirazione e iner­ 11. Ispirazione e VE­ 11. Ispirazione e VE­
conseguenza del­ ranza ranza RITÀ RITÀ
l’Ispirazione

Da questa esten- Poiché dunque Dio Poiché dunque tutto Poiché dunque tutto Poiché dunque tut-
sione della divina viene dichiarato ciò che l’autore ispi- ciò che l’autore ispi- to ciò che gli autori
Ispirazione a tutto, l’autore principale rato… asserisce, è da rato… asserisce, è ispirati o agiografi…
deriva direttamente di tutta la Scrittura ritenersi asserito dal- da ritenersi asserito asseriscono, è da ri-
e necessariamente e lo è veramente, ne lo Spirito Santo, è da dallo Spirito Santo, tenersi asserito dallo
l’immunità assoluta consegue che tutta la ritenersi anche, per è da ritenersi anche, Spirito Santo, è da
dal­l ’errore in tutta Scrittura divinamen- conseguenza, che i per conseguenza, ritenersi anche, per
la S. Scrittura… (la te ispirata è assolu­ libri interi della Scrit- che i libri interi della conseguenza, che i
fede) ci insegna che tamente immune da tura… insegnano Scrittura… insegna- libri della Scrittura
sarebbe del tutto ogni errore. senza nessun errore no fermamente e insegnano con cer-
illecito concedere la VERITÀ. fedelmente, integral- tezza, fedelmente e
che l’autore sacro mente e senza errore senza errore la VE-
ha errato, poiché la la VERITÀ salvifica. RITÀ che Dio, per la
divina Ispirazione nostra salvezza, volle
per se stessa esclude fosse consegnata
e respinge così neces­ nelle Sacre Lettere.
sariamente ogni erro­
re, in qualunque cosa 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra
religiosa o profana, Scrittura va interpre­ Scrittura va interpre­ Scrittura va interpre­ Scrittura va interpre­
come è necessario tata. tata. tata. tata.
che Dio, somma Ve-
rità, non sia l’autore Ma poiché Dio ha … l’interprete della … l’interprete della … l’interprete della
di nessun errore. scritto per mezzo di sacra Scrittura, per Sacra Scrittura, per Sacra Scrittura, per
uomini…, l’interprete capir bene q u a l e capir bene ciò che capir bene ciò che
13. Come l’inerranza della Sacra Scrittu- VERITÀ Egli [Dio] ha Egli ha voluto comu- Egli ha voluto comu-
va giudicata. ra, affinché appaia voluto comunicarci, nicarci, deve ricerca- nicarci, deve ricer-
quale VERITÀ ha deve ricercare con re con attenzione, care con attenzione,
Tuttavia questa iner­ voluto comunicarci, attenzione, che cosa che cosa gli agiogra- che cosa gli agiografi
ranza va giudicata deve ricercare con gli agiografi in real- fi in realtà abbiano in realtà abbiano in-
secondo il modo attenzione che cosa tà abbiano inteso inteso significare e teso significare e a
in cui si raggiunge l’agiografo abbia in significare e a Dio è a Dio è piaciuto ma- Dio è piaciuto ma-
la VERITÀ nel libro realtà inteso signi- piaciuto manifestare nifestare con le loro nifestare con le loro
sacro. ficare. … il modo di con le loro parole. parole. parole.
… il modo di rag- raggiungere la VERI- … l’interprete ri- … l’interprete ri- … l’interprete ricerchi
giungere la VERITÀ TÀ va giudicato dal cerchi il senso che cerchi il senso che il senso che l’agio-
va giudicato anche senso che l’agiogra- l’agiografo intese l’agiografo intese grafo intese di espri-
dal senso che l‘a- fo intese di espri- di esprimere ed e- di esprimere ed mere ed espresse…
giografo espresse… mere ed espresse… presse… La VERITÀ espresse… La VERI- Per intendere ret-
la VERITÀ infatti e La VERITÀ dunque, infatti, ossia ciò che TÀ infatti, ossia ciò tamente ciò che
la credibilità della S. ossia ciò che l’auto- l’autore sacro volle che l’autore sacro l’autore sacro volle
Scrittura, ossia ciò re sacro volle signi- significare n e l l o volle asserire nello asserire nello scrive-
che l’autore volle ficare nello scrivere, scrivere, non viene scrivere, non viene re, si deve far debita
realmente significa- non viene intesa ret- intesa rettamente, intesa rettamente, attenzione ecc.
re n e l l o scrivere, tamente, se non si se non si fa debita se non si fa debita
sovente non viene fa debita attenzione attenzione ecc… (cfr. attenzione ecc.
intesa rettamente, a quei modi abituali lo Schema II).
356 Il canone delle sacre Scritture

se non si fa debita di pensare, parlare o


attenzione ai modi raccontare, che era-
abituali di pensare, no in vigore ai tempi
parlare o raccontare, del­l’agiografo e che
che erano in vigore erano allora dovun-
al tempo degli agio- que di uso comune
grafi. nei rapporti mutui
degli uomini.
… non si devono … non si devono
maggiormente ac- maggiormente ac-
cusare di errore di cusare di errore di
quando simili o quando simili o ana-
analoghe formule loghe formule veni-
venivano usate nel vano usate nel lin-
linguaggio quotidia- guaggio quotidiano.
no…

2.1. Dallo schema preconciliare allo schema IV

a.1 – Lo schema preconciliare

Ha un tono prevalentemente negativo. Abbonda il vocabolario del­


l’inerranza e del­l’errore. Il termine verità compare tre volte nel n. 13,
ma senza un rapporto esplicito alla rivelazione e alla salvezza: “verità” è
soltanto conformità alla realtà oggettiva che l’autore sacro vuol raccon-
tare per scritto.
Soprattutto, lo schema afferma che l’ispirazione esclude necessaria-
mente ogni errore, «in qualsiasi cosa religiosa o profana», andando ben
oltre la Providentissimus Deus29. Questa si era limitata – in risposta alla
distinzione di D’Hulst tra verità religiose e verità profane nella Bibbia –
ad affermare che l’inerranza non poteva essere limitata a una sola parte
del contenuto biblico, cioè alle sole verità di fede e di morale. Lo schema
preconciliare fa propria la distinzione nella Bibbia tra contenuti religiosi
e profani, e afferma l’ispirazione e l’inerranza della Bibbia anche sui pre-
sunti contenuti profani. Esso cita, sì, la Providentissimus Deus e la Divino
Afflante Spiritu, le quali affermavano che la Bibbia non contiene e non
può contenere errori in nessuna delle sue parti; ma omette di citare quel
criterio positivo indispensabile per applicare l’inerranza assoluta, già for-
mulato da Agostino e che già Leone XIII aveva richiamato in riferimento
ai problemi della scienza: «Lo Spirito di Dio, che parlava attraverso gli

29
Vedi sopra, § 1.3.
La verità della Bibbia 357

autori non ha voluto insegnare agli uomini queste cose [cioè l’intima
costituzione delle cose visibili] che non sarebbero state di nessuna utilità
per la loro salvezza (nulli saluti profutura)» (EB 121; FC 67).
L’intero schema preconciliare, dopo un’accesa discussione che si pro-
trasse dal 14 al 20 novembre 1962, fu respinto nella prima sessione del
concilio da 1368 Padri conciliari. Non essendo stata raggiunta la mag-
gioranza dei due terzi, secondo il regolamento, la discussione doveva
procedere sulla base di quel primo testo30. Si determinò subito un senso
di profondo disagio fra i Padri; e papa Giovanni XXIII, di sua autorità,
decise per una revisione generale del testo, affidandola ad una commis-
sione mista di cui fecero parte i membri della «Commissione dottrinale»
e i membri del «Segretariato per l’unità dei cristiani».

a.2 – Dal II al IV schema

Nello schema II della Commissione mista (che tra l’altro non fu nep-
pure discusso nel­l’Aula conciliare, ma soltanto distribuito ai Padri per-
ché vi facessero le loro osservazioni per scritto) risulta soppressa la frase
incriminata del­l’inerranza biblica «in qualunque cosa religiosa o profa-
na». Inoltre, nel n. 12 che porta un titolo più positivo («Come la sacra
Scrittura va interpretata»), il termine “verità” acquista ora un contenuto
teologico, nel senso che se ne mette in risalto la dimensione verticale
con un esplicito riferimento alla rivelazione: «… affinché appaia quale
verità [Dio] ha voluto comunicarci…».
Lo schema III costituisce un vero tournant nella genesi del testo con-
ciliare. Nel n. 11, finalmente, da una formulazione finora negativa («La
Scrittura divinamente ispirata è assolutamente immune da ogni errore»),
si passa ad una formulazione in positivo che mette l’accento sulla finalità
della Bibbia ispirata, quella appunto di «insegnare senza nessun errore
la Verità». La Bibbia è il libro di Dio, non perché è priva di errori, ma
perché insegna senza errore la Verità di Dio: appunto, «la Verità che Dio
ha voluto comunicarci…, che a Dio è piaciuto manifestare con le parole
degli agiografi» (n. 12).
Da questa nuova formulazione sorgeva spontanea una domanda, alla
quale i Padri conciliari non poterono sottrarsi: Quale verità insegna la

30
Acta Synodalia 1, pars III, pp. 254s.
358 Il canone delle sacre Scritture

Bibbia? Una prima risposta ce l’offre lo schema IV. In esso cambia il titolo
del n. 11, formulato positivamente: «Si stabilisce il fatto del­l’ispirazione
e della verità della sacra Scrittura»; soprattutto, il termine nuovo “verità”
viene specificato in «verità salvifica (veritatem salutarem)». L’aggettivo
salutarem, che specificava la verità della Bibbia, fece da protagonista nelle
ultime e tenacissime polemiche dentro e fuori l’Aula conciliare.
Come si era giunti alla nuova formulazione? Nella discussione in aula
dello schema III, avvenuta dal 2 al 6 ottobre 1964, alcuni interventi
avevano sollecitato che «lealmente, senza ambiguità ed artificio» si spe-
cificasse quale verità la Bibbia abbia voluto insegnarci, dovendo prendere
atto che talvolta, in cose di storia e di scienze naturali, essa «deficit a
veritate». Cosi il card. König di Vienna, parlando a nome del gruppo di
lingua tedesca, attirava l’attenzione sui dati delle scoperte in Oriente e
affermava che, se da una parte avevano confermato la credibilità del­l’AT,
dal­l’altra avevano anche offerto un altro risultato che non sarebbe stato
facilmente contraddetto dal progresso delle scienze: «Laudata scientia
rerum orientalium insuper demonstrat in Bibliis sacris notitias historicas
et notitias scientiae naturalis a veritate quandoque deficere». A conferma
di ciò, König adduceva alcuni esempi: Mc 2,26 confrontato con 1 Sam
21,1ss. (non si tratta del sommo sacerdote Abiatar ma di suo padre
Achimelec); Mt 27,9 (in realtà si cita Zc 11,12 e non Geremia); Dn 1,1
(l’assedio di Gerusalemme non avviene nel terzo anno del re Ioiakim
ma tre anni più tardi); e aggiungeva: «Aliae indicationes geographicae et
chronologicae eodem modo citandae essent»31. Nelle cose che riguardano
soltanto la veste esteriore della rivelazione si manifesta la «condescensio
Verbi Divini» di cui parla la DV 13; e la loro fallibilità non chiama in
causa la verità della Bibbia, che è unicamente la verità rivelata, quella
appunto di cui si parla in tutta la costituzione Dei Verbum. In questi
termini andava specificata la “verità” della Bibbia.
Sulla scia di König, i vescovi brasiliani intervennero a confermarne
la tesi e, facendo propria una proposta dei professori del Pontificio Isti-
tuto Biblico di Roma, proposero una formula equivalente: «la verità,
ossia la rivelazione senza errore», appellandosi al concilio Vaticano I, che
aveva usato tale espressione (cfr. EB 77). A conclusione del­l’intervento
si affermava: «Criterium veritatis sacrae Scripturae non est illa accurata

31
Cfr. l’intero intervento del card. König, in Acta Synodalia 3, pars III, pp. 275s.; per
il commento, cfr. A. Grillmeier, La verità della Sacra Scrittura, 197-199.
La verità della Bibbia 359

adaequatio cum factis praeteritis, quam periti scientiae historicae profanae


obtinere conantur, sed est intentio auctoris inspirati, quae semper aliquo
modo se refert ad revelationem salutis»32.
Sulla base di questi e altri interventi orali e scritti, la Commissione
mista scelse la formula veritatem salutarem, anche se – così come suona –
non era stata proposta da alcun Padre. Il motivo della scelta era: «Con
questa parola (veritatem salutarem) vengono compresi anche i fatti che
sono connessi nella Scrittura con la storia della salvezza»33. La “verità
salvifica” contenuta nella Scrittura è lo svolgimento della storia della
salvezza, quindi riguarda non solo le parole e le dottrine ma anche i fatti.

b) Verso il testo definitivo (schema V)

La formula “verità salvifica” era già stata usata dal concilio Tridentino a
proposito del vangelo chiamato «la fonte di ogni verità salvifica» (fontem
omnis… salutaris veritatis: cfr. EB 57); addirittura veniva ripresa dalla
stessa DV 7, quando essa parla del vangelo «come la fonte di ogni verità
salutare e di ogni regola morale». Ma era “nuovo” il fatto di applicarla al
problema del­l’inerranza biblica: nuovo e – a parere di molti – “ambiguo
e pericoloso”. Con questi aggettivi fu qualificata la formula «veritatem
salutarem» in un fascicolo che, nel­l’intervallo tra la terza e la quarta sessio-
ne del concilio, il cosiddetto «Comitato episcopale internazionale» aveva
divulgato in molti paesi34. Nelle votazioni sul cap. III della Dei Verbum,
al­l’inizio della quarta ed ultima sessione, i «placet iuxta modum» furono
324 e di questi ben 200 riguardavano tale formula35: essa sembrava li-
mitare l’inerranza biblica alle sole «res fidei et morum», contraddicendo
l’enciclica Providentissimus Deus e il successivo magistero della chiesa.
Il 14 ottobre 1965 un gruppo di Padri conciliari scrisse direttamente
al papa Paolo VI: «La formula veritatem salutarem era stata volutamen-
te introdotta per restringere l’inerranza alle sole cose soprannaturali,
riguardanti la fede e i costumi; essa contrastava apertamente con l’in-

32
Cfr. Acta Synodalia 3, pars III, p. 448.
33
«Commissioni visum est adhibendum esse appositum: “salutarem” ad “veritatem”, quo
verbo cointelleguntur facta quae in Scriptura cum historia salutis iunguntur» (Acta Synodalia
4, pars I, p. 359).
34
Cfr. G. Caprile, Aspetti positivi della terza sessione del Concilio, in CC 116/1 (1965)
329, nota 16.
35
Cfr. Acta Synodalia 4, pars II, p. 10.
360 Il canone delle sacre Scritture

segnamento costante della chiesa; avrebbe aperto la strada al­l’audacia


degli esegeti; avrebbe inferto un colpo gravissimo alla vita della chiesa».
Il papa, tramite una lettera del Segretario di Stato al cardinale Presidente
della Commissione dottrinale, invitava detta commissione

a voler considerare con nuova e grave riflessione la convenienza di omet-


tere nel testo l’espressione veritas salutaris, relativa al­l’inerranza della sa-
cra Scrittura […], sia perché si tratta di dottrina ancora non comune al­
l’insegnamento biblico-teologico della chiesa, sia perché non pare che la
formula sia stata abbastanza discussa nel­l’aula conciliare, e sia perché, a
giudizio di autorevolissime autorità competenti, tale formula non è scevra
dal pericolo di cattiva interpretazione. Sembra prematuro che il concilio si
pronunci sopra questo problema tanto delicato […]. Non si preclude con
l’omissione, lo studio successivo della questione36.

La Commissione, pur avendo già in precedenza chiarito che la formu-


la veritas salutaris non voleva introdurre nessuna limitazione materiale
della verità biblica, bensì voleva indicare la sua “specificazione formale”,
dovette rinunciare alla formula. Si riunì il 19 ottobre e ne adottò una
equivalente, tale che fugasse l’equivoco di una limitazione materiale del­
l’inerranza biblica e al tempo stesso mettesse in luce l’oggetto formale
specifico di ogni verità biblica37. È appunto la formulazione che leggia-
mo nel testo definitivo e che trascriviamo in latino:

Cum ergo omne id, quod auctores inspirati seu hagiographi asserunt, reti-
neri debeat assertum a Spiritu Sancto, inde Scripturae libri veritatem, quam
Deus nostrae salutis causā Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter
et sine errore docere profitendi sunt (DV 11).

36
Citato in G. Caprile, Tre emendamenti allo schema della Rivelazione, in CC 117/3
(1966) 225; cfr. R. Burigana, La Bibbia nel Concilio, 423-430; F. Gil Hellin, Dei
Verbum, 91-92.
37
«Voce “salutaris” nullo modo suggeritur s. Scripturam non esse integraliter inspiratam et
verbum Dei […]. Ut autem omnis abusus in interpretatione praecaveatur, admittit commissio
emendationem a 73 Patribus propositam, ita ut textus sit: “Cum ergo omne id, quod auctores”,
ecc.» (Acta Synodalia 4, pars V, pp. 708s.).
La verità della Bibbia 361

c) La verità della Bibbia secondo la Dei Verbum

Qual è, dunque, la risposta del concilio Vaticano II ai molti problemi


sollevati dal­l’inerranza biblica? In altri termini, qual è il significato e la
portata del testo conciliare, interpretato alla luce della complessa storia
della sua redazione?
1 – Il concilio ha assunto un atteggiamento positivo sul problema.
Finora si era parlato di “inerranza” della Bibbia, e giustamente: si doveva
difenderla sullo stesso terreno di coloro che la impugnavano in termini
tali da compromettere gli intenti medesimi della rivelazione biblica. Al
posto di un atteggiamento prevalentemente apologetico, subentra ora
un’istanza positiva: l’interpretazione della sacra Scrittura ha il compito
primario di scoprire e spiegare la rivelazione e la realtà salvifica che Dio
ci ha donato in Gesù Cristo. Non si va alla Scrittura semplicemente per-
ché “essa non sbaglia”, ma perché in essa ci è dato incontrare il Verbum
salutis – la Parola della salvezza» (At 13,26).
2 – Nella nuova e definitiva formula, il «nostrae salutis causā» (causā è
ablativo) qualifica il verbo «consignari voluit» e non direttamente la paro-
la «veritatem»: interpreta, cioè, la linea delle intenzioni di Dio che ispira
e del­l’agiografo ispirato che scrive (vedi il verbo al passivo consignari, che
lascia spazio al­l’apporto attivo dello scrittore sacro). Ispirazione e iner-
ranza devono intendersi in primo luogo alla luce della volontà di Dio.
Tramite gli scrittori sacri, Dio vuole comunicarci la sua verità salvifica, in
modo che i libri della Scrittura la contengano «fermamente, fedelmente
e senza errore». Anzi, per sottolineare ancora più chiaramente la portata
salvifica del­l’ispirazione, viene citato il testo di 2 Tm 3,16s.: «Pertanto
“ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per
convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l’uomo di
Dio sia perfetto, addestrato a ogni opera buona”» (DV 11).
3 – Mentre la precedente formulazione «veritatem salutarem» si pre-
stava agli equivoci detti, con la nuova formulazione non è più possibile
una interpretazione errata della verità biblica, come se la scrittura sia
divisa materialiter in una parte ispirata (e inerrante) e una non ispirata
(ed esposta al­l’errore). Il testo conciliare non introduce alcuna limitazio-
ne materiale al­l’ispirazione e neppure al­l’inerranza, ma indica soltanto
«la sua specificazione formale». Lo «in vista della nostra salvezza» della
DV 11 costituisce il principio formale, secondo cui va giudicato quello
che Dio intende comunicare e quello che l’agiografo vuole esprimere.
Il punto di vista specifico, l’angolo visuale dal quale vanno considerate
362 Il canone delle sacre Scritture

tutte le affermazioni della sacra Scrittura, quelle che un’esegesi accurata


dimostri veramente tali, è unicamente il progetto rivelatorio e salvifico
di Dio. Con tale principio formale, che permea tut­t’intero il contenuto
dei libri sacri, si possono e si debbono risolvere anche le difficoltà delle
inesattezze geografiche e cronologiche della Bibbia. Il concilio ci ha
dato una dottrina, non ha voluto costruire una teoria; resta il fatto che
le indicazioni conciliari sulla verità biblica sono state poco raccolte dalla
teologia cattolica; anche IBC non affronta questa tematica, che pure
sarebbe stata vitale ai fini del­l’ermeneutica biblica38. Vi ritornerà sopra
soltanto nel 2014, con il già ricordato documento Ispirazione e verità, i
cui apporti verranno tenuti presente nella trattazione che segue.

3. Principi fondamentali che presiedono alla verità della Bibbia

La specificazione formale “salvifica” della verità della Bibbia, assicurata


dalla Dei Verbum, non esaurisce né risolve tutti i problemi sollevati dal­
l’inerranza biblica; d’altronde, non è neppure l’unica indicazione con-
ciliare sul problema.
In questo paragrafo intendiamo riassumere i principi fondamentali,
affermati dal concilio Vaticano II o comunque non in contraddizione
col dettato conciliare, che presiedono alla verità della Bibbia e alla sua
individuazione in un’ermeneutica biblica cattolica.

3.1. L’oggetto formale della rivelazione e della verità biblica

Non intendiamo ripetere quanto abbiamo detto sul testo conclusivo


della DV 11 circa la verità della sacra Scrittura; vogliamo soltanto mo-
strare come quel principio può esprimersi in un progetto ermeneutico
e applicarsi in concreto.

38
Su questo punto cfr. il rimprovero (fondato) mosso da R. Vignolo, Metodi, erme-
neutica, statuto del testo biblico. Riflessioni a partire da L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa (1993), in G. Angelini (ed.), La Rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia.
Raccolta di studi in onore del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano in
occasione del suo LXX compleanno (Quodlibet 7), Glossa, Milano 1998, 7.
La verità della Bibbia 363

La rivelazione storica della Bibbia comprende dei contenuti che sono


anche oggetto – iuxta propria principia – della filosofia, della storia e delle
scienze esatte. Per il giudizio sulla “verità” di questi contenuti afferma
Grillmeier che

non si deve partire dalla loro realtà profana isolata, ma dal punto di vista
speciale del come e quanto l’oggetto formale del­l’ispirazione, il salutis causa
si realizzi in essi […]. Comunicare la “verità salvifica” è l’oggetto formale
permanente della sacra Scrittura. Così anche le verità o notizie profane
acquistano un carattere salvifico. Vengono scelte e fornite in considerazione
della salvezza. E sono libere da errore in quanto notizie contenenti l’agire o
il rivelare salvifico di Dio, o in proporzione, maggiore o minore, del rapporto
che con tale agire divino hanno […]. Ispirazione ed inerranza (o positiva-
mente “verità”) si estendono ad ogni parte della Scrittura, la seconda in gradi
differenti secondo come si attua l’oggetto formale della Scrittura ispirata. Le
affermazioni salutari rivelate vere e proprie, oppure anche, se intese da Dio,
certe determinate verità acquisibili naturalmente o fatti naturalmente con-
statabili, sono come tali essenzialmente inerranti; il resto rispetto alle verità
rivelate nostrae salutis causā, ha una funzione di servizio; è mezzo o cornice
delle verità propriamente intese, ed è perciò partecipe del­l’inerranza solo in
virtù di questo servizio alla parola di Dio vera e propria. In tal modo tutto
nella Scrittura è partecipe della «veritas, quam Deus nostrae salutis causā litte-
ris sacris consignari voluit», o direttamente ed essenzialmente, o indirettamente
ed in virtù del suo servizio alla verità salvifica. Appunto in questa gradazione
è fornita la garanzia del firmiter, fideliter et sine errore docere. Ma nei libri
sacri tutto è sotto il carisma del­l’ispirazione39.

P. Grelot40 applica il principio del­l’oggetto formale della rivelazione e


della verità biblica agli ambiti nei quali sono cointeressate la metafisica,
le scienze naturali e la storia.

a) Nel­l’ambito della metafisica

Per quel che riguarda la metafisica, i libri sacri non danno alcun tentativo
di spiegazione razionale delle cose, elaborato per via di riflessione astratta e
sfociante nella costruzione di un sistema coerente come quello di Platone,
Aristotele o Filone. Da questo punto di vista tecnico, la Bibbia non insegna

39
A. Grillmeier, in La “verità” della Bibbia, 252-254.
40
Cfr. P. Grelot, in La “verità” della Bibbia, 106-124.
364 Il canone delle sacre Scritture

nulla. In compenso porta in sé l’affermazione, esplicita o diffusa di certe


realtà o di certi valori che non cadono sotto i sensi e che, in un certo modo,
reggono tutta la metafisica: l’unicità del Dio vivente, il rapporto del mondo
con Dio definito in termini di creazione, l’antropologia scevra da qualsiasi
dualismo ecc.; affermandoli, la rivelazione rettifica dei dati razionali che si
erano oscurati, ricollegandoli contemporaneamente al disegno salvifico41.

b) Nel­l’ambito delle scienze naturali

Parlando del caso Galilei42, abbiamo già visto che la Bibbia non in-
tende istruirci sulla conformazione fisica delle cose; gli autori sacri ne
parlano seguendo le opinioni comuni della loro epoca, come avevano
già intuito Agostino e Tommaso d’Aquino. Le idee possono cambiare,
la scienza può e deve progredire, senza che il messaggio biblico venga
a soffrirne. Nel­l’affrontare questi problemi è fondamentale che non si
commettano estrapolazioni. Il biblista e il teologo devono vigilare perché
non si imprestino alla Bibbia affermazioni che essa non fa; da questo
punto di vista, non va trascurato il duro paragrafo che IBC dedica al
fondamentalismo biblico, una tendenza ancora oggi viva in molte aree
del cristianesimo43. D’altra parte, anche lo scienziato deve stare attento
a non introdurre, nella sua teoria, in modo surrettizio, qualche afferma-
zione metafisicamente erronea44.
Il ricorso al­l’idea dei generi letterari (vedi sotto) ci aiuta a capire che
la Bibbia parla il linguaggio del suo tempo; Gen 1-11, per esempio, non
vuole dirci il “come” Dio crea il mondo, ma il “perché”, ovvero il senso
della creazione; occorre dunque cercare nelle pagine della Scrittura ciò
che riguarda la salvezza, proprio secondo il principio contenuto in DV 11.

41
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 118; più estesamente, in La “verità” della Bibbia,
107-109 (orig. fr., La Bible Parole de Dieu, 109-111).
42
Vedi sopra, § 1.2.
43
Il fondamentalismo biblico – applicato per esempio ai racconti della creazione con-
siderati come storicamente veri – viene definito in modo molto forte come «una forma
di suicidio del pensiero»; cfr. IBC, I F (EB 1381-1390).
44
Anzi, come scrive F. Dreyfus a proposito di Gen 1, «il suo messaggio attuale risulta
dal confronto di due modi della parola di Dio: il libro della Scrittura da una parte, il libro
della creazione dal­l’altra. L’evento costituito dal progresso scientifico, permettendo di
leggere meglio la parola di Dio nel libro della creazione, ci dà la possibilità di distinguere,
in Gen 1, tra ciò che ha un valore sempre attuale e ciò che è caduco perché legato a una
lettura imperfetta del libro della creazione, ormai meglio conosciuto» (L’actualisation de
l’Écriture. I. - Du texte à la vie, in RB 86 [1979] 38s.).
La verità della Bibbia 365

c) Nel­l’ambito della storia

Il problema della “storia” nella rivelazione biblica e nella sua inter-


pretazione coinvolge molti aspetti, non ultimo quello della varietà del
genere letterario “storico”45; qui interessa applicare l’oggetto formale
specifico della rivelazione biblica nel­l’ambito della storia.
È ancora P. Grelot che scrive:

La concezione positivistica della storia-scienza, che ha dominato tutto il


XIX secolo e di cui sono ancora tributari molti nostri contemporanei, pesa
purtroppo sulle discussioni riguardanti questo campo. La storia non è un
oggetto di scienza come gli altri; al di là di quei fenomeni esterni che essa
tende a ricostruire per potersi dire esatta, le è anche necessario ricongiungersi
al­l’esperienza umana che ne costituì l’unità e diede ad essi un senso: soltanto
a questo patto essa diventa vera […]. In questa prospettiva, è importante
non confondere la storia esatta con la storia vera.
L’insegnamento dei libri sacri non può ignorare la storia perché la rivelazione
non riguarda verità astratte o una spiritualità disincarnata, ma un fatto: la
realizzazione della salvezza per mezzo di Cristo, quale punto di sbocco di una
lunga preparazione storica e punto di partenza di una nuova tappa nel dise-
gno salvifico di Dio. Si vede però subito in che prospettiva si situi la Scrittura
per parlare di storia: essa considera gli avvenimenti sotto il punto di vista dei
rapporti fra gli uomini e Dio, del dramma spirituale in cui questi rapporti
vengono alla luce grazie alla particolare situazione del popolo di Dio. Gli
avvenimenti vi acquistano un senso in quanto atti di Dio nel tempo […].
È evidente che la materialità dei fatti come tali è qui meno importante che
non il loro rapporto col mistero della salvezza, che ne determina il significato.
L’esperienza passata del popolo di Dio viene così colta a un altro livello di
profondità: quello a cui soltanto la fede dà accesso. In breve, l’insegnamento
positivo degli autori sacri riguarda la storia come mistero, qualunque sia la
natura dei materiali da essi impiegati per esprimere l’aspetto fenomenico46.

Il problema oggi si pone in termini anche più complessi; alcuni autori


sostengono infatti che buona parte di ciò che è contenuto nelle Scritture
non è mai realmente avvenuto; anzi, è una retroproiezione immaginaria,

45
Vedi sotto, § 3.2.
46
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 119s.; più estesamente, cfr. Id., in La “verità” della
Bibbia, 111-124 («Scrittura e storia») e 130-145 («Il problema del mito. Il problema della
storia nel­l’AT e nel NT»); La Bible Parole de Dieu, 112-120.124-133.
366 Il canone delle sacre Scritture

creata per giustificare ideologicamente l’esistenza stessa di Israele47. È


poi evidente che molti racconti biblici non corrispondono alla realtà
storica; libri interi, come Tobia, Giuditta, Ester, Daniele, Giona (vedi
oltre per quest’ultimo) non possono essere considerati “storici”; anche
nel NT è difficile sostenere contemporaneamente la storicità di Lc 1–2 e
Mt 1–248. Da un lato, è necessario prendere sul serio i testi biblici e non
stancarsi di cercarne un fondamento storico sicuro; dal­l’altro occorre
tener presente la distinzione tra storia e racconto: molti testi biblici in-
tendono “narrare” la storia e sono stati scritti non per “informare”, ma
per “formare” l’uomo49.

3.2. I “generi letterari” e la verità della Bibbia

Assicurato il principio teologico fondamentale del­l’oggetto formale


specifico delle affermazioni bibliche («in ordine alla salvezza»), siamo
ancora lontani dal­l’avere risolto tutte le questioni riguardanti la verità
della Bibbia e il modo di raggiungerla.
Il principio teologico del carattere rivelatorio-salvifico della verità bi-
blica non deve farci dimenticare un principio di critica letteraria, con-
sacrato dalla Divino Afflante Spiritu e confermato dalla Dei Verbum:
l’individuazione e l’uso dei “generi letterari”, indispensabili per poter
accedere alle autentiche affermazioni bibliche e alla loro verità50.
Abbiamo già offerto la definizione di «genere letterario» (vedi sopra,
cap. 6, 3.1), il cui specifico è l’intimo nesso tra forma letteraria e contenu-
to che si vuole esprimere e comunicare; di qui la necessità di individuare
il genere letterario di un libro o di un testo della Bibbia, se vogliamo
scoprirne il significato. Poiché in ogni epoca della storia biblica la cultura

47
Cfr. G. Garbini, Storia e ideologia nel­l’Israele antico, Paideia, Brescia 1986; per tutta
la questione cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 298-301.
48
IVSS, nn. 111-114: «Le differenze, che in parte possono essere armonizzate, riguar-
dano aspetti secondari rispetto alla figura centrale di Gesù, Figlio di Dio, Salvatore degli
uomini, che è comune ai due evangelisti» (n. 114).
49
Cfr. P. Beauchamp, Le récit, la lettre et le corps. Éssais bibliques. Nouvelle édition
augmentée, du Cerf, Paris 1992. Su tutto il problema si veda J.-L. Ska, La Parola di Dio
nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 1999; piccolo libretto molto raccomandato.
IVSS si occupa, da parte sua, dei problemi legati alla verità storica dei racconti biblici ai
nn. 106-123.
50
Vedi sotto, cap. 19.
La verità della Bibbia 367

umana del­l’ambiente ha condizionato il linguaggio e le forme letterarie


usati dalla Scrittura, già la Divino Afflante Spiritu ricordava al­l’esegeta il
dovere di «indagare in che modo la maniera di parlare o il genere lette-
rario del­l’agiografo possano condurre alla vera ed esatta interpretazione»
dei testi biblici (EB 560). La Dei Verbum offre una indicazione precisa:

Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto tra l’altro anche
dei “generi letterari”. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa
nei testi in varia maniera storici, o profetici, o poetici, o con altri modi di dire.
È necessario inoltre che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di
esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del
suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso. Per
comprendere infatti nel loro giusto valore ciò che l’autore sacro volle asserire
nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originari modi
di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi del­l’agiografo, sia
a quelli che allora erano in uso nei rapporti umani (DV 12)51.

Prendiamo l’esempio del libro di Giona52. Esso dà l’impressione di


una narrazione storica: il racconto della missione di un profeta che
ha nome Giona. Ma l’impressione si trova poi contraddetta da una
serie di dati del racconto, che non reggono ad una critica storica53,
e la storia del grande pesce non ha soltanto del­l’immaginario e del
miracolistico, ma si inserisce – dal punto di vista letterario ed etno-
logico – nel contesto di miti assai diffusi nel tempo e collegati con
la città di Giaffa (la Joppe di Giona). J.L. McKenzie54 descrive così la
formazione del racconto biblico: una saga popolare sorta nella città di
Giaffa o nelle sue vicinanze s’infiltrò anche nella tradizione dei greci
(vedi il mito di Perseo-Andromeda) e degli stessi ebrei; in Israele, la

51
Per un esame più dettagliato di questo testo, vedi sotto, cap. 19,1.1-2.
52
Cfr. anche IVSS, n. 110.
53
Per esempio; al tempo di Geroboamo II e del Giona di cui si parla in 2 Re 14, Ninive
non era neppure la residenza del re di Assiria; non si poteva parlare allora di Ninive come
di una metropoli: le rovine di Ninive esplorate dagli archeologi non corrispondono a
una città per il cui attraversamento occorrono tre giorni di cammino; il titolo di «Re di
Ninive» non compare mai nei documenti né biblici né assiri, nei quali si parla sempre di
re di Assur; né la Bibbia al di fuori del libro di Giona, né gli annali assiri contengono una
parola sulla missione di un profeta e la conseguente conversione sensazionale di Ninive;
la lingua ebraica in cui è redatto il libro di Giona è recente e ha paralleli con quella di
Esdra-Neemia e Cronache: siamo cioè nel post-esilio ecc.
54
Cfr. voce Giona, in DB, 415s.
368 Il canone delle sacre Scritture

storia viene collegata col nome del profeta Giona (di cui 2 Re 14,25
fornisce soltanto il nome) forse perché Giona significa in ebraico co-
lomba e incarna molto bene il popolo di Israele (cfr. Os 7,11), ingenuo
e colpevole insieme.
In Israele e nella cultura del tempo si insegna raccontando; e, quan-
do si racconta, eventi e personaggi non possono mancare, soprattutto
debbono incuriosire, piacere, divertire.

Il libro [di Giona] è destinato a piacere e anche a istruire: è un racconto


didattico e il suo insegnamento rappresenta uno dei vertici del­l’AT […].
Rompendo con il particolarismo nel quale la comunità postesilica era ten-
tata di chiudersi, questo libro predica un universalismo straordinariamente
aperto […]. In Mt 12,14 e Lc 11,29-32, il Cristo Gesù citerà ad esempio la
conversione dei Niniviti e Mt 12,40 vedrà in Giona chiuso nel ventre del
mostro la figura di Cristo nella tomba. Questo uso della storia di Giona non
deve essere invocato come una prova della sua storicità: Gesù utilizza questo
apologo del­l’AT come i predicatori cristiani utilizzano le parabole del NT:
è la stessa preoccupazione di insegnare con immagini familiari agli uditori,
senza che sia dato un giudizio sulla realtà dei fatti55.

Per quanto riguarda l’uso tipologico della storia di Giona in Mt 12,40,


ci si deve ricordare che esistono nel NT “tipologie” non soltanto storiche
ma anche letterarie. Incontriamo un caso analogo in Eb 7,1-3, a pro-
posito di Melchisedek che nel racconto di Gen 14,17ss. viene di fatto
presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia», cosa insolita per
un personaggio biblico importante, e quindi risulta letterariamente un
“tipo” di Gesù Cristo che rimane «sacerdote in eterno», senza genealogia.
Assicurato anche questo indispensabile strumento, si deve tuttavia
affermare che l’uso dei “generi letterari” non è una “panacea”, non risolve
tutti i problemi: «Col gran parlare che si fa attorno ai “generi letterari”,
si dà l’impressione che tutte le difficoltà circa l’inerranza biblica possano
essere facilmente risolte con una buona analisi del genere letterario dei
testi in questione. Ma in realtà non è così»56. La ricerca deve prendere
ulteriori direzioni.

55
Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009, 1700.
56
N. Lohfink, in La “verità” della Bibbia, 56.
La verità della Bibbia 369

3.3. Progresso della rivelazione


e verità delle affermazioni bibliche

La Bibbia è il libro del popolo di Dio, lo strumento della sua divina


educazione. Il mistero di salvezza è rivelato nella storia e attraverso la
storia, quindi cresce col tempo. Dio conduce gli uomini gradualmente,
fino alla conoscenza di Cristo e alla vita in lui: «Dio, che molte volte e
in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei
profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del
Figlio…» (Eb 1,1s.). La Dei Verbum sottolinea a più riprese e in vari
modi la dimensione storica e il carattere progressivo della rivelazione
biblica57 né teme di riconoscere che i libri del­l’AT «contengono cose
imperfette e temporanee»:

L’economia del­l’Antico Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad


annunziare profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1 Pt 1,10) e a significare
con vari tipi (cfr. 1 Cor 10,11) l’avvento di Cristo redentore del­l’universo e
del regno messianico. I libri poi del­l’Antico Testamento, secondo la condi-
zione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo,
manifestano a tutti la conoscenza di Dio e del­l’uomo e il modo con cui
Iddio giusto e misericordioso si comporta con gli uomini. I quali libri, seb-
bene contengano cose imperfette e temporanee (quamvis etiam imperfecta
et temporanea contineant), dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina…
(DV 15).

Esiste dunque una storia della rivelazione, da cui derivano serie con-
seguenze dal punto di vista dogmatico e da quello morale.

a) Dal punto di vista dogmatico

Dal punto di vista dogmatico, nessun testo del­l’Antico Testamento presenta


una dottrina compiuta su di un qualsiasi punto della fede. È necessario
rileggerli tutti partendo da Cristo, proiettando su di essi la sua luce, per
comprenderne l’esatta portata. Ciò non significa che essi non abbiano in
sé alcun elemento positivo, ma fanno anche eco alle ignoranze umane (per
esempio, a proposito della retribuzione nel­l’altra vita), oppure usano for-
mule imperfette a cui la storia di Cristo darà il vero senso (per esempio,

57
Vedi sopra, cap. 3, 6.
370 Il canone delle sacre Scritture

riguardo al messianismo regale). La verità di questi testi non è dunque as-


soluta sotto tutti i punti di vista; è proporzionata alla luce che Dio infonde
ai loro autori, in vista della situazione in cui si trovava in quel momento
la comunità di salvezza e del compito che essi dovevano svolgere nella
pedagogia divina58.

b) Dal punto di vista morale

Dal punto di vista morale, è esattamente la stessa cosa. La rivelazione della


legge di perfezione è venuta soltanto con Gesù Cristo, e con essa il dono
dello Spirito che permette al­l’uomo di osservare i comandamenti. Prima di
questo, si trovano più di una volta nella Scrittura delle imperfezioni, a causa
della «durezza dei cuori» (Mt 19,8), e Gesù dovrà correggerle per «portare
a compimento la Legge e i Profeti» (Mt 5,17-19). Pertanto il contenuto
positivo dei testi può essere valutato soltanto con l’ausilio di un criterio
fornito dal Nuovo Testamento. Così la verità dei testi scritturistici risulta
dalla totalità della Bibbia di modo che la teologia biblica è storica per na-
tura: essa deve seguire lo sviluppo delle idee e degli argomenti da un capo
al­l’altro dei due Testamenti per assicurare le basi della dogmatica e della
morale cristiana59.

Tener conto del progresso storico della rivelazione è dunque di vitale


importanza per la comprensione delle Scritture. Ma non basta: spesso
la Bibbia ci presenta versioni diverse degli stessi fatti; si pensi alle diver-
genze tra gli stessi episodi relativi ai re di Israele raccontati in 1-2 Re e in
1-2 Cronache; si pensi alle difficoltà causate dai contrasti tra le narrazioni
dei vangeli Sinottici e quelle di Giovanni (per esempio sulla venuta di
Gesù a Gerusalemme in occasione della Pasqua). Si pensi alla difficoltà
di ricostruire storicamente gli eventi relativi alla risurrezione: Chi andò
per primo al sepolcro? Che cosa hanno visto le donne? Un angelo, due
angeli, un uomo60? Di fronte a queste difficoltà, non basta la teoria dei
generi letterari e anche l’approccio storico si rivela da solo insufficiente.
Occorre tener presente che la verità biblica non abita solo in un testo,

58
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 120; cfr. Id., in La “verità” della Bibbia, 125-127.
59
Ibid., 121.127s.
60
IVSS, nn. 119-123: «Dobbiamo dunque tener conto del fatto che i Vangeli non sono
soltanto cronache degli avvenimenti della vita di Gesù, poiché gli evangelisti intendono
altresì esprimere, secondo il modulo narrativo, il valore teologico di tali avvenimenti»; essi
intendono cioè offrire un “commento teologico” ai fatti che stanno raccontando (n. 123).
La verità della Bibbia 371

ma ammette una pluralità di formulazioni; Gen 1, per esempio, non è


meno vero di Gen 2, e viceversa61.

c) Alcune concrete difficoltà “morali” nella lettura del­l’Antico Testamento

Premesso che oggetto della verità biblica non è il comportamento


delle persone come tale, ma il giudizio che ne dà l’autore sacro; premesso
anche – conforme a DV 15 e al principio sopra esposto nel cap. 2 – che
il criterio di onestà morale, in base al quale gli scrittori del­l’AT giudi-
cano le azioni e i comportamenti dei personaggi, non è il criterio della
morale del vangelo, esaminiamo due casi concreti di discussa moralità
o di immoralità che si incontrano nel­l’AT62.

1 – Il costume dello ḥerem, cioè del­l’interdetto lanciato sulle città nemi-


che di Israele, con la conseguente totale (o quasi) uccisione degli abitanti,
donne e bambini compresi (cfr. Gs 6–8; 10,28; 11,20).
Lo ḥerem era un costume della guerra del tempo. Un esempio: nella
«stele di Mesha» si racconta che Mesha, re di Moab, nemico di Israele,
combatté contro le città israelitiche, le assediò e le votò al­l’interdetto
per farne omaggio al suo Dio, il dio Kamosh63. Il re si sentiva vicario e
luogotenente della divinità; la sua vittoria era la vittoria del suo Dio; la
città nemica diventava l’oggetto di un’offerta sacrificale in onore di Dio,
protettore del paese e del­l’esercito.
La portata storica dello ḥerem del libro di Giosuè va molto ridimen-
sionata. La distruzione dei centri cananei dev’essere stata molto più limi-
tata, se di fatto – come risulta dal libro dei Giudici – gli israeliti, anche
dopo la distruzione che avrebbe operato Giosuè, furono costretti a vivere
spalla a spalla con i cananei e subirne gli influssi idolatrici. In ogni caso,

61
Per questa soluzione, cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti»,
288-293, spec. 293. Gli stessi autori, alle pp. 281-288, applicano lo stesso principio
al­l’esistenza di una pluralità testuale sia per l’AT che per il NT, concludendo che non
si dovrebbe contrapporre una lezione critica a un’altra, ma considerarle come diverse
possibilità di senso.
62
Per una più ampia trattazione, cfr. J. Levie, La Bible parole humaine et message de
Dieu, Desclée, Paris - Louvain 1958, 261-275. Cfr. anche IVSS, nn. 124-136.
63
Per il testo della «stele di Mesha», cfr. M. Cimosa, L’ambiente storico-culturale delle
Scritture ebraiche, EDB, Bologna 2000, 286-290.
372 Il canone delle sacre Scritture

il racconto della conquista diviene più una parabola che un resoconto


storico preciso64.
Nei libri storici del­l’AT la menzione dello ḥerem scompare dopo la
guerra di Saul contro gli Amaleciti (cfr. 1 Sam 15,1ss.). Segno che la
pratica dello ḥerem, retaggio di tempi più antichi, scomparve anche in
Israele con il progresso religioso e morale del popolo di Dio.
La difficoltà più grave sorge tuttavia di fronte a certi brani del Deu-
teronomio (cfr. Dt 2,34; 7,1-7; 13,13-19; 20,10-15: lo ḥerem applicato
alle «città lontane»; cfr. Dt 20,16-18: quello applicato alle «città vicine»),
dai quali sembrerebbe che lo ḥerem non solo era gradito a Dio ma ad-
dirittura era comandato da Dio.
A questo proposito, e mai prescindendo dalla rivelazione storica e
progressiva della Bibbia, si devono tenere presenti due fatti. Primo – Lo
ḥerem ha diversi gradi di intensità e di estensione a seconda della vicinan-
za o meno delle città nemiche alle città d’Israele (vedi i testi del Dt sopra
citati): segno che, al fondo dello ḥerem biblico, c’è la preoccupazione e
l’intento di salvaguardare Israele dal­l’idolatria che costituiva il pericolo
mortale dello Yahvismo. Secondo – Si può distinguere tra «volontà-co-
mando» di Dio e «interpretazione umana», contingente e temporanea
del volere e del comando divini. L’idea religiosa che ispira l’interdetto è
il dovere da parte di Israele di restare fedele a Yhwh e alla sua alleanza,
quindi di evitare ogni pericolo di contaminazione idolatrica: tanto è vero
che anche a una città israelitica, nella quale fosse presente l’idolatria,
veniva applicato lo ḥerem (cfr. Gs 13,13-19). Ma le misure prese, cioè lo
ḥerem in concreto, sono quelle che i costumi del tempo dettavano; esse
costituirebbero l’inevitabile (allora) interpretazione umana e contingente
del­l’imperativo divino contro l’idolatria.
Valgono in definitiva le conclusioni di N. Lohfink:

Queste lunghe tappe del passato che ebbero luogo nel corso della storia della
rivelazione non debbono essere semplicemente messe da parte come supe-
rate. Al­l’interno di una ermeneutica biblica complessiva esse conservano un
nucleo di verità, che noi ogni volta tendiamo troppo spesso ad accantonare.
In un certo senso, Dio è e rimane un Dio della violenza e dello sterminio
di tutto ciò che è male. Lo è, nonostante sia il Dio della pace ed esiga dai

64
Per queste difficoltà legate alla storicità dei racconti di Gs-Gdc, cfr. L. Mazzinghi,
Storia di Israele. Dalle origini al­l’epoca romana, EDB, Bologna 2007, 30-36; cfr. IVSS,
n. 127.
La verità della Bibbia 373

suoi di rinunciare alla violenza. Egli instaura la propria signoria non vio-
lenta pur lasciando che nel mondo divampi la violenza che cospira contro i
suoi progetti. Il proprio Figlio, e tutti coloro che si uniscono a lui, ne sono
le vittime, e solo attraverso questa non violenza che fa dono della propria
vita, Dio instaura la sua signoria di pace. Se non disponessimo di questi
terribili racconti, che risalgono a un’epoca nella quale lo stesso Israele era
ancora profondamente coinvolto perlomeno in una violenza verbale, forse
penseremmo di poter raggiungere il mondo della pace in un modo diverso
da quello che richiede una adesione al Messia ucciso: con discorsi eleganti,
marce di protesta o addirittura con la ragione65.

2 – I salmi imprecatori: Per quanto riguarda i «salmi imprecatori» o


«di maledizione», non solo contro i nemici della nazione (cfr. Sal 137)
ma anche contro i nemici personali (cfr. Sal 58,4-12; 109,1-20 ecc.), si
tengano presenti alcuni fattori. La tradizione patristica tendeva a spiri-
tualizzare tali salmi, leggendoli spesso in chiave allegorica. Oggi, dopo
che il concilio ha consegnato il Salterio a tutto il popolo di Dio, e non
più un Salterio soltanto in latino, il problema è più urgente e la soluzione
allegorica non appare più praticabile66.
In questi salmi si chiede a Dio che intervenga violentemente contro
i propri nemici. Si invoca la vendetta divina perché si ha un senso acu-
tissimo della giustizia del Dio Yhwh, il quale ha promesso di rendere a
ciascuno secondo le sue opere e deve fare giustizia del­l’empio e delle sue
empietà perpetrate ai danni del giusto. Ma, all’epoca della composizione
del Salterio, l’idea di una giusta retribuzione escatologica (al di là della
morte) non poteva intervenire con chiarezza nella teologia dei salmisti;
per essi la giustizia di Dio trova nella vita temporale l’unico ambito per
dimostrarsi e rendersi effettiva. E tuttavia la verità di questi salmi sta, in
questo caso, nel­l’esprimere con forza la fede in un intervento di Dio con-
tro il male, rifiutando anche la tentazione del farsi giustizia da soli. I salmi
imprecatori smascherano così la realtà del male e la trasferiscono in Dio.
Una ulteriore soluzione, per il lettore cristiano, sta nel leggere questi
salmi alla luce del­l’intera rivelazione e dunque alla luce del NT, dei
vangeli in particolare: da una parte, Dio è amore misericordioso e vuole
così i suoi figli (cfr. Mt 18,21s.; Lc 6,36; 1 Gv 4,7-11); dal­l’altra, il regno
escatologico di Dio sarà l’ultima definitiva verifica della giusta retribuzio-

65
N. Lohfink, La “guerra santa” e la “scomunica” nella Bibbia, in PSV 37 (1998) 94.
66
Cfr. IVSS, nn. 128-131.
374 Il canone delle sacre Scritture

ne di Dio agli uomini. «Pregare i “salmi imprecatori”, allora, si risolve in


una richiesta pressante, drammaticamente espressa, della manifestazione
di tale vittoria (sul male) nel compimento della salvezza operata dalla
morte e risurrezione del Figlio» all’interno del cristianesimo67.

3 – La violenza nella Bibbia: Sia il problema dello “sterminio” che


quello dei salmi imprecatori ci riconducono al problema generale della
violenza nella Bibbia. In che senso possiamo parlare, al riguardo, di “veri-
tà”? Il problema non si pone soltanto per l’AT, ma anche per diversi testi
del NT; basti pensare alle immagini “violente” usate dallo stesso Gesù
nei vangeli o, in chiave escatologica, dal­l’autore del­l’Apocalisse. Giuseppe
Barbaglio apriva il suo not