VALERIO MANNUCCI
LUCA MAZZINGHI
BIBBIA
COME PAROLA DI DIO
Introduzione generale
alla sacra Scrittura
Nuova edizione
interamente riveduta e aggiornata
QUERINIANA
Prima edizione 1981
ISBN 978-88-399-0118-7
www.queriniana.it
mento del corso di Introduzione generale alla sacra Scrittura nello Studio
teologico fiorentino. Il lavoro conserva tutti i rischi di una impresa, vista
la varietà dei temi trattati, ognuno dei quali vuole puntuale e specifica
competenza. Ma soprattutto in un manuale è consuetudine, per ovvii
motivi di concorso di competenze, attingere anche all’esperienza di col-
leghi biblisti e teologi, sia cattolici che protestanti. La loro voce risuona
di frequente nelle mie pagine e i loro contributi sono citati, in forma più
o meno abbreviata, specialmente all’inizio di ciascun capitolo, con i dati
bibliografici completi nella bibliografia generale. In particolare, l’antico
maestro p. Luis Alonso Schökel, decano del Pontificio Istituto Biblico,
mi ha guidato con preziosi consigli e ha onorato il volume con una sua
Presentazione. A lui un grazie tutto personale.
La costituzione Dei Verbum del Vaticano II è stata il punto di riferi-
mento primario del mio lavoro, che ne costituisce – per molti versi –
una specie di commento. Sarebbe già un grosso premio alla mia fatica,
se queste pagine invogliassero i giovani studenti di teologia a leggere e
meditare più attentamente quella grande costituzione dogmatica sulla
Parola di Dio, a consultarne nelle biblioteche i tanti commenti già esau-
riti da tempo, a ripercorrerne le tappe davvero avventurose negli Acta
et Documenta (antepraeparatoria, praeparatoria) e soprattutto negli Acta
Synodalia del concilio Vaticano II.
Un manuale ha un suo genere letterario, quanto a linguaggio. Se tal-
volta – e non soltanto nella pagina introduttiva a ciascuna delle cinque
parti – me ne sono distaccato, è perché sono convinto che ogni discorso
di credenti su La Bibbia come Parola di Dio per noi deve non soltanto
“informare”, ma anche “esprimere” e “appellare”: «Nei Libri sacri, infatti,
il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi
figli e discorre con essi…» (DV 21).
Ai lettori del libro, studenti che si preparano al ministero di presbiteri,
laici che sempre più numerosi si aprono allo studio della Bibbia, persone
alla ricerca della Parola che rischiari il cammino della vita e della storia,
auguro che queste pagine arrechino non soltanto un supplemento di
sapere, ma anche più gioia di vivere.
Valerio Mannucci
Studio teologico fiorentino
Firenze, 24 settembre 1980
25° anniversario del mio presbiterato
Prefazione alla quarta edizione riveduta
In poco più di due anni si sono esaurite tre edizioni di questo libro,
segno evidente dell’interesse che ha suscitato un nuovo manuale di Intro-
duzione generale alla sacra Scrittura, elaborato secondo le linee direttrici
della costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Vaticano II.
Gli stessi recensori, pur con alcune critiche anche giuste, lo hanno
accolto positivamente come «il tentativo attuale più serio di rielaborare
il classico trattato cattolico di ‘Introduzione generale’», anzi lo hanno
additato come «l’unico manuale esistente su questa linea, che non ha pari
in nessuna lingua» (P. Grech). E molte Facoltà di teologia, molti Istituti
teologici e Seminari lo hanno adottato come libro di testo.
Scrivere un libro è gioia e fatica insieme. Elaborare un manuale è
impresa sempre rischiosa. Se abbiamo reso un servizio utile ai colleghi
professori e agli studenti di teologia, come del resto ci ripromettevamo,
vuol dire che rischio e fatica non sono stati vani. Soprattutto, ci è stato
concesso ancora una volta di sperimentare che «vi è più gioia nel donare
che nel ricevere» (At 20,35).
La quarta edizione riveduta si presenta sostanzialmente identica alle
precedenti. Ho integrato e aggiornato la Bibliografia all’inizio di ciascun
capitolo e nelle note a pie’ di pagina; ho apportato alcune aggiunte o cor-
rezioni in qualche pagina del testo e ho inserito non poche note nuove.
Aggiunte, correzioni e note nuove, per le quali mi sono valso anche dei
suggerimenti degli amici lettori e dei colleghi recensori (ai quali esprimo
sincera gratitudine), mi hanno consentito di proporre ulteriori piste di
riflessione e di ricerca, talvolta di arricchire il contenuto della pagina.
L’orizzonte teologico ed ermeneutico, da me scelto per riproporre
nella linea di Dei Verbum i contenuti del trattato classico di Introduzio-
12 Prefazione
Valerio Mannucci
Studio teologico fiorentino
Firenze, 8 settembre 1983
Festa della Natività di Maria
Prefazione a questa nuova edizione
che all’Istituto Biblico di Roma era stato il suo maestro. Mannucci non
soltanto propone una Introduzione alla Scrittura sulla scia della Dei
Verbum, come ho appena detto, ma si confronta, o almeno inizia a
farlo, con la teologia protestante, in un tempo nel quale il dialogo ecu-
menico iniziava a sembrare realmente possibile; Mannucci si apre anche
agli apporti delle ermeneutiche filosofiche contemporanee, precorrendo
quanto farà nel 1993 il documento della Pontificia Commissione Bi-
blica. Ricordo bene l’opposizione che Mannucci incontrava talvolta a
lezione da parte di studenti appartenenti a movimenti ancora oggi poco
inclini ad aprirsi alle novità del concilio, ma anche da parte di qualche
docente molto tradizionalista. Un terzo aspetto che ha aiutato il successo
del manuale è stata la chiarezza del linguaggio, la serietà della proposta
unita alla semplicità d’uso da parte degli studenti. Dopo più di trent’anni
il manuale di Mannucci compare ancora nella bibliografia di molti corsi
di Introduzione alla Scrittura, nelle diverse Facoltà teologiche italiane.
Vale la pena di ricordare, a questo punto, che il manuale di Mannucci
si presentava senz’altro come un manuale cattolico, pur se teneva conto –
come si è appena detto – degli apporti delle altre chiese, specialmente in
ambito protestante. Diciamo subito con molta onestà che questa revisio-
ne non modifica sostanzialmente tale impostazione; questo volume resta
una introduzione per lo più teologica alla Scrittura, scritta quasi come un
commento alla Dei Verbum e dunque inserita nell’ambito della teolo-
gia cattolica. Questo manuale, dunque, pur senza chiudersi all’apporto
ecumenico, ha in mente prima di tutto studenti che si formano nel
l’ambito delle Facoltà ecclesiastiche. E tuttavia, si è cercato di attenuare
o in qualche caso eliminare del tutto alcune affermazioni ancora un po’
troppo apologetiche o che tendevano a contrapporre in modo troppo
netto l’impostazione cattolica con quella delle altre chiese cristiane.
Ho dunque accolto l’invito di Queriniana per rivedere l’intero manua-
le di Mannucci alla luce delle nuove acquisizioni della scienza biblica,
della teologia e del Magistero della chiesa cattolica. Il manuale non
teneva ancora conto, per esempio, dell’appena ricordato documento
del 1993, dei successivi due documenti della PCB sul Popolo ebraico
e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001) e su Ispirazione e
verità (2013), né degli ulteriori sviluppi teologici relativi al canone, al
l’ispirazione, alla verità biblica, per non parlare di cambiamenti radicali
nelle prospettive esegetiche (cfr. il caso degli studi sulla formazione del
Pentateuco, dopo il crollo della teoria documentaria classica, che Man-
nucci dava per scontata). C’è poi da tener conto della ricezione effettiva
Prefazione 15
della Dei Verbum nella vita della chiesa, sino alla Verbum Domini di
Benedetto XVI, frutto del Sinodo sulla Parola del 2008.
Come criterio di revisione, ho cercato di rispettare, per quanto pos-
sibile, l’impostazione generale originaria del libro; ho cercato di ridurre
all’essenziale le aggiunte e i tagli all’opera originale, cercando di non eli-
minare, per quanto è possibile, lo stile e il linguaggio di Mannucci. Sono
infatti convinto che l’impostazione generale del testo sia ancora valida.
Ho ritenuto opportuno non appesantire poi questa nuova edizione con
l’indicazione puntuale di tutte le omissioni o aggiunte al testo originale
di Mannucci, che qui di seguito segnalo.
Tra le principali omissioni, segnalo il taglio di alcuni paragrafi, per-
ché non più attuali o perché totalmente rifusi: cap. 17, A2 (l’erme-
neutica critico-liberatoria di J. Habermas); cap. 17, A5 (l’ermeneutica
dell’«empirismo logico»); cap. 17, B6 (dall’interpretazione secolare del
Vangelo ai teologi della “morte di Dio”); cap. 18, B4 (l’ermeneutica bi-
blica a servizio della storicità e della verità della Scrittura); quasi tutto il
cap. 18, B6 (il “comprendere” nella fede e il problema dei “sensi biblici”).
Le aggiunte più significative sono invece: cap. 2, il finale del § 1; la
conclusione di cap. 2, § 5.4; aggiunte al cap. 3, § 2.1; § 7.3 (sul senso
della fede); cap. 4, § 2 (sulla tradizione nel giudaismo rabbinico). La
prima parte del cap. 5 è stata profondamente rivista, specialmente alla
luce degli studi più recenti sulla formazione del testo biblico (cfr. in
particolare per quanto riguarda il Pentateuco); nuova è anche gran parte
del testo del capitolo 6, §§ 3-4 e del cap. 7, § 4. Nuovi sono il cap. 8, §
1.3; così pure gran parte del § 7 del cap. 11. Si vedano ancora le aggiunte
al cap. 16 § 1; § 3.3 (la violenza nella Bibbia); § 3.4 (la synkatábasis); il
§ 3 del cap. 20 (la necessità di tradurre e diffondere le Scritture); il § 7
dello stesso capitolo (Bibbia e catechesi); il § 8 (i “voti” del concilio in
DV 26 e i loro sviluppi).
In alcuni casi, come per esempio il cap. 12 e il cap. 13 sul canone, la
revisione ha toccato un po’ tutto il capitolo, senza tuttavia modificarne
sostanzialmente l’impianto; un capitolo nuovo, rispetto all’originale, è
invece il cap. 14, nel quale abbiamo raccolto e ampliato in modo più
sistematico le riflessioni teologiche circa il problema del canone.
Ampie revisioni sono state fatte in particolare sui capp. 17-19 dedicati
all’ermeneutica, soprattutto alla luce del ricordato documento della PCB
sulla Interpretazione della Bibbia, revisioni e integrazioni che non elen-
chiamo nel dettaglio; il lettore curioso e attento potrà verificare per suo
conto. È stata inserita, in particolare, una sezione totalmente nuova circa
16 Prefazione
a titolo personale aggiungo che io non sono mai riuscito a insegnare In-
troduzione alla sacra Scrittura nella Facoltà teologica dell’Italia Centrale,
a Firenze, dove ho insegnato per ben ventisette anni: questa revisione che
ho accettato di curare è per me un omaggio a un uomo che ha condotto
generazioni di studenti a un primo serio contatto con il testo biblico e
ci ha svelato la ricchezza di una parola di Dio incarnata nella debolezza
delle nostre parole umane: parola di Dio in parola di uomini.
Luca Mazzinghi
parte prima
LA PAROLA DI DIO
La biografia dell’uomo è, in fondo, una biografia della parola. Col suo
respirare l’uomo è essere vivente, col suo camminare è essere mobile, col
suo colpire è essere forte. Soltanto con la sua parola, soprattutto quella
rivolta all’altro, l’uomo diventa essere personale, interamente uomo.
La parola autentica è mistero, perché ha nell’essere la sua scaturigine. I
profeti e i poeti – ma ogni uomo è un po’ profeta e poeta – sono i pastori
dell’essere. Essi conoscono bene le frontiere dell’essere, donde scaturi-
sce la vita misteriosa della parola: «Tu non spieghi niente, o poeta, ma
attraverso di te tutte le cose diventano spiegabili» (P. Claudel); «Io non
invento, io scopro» (Ch. Péguy). Mediante la parola l’uomo penetra il
senso delle cose, dà loro un nome, le umanizza, le comunica.
La parola invoca l’ascolto. Nella biografia della parola entrano il par-
lare e l’ascoltare. Alla parola dell’altro, l’essere più profondo dell’uomo
ha un fremito: «Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! il mio
diletto che bussa… Il mio essere ha avuto un sussulto alla sua voce» (Ct
5,2-4). L’ascolto della parola dà inizio alla grande avventura, la ricerca
dell’altro (Ct 3,1-3), che accomuna tutti: «Dove si è recato il tuo diletto,
perché noi lo possiamo cercare con te?» (Ct 6,1).
L’uomo è davvero un essere essenzialmente visitato, e la parola è la casa
della sua ospitalità. Chi sa custodire parole autentiche diventa dimora,
anzi icona per le cose, gli eventi, le persone che lo visitano, preparandosi
così ad ospitare il Poeta assoluto, Dio. La biografia dell’uomo, ovvero
della sua parola, è una crescita, fino a quando l’uomo non si identifica
con la Parola che Dio ha pronunciato a suo riguardo. Quella Parola sta
alla nostra porta e bussa; se apriamo, essa entra e cena con noi (Ap 3,20).
1.
Il mondo della parola umana
Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al
parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le
debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo (DV 13).
1. «Homo loquens»
1
«Secondo una tradizione antica, noi, proprio noi, siamo gli esseri che sono in grado di
parlare e che perciò già possiedono il linguaggio. Né la facoltà del parlare è nell’uomo solo
una capacità che si ponga accanto alle altre, sullo stesso piano delle altre. È per contro la
facoltà che fa dell’uomo un uomo. Questo tratto è il profilo stesso del suo essere. L’uomo
non sarebbe uomo, se non gli fosse concesso di parlare, di dire: “è” – ininterrottamente,
per ogni motivo in riferimento ad ogni cosa, in varie forme, il più delle volte tacendo. In
quanto il linguaggio concede questo, l’essere dell’uomo poggia sul linguaggio. Già dal
l’inizio noi siamo dunque nel linguaggio e con il linguaggio». Così reputa M. Heidegger,
In cammino verso il linguaggio, 189.
2
Cit. in G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 42.
3
G. von Rad, Genesi, Paideia, Brescia 19782, 102.
Il mondo della parola umana 25
parola, come non lo sopporta nell’avere: «La parola è sempre una real-
tà per difetto, rispetto all’essere autentico […]. Non esiste un’ultima
parola nell’affermazione personale, al di qua del momento ultimo del
l’esistenza stessa»4.
Infine – è l’aspetto più noto – la parola permette all’uomo il suo
inserimento nel mondo dei rapporti umani e sociali, gli consente la
comunicazione con l’altro. Ma anche in questo ambito la parola umana
esprime – o dovrebbe esprimere – non una “fisica”, ma una “meta-
fisica” dei rapporti. La possibile, anzi facile, contraffazione della parola
non accade soltanto quando la parola diventa “menzogna”, ma anche
– ed è il pericolo più grave – quando essa non coincide più col valore
e si fa “etichetta”. Se le parole non riflettono e non mettono in essere
la dinamicità creativa del rapporto, se le parole non vengono di conti-
nuo riprese e attualizzate, esse sono destinate a degradarsi. La dignità e
l’autenticità dell’uomo lo chiamano a vivere responsabilmente la «sua
ora» anche nel linguaggio. Altrimenti, il reale continuerebbe la sua corsa
fuori dell’orbita del linguaggio, che invece ha il compito di configurare,
ordinare e destinare il reale. La parola nasconderebbe soltanto il silenzio,
il silenzio della morte.
4
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 46-49. È chiaro che, per un cristiano, questa
“ultima” parola è in realtà soltanto la “penultima”, perché a Dio soltanto, e al suo progetto
metastorico sull’uomo, spetta la Parola definitiva.
5
Secondo la classica tripartizione di K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion
der Sprache; cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 118s.; B. Mondin, L’uomo: chi è?,
158-167. Invece R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, 181-218, distingue sei funzioni
del linguaggio. Innanzitutto le funzioni emotiva, referenziale e conativa (corrispondenti alle
tre funzioni che Bühler denomina: espressione, informazione, appello), e inoltre la funzione
fàtica o di contatto (serve a stabilire, verificare, prolungare o interrompere la comunica-
zione tra “mittente” e “destinatario”), la funzione metalinguistica (serve a verificare se il
“mittente” e/o il “destinatario” utilizzano lo stesso codice linguistico), infine la funzione
poetica o estetica che è la messa a punto rispetto al “messaggio” in quanto tale, cioè l’ac-
cento posto sul messaggio per se stesso (essa non è affatto limitata alla sola poesia; pone
26 La parola di Dio
Saper distinguere e cogliere le tre funzioni della parola nella loro spe-
cificità, risulta determinante per comprendere la parola di Dio nella
Bibbia, che spesso abbiamo impoverito riducendola a pura “informa-
zione”. Dio ha assunto la parola umana nella totalità e integrità delle
sue manifestazioni.
in risalto l’evidenza dei segni linguistici usati al di fuori delle regole del parlare comune, e
lo fa attraverso due processi fondamentali di costruzione linguistica: la selezione e la com-
binazione). Anche queste sei funzioni naturalmente si accavallano e si sovrappongono nel
processo comunicativo. La struttura verbale di un messaggio dipende prima di tutto dalla
funzione predominante; la diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell’una o
dell’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse.
6
Cfr. B. Mondin, L’uomo: chi è?, 158-167.
7
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 119.
8
Qui si prescinde dal linguaggio puramente utilitaristico, al quale ricorre l’homo faber
per le sue quotidiane necessità. Si tratta qui di un’informazione “neutra”, nella quale i
luoghi comuni sostituiscono la “persona”. Per conversare del cibo o del tempo che fa, non
c’è bisogno che intervenga la persona; e in questo tipo di discorsi ci si intende benissimo,
proprio perché… le persone non hanno niente da dirsi!
Il mondo della parola umana 27
Ogni essere umano che parla si esprime, dice qualcosa di sé, sempre,
anche quando non coniuga verbi alla prima persona. Un viso del tutto
inespressivo non sarebbe più un viso umano. Una parola che non espri-
messe più nulla dell’intimo essere di colui che parla sarebbe l’anticame-
ra della morte9. Anche per comunicare, anche per “informare” l’essere
umano deve in una qualche misura ex-primersi, vale a dire mettere in
moto il suo essere, rischiare l’uscita da sé, disporsi a un pur minimo
smascheramento della sua interiorità.
Ci sono tuttavia situazioni-limite nelle quali la dimensione “espres-
siva” della parola primeggia. Così tutte le varietà del grido, esprimenti
in mille modi sorpresa, gioia, paura. Così le confessioni, quando l’in-
9
«Perché scompaia il bisogno di esprimersi, bisogna che venga colpito il gusto stesso di
vivere: “Non ho più una grande curiosità di ciò che la vita può ancora portarmi”, afferma
in una delle sue ultime pagine André Gide. “Ho detto più o meno bene ciò che pensavo
di dover dire, e ho paura di ripetermi…”. E il grande scrittore, constatando di non aver
più niente da dire, si pone il problema del suicidio. Così ogni vecchio si prepara alla
morte allenandosi al silenzio definitivo. L’uomo vivo, scrittore o no, ha sempre qualcosa
da dire, come un contributo alla realtà del mondo, in cui ha il compito di affermarsi» (G.
Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 71).
28 La parola di Dio
Nel Novecento, oltre ai contributi sulla filosofia del linguaggio già cita-
ti, si possono annoverare ulteriori ricerche che costituiscono un riferimen-
to anche per le discipline bibliche, non solo in ambito filosofico, ma anche
Il mondo della parola umana 29
Dopo una lunga pausa successiva alla stesura del Tractatus logico-
philosophicus (1921), Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche (1953)
abbandona definitivamente il progetto di costituire un linguaggio per-
fetto rivalutando la funzione del linguaggio ordinario. Quest’ultimo non
sembra più essere una sorgente continua di imprecisioni, confusione ed
errori, ma il tramite valido della comunicazione fra le persone.
Il passaggio dalla ricerca di un linguaggio perfetto alla considerazione
dei molti linguaggi in uso correntemente nasce anche dalla critica alla
teoria della relazione speculare tra linguaggio e realtà, per la quale ogni
parola deve avere un corrispettivo empirico. Ora, questa tesi appare a
Wittgenstein manifestamente parziale, se non falsa. Cade anche la pre-
tesa di univocità in favore della considerazione di un uso multivoco dei
termini e, quindi, del fatto che il loro significato dipende dal contesto
linguistico in cui sono inseriti.
Perciò, in sintesi, si può asserire che: il significato di una proposizione
dipende dal suo uso nel linguaggio più che da un’indagine analitica;
l’oggetto da studiare non è tanto il linguaggio formalizzato, quanto i
linguaggi comuni nei loro vari usi; lo scopo dell’indagine sul linguag-
gio non è di eliminarne le ambiguità (terapia del linguaggio), ma di
descriverne i modi specifici con cui gli uomini utilizzano i termini del
linguaggio stesso.
Prende così corpo una riflessione nella quale ciascun linguaggio è as-
similato metaforicamente a un gioco, così da sottolinearne, da un lato,
la socialità in cui ogni linguaggio si inscrive, dall’altro la necessità di
una serie di regole ordinate e coordinate che stabiliscano come i termini
devono essere collegati fra loro.
Per esprimere il fatto che il significato dipende dall’uso, Wittgenstein
introduce due nozioni “aperte”: non vere e proprie definizioni, ma idee
allusive, evocative: «Gioco linguistico», cioè le differenti modalità di uso
delle proposizioni ciascuna con regole proprie, e «Forma di vita», cioè la
partecipazione a un contesto sociale e culturale di attività e consuetudini.
30 La parola di Dio
Dato poi che, nei casi reali, le situazioni possono presentarsi in modo
estremamente complesso e sfumato al punto che non è facile riconoscere
a quale dei due procedimenti si è fatto ricorso, si introduce la categoria
generica di “extracodifica” per abbracciare entrambi. Queste attività di
extracodifica hanno come effetto il mutamento dell’aspetto informativo
dei segni e l’interazione fra codici, così che il testo appare sempre più
come «aperto»: lo stesso messaggio può essere decodificato da diversi
punti di vista e in riferimento a diversi sistemi di convenzioni, così
anche se la denotazione di base può essere intesa secondo l’intenzione
dell’emittente, le connotazioni possono mutare perché il destinatario
segue percorsi di lettura diversi da quelli previsti dall’emittente. Tutto
questo ha ripercussioni importanti per l’interprete della Bibbia, che deve
sempre tener conto del fatto che il testo è appunto “aperto” e permette
diversi percorsi di lettura.
4. La parola è creativa11
10
Cfr. pp. 505-506.
11
L’odierna filosofia del linguaggio (cfr. J.L. Austin, Quando dire è fare) introduce
felicemente la distinzione fra enunciati constativi (quelli che si limitano a dire qualcosa,
a descrivere un fatto o uno stato di cose) ed enunciati performativi (dal verbo inglese to
perform: quelli che non si limitano a dire qualcosa, ma fanno qualcosa, cioè portano den-
tro di sé ciò che vogliono comunicare, e comunicando lo instaurano). Alla radice di tale
distinzione Austin individua una tripartizione degli atti linguistici: atto locutorio (cioè l’atto
di dire qualcosa, l’atto del produrre dei suoni appartenenti a un certo lessico, organizzati
secondo le regole di una certa grammatica e che possiedono un certo significato); atto
illocutorio (l’atto che, oltre a ciò che esso compie in quanto è anche locuzione, produce
qualcosa nel dire: per questo si usa il prefisso il-); atto perlocutorio (l’atto che, oltre a fare
tutto ciò che fa in quanto locuzione e illocuzione, produce qualche cosa per il fatto di dire,
donde il prefisso per-; ciò che allora si produce non è necessariamente la stessa cosa che
si dice di produrre: per esempio, «Io ti avverto» è una perlocuzione se colui a cui parlo
è allarmato – e non semplicemente avvertito – dalle mie parole). J.R. Searle, in Atti
linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, elabora, in maniera più sistematica rispetto
ad Austin, una teoria quadripartita degli atti linguistici: atto enunciativo, cioè l’enunciare
parole (morfemi, frasi); atto proposizionale, cioè il far riferimenti e il predicare (il far rife-
rimenti serve a individuare o identificare un “oggetto” o “entità” o “particolare” distinto
da altri oggetti, a proposito del quale il parlante dirà poi qualche cosa, o porrà qualche
domanda ecc.; il predicare, con cui si predicano, in rapporto ad oggetti, non gli universali
ma le espressioni, le uniche – per Searle – a potere essere dette vere o false); atto illocutivo,
cioè l’affermare, il domandare, l’ammonire, l’ordinare, il promettere ecc.; atto perlocutivo,
che – collegato all’atto illocutivo – indica le conseguenze o effetti che tali atti hanno sulle
azioni, i pensieri, le credenze ecc. degli ascoltatori (per esempio, argomentando posso
34 La parola di Dio
16
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 56. Il dialogo come comunicazione amicale tra
“sposi” trova la più sublime esaltazione poetica e teologica nel Cantico dei cantici: cfr. V.
Mannucci, Sinfonia dell’amore sponsale, ElleDiCi, Leumann 1982, 25-38.
17
G. Gusdorf, Filosofia del linguaggio, 69.
18
Agostino d’Ippona, Sermone 16, 1: PL 46, 870.
36 La parola di Dio
19
Id., Lettera 130, 2,4 (PL 35,494). Trascriviamo l’intero brano: «Nel caso che so-
vrabbondassero le ricchezze, che non ci capitasse nessuna perdita di figli o del coniuge,
che fossimo sempre sani di corpo, che abitassimo nella patria preservata da sciagure, ma
convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e
da cui non dovessimo temere e sopportare inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è
forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia
e dolcezza proveremmo in essi? Poiché, se non abbiamo amici, nessuna cosa in questo
mondo ci apparirà amabile [nihil est homini amicum sine homine amico]» (cfr. Le Lettere,
vol. II, Città Nuova, Roma 1971, 77).
20
L. Boros, Il Dio presente, Queriniana, Brescia 19884, 21-23: si legga l’intera medi-
tazione dedicata a «L’amore» (ibid., 15-27).
Il mondo della parola umana 37
verso di lei la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando
vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere poi al suono
vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine21.
21
Agostino d’Ippona, Confessioni, 9,10, 23s. (cfr. Le Confessioni, Città Nuova, Roma
1965, 279-281): vedi il commento di L. Boros, Incontrare Dio nell’uomo, Queriniana,
Brescia 19724, 60-74. Una raccolta di testi agostiniani sull’amicizia è in R. Piccolomini
(ed.), Sant’Agostino. L’amicizia, Città Nuova, Roma 1994. Ancora sull’amicizia, cfr. Gre-
gorio Nazianzeno, Discorsi 43,15-21 (In lode di Basilio il Grande): PG 36, 313-524.
2.
La parola amicale di Dio
Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel
suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-
15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla
comunione con sé (DV 2).
La parola amicale di Dio 39
La stessa santa madre chiesa ritiene e in- Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza
segna che Dio, principio e fine di ogni rivelare se stesso e manifestare il mistero
cosa, può essere conosciuto con certezza della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante
con la luce naturale della ragione umana il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
a partire dalle cose create: «Le sue invisi- Verbo fatto carne, nello Spirito Santo
bili perfezioni, infatti, si fanno palesi al hanno accesso al Padre e sono resi par-
l’intelletto fin dalla creazione del mondo tecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18;
attraverso le sue opere» (Rm 1,20); ma 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti
che è piaciuto alla sua sapienza e bontà Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17)
rivelare se stesso e gli eterni decreti della nel suo grande amore parla agli uomini
sua volontà per altra via – soprannatura- come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-
le –, dal momento che l’apostolo afferma: 15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38),
«In molte maniere ed in molti modi un per invitarli e ammetterli alla comunione
tempo Dio parlò ai padri per mezzo dei con sé. Questa economia della rivelazione
profeti. Ora, in questi nostri tempi, ci avviene con eventi e parole intimamente
ha parlato per mezzo del Figlio suo» (Eb connessi, in modo che le opere compiute
1,1-2). da Dio nella storia della salvezza, mani-
Si deve a questa divina rivelazione, se le festano e rafforzano la dottrina e le realtà
verità che per loro natura non sono inac- significate dalle parole, e le parole dichia-
cessibili alla ragione umana nell’ordine rano le opere e chiariscono il mistero in
divino, nella presente condizione del ge- esse contenuto. La profonda verità, poi,
40 La parola di Dio
nere umano, possono essere conosciute sia di Dio sia della salvezza degli uomini,
da tutti facilmente, con assoluta certezza per mezzo di questa rivelazione risplen-
e senza alcun errore. Non è, tuttavia, per de a noi in Cristo, il quale è insieme il
questo motivo che la rivelazione, asso- mediatore e la pienezza di tutta intera la
lutamente parlando, è necessaria; ma rivelazione (DV 2).
perché Dio, nella sua infinita bontà, ha Dio, il quale crea e conserva tutte le cose
ordinato l’uomo a un fine soprannaturale, per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre
a partecipare, cioè, i beni divini, che su- agli uomini nelle cose create una peren-
perano del tutto le possibilità dell’umana ne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19.20),
intelligenza. «Occhio, infatti, non vide, e inoltre, volendo aprire la via della so-
orecchio non intese e cuore umano non prannaturale salvezza, fin dal principio
poté mai desiderare quello che Dio ha manifestò se stesso ai progenitori. Dopo
preparato per quelli che lo amano» (1 la loro caduta, con la promessa della re-
Cor 2,9). denzione, li risollevò nella speranza della
Questa rivelazione soprannaturale, secon- salvezza (cfr. Gen 3,15), ed ebbe assidua
do la fede di tutta la Chiesa, illustrata dal cura del genere umano, per dare la vita
santo sinodo di Trento, è contenuta nei eterna a tutti coloro, i quali cercano la
libri scritti e nella tradizione non scrit- salvezza con la perseveranza nella pratica
ta, che, ascoltata dalla bocca dello stesso del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo
Cristo dagli apostoli, o quasi trasmessa chiamò Abramo, per fare di lui un grande
di mano in mano dagli stessi apostoli per popolo […] (DV 3). […] (DV 4-5).
ispirazione dello Spirito Santo è giunta Con la divina rivelazione Dio volle ma-
fino a noi (CE 761s.; cfr. FC 23s.). nifestare e comunicare se stesso e i decre-
ti eterni della sua volontà riguardo alla
salvezza degli uomini «per renderli cioè
partecipi di quei beni divini che trascen-
dono la comprensione della mente uma-
na» (Vaticano I).
Il sacro sinodo professa che «Dio, princi-
pio e fine di tutte le cose, può esser cono-
sciuto con certezza con il lume naturale
dell’umana ragione dalle cose create» (cfr.
Rm 1,20); insegna inoltre che va attribui-
to alla rivelazione divina il fatto che «tut-
to ciò che nelle cose divine non è di per sé
impervio all’umana ragione, possa, anche
nel presente stato del genere umano, esse-
re conosciuto da tutti speditamente, con
ferma certezza e senza mescolanza d’erro-
re» (Vaticano I)» (DV 6).
b) Piacque a Dio…
1
Per le diverse forme di errori dottrinali contro cui il Vaticano I imposta la sua teologia
difensiva, cfr. R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 260-265.
2
La sua formulazione e ancor più il suo posto nel cap. I della costituzione Dei Verbum
hanno avuto in concilio un lungo e faticoso iter: cfr. H. de Lubac, Commentaire du préam
bule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine I, 263-272.
42 La parola di Dio
Di ciò non v’è traccia nel Vaticano I. Alcuni padri del concilio Vati-
cano II fecero osservare che era forse eccessivo dire che «Dio parla agli
uomini come ad amici» e avrebbero preferito l’espressione «come a figli»,
conforme a un uso più frequente nella Bibbia5. Nondimeno, la formula
3
G. Ruggieri, Rivelazione, in DTI III, 162.
4
Ossia il carattere cristocentrico della rivelazione: vedi sotto, cap. 3.5. Cfr. A. Martin,
Un enigma “intrigante”: il concetto di mistero nelle lettere agli Efesini e ai Colossesi, in PdV
60/1 (2015) 18-23.
5
Cfr. H. de Lubac, Commentaire, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine, 172; Acta
La parola amicale di Dio 43
Occorre poi ricordare che il cap. I della Dei Verbum non figurava nella
prima stesura dello schema De fontibus revelationis; una prima redazione,
ad opera del vescovo M.G. Garrone, con il contributo di Y. Congar e J.
Daniélou, ricevette molte critiche, sino ad essere trasformata nell’attuale
cap. I, sotto la guida di P. Smulders, nella primavera del 19648.
Per quanto riguarda DV 2, la prospettiva che il documento conciliare
apre circa la rivelazione, lascia ancora aperti alcuni interrogativi: per
esempio, la possibilità del rifiuto della rivelazione stessa da parte degli
esseri umani ai quali la rivelazione è rivolta; il rapporto tra rivelazione
cristiana e altre fedi religiose; il rapporto tra il dichiarato valore univer-
sale della rivelazione e la sua dimensione storica. Dei Verbum non offre
inoltre alcuna indicazione sull’accesso concreto degli uomini di questo
Synodalia, vol. IV, pars I, p. 342 e pars V, p. 683. Cfr. F. Gil Hellin, Constitutio dogmatica
de divina rivelatione Dei Verbum. Concilii Vaticani II Synopsis, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1993, 18-19.
6
Vedi qui sotto, § 2.
7
Vedi sotto, cap. 3.
8
Cfr. R. Burigana, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei Verbum”
del Vaticano II, il Mulino, Bologna 1998, 258-260.
44 La parola di Dio
tempo alla rivelazione divina, non cogliendo il fatto che è nel rapporto
tra lettore e narratore che la rivelazione si rende attuale9.
Del cap. I, e in particolare del n. 2, val la pena di sottolineare tuttavia
una serie di elementi fondamentali, che restano oggi dei punti fermi per
la riflessione della chiesa cattolica sulla rivelazione: la forte ispirazione
biblica e l’abbandono deciso di una visione dottrinale della rivelazione
(da “istruzione” a “comunicazione”; cfr. Ch. Theobald, sopra citato), in
nome di una concezione che mette decisamente al centro l’evento della
autocomunicazione divina, non più considerata soltanto un fatto del
passato, ma anche del presente, un atto assolutamente gratuito («Placuit
Deo…»); si noti, al riguardo, la presenza, in DV 2, della espressione “sto-
ria della salvezza”, che colloca la rivelazione divina anche all’interno di
una precisa dimensione storica (cfr. anche oltre, al cap. 3). Il “presente”
della rivelazione nasce dalla dimensione cristocentrica della rivelazione
stessa, che ingloba tuttavia in sé sia l’aspetto trinitario che quello antro-
pologico dell’autocomunicarsi di Dio; cfr. anche DV 4. «Per il Vaticano
II la comunicazione di Dio non si limita dunque a “rendere nota” la
salvezza, ma effettivamente la “comunica”, rendendola accessibile in ter-
mini di relazioni interpersonali»10. Nasce così quel “Dio in dialogo” di cui
parla Benedetto XVI in VD 6 con un richiamo esplicito all’importanza
capitale di DV 2: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto
che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi».
9
Cfr. Ch. Theobald, «Seguendo le orme…» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche
di lettura, EDB, Bologna 2011; cfr. il cap. I: «La rivelazione. Dei Verbum quarant’anni
dopo», 11-30.
10
P.L. Ferrari, La Dei Verbum, 59; cfr. anche G. O’Collins, Rivelazione: passato e
presente, in R. Latourelle (ed.), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo
(1962-1987), Cittadella, Assisi 1987, 125-135.
La parola amicale di Dio 45
Es 33,11: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla
con un suo amico».
11
«Ego arbitror praecipuam invisibili Deo fuisse causam, quod voluit in carne videri,
et cum hominibus homo conversari, ut carnalium videlicet, qui nisi carnaliter amari non
poterant, cunctas primo ad suae carnis salutarem amorem affectiones retraheret, atque ita
gradatim ad amorem perduceret spiritualem»: Bernardo di Chiaravalle, In Cantica,
Sermo 20, 6: PL 183, 870B.
12
«La rivelazione, che è il rapporto soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa
di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata come un dialogo nel quale il Verbo di
Dio si esprime con l’Incarnazione e poi col Vangelo. Il colloquio paterno e santo interrotto
tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, ha meravigliosamente ripreso nel corso
della storia. La storia della salvezza racconta precisamente questo lungo e vario dialogo
che parte da Dio e annoda con l’uomo una conversazione varia e meravigliosa. È in que-
sta conversazione del Cristo con gli uomini (Bar 3,38) che Dio fa comprendere qualche
cosa di se stesso, il mistero della sua vita, assolutamente una nella sua essenza, trina nelle
Persone: è qui che egli dice come vuole essere conosciuto: egli è Amore, e come tale vuole
essere onorato e servito. Il nostro comandamento supremo è amore. Il dialogo si fa pieno
e fiducioso: il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si smarrisce […]» (AAS 56 [1964] 632).
13
Cfr. L. Mazzinghi, Percorsi biblici nella Dei Verbum, in PSV 58 (2008) 35-54.
46 La parola di Dio
Bar 3,38: «La Sapienza è apparsa sulla terra e ha conversato tra gli uomini».
All’epoca del libro di Baruc (forse l’inizio del II secolo a.C.) la sapien-
za, benché personificata, non ha ancora un volto umano. È «il libro dei
decreti di Dio, la legge che sussiste nei secoli» (Bar 4,1), è insomma la
Parola-rivelazione che Dio ha comunicato ai figli di Abramo (cfr. Bar
3,37), perché essi a loro volta la donassero ai figli di Adamo. Dio, con-
versando con il suo popolo, ha inteso intrattenersi e conversare con tutti
gli uomini. Sarà Gesù Cristo in persona questa sapienza di Dio apparsa
definitivamente sulla terra15, sarà lui «la nuova tenda di convegno» della
esperienza mosaica: «E il Verbo (la Parola) si fece carne e venne ad abi-
tare (eskḗnōsen, lett. “piantò la sua tenda”) tra noi e noi vedemmo la sua
gloria» (Gv 1,14).
14
Cfr. G. Auzou, Dalla servitù al servizio (Il libro dell’Esodo), EDB, Bologna 1975, 273.
15
Il testo di Bar 3,38 viene spesso citato dai Padri della chiesa, i quali vi vedono una
figura del mistero dell’incarnazione; e il NT accosta la sapienza a Cristo, unica e autentica
parola di Dio: cfr. P.E. Bonnard, La sagesse en personne annoncée et venue: Jésus Christ,
du Cerf, Paris 1966; J.N. Aletti – M. Gilbert, La sapienza e Gesù Cristo, Gribaudi,
Torino 1981.
La parola amicale di Dio 47
16
Cfr. V. Mannucci, Evangelo di Giovanni, in ER 2, col. 1471.
17
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Vandenhoeck & Ruprecht, Göt-
tingen 196418, 70.
48 La parola di Dio
18
R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 364.
19
Così Paolo apostolo chiama i cristiani: cfr. Rm 1,6.7; 8,28; 1 Cor 1,2.24 ecc.
20
Questo carattere “antropologico” della rivelazione è diffusamente espresso dalla costi-
tuzione Gaudium et spes del Vaticano II: cfr. R. Latourelle, La rivelazione, in MS I, 248s.
La parola amicale di Dio 49
il nome di Yhwh, cioè “Colui che c’è, che è presente, che è con”21, è
l’Emmanuele, Dio-con-noi. L’avventura millenaria della parola di Dio
(cfr. Eb 1,1-2) approda a un uomo che è la parola di Dio diventata carne
(Gv 1,14a), la tenda nella quale Dio abita (Gv 1,14b) e si intrattiene
con l’umana famiglia: la parola di Dio si chiama Gesù (= Yhwh salva).
Già il Proemio di Dei Verbum, facendo proprie le parole di Giovanni
– «Annunziamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e si manifestò
a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche
voi abbiate comunione con noi e la nostra comunione sia col Padre e
col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3) –, contiene in germe tutto ciò
che il cap. I della costituzione afferma sulla rivelazione. Vi si trovano
chiaramente indicati l’oggetto, il modo, la trasmissione e la finalità della
rivelazione di Dio.
a) L’oggetto. – È «la vita eterna», che per Giovanni è il più radicale degli
attributi di Dio: «eterna» evoca «non una vecchiaia senza fine, ma una
incorruttibile giovinezza»22. Una tale vita non è separabile da «la luce»
(Gv 1,4), che in Giovanni è sinonimo di “rivelazione”. Ebbene, vita e
luce sono identiche a «la Parola» che «in principio esisteva già, era presso
Dio, era Dio» (Gv 1,1). L’oggetto della divina rivelazione, lo si chiami
Dei Verbum o Vita aeterna, è dunque Dio stesso che si apre agli uomini
e si comunica ad essi come «verità e vita».
b) Il modo. – La vita eterna di Dio si manifestò a noi in Gesù Cristo,
il quale rivela Dio non solo con le parole, ma con la sua stessa presenza
attiva, con tutto il suo essere (cfr. DV 4). La presenza del Verbo di Dio
incarnato è qualcosa di più che un puro insegnamento dottrinale. In
lui la parola di Dio si è fatta non soltanto “udire”, ma anche “vedere” e
“toccare”. Gesù Cristo è la definitiva teofania del Padre.
c) La trasmissione. – L’annuncio di Giovanni è una testimonianza;
tale è pure l’annuncio della chiesa, fondato sulla testimonianza degli
apostoli. Prima di essere “maestra”, la chiesa è “discepola”; prima di
annunciare la parola di Dio, la chiesa si pone «in religioso ascolto» della
medesima; prima di comunicare la vita, la chiesa la riceve. Come dice
DV 8: «La chiesa perpetua e trasmette tutto ciò che essa è, tutto ciò che
21
Secondo l’interpretazione più probabile del nome Yhwh, rivelato da Dio a Mosè
(Es 3,13-15): cfr. G. Auzou, Dalla servitù al servizio, 130-135; M. Noth, Esodo, Paideia,
Brescia 1977, 36.
22
L. Bouyer, Il quarto Vangelo, Borla, Torino 1964, 32.
50 La parola di Dio
essa crede»; e gli strumenti della sua tradizione sono «la sua dottrina, la
sua vita, il suo culto».
d) La finalità ultima. – Essa viene espressa dalla Prima lettera di Gio-
vanni e dal Proemio di Dei Verbum in termini di koinōnía, di “comu-
nione” con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo: è questa la vita eterna
manifestata e donata agli uomini dal Verbo fatto carne. Ma tutto ciò non
è una faccenda privata, affidata al rapporto privato delle singole persone
con la rivelazione. L’incontro con Cristo, Verbum Dei, passa attraverso
il suo sacramento che è la chiesa, segno visibile ed efficace della comu-
nione degli esseri umani con Dio e della loro comunione fraterna (cfr.
LG 1). Giovanni non scrive: «Annunziamo la vita eterna…, affinché
anche voi abbiate comunione col Padre…»; ma: «… affinché anche voi
abbiate comunione con noi», e aggiunge: «e la nostra comunione sia col
Padre e col Figlio suo Gesù Cristo»23. L’annuncio della Parola edifica la
chiesa, comunità dei figli di Dio (cfr. AG 1), e la rende sacramento di
comunione con Dio per tutto il genere umano.
4. Rivelazione e alleanza
23
Già sant’Agostino commentava: «In questo passo siamo noi stessi ritratti e designati.
S’avveri dunque in noi quella beatitudine che il Signore ha preannunciato per le future
generazioni; restiamo saldamente attaccati a ciò che non vediamo, perché essi che videro
ce lo attestano. “Affinché”, afferma Giovanni, “anche voi abbiate parte con noi”. Che c’è
di straordinario a far parte della società degli uomini? Aspetta ad obbiettare; considera
ciò che egli aggiunge: “E la nostra vita sia in comunione con Dio Padre e Gesù Cristo suo
Figlio. Queste cose ve le abbiamo scritte, perché sia piena la vostra gioia”. Proprio nella
vita in comune, proprio nella carità e nell’unità, Giovanni afferma che c’è la pienezza della
gioia» (Agostino d’Ippona, Commento all’Epistola ai Parti di S. Giovanni, I, 3, in Opere
di S. Agostino XXIV, Città Nuova, Roma 1968, 1643 [PL 35,1980]).
La parola amicale di Dio 51
24
A. Neher, Existence biblique et histoire, in Id., L’existence juive. Solitudes et affronte-
ments, Seuil, Paris 1962, 28.
25
Ibid., 31.
52 La parola di Dio
Vogliamo qui sottolineare alcune qualità che ogni lettura della Bibbia
deve possedere per essere fedele alla natura dialogica, interpersonale della
rivelazione (vedi più avanti, cap. 20).
26
Vedi sopra, cap. 1.
27
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 121.
La parola amicale di Dio 53
fermazione dell’amore di Dio per Israele, vuol dire che non ha saputo
leggerla.
Quando Paolo in Rm 7 descrive pateticamente, e in prima persona,
la lotta interiore che si combatte nel cuore di ogni uomo, là dove coe-
sistono non pacificamente la “città di Dio” e la “città di Satana”, quel
vigoroso crescendo letterario esprime molto di più che non la semplice
verità della frattura interiore dell’uomo. Paolo non vuole semplicemente
informare, se, alla domanda quasi disperata: «Me infelice! Chi mi libe-
rerà da questo corpo votato alla morte?» (v. 24), egli risponde non con
una fredda proposizione come farebbe intendere la versione latina della
Vulgata («Mi libererà la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore»), ma con un grido di liberazione: «Siano rese grazie a Dio per
mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (così il testo greco). È evidente
per Paolo che soltanto la grazia di Dio in Gesù Cristo lo può liberare;
e ciò viene anche implicitamente affermato. Ma egli ha già fatto espe-
rienza di tale liberazione e ne ringrazia Dio. Paolo non enuncia soltanto:
esclama, prega, grida, si esprime e ci impressiona.
È ben vero che non tutte le pagine della Bibbia sono di questo tipo.
L’importante è non accedere alla pagina biblica con l’esclusiva preoccu-
pazione di apprenderne gli enunciati:
28
Ibid., 119.
54 La parola di Dio
29
R. Kittel, ἀκούω, in GLNT I, col. 583.
30
Sull’originalità dell’atto di ascoltare, come apertura all’essere e alla persona prima
ancora e più ancora che alle parole, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Mila-
no 19763, 195-203; Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 199s.; R.
Duval, Parole, Expression, Silence, in RSPT 60 (1976) 250-257.
31
M. Magrassi, La Bibbia nella vita della Chiesa, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975,
617.
La parola amicale di Dio 55
32
Sul problema del ruolo del magistero in DV 10 e del fatto che il concilio non arrivi
ancora a parlare di una chiesa sub verbo Dei, cfr. C. Theobald, La Chiesa sotto la Parola
di Dio, in G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II 5, EDB, Bologna 2001, 285-
370 (in particolare pp. 326-327).
33
Vedi sotto, cap. 20.
56 La parola di Dio
Dio che si rivela è infatti il Deus absconditus. La rivelazione non deve farci di-
menticare la dimensione abissale della vita di Dio, Uno e Trino, che il popolo
credente vive ma in nessun modo può esaurire. La Chiesa orientale afferma
che la rivelazione è innanzitutto “apophatica”, cioè una realtà che si vive nel
mistero prima ancora che sia proclamata in parole. Questa nota “apophatica”
della rivelazione è nella chiesa il fondamento di tutte quelle ricchezze della
tradizione, che sono sempre vive. E una delle cause delle difficoltà che la
teologia ha sperimentato in questi ultimi secoli consiste precisamente nel
fatto che i teologi hanno voluto racchiudere il Mistero in formule. Invece,
la pienezza del Mistero travalica non soltanto la formulazione teologica, ma
anche i limiti della lettera della sacra Scrittura36.
34
«Per quanto affilata possa essere quindi la forma linguistica di una definizione della
chiesa, di un canone conciliare e così via dicendo, questa forma così accurata non può
essere ammirata e apprezzata per se stessa, perché sta unicamente al servizio della forma
di Cristo che essa vuole conservare e custodire. Per motivi di prassi pastorale l’annuncio
ecclesiale deve quindi possedere il massimo di chiarezza, e questo anche in vista della
situazione storico-ecclesiale e teologica in cui si colloca, ma questa chiarezza non entra in
concorrenza con la forma e la formulazione della Scrittura. Essa non sostituisce, non alza
la pretesa di esprimere in modo migliore, più completo e moderno, ciò che la Scrittura ha
detto in modo ingenuo, frammentario, popolare e non scientifico, essenzialmente condi-
zionato dal tempo e quindi bisognoso di riforma. Le espressioni magisteriali si trovano su
tutt’altro piano. Esse sono interpretazione e non già fondazione della rivelazione, esse non
tendono ad un sistema espressivo che potrebbe essere in grado di sostituire, totalmente o
in parte, la Scrittura […]. Esse non fanno altro che rimandare a qualcosa che è diverso da
quello che esse sono, qualcosa che le sovrasta essenzialmente ed è collocato sul piano della
rivelazione divina» (H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, I: La percezione
della forma, Jaca Book, Milano 1975, 520).
35
Vedi sotto, cap. 19, 1.4.
36
Acta Synodalia, vol. III, pars III, 308.
La parola amicale di Dio 57
37
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San
Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2012, 47 e, più in generale, l’intero cap. II.
38
C. III (EB 1424).
39
Cfr. G. Angelini (ed.), La Rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia, Raccolta
di Studi in onore del cardinale Carlo Maria Martini arcivescovo di Milano per il suo LXX
compleanno («Quodlibet 7»), Glossa, Milano 1998; P.A. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio
di teologia fondamentale (BTC 85), Queriniana, Brescia 1996, 203, n. 1.
3.
La rivelazione nella storia
e attraverso la storia
Bibliografia: Oltre alle opere citate nella bibliografia del cap. 2, cfr. L. Alonso Schökel,
Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970, cap. III: «La storia rivelatrice e la sua
interpretazione»; H.U. von Balthasar, Gloria I, Jaca Book, Milano 1975, 393-491; O.
Cullmann, Cristo e il tempo, il Mulino, Bolona 19652; Id., Il mistero della redenzione nella
storia, il Mulino, Bologna 1966; P. Grelot, Sens chrétien de l’Ancien Testament, Desclée,
Paris 19622; H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy
(ed.), La Révélation divine I, 175-272; V. Mannucci, Storia della salvezza, in ER 5, coll.
1355-1387; L. Mazzinghi, Parola di Dio e storia dell’uomo, in Diocesi di Cassano Allo
Ionio, Sulla Tua Parola, Atti del Convegno Diocesano, Cerchiara di Calabria (CS), 27-
28 novembre 2007, Velar, Gorle 2008, 23-42; W. Pannenberg et alii, Rivelazione come
storia, EDB, Bologna 1969; G. von Rad, Teologia dell’AT, I: Teologia delle tradizioni
storiche d’Israele, Paideia, Brescia 1972; E. Schillebeeckx, Rivelazione e teologia, Edizioni
Paoline, Roma 1966, 11-96; G.E. Wright, God Who Acts. Biblical Theology as Recital,
SCM, London 19699.
Il Dio della rivelazione biblica è il Dio che agisce1. Per comunicare con
gli esseri umani non gli basta la parola dell’amicizia e dell’amore. Egli
pone in atto una presenza, e una presenza operante. Dio si rivela agendo.
L’uomo contemporaneo si interessa da protagonista alla storia: darle
un senso, dirigerla verso un futuro di giustizia e di pace è il suo com-
pito. Il Dio della Bibbia non contesta né attenua questa responsabilità.
Agendo nella storia degli esseri umani, Dio l’assume come un’avventura
comune; infonde coraggio e fiducia all’impresa umana di cercare e di
dare un senso alla storia, proprio perché essa ha già ricevuto un senso
dal suo agire. Non si tratta dunque di un perenne esodo destinato ad
1
Cfr. G.E. Wright, God Who Acts.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 59
1. Storia e rivelazione
«Noi abbiamo visto, inteso, toccato il Verbo della vita», diceva l’apo-
stolo Giovanni (cfr. 1 Gv 1,1-4). La rivelazione, afferma il concilio, si è
compiuta «con eventi e parole (gestis verbisque)»:
2
Vedi sotto, cap. 19, 2.4.
3
A chi proponeva di sostituire gestis con factis, la relazione al n. 2 del textus denuo
emendatus, il 20 settembre 1965, rispondeva: «Vocabulum gesta est magis personale ac
traditionale» (Acta Synodalia, vol. IV, pars I, p. 342: cfr. F. Gil Hellin, Dei Verbum, 20).
Normalmente le versioni italiane di Dei Verbum traducono il gesta latino con “gli eventi”;
tuttavia sarebbe più esatto tradurre con “le gesta” (= le azioni gloriose e memorabili), che
ha una risonanza più personale e richiama i magnalia Dei della storia biblica.
60 La parola di Dio
4
Si veda per esempio Ch. Pesch, che nelle sue Praelectiones dogmaticae (vol. I, Herder,
Freiburg i. Br. 1898, § 151, p. 109) scriveva: «Revelatio naturalis fit per facta, revelatio
supernaturalis per verba».
5
Cfr. F. Gil Hellin, Dei Verbum, 19.
6
Vedi sopra, cap. 2, p. 49, nota 21.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 61
che viene, Colui la cui vittoria ha già avuto e avrà ancora l’ultima parola.
Dunque, non l’evento isolato ma una storia di eventi è rivelatrice; non
la storia da sola è rivelatrice, ma la storia accompagnata da una Parola,
pronunciata nella storia con pienezza di poteri e che sa di essere molto
più che una semplice interpretazione della storia.
È un dato di fatto che, su 242 casi nei quali nell’AT viene usata l’e-
spressione «la parola di Dio», in ben 214 essa significa una comunica-
zione fatta da Dio ad un profeta o indirizzata al popolo per mezzo di un
profeta. La parola di Dio sorprende un uomo storico – il profeta – in un
luogo preciso, in un tempo determinato, la cui storia politica e religiosa
viene brevemente delineata. Si legga, per esempio, la vocazione profetica
di Geremia (Ger 1,1-3), o quella di Giovanni Battista, l’ultimo profeta
dell’AT (Lc 3,1s.). Non il mito, bensì la storia costituisce lo scenario della
rivelazione biblica. Addirittura, un uomo concreto, Gesù di Nazaret,
nato in terra di Israele sotto l’imperatore Cesare Augusto all’inizio della
nostra èra (Lc 2,1), comparso sulla scena pubblica sotto il suo successore
Tiberio Cesare (Lc 3,1) e infine giustiziato dal procuratore imperiale
Ponzio Pilato (Lc 23; Gv 18–19), ha l’ardire di presentarsi come la de-
finitiva rivelazione di Dio agli esseri umani.
Luca scrive imitando gli storici classici del suo tempo e, allo stesso
tempo, richiamandosi allo stile delle storie dei re contenute nelle Scrit-
ture di Israele, in particolare in 1–2 Re. Al di là dello stile utilizzato,
lo scopo principale del terzo evangelista, nel riportare questa lista di
personaggi illustri, è piuttosto quello di mostrare come la parola di Dio
non sia una realtà astratta, atemporale, ma una parola profondamente
incarnata nella storia degli uomini7. In ciò che Luca scrive c’è tutta-
via qualcosa che sorprende: in un momento storico ben preciso, ossia
nell’anno quindicesimo del regno dell’imperatore Tiberio, la parola di
Dio scese su Giovanni nel deserto. Questo accostamento è senza dubbio
paradossale: il quindicesimo anno del regno di Tiberio è un fatto noto
e ben verificabile a tutti; non così, invece, per quanto riguarda la se-
conda affermazione di Luca, relativa alla discesa della parola di Dio su
Giovanni in un luogo remoto dell’Impero. Non c’è storico, infatti, che
possa registrare o provare un tale evento. Ciò significa che, nonostante
gli intenti dichiarati nel prologo (cfr. Lc 1,1-4), Luca non è uno storico
in senso moderno né i vangeli intendono proporsi come “testimoni ocu-
lari” di fatti realmente verificabili alla stregua di un testimone chiamato
a deporre in un processo.
Scrivendo in questo modo, Luca vuol farci comprendere come la pa-
rola di Dio che scende sul Battista nel deserto è una parola viva, immersa
nella storia degli uomini in un tempo e un luogo ben preciso: il regno
di Tiberio, il deserto. Fatti apparentemente insignificanti, avvenuti in
un angolo remoto del vasto impero romano, segnano così l’intera storia
dell’umanità. Parola e storia vengono a trovarsi inscindibilmente legate
tra loro. Il compito di Luca è perciò quello di aiutare il credente a leggere
la storia nella quale vive nell’ottica della fede in un Dio che in questa
storia parla agli uomini.
Chi ancora serbasse nostalgie per una concezione di tipo greco, se-
condo cui l’ordine della verità e delle essenze è irriducibile all’ordine
7
Sulla teologia della storia in Luca si veda G. Rossé, La crono-teologia lucana, in PSV
47 (2003) 121-134. Cfr. V. Fusco, Progetto storiografico e progetto teologico nell’opera lu-
cana, in La storiografia nella Bibbia. Atti della XXVIII Settimana Biblica, EDB, Bologna
1986, 122-182: «Si rivelano fallaci le contrapposizioni tra “Luca lo storico” e “Luca il
teologo”. Né storiografia fine a se stessa, né speculazione teologica astratta, ma riflessione
teologica che passa attraverso la narrazione, la ricostruzione di ben determinati avveni-
menti: impegno storiografico nell’orizzonte della fede» (p. 152).
64 La parola di Dio
Dal punto di vista greco, c’è troppo particolare, troppi nomi propri, troppa
geografia, troppe date, troppa storia nei libri d’Israele per potervi cercare
una metafisica. Troppe cose contingenti: la verità è necessaria. Troppe cose
sensibili: la verità è astratta. Troppe persone particolari: la verità non guarda
in faccia a nessuno. Troppa geografia: la verità è fuori dello spazio. Troppi
avvenimenti storici: la verità è fuori del tempo. Troppe realtà particolari: la
verità è universale […]. Tutte le nostre abitudini intellettuali ereditate dal
pensiero greco si oppongono a questo passaggio attraverso l’esistente per
insegnare una verità, a questa “nascita” della verità, a questa manifestazione
della verità in e attraverso una realtà particolare, esistente e concreta. Questo
metodo – che è il metodo dell’incarnazione – cozza con il dualismo profon-
do congenito nel nostro pensiero: separazione irriducibile fra ciò che appar-
tiene all’ordine delle essenze, l’intelligibile, e ciò che appartiene all’ordine
del fatto, dell’esistente, che è contingente e assurdo […]. Ora, precisamente,
la Scrittura è una metafisica e una teologia sotto le specie del racconto storico8.
Il Signore assegnò dunque a Israele tutta la terra che aveva giurato ai padri
di dar loro, e gli Israeliti ne presero possesso e vi si stabilirono […]. Non
una parola cadde di tutte le promesse (in ebraico, debārîm, “parole”) che il
Signore aveva fatto alla casa d’Israele: tutto si è compiuto (Gs 21,43.45).
8
Cl. Tresmontant, Essai sur la pensée hébraïque, du Cerf, Paris 1953, 69s.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 65
Questi eventi storici, creati dalla parola di Dio, sono anche il con-
tenuto della fede. Se la rivelazione si concretizza in fatti, la fede, quale
risposta alla rivelazione, li proclama, li racconta. Il credo d’Israele (Dt
26,5-9) è un «credo storico»9, racconto di un’avventura: da Giacobbe,
l’arameo errante, al dono della terra promessa. Il credo apostolico in
bocca a Pietro nel suo discorso a Cornelio (At 10,34-43) è, sì, l’annuncio
de «la parola che Egli ha inviato ai figli d’Israele», ma questa parola si
risolve in un racconto di «ciò che è accaduto in tutta la Giudea, comin-
ciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come
Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò
beneficando e risanando tutti…». Gesù Cristo, unto di Spirito Santo,
passò, fece del bene, predicò, fu ucciso, Dio lo ha risuscitato, apparve a
noi e noi di tutto ciò siamo testimoni: questo è il credo di Pietro. Non
diversamente Paolo, nel discorso ad Antiochia (At 13,16-31), esprime la
sua fede: attraverso l’anello «Davide» si saldano i fatti dell’AT (vv. 17-22)
e le gesta di Gesù, il Salvatore (vv. 23-31). La “buona notizia” annunziata
da Paolo (v. 32) è il racconto, in sintesi, dell’intera storia salvifica.
Tuttavia, la professione di fede del giudeo e del cristiano (anche il
credo delle chiese cristiane, nelle sue varie formulazioni, ha sempre
un’andatura storica) non si limita ad affermare la storicità di quei fatti,
come se volesse semplicemente affermare: «Questi eventi sono realmente
accaduti; ci credo». La fede parte dalla storicità dei fatti e li presuppone;
ma essa li proclama nel loro significato rivelatorio e nella loro portata sal-
vifica10. Poiché Dio si rivela attraverso quelle gesta, dal loro accoglimento
mediante la fede cambia la comprensione di Dio, dell’essere umano, del
senso dell’esistenza e della storia, cambia la conduzione della vita e della
storia. Si è in grado di capire l’argomento della storia, solo in quanto si
è aperti a intendere l’interpellanza esigente della storia11.
9
Cfr. G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, I: Teologia delle tradizioni storiche
d’Israele, Paideia, Brescia 1972, 150ss.
10
È la distinzione tra historisch e geschichtlich introdotta da Heidegger, ripresa da Bult-
mann ed entrata nel vocabolario corrente della teologia. Possibile nella lingua tedesca, essa
diventa problematica in italiano: historisch qualifica il fatto come tale, come realmente
accaduto, e potrebbe essere tradotto con “storico”, relativo a “storia”; geschichtlich, invece,
qualifica il fatto nella sua significatività: qualcuno lo traduce con “istoriale”, relativo a
“istorialità-storicità”.
11
«Soltanto se si ha coscienza di essere mossi dalle forze storiche, non quali osservatori
neutrali, e soltanto se si è pronti ad ascoltare l’esigenza della storia, si comprende ciò di cui
si tratta nella storia»: R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 1972, 100.
66 La parola di Dio
12
Alonso Schökel scrive: «Una considerazione apologetica [del miracolo], quando è
integrata nella totalità della teologia, è necessaria; un’analisi apologetica dei miracoli e
delle profezie può manifestare una parte del senso di tali fatti. Il pericolo nasce quando
l’atteggiamento apologetico tende a diventare predominante o esclusivo, dettando legge
alla riflessione teologica» (L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, Paideia,
Brescia 1970, 70s.). Sulla polivalenza del “miracolo”, cfr. R. Latourelle, Teologia del-
la Rivelazione, Cittadella, Assisi 19806, 447-466; L. Monden, Miracoli di Gesù, e J.B.
Metz, Miracolo, entrambi in SM V, coll. 292-299 e 299-304. Cfr. ancora R. Latourelle,
Miracolo, in G. Barbaglio – S. Dianich (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni
Paoline, Cinisello B. 1988, 931-945; A. Borrell, Miracolo, in R. Penna – G. Perego
– G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 2010, 851-857.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 67
3. La storia è rivelatrice
La stessa analisi dei fatti come “contenuto” e come “prova” della ri-
velazione ci ha aperto l’ultima prospettiva del rapporto fra rivelazione
e storia. Le “gesta” dei patriarchi, dei profeti, di Gesù Cristo sono in se
stesse rivelanti, portatrici di senso e di salvezza. Dio parla, rivela salvezza
e la comunica attraverso quelle “gesta”. La storia è rivelatrice.
Oltre a ciò che dicevamo all’inizio di questo capitolo (§ 1), si deve
prestare attenzione ad alcuni dati scritturistici:
– Nella Bibbia, oltre alla dialettica: «Dio parla – l’uomo ascolta»,
abbiamo anche l’altra: «Dio ha fatto vedere – l’uomo deve ricono-
scere» (cfr. Dt 5,24; 11,7; 29,1.2; Sal 98,1-3 ecc.). Nel Sal 111,2 si
legge: «Grandi sono le opere del Signore, le ricerchino (lett., degne
di essere investigate da) coloro che le amano», dove l’“investigare”
traduce il verbo ebraico dāraš, caratteristico per lo studio, la ricerca
e l’investigazione approfondita della parola di Dio. Le opere del
Signore sono da indagare, perché sono ricche di significato e perciò
inducono alla lode del Signore. Questo loro significato fonda il tema
del «ricordo dei prodigi» del Signore (Sal 111,4) nella tradizione
orale, nel libro sacro, nella proclamazione liturgica. Si ricordano le
opere del Signore per aprirsi al significato che esse custodiscono per
ogni generazione di credenti.
13
Cfr. V. Mannucci, Gesù Cristo, in ER 3, coll. 56-61 («I miracoli e la proclamazione
del Regno»).
68 La parola di Dio
– Fra le tante leggi consegnate da Dio a Israele c’è anche la lex nar-
randi14: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci
hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai loro figli, raccontando
alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore, e
le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3s.). Il popolo di Dio
deve raccontare la storia passata, perché essa rivela e impegna il suo
presente e il suo futuro; e il dimenticare le opere di Dio è peccato e
fonte di peccati (Sal 106,7.13.21), perché non si tratta di semplice
dimenticanza di fatti di cronaca, ma dell’oblio di Dio, il quale si
rivela e salva operando nella storia.
– Quanto sia ricco il potenziale di significato delle “gesta” divine nella
storia, ce lo mostra la teologia dei segni nel Vangelo di Giovanni15.
Per Gesù, i miracoli fanno parte delle opere che egli compie; tutta-
via egli non le chiama «le mie opere», ma sempre «le opere di colui
che mi ha mandato» (Gv 5,36; 9,3; 10,25.32), poiché è il Padre
che agisce in Gesù e attraverso Gesù, rivelandolo come Figlio suo
e rivelando se stesso come Dio della salvezza. Per lo stesso motivo
l’evangelista Giovanni privilegia (cfr. Gv 2,11; 12,37; 20,30 ecc.),
per i miracoli di Gesù, il vocabolo “segni” (in greco, sēmêia): un’in-
dicazione che lascia intravedere nel miracolo la realtà nascosta della
persona e dell’opera del Padre in Gesù e a quella rimanda. Il “segno”
non è soltanto una garanzia dell’autenticità della missione divina
di Gesù, ma anche e soprattutto è epifania – manifestazione – della
presenza (dóxa, gloria) del Padre nel Figlio, attuazione simbolica
della sua opera di salvezza. È lotta vittoriosa contro il «principe
delle tenebre» (luce per il cieco nato) e «l’omicida fin dall’inizio»
(risurrezione per Lazzaro); è simbolo prefigurativo del compimento
escatologico (vino dell’eterno banchetto di nozze, acqua viva della
vita eterna, risurrezione per la vita eterna). I miracoli e l’intera opera
di Gesù, tuttavia, diventano “segni” significanti per gli esseri umani
solo allorquando sono attraversati da quel “vedere” della fede tipico
di Giovanni16, che è un penetrare i fatti per incontrarsi con la realtà
14
Vedi sotto, cap. 4, §§ 2.-3.
15
Cfr. R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, I parte, Paideia, Brescia 1974, 476-
493 (Excursus IV: «I “segni” giovannei»); R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo
spirituale, vol. II, Cittadella, Assisi 1979, 1472-1481 (Appendice III: «Segni e opere»).
16
Cfr. D. Mollat, Saint Jean maître spirituel, Beauchesne, Paris 1976, 83-93 [trad.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 69
it., Giovanni, maestro spirituale, Borla, Roma 1980]; Id., Jean l’évangeliste (Saint), in DSp
VIII, coll. 217-220.
17
Vedi sotto, cap. 4.
18
Cfr. L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, 85-89.
70 La parola di Dio
19
Cfr. ibid., 89-93.
20
Ibid., 91s.
21
Ibid., 92.
72 La parola di Dio
22
Vedi sotto, cap. 5.
23
Vedi sotto, cap. 19.
24
La relazione al n. 2 del textus denuo emendatus, il 20 settembre 1965, dice: «Gestis
verbisque inter se connexis: ut exprimatur ea non posse disgiungi, sed mutuam habere priori-
tatem et compenetrationem» (Acta Synodalia, vol. III, pars III, p. 75).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 73
25
In 2 Cor 2,1; Tommaso cita Sal 32,9: dixit, et facta sunt.
26
H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La
Révélation divine I, 177.
74 La parola di Dio
27
Vedi l’insistente terminologia della “salvezza” nel cap. I di Dei Verbum.
28
Bernardo di Chiaravalle, In Cantica canticorum, Sermo 8, 5: PL 183, 812B (ed.
it., Opere di san Bernardo, V/1: Sermoni sul Cantico dei cantici. Parte prima, 1-35, Introdu-
zione di Jean Leclercq, a cura di Claudio Stercal, Scriptorium claravallense - Fondazione
di studi cistercensi, Milano 2006).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 75
29
Cfr. H. de Lubac, Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.),
La Révélation divine I, 183s. Si ricordi al riguardo la teologia patristica del Verbum abbre-
viatum (ripresa da Benedetto XVI in VD 12); cfr. G. Benzi, Verbum abbreviatum. Cristo
come chiave ermeneutica della Scrittura, in N. Valentini (ed.), Le vie della rivelazione di
Dio. Parola e tradizione, Studium, Roma 2006, 47-72.
30
Clemente d’Alessandria, Pedagogo 1, 57, 2: PG 8, 320 (ed. it., Il Protrettico. Il
Pedagogo, a cura di M.G. Bianco, UTET, Torino 1971, 242).
76 La parola di Dio
31
Cfr. Th.C. Vriezen, An Outline of Old Testament Theology, Basil Blackwell, Oxford
1960, 12-38 («Il carattere storico della rivelazione anticotestamentaria. Osservazioni fon-
damentali e fattuali»).
32
Il lettore può inseguire la traiettoria di questi e altri temi in un dizionario di teologia
biblica: GLNT, a cura di G. Kittel; DTB, a cura di X. Léon-Dufour; DB, a cura di J.
McKenzie ecc.
33
Vedi sotto, nel cap. 16, le ripercussioni di ciò sul problema de «La verità della Scrittura».
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 77
In fondo, è la questione posta già a suo tempo dal Battista a Gesù: «Sei
tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,2). E
Gesù risponde che in lui sono venute a compimento le promesse rela-
tive a «Colui che deve venire» (cfr. Mt 11,4ss.). In Gesù Cristo la storia
della rivelazione è pervenuta al suo termine, e, in senso stretto, anche
la storia della salvezza è compiuta («opus salutare consummat»). Il NT
non è semplicemente un «secondo Testamento», che potrebbe essere
seguìto da un “terzo” o un “quarto”: è, come dice il concilio, alleanza
nuova e definitiva. La rivelazione cristica non può accettare aggiunte di
origine umana, né sostituzioni, né abolizioni. «Nessuno può porre un
fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1
Cor 3,11); «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato
agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati»
(At 4,12). Ciò significa porre una
34
H. Fries, Le due forme e le due maniere di realizzazione della rivelazione alla luce
della Bibbia, in MS I, 311.
35
Per una breve storia della discussione in concilio del problema, cfr. H. de Lubac,
Commentaire du préambule et du chapitre I, in D. Dupuy (ed.), La Révélation divine,
231-233.
78 La parola di Dio
natura diversa (di qui la scelta del termine “manifestazione” e non “ri-
velazione”) ed è oggetto di attesa.
L’esortazione apostolica Verbum Domini (n. 14) ricorda al riguardo
la definitività della rivelazione attraverso una citazione di DV 4, inserita
però nel contesto di un paragrafo dedicato alla «dimensione escatologica
della parola di Dio». Ma Benedetto XVI prosegue ricordando con chia-
rezza la distinzione tra rivelazione pubblica e rivelazioni private; queste
ultime possono costituire «un aiuto che ci è offerto, ma del quale non è
obbligatorio fare uso».
Detto questo, però, va subito affermato che il carattere definitivo
della rivelazione-economia cristiana, lungi dall’essere incompatibile con
uno sviluppo di comprensione e di attuazione, lo comporta e lo esige,
come dice il cap. II di Dei Verbum sulla tradizione. Il mistero di Cristo
è fecondo e non cessa di illuminare le situazioni sempre mutevoli della
storia degli uomini: «Semper novum, quod semper innovat mentes, nec
unquam vetus, quod in perpetuum non marcescit»36. La tradizione non è la
custodia di un deposito passato alla maniera di un museo, né la contem-
plazione intemporale della verità rivelata, bensì confronto costante della
verità rivelata con gli avvenimenti del mondo in divenire, con le diverse
culture dei popoli; è verifica della potenza esplicativa delle verità di fede
nel contesto mutevole della storia; è comprensione dell’essere umano,
della sua natura, del suo destino e della sua storia nelle situazioni più
diverse, alla luce dell’indefettibile storia della salvezza rivelata da Dio37.
36
Bernardo di Chiaravalle, In vigilia nativitatis Domini, Sermo, 6: PL 183, 112A
(ed. it., Opere di san Bernardo, IV: Sermoni diversi e vari, Introduzione di Jean Leclercq,
a cura di Domenico Pezzini, Scriptorium claravallense - Fondazione di studi cistercensi,
Milano 2000).
37
Vedi sotto, cap. 19.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 79
38
In una udienza riservata agli osservatori non cattolici durante la seconda sessione
del concilio Vaticano II, il 17 ottobre 1963, all’auspicio espresso in tal senso dal presi-
dente Skydsgaard, Paolo VI rispondeva testualmente: «Questi sviluppi che voi auspicate
di una “teologia concreta e storica”, “centrata sulla storia della salvezza”, noi volentieri li
sottoscriviamo da parte nostra e il suggerimento ci pare del tutto degno di essere studiato
e approfondito. La chiesa cattolica possiede già istituzioni, che niente impedirebbe di
specializzare meglio in questo genere di ricerche, salvo anche il creare un’istituzione nuova
a questo scopo, qualora le circostanze lo suggerissero» (AAS 55 [1963] 880). Sull’esigenza
di una “teologia narrativa”, cfr. i lavori pioneristici di H. Weinrich, Teologia narrativa, in
Concilium 9/1973, 846-859; J.B. Metz, Breve apologia del narrare, in Concilium 5/1973,
80-99; B. Wacker, Teologia narrativa, Queriniana, Brescia 1981; Ch. Theobald, I rac-
conti di Dio. Pensare la teologia narrativa, EDB, Bologna 2015. Si veda anche oltre, circa
la narratologia applicata alla Bibbia (pp. 505-506).
39
Vedi sotto, cap. 20, § 4.
80 La parola di Dio
40
«Ci si prepara a diventare attenti al cristianesimo non con la lettura di libri, né
con le prospettive storico-mondiali, ma attraverso l’approfondimento nell’esistenza» (S.
Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze
1972); J. Moltmann, Prospettive della teologia. Saggi, Queriniana, Brescia 1973, 147; cfr.
Id., Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia
cristiana, Queriniana, Brescia 1973, 20088, 13-16 («La speranza della fede»).
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 81
delle cose spirituali» – secondo DV 8 – è uno dei fattori dello sviluppo e
della crescita della comprensione nella chiesa della tradizione di origine
apostolica41. Del resto, Gesù ha affermato: «La mia dottrina non è mia,
ma di colui che mi ha mandato. Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà
se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso» (Gv 7,16s.).
Da questo punto di vista, ha ragione Semmelroth a descrivere la chiesa
come «la comunità di coloro che ascoltano la parola di Dio per metterla
in pratica e la mettono in pratica per meglio comprenderla»42. La chiesa,
per comprendere il Cristo rivelatore e salvatore e annunciarlo al mondo,
deve vivere evangelicamente, deve fare esperienze di vangelo43.
Acquista così una fondamentale rilevanza ermeneutica ciò che la tra-
dizione ha chiamato il sensus fidei o il sensum fidelium, una dimensione
che LG 12 ha riportato all’attenzione della chiesa cattolica. Il «senso
della fede» può essere ben descritto come la «capacità di riconoscere
l’esperienza intima dell’adesione a Cristo e di giudicare tutto, in base a
questa intelligenza […]. In base a questa intuizione il credente giudica
le possibili interpretazioni del mistero nonché la convenienza o con-
flittualità tra il mistero vissuto e compreso da una parte e, dall’altra, le
realtà e le rispettive teorie che emergono dal di fuori»44. La categoria di
41
Il textus emendatus della commissione dottrinale parlava, nel n. 8 di Dei Verbum, di
«ex intima spiritualium rerum experientia». In concilio la frase fu criticata da alcuni padri,
perché sembrava un diretto richiamo a qualcosa di eterodosso: il senso religioso moder-
nista, o comunque un criterio interpretativo di carattere puramente soggettivo. Il textus
denuo emendatus della stessa commissione, onde evitare ogni ombra di soggettivismo,
modificò l’espressione in «ex intima spiritualium rerum quam experiuntur intelligentia» (cfr.
F. Gil Hellin, Dei Verbum, 65). Dunque, nel testo definitivo di DV 8, pur coniugata con
la categoria di “intelligenza”, rimase la categoria di “esperienza”, del resto già presente nel
l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI: «Il mistero della chiesa non è una verità che possa
contenersi entro i limiti della scienza teologica, ma deve passare nella stessa vita pratica;
tanto che i fedeli, prima di averne una chiara nozione intellettuale, possono conoscere
questa verità attraverso l’esperienza ad essi come connaturale» (AAS 56 [1964] 624).
Sulla storia e la discussione della frase in questione di DV 8, cfr. U. Betti, La rivelazione
divina nella Chiesa, Città Nuova, Roma 1970, 136.137.138.231. Sull’esperienza religiosa
dell’essere umano come «apertura a un orizzonte illimitato dell’essere», e sulla rivelazione
come «parte del processo globale dell’esperienza dell’autocomunicazione divina», cfr. G.
O’Collins, Teologia fondamentale, capp. II-III.
42
O. Semmelroth, Teologia della Parola, Ed. Paoline, Bari 1968, 148s.
43
Vedi sotto, cap. 19, 2.3.
44
Z. Alszeghy, Senso della fede e sviluppo dogmatico, in R. Latourelle (ed.), Il Va-
ticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1, Cittadella, Assisi 1987, 144; cfr.
l’intero articolo (136-151) con ampia bibliografia sull’argomento. Si aggiungano ancora
D. Vitali, «Universitas fidelium in credendo falli nequit» (LG 12). Il sensus fidelium al
82 La parola di Dio
concilio Vaticano II, in Gregorianum 86 (2005) 607-628; Id., La totalità dei fedeli non
può sbagliarsi nel credere (LG 12): il sensus fidelium come voce della Tradizione, in Ur-
baniana University Journal 66 (2013) II 37-70; S. Noceti, Laici e sensus fidei, in C.
Militello (ed.), I laici dopo il Concilio: quale autonomia?, EDB, Bologna 2012, 87-101.
Studi fondamentali sono quelli di D.J. Finucane, Sensus fidelium. The Use of a Concept in
the Post-Vatican Era, International Scholars Publications, San Francisco 1996; O. Rush,
The Eyes of Faith. The Sense of the Faithful and the Church’s Reception of Revelation, Catholic
University of America Press, Washington 2009.
45
Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della chiesa
(2014), n. 92.
46
Ibid., n. 74. Cfr. anche la ripresa di questo tema in EG 119.
La rivelazione nella storia e attraverso la storia 83
un inno di grazie per una liberazione recente (vv. 8-12); infine, cessato il
canto dell’assemblea, prende la parola un individuo per cantare la pro-
pria esperienza della misericordia salvatrice di Dio (vv. 16-20): «Venite,
ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto in me ha fatto (Dio)»
(v. 16). Tornano alla memoria le parole di Maria: «L’anima mia magnifica
il Signore…, perché ha guardato l’umiltà della sua serva… Grandi cose ha
fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome» (Lc 1,46-49). Davvero,
La teologia dei “segni dei tempi” si basa sul dato biblico che la storia
è luogo e tramite della rivelazione di Dio e del suo appello. Quello che
valeva per Israele, al quale Gesù rimproverò di non sapere leggere i segni
dei tempi (cfr. Lc 12,54-56), e per la comunità cristiana primitiva alla
quale Luca si indirizzava, vale per la chiesa di oggi, di sempre. Il concilio
Vaticano II lo ha insegnato a chiare note: «È dovere permanente della
chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo
[…]. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo
nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammati-
che» (GS 4); e ancora: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede
di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca
di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui
prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano
i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11).
La storia, tutt’intera fino al suo compimento escatologico, ha assun-
to il valore di epifania del divino e i “segni dei tempi” ne costituiscono
l’emergenza privilegiata. Ma: come individuarli, come leggerli? Il primo
e fondamentale criterio di lettura è la sacra Scrittura. È con il suo metro
che i credenti possono e debbono misurare gli eventi della storia contem-
1
Y.M. Congar, La tradizione e le tradizioni, 2: Saggio teologico, Edizioni Paoline,
Roma 1965, 22.
2
H.R. Niebuhr, Christ and Culture, Harper, New York 1956, 32s.
3
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19763, 458-463.
4
Vedi sotto, cap. 18, pp. 423ss.
90 La trasmissione della parola di Dio
iterazione assidua e fedele della consegna originaria della verità o della legge
o del dogma […]. II fatto religioso di base è e rimane l’evento dell’apertura,
della comunicazione divina nello happening straordinario e irripetibile della
teofania, nel suo comunicare con la sponda umana tramite la figura sinte-
tica e rappresentativa del sovrano, del sommo sacerdote, dell’egemone, del
profeta […]. Ma quell’evento non rimane isolato, il fatto religioso, cioè,
non si consuma in un hápax legómenon, bensì è destinato, secondo lo stesso
precetto divino, confessato o soltanto alluso che sia, a correre nel tempo in
una sequenza di punti, di tramiti qualificati, cioè la serie delle consegne e dei
passaggi, di livello in livello, lungo una scala coerente perché religiosamente
autorevole in virtù del carattere ieratico conferito dal medesimo tradere5.
5
M. Adriani, Tradizione, col. 1849.
6
Cfr. ibid.
7
Cfr. le rispettive voci, in ER, voll. 1 e 3.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 91
8
Vedi sopra, cap. 3.
9
Vedi sotto, cap. 5.
10
Vedi sotto, cap. 19.
92 La trasmissione della parola di Dio
11
Vedi sotto, cap. 5.
12
Vedi sotto, capp. 5 e 8.
13
T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scrit-
ture (LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 14. Per una trattazione più ampia, cfr. J.-A.
Sanders, Identité de la Bible. Torah et Canon («Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975;
B.S. Childs, Introduction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979, 25-106.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 93
La tradizione di Israele, dunque, vive tra due poli che non possono
essere isolati: la conservazione-fedeltà alle origini, il progresso-crescita
legati allo sviluppo della rivelazione e alla sua attualizzazione nella vita
e nella storia.
14
P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo della rivelazione, 369s.
15
P. Grelot, Tradizione, col. 1295.
16
Su tutto questo, si può consultare l’introduzione di G. Stemberger, Il giudaismo
94 La trasmissione della parola di Dio
Dio la Tôrah sul Sinai; dove per Tôrah occorre intendere sia la tradizione
orale (Tôrah šebe‘al pê), sia quella scritta (Tôrah šebikhethab). Tôrah scritta
e Tôrah orale appaiono legate tra loro da un rapporto dinamico; l’una
non può essere pensata senza l’altra dato che entrambe contengono la
medesima rivelazione divina.
classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al 1040), Città Nuova, Roma 1991,
spec. 154-210; cfr. A.C. Avril – P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Qjqaion,
Magnano 1984, spec. 15-19 e 75-101 (P. Carucci Viterbi, «Le regole ermeneutiche per
l’interpretazione del testo biblico»). Cfr. anche P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per
mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Roma - Milano 2012, 188-193;
sul tema più generale del rapporto tra oralità e scrittura cfr. W.J. Ong, Orality and Literacy.
The Technologizing of the Word, Methuen, London - New York 1982 [trad. it., Oralità e
scrittura. Le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986]. Per una applicazione del
l’idea al campo delle Scritture, cfr. S. Niditch, Oral World and Written Word. Ancient
Israelite Literature, Library of Ancient Israel - Westminster John Knox, Louisville 1996.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 95
Tuttavia, con le sue parole e i suoi gesti, Gesù dà origine a una tra-
dizione nuova. Radicalmente nuova è l’interpretazione della Scrittura
data da Gesù:
Legge e tradizione, chiuse e assolutizzate fino allora come scopo della rea-
lizzazione di una vita religiosa, vengono aperte in due direzioni: verso la
volontà originaria e totale di Dio, così come era «dall’inizio» (Mc 10,6), e
verso il cuore dell’uomo, il quale è propriamente toccato e significato dalla
legge e dalla tradizione (Mc 7,14-23)17.
17
P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo della rivelazione, 377.
18
Cfr. sotto, cap. 8, 2.1a.
19
Cfr. H. Schürmann, La tradizione dei detti di Gesù, Paideia, Brescia 1966.
96 La trasmissione della parola di Dio
20
Cfr. T. Citrini, Identità della Bibbia, 31-34.
21
Vedi sotto, cap. 5.
22
Vedi sotto, cap. 14, 2.2.1.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 97
23
P. Grelot, Tradizione, col. 1229s.; cfr. anche P. Iovino, Il deposito della fede e la
sana dottrina, in G. De Virgilio (ed.), Il deposito della fede. Timoteo e Tito, EDB, Bologna
1998, 163-177. La tradizione, nelle lettere pastorali, è una realtà vitale che si esprime
prima di tutto nella liturgia e cresce grazie all’azione dello Spirito e all’insegnamento dei
ministri della comunità.
98 La trasmissione della parola di Dio
Dal confronto fra le due tradizioni, emergono alcune note comuni: una
tradizione viva, biforme (orale-vitale e scritta), con caratteri di stabilità
e di crescita24. Ma ancora più importanti sono le differenze, derivanti
soprattutto dalla diversa pretesa religiosa che le due correnti di tradizioni
avanzano25:
a) Le tradizioni anticotestamentarie vivono della promessa fatta una
volta e degli interventi di Dio già sperimentati, e attendono per il futuro
il vertice storicamente sperimentabile dell’intervento divino. La tradi-
zione neotestamentaria, invece, sa che il vertice dell’azione di Dio‚ per
cosi dire, è alle sue spalle: il Messia è già venuto, è Gesù Cristo risorto e
Signore, del quale si attende il ritorno glorioso alla fine dei tempi.
b) La tradizione neotestamentaria ha quindi carattere definitivo: sorge
all’inizio dell’eone definitivo e implica la pretesa di annunciare in manie-
ra irrevocabile e definitiva la rivelazione di Dio, cosicché ogni annuncio
ulteriore deve scaturire dall’originaria testimonianza divino-apostolica ed
essere in sintonia con quella. Ma possiede anche una singolare efficacia:
la parádosis della nuova alleanza ha la forza di attuare ciò che le sue pa-
role dicono e annunciano, comunica al credente la realtà annunciata nel
messaggio. Ciò accade non in forza di se stessa, ma in virtù del Signore
risorto, che nel suo Spirito Santo continua ad essere presente e operante.
c) La tradizione giudaico-rabbinica è caratterizzata dalla sostituzione
dei profeti con i maestri della Tôrah, che è stata trasmessa a Israele da
Dio stesso. La parádosis del Cristo Gesù continua a essere sostenuta, an-
che dopo la morte degli apostoli, dall’influsso dello Spirito Santo nella
chiesa di Gesù Cristo. La responsabilità ultima della continuazione e
della purezza della parádosis in entrambe le tradizioni non riposa così
nei tradenti umani; nel caso della tradizione cristiana, riposa nel Signore
risorto e nell’altro Paràclito, il suo Spirito Santo (Gv 14,16), nel quale e
mediante il quale si compie anche nel futuro ogni tradizione autentica
(cfr. DV 8).
24
Vedi qui sopra, § 2.
25
Sintetizziamo con le stesse parole di P. Lengsfeld, La tradizione nel tempo costitutivo
della rivelazione, 394-400.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 99
Offriamo qui una più ampia riflessione sul cap. II della Dei Verbum
e, in particolare, sul rapporto tra Scrittura e tradizione e sul concetto di
“rilettura”26. Si tratta di una sintesi orientativa, relativa a questioni che
nelle Facoltà Teologiche vengono di solito affrontate all’interno dei corsi
di Teologia fondamentale.
Scrittura e tradizione sono [state] solo remote fonti della fede; la fonte più
diretta e vicina era il magistero della chiesa. Si pensava che nel magistero si
realizzasse il Vangelo e che il magistero garantisse per se stesso e fosse per se
stesso sufficiente. Le sacre Scritture rappresentavano più o meno una cava
di pietra a cui riferirsi per ulteriori prove scritturali28.
26
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 187-225; per DV
7-10, cfr. P.L. Ferrari, La Dei Verbum, Queriniana, Brescia 2005, 63-93.
27
IBC III (EB 1423-1424).
28
Cfr. W. Kasper, Dei Verbum audiens et proclamans, in «Gottes Wort voll Ehrfurcht
hören und voll Zuversicht verkünden». Die Offenbarungskonstitution Dei Verbum, 3 (www.
c-b-f.org/deiverbum/Paper/kasper_d.pdf ); U. Berges, La predica e la lezione. L’interpre-
tazione della Bibbia tra chiesa e università, EDB, Bologna 2014, 25-29, che osserva come
il Catechismo della chiesa cattolica del 1992 non sfugga a questo limite.
100 La trasmissione della parola di Dio
29
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 205; cfr. anche p. 206. Su
DV 7-10 cfr. anche P.L. Ferrari, La Dei Verbum, 63-97; una breve storia di DV 7-9 è in
R. Saccenti, «L’unico sacro deposito della Parola di Dio». Storia del capitolo secondo della
Dei Verbum, in PdV 60 (2015) 6-10; cfr. anche L. Mazzinghi, Bibbia e tradizione vivente
della Chiesa: un nuovo rapporto (Dei Verbum 7-9), in PdV 60 (2015) 29-35.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 101
delle «due fonti» non sia stata ancora del tutto superata; d’altra parte
DV II non definisce mai con sufficiente chiarezza che cosa intenda per
“tradizione” né propone alcun criterio ermeneutico per il discernimento
critico di ciò che è davvero “tradizione”, al contrario di quanto si pro-
pone in DV 12 per l’ermeneutica della Scrittura.
30
Cfr. W. Kasper, Dei Verbum audiens et proclamans, 8. Su questo aspetto, cfr. P.L.
Ferrari, La Dei Verbum, 95-97.
31
Su questa nuova visione del magistero in DV 10 si veda la buona sintesi di S. Noce-
ti, Il Magistero vivo (DV 10). L’interpretazione autentica della Parola di Dio e la vita della
chiesa, in PdV 60 (2/2015) 36-41.
32
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 206-215 (con ampia
bibliografia). Cfr. anche il numero 43 (2001) di Parola Spirito e Vita dedicato a: «La
Scrittura secondo le Scritture», con diversi contributi significativi, seppure di taglio più
divulgativo.
102 La trasmissione della parola di Dio
Ciò che contribuisce a dare alla Bibbia la sua unità interna, unica nel suo
genere, è il fatto che gli scritti biblici posteriori si basano spesso sugli scritti
anteriori. Fanno allusione ad essi, ne propongono delle “riletture” che svi-
luppano nuovi aspetti di significato talvolta molto diversi dal senso primitivo
o ancora vi si riferiscono esplicitamente o per approfondirne il significato o
per affermarne il compimento34.
33
Uno studio pionieristico è stato quello di M. Fishbane, Biblical Interpretation in
Ancient Israel, Oxford 1985. Cfr. anche D. Marguerat – A. Curtis (edd.), La Bible en
échos, Génève 2000; un buon punto della situazione è poi in P. Grech, La reinterpreta-
zione intra-biblica e l’ermeneutica moderna, in Studia Patavina 49 (2002) 641-662 (= Id.,
Il messaggio biblico e la sua interpretazione, 89-108).
34
IBC III.A.1 (EB 1428).
35
Sul libro della Sapienza si veda M. Gilbert, Wisdom of Solomon and Scripture, in
M. Sæbø (ed.), Hebrew Bible / Old Testament, The History of Its Interpretation, I: From the
Beginnings to the Middle Ages (Until 1300), Göttingen 2000, 606-617 (adesso in Id., La
Sagesse de Salomon, PIB, Roma 2011, 45-64). Su Ben Sira, cfr. J. Corley – W. Skemp
(edd.), Intertextual Studies in Ben Sira and Tobit, CBQ Mon. Ser. 38, Washington 2005.
La tradizione nel tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento 103
I rapporti intertestuali acquistano una densità estrema negli scritti del Nuovo
Testamento pieni di allusioni all'Antico Testamento e di citazioni esplicite.
Gli autori del Nuovo Testamento riconoscono all’Antico Testamento valore
di rivelazione divina. Essi proclamano che questa rivelazione ha trovato il
suo compimento nella vita, nell’insegnamento e soprattutto nella morte e
risurrezione di Gesù36.
36
IBC III.A.2 (EB 1433).
37
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 213.
38
Cfr. P. Bovati, Deuterosi e compimento, in Teologia 1 (2002) 20-34; R. Vignolo,
Leggere Beauchamp – Leggere con Beauchamp, ibid., 3-10.
5.
La Bibbia è la memoria scritta
del popolo di Dio
1
Cfr. Corano, sûra III, 6-7: «Non v’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il saggio. È Lui
che ha fatto scendere il Libro su di te»: Il Corano, a cura di H.R. Picardo, Al Hikma,
Imperia 1994, 66.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio 105
2
Cfr. J. Bright, A History of Israel, SCM, London 19863, 74-78; R. de Vaux, Histoire
ancienne d’Israël. Des origines à l’installation en Canaan I, Gabalda, Paris 1971, 155-440;
per un approccio più divulgativo, cfr. L. Mazzinghi, Storia di Israele. Dalle origini al
l’epoca romana, EDB, Bologna 2007, capitolo I. Per la critica storica applicata ai Vangeli,
vedi sotto, cap. 19, 1.2c e 2.1.
3
Vedi sopra, cap. 4, e sotto, capp. 8, 12, 13 e 14.
4
Riprendiamo qui quanto già scritto in L. Mazzinghi, Introduzione all’Antico Te-
stamento, in F. Dalla Vecchia – A. Pitta (edd.), La Bibbia, Piemme, Casale M. 1995,
106 La trasmissione della parola di Dio
Fin dal XVII secolo gli studiosi della Bibbia avevano chiaro il fatto
che, nonostante una tradizione secolare in merito, il Pentateuco non
poteva essere attribuito all’opera scrittoria di Mosè. Nella Chiesa catto-
lica, i decreti pubblicati dalla Pontificia Commissione Biblica nel 1906
ancora impedivano agli esegeti cattolici di assumere una tale posizione
critica. Sin dalla fine del XIX secolo, l’origine dei testi del Pentateuco
trovò una spiegazione ritenuta soddisfacente in quella che è nota come
la teoria documentaria, legata al nome di J. Wellhausen5.
L’impostazione classica della teoria documentaria presuppone l’e-
sistenza di una prima opera scritta, relativa alla storia di Israele, dal-
le origini del mondo sino al cammino nel deserto. Tale opera venne
convenzionalmente chiamata “Yahwista” (spesso indicata con la lettera
J), dall’uso del nome sacro Yhwh fatto in questi testi, e generalmente
datata in epoca salomonica (metà del X secolo a.C.). Si tratterebbe del
primo nucleo scritto del futuro Pentateuco, che si riflette in passi ce-
lebri come Gen 2–3.4; 11,1-9 ecc. Poco più tardi, nel regno del Nord,
si sarebbe sviluppata una seconda opera, la cosiddetta fonte “Elohista”
(E), così chiamata dal termine ebraico ’ elōhîm, “Dio”. Dopo il crollo
del regno del Nord (721 a.C.) le due fonti sarebbero state fuse insieme
da un redattore (RJE). All’epoca della riforma religiosa operata dal re
Giosia (622 a.C.) troviamo invece la cosiddetta fonte deuteronomista
(D), mentre, all’epoca dell’esilio babilonese (586-531 a.C.), una quar-
ta ed ultima fonte, definita “sacerdotale” (P, dal tedesco Priestercodex);
un quarto autore compone dunque una nuova narrazione della storia
di Israele. Dall’unione delle quattro fonti così descritte sarebbe nato il
Pentateuco nella sua forma attuale, ad opera di un redattore da collocarsi
più o meno all’epoca di Esdra (intorno al 400 a.C. circa).
La teoria documentaria, ritenuta sino agli inizi degli anni Settanta
del secolo scorso il cardine di ogni spiegazione relativa alla nascita del
Pentateuco, è oggi in grave crisi; la storia della formazione dei testi del
5
Nella mole di studi pubblicati intorno alla questione della nascita del Pentateuco
rinviamo qui soltanto a un manuale recente, nel quale il lettore può trovare un’ottima e
aggiornata introduzione: G. Galvagno – F. Giuntoli, Dai frammenti alla storia. Intro-
duzione al Pentateuco, ElleDiCi, Leumann 2013.
108 La trasmissione della parola di Dio
l’esodo (collocati tradizionalmente nel XVIII e nel XII secolo a.C.) non
corrispondono ai nostri criteri di storicità; la prospettiva di questi testi
è dunque primariamente teologica (com’è evidente nel racconto delle
origini, in Gen 1–11) e la storia che in essi è contenuta è piuttosto storia
interpretata, alla luce della fede nel Dio di Israele.
6
Per una storia della composizione del corpus profetico si può far riferimento a J.
Blenkinsopp, Storia della profezia in Israele, Queriniana, Brescia 1997.
110 La trasmissione della parola di Dio
I primi anni dopo il ritorno in patria, che Israele vive sotto il dominio
persiano, sono segnati dalla presenza delle ultime voci profetiche: Aggeo
e Zaccaria (la prima parte del libro: Zc 1–8), che operano nell’immediato
periodo del ritorno e segnano, con la loro opera, la ricostruzione del
tempio già distrutto dai Babilonesi. Nei primi anni del ritorno possiamo
collocare anche i capitoli finali di Isaia (= Is 56–66) e, forse, il piccolo
libretto di Abdia.
Tra il V e il IV secolo, all’epoca di Neemia e di Esdra, nasce la reda-
zione finale del Pentateuco. Probabilmente verso la fine del IV secolo
ha origine poi l’opera detta del Cronista (1 e 2 Cronache) che rilegge la
storia di Israele, riprendendo in una chiave diversa la già esistente opera
deuteronomista e presupponendo l’esistenza del Pentateuco nella sua
forma attuale. I libri canonici di Esdra e Neemia risentono dello stesso
ambiente storico.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio 111
d) L
’epoca ellenistica e romana
(dal 333 a.C. sino agli inizi dell’era cristiana)
7
Sulla letteratura sapienziale e la sua storia, cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco sapienziale.
Proverbi, Giobbe, Qohelet, Siracide, Sapienza, EDB, Bologna 2012.
112 La trasmissione della parola di Dio
8
Sulla storia, soprattutto letteraria, del giudaismo in questo periodo storico, cfr. G.
Boccaccini, I giudaismi del Secondo Tempio. Da Ezechiele a Daniele, Morcelliana, Brescia
2008.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio 113
9
Vedi sopra, cap. 4.
10
L’autenticità paolina delle lettere agli Efesini e ai Colossesi è molto discussa; chi non
la riconosce (ormai la maggioranza degli studiosi), pensa a testi scritti intorno agli anni
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio 115
80. Il biglietto a Filemone, invece, riconosciuto come paolino, può essere collocato intor-
no al 56. Discussa è anche l’autenticità della Seconda lettera ai Tessalonicesi che, nel caso
non fosse autentica, andrebbe datata alla fine del I secolo, come reazione agli eccessivi
entusiasmi suscitati da 1 Ts. Sulla cronologia delle lettere di Paolo si veda una rapida, ma
informata sintesi in R. Penna, La formazione del Nuovo Testamento nelle sue tre dimensioni,
San Paolo, Cinisello B. 2011, 52-79.
11
Vedi sotto, cap. 15.
116 La trasmissione della parola di Dio
12
Cfr. C.M. Martini, in R. Latourelle– G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive
di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, 85-91.
13
Le lettere di Giovanni, assieme al vangelo omonimo, presuppongono l’esistenza di
una vera e propria comunità giovannea, la cui storia è stata riassunta da R.E. Brown, La
comunità del discepolo prediletto, Cittadella, Assisi 1986. Verso la fine del I secolo vengono
118 La trasmissione della parola di Dio
scritte le prime due lettere; subito dopo, forse verso gli inizi del II, viene completato il
Vangelo di Giovanni con l’aggiunta del cap. 21 e viene scritta la terza lettera.
14
Vedi sotto, cap. 9, § 3.
La Bibbia è la memoria scritta del popolo di Dio 119
Gesù rappresentano tutti gli esseri umani di tutti i tempi, nel cui animo
quello stesso dramma continua a comporsi e a risolversi. La parola di
Gesù non lascia nessuno com’era prima, ma lo obbliga a mostrare senza
compromessi il suo vero volto, lo giudica all’istante (cfr. 3,19; 12,31).
La fede o l’incredulità colpevole anticipano il giudizio finale15.
Infine, l’Apocalisse. L’autore dello scritto ha nome Giovanni (1,1.9; 22,8),
ma la firma può anche essere frutto del ricorso alla pseudonimia, tipica del
genere letterario apocalittico: chi scrive ama riallacciarsi idealmente a una
celebre figura, con la quale sente una particolare affinità. E infatti, se alcuni
temi dell’Apocalisse richiamano il quarto vangelo, la sua lingua (stile a parte)
se ne discosta totalmente. Tutto fa pensare a un discepolo dell’apostolo
Giovanni, interprete apocalittico nel suo tempo del grande maestro.
L’Apocalisse è una parola profetica (1,3; 22,7) singolare, un libro scritto
in un linguaggio simbolico-misterioso che intende risvegliare la coscienza
della chiesa nel tempo difficile della persecuzione sotto l’imperatore Do-
miziano, ma anche sfuggire al controllo dei persecutori e della censura.
Nell’ambiente privilegiato della assemblea liturgica – uno legge e gli altri
ascoltano, come si dice in 1,3 – la chiesa è urgentemente chiamata alla con-
versione e alla purificazione (cfr. i capp. 2s.); così purificata, sarà in grado di
«comprendere dal punto di vista di Dio le cose che devono accadere» (cfr.
4,1), capire cioè la sua ora nella storia della salvezza (capp. 4–20). Il «libro
sigillato», che l’Agnello immolato ma vittorioso apre e legge per la chiesa,
traccia le linee del suo impegno nella storia: la chiesa pellegrina nel mondo,
testimone e martire in un perpetuo itinerario pasquale, cammina verso la
nuova Gerusalemme, la nuova città di Dio e degli uomini (capp. 21s.).
3. Concludendo
15
Cfr. V. Mannucci, Evangelo di Giovanni, in ER 2, coll. 1442-1483.
120 La trasmissione della parola di Dio
16
Rimandiamo alla bibliografia indicata all’inizio del presente capitolo.
17
J.M. Sánchez Caro, in una recensione apparsa in Salmanticensis 30 (1983) 94-96
alla prima edizione del volume di Mannucci, ritiene che «a suo giudizio» non sia suffi-
cientemente giustificata la scelta di porre il canone della Bibbia nella «Parte quarta», dopo
l’ispirazione: «El canon es producto de la tradición y no está necesariamente ligado a la noción
de inspiración bíblica, al menos históricamente». Lo stesso Sánchez Caro sceglie, nella sua
introduzione, Bibbia e parola di Dio, di porre la questione del canone prima di quella
sull’ispirazione. A questo proposito ecco alcune precisazioni. 1. È vero che «il canone è il
prodotto della tradizione», ma nel problema del canone la tradizione entra a due livelli,
inscindibili tra loro: tradizione biblica (all’interno della storia d’Israele e della chiesa
apostolica) e tradizione post-biblica (tradizione rabbinica e tradizione post-apostolica).
Ora sappiamo bene che la tradizione biblica (vedi sotto, cap. 12,2.3a; cap. 13,1), sia per
i giudei sia per i cristiani, da sola non risolve tutti i problemi del canone (cfr. DV 8; vedi
sotto, cap. 13,2). Pertanto nella «Parte seconda» dedicata a «La trasmissione della parola
di Dio» nella sua duplice forma (orale-vitale e scritta) nel tempo dell’AT e del NT, il
problema del canone biblico non poteva trovare posto in maniera esaustiva ma soltanto
parziale, come si è cercato di far vedere nei capp. 4 e 5 (cfr. anche 8), con riferimento
alla sintesi di T. Citrini, Identità della Bibbia, e agli studi di J.-A. Sanders, Identité de la
Bible (Torah et Canon); J. Blenkinsopp, Prophecy and Canon. A Contribution to the Study
of Jewish Origins, University of Notre Dame, London 1977; B.S. Childs, Introduction
to the Old Testament as Scripture, Part One. 2. Anche per quanto riguarda il rapporto
“ispirazione-canone”, è indubbio che «l’affermazione della sacralità, della radice divina
della Scrittura è obiettivamente (sottolineatura nostra) precedente a quella della canoni-
cità: le Scritture sono canoniche perché sacre» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 105).
«Se [poi] ci chiedessimo, da un punto di vista storico, se sia maturata prima la fede nella
canonicità o quella nell’origine divina degli scritti, probabilmente porremmo la domanda
in modo molto grezzo. Nei diversi momenti della storia della coscienza della fede e della
riflessione teologica, l’intreccio dei due aspetti si è probabilmente presentato in modo
diverso […]. Risalendo ai momenti più tranquilli della tradizione, troviamo che la duplice
consapevolezza probabilmente è stata serenamente concomitante. Ma alle origini, almeno
per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo l’impressione che la consapevolezza della
loro autorità e la prassi ecclesiale corrispondente abbiano preceduto la riflessione sulla
specificità della loro origine e la loro collocazione in un unico canone con le Scritture
dell’Antico Testamento […]» (ibid., 107s.). E ancora: «L’ispirazione è e si coglie come
il fondamento della canonicità, cioè dell’autorità assoluta della Bibbia come libro del
l’alleanza del popolo di Dio, come libro della fede» (T. Citrini, Canone e ispirazione,
in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi [edd.], Temi teologici della Bibbia, 146). Anche
la recente introduzione di P. Bovati – P. Basta («Ci ha parlato per mezzo dei profeti») fa
precedere la trattazione dell’ispirazione a quella del canone.
6.
Il linguaggio umano della Bibbia
Bibliografia: si veda la sezione sulle Introduzioni ai libri dell’AT e del NT, nella Biblio-
grafia generale; cfr. inoltre L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Brescia 19692;
Id., Il dinamismo della Tradizione, Paideia, Brescia 1970, 121-157; Id., Poésie hébraïque,
in DBS 8, coll. 47-90; L. Alonso Schökel – J. Asurmendi – F. García Martínez –
J.M. Sánchez Caro, Bibbia e letteratura, in L. Alonso Schökel et alii, La Bibbia nel
suo contesto, Paideia, Brescia 1994, 315-375; G. Auzou, La Parole de Dieu. Approches
du mystère des Saintes Écritures, De l’Orante, Paris 1960, 88-163; P. Grelot, La Bible
Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture Sainte, Desclée, Paris 1965,
82-96; G. Lohfink, Ora capisco la Bibbia. Studio sulle forme letterarie della Bibbia, EDB,
Bologna 1977 (divulgativo); G. Ravasi, Caratteristiche generali del linguaggio biblico, in R.
Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia (Logos. Corso di studi biblici 1), ElleDiCi,
Leumann 20062, 281-290; J. Schildenberger, Realtà storica e generi letterari dell’AT,
Paideia, Brescia 1965.
Sul problema dell’inculturazione della parola di Dio, cfr. Aa.Vv., Fede e cultura alla luce
della Bibbia: atti della sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica: Discorso
di Giovanni Paolo II, ElleDiCi, Leumann 1981.
1
Vedi sotto, cap. 16.
2
P. Auvray – P. Poulajn – A. Blaise, Le lingue sacre, Edizioni Paoline, Catania 1959;
A. DÍez Macho, Aramaico, in Enciclopedia della Bibbia 1, ElleDiCi, Leumann 1970,
Il linguaggio umano della Bibbia 123
le lingue non sono per questo meno irriducibili le une alle altre, poiché i
diversi aspetti dell’esperienza umana vi sono avvertiti e resi differentemente:
tanto che, per comprendersi dall’una all’altra lingua, occorre sempre un
difficile sforzo di distacco da sé e di comprensione dell’altro5.
5
P. Grelot, Tradizione, 91.
6
Sulle difficoltà del tradurre la Bibbia, specialmente nelle lingue moderne, è stato
scritto moltissimo; cfr. più avanti, cap. 20, § 3.
7
Ciò rimanda all’importanza dello studio delle lingue bibliche durante il curriculum
teologico, uno studio spesso carente, specie per quanto riguarda l’ebraico.
Il linguaggio umano della Bibbia 125
1.1. L’ebraico8
8
Cfr. P. Auvray, L’ebraico e l’aramaico, in Le lingue sacre, 30-46. Oltre ai testi citati
nella nota 2, ricordiamo, tra le principali grammatiche ebraiche, l’ormai celebre testo
di P. Joüon – T. Muraoka, A Grammar of Biblical Hebrew (Subsidia Biblica 27), PIB,
Roma 2006.
9
Vedi sotto, cap. 7.
126 La trasmissione della parola di Dio
all’attivo (le tre forme di cui sopra sono allora rispettivamente qāṭal,
qiṭṭel, hiqṭil), ma anche al passivo (niqṭal, quiṭṭal, hoqṭal) e al riflessivo
(niqṭal e hitqaṭṭel)10, Di fatto però ci troviamo di fronte soltanto a sette
forme, perché il “causativo-riflessivo” non esiste, e il “semplice passivo”,
se esistito, è scomparso per essere sostituito dal riflessivo. Come si vede,
dalla prima forma “semplice” – che esprime nel modo più elementare
l’azione o lo stato significato dalla radice – derivano le altre sei forme,
mediante uno sviluppo della radice: o per il raddoppiamento di una delle
tre radicali (intensivo attivo, e passivo), o per l’aggiunta di una sillaba
(attivo causativo, passivo causativo, riflessivo semplice e intensivo), e per
cambiamento di vocale (tutte le forme).
Una volta riconosciute le sette forme verbali dell’ebraico, la coniu-
gazione è una cosa facile: essa comprende due tempi al modo indica-
tivo, un imperativo, un doppio infinito e un participio. I due tempi
dell’indicativo si chiamano abitualmente “perfetto” (meglio: qāṭal) e
“imperfetto” (yiqṭol); l’uno indica l’azione perfetta ossia completa, l’altro
l’azione imperfetta ossia incompleta; ma si esprimono indirettamente
altri punti di vista: azione istantanea e unica (perfetto), o azione duratura
o ripetuta (imperfetto).
Tuttavia l’ebraico, pur così ricco di sfumature nei suoi “verbi”, dà in
modo molto incerto il tempo in cui l’azione o lo stato sono considerati.
Per cui spesso non si capisce bene – o non subito – se l’autore parla del
presente, del passato o del futuro. Le grammatiche parlano talvolta di un
“passato” (a proposito del perfetto) e di un “presente” o di un “futuro”
(a proposito dell’imperfetto), ma questo non è completamente vero. Ci
sono casi frequenti che contraddicono questa terminologia: per esempio
«Così era solito fare (lett., ya‘aśê: un imperfetto, ma che indica un’azione
nel passato) Giobbe tutti i giorni» (Gb 1,5).
1.2. L’aramaico
10
Le grammatiche definiscono in genere le sette forme ricordate con nomi diversi: qal,
pi‘el, hif‘il, nif‘al, pu‘al, hof‘al, hitpa‘el.
128 La trasmissione della parola di Dio
Il greco della Bibbia si distingue per certi aspetti dalla lingua dei
classici greci. Si tratta di uno stadio di sviluppo tardivo del greco, che
dall’epoca di Alessandro Magno, ossia dalla metà del IV secolo a.C.,
divenne in tutto il bacino orientale del Mediterraneo la lingua comune-
mente parlata e scritta: la koiné11.
Rispetto al greco classico, soprattutto dal punto di vista della sintassi,
il greco della koiné tende alla semplificazione e alla soppressione delle dif-
ficoltà: coordinazione spesso preferita alla subordinazione; frasi più bre-
vi; stile diretto; una certa libertà, condotta sino alle licenze linguistiche.
Tuttavia il greco biblico non è la koiné pura e semplice, bensì una
koiné semitizzata. Esso infatti ha ricevuto dagli scrittori biblici e dal
11
Ci limitiamo a segnalare una delle più importanti e diffuse grammatiche del greco
neotestamentario: F. Blass – A. Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento,
nuova edizione a cura di F. Rehkopf, Paideia, Brescia 1982.
Il linguaggio umano della Bibbia 129
2. Il genio ebraico
12
Vedi sotto, cap. 7.
130 La trasmissione della parola di Dio
13
Cfr. H.W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1975; i
«Dizionari di teologia biblica» citati alla n. 31 di p. 76.
14
AAS 71 (1979) 939-943; Il Regno - documenti 24/25 (1979) 356-357. Sul
l’argomento, cfr. C. Ruini, Immortalità e resurrezione nel Magistero e nella Teologia oggi,
in RdT 21 (1980) 102-115.189-206.
Il linguaggio umano della Bibbia 131
re; 3) il termine “anima”, pur nel suo significato polivalente, può essere
tuttora considerato come uno strumento linguistico atto a esprimere e
sostenere il dato di fede. E tuttavia, proprio questo esempio ci richiama
ad un’antropologia teologica che sia, nella sua radice, profondamente
biblica e dunque presenti sempre più l’essere umano come una “unità”,
escludendo ogni forma di dualismo corpo/anima15.
15
Cfr. le considerazioni di C. Molari in G. Barbaglio – G. Bof – S. Dianich (edd.),
Teologia, San Paolo, Cinisello B. 2002, 46-72.
16
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 112.
132 La trasmissione della parola di Dio
17
Per ciò che segue, cfr. L. Mazzinghi, Introduzione all’Antico Testamento, 19-51.3178-
3189. Sulle forme letterarie della Bibbia si veda anche L. Alonso Schökel – J. Asur-
mendi – F. García Martínez – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e letteratura, in Aa.Vv., La
Bibbia nel suo contesto, 315-375. Per le forme letterarie della Bibbia ebraica sono molto
utili i due volumi di A. Rofé, Introduzione alla letteratura della Bibbia ebraica. I. Pentateuco
e libri storici. II. Profeti, Salmi e libri sapienziali, Paideia, Brescia 2011.
Il linguaggio umano della Bibbia 133
18
Vedi sotto, cap. 19.
19
Cfr. H. Gunkel, Einleitung in die Psalmen, Göttingen 1933, ed. post. a cura di J.
Begrich; Id., Die Genesis, Göttingen 19646.
20
Cfr. M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1919; K.L.
Schmidt, Der Rahmen der Geschichte Jesu, Berlin 1919; R. Bultmann, Die Geschichte
der synoptischen Tradition, Göttingen 1921 (trad. fr., L’histoire de la tradition synoptique,
du Seuil, Paris 1973); H. Zimmermann, Metodologia del Nuovo Testamento, Marietti,
Torino 1971, 110-191.
21
H. Gunkel, «Die israelitische Literatur», in P. Hinneberg (ed.), Die Kultur der Ge-
genwart: die orientalischen Literaturen, Berlin - Leipzig 1906, 53. La celebre espressione
Sitz im Leben sembra usata per la prima volta da Gunkel proprio in questo passo.
134 La trasmissione della parola di Dio
I racconti sulla creazione (Gen 1–11), molti testi dei Salmi o di Giob-
be, testi profetici di Isaia ed Ezechiele, mostrano sorprendenti contatti
con i miti propri dei popoli vicini, in particolare quelli dell’area meso-
Il linguaggio umano della Bibbia 135
22
Giovanni Paolo II, Udienza generale del 7.11.1979.
136 La trasmissione della parola di Dio
I primi capitoli del libro del Levitico (Lv 1–7) contengono una accu-
rata descrizione dei rituali relativi ai sacrifici, parte essenziale del culto
divino. Questi testi scritti nascono evidentemente da tradizioni cultuali
preesistenti, trasmesse oralmente dai sacerdoti e soltanto dopo (anche
in seguito alla catastrofe dell’esilio babilonese) messe in forma scritta.
non occorre ripetere quello che lui ha fatto o continuare a fare ciò che già lui
faceva […]; piuttosto occorre rivedere, o fare quanto lui non ha fatto. […]
Gunkel voleva capire l’opera definendo i suoi fattori generici e cogliendo i
suoi motivi. Io cerco di comprendere l’opera poetica nella sua unità e uni-
cità e validità, fusione di contenuto e di forma, come espressione in parola
poetica di una esperienza umana […]. Benché questa ricerca non debba la
sua impostazione a Gunkel, l’esposizione può venire facilitata riferendosi
Il linguaggio umano della Bibbia 139
23
L. Alonso Schökel, Trenta Salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, 13s.
(vedi tutta la Introduzione, pp. 5-30); cfr. anche P. Ricœur, Metafora viva, Jaca Book,
Milano 1981.
24
L. Alonso Schökel – C. Carniti, I Salmi, 1-2, ed. it. a cura di A. Nepi, Borla,
Roma 1992-1993; G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. 1 (1-50),
vol. 2 (51-100), vol. 3 (101-150), EDB, Bologna 1981.1983.1984. Raccomandiamo al
lettore le pagine della Introduzione, in particolare «II salterio, microcosmo simbolico» e
«… microcosmo poetico» (vol. 1, pp. 30-37, con bibliografia). Ricordiamo come oggi
l’esegesi del Salterio si muova piuttosto su linee di carattere sincronico: il salterio come
libro; cfr. T. Lorenzin, I Salmi, Edizioni Paoline, Cinisello B. 2000.
140 La trasmissione della parola di Dio
dei detti sapienziali contenuti nelle parti più antiche dei Proverbi (Pr
10–30) si riferiscono al re o comunque alle doti che deve possedere chi
è chiamato a compiti di responsabilità. Diversi testi sapienziali riflettono
la probabile esistenza di vere e proprie scuole: i discorsi della sapienza
in Pr 1–9 sembrano indirizzati a giovani studenti; così è stata avanzata
l’ipotesi che la storia di Giuseppe (Gen 37–50) fosse un testo didattico
a sfondo sapienziale.
La corte, da un lato, e la vita del popolo, dall’altro, costituiscono così
i due ambiti principali dove la letteratura sapienziale nasce e si sviluppa.
Ma a partire dal ritorno dall’esilio babilonese la sapienza israelita acquista
una dimensione più profonda, giungendo a contestare l’impostazione
tradizionale. Con Giobbe e il Qoèlet, tra il V e il III secolo a.C., la sa-
pienza israelita acquisterà una dimensione più speculativa, riflettendo
a fondo sui problemi del dolore, della morte, della giustizia di Dio.
Tuttavia il punto di partenza di questo tipo di letteratura continuerà
ad essere l’esperienza concreta della vita quotidiana. Solo alla fine del I
secolo a.C., con il libro della Sapienza, scritto ad Alessandria d’Egitto
da un ebreo versato nella cultura greca, il mondo della filosofia inizierà
a far sentire il suo influsso all’interno delle correnti sapienziali.
3.9. L’apocalittica
25
Rimandiamo all’ottima presentazione di F. García Martínez, Il contesto letterario
del Nuovo Testamento, in La Bibbia nel suo contesto, 334-351. Sulla dimensione letteraria
del NT si veda una sintetica introduzione in R. Penna, La formazione del Nuovo Testa-
mento nelle sue tre dimensioni, 38-107.
Il linguaggio umano della Bibbia 145
4.2. Le lettere
4.3. L’Apocalisse
Gli scrittori della Bibbia non sono strumenti inerti e passivi nelle
mani di Dio e neppure semplici raccoglitori di materiale preesistente.
Li offenderemmo se non riconoscessimo loro, con tutti i diritti, il titolo
di «veri autori» (DV 11).
Il linguaggio umano della Bibbia 147
28
Cfr. H. Zimmermann, Metodologia del Nuovo Testamento, 192-233; R. Latourelle,
A Gesù attraverso i Vangeli. Storia ed ermeneutica, Cittadella, Assisi 1989, capp. X e XIV
(con bibliografia).
148 La trasmissione della parola di Dio
Bibliografia: Oltre alle Introduzioni ai libri dell’AT e del NT, elencate nella Bibliografia
generale, cfr. R.E. Brown – C. Buzzetti – D.W. Johnson – K.G. O’Connel, Testi e
versioni, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1418-1463;
C.M. Martini, Il testo biblico, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. In-
troduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975, 502-551 (con bibliografia):
al saggio di Martini è largamente debitore questo capitolo; C.M. Martini – P. Bonatti,
Il Messaggio della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 153-214;
J. Scharbert, La Bibbia. Storia, autori, messaggio, EDB, Bologna 1972 (il lettore può
trovarvi facilmente una sufficiente documentazione fotografica di scritture antiche, alfa-
beti, papiri, pergamene, rotoli, codici ecc.); E. Würtwein, The Text of the Old Testament,
Grand Rapids/MI 1981.
Una sintetica e buona introduzione al testo e alla critica testuale di entrambi i Te-
stamenti si ha poi in La Bibbia e il suo contesto, Paideia, Brescia 1994, 394-512 (parte
curata da A. Trebolle Barrera – B. Chiesa). Cfr. una trattazione più completa in P.D.
Wegner, Guida alla critica testuale della Bibbia. Storia, metodi e risultati, San Paolo,
Cinisello B. 2009. Una sintetica introduzione ai problemi di critica testuale dell’Antico
Testamento è offerta da J. Joosten, in M. Bauks – Ch. Nihan (edd.), Manuale di esegesi
dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2010, 15-44. Per la critica testuale del Nuovo Te-
stamento, rimandiamo invece all’opera di B.M. Metzger, Il testo del Nuovo Testamento,
Paideia, Brescia 1996.
1. Papiri e pergamene
1
Cfr. Aa.Vv., Qumran et découvertes au désert de Juda, e Ras Shamra, in DBS IX, coll.
737-1014.1124-1466; P. Matthiae, Ebla. Un impero ritrovato, Einaudi, Torino 1977; M.
Dahood, Ebla, Ugarit e l’Antico Testamento, in CC 129 (1978) 328-340; 1 libri profetici e
sapienziali alla luce delle scoperte di Ebla e di Ugarit, ibid., 347-357; G. Pettinato, Ebla. Un
impero inciso nell’argilla, Mondadori, Milano 1979; cfr. le riviste Revue de Qumran, Paris
1979…; Studi Eblaiti, Istituto di Studi del Vicino Oriente, Università di Roma 1979…
Il testo della Bibbia 151
2
SuIle scoperte di Qumran, cfr. J.T. Milik, Dieci anni di scoperte nel deserto di Giuda,
Marietti, Torino 1957; Aa.Vv., Qumran et découvertes au désert de Juda, in DBS IX, coll.
737-803. La bibliografia su Qumran è ormai enorme; per ciò che riguarda i testi qumra-
nici ci limitiamo a suggerire la lettura dell’introduzione ai testi di Qumran in F. García
Martínez (ed.), Testi di Qumran, ed. it. a cura di C. Martone, Paideia, Brescia 1996.
152 La trasmissione della parola di Dio
3
Vedi qui sotto, § 7.
4
Vedi qui sotto, § 8.
5
La Genizah è il ripostiglio nel quale venivano ammassati i manoscritti di una sinagoga,
ormai non più in uso, ma che non possono essere distrutti. Nel 1931 sono stati scoperti
altri frammenti del Siracide.
Il testo della Bibbia 153
scritto ebraico del libro del Siracide. Essi risalgono al VI-VII secolo d.C.
Tra i frammenti della Genizah, va segnalato anche il codice contenente
il testo dei profeti anteriori e posteriori, datato all’895 d.C., codice del
quale è stata tuttavia messa in dubbio la purezza testuale.
Nel 1948 i manoscritti biblici scoperti nelle grotte di Qumran6 hanno
introdotto un capitolo nuovo nella storia del testo ebraico dell’AT. A
Qumran si sono trovati frammenti più o meno ampi di tutti i libri del
l’AT, ad eccezione di Ester, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Baruc, Sapienza.
Di Isaia, Abacuc e Salmi c’è il testo completo. I manoscritti di Qumran
risalgono a un periodo che va dal II secolo a.C. al I d.C.; sono dunque
anteriori di ben mille anni ai manoscritti che conoscevamo, se si pre-
scinde dal piccolo papiro di Nash (II o I secolo a.C.), contenente appena
il decalogo e Dt 6,4.
Un caso singolare è costituito dal Pentateuco samaritano, cioè il testo
del Pentateuco proveniente dalla comunità-setta dei samaritani, tuttora
esistente, che si separò dal giudaismo in epoca post-esilica e conservò
per proprio conto il Pentateuco come unico libro ispirato. Anche se non
possediamo manoscritti anteriori al X secolo d.C., il testo del Pentateu-
co samaritano è importante per la critica testuale perché ha avuto una
trasmissione indipendente e si rifà a un tipo di testo ebraico anteriore a
quello fissato dai masoreti7.
6
Cfr. P.W. Skehan, Littérature de Qumran. Textes bibliques, in DBS IX, coll. 803-822.
L’anno 1948 segna soltanto l’inizio delle scoperte qumraniche.
7
Vedi qui sotto, § 4.
8
La versione greca detta dei Settanta apre una serie di problemi che qui non possiamo
affrontare; l’interesse verso i Settanta è negli ultimi anni notevolmente cresciuto. Riman-
diamo ad alcune introduzioni specifiche, in particolare a M. Cimosa, Guida allo studio
della Bibbia greca (Lxx), Società biblica Britannica e Forestiera, Roma 1995; N. Fernán-
dez Marcos, La Bibbia dei Settanta (Introduzione allo studio della Bibbia, Supplementi
6), Paideia, Brescia 2000. È oggi disponibile la prima traduzione italiana dei Settanta, con
introduzioni, testo greco a fronte e note filologiche, a cura di P. Sacchi. Sono usciti i primi
154 La trasmissione della parola di Dio
completi più antichi dei Lxx sono i codici cristiani Vaticano e Sinaitico,
entrambi del IV secolo d.C. Ma a Qumran, e in altre zone del deserto
di Giuda, sono stati trovati frammenti di una versione greca di Levitico,
Esodo, Lettera di Geremia e profeti minori, risalente probabilmente alla
seconda metà del I secolo d.C. A questi vanno aggiunti i papiri greci di
Ryland e Fouad, con frammenti del Deuteronomio, e i papiri Chester
Beatty, con frammenti di Numeri e Deuteronomio: tutti del II secolo
d.C.11. Vanno aggiunti ai manoscritti dei Settanta le citazioni presenti
nel Nuovo Testamento, negli scritti di Filone, Flavio Giuseppe e dei
Padri greci. Non si dimentichi, infatti, che la versione dei Settanta co-
stituisce di fatto il testo biblico utilizzato dagli autori neotestamentari e
dai Padri della chiesa di lingua greca12.
11
Vedi qui sotto, § 5.
12
Per il problema della ispirazione e dell’attualità del testo dei Settanta cfr. oltre, p. 208.
13
Girolamo, Praef. in 2 Chron. Eusebii: PL 27, 223.
14
Vedi sopra, cap. 6, 1.2.
156 La trasmissione della parola di Dio
Delle altre versioni antiche dell’AT, molte furono fatte sul testo greco
dei Lxx: così la Vetus latina (sigla: vl) del II secolo15, le versioni copte (co)
del III secolo, quelle armena (arm) del V secolo, etiopica (eth) del IV e
V secolo, gotica (go) del IV secolo, georgiana (gg) del V secolo.
Le uniche versioni antiche fatte sul testo ebraico sono: la versione
siriaca detta Peshitta, cioè “comune” (syp), a partire dal II secolo; la ver-
sione latina dei libri protocanonici dell’AT, fatta da san Girolamo (IV
secolo) direttamente dall’ebraico e confluita poi nella versione latina
detta Vulgata (vg).16
15
Vedi qui sotto, § 5.2a.
16
Vedi sotto, cap. 12.
Il testo della Bibbia 157
17
Cfr. P. Sacchi, Alle origini del Nuovo Testamento, Le Monnier, Firenze 1965.
Il testo della Bibbia 159
18
Il numero esatto dei manoscritti esistenti è tuttora difficile da precisare; i dati offerti
seguono quelli forniti in K. Aland – B. Aland, The Text of the New Testament, Grand
Rapids - Leiden 19892, 83 [trad. it., Il testo del Nuovo Testamento, Marietti, Torino 1987].
160 La trasmissione della parola di Dio
La storia del testo del NT è interessata soprattutto alle due versioni la-
tine20: la Vetus latina detta anche Itala, e la Vulgata. Tralasciamo in questa
sede la storia e l’importanza per la critica testuale del Nuovo Testamento
di molte altre versioni antiche (siriaco, copto, armeno, arabo, georgiano,
etiopico, oltre al gotico e al paleo-slavo), per le quali rimandiamo a corsi
specifici di critica testuale.
Sin dalla fine del I secolo la chiesa avvertì il bisogno di una versione
latina per il popolo che poco o nulla capiva di greco, particolarmente
nell’Italia settentrionale, in Africa, nella Gallia e in Spagna, più lontane
dai centri di irradiazione ellenica.
Già gli Atti dei martiri di Scillium in Africa, verso il 180, attestano che
uno di questi uomini del popolo (che certamente ignorava il greco) aveva
con sé «i libri usati tra noi e le lettere di Paolo». Tertulliano, nell’anno
200 circa, allude nei suoi scritti a traduzioni o “interpretazioni” della
Bibbia; ancora in Africa, san Cipriano († 258) cita sempre nello stesso
modo la Bibbia in latino: evidentemente trascrive da una traduzione già
determinata e in uso. Lo stesso accade in Novaziano († 257 ca.) a Roma;
ma la versione latina da lui supposta è diversa da quella utilizzata da san
Cipriano. Esistevano dunque, nel III secolo, almeno due versioni latine,
una a Roma e l’altra in Africa?
Il problema se ci fossero più traduzioni indipendenti, oppure una re-
censione italiana (Roma) della traduzione diffusa in Africa, resta tuttora
aperto. Pertanto si preferisce usare per l’antica Bibbia in latino l’espres-
sione Vetus latina, cioè l’antica latina. I benedettini di Beuron ne stanno
curando l’edizione critica21, sulla base delle citazioni dei Padri latini e di
un ristretto numero di codici, spesso parziali e frammentari.
19
Per notizie più ampie e dettagliate sulla Vetus latina e sulla Vulgata, cfr. C.M. Mar-
tini – P. Bonatti, Il Messaggio della salvezza, 1: Introduzione generale, 199-214.
20
Per le altre versioni, vedi sotto.
21
Vetus latina. Die Reste der altlateinischen Bibel nach Petrus Sabatier neu gesammelt und
herausgegeben von der Erzabtei Beuron, Herder, Freiburg 1949… Sono previsti 27 volumi,
dei quali una ventina sono stati sinora pubblicati.
162 La trasmissione della parola di Dio
b) La Vulgata (vg)
Dal confronto dei testimoni diretti del testo greco del NT – codici
e papiri –, delle antiche versioni specialmente latine e delle citazioni
dei Padri, risulta un numero notevole di varianti, anche prescindendo
da quelle attribuibili con certezza a errori scribali e quindi facilmente
eliminabili. Sono queste varianti “consapevoli” l’oggetto di interesse per
chi si prefigge di ricostruire la storia del testo greco del NT. Ebbene,
coordinando le diverse tendenze dei manoscritti, in maniera sistematica,
e componendo i singoli testimoni di tali tendenze, la critica odierna è
giunta a individuare – in linea di massima – quattro tipi di testo24:
22
C.M. Martini, Il testo biblico, 550s.
23
Molto celebre l’edizione critica della Vulgata per il NT, curata da J. Wordsworth e
H.J. White (il primo fascicolo uscì nel 1889 e l’ultimo, con l’Apocalisse, nel 1954). Cfr.
l’edizione critica a cura dei benedettini dell’Abbazia di S. Girolamo in Roma, Biblia
Sacra, iuxta latinam Vulgatam Versionem ad codicum fidem, Polyglottis Vaticanis, Romae
1926-1995.
24
Cfr. C.M. Martini, Il testo biblico, 521-530.
Il testo della Bibbia 163
25
Pio XII, nell’enciclica Divino Afflante Spiritu del 1943, riguardo alla critica testuale
già affermava: «Oggi però questa tecnica, chiamata “critica testuale” e che viene applicata
con grande lode e frutto nel pubblicare libri profani, si esercita a pieno diritto anche
sui libri sacri per la stessa riverenza dovuta alla parola divina. Essa infatti per sua natura
ripristina, per quanto è possibile, il testo sacro in modo perfettissimo, lo purifica dagli
errori introdotti dalla debolezza degli amanuensi e lo libera secondo la propria possibilità
dalle glosse e dalle lacune, dalle inversioni di termini e dalle ripetizioni e da tutti gli altri
generi di errori che di solito si insinuano negli scritti tramandati per molti secoli […]. E
non è nemmeno il caso di ricordare a questo punto […] quanto la chiesa abbia tenuto in
considerazione questi studi di tecnica critica dai primi secoli fino alla nostra era. E tutti
sappiamo bene che questo lungo lavoro non solo è necessario per comprendere rettamente
gli scritti dati dall’ispirazione divina, ma è postulato anche e fortemente da quella pietà
divina con la quale per la sua somma provvidenza Dio ha inviato questi libri come una
lettera paterna dalla sede della sua divina maestà ai suoi figli» (EB 548).
Il testo della Bibbia 165
Le ricerche sulla storia del testo biblico e le scelte testuali che vengono
fatte dai critici trovano espressione nelle edizioni critiche, le quali non
pubblicano soltanto il testo ricostruito sulla base del materiale docu-
mentario dei vari testimoni e riconosciuto dal critico come il più vicino
all’origine, ma riportano anche, al fondo pagina, un apparato critico nel
quale vengono riferite le varianti principali dei papiri, dei codici unciali
e minuscoli, delle antiche versioni. Indichiamo qui le edizioni critiche
più note.
Per l’AT:
– R. Kittel – P. Kahle, Biblia Hebraica, Stuttgart 19517. Ha due ap-
parati critici: nel primo sono indicate le testimonianze dei codici e delle
versioni; nel secondo le lezioni da correggere, o sulla base dei testimoni
o per congettura.
– K. Elliger – W. Rudolph, Biblia Hebraica Stuttgartensia, Stuttgart
1967-1977. Il testo è rimasto quello del Kittel – Kahle, ma l’apparato
critico è ridotto a uno solo e completamente rinnovato.
– A partire dal 1998 è iniziata, a fascicoli, la pubblicazione della Biblia
Hebraica Quinta, di fatto un nuovo progetto di revisione della Stuttgar-
tensia; alla base resta il testo ebraico del Manoscritto di Leningrado, con
un apparato critico interamente rinnovato.
Per il NT:
– J.M. Bover – J. O’Callaghan, Nuevo Testamento Trilingue (graece,
latine, hispanice), Presentazione di C.M. Martini, BAC, Madrid 1977:
Il testo della Bibbia 167
Bibliografia: A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e Parola di Dio, ed. it. a
c. di A. Zani, Paideia, Brescia 1994, 25-50; H. Haag, La Parola di Dio si fa Scrittura,
in MS 1, 408-419; E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nel
l’autotestimonianza della Bibbia, in RicStoBib 12 (2002); A. Marangon, La Bibbia parla
di sé, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra
Scrittura, Marietti, Torino 1975, 12-44; P. Procksch – G. Kittel, λέγω, in GLNT VI,
coll. 260-380; G. Schrenk, γραφή, in GLNT II, coll. 623-654. Si veda anche il docu-
mento della Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura,
tutta la prima parte (pp. 15-109).
1
R. Cavedo, Libro Sacro, in NDT 761.
174 La Bibbia è parola di Dio
1. Antico Testamento
2
Sempre tenendo presente che la storia della tradizione, della redazione, della col-
lezione, dell’uso e del riconoscimento degli scritti dell’AT si intrecciano, ha ragione T.
Citrini di affermare: «La canonicità della Tôrah (Gen, Es, Lv, Nm, Dt) ha il volto, sia della
normatività della legge, sia ancor prima della normatività di una storia teologicamente
e non solo cronologicamente originante, in rapporto alla quale la legge stessa prende
senso (cfr. per esempio, l’introduzione al decalogo: Es 20,2). Tutti gli altri scritti dell’AT
hanno una canonicità relativa alla Tôrah, anche qualora la loro origine sia precedente alla
sua redazione definitiva e alla sua redazione esdrina (Ne 8ss.)» (T. Citrini, Identità della
Bibbia, 17; vedi sotto, anche note 7 e 16; vedi sopra, cap. 5, nota 17). Per una trattazione
più ampia e critica del problema, cfr. J.-A. Sanders, Identité de la Bible. Torah et Canon
(«Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975, 9-78 («Torah et histoire»); B.S. Childs, In-
troduction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979, 46-68; J. Blenkinsopp,
Prophecy and Canon. A Contribution to the Study of Jewish Origins, University of Notre
Dame, London 1977.
3
IVSS, n. 12.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 175
Tôrah avrà assunto, dopo l’esilio, l’attuale estensione letteraria del Pen-
tateuco, Israele si confronterà con Dio attraverso la lettura e l’ascolto di
quelle pagine: cfr. Ne 8,1-15; 9,33-36; 10,1-30.
4
Vedi sopra, cap. 5, 1.3.
5
Per il racconto di 2 Re 22–23, che molti ritengono una creazione letteraria a sup-
porto della riforma del re Giosia, cfr. I. Cardellini, Lo scritto normativo dimenticato e
ritrovato (2 Re 22,3–23,3)», in E. Manicardi – A. Pitta, Spirito di Dio e Sacre Scritture,
in RicStoBib 12 (2002) 39-57.
6
P. van Imschoot, Théologie de l’Ancien Testament I, Desclée, Tournai 1954, 205.
176 La Bibbia è parola di Dio
c) La Legge esaltata
7
In questo paragrafo poniamo l’accento sui profeti scrittori, secondo il canone ebraico
i «Profeti posteriori» (Is, Ger, Ez e i 12 profeti cosiddetti “minori”), che hanno «un anda-
mento più estesamente oracolare» e nei quali «la forma oracolare mette più in evidenza
l’autorità della Parola che interpreta la storia». La loro canonicità-normatività si fonda
sull’autorità sorgiva dell’oracolo profetico, la quale tuttavia «non solo non infirma il pri-
mato della Tôrah ma la sancisce in quanto la riconosce come documento di fondazione di
quell’alleanza nel cui orizzonte la profezia si colloca, cioè come legge» (T. Citrini, Identità
della Bibbia, 18s.). Per i cosiddetti «Profeti anteriori», vedi oltre § 1.3. J. Blenkinsopp,
in Prophecy and Canon, avanza la tesi secondo cui la Bibbia ebraica nel suo insieme ha
I libri della Bibbia sono parola di Dio 177
profetiche8: «Mi venne la parola del Signore», «La parola del Signore
che ricevette il profeta…», «Ascoltate la parola del Signore», «Così
dice il Signore», «Oracolo del Signore». Il profeta è «la bocca di
Dio» (Ger 15,19), è «l’uomo di Dio» (1 Sam 2,27), tanto che non si
distingue tra la parola di Dio e quella del profeta: «Gli israeliti non
vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me» (Ez 3,7);
«Io inviai a voi i miei servi, i profeti, con premura e sempre, eppure
essi non ascoltarono me e non mi prestarono ascolto» (Ger 7,25s.).
Quando gli oracoli dei profeti vengono messi in scritto, talvolta dallo
stesso profeta (cfr. Is 8,16; 30,8; Ab 2,2; Ger 36,4.32; 45,1; 51,60), il
libro delle profezie viene di conseguenza a partecipare della trascendenza
del messaggio orale: esso può essere chiamato il libro del Signore, che
in Is 34,16 designa probabilmente una prima raccolta degli oracoli del
profeta.
Due testi sono particolarmente significativi:
uno stampo profetico, e la presenza della profezia – come una parte essenziale del canone –
significa che sarà sempre possibile e necessario rimodellare la tradizione come una sorgente
dotata di potere vivificante.
8
Cfr. Cl. Westermann, Grundformen prophetischer Rede, München 19642.
178 La Bibbia è parola di Dio
9
Cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 152-162; possiamo
anche ricordare l’esempio di Ger 29, la lettera inviata dal profeta agli esuli a Babilonia.
L’intera prima parte del libro di Bovati – Basta imposta il tema dell’ispirazione proprio
a partire dal carisma profetico. Ad essa rimandiamo per una trattazione complementare
e alternativa insieme. Su Geremia, si veda anche R. Virgili Dal Prà, Geremia: il profeta
e il suo rotolo, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture, 25-38.
10
Cfr. H. Haag, La parola di Dio si fa Scrittura, 412.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 179
dei profeti fu in certo modo catturata e resa efficace per gli uomini di
tutti i tempi. Isaia vede in tale prospettiva la messa in scritto della sua
profezia: dopo avere indirizzato invano la parola di Dio agli uomini del
suo tempo, torna a casa e scrive il suo resoconto «perché resti per il futuro
in testimonianza perenne» (Is 30,8).
Verso la fine del II secolo a.C., accanto alla Tôrah e ai Profeti, viene
menzionato un terzo gruppo di libri, considerati ugualmente importanti
per la formazione spirituale e morale d’Israele, che il traduttore greco del
libro del Siracide (o Ecclesiastico), nel suo Prologo, designa semplicemen-
te con il titolo generico: gli altri scritti (vv. 1s.), gli altri libri dei nostri
Padri (vv. 8s.). Proprio il prologo di Ben Sira, scritto ad Alessandria
11
T. Citrini, Identità della Bibbia, 19.
180 La Bibbia è parola di Dio
d’Egitto nel 132 a.C., attesta come all’epoca gli altri scritti, tra i quali lo
stesso libro di Ben Sira che il nipote traduttore sta presentando, venivano
considerati parte delle Scritture ispirate al pari della Legge e dei Profeti.
Anche nell’epilogo del Qoèlet appare una certa coscienza canonica:
12
Cfr. L. Mazzinghi, «Date da un solo pastore» (Qo 12,11). L’epilogo del Qohelet e
il problema dell’ispirazione, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre
Scritture, 59-74.
13
Vedi sopra, cap. 5.
14
Cfr. sopra, p. 140, circa la forma letteraria del māšāl. Si veda l’opera classica di G.
von Rad, La Sapienza d’Israele, Marietti, Torino 1976; cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco
sapienziale. Proverbi, Giobbe, Qohelet, Siracide, Sapienza, EDB, Bologna 2012.
15
G. Ziener, La sapienza dell’Antico Oriente come scienza della vita. Nuova comprensione
e critica della sapienza in Israele, in J. Schreiner (ed.), Parola e messaggio. Introduzione
teologica e critica ai problemi dell’Antico Testamento, Edizioni Paoline, Bari 1973, 413.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 181
16
La canonicità-normatività per la fede di questo terzo gruppo (nel canone ebraico
«gli altri scritti successivi», che però noi prendiamo nell’estensione del canone cattolico
182 La Bibbia è parola di Dio
dell’AT) è più problematica a motivo della non omogeneità degli scritti che comprende,
dovuta alla «complessità formale e contenutistica dell’intreccio esistenziale dell’alleanza
stessa» cui fanno riferimento (cfr. J.-A. Sanders, Identité de la Bible, 119-145). Il pur
variopinto filone sapienziale, del quale abbiamo parlato nel breve paragrafo, ha un rap-
porto originale con l’alleanza e la sua storia perché «la sapienza è meditazione sulla vita
nei suoi vari aspetti alla luce della parola dell’alleanza (Legge e Profeti) o comunque nel
contesto segnato da essa», e pertanto si afferma come canonico-normativo «in quanto ca-
pace di far maturare fedelmente, coerentemente, la tradizione di fede del giudaismo» (T.
Citrini, Identità della Bibbia, 22s.). Il filone liturgico (molti Salmi, Lam) invita a cercare
il fondamento della sua canonicità-normatività nell’uso liturgico degli scritti: «La liturgia
è luogo tipicamente pubblico, ufficiale dell’espressione della fede» (T. Citrini, Identità
della Bibbia, 22). Per i salmi dobbiamo anche aggiungere che «ogni salmo è testimonianza
di un rapporto vivo e forte con Dio e su questa base possiamo dire che proviene da Dio
ed è ispirato da Dio» (IVSS, n. 17). Per il cosiddetto filone edificante (Tb, Est, Dn 13s.,
Rt) è più arduo “rigorizzare” il concetto di canonicità-normatività: «forse [esso] media un
interessante suggerimento a pensare in termini non legalisti la normatività degli scritti
sacri» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 23). Gli altri scritti di questa terza collezione
possono ricondursi ad un filone che continua la lettura della storia di Israele e qui trovare
un fondamento della loro canonicità-normatività: «O come rilettura dei capitoli antichi
secondo moduli teologici particolari, o come presentazione di capitoli più recenti tutt’altro
che semplicemente ripetitivi (1 e 2 Cr, Esd-Ne, e poi 1 e 2 Mac), o ancora come proiezione
apocalittica tesa ad illustrare il senso della storia in un futuro di speranza assicurato dalla
fedeltà vittoriosa di Dio (Dn, Gdt)» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 23).
17
Filone, De vita Mos. I, 23 e II, 290; G. Flavio, Ant. iud. 20, 12,1; cfr. A.M. Di
Nola, La Bibbia nel Giudaismo, voce Bibbia, in ER 1, coll. 1107ss.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 183
18
Cfr. GLNT VI, coll. 205-209.
19
H. Haag, La parola di Dio si fa scrittura, 419.
184 La Bibbia è parola di Dio
2. Nuovo Testamento
2.1. I vangeli
Gesù parla con inaudita sicurezza. Dalla critica, pur severissima, che si
è messa alla ricerca di «Gesù e la coscienza della propria missione» sulla
base degli «ipsissima verba Jesu», un dato appare certo: Gesù ha avuto
la precisa coscienza di essere il portatore definitivo della rivelazione e
della salvezza, e come tale ha parlato e agito. Egli è l’inizio di una nuova
tradizione21.
Certo, come abbiamo detto sopra, Gesù cita l’AT e ne riconosce l’au-
torità; ma egli si pone anche al di sopra dell’AT. Egli disse di sé: «Uno più
grande del tempio è qui» (Mt 12,6), «Qui c’è più di Giona!» (Mt 12,41),
«Qui c’è più di Salomone» (Mt 12,42). Addirittura, di fronte alla legge
mosaica, base e fondamento di tutto l’ebraismo, osò opporre la sua più
alta autorità: «Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico!». A proposito
delle sei antitesi del discorso del monte (Mt 5,21-48), J. Jeremias scrive:
«Colui che pronuncia lo egṑ dè légō hymîn (= ma io vi dico) delle antitesi,
20
«Il corpus neotestamentario non sorge come parallelo o alternativo all’AT, bensì come
Scrittura del compimento (solo in un secondo momento percepita come compimento
della Scrittura)»; e «anche per gli scritti del NT, come per quelli dell’AT, la storia della
tradizione, della collezione, dell’uso e del riconoscimento (canonicità-normatività) si in-
trecciano» (T. Citrini, Identità della Bibbia, 31s.). Vedi l’intero capitolo di Citrini (pp.
31-39), e avanti, cap. 13.
21
Vedi sopra, cap. 4, 3.1.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 185
Non parla in questo modo alcun maestro della legge, il quale deve sol-
tanto spiegare ciò che Dio ha detto in tempi antichi; Gesù parla «come
chi ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,22). Non ha parlato in que-
sto modo alcun profeta, il quale non faceva che trasmettere la parola di
Dio dicendo: «Così dice Dio…». La parola di Dio non proviene a Gesù
dall’esterno, quasi sorprendendolo, ancora come accadeva ai profeti; il
NT non presenta mai Gesù nell’atto di ricevere la parola di Dio, come
accadeva ai profeti. Egli predica la «sua parola» (cfr. Mc 2,2; 4,33) e le
folle vengono ad ascoltare «la parola di Dio» (cfr. Lc 5,1). Quel suo: «Ma
io vi dico!» dimostra che la sua missione di rivelatore si fonda su una
identità chiaramente definita tra la persona di Gesù e la parola di Dio.
In questo modo può parlare soltanto uno che afferma di sé, in forza di
un’autorità propria, di annunciare in modo definitivo la volontà di Dio.
Allora, quando la Chiesa primitiva vide in Gesù Cristo il «sì di tutte
le promesse di Dio» (2 Cor 1,20), l’ultima-definitiva parola di Dio agli
uomini (Eb 1,1s.), addirittura la parola di Dio che «si è fatta carne e ha
piantato la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14), essa non commise estra-
polazione alcuna. Si trattò soltanto di una formulazione perfettamente
coerente con ciò che esisteva già nella coscienza messianica di Gesù e
che egli stesso aveva palesato.
«Mediante la presentazione di Gesù, parola di Dio, i vangeli stessi
diventano parola di Dio»24. Il testo di Eb 1,1s., soprattutto, è particolar-
22
Cfr. J. Jeremias, Teologia del NT, 1: La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1972,
288-290.
23
Ibid., 289.
24
IVSS, n. 30.
186 La Bibbia è parola di Dio
mente importante; Dio parlò, scrive l’autore della lettera: non si dicono
tuttavia i contenuti di ciò che Dio ha detto, ma si nominano le persone
che con il parlare di Dio vengono poste in relazione: Dio stesso, il Fi-
glio, i profeti, i padri e “noi”; la relazione precede dunque i contenuti.
Nei «tempi antichi» Dio parlò in modi diversi “nei” profeti; “oggi” egli
parla a noi “nel” Figlio. La parola di Gesù è dunque parola di Dio, ma
essa non annulla né rende vane le parole in precedenza pronunciate da
Dio. E tuttavia il Figlio – Cristo – non si identifica con un testo scritto,
neppure con quello del Nuovo Testamento; sono entrambi i Testamenti
che attestano il suo essere compimento della rivelazione.
25
Su questo testo lucano cfr. anche p. 200 e p. 301.
I libri della Bibbia sono parola di Dio 187
Gli apostoli, forti dell’autorità che derivava dalla missione loro affidata
dal Gesù storico e dal Cristo risorto, annunciano l’evangelo della salvezza
nella lucida consapevolezza di essere mediazione umana della definitiva
parola di Dio, rivelata e attuata da Gesù Cristo.
È «la parola di Dio» (At 4,29.31), «la parola del Signore Gesù» (At 8,
25) che essi predicano ovunque «con coraggio» (At 4,31), ai giudei e ai
pagani. A quella Parola essi «rendono servizio e testimonianza» (At 6,4;
8,25); e l’azione missionaria degli apostoli e dei loro collaboratori fatta
anch’essa – come quella di Gesù – di gesti e di parole, provoca la crescita
della chiesa, che Luca descrive in Atti semplicemente come «crescita della
Parola» (At 6,7; 12,24; 14,20).
Con ciò si ha un’importante integrazione di quanto finora si è detto.
Dio non soltanto ha pronunciato in Cristo la sua parola ultima e de-
finitiva. Egli la manifesta anche quando Cristo viene annunciato nella
predicazione apostolica; meglio ancora, Dio continua nella predicazione
apostolica a proclamare la sua parola, la stessa che Dio ha pronunciato
in Cristo Gesù. In questo modo, Paolo può scrivere: «Proprio per questo
anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la
parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come
parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera
in voi credenti» (1 Ts 2,13).
Attraverso Paolo, parla e opera con potenza il Cristo Gesù (cfr. 2 Cor
13,3); la fede e la salvezza non provengono altrimenti che dall’ascolto
della parola dell’apostolo (Rm 10,17). Ma la stessa autorità vincolante
è attribuita da Paolo alla forma scritta della sua predicazione: «Perciò,
fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla
nostra parola, sia dalla nostra lettera» (2 Ts 2,15; cfr. 1 Tm 1,18; 4,11).
Alla lettera scritta da Paolo si deve obbedienza (2 Ts 3,14), come se egli
parlasse a viva voce; tutti i credenti della comunità dovranno leggerla
(1 Ts 5,27); anzi talvolta essa è concepita come lettera “circolare”, da
trasmettere alle comunità vicine (Col 4,16).
188 La Bibbia è parola di Dio
26
A. Marangon, La Bibbia parla di sé, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri
di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, 44.
9.
L’ispirazione della sacra Scrittura
Abbiamo visto che sia per Israele sia per la chiesa era parola di Dio
non soltanto la realtà della rivelazione in eventi e parole, ma anche la
sua notizia scritta, cioè la Bibbia.
Vogliamo ora verificare la stessa coscienza nei confronti del libro sa-
cro, partendo da un altro punto di vista parallelo al precedente, anzi ad
esso intimamente connesso, perché – in ultima istanza – ne costituisce
il fondamento. Si tratta, cioè, del carisma dell’ispirazione biblica che il
concilio Vaticano II pone a fondamento del rapporto «Bibbia = parola
di Dio»: «Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio, in quanto scritta per
ispirazione dello Spirito Santo» (DV 9).
Il carisma dell’ispirazione biblica ha trovato la sua piena ed esplicita
formulazione soltanto negli scritti più recenti del NT, come vedre-
mo. Ciò non deve stupire, visto che la riflessione sulla natura di un
fatto segue sempre l'affermazione del medesimo. Israele sapeva di
possedere la realtà della parola di Dio, fatta libro; ma non si diceva
ancora chiaramente in virtù di quale azione divina si fosse realizzata
190 La Bibbia è parola di Dio
1
Vedi sotto, cap. 10, 1
2
Cfr. C. Mesters, La Parola dietro le parole. Uno studio per trovare la porta di ingresso
nel mondo della Bibbia 1, Queriniana, Brescia 1975, 184-188.
L’ispirazione della sacra Scrittura 191
Ora, a ben guardare gli ambiti biblici della presenza dello Spirito di
Dio, si individua una costante nella sua opera ininterrotta e multiforme:
Dio, mediante il suo Spirito, investe l’umano e lo spinge al di là di se
stesso, lo promuove, lo consacra, ne fa un sacramento – ovvero segno e
strumento – del divino.
Lo «Spirito di Dio» (Gen 1,2) prese ad aleggiare sulle acque del caos
primordiale, e l'intera creazione cominciò ad assumere progressivamente
un volto ordinato. Dio «soffiò con il suo Spirito» (Es 15,10), e fu subi-
to per Israele passaggio dalla schiavitù alla libertà. Dio «manda il suo
Spirito» (Sal 104,30), e la faccia della terra è rinnovata. Dio «fa entrare
il suo Spirito» (Ez 37,14) in un mucchio di ossa aride, e il popolo di
Israele ritrova la speranza, rivive, torna a riposare nella sua terra. L’uo-
mo ha bisogno di essere rigenerato, ed è lo Spirito di Dio che gli dona
un’altra origine, lo rifonda, lo rende capace di essere, di agire e di parlare
in termini di novità assoluta (cfr. Gv 3,5-8; Gal 4,4-7; 5,16-23; Rm
8,14-17). Soffia lo Spirito della Pentecoste cristiana (At 2), e scatta la
rivoluzionaria novità: la divisione di Babele (Gen 11,1-9) è rovesciata,
la Parola risuona in assoluta franchezza (parrhēsía) e guadagna la fede di
molti, la chiesa si edifica in comunione di fede e di amore (koinōnía), il
mondo si apre alla salvezza.
3
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 13.
192 La Bibbia è parola di Dio
4
Ibid., 77.
5
P. Benoit ha espresso a più riprese la sua teologia sull’ispirazione: in Initiation Biblique,
Desclée, Paris 19543, 35ss.; Les analogies de l’inspiration, in Sacra Pagina 1, Gabalda - Du-
culot, Paris - Gembloux 1959, 86-89; Révélation et Inspiration selon la Bible, chez Saint
Thomas et dans les discussions modernes, in RB 70 (1963) 321-370 [trad. it., Rivelazione e
ispirazione, Paideia, Brescia 1966]; Ispirazione e rivelazione, in Concilium 4/1965, 15-33.
L’ispirazione della sacra Scrittura 193
Più volte lo Spirito s’impossessa di un uomo per fargli compiere delle azioni
che strutturano la storia del popolo eletto. È lo Spirito che dà a Mosè e agli
anziani il compito di «portare il peso del popolo» nella guida dell’esodo
(Nm 11,17-25; cfr. Is 63,11-13), che abita in Giosuè mentre conquista la
Terra promessa (Nm 27,18) che anima un Gedeone (Gdc 6,34), uno Iefte
(Gdc 11,29), un Sansone (Gdc 14,6-19; 15,14) nelle loro imprese coraggiose
per liberare l’oppresso Israele. È lo Spirito che, dopo avere stimolato Saul
(1 Sam 10,6-10; 11,6) e averlo in seguito lasciato (1 Sam 16,14), «discende
sopra» Davide in occasione della sua unzione regale (1 Sam 16,13), in attesa
di discendere in pienezza sul rampollo della stirpe di Iesse, il Re Messia, che
governerà il popolo di Dio nella giustizia e nella pace (Is 11,1ss.; 42,1ss.;
61,1ss.). Non è forse lecito parlare in tutti questi casi di una specie di ispira-
zione «pastorale», che dirige i «pastori» del popolo eletto, e per mezzo loro la
storia santa nella quale si prepara la salvezza messianica?
Ma lo spirito fa anche parlare, oltre che agire. È necessario infatti che il po-
polo capisca la parola che gli spiega le opere di Dio, gli rivela le intenzioni e
gli appelli del suo cuore divino, gli prescrive i suoi comandamenti. I profeti
sono i messaggeri che trasmettono questa parola alle orecchie del popolo;
proprio per questo motivo essi sono animati dallo Spirito. È lo Spirito che
riposa su Ezechiele e lo fa parlare (Ez 11,5), che mette la parola di Dio sulla
bocca di Isaia e dei suoi successori (Is 59,21), che riempie Michea di forza, di
giustizia e di coraggio (Mi 3,8), che fa dire al profeta: «Ora il Signore Dio ha
mandato me insieme con il suo Spirito» (Is 48,16). Osea è un «uomo dello
Spirito» (Os 9,7). Il ministero dei profeti è l’opera dello Spirito (Ne 9,30; Zc
7,12). In questi prescelti si prepara l’era messianica nella quale lo Spirito si
diffonderà sopra tutti (Gl 3,1s.); effusione che san Pietro vede realizzata nel
giorno di Pentecoste (At 2,16ss.). Questo dono della Parola, che accompagna
e commenta quello dell’azione, non si può intendere forse come un altro
aspetto dell’ispirazione, che si potrebbe chiamare «orale» o «oratorio» e che
accompagna e completa l’ispirazione “pastorale”?6
6
P. Benoit, Ispirazione e rivelazione, 20s.
194 La Bibbia è parola di Dio
7
Ibid., 21s. In questo contesto va tuttavia sottolineato il ruolo dello Spirito di Dio su
Gesù Cristo, l’ispirato per eccellenza. In occasione del battesimo, «lo Spirito discende e
rimane su di lui» (Gv 1,33); a Nazaret, citando e applicando a sé Is 61,1s., Gesù pone tutto
il suo ministero pubblico «in gesta e parole» sotto il segno dello Spirito (cfr. Lc 4,16-21).
Egli potrà dire persino: «Le parole che vi ho detto sono spirito e vita» (Gv 6,63).
8
Vedi sopra, cap. 3.
L’ispirazione della sacra Scrittura 195
9
Cfr. L. Mazzinghi, Il Pentateuco sapienziale, 78.137.175. Per Sap 7,15, cfr. L. Maz-
zinghi, Testi autorevoli di epoca ellenistica in analogia con gli scritti biblici. Un esempio
illustre: il libro della Sapienza, in G.L. Prato (ed.), Israele fra le genti in epoca ellenistica:
un popolo primogenito cittadino del mondo, in RicStoBib 27/1 (2015) 157-176.
196 La Bibbia è parola di Dio
predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide» (At 1,16), e che «Dio
per mezzo dello Spirito Santo disse per bocca di Davide» (At 4,25). Si
introducono le parole di un salmo con la formula: «Come dice lo Spiri-
to Santo» (Eb 3,7). Gesù stesso cita un salmo con la formula: «Davide
stesso, infatti, mosso dallo Spirito Santo, ha detto…» (Mc 12,36; cfr. Mt
22,43). E Pietro, in un testo già ricordato, parlando dei profeti i quali
avevano preannunciato la grazia della salvezza riservata ai credenti in
Cristo, afferma addirittura che lo Spirito di Dio operante nella parola
dei profeti altro non era che lo stesso Spirito di Cristo (cfr. 1 Pt 1,10-12).
Veniamo ora ai testi classici del NT, nei quali si parla esplicitamente
dell’azione dello Spirito di Dio nella parola scritta, ossia nei libri sacri
della Bibbia. Si tratta della Seconda lettera di Pietro, un testo forse della
fine del I secolo d.C. o degli inizi del II, e della Seconda lettera a Timoteo,
una delle «lettere pastorali», forse redatte da un discepolo di Paolo, o da
un autore che si richiama alla tradizione paolina, nell’ultimo decennio
del I secolo d.C.; i due testi di 2 Pt 1,16-21 e 2 Tm 3,14-17 sono signi-
ficativamente citati assieme in DV 1110.
10
Vedi sopra, cap. 5. Su questi due testi, cfr. R. Fabris, Lo Spirito e le Scritture in 2
Tm e in 2 Pt, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nel
l’autotestimonianza della Bibbia, in RicStoBib 12 (2002) 297-320.
L’ispirazione della sacra Scrittura 197
dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il
mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo
mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la
parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada
che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei
vostri cuori la stella del mattino. Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura
profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai
venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da
parte di Dio (2 Pt 1,16-21).
11
Ibid., 318.
198 La Bibbia è parola di Dio
Per questo la parola dei profeti, che è parola di Dio, non consente
un’interpretazione “privata”, arbitraria. Arbitraria, non perché opposta a
una interpretazione “ufficiale”, per esempio a quella del magistero eccle-
siastico, ma perché contraria alla natura divina della profezia consegnata
nelle Scritture. Viene così posto, nel testo di 2 Pt, un problema di carat-
tere ermeneutico: la ricerca di un criterio fondamentale per interpretare
le Scritture e tale criterio viene individuato nel loro carattere profetico e
dunque nell’origine divina delle Scritture stesse, per mezzo dello Spirito.
Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dal
l’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante
la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per
insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio
sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tm 3,14-17).
12
Cfr. E. Schweizer, θεόπνευστος, in GLNT X, coll. 1104-1108.
13
Vedi sotto, cap. 11, 7.
200 La Bibbia è parola di Dio
I presbiteri che esercitano bene la presidenza siano trattati con doppio onore,
soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento.
Dice infatti la Scrittura: «Non metterai la museruola al bue che trebbia»; e:
«Il lavoratore ha diritto alla sua ricompensa» (1 Tm 5,17-18).
14
Per l’interpretazione controversa del brano, cfr. anche p. 186 e p. 301.
15
Sulla natura dell’ispirazione biblica, vedi sotto, cap. 10.
L’ispirazione della sacra Scrittura 201
A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede […]. Perché si possa pre-
stare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli
16
P. Benoit, Ispirazione e rivelazione, 23-26 (cfr. testo originale nell’ed. fr. di Concilium
10/1965, 18s.21).
17
Cfr. P. Benoit, Les analogies de l’inspiration, 96-99.
202 La Bibbia è parola di Dio
aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio,
apra gli occhi della mente, e dia a tutti “dolcezza nel consentire e nel credere
alla verità” (DV 5).
Lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del vangelo risuona nella
chiesa, introduce i credenti dentro tutt’intera la verità e in essi fa risiedere la
parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (DV 8).
Però, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso
Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei
sacri testi si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità
di tutta la Scrittura… (DV 12).
18
Vedi sotto, cap. 19.
L’ispirazione della sacra Scrittura 203
Anche l’eucaristia, che insieme alla parola della Bibbia edifica la chiesa
come comunità dei credenti, proviene dall’azione e dalla presenza effi-
cace dello Spirito Santo:
Padre veramente Santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’ef-
fusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù
Cristo, nostro Signore (II Canone della messa; cfr. l’identica epiclesi nei Ca-
noni III e IV della messa).
19
Cfr. anche sotto, cap. 20.1.
204 La Bibbia è parola di Dio
20
Nel suo discorso al concilio Vaticano II del 5 ottobre 1964, S.E. Mons. Neofitos
Edelby, arcivescovo titolare di Edessa, portava in questi termini il contributo della chiesa
orientale al mistero della sacra Scrittura: «La sacra Scrittura è una realtà liturgica e profe-
tica. Essa è una proclamazione più che un libro scritto. È la testimonianza dello Spirito
Santo sull’evento Cristo, e il suo momento precipuo e privilegiato è la celebrazione della
liturgia eucaristica. Mediante questa testimonianza dello Spirito Santo, l’economia del
Verbo rivela il Padre. La controversia post-tridentina vede nella sacra Scrittura innanzi-
tutto una norma scritta. Invece la chiesa orientale vede nella sacra Scrittura piuttosto una
consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana (consecrationem
quamdam Historiae salutis sub speciebus verbi humani), inseparabile però dalla consacrazio-
ne eucaristica nella quale si ricapitola tutto il Corpo di Cristo […]. Questa consacrazione
esige una epiclesi, ovvero l’invocazione e l’azione dello Spirito Santo; e l’epiclesi è precisa-
mente la sacra tradizione. Pertanto la tradizione è l’epiclesi della storia della salvezza, è la
teofania dello Spirito Santo senza la quale la storia del mondo è incomprensibile, e la sacra
Scrittura rimane lettera morta» (Acta Synodalia, vol. III, pars III, pp. 306s.).
10.
La chiesa si interroga
sul mistero della Bibbia
Bibliografia: W.J. Abraham, The Divine Inspiration of Holy Scripture, University Press,
Oxford 1981; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, Paideia, Brescia 19692, 40-76;
H. Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 493-521; G. Benedetti,
La Bibbia nella teologia patristica e medievale, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I
libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975, 53-118; J.
Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture, du Cerf, Paris 1972; O. Loretz, Das Ende
der Inspirations-Theologie. Chancen eines Neubeginns, 1: Untersuchungen zur Entwicklung
der traditionellen theologischen Lehre über die Inspiration der Heiligen Schrift, Katholisches
Bibelwerk, Stuttgart 1974; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza, 1:
Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 41-87; G. O’Collins, Teologia fonda-
mentale, Queriniana, Brescia 19883, 281-301; L. Pacomio, La Bibbia nella teologia dei
secc. XIII-XIV fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio, 53-122 e 123-194.
Cfr. anche tre trattati classici sull’ispirazione: E. Florit, Ispirazione biblica, Agenzia
del Libro Cattolico, Roma 19512; H. Höpfl – L. Leloir, Introductio generalis in Sacram
Scripturam, D’Auria - Arnodo, Neapoli - Romae 19586, 19-118; Ch. Pesch, De Inspira-
tione Sacrae Scripturae, Herder, Freiburg i. Br. 1929, rist. (per una sintesi del medesimo,
cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 357-376).
A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, ed. it. a cura di A.
Zani, Paideia, Brescia 1994, 119-182; C. Buzzetti – M. Cimosa, Bibbia: Parola scritta
e spirito, sempre. Ispirazione delle Sacre Scritture (Sofia - Manuali e Sussidi per lo Studio
della Teologia) LAS, Roma 2004; M. Tábet, Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo,
Cinisello B. 1997, 25-88.
C.A. Alves, Ispirazione e verità. Genesi, sintesi e prospettive della dottrina sull’ispirazione
biblica del concilio Vaticano II (DV11) (Scaffale aperto), Armando, Roma 2012; M.C.
Aparicio Valls, Ispirazione, Cittadella, Assisi 2014; P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato
per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2012,
17-180; P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata. Nuove prospettive sul
l’ispirazione biblica, San Paolo - GBP, Cinisello B. - Roma 2013, con diversi saggi e ricchi
riferimenti bibliografici. Cfr. il già citato documento della Pontificia Commissione
Biblica, Ispirazione e verità.
206 La Bibbia è parola di Dio
Nelle illustrazioni dei libri medievali, come anche nella pittura del
Rinascimento, c’è un’immagine ricorrente. Si vede uno dei quattro evan-
gelisti che sta scrivendo il suo vangelo, con una penna in mano e un
piccolo leggìo davanti a sé, sul quale stanno i fogli di pergamena. Egli
è tutto concentrato nel suo lavoro, e tuttavia la sua testa è piegata di
lato, come fosse in ascolto: vicino al suo orecchio aleggia una colomba,
simbolo dello Spirito Santo che gli sussurra le parole da scrivere. Pro-
babilmente il pittore voleva soltanto esprimere il dogma cristiano, che
la Bibbia è ispirata da Dio e che Dio ne è l’autore principale, per cui lo
Spirito Santo si dà premura che sia veramente la parola di Dio ad essere
espressa dallo scrittore sacro. Tuttavia non si può negare che l’immagine
fa pensare agli scrittori sacri come a dei bravi e diligenti “segretari” di
Dio, ma nient’altro che “segretari”: una specie di macchina da scrivere
umana, sotto le dita di Dio.
È questo il modo in cui dobbiamo raffigurarci l’ispirazione della Bib-
bia? La fede cristiana non esige il sacrificium intellectus, ma impegna
l’intelligenza umana (è la fides quaerens intellectum) a riflettere sul dato
della rivelazione e a renderne ragione. Il credente non si accontenta
del Was (che cosa è stato rivelato e che cosa credere), ma ricerca anche
il Wie, il come della verità rivelata e offerta all’accoglimento della fede,
non fosse altro perché la stessa rivelazione biblica del Was da credere è
sempre espressa con categorie umane che lasciano intravedere qualcosa
del modo in cui il mistero è accaduto. In ogni caso la chiesa, sin dal
l’epoca post-apostolica, non ha mai cessato di interrogarsi sul mistero
dell’ispirazione biblica, dando di volta in volta delle risposte in parallelo
con la sua ininterrotta riflessione guidata dallo Spirito Santo, la quale
cesserà soltanto quando la fede lascerà il posto alla visione.
È questo il momento della ricerca dei Padri, dei dottori e dei teologi,
ma anche il momento delle decisioni del magistero della chiesa che guida
la ricerca, la sollecita e la valuta sulla base del dato rivelato che esso ha il
compito di “custodire”. Dagli stessi autori del NT ai Padri della chiesa, al
concilio Vaticano II (cap. 10), sino alla riflessione della teologia contem-
poranea (cap. 11): due capitoli aperti di teologia dell’ispirazione biblica.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 207
Gli autori più recenti del NT affermano expressis verbis l’ispirazione del-
la sacra Scrittura1; ci dicono qualcosa anche sulla natura dell’ispirazione?
La domanda è legittima dal momento che il mondo ellenistico – e l’uso
linguistico di theópneustos in 2 Tm 3,16 è ellenistico – aveva una conce-
zione “mantica” dell’ispirazione, e il mondo giudaico, dal quale il NT
ereditò la fede nell’ispirazione biblica, aveva elaborato in forme diverse
una sua dottrina sull’ispirazione.
1
Vedi sopra, cap. 9.
2
Cfr. H. Kleinknecht, πνεῦμα; E. Schweizer, θεόπνευστος, in GLNT X, coll. 805-
827.1104-1108; A.M. Di Nola, Estasi, Ebbrezza, Entusiasmo, in ER 2, coll. 1255-1268;
J. Sievers, L’ispirazione nel pensiero ellenistico, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni
Scrittura è ispirata, 33-46.
3
I. Hrůša, L’ispirazione divina nella Mesopotamia antica, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet
(edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 21-32.
4
Per i testi di Mari (XVIII-XVII secolo a.C.) cfr. L. Cagni, Le profezie di Mari, Paideia,
Brescia 1996.
208 La Bibbia è parola di Dio
5
Cfr. W. Bieder, πνεῦμα, in GLNT X, coll. 883-891; A.M. Di Nola, La Bibbia
nel Giudaismo, in ER 1, coll. 1107-1120; P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen
Testaments. Eine Hermeneutik («NDT Ergänzungsreihe» 5), Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1977, 48-30.
6
Vedi sopra, cap. 7.
7
Lettera di Aristea 302: SC 89, 230.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 209
Per una conseguenza naturale, direi necessaria – poiché tra noi non è per-
messo a tutti di scrivere la storia (e nei nostri scritti non esiste divergenza)
ma solo i profeti raccontarono con chiarezza i fatti lontani e antichi per
averli appresi mediante ispirazione divina (katà tên epípnoian tên apò theû
mathontôn) e quelli contemporanei per esserne testimoni – per una con-
seguenza naturale, dicevo, non esiste tra noi un’infinità di libri discordi e
contraddittori, ma ventidue soltanto che abbracciano la storia di tutti i tempi
e che sono giustamente considerati come divini9.
8
De Vita Mosis II, 37: Les Oeuvres de Philon d’Alexandrie 22, du Cerf, Paris 1967, 208.
Cfr. anche II, 40: «Tutte le volte che ebrei che sanno il greco o greci che sanno l’ebraico si
trovano di fronte simultaneamente ai due testi, l’ebraico e la versione greca, li guardano
con ammirazione come due sorelle, o meglio, come un’unica e identica opera, tanto nella
sostanza che nella forma, e chiamano i loro autori non traduttori ma sommi sacerdoti e
profeti (hierophántas kài prophḗtas), perché ad essi fu accordato, grazie alla purità della loro
intelligenza, di andare di pari passo con lo Spirito che è il più puro di tutti, lo Spirito di
Mosè» (ibid., 208-210 [trad. it., Vita di Mosè, Rusconi, Milano 1999]).
9
Contra Apion. 1,8, 37-38: Flavius Josèphe. Contre Apion, «Les belles Lettres», Paris
1930, 9-10 [trad. it., Contro Apione, Marietti, Genova 2007].
210 La Bibbia è parola di Dio
stessa Lettera di Aristea era testimone quando, parlando della Tôrah come
tale, affermava che di essa non si fa menzione in nessun storico o poeta
«a motivo del carattere augusto di questa Legge e perché essa viene da
Dio (dià theû ghegonénai)»10.
Una concezione dell’ispirazione di tipo miracolistico s’incontra anche
nel giudaismo palestinese, almeno per quanto concerne la Tôrah che ha
una preminenza assoluta11 sugli altri scritti sacri:
Mentre per gli altri profeti possiamo anche parlare di ispirazione, nel caso
di Mosè dobbiamo pensare che egli si svuota totalmente di se stesso, divie-
ne un veicolo materiale della presenza divina. Le parole dei Profeti e degli
Agiografi sono parole ispirate, cariche di santità, laddove le Parole di Mosè
sono parole di Yhwh medesimo: «Colui che dice che la Torah non è venuta
dal cielo, non ha parte nel mondo futuro» (Talm. bab. Sanh. 10,1); «Anche
se qualcuno riconosce quest’origine celeste alla Torah, ma ne eccettua una
sola parola, che il Santo Unico, benedetto egli sia!, non avrebbe pronunciata
attraverso Mosè, costui non parla che secondo la sua opinione personale»
(Sanh. 99a) 12.
10
Lettera di Aristea 313: SC 89, 234.
11
«L’ebraismo religioso ha sempre e costituzionalmente avvertito la profonda differenza
di livello tra le varie parti della collezione, considerando i profeti e gli agiografi (cioè il
terzo gruppo di scritti) come scritti che servono a riconfermare la rivelazione della Tôrah e
che soprattutto esprimono la dialettica storica del Patto costituito in Tôrah» (A. Di Nola,
La Bibbia nel Giudaismo, in ER 1, col. 1113).
12
Ibid.
13
Cfr. ibid., coll. 1113-1115.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 211
Per l’AT prendiamo l’esempio dei profeti, i quali «non sono gli unici
ispirati, ma in essi appare con maggior forza e chiarezza l’azione dello
Spirito: sono i principes analogati»16. Analizzando l’opera letteraria e lo
stile peculiare «del classico Isaia, del romantico Geremia, del barocco
Ezechiele», non possiamo certo concludere che il profeta scrive sotto
dettatura, o che ripeta a memoria o alla lettera il messaggio appreso
mediante rivelazione.
14
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments, 48s.
15
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 77-101.
16
Ibid., 77.
212 La Bibbia è parola di Dio
dello Spirito non può essere un dettare, né può essere meccanica; occorrerà
collocarla in una regione vitale dell’attività del linguaggio, e più concreta-
mente, del linguaggio letterario […]. Il divino e l’umano sono presenti: il
divino eleva l’umano, non lo sopprime. La vocazione eleva la personalità
del profeta, non la distrugge; polarizza la sua sensibilità letteraria, pone in
trance la sua attività letteraria17.
17
Ibid., 81s.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 213
alla parola, ma alla persona stessa del profeta; i casi di Geremia ed Eze-
chiele illustrano molto bene questa concezione “larga” dell’ispirazione
profetica. Nel caso di Geremia, in particolare, il dissidio tra i progetti
personali del profeta e la parola di Dio che lo spinge in direzioni diverse
attesta, in modo molto drammatico, l’autenticità di questa parola18. E,
tuttavia, l’intero corpus profetico è attraversato dal problema di poter
riconoscere il vero dal falso profeta; non bastano i criteri esterni, come
la vita stessa del profeta o la qualità oggettiva del suo messaggio. Occorre
un criterio più profondo: è necessario che l’uditore stesso sia in qualche
modo profeta19. Se, come si vedrà in DV 12 (cfr. pp. 469ss.), la Scrit-
tura dev’essere «letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu
scritta», è necessario affermare anche che «riconosce la Scrittura come
parola di Dio solo colui che vive dello stesso Spirito dei profeti»20, sulla
scia di quanto Paolo scrive in 1 Cor 2,7-16: le cose dello Spirito possono
essere giudicate solo per mezzo dello Spirito.
Se ci volgiamo ora al NT, scopriamo che gli apostoli ricevono come i
profeti la missione di proclamare la parola di Dio, che si è definitivamen-
te rivelata nella persona di Gesù Cristo: nel suo essere, operare e dire.
Ma, come avviene la predicazione apostolica su Gesù? Avviene tramite
un “ricordare”, un “capire”, un “testimoniare”, tutte facoltà pienamente
umane; e lo Spirito di Cristo, da lui promesso agli apostoli (cfr. Gv
14,25s.; 15,26s.; 16,13s.), ha proprio il compito di far loro “ricordare”,
“capire”, “testimoniare”, cioè di «riattivare in profondità la memoria e
l’intelligenza». E come avviene la redazione scritta dei vangeli?
Oltre alla memoria e all’intelligenza, c’è tutto il travaglio letterario del com-
porre e del redigere. Tutto quanto appartiene a una attività letteraria, se lo
assume lo Spirito Santo per trasmetterci vive le parole di Cristo […]. Luca
parla espressamente della sua fatica e diligenza (Lc 1,1-4), perché i carismi di
Dio non risparmiano il lavoro umano, ma lo suscitano e dirigono. Chi abbia
18
Cfr. G. Barbiero, Le metafore e le immagini dell’ispirazione nella Torah e nei profeti,
in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 47-61.
19
«Noi abbiamo bisogno di profeti, ma, quando c’è un vero profeta, la regola vuole
che ci sia un falso profeta accanto a lui, e vuole anche che, almeno in definitiva, non vi
sia una regola per discernere tra i due. Il paradosso del profetismo è che, da ultimo, è
l’uditore che è costretto ad essere profeta» (P. Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura oggi,
Massimo, Milano 1990, 54).
20
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 133. Cfr. tutta la sezione
da p. 78 a p. 137 sul tema del riconoscimento del profeta.
214 La Bibbia è parola di Dio
21
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 98s.
22
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments, 46.
23
Cfr. IVSS, n. 52.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 215
24
Per esempio: gli agiografi «sono divinamente mossi» e «parlano in virtù dello Spirito
di Dio» (Giustino); i diversi scrittori sacri sono concordi tra loro «perché sono tutti spinti
dallo Spirito e hanno parlato nello Spirito di Dio» (Teofilo di Antiochia); le Scritture «sono
perfette, essendo dette dal Verbo di Dio e dal suo Spirito» (Ireneo); i libri sacri sono scritti
«sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, per volontà del Padre, per mezzo di Gesù Cristo»
(Origene); «i profeti hanno parlato ispirati dallo Spirito divino, e perciò le Scritture, essen-
do state scritte dallo Spirito, contengono in sé un ingente tesoro» (Giovanni Crisostomo);
«tutta la Scrittura è chiamata theópneustos perché Dio ispira ciò che ha detto lo Spirito»
(Ambrogio): citati in C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1, 42ss.
25
Cfr. Ippolito di Roma, De Antichristo 2: PG 10, 728-729; Atenagora, Legatio pro
Christ. 9: PG 6, 908; Cohort. ad Graecos (di autore ignoto) 8: PG 6, 256ss.; Clemente
Alessandrino, Strom. 6,18,23-24: PG 9, 401.
26
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 48ss.56ss.
216 La Bibbia è parola di Dio
lazione biblica ai medium estatici degli oracoli pagani come una Pizia
o una Sibilla, e usava il paragone della lira e del plettro per concludere
che lo scrittore sacro agisce inconsciamente e meccanicamente, si evitò
di proposito il termine “estasi”, o addirittura si negò che i profeti aves-
sero parlato “in estasi”: «Non è vero, come si immagina Montano con
le donne insipienti, che i profeti abbiano parlato in estasi, così da non
sapere ciò che dicevano»27. L’enciclica Divino Afflante Spiritu utilizzerà il
termine “strumento”, ma ne formula il limite con due aggettivi: «L’auto-
re sacro, nell’atto di comporre il suo libro, è strumento vivo e razionale
dello Spirito Santo (EB 556).
La categoria “strumento” non entrerà nelle definizioni dei concili.
Rimarrà invece il concetto già biblico di strumentalità, che permette di
considerare l’azione dell’uomo come azione vera e reale, tale da lasciare
una sua impronta nel libro sacro, pur rimanendo sempre sotto la dipen-
denza dell’azione divina dello Spirito Santo.
27
Girolamo, Prol. in Isaiam: PL 24,19. Cfr. anche l’opera di Milziade (perduta), il
cui titolo: Che il profeta non deve parlare in estasi ci è stato conservato da Eusebio, Hist.
Eccl. V, 17: PG 20, 473.
28
Agostino, Contra adversarios legis et prophetarum 1,17,35: PL 42, 623.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 217
secondo gli Statuta Ecclesiae antiqua (fine V secolo), a chi sta per essere
consacrato vescovo si richiede una professione di fede biblica in questi
termini: «Se ritenga Dio unico e identico autore dell’Antico e del Nuovo
Testamento, cioè della legge, dei profeti e degli apostoli» (EB 30).
L’espressione Dio autore dell’AT e del NT, autore cioè non solo del
l’economia antica e nuova della salvezza ma anche dei libri che la espri-
mono, fa parte della definizione di fede sulla Bibbia: essa ricorre espressa-
mente nei concili Fiorentino, Tridentino, Vaticano I e Vaticano II29. Ma
Applicando allo Spirito Santo (o a Dio) la parola autore nella sua accezione
letteraria, ci muoviamo sul terreno delle analogie, che è incluso entro un
limite. Lo Spirito Santo è un autore speciale, che scrive per mezzo di altri,
che sono veri autori33.
29
Vedi sotto, cap. 10, 4.5.7.
30
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 70s.
31
Vedi sotto, cap. 10, 5.
32
Vedi sotto, cap. 11, 1.
33
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 75.
218 La Bibbia è parola di Dio
34
Girolamo, Epist. 120,10: PL 22, 997.
35
Agostino, De consensu evangelistarum 1,35,54: PL 34, 1070.
36
II verbo dictare, nella lingua latina, ha molti usi, che vanno dalla “dettatura” stret-
tamente intesa al “comando” e al semplice “suggerimento”: cfr. E. Forcellini, Dictare,
in Totius Latinitatis Lexicon II, Schneebergae 1831, 702ss. Analoghi significati si trovano
nel latino degli autori cristiani: cfr. A. Blaise, Dictatio, in Dictionnaire latin-français des
auteurs chrétiens, Strasbourg 1954.
37
Vedi sotto, cap. 10, 4.
38
Vedi sotto, cap. 10, 5.
39
Per una documentazione, cfr. K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, Labor et
Fides, Genève 1955, 65-67; L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 60.
40
Cfr. K. Barth, Dogmatique, 68s.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 219
41
Agostino, In Psalmos 90,2,1; 144,17: PL 37, 1159.1880.
42
Girolamo, Epist. 133,13: PL 22, 1160; Giovanni Crisostomo, In Gen. Hom.
2,15,1: PG 53, 119.
43
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 65-69.
44
Giustino, Apologia I, 36: PG 6, 385.
220 La Bibbia è parola di Dio
Il romanziere parla nel suo romanzo, non solo quando scrive autobiografi-
camente, non solo quando racconta fatti, ma anche quando parlano i suoi
personaggi […]. Shakespeare e Cervantes e Dostoevskij possono reclamare
come loro ciascuna delle parole pronunciate dai loro grandi personaggi; per-
sino quelle pronunciate dialetticamente dai personaggi antitetici: Chisciotte
e Sancio, Otello e Yago, Ivan e Smerdiakov45.
45
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 66s.
46
Ibid., 69.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 221
ogni caso parole che puoi ridire e riformulare come fossero tue. I lettori
credenti, senza distinzione, non si sentono estranei al gioco di Dio autore
e dei suoi personaggi nell’opera letteraria della Bibbia.
47
Cfr. G.M. Perrella, L’ispirazione biblica secondo San Tommaso, in DivTh 49 (1946)
291-295; P. Benoit, Rivelazione e ispirazione secondo la Bibbia in San Tommaso e nelle
discussioni moderne, in Id., Esegesi e teologia II, Edizioni Paoline, Roma 1964, 143-220.
48
Cfr. G. Benedetti, La Bibbia nella teologia patristica e medievale, 86ss.
49
Vedi sotto, cap. 17, 3.
50
Vedi sopra, § 2.1.
222 La Bibbia è parola di Dio
53
Cfr., schematicamente e in sinossi, l’applicazione tomista della categoria auctor in-
strumentalis all’autore umano della Bibbia: in I libri di Dio, 119s., nota 3.
54
Cfr. Quaest. Disput., q. 12 aa. 1256-1259; Summa c. Gentes III, 154; Summa Theol.
II-II, qq. 171-174.
55
Summa Theol. II-II, q. 173, a. 2-3.
56
Ibid.
57
Summa Theol. II-II, q. 174, a. 2, ad 3.
224 La Bibbia è parola di Dio
Non che questi due termini siano perfettamente equivalenti. Ognuno di essi
connota un aspetto particolare del carisma, e san Tommaso si servirà del
l’uno o dell’altro a seconda del particolare rilievo che vorrà dare all’aspetto
corrispondente. Perciò parlando delle rappresentazioni soprannaturali userà
volentieri revelatio poiché esse sono il canale normale della perceptio divi-
norum; quando invece l’accento sarà messo sulla causalità efficiente della
mozione divina, allora sulla sua penna ricorreranno i termini inspirare e
inspiratio, e sottolineeranno il modo transitorio di tale mozione […]. Ogni
rivelazione, cioè ogni percezione di verità divine, anche se acquisite indiret-
tamente per mezzo di conoscenze naturali, esige una elevazione sopranna-
turale dello spirito, cioè una “ispirazione”. E inversamente ogni elevazione
soprannaturale dello spirito, portando sul giudizio una luce divina, termina
a una certa percezione di verità rivelata, a una certa “rivelazione”, più o
meno intensa ed estensiva a seconda che la forza di questa luce comporta o
meno un’illuminazione delle stesse rappresentazioni che formano l’oggetto
della conoscenza60.
58
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 7-32.
59
De Verit., q. 12, a. 1; Summa Theol. II-II, q. 171, a. 4, ad 2.
60
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 20-24.
61
Vedi sopra, cap. 9.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 225
l’azione degli autori ispirati era considerata soltanto entro il quadro ge-
nerale della profezia, cioè in funzione della conoscenza carismatica delle
verità divine che caratterizza i depositari della rivelazione. Ma il problema
dell’ispirazione scritturistica tocca meno questo aspetto delle cose, che non
invece, la comunicazione della rivelazione da parte di coloro che hanno la
missione di fissarla per iscritto, qualunque sia l’origine della conoscenza
che essi hanno63.
La santa chiesa romana confessa che un solo, identico Dio è autore del
l’Antico e del Nuovo Testamento, cioè della legge, dei profeti e del vangelo,
perché i santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispira-
zione del medesimo Spirito Santo (eodem Spiritu Sancto inspirante). Essa
accetta e venera i loro libri, che sono indicati da questi titoli… (EB 47; CE
500; FC 57).
62
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 24.
63
P. Grelot, La Bibbia e la teologia, 100.
64
Cfr. un «excursus storico» sull’ispirazione verbale nei Riformatori del XVI secolo, in
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 61-69.
226 La Bibbia è parola di Dio
65
Cit. in ibid., 61.
66
Cit. in ibid., 62.
67
Vedi sopra, § 2.3.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 227
E poiché il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri sacri
e nelle tradizioni non scritte – che, raccolte dagli apostoli per bocca dello
stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo
(Spiritu Sancto dictante), tramandate quasi di mano in mano, sono giunte
fino a noi – seguendo l’esempio dei padri ortodossi, con uguale pietà e pari
riverenza accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testa-
mento – Dio infatti è autore dell’uno e dell’altro – ed anche le tradizioni
stesse, che riguardano la fede e i costumi, poiché le ritiene dettate dallo
stesso Cristo oralmente dallo Spirito Santo (vel a Spiritu Sancto dictatas), e
conservate con successione continua nella chiesa cattolica. E perché nessuno
possa dubitare quali siano i libri accettati dallo stesso sinodo come sacri, esso
ha creduto opportuno aggiungere a questo decreto l’elenco… (Sessione IV,
8 aprile 1546; EB 57; CE 524ss.; FC 59).
68
D. Bañez, nel suo commento In Primam Partem Summae Theologiae, q. 1, a. 8.
69
Le tre tesi di Lessio erano così formulate: «1) Perché un testo sia Scrittura sacra,
non è necessario che le singole parole siano ispirate dallo Spirito Santo; 2) non è neppure
necessario che le singole verità e proposizioni siano ispirate immediatamente dallo Spirito
Santo allo scrittore; 3) se di un libro (come forse è il caso del Secondo libro dei Maccabei)
scritto per opera dell’uomo senza l’assistenza dello Spirito Santo, lo Spirito Santo attesta
che ivi non c’è nulla di falso, esso diviene Scrittura Sacra». Ai suoi accusatori Lessio rispose
nel maggio 1587, chiarendo di «aver soltanto voluto dire che non fu necessaria una nuova
e positiva ispirazione perché gli agiografi scrivessero ogni proposizione ed ogni parola
[…], ma che bastò un particolare impulso dello Spirito Santo perché scrivessero ciò che
avevano prima udito e veduto o altrimenti conosciuto e, simultaneamente, l’assistenza,
ed eventualmente la direzione dello Spirito Santo su tutte le proposizioni e le parole che
gli agiografi scrivevano». Questa precisazione fece sì che Roma dichiarasse le proposizioni
di Lessio «sanae doctrinae articulos». Da notare che la terza proposizione di Lessio non
cade di per sé sotto la condanna del Vaticano I: egli, infatti, parla di approvazione dello
Spirito Santo, né riduce l’ispirazione alla sola approvazione conseguente da parte della
chiesa. Sulle tesi di Lessio, cfr. C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1,
61ss.; L. Pacomio, La Bibbia nella teologia dei secc. XIII-XIV fino alla vigilia del Concilio
Vaticano II, 163; Ch. Pesch, De inspiratione Sacrae Scripturae, 279-281.
70
J.M. Jahn, Einleitung in die göttlichen Schriften des Alten Bundes 1/2, Vienna 18922,
91ss.104-111.
71
D. Haneberg, Versuch einer Geschichte der biblischen Offenbarung, Ratisbona 1850,
714.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 229
La chiesa non ritiene i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento sacri e ca-
nonici perché, composti per iniziativa umana, siano stati poi approvati dalla
sua autorità, e neppure solo perché contengono la rivelazione senza errore,
ma perché, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto in-
spirante conscripti), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati
alla chiesa (EB 77; CE 762; FC 62).
la chiesa non può trasformare in parola di Dio ciò che era parola pu-
ramente umana. Nemmeno lo Spirito può attendere che il risultato sia
completo, per impadronirsene: non lo convertirà in tal modo in parola
sua. Allo stesso modo Gesù Cristo non è Dio per un’apoteosi tardiva nel
seno della chiesa, che tributa onori divini al suo eroe; e nemmeno per una
irruzione dello Spirito che si appropria di un uomo perfetto e lo deifica.
Non c’è nessun momento nella vita dell’uomo Gesù, in cui quest’uomo
non sia vero Dio73.
72
Cfr. N.Y. Weyns, De notione inspirationis biblicae iuxta Concilium Vaticanum, in Ang
30 (1953) 315-336; J. Salguero, El Concilio Vaticano I y la doctrina sobre la inspiración de
la S. Escritura, in Ang 47 (1970) 308-347; J. Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture,
66-69 (con note); C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza 1, 67-70.
73
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 45.
230 La Bibbia è parola di Dio
74
Ibid., 46.
75
Vedi sopra, § 2.2.
76
Cit. in L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 72.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 231
In ogni libro, egli dice, ci sono due elementi: uno formale, cioè i
pensieri e i concetti; uno materiale, cioè le parole che li esprimono.
L’autore di un libro è tale anche se si limita ad offrire i pensieri e i con-
tenuti del libro e lascia l’impresa della loro formulazione scritta a un suo
collaboratore. Ebbene, Dio resta vero autore dei libri della Bibbia anche
se soltanto l’elemento formale della Scrittura («res, sententiae, argumen-
tum») è propriamente di Dio; l’elemento invece materiale (l’espressione
letteraria dei contenuti) è dello scrittore umano, il quale però in virtù
dell’ispirazione esprime in modo infallibilmente esatto quanto Dio vuole
comunicare attraverso i libri sacri.
Benché il Vaticano I non avesse accolto il concetto franzeliano di
“autore”, la teoria di Franzelin fece scuola per vari decenni, anche se
non mancò di trovare forti obiezioni. Merita di essere ricordato J.M.
Lagrange O.P. († 1938) il quale, in tre articoli apparsi in Revue Bibli-
que77, fece notare quello che oggi appare ancor più evidente, alla luce
della filosofia del linguaggio: che cioè, dal punto di vista della psicologia
di un autore letterario, non è concepibile una scissione tra pensieri e
linguaggio, visto che lo scrittore non concepisce pensieri se non in un
determinato linguaggio78.
6.1. D
alla Providentissimus Deus
alla Divino Afflante Spiritu
77
J.M. Lagrange, Une pensée de Saint Thomas sur l’inspiration scripturaire, in RB 4
(1895) 563-571; Inspiration des livres saints, in RB 5 (1896) 198-220; L’inspiration et les
exigences de la critique, in RB 5 (1896) 495-518.
78
A proposito della “teoria” di Franzelin, L. Alonso Schökel (La Parola ispirata, 61)
scrive: «Attualmente tale impostazione è superata. Non solo la soluzione “Dio le idee,
l’uomo le parole”, ma la stessa impostazione “o le idee o le parole”, perché essa suppone
una concezione del linguaggio e dello stile che nella realtà non si avvera; è una distinzione
speculativa, di laboratorio, che pecca di intellettualismo, come se contassero soltanto le
idee. Inoltre il dilemma implicito nell’argomentazione “O Dio detta le parole, o le parole
sono soltanto dell’agiografo” è scorretto; c’è un terzo corno del problema, che è l’impulso
vitale senza dettato in senso stretto. Attualmente la maggioranza dei teologi considerano
ispirato il concreto letterario, senza distinguere tra fondo e forma: il concreto letterario
è un sistema di parole significative. Ma ispirare non è uguale a dettare, nella comune
accezione del vocabolo».
232 La Bibbia è parola di Dio
Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini
come strumenti per scrivere, come se qualche errore abbia potuto sfuggire
non certamente all’autore principale, ma agli scrittori ispirati.
Infatti egli stesso così li eccitò e li mosse a scrivere con la sua virtù sopran-
naturale, così li assisté mentre scrivevano di modo che tutte quelle cose
e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e
avessero la volontà di scriverle fedelmente e le esprimessero in maniera atta
con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l’autore di tutta
la sacra Scrittura (EB 125; FC 70).
Dio conferita la grazia dà in anticipo un lume alla mente dello scrittore per
proporre agli uomini la verità come «da parte della persona di Dio» (san
Girolamo); e inoltre muove la sua volontà e la spinge a scrivere; e lo assiste
infine in modo speciale e continuo, finché abbia composto il libro (EB 448;
FC 76). (Segue poi la descrizione dell’ispirazione della Providentissimus Deus,
citata alla lettera).
79
J. Beumer, L’inspiration de la Sainte Écriture, 76.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 233
Infine, l’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII del 1943 richiama
esplicitamente l’idea di strumentalità cara a Tommaso d’Aquino e sot-
tolinea che le caratteristiche personali dell’autore umano non vengono
eliminate né ridotte dall’attività dello Spirito. L’enciclica di fatto non
descrive la natura dell’ispirazione nei termini della Providentissimus Deus
o della Spiritus Paraclitus; essa afferma soltanto che su tale questione i
teologi moderni hanno potuto esplorare e proporre più adeguatamente
e perfettamente che non nei secoli passati la loro riflessione:
Essi, partendo dal fatto che l’agiografo nella composizione del libro sacro è
l’organon ovvero lo strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e do-
tato di intelligenza, fanno giustamente osservare che esso strumento, spinto
dalla mozione divina, usa talmente delle sue facoltà e delle sue forze che tutti
possono facilmente ricavare dal libro, che è sua opera, l’indole propria di
ciascuno, i suoi lineamenti, le sue singolari caratteristiche (EB 556).
80
Cfr., per esempio: E. Florit, Ispirazione biblica; C.M. Martini – P. Bonatti, Il
messaggio della salvezza 1; H. Höpfl – L. Leloir, Introductio generalis in Sacram Scriptu-
ram; G.M. Perrella – L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, 1: Introduzione generale,
Marietti, Torino 1960; F. Spadafora – A. Romeo – D. Frangipane, Il libro Sacro, 1:
Introduzione generale, Messaggero, Padova 1958.
234 La Bibbia è parola di Dio
Proprio a motivo del fatto che nessuno schema può essere imposto
«come forma adeguata ed esclusiva» in assoluto, altri teologi, come lo
stesso L. Alonso Schökel, P. Benoit e K. Rahner82, hanno intrapreso altre
strade di riflessione.
7. Il concilio Vaticano II
«Per comporre poi questa divina Scrit- «Le verità divinamente rivelate, che
tura, Dio stesso eccitò e mosse alcuni nei libri della Sacra Scrittura sono conte-
scrittori sacri o agiografi in modo tale nute ed espresse, furono scritte per ispira-
che essi concepissero rettamente con la zione dello Spirito Santo. La Santa madre
mente e consegnassero fedelmente allo chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e
scritto tutte quelle cose e quelle sole che canonici tutti interi i libri sia del Vecchio
egli [Dio] come Autore primario delle che del Nuovo Testamento, con tutte le
Scritture voleva (cfr. Providentissimus loro parti, perché scritti per ispirazione
Deus). dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm
La divina Ispirazione infatti, confor- 3,16; 2 Pt 1,19-21; 3,15s.), hanno Dio
me alla costante dottrina della chiesa, è per autore e come tali sono stati conse-
81
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 160.
82
Vedi sotto, cap. 11.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 235
un carisma speciale in ordine allo scri- gnati alla chiesa. Per la composizione dei
vere mediante il quale Dio, agendo nel libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini
l’agiografo e attraverso di lui, parla agli nel possesso delle loro facoltà e capaci-
uomini mediante lo scritto, e perciò egli tà, affinché, agendo egli in essi e per loro
[Dio] viene chiamato ed è in senso vero mezzo, scrivessero come veri autori tutte e
l’Autore principale di tutt’intero il testo soltanto quelle cose che egli voleva fossero
sacro. L’agiografo invece, nel comporre scritte» (DV 11).
il libro, è l’organon ovvero lo strumento
dello Spirito Santo, ma strumento vivo
e dotato di ragione, la cui propria indole
pertanto insieme alle sue singolari ca-
ratteristiche possono essere raccolte dal
libro sacro (cfr. Divino Afflante Spiritu).
Perciò la chiesa a buon diritto disapprova
ogni tentativo di snaturare (extenuandae)
la natura dell’ispirazione, soprattutto il
tentativo col quale questo modo con-
giunto di scrivere di Dio e dell’uomo
viene ridotto ad un impulso meramente
naturale o a semplice moto dell’animo»
(De fontibus Revelationis 8).
Parimenti, essendo Dio stesso, per ispirazione del suo stesso divino Spiri-
to, autore di tutta la sacra Scrittura, e pertanto come lo scrittore («veluti
scriptor») di tutte le cose ivi redatte per mano dell’agiografo, ne consegue
anche che tutte e singole le parti, anche minime, dei libri sacri sono ispirate
(ibid., 11).
83
Per la storia delle successive redazioni che hanno portato dallo schema «De fontibus»
al testo definitivo sull’ispirazione, cfr. A. Grillmeier, in Aa.Vv., Commento alla Cost.
Dogm. sulla Divina Rivelazione, ElleDiCi, Leumann 1967, 124-129.137-139. Cfr. an-
che F. Gil Hellin, Dei Verbum, 82; C. Aparicio Valls, L’ispirazione alla luce dei testi
del Vaticano II, in P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 321-335.
84
Vedi sopra, cap. 9.
La chiesa si interroga sul mistero della Bibbia 237
85
M.A. Tábet, Introduzione generale, 70-73.
86
Vedi sotto, cap. 11.
87
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 47-49.
238 La Bibbia è parola di Dio
88
Ibid., 76.
11.
Sviluppi successivi al Vaticano II
e problemi ancora aperti
Bibliografia: W.J. Abraham, The Divine Inspiration of Holy Scripture, University Press,
Oxford 1981; J. Barr, The Bible in the modem World, SCM, London 19772; J. Beumer, La
théologie contemporaine dépuis le milieu du XIXe siecle, in Id., L’inspiration de la Sainte Écri-
ture, du Cerf, Paris 1972, 70-79.123-125; R. Cavedo, Libro Sacro, in NDT, 753-778 ; T.
Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scritture (LoB
3.3), Queriniana, Brescia 1982; A. Dalles, Scripture: Recent Protestant and Catholic Views,
in Theology Today 37 (1980-1981) 7-26; H. Haag, Problematica attuale dell’ispirazione, in
MS 1, 474-482; L. Pacomio, Verso e oltre il Vaticano II, in C.M. Martini – L. Pacomio
(edd.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, Torino 1975,
196-224. Cfr. anche la bibliografia già ricordata all’inizio del cap. 10 (p. 205).
Sull’autorità della Bibbia all’interno del dialogo ecumenico vedi il documento su:
L’autorità della Bibbia della Commissione «Fede e Costituzione» del Consiglio Ecumenico
delle Chiese (CEC), approvato nella riunione di Lovanio nel 1971, la prima cui presero
parte come membri a pieno titolo teologi della chiesa cattolica: in La Bibbia. La sua
autorità e interpretazione nel movimento ecumenico, a cura di E. Flesseman-van Leer, ed.
it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, ElleDiCi - Claudiana, Leumann - Torino 1982, 61-
79; A. Maffeis, Il rapporto tra Scrittura, Tradizione e Magistero nei documenti del dialogo
cattolico luterano, in ATI, Teologia dalla Scrittura. Attestazioni e interpretazioni, Glossa,
Milano 2011, 325-350.
Già prima del Vaticano II la riflessione dei biblisti e dei teologi si era
spinta oltre i limiti di una trattatistica, più o meno ferma all’analisi della
psicologia dell’autore ispirato. Ma la Dei Verbum, oltre a far tesoro di
quella riflessione1, ha indubbiamente favorito l’ulteriore approfondi-
mento di una problematica tuttora aperta.
1
Vedi sopra, cap. 10, 7.
240 La Bibbia è parola di Dio
Al criterio di una rassegna, per altro utilissima, dei nomi più presti-
giosi e delle rispettive posizioni2, preferiamo individuare nei contributi
dei biblisti e dei teologi contemporanei alcune piste di riflessione che
coincidono con i problemi ancora oggi in discussione circa la storia e
la natura dell’ispirazione biblica, confrontate con i dati delle scienze
bibliche odierne.
1. D
io “autore” della Bibbia
e uomini “scrittori” dei libri sacri (la tesi di K. Rahner)
L’affermazione che Dio e l’uomo sono entrambi autori dei libri sacri
fa parte del linguaggio del magistero e del linguaggio teologico. Ma è
certo che l’attività di Dio come autore della sacra Scrittura non può
essere messa sullo stesso piano di quella esercitata dall’uomo-scrittore,
dal momento che la medesima opera, considerata sotto il medesimo
aspetto, non può avere che un’unica causa. Se assumiamo il concetto di
“autore” e lo applichiamo ad ambedue i termini della questione (Dio e
l’agiografo) nell’accezione di “autore letterario” e sotto lo stesso punto
di vista, non si esce dal dilemma: o Dio è l’autore della Bibbia, e allora
l’agiografo è un puro segretario; oppure l’agiografo è il vero autore della
Bibbia, e allora Dio è relegato in un ruolo secondario, per esempio il
ruolo di colui che approva con una specie di nihil obstat.
Karl Rahner3 parte da questa e da altre obiezioni per una riflessione
teologica dalla quale risulti
che Dio sia autore della Scrittura sotto un punto di vista che: a) lasci im-
pregiudicato un essere veramente Dio (anche se in modo analogo) autore
letterario, e nello stesso tempo non sia lo stesso punto di vista sotto cui l’uo-
mo è autore letterario, e precisamente, b) in modo tale che questo punto di
2
Cfr. un primo elenco in L. Pacomio, Verso e oltre il Vaticano II.
3
K. Rahner, Sull’ispirazione della Sacra Scrittura («Quaestiones Disputatae» 1), Mor-
celliana, Brescia 1967. La tesi elaborata in questa monografia viene da lui stesso riassunta
in L’ispirazione della Scrittura, in K. Rahner et alii, Discussione sulla Bibbia (GdT 1),
Queriniana, Brescia 1966, 19-31; cfr. anche K. Rahner, Corso fondamentale della fede,
Edizioni Paoline, Alba 1977, 470-477.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 241
vista esiga (e non soltanto permetta –- e questo per di più solo con arbitrari
sotterfugi) che vi sia un autore letterario umano4.
4
K. Rahner, Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, 21. Rahner osserva polemicamente
(p. 9) che gli esegeti cattolici sembrano in genere non voler avere niente a che fare con la
questione dell’ispirazione della Scrittura.
242 La Bibbia è parola di Dio
5
Vedi sopra, 3. «La Scrittura appartiene all’essenza concreta, pienamente sviluppata,
della chiesa, quindi ai suoi elementi costitutivi» (Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, 59).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 243
tempo si va formando appunto in modo tale che più tardi ci si debba atte-
nere unanimemente a questa dottrina e a questi fatti6.
6
Ibid., 69.
7
Vedi sotto, cap. 13.
244 La Bibbia è parola di Dio
8
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, cap. 3, «Critiche e proposte riguardo alle discus-
sioni moderne», 56-92.
9
Vedi sopra, cap. 10, 6.
10
Cfr. E. Lévêsque, Questions actuelles d’Écriture Sainte, in RB 4 (1895) 420-428.
11
Vedi sopra, cap. 10, 5.
12
R. Cavedo, Libro Sacro, 766.
13
Vedi sopra, cap. 10, 4.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 245
14
P. Benoit, Rivelazione e ispirazione, 71.
15
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 164s.
16
R. Cavedo, Libro Sacro, 767.
246 La Bibbia è parola di Dio
a) L’opera ispirata
17
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 231-254.
18
Vedi sopra, cap. 9, 3.
19
Vedi sotto, cap. 17.
20
Vedi sopra, cap. 10.
21
L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 232s..
22
Ibid., 233.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 247
Affermare che tutti i piani dell’opera concreta cadono sotto l’ispirazione non
significa livellare tutti i piani: non significa elevare a proposizione infalli-
bile una frazione ritmica espressiva. Quando diciamo che la natura umana
di Cristo è assunta dalla Persona divina, da un lato non escludiamo dal
l’incarnazione alcun membro, né organo, né tessuto; dall’altro non livellia-
mo in una massa uniforme il complesso organismo dell’uomo Cristo. Ogni
membro e organo è assunto secondo la sua funzione particolare […]. In
modo analogo dobbiamo concepire l’opera, che è l’immagine dell’uomo: è
ispirata la sua intera creazione, ogni elemento secondo la sua funzione nel
porgerci la rivelazione di Dio. Se ci pare che con ciò la semplice, spirituale,
purissima intellezione di Dio ne resti umiliata, accettiamo questo mistero
di umiliazione o “svuotamento” come rivelazione di amore. Assieme al
l’humiliavit semetipsum dell’incarnazione, i Padri ripetono l’occultamento
della divinità “nell’espressione umile”24.
23
Cfr. ibid., 243ss.
24
Ibid., 239s.
25
Ibid., 165-170.
26
Cfr. ibid., 190-194.
248 La Bibbia è parola di Dio
27
Cfr. ibid., 170-187; 187-190, esempi dal NT (vangeli ed epistole).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 249
La maggior parte dei libri della Bibbia non è stata scritta di getto da
un solo autore; i libri biblici si sono spesso andati formando poco a poco
e con l’apporto di diverse persone per lo più rimaste anonime, prima
di acquistare la loro definitiva forma letteraria28. Il nostro concetto di
“autore”, usato oggi nella cultura delle editorie e dei libri stampati, non
basta più ad abbracciare e a spiegare la realtà nuova emersa dalla moder-
na ricerca biblica. Il problema dell’ispirazione biblica acquista così una
nuova complessità: è ispirato soltanto il redattore finale di un libro il cui
personale contributo poté anche essere non rilevante29, oppure hanno
goduto del carisma dell’ispirazione tutti gli autori che contribuirono alla
sua elaborazione?
Limitare l’ispirazione all’ultimo autore e basta, equivarrebbe in di-
versi casi a trasformare in figure di primo piano collaboratori in ultima
analisi secondari, ed escluderebbe in pratica la diretta ispirazione di una
buona parte del testo di alcuni libri, appunto quello che il redattore ha
semplicemente usato come “fonte” limitandosi a farla propria e assicu-
randola all’ispirazione solo attraverso tale procedimento. Sembra invece
più corretto estendere l’ispirazione ai diversi autori che hanno parteci-
pato alla formazione di un libro e nella misura del loro contributo: Dio
avrebbe guidato l’intero processo della formazione letteraria di un libro,
soprattutto nei suoi momenti decisivi.
28
Vedi sopra, cap. 5. Cfr. J.-L. Ska, Ispirazione e metodo storico-critico, in P. Dubov-
sky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 77-99. L’ispirazione non è tanto nelle
parole, ma nella musica; vale a dire nell’atto della lettura e nell’atto dell’interpretazione;
non nei singoli libri, ma nella Scrittura nella sua totalità (cfr. p. 97).
29
Vedi sopra, cap. 5. Basti pensare al libro del profeta Ezechiele: la maggior parte del
testo è opera di Ezechiele, ma il libro delle sue profezie fu composto più tardi da un
discepolo; anzi il libro fu ripetutamente arricchito, subendo successivamente aggiunte e
rielaborazioni; in pratica, l’ultimo redattore sarebbe direttamente responsabile neppure
della centesima parte del libro attuale.
250 La Bibbia è parola di Dio
vista come un solo tutto e per questo produrrebbe il suo effetto d’inerranza
un’unica volta, al momento del risultato finale di questa collaborazione30.
30
N. Lohfink, Il problema dell’inerranza, in Aa.Vv., La “verità” della Bibbia nel dibat-
tito attuale (GdT 21), Queriniana, Brescia 1968, 31 (21-63).
31
Si tratta della proposta di M. Gilbert: L’Ecclésiastique. Quel text? Quelle autorité?, in
Id., Ben Sira. Recueil d’études – Collected Essays (BETL 264), Peeters, Leuven 2014, 23-38.
32
Cfr. P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 344.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 251
Dire che esistono non uno ma più autori ispirati, non esaurisce tut-
tavia il problema. L’azione dello Spirito – come ha ben sottolineato P.
Benoit33 – è enormemente più ampia ed è precedente all’atto di scrivere,
pur sempre finalizzata e collegata alla messa in scritto. Dio chiama, edu-
ca, promuove, giudica e salva il suo popolo per mezzo di intermediari
che il suo Spirito suscita e muove; prima che intervenga il carisma del
l’ispirazione scritturistica, i pastori ispirati costruiscono insieme a Dio,
come suoi strumenti, la storia della salvezza, e i profeti ispirati educano
lo spirito e la coscienza del popolo a comprendere la storia di Dio e degli
uomini, la interpretano e la proclamano a nome di Dio.
Anzi, il carisma dell’ispirazione biblica propriamente detta si inserisce
organicamente e in maniera specifica nel complesso dei carismi con-
cernenti l’annuncio e la conservazione della parola di Dio, carismi che
strutturano la comunità israelitica dell’AT e ancor più quella cristiana
del NT, scelta, mossa e assistita dallo Spirito del Signore Gesù risorto,
affinché sia in grado di ricevere e di trasmettere il sacro deposito della
rivelazione e di diffonderlo tra i popoli. È la tesi di Pierre Grelot34:
Dio ha provveduto a far pervenire la sua parola agli uomini e a farla conser-
vare integralmente nel suo popolo per mezzo di tre specie di carismi, affidan-
do agli uni la missione di profeta o di apostolo, assistendo altri nell’esercizio
di diverse funzioni, ispirando altri ancora perché scrivessero dei libri35.
I profeti nell’AT e gli apostoli nel NT sono, in virtù del loro cari-
sma specifico, gli agenti prìncipi della divina rivelazione. Tuttavia altri
membri della comunità, nella quale il messaggio rivelato viene ricevuto
e custodito, godono dell’assistenza divina dello Spirito anche in altre
forme. Sono questi, al parere di Grelot, «i carismi funzionali» che strut-
turavano la tradizione vivente del popolo di Dio. Per l’AT: «gli anziani»
(Nm 11,16ss.), «i sacerdoti leviti» (Lv 8,12.30), «i cantori» del tempio (1
Cr 25,1-3), «i saggi» e «gli scribi» (Sir 15,1-6; 24,33; 39,1-8; 51,22-30;
Sap 7,27); per il NT: «i presidenti» (Rm 12,8), «i pastori» (Ef 4,11), «i
33
Vedi sopra, cap. 9.
34
P. Grelot, La Bible Parole de Dieu, 48-66; La Bibbia e la teologia, 101-104.
35
P. Grelot, La Bibbia e la teologia, 101.
252 La Bibbia è parola di Dio
36
Cfr. J.L. McKenzie, The social Character of Inspiration, in CBQ 24 (1962) 115-124;
D.J. McCarthy, Personality, Society and Inspiration, in TS 24 (1963) 553-576 (riprende,
sviluppa, ma anche ridimensiona la tesi di McKenzie); L. Alonso Schökel, La Parola
ispirata, 192-202 (riferisce le posizioni di McKenzie e di McCarthy, sottoponendole a
critica); M. Adinolfi, Aspetti comunitari dell’ispirazione, in RBI 14 (1966) 181-199.
37
La Sancta Mater Ecclesia (Istruzione sulla verità storica dei Vangeli) della Pontificia
Commissione Biblica, emanata durante il concilio Vaticano II (cfr. AAS 56 [1964] 712-
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 253
718; EB 644-659) afferma al n. 1: «Ove convenga, sarà lecito all’esegeta esaminare gli
eventuali elementi positivi offerti dal “metodo della storia delle forme” per servirsene
debitamente per una più profonda intelligenza dei vangeli. Lo farà tuttavia con cautela
perché spesso il suddetto metodo è connesso con princìpi filosofici e teologici da non
ammettersi, i quali viziano non raramente sia il metodo stesso, sia le conclusioni in materia
letteraria». E tra questi princìpi l’istruzione ricorda appunto quello dell’anonima comu-
nità creatrice: «Altri fautori di questo metodo, infine, tenendo in poco conto l’autorità
degli apostoli in quanto testimoni di Gesù Cristo, nonché del loro ufficio e influsso nella
comunità primitiva, esagerano il potere creativo di detta comunità» (n. 1). Il paragrafo 19
della Dei Verbum non fa altro che riassumere l’istruzione Sancta Mater Ecclesia, e la cita
espressamente in nota.
38
Cfr. L. Alonso Schökel, La Parola ispirata, 201-209.
39
Vedi sopra, cap. 6.
254 La Bibbia è parola di Dio
40
Cfr. pp. 505-506.
41
P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 353.354; cfr. nello stesso
volume A. Gianto, Linguistica e ispirazione, 204-222.
42
B. van Iersel, La Bibbia come libro del popolo di Dio, in Concilium 4/1965, 34-48.
43
Vedi sopra, cap. 11,1.
44
«Dunque, è giusto affermare che, se la parola di Dio ha convocato e generato la
chiesa, è anche vero che la chiesa è stata in qualche modo la matrice delle Sacre Scritture,
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 255
Spiegare quanto lì è detto, nel suo pieno significato, è cosa infatti che supera
ogni capacità umana. Anzi non esito a dire, fratelli miei, che forse neppure
lo stesso Giovanni ne fu capace: parlò come poté, perché era un uomo che
parlava di Dio. Ispirato, certamente, però sempre uomo. Grazie all’ispirazione,
qualcosa poté dire: se non fosse stato ispirato, non ci avrebbe detto proprio
niente. Ma, benché fosse ispirato, non poté dirci tutto il mistero: disse ciò
che un uomo poteva dire47.
questa chiesa che ha espresso o riconosciuto in esse, per tutte le generazioni future, la sua
fede, la sua speranza, la sua regola di vita in questo mondo. Gli studi degli ultimi decenni
hanno contribuito in misura importante a mettere in risalto il rapporto stretto e il legame
che uniscono indissolubilmente la Scrittura alla chiesa […]» (Paolo VI ai membri della
Pontificia Commissione Biblica sull’Importanza degli studi biblici per l’attività della chiesa,
discorso pronunciato il 14 marzo 1974, in AAS 66 [1974] 235s.; per una citazione più
ampia del testo di Paolo VI, cfr. pp. 520-521).
45
Vedi sopra, cap. 8.
46
Vedi sopra, cap. 9.
47
In Joh. Evang. 1,1 (trad. it., Commento al Vangelo di Giovanni 1, Città Nuova, Roma
1965, 20 [PL 35,1379]).
256 La Bibbia è parola di Dio
48
Cfr. C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, in Aa.Vv., Incontro con la Bibbia,
43-47 («Il libro sacro nell’ambito della Parola di Dio»); P. Stuhlmacher, Vom Verstehen
des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik, 45-47 («Autorität und [dreifache] Gestalt des
biblischen Zeugniswortes»); O. Semmelroth, Teologia della Parola, 17-172; K.H. Schel
kle, Sacra Scrittura e Parola di Dio, in Aa.Vv., Esegesi e Dommatica, 11-37.
49
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 44; cfr. anche Verbum Domini, n. 7.
50
Vedi sotto, § 7.2.
51
P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 257
fede nel contesto della triplice (almeno) forma della parola di Dio e in
connessione reciproca:
La Bibbia è debitrice alla parola rivelata di Dio, che acquista nella persona
di Gesù Cristo la sua forma completa; essa è il documento, elevato a canone
della chiesa, della testimonianza di quella parola di rivelazione storicamente
sviluppatasi; è il documento che provoca l’annuncio della parola di Dio da
parte della chiesa e a un tempo ne legittima il contenuto52.
52
Ibid., 47.
53
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 42.
54
Ibid., 45.
258 La Bibbia è parola di Dio
già qui le parole di Dio hanno una qualche incompletezza, che ne mette
in luce il carattere dinamico: sono «Parole verso», «Parole a»55. 4. «Parole
di Dio sono anche le parole scritte di tutti coloro che, in connessione con
l’attività profetica e apostolica, hanno scritto per ispirazione divina. Sono
i profeti scrittori, gli apostoli, gli evangelisti, i saggi, i cronisti, i legislatori,
i poeti. Ecco la Bibbia, che appare in questo quarto momento di analisi
della parola di Dio. Soltanto ora passiamo dalla parola parlata alla parola
scritta. La Bibbia ci conserva le parole degli apostoli, dei profeti ecc., messe
in scritto per ispirazione di Dio, per manifestare il suo piano di salvezza
nel Cristo»56. 5. Infine, parola di Dio è la parola della predicazione cristiana
viva: quando si predica la fede, la conversione, Gesù Cristo, si ha nella
chiesa un evento che si può chiamare «parola di Dio»57.
55
Dobbiamo in realtà aggiungere anche quella “parola” di Dio che giunge a noi tramite
la creazione e tramite la storia; cfr. Verbum Domini, nn. 8-9.
56
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 46.
57
Cfr. la monografia di D. Grasso, L’annuncio della salvezza, D’Auria, Napoli 1970,
specialmente il cap. 2.
58
Cfr. H. Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 495-521; Mons.
N. Edelby, intervento al concilio Vaticano II: vedi sopra, cap. 2, 5.4 (p. 56).
59
H. Urs von Balthasar, Gloria 1, 509.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 259
60
C.M. Martini, Parola di Dio e parola umana, 46.
61
Cfr. O. Semmelroth, Teologia della Parola, 140ss.
62
P.L. Ferrari, La Dei Verbum, Queriniana, Brescia 2005, 91-92.
260 La Bibbia è parola di Dio
63
K.H. Schelkle, Sacra Scrittura e Parola di Dio, 16s.
64
Vedi sopra, cap. 9.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 261
che gli esseri umani rivolgono a Dio. Il fatto che nella Bibbia si trovino
preghiere ha in realtà una conseguenza ermeneutica importante:
«Si rimane sorpresi, di primo colpo, che nella Bibbia vi sia un libro di pre-
ghiere. La Bibbia non è infatti tutta una parola rivolta a noi da Dio? Ora, le
preghiere sono parole umane, e perciò come possono trovarsi nella Bibbia?
Ma la Bibbia è parola di Dio anche nei Salmi! […]. Se la Bibbia contiene un
libro di preghiere, dobbiamo dedurne che la parola di Dio non è soltanto
quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi
rivolgere da noi»65.
65
D. Bonhoeffer, Pregare i Salmi con Cristo, Queriniana, Brescia 1978, 66.68.
66
B. Costacurta, Gli Scritti: una Parola che viene da Dio, in P. Dubovsky – J.P. Son-
net (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 75.
67
Cfr. L. Pacomio, Erasmo di Rotterdam e i riformatori protestanti: Lutero e Calvino,
in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio, 127-149; K. Barth, Dogmatique,
vol. I, tom. 2***, 61-69.
68
Vedi sopra, cap. 10, 4.
69
«Denn alle Schrift von Gott eingegeben ist nütze zur Lehre, zur Strafe…» (è questa la
262 La Bibbia è parola di Dio
traduzione di Lutero di 2 Tm 3,16): cfr. Die Bibel oder die ganze Heilige Schrift des alten
und neuen Testaments II (nach der deutschen Übersetzung Dr. Martin Luthers), Köln
1859, 219.
70
Comm. ad Rom. 7,1; Ad lib. Ambr. Cath.; cit. in K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom.
2***, 63.
71
G. Calvino, Institutio christianae religionis 1,7,4 (cfr. Istituzione della religione cri-
stiana [1559], a c. di G. Tourn I, Torino 1971, 179).
72
Ibid.
73
Instit., 1,9,3 (G. Tourn I, 197s.).
74
Osserviamo come la frase citata non si trovi come tale nelle opere di Lutero. Cfr. la
prefazione alle lettere di Giacomo e Giuda citata al cap. 15.2. Il testo di Lutero che più si
avvicina è questo: «Auch ist dies der rechte Prüfstein, alle Bücher zu taddeln [= “indagare”
oppure “screditare”], wenn man sihet, ob sie Christum treiben oder nicht» (WA Deutsche
Bibel VII, 385,26).
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 263
Noi l’abbiamo detto, lo stesso Paolo vede già nel canone dell’antica alleanza
una lettera santa, una scrittura rivestita di autorità divina, e considera le sue
parole come “dettate dallo Spirito”. Come negare che l’opera dello Spirito
Santo comporta ugualmente questo aspetto? Ma allora perché attaccar-
visi, per così dire, esclusivamente? Si comprende ancora ciò che significa
l’ispirazione dei profeti e degli apostoli, quando si dimentica che soltanto
attraverso lo Spirito essi hanno avuto comunicazione della rivelazione che
è alla base delle loro testimonianze parlate o scritte, e che i loro uditori e
lettori hanno essi stessi bisogno di questo medesimo Spirito per intenderle
veramente? Non significa oscurare pericolosamente l’intervento della libera
grazia, così chiaramente indicata in Paolo, il mettere in primo piano e come
alla nostra portata uno dei suoi effetti, dicendo: un giorno, in tale luogo,
alcuni hanno parlato e scritto sotto l’impulso dello Spirito Santo? Certo, la
cosa è perfettamente esatta: i profeti hanno parlato e scritto sotto l’impulso
dello Spirito Santo. È un fatto confermato da tutte le affermazioni di Paolo
stesso. Ma la grazia e il mistero che a ragione si sono riconosciuti in questo
fatto sono ancora la grazia e il mistero di Dio, della sua Parola nel senso
biblico del termine, quando se ne è ridotta la portata a quest’unico atto78?
75
Instit., 1,8,1 (G. Tourn I, 183).
76
Instit., 1,7,2 (G. Tourn I, 176).
77
Cfr. anche B. Mondin, I grandi teologi del XX secolo, 2: I teologi protestanti e ortodossi,
Borla, Torino 1969, 21-84; B. Gherardini, La seconda Riforma 2, Morcelliana, Brescia
1966, 80-196; H. Bouillard, Karl Barth, 3 voll., Aubier, Paris 1957.
78
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 59.
79
L’analogia entis ritiene di poter dire qualcosa di Dio, della sua natura, dei suoi attri-
264 La Bibbia è parola di Dio
buti, partendo dall’essere delle creature; l’analogia fidei è quella che si basa sulla rivelazione
divina e sulla sua grazia, che raggiunge noi e gli strumenti del nostro pensare e parlare, e
ci permette di fare uso degli strumenti (pensieri e parole) che la stessa rivelazione mette
a nostra disposizione.
80
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 59.
81
Cfr. K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 1*, 85-120.
82
Cfr. ibid., 192-220.
83
Ibid., 107.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 265
Ma, pur nel contesto di questa diversa teologia dialettica che in Brun-
ner diventa «teologia della corrispondenza, nella quale l’uomo è definito
come “essere responsabile”, “essere che risponde”, e, viceversa, la rivela-
zione è concepita come risposta di Dio mediante la sua automanifesta-
zione personale effettuata una volta per sempre»86, la risposta di Brunner
alla domanda: In che senso la Bibbia è parola di Dio, non è dissimile da
quella di Barth:
La fede cristiana è la fede nella Bibbia, nel senso che la Bibbia è il solo
84
Ibid., 106.
85
E. Brunner, Natur und Gnade, Furche, Berlin 1934, 19.
86
B. Mondin, I grandi teologi del XX secolo 2, 70.
266 La Bibbia è parola di Dio
luogo in cui Dio si indirizza a noi, ci giudica con la sua Parola, ci libera
dal giudizio e si comunica a noi come l’amore gratuito con il quale Dio ci
crea di nuovo87.
La parola della Bibbia diventa parola di Dio soltanto quando Dio stesso
ci parla. Ciò che nei confronti di Dio ci riempie di autentica adorazione,
di fiducia e di amore, non è questo principio assiomatico, ma l’autentico
incontro col Dio che si rivela a noi tramite la Scrittura […], ci chiama e si
intrattiene con noi88.
Soltanto Dio, in quanto colui che comunica se stesso a me, è parola di Dio. È
l’“Io” del Signore che mi eleva al rango di “suo servo” e che, al tempo stesso,
mediante la parola personale e paterna fa di me in Gesù Cristo il suo figlio.
Dio non ci istruisce su questo o su quello. Dio si apre personalmente a me
e con ciò mi apre ugualmente a me stesso. Tale è il significato che riveste
“la parola di Dio” nel suo incontro con me per mezzo della Bibbia: è un
dialogo tra persona e persona; ogni generalizzazione, ogni reificazione, ogni
oggettivazione è esclusa. La parola di Dio non è un qualcosa, qualcosa in
sé di obbiettivo, ma un processo diretto, una parola-esigenza e una parola-
grazia. La Bibbia non è “in sé” parola di Dio: lo è così poco quanto la fede
“in sé” è la fede. Ma in questo rapporto tra la parola di Dio e la fede, la
parola-atto di Dio, cioè quello che si è prodotto nella storia, viene per prima
come azione creatrice, e la fede viene sempre dopo come ciò che è creato89.
87
E. Brunner, Dogmatique III, Labor et Fides, Genève 1967, 299.
88
Ibid., 298.
89
Ibid., 306.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 267
90
F. Hahn, Sacra Scrittura e Parola di Dio, in J. Feiner – L. Vischer (edd.), Nuovo
libro della fede, Queriniana, Brescia 1975, 104-108.
268 La Bibbia è parola di Dio
parola umana della Bibbia contiene una serie di sorprendenti peculiarità che
non è dato osservare altrove, ciò non significa affatto che in quanto storici,
in quanto studiosi di religioni, noi possiamo per così dire scientificamen-
te acclamare la presenza della parola di Dio nella Bibbia […]. Se quindi
affermiamo la piena autorità della parola di Dio scritta, ciò non vuol dire
affatto che la parola di Dio “sia lì”, in modo che non gli occorra far altro che
indicarla a chiunque sia capace di leggere. La parola di Dio viene all’uomo
come promessa e pretesa, e ne avverte la forza solo colui che si espone a
quest’ultima. Altrettanto erroneo sarebbe affermare che la parola di Dio “av-
viene” là dove la parola biblica viene ascoltata come parola di Dio, La parola
di Dio, l’invito alla fede, ha di fatto trovato la sua verbalizzazione definitiva
nella Scrittura. È certo che la parola di Dio nella Bibbia appella alla fede
e tramite la fede si fa parola vivente e creatrice di vita: e tutto avviene non
senza un’azione “soggettiva”: non si dà fede che prescinda da una vita “sog-
gettiva”, personale e dal suo rapportarsi a una comunità. Che, ciononostante,
non scivoliamo in un certo qual “soggettivismo”, dipende dalla struttura
della fede stessa: la medesima fede che intende e sperimenta se stessa come
atto assolutamente personale dell’uomo, s’intende nel contempo non come
prestazione “soggettiva” dell’uomo, bensì come dono di Dio. Ma con ciò la
fede non “fa” della Bibbia la parola di Dio, con un intervento soggettivo:
essa la scopre come parola di Dio, facendosela scendere nel cuore inattesa,
incoercibile, insospettata, come apostrofe liberante di Dio91.
91
Ibid., 106s. Sostanzialmente su questa linea si muove il Documento L’autorità della
Bibbia della Commissione «Fede e Costituzione» del CEC, approvato nell’incontro di
Lovanio nel 1971 (vedi Bibliografia all’inizio del capitolo).
92
Cfr. K.L. Berge, Communication, in J.L. Mey (ed.), Concise Encyclopedia of Prag-
matics, Oxford 1998, 140-142.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 269
Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse
Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te
a te. Ora non lo posso interrogare. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei,
lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole […] invece non lo
posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità, Dio mio, da cui era perva-
so quando disse cose vere; mi rivolgo a te: perdona i miei peccati. E tu, che
concedesti al tuo Servo di enunciare queste cose vere, concedi anche a me
di capirle (et qui illi servo tuo dedisti haec dicere, da et mihi haec intelligere)96.
93
P. Dubovsky – J.P. Sonnet (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 355; cfr. M. Grilli,
L’“ispirazione” della Scrittura in chiave comunicativa, ibid., 222-240.
94
PL 76,843 («Nam tanto illa [divina eloquia] quisque altius intendit, quanto in eis altius
intendit»): Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, 1,7,8 (Città Nuova, Roma 19962).
95
Vedi sotto, cap. 19, 1.3.
96
Agostino, Conf. XI 3,5 (Le Confessioni, Città Nuova, Roma 1965, 370s.).
270 La Bibbia è parola di Dio
97
Cfr. Aa.Vv., Libri Sacri e Rivelazione, La Scuola, Brescia 1975; A. Giudici, Reli-
gioni e salvezza. Un confronto tra la teologia cattolica e la teologia protestante, Borla, Roma
1978; L. Newbigin, Cristo valore definitivo: il vangelo e «le religioni», EDB, Bologna
1972; I. Vempeny, Inspiration in the non-biblical Scriptures, Theological Publications in
India, Bangalore 1973; P. Rossano, Teologia e Religioni: un problema contemporaneo, in
R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale,
Queriniana, Brescia 1980, 374-376 (359-378). Notiamo come tale questione sia oggi
piuttosto trascurata nell’ambito cattolico; si pensi alle enormi difficoltà incontrate dal
saggio di J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia
1997, che ha tuttavia riscosso consensi da parte di pastori e teologi. Sull’argomento, cfr.
anche B. Forte, La Parola di Dio nella Sacra Scrittura e nei libri sacri delle altre religioni,
in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congre-
gazione per la Dottrina della Fede, Roma, settembre 1999, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2001, 106-120.
98
A.M. Di Nola, Libro Sacro, in ER 3, coll. 1505-1513; P. Rossano., Il problema
teologico delle religioni, Edizioni Paoline, Catania 1975.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 271
99
Cfr. Concilium 2/1976, dedicato interamente a: «L’uso delle scritture indù, buddhi-
ste, musulmane nel culto cristiano».
100
Cfr. G. O’Collins, Cristo e i non cristiani, in Id., Teologia fondamentale, 144-162.
272 La Bibbia è parola di Dio
101
M. Dhavamony, Induismo. La posizione della liturgia cristiana nei confronti dei testi
sacri indù, in Concilium 2/1976, 30s.
102
Vedi sopra, cap. 10, 5.
274 La Bibbia è parola di Dio
103
Cfr. Aa.Vv., Research Seminar on non-biblical Scriptures, Bangalore 1974.
104
Cfr. Statement of the Seminar, ibid., 681-695; per un breve resoconto sul «Semi-
nario» di Bangalore, cfr. J. Neuner, Induismo. Seminario sui testi sacri non biblici, in
Concilium 2/1976, 36-46.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 275
Certo, lo Spirito «soffia dove vuole» (Gv 3,8), e non possiamo limitar-
ne la presenza e l’azione. Ma come riconoscerlo, sì da poterne affermare
storicamente la presenza, sulla base di alcuni criteri che siano in qualche
misura oggettivamente verificabili? Chiamare in causa l’unità del proget-
to salvifico di Dio e l’orientamento a Cristo di ogni autentica esperienza
religiosa è ancora generico e non probativo, né tanto meno giustifica un
parallelismo dei libri sacri non cristiani con l’AT e i suoi libri, la cui ispi-
razione e relativo riconoscimento sono legati ad una precisa economia
storica, culminante in Gesù Cristo e nella chiesa apostolica.
Proponiamo pertanto la seguente riflessione. Da un capo all’altro della
Bibbia, parola di Dio e Spirito di Dio non cessano di agire insieme106.
È lo Spirito di Dio che presiede, dall’interno e dal profondo, alla prima
universale parola di Dio che è la creazione e che risuona nella coscienza
di ogni uomo «creato ad immagine di Dio», creato per Dio; è lo Spirito
di Dio che presiede alla storia della salvezza (storia e profezia) dell’unico
popolo di Dio, diventata libro umano e divino nella Bibbia, in virtù
dell’ispirazione. Ma il Verbo, «per mezzo del quale tutto è stato creato»,
«illumina ogni uomo» (Gv 1,3.9), e la «storia della salvezza» ha gli stessi
confini della prima e della seconda creazione. Riconoscere nella storia-
parola universale «i semi del Verbo» (Ireneo), significa simultaneamente
inverare la presenza e l’azione dell’unico e identico Spirito di Dio che
tutto predispone e attrae verso la pienezza della verità-salvezza, cioè Gesù
Cristo. «Tutto ciò che è vero, nobile, giusto…» (Fil 4,8) non può non
105
Aa.Vv., Research Seminar on non-biblical Scriptures, 695.
106
Vedi sopra, cap. 9.
276 La Bibbia è parola di Dio
scaturire dallo Spirito di Dio, che è «uno solo» (1 Cor 12,4-11; Ef 4,4-6);
la presenza dello Spirito Santo sui pagani (cfr. At 10,44) fu per la chiesa
apostolica la storica dimostrazione che «lo Spirito di Dio era stato effuso
sopra ogni uomo» (Gl 2,28; At 2,17s.).
Esistono, dunque, «semi del Verbo» ed anche «semi dello Spirito» nelle
grandi religioni e nei loro scritti sacri? Certamente, sì. Verità e valori,
non in contraddizione con il mistero della salvezza rivelato e attuato
in Cristo, anzi in profondo accordo con alcune verità della rivelazione
biblica, sembrano là disseminati, pur in maniera frammentaria, pur me-
scolati a deviazioni e inseriti in una concezione globale del mondo e della
storia divergente. Dal punto di vista cristiano e cattolico, non ci pare
che esista altro criterio storicamente verificabile che non sia quello del
confronto con le sacre Scritture dell’AT e del NT. Là dove le verità espresse
nei libri sacri non cristiani si incontrano con la rivelazione biblica, ivi è
il segno della presenza e dell’azione dello Spirito di Dio, ivi è anche il loro
misterioso orientamento a Cristo107.
107
La rivelazione contenuta nelle Scritture è dunque la chiave ermeneutica per accoglie-
re le Scritture di altre religioni e valutarle alla luce di questa rivelazione di Dio in Cristo:
«pertanto, i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l’esistenza dei
loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi
presenti» (Dominus Iesus, n. 8).
108
J. Dournes, Lecture de la Déclaration par un Missionnaire d’Asie, in A.P.M. Henry,
Les relations de l’Église avec les Religions non chrétiennes. Déclaration «Nostra Aetate» («Unam
Sanctam» 61), du Cerf, Paris 1966, 91.
Sviluppi successivi al Vaticano II e problemi ancora aperti 277
109
R. Guardini, Der Herr, Würzburg 196112, 360 (il brano citato manca nella trad.
it., Il Signore, Vita e Pensiero, Milano 19502).
parte quarta
IL CANONE
DELLE SACRE SCRITTURE
Nell’esperienza umana tutto è provvisorio, relativo, ambivalente. È
così difficile trovare una norma sicura, un criterio universalmente valido
per il discernimento del bene, per l’orientamento della vita e della storia
degli uomini. Oggi, più di sempre, siamo alla ricerca di un canone. Ab-
biamo occhi, ma non vediamo. «Chi conosce i segreti dell’uomo se non
lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li
ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio» (1 Cor 2,11).
Per la fede cristiana, Dio ha assunto uno dei mille cammini della
storia, quello appunto della tormentata vicenda del popolo ebraico cul-
minante in Gesù Cristo e nella chiesa apostolica, quale criterio sicuro
da offrire agli uomini per comprendere e vivere l’universale storia della
salvezza.
Il significato del canone della Bibbia, in fondo, è tutto qui. «Bibbia
alla mano», le persone possono “visitare” il mondo e la vita, non da sem-
plici turisti ma da pellegrini responsabili. La Bibbia è guida per leggere
e capire il progetto di Dio e realizzarlo. Grazie alla risurrezione di Gesù
Cristo e alla comunicazione del suo Spirito, sono nati gli occhi per vede-
re, il cuore per capire, la potenza per avanzare. La chiesa, in virtù dello
Spirito Santo di Cristo risorto, ha riconosciuto le tracce di Dio e dello
Spirito in alcuni libri, dei quali ha fatto un elenco preciso, chiamato
canone. Nelle Scritture sacre i credenti vanno a cercare i saldi punti di
riferimento per capire e vivere la vita a dimensione umana:
«Aprimi gli occhi, o Dio, perché io consideri
le meraviglie della tua legge.
Forestiero sono qui sulla terra:
non nascondermi i tuoi comandi.
282 Il canone delle sacre Scritture
Bibliografia: Per il canone dell’AT e del NT, oltre alle Introduzioni (vedi Bibliografìa
generale), cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, in Nuovo Grande Commentario
Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1355-1381; H. von Campenhausen, La formation
de la Bible chrétienne (1968), Delachaux & Nestlé, Neuchâtel - Paris 1971, capp. I-III;
T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Sacre Scritture
(LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 11-46; Id., Il problema del canone biblico: un capi-
tolo di teologia fondamentale, in ScuolCatt 107 (1979) 549-590; H. Höpfl, Canonicité,
in DBS 1, coll. 1022-1045; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio della salvezza, 1:
Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 113-152; P. Neuenzeit, Canone, in
DT 1, 200-216; Id., Canone, in SM 2, coll. 20-30; L. Pacomio, Scrittura (Sacra), in
DTI 1, 210-215.
J.-N. Aletti – E. Haulotte et alii, Le canon des Écritures. Études historiques, exégé-
tiques et systématiques sous la direction de C. Theobald («Lectio Divina» 140), du Cerf,
Paris 1990; A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e Parola di Dio, Paideia, Brescia
1994, 53-115; G. Aranda, Il problema teologico del canone biblico, in M. Tábet (ed.), La
Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di
Teologia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 13-35; G. Bellia – D. Gar-
ribba (edd.), Trasmettere la Parola nel I-II secolo: verso la formazione di un corpus cristiano
normativo. Atti del XV Convegno di Studi Neotestamentari (Bologna, 12-14 settembre
2013), in RicStoBib XXVII (2/2015); P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei
profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP, Milano - Roma 2012, 226-246; L.M.
McDonald, The Biblical Canon. Its Origin, Transmission, and Autorithy, Hendrickson,
Peabody/MA 2007; L.M. McDonald – J.A. Sanders (edd.), The Canon debate: On the
origins and formation of the Bible, Hendrickson, Peabody/MA 2002; J.-L. Ska, Forma-
zione del Canone delle Scritture ebraiche e cristiane, in Id., Il libro sigillato e il libro aperto,
EDB, Bologna 2004, 115-164; M. Tábet, Ispirazione biblica e canonicità dei Libri Sacri,
in A. Izquierdo (ed.), Scrittura Ispirata. Atti del Simposio internazionale sull’ispirazione
promosso dall’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (Atti e Documenti 16), Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 80-117.
Per il canone dell’AT, cfr. J. Blenkinsopp, Prophecy and Canon. A Contribution to the
Study of Jewish Origins, University of Notre Dame, London 1977; B.S. Childs, Intro-
284 Il canone delle sacre Scritture
duction to the Old Testament as Scripture, SCM, London 1979; O. Eissfeldt, The Old
Testament. An Introduction, Basil Blackwell, Oxford 1966, 559-668 [trad. it., Introduzione
all’AT, 4: Il canone e il testo, Paideia, Brescia 1984]; S.A. Leiman, An Introduction to the
Canon and Masorah of the Hebrew Bible. Selected Studies with a Prolegomenon by S.Z.
Leiman, Ktav, New York 1971; Id., The Canonization of Hebraic Scripture. The Talmu-
dic and Midrashic Evidence, Archon Books, Hamden/CT 1976; R.E. Murphy – A.C.
Sundberg – S. Sandmel, A Symposium on the Canon of Scripture, in CBQ 28 (1966) 189-
207; J. Sanders, Torah and Canon, Fortress, Philadelphia/PA 1972 [trad. fr., Identité de
la Bible. Torah et Canon («Lectio Divina» 87), du Cerf, Paris 1975]; Id., Text and Canon:
Concepts and Method, in JBL 98 (1979) 5-29 A.C. Sundberg, The Old Testament of the
Early Church, Harvard University Press, Cambridge/MA 1964.
1
Cfr. H.W. Beyer, κανών, in GLNT V, coll. 169-186; H. Höpfl, Canonicité, in DBS
1, coll. 1022-1024.
2
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 226.
Il canone dell’Antico Testamento 285
l’Israele di Dio» (Gal 6,15s.). Nei primi tre secoli con il termine canone
viene designata «la magnifica e sublime regola della tradizione»3, secondo
la quale il cristiano deve vivere; oppure «la regola della fede» o «regola
della verità»4, cioè la verità vincolante quale è annunciata dalla chiesa.
Secondo Eusebio, Clemente Alessandrino ha scritto un’opera dal titolo:
«Il canone ecclesiastico»; questo canone abbracciava, verisimilmente, sia
la professione di fede battesimale considerata come «regola della verità»,
sia la dottrina vigente della chiesa in tutto il suo complesso5. Dunque,
fino al III secolo, il canone designa sostanzialmente «la regola della fede»
cristiana senza ancora un esplicito riferimento alla sacra Scrittura, pur
presupponendo che il contenuto della “regola” fosse biblico.
A cominciare dal IV secolo, a questo uso generale del termine se ne
aggiunge un altro complementare, quello appunto di elenco normativo
dei libri ispirati. Il concilio di Laodicea in Frigia (nel 360 ca.) stabilisce
nel can. 59: «Nell’assemblea non si devono recitare salmi privati o libri
non canonici, ma soltanto i libri canonici del NT e AT» (EB 11); e nel
can. 60 se ne dà l’elenco (cfr. EB 12-13). Atanasio, subito dopo il 350,
dice del Pastore di Erma che «non fa parte del canone» (cfr. EB 15). An-
filochio di Iconio, alla fine del IV secolo, conclude il catalogo degli scritti
sacri dicendo: «Questo sarebbe il canone verace delle Scritture ispirate da
Dio»6. Determinante per questo uso di canone fu il concetto di norma
implicito nel termine, ovvero il contenuto oggettivo dei libri ispirati,
inteso come «norma della verità cristiana». Da allora i libri ispirati, scritti
cioè sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, vengono detti libri canonici,
perché riconosciuti come tali dalla chiesa e da essa proposti ai credenti
come norma di fede e di vita.
Dopo il concilio di Trento, Sisto da Siena († 1569), per distinguere i
libri non accolti nel canone dei Riformatori dagli altri libri, introdusse
nella chiesa cattolica la terminologia tuttora vigente, anche se infelice,
di protocanonici e deuterocanonici7, che farebbe pensare a libri che en-
3
Clemente Romano, 1 Cor 7,2: PG 1, 224.
4
Ireneo, Adv. haer., 1,9,4 s.; 4,35,4: PG 7, 545.1089.
5
Cfr. Eusebio, Hist. eccl., 6,13,3: PG 20, 548. Clemente Alessandrino parla di
«canone della verità» (Strom. 4,1,3: PG 8, 1216), ma anche di «canone della chiesa»
(Strom., 1,19,96: PG 8, 813) che viene contraddetto da coloro che celebrano l’eucaristia
con pane e acqua, senza vino.
6
Anfilochio di Iconio, Jambi ad Seleucum 318s.: PG 37, 1598.
7
Sisto da Siena, Bibliotheca sancta I, 1, p. 10.
286 Il canone delle sacre Scritture
trarono nel canone biblico “in un primo tempo” e ad altri che vi entra-
rono “dopo”. Antichi autori cristiani greci, come Eusebio di Cesarea8,
avevano usato una terminologia forse più appropriata, tuttora in vigore
nella chiesa ortodossa: chiamarono homologúmenoi (cioè unanimemente
riconosciuti) gli scritti cosiddetti “protocanonici”, e antilegómenoi (cioè
contrastati) o amphiballómenoi (cioè discussi) i libri cosiddetti “deute-
rocanonici”.
I deuterocanonici sono sette per l’AT e sette per il NT. Per l’AT, oltre
ad alcune sezioni scritte in greco nei libri di Daniele (Dn 13s.) e di Ester
(Est 10,4–16,24): Tb, Gdt, 1 e 2 Mac, Bar ed epistola di Ger (= Bar 6),
Sir, Sap. Per il NT: Eb, Gc, 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd, Ap.
L’ebraismo esclude dall’AT i deuterocanonici sopra elencati (vedi oltre,
per il canone ebraico). I Riformatori protestanti optarono per il canone
degli Ebrei, chiamando “apocrifi” o “pseudoepigrafi” i deuterocanonici
dell’AT9; per il NT, Lutero ed altri Riformatori tedeschi rifiutarono Gc,
Gd, Eb e Ap; le altre chiese riformate non misero invece in discussione il
canone del NT, e gli stessi protestanti tornarono al canone tradizionale
del NT nel XVII secolo. Nel protestantesimo odierno i deuterocano-
nici dell’AT non hanno ritrovato la loro autorità canonica, ma quelli
del NT sono generalmente commentati alla stregua dei protocanonici
e nell’ordine tradizionale10. Le chiese ortodosse non hanno mai preso
una decisione ufficiale circa il canone; alcune di esse accettano il cano-
ne lungo per l’AT; altre invece, come quella russa, non lo includono.
In conclusione, non va mai dimenticato che di qualunque “canone” si
parli, si tratta di una realtà del tutto posteriore alle Scritture in quanto
tali, legata alla decisione di determinate comunità di fede.
8
Cfr. Hist. eccl., 3, 25, 4: PG 20, 268.
9
Il termine “apocrifo” (cioè “nascosto”) è in realtà di significato fluttuante; nell’antichità
cristiana indicava piuttosto quei libri sospetti di eresia; in seguito passò a indicare quei
libri considerati come non canonici.
10
Vedi sotto, cap. 15.
Il canone dell’Antico Testamento 287
11
Vedi sopra, cap. 5.1.
12
Vedi sopra, in particolare, cap. 4, 2b; cap. 5,3, nota 17; cap. 8, note 2, 7, 16, 20. Là
abbiamo reso più esplicito il fatto che la canonicità-normatività degli scritti sia dell’AT
sia del NT trova il suo primo fondamento nell’origine degli scritti dentro la storia della
comunità dell’antico Israele e della chiesa cristiana, e si intreccia altresì con la storia della
tradizione, della collezione, dell’uso e del riconoscimento dei medesimi.
288 Il canone delle sacre Scritture
Stando alle notizie che possediamo ciò avvenne molto tardi. Il primo
abbozzo di un canone dell’AT lo troviamo nel prologo che il traduttore
greco (ca. l’anno 132 a.C.) premise alla sua versione dall’ebraico del
libro del Siracide. I libri che costituiscono il tesoro e la gloria del popolo
ebraico sono elencati in tre gruppi: «La legge, i profeti e gli altri scritti»
(prologo Sir 1.7-9.25-25).
La Legge, ovvero i cinque libri della Tôrah (Gen, Es, Lv, Nm, Dt)
costituiva già da tempo un’entità ben definita, da quando cioè aveva
ricevuto la sua forma definitiva, probabilmente sotto Esdra (cfr. Esd
7,1.25s.; Ne 8).
Lo stesso può dirsi del secondo gruppo, i profeti, comprendente i libri
di Gs, Gdc, 1 e 2 Sam, 1 e 2 Re (chiamati nel canone degli Ebrei «profeti
anteriori») e i libri di Is, Ger, Ez e dei dodici profeti minori (chiamati
«profeti posteriori»). Questa collezione è già un fatto compiuto almeno
intorno al 180, quando fu scritto il Siracide; infatti la «lode dei Padri» in
Sir 44–50 rievoca i principali personaggi ed episodi della storia ebraica
proprio secondo l’ordine e la successione di questo secondo gruppo.
Ben più complicata è la formazione e la fissazione del terzo gruppo,
designato con il termine generico gli altri scritti. Il traduttore del Sira-
cide sa di potervi introdurre l’opera di suo nonno che egli traduce, ma
per il resto non ci offre criteri per delimitare l’estensione del gruppo.
Tra l’altro, egli non cita nella sua «lode dei Padri» i personaggi di Esdra,
Ester o Daniele; e il passo di 2 Mac 15,9, di poco posteriore, menziona
soltanto «la legge e i profeti».
Il canone dell’Antico Testamento 289
«Di conseguenza, è difficile negare la tesi di Sundberg che gli ebrei di Ales-
sandria non avevano un elenco fisso di libri. Essi si trovavano nella medesima
13
Vedi sopra, cap. 7.
14
Cfr. A.C. Sundberg, The Old Testament of the Early Church.
15
Vedi sopra, cap. 7, nota 9.
290 Il canone delle sacre Scritture
situazione dei loro cugini di Palestina nel I secolo d.C., cioè disponevano
di un gran numero di testi sacri, alcuni dei quali erano riconosciuti da tutti
come più antichi e più sacri di altri […]. Infatti, quando gli ebrei alessandrini
accettarono veramente un canone, non si comportarono diversamente dagli
altri ebrei residenti altrove e riconobbero quello fissato alla fine del II secolo
dalle scuole rabbiniche della Palestina»16.
Giuseppe Flavio non dà l’elenco dei 13 libri dei profeti e degli altri 4.
Ordinariamente, secondo le indicazioni che si trovano in altri suoi scrit-
ti, l’elenco potrebbe essere così ricostruito: i ben noti 5 libri della Tôrah;
i 13 profeti che sarebbero: Gs, Gdc con Rt, 1 e 2 Sam (un solo libro), 1
e 2 Re (un solo libro), Is, Ger con Lam, Ez, i dodici profeti minori (un
Contra Apion. 1,8,38-41: Flavius Josèphe. Contra Apionem, «Les Belles Lettres», Paris
17
solo libro), Gb, Est, Dan, Esd e Ne (un solo libro), 1 e 2 Cr (un solo
libro); infine gli ultimi 4 libri, che sarebbero: Sal, Pr, Ct, Qo. Pochi anni
dopo lo scritto di Giuseppe Flavio, il 4 Esdra 14,18-47 fa menzione di
24 libri pubblicamente accettati dai Giudei, probabilmente gli stessi di
Giuseppe Flavio, ma con la computazione a parte di Rt e Lam.
Dal testo di Giuseppe Flavio si ricava che quei 22 libri «sono giusta-
mente considerati come divini», e quindi da tutti accettati; ed egli ne dà
una riprova, affermando subito dopo:
«La venerazione di cui circondiamo questi libri appare dal fatto che da tanti
secoli nessuno ha osato aggiungere, togliere o cambiare ad essi alcunché.
Si inculca infatti a tutti i Giudei, ben presto dopo la nascita, che bisogna
credere che si hanno là ordini di Dio, che bisogna osservarli, e se necessario,
morire volontariamente per essi» (ibid. 1,8,42).
18
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1363; di identico avviso è P.W. Skehan,
Qumran et le Canon de l’AT, in DBS IX, coll. 818s.
19
Cfr. J. Sanders, Torah and Canon; Id., Text and Canon: Concepts and Method; S.A.
Leiman, An Introduction to the Canon and Masorah of the Hebraic Bible; Id., The Cano-
nization of Hebrew Scripture.
Il canone dell’Antico Testamento 293
rifugio della resistenza giudaica del 73 d.C., e che in seguito non sarà
compreso nella Bibbia ebraica – fu letto e riprodotto dai Giudei anche
dopo il periodo di Jamnia. È vero che la Tôsephtâ (Yādhayim 2,13) ricor-
da che il Siracide fu dichiarato come “non sporcante le mani”, cioè non
sacro, ma non ci dice né dove né quando ciò venne deciso.
2.7. Conclusione
20
J. McKenzie, in DB, 152.
294 Il canone delle sacre Scritture
21
Cfr. H. von Campenhausen, La formation de la Bible chrétienne, capp. I-II.
22
Cfr. L. Venard, Citations de l’AT dans le NT, in DBS II, coll. 23-51.
23
Vedi sotto, cap. 14, 5.
Il canone dell’Antico Testamento 295
È pur vero che, delle 350 citazioni dell’AT nel NT, circa 300 corri-
spondono alla versione dei Lxx, come del resto accadrà ancora per la
letteratura cristiana dopo il periodo neotestamentario. I Lxx furono
dunque la fonte principale di queste citazioni; ma, poiché la versione
greca riflette essa stessa – come abbiamo detto sopra – l’assenza di un
canone rigidamente fissato nel giudaismo, ne consegue che gli stessi
cristiani non possedevano, nel periodo neotestamentario (dal 50 al 120
ca.), linee-guida precise al riguardo.
24
Cfr. H. von Campenhausen, La formation de la Bible chrétienne, cap. III.
25
Cfr. Giustino, Dial. con Trif., 71: PG 6, 641-646.
296 Il canone delle sacre Scritture
libri dell’AT usati dai cristiani, che praticamente coincide con il canone
ristretto degli ebrei26.
Addirittura, benché verso la fine del IV secolo – come attestano i
concili provinciali di Ippona (393) e di Cartagine (397) – la chiesa occi-
dentale finisse per accettare nel canone anche i deuterocanonici rifiutati
dagli ebrei, ancora nel IV secolo alcuni Padri sia di Oriente che di Occi-
dente optano per il canone ristretto degli Ebrei: in Oriente Atanasio (†
373), Cirillo di Gerusalemme († 386), Gregorio Nazianzeno († 390); in
Occidente, Ilario di Poitiers († 366), Rufino († 410) e Girolamo († 420).
La hebraica veritas sedusse soprattutto Girolamo, nel suo prolungato
soggiorno a Betlemme che lo mise a contatto stretto col giudaismo pa-
lestinese. Nel 390 ca., nella prefazione alla versione dall’ebraico dei libri
di Samuele e dei Re, inseriva l’elenco dei soli libri protocanonici a mo’ di
prologus galeatus, ovvero prologo ben armato contro tutte le possibili in-
trusioni di libri non canonici: «Hic prologus, quasi galeatum principium,
omnibus libris, quos de hebraico vertimus in latinum, convenire potest, ut
scire valeamus, quidquid extra hos est, inter apocripha esse ponendum»27. Per
far piacere agli amici, Girolamo tradusse in fretta Tb e Gdt, precisando
però che questi libri erano ritenuti apocrifi dagli ebrei28; tradusse anche,
in appendice alla sua Bibbia tradotta dall’ebraico, i supplementi greci di
Est e Dn, ma omise di tradurre gli altri deuterocanonici.
Che tale fosse l’opinione personale di Girolamo è fuori dubbio, ma è
altrettanto vero che egli non intendeva assolutizzare il suo insegnamento
contro il comune insegnamento della chiesa, che egli rispettava. Girola-
mo poté scrivere: «Melius esse iudicans Phariseorum displicere iudicio, et
episcoporum iussionibus deservire»29. Il prestigio di Girolamo non mancò
d’influire in Occidente anche successivamente, nel Medioevo e addirit-
tura fino al tempo del concilio di Trento, benché il concilio di Firenze
(1441) avesse ospitato il canone più ampio. Si espressero contro i deu-
terocanonici, o almeno contro alcuni di essi: Gregorio Magno († 604);
Ugo di San Vittore (XII secolo), Nicola da Lira (XIV secolo), Antonino
di Firenze (XV secolo) e il card. Caietano (XVI secolo).
26
La lista ci è conservata da Eusebio, Hist. Eccl., IV, 26, 12-14: PG 20, 396.
27
Girolamo, Praef. in Sam. et Mal.: PL 28, 600.
28
Cfr. Girolamo, Praef. in Job. et Jud.: PL 29, 23-26.39-42.
29
Girolamo, Praef. in Job.: PL 29, 25.
Il canone dell’Antico Testamento 297
L’incertezza tra il canone più breve e quello più ampio si riflette, al
l’inizio, anche nei pronunciamenti del magistero ordinario, ovvero nei
concili di provincia.
Se in Oriente il concilio di Laodicea di Frigia (ca. 360), nel canone 60
(EB 12), difende il canone ristretto ebraico30, in Occidente la lettera di
papa Innocenzo I a Esuperio di Tolosa (405) cita il canone completo (EB
21), che viene poi sanzionato dai concili africani di Ippona (393), I e II
di Cartagine (397 e 419). Ma nel concilio Trullano II (692) l’ambiguità
riemerge: vengono sanzionati, affiancandoli, i canoni diversi di Laodicea
di Frigia e di Cartagine.
Bisogna attendere il XV secolo per vedere un concilio ecumenico
prendere posizione sulla questione del canone. Il concilio di Firenze,
nel Decreto per i Giacobiti (1441), enumera il canone lungo (EB 47) che
in seguito sarà definito a Trento. Ma il pronunciamento di Firenze non
sembra avere il valore di un canone solenne, universale e normativo per
tutta la chiesa, visto che i Padri conciliari a Trento, prima di adottare e
definire il canone di Firenze, discussero a lungo quanto fosse vincolante
la decisione del concilio Fiorentino e tra i Padri stessi non mancò chi
– come il card. Caietano – difese la lista breve del canone ebraico.
A Trento però, contro i Riformatori protestanti31 per i quali il prin-
cipio della «sola Scriptura» rendeva la questione del canone particolar-
mente importante e che avevano optato per il canone ebraico ristretto,
nella sessione dell’8 aprile 1546, il concilio definì solennemente, «semel
pro semper», il canone più ampio dell’AT:
[…] Ritiene opportuno aggiungere al presente decreto l’elenco dei libri sacri,
perché nessuno possa dubitare quali siano quelli che vengono riconosciuti
come sacri dal medesimo concilio. Sono i seguenti.
Antico Testamento: I cinque libri di Mosè, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Nu-
meri, Deuteronomio; Giosuè, Giudici, Ruth, quattro libri dei Re, due libri
30
II can. 60 di Laodicea non è più riconosciuto come opera del concilio ma piuttosto
come una compilazione fatta in Asia Minore verso la fine del IV secolo. Tuttavia il do-
cumento mantiene un suo valore, perché espressione della fede in una parte della chiesa
della fine del IV secolo.
31
Vedi sotto, cap. 15.
298 Il canone delle sacre Scritture
Il concilio di Trento, dunque, offriva anche due criteri sui quali fonda-
va la solenne dichiarazione circa il canone della Bibbia: la lettura liturgica
dei libri sacri nella chiesa, e la loro presenza nell’antica versione latina
detta Vulgata. I due criteri possono anche prestarsi a qualche difficoltà32;
in ogni caso si deve sempre ricordare che oggetto di fede definita è il
decreto conciliare, non le argomentazioni che gli stanno dietro.
Il concilio Vaticano I fa esplicito riferimento al decreto del Triden-
tino, per tagliare corto a qualsiasi discussione sui libri protocanonici e
deuterocanonici:
La santa madre chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti in-
teri i libri sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti,
32
Cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1365; vedi sotto, cap. 14, 2.
Il canone dell’Antico Testamento 299
perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2
Pt 1,19-21; 3,15s.), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati
alla chiesa» (DV 11);
È la stessa tradizione che fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri
sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente
operanti le stesse sacre lettere (DV 8).
33
Vedi sotto, cap. 14.
13.
Il canone del Nuovo Testamento
Bibliografia: N. Appel, The New Testament Canon: Historical Canon and Spirit’s Witness,
in TS 32 (1971) 627-646; T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispira-
zione delle Sacre Scritture (LoB 3.3), Queriniana, Brescia 1982, 31-46; Id., Il problema del
Canone biblico: un capitolo di teologia fondamentale, in Scuola Cattolica (1979) 549-590; I.
Frank, Der Sinn der Kanonbildung. Eine historisch-theologische Untersuchung der Zeit vom
1. Clemensbrief bis Irenäus von Lyon, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1971; A. George
– P. Grelot (edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, 5: Il compimento delle Scritture,
Borla, Torino 1978; E. Käsemann (ed.), Das Neue Testament als Kanon. Dokumentation
und kritische Analyse zur gegenwärtigen Diskussion, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
1979; W.G. Kümmel, Introduction to the New Testament, SCM, London 19822, 475-510
[ed. it., Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario, il
Mulino, Bologna 1976]; K.H. Ohlig, Woher nimt die Bibel ihre Autorität? Zum Verhält-
nis von Schriftkanon, Kirche und Jesus, Patmos, Düsseldorf 1970; A. Wikenhauser – J.
Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1981, 41-90.
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, in Aa.Vv., Interpretare la Scrittura (Quaderni teologici del Seminario di
Brescia 18) Morcelliana, Brescia 2008, 31-75; B.M. Metzger, The Canon of the New
Testament. Its Origin, Development, and Significance, Clarendon Press, Oxford 1988 [trad.
it., Il canone del Nuovo Testamento. Origine, sviluppo e significato, Paideia, Brescia 1997].
Anche la storia del canone del NT, come si è svolta nella cristianità
dei primi secoli, ha la sua complessità ed incertezza, seppure con mo-
tivazioni diverse rispetto a quelle riscontrate per il canone dell’AT. Il
problema non sembra potersi ridurre ai termini con i quali normalmente
i manuali1 la risolvevano un tempo: a un primo periodo di universale
1
Cfr. per esempio, G.M. Perrella – L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, 1: Intro-
duzione generale, Marietti, Torino 1960, 97-103; C.M. Martini – P. Bonatti, Il messaggio
della salvezza, 1: Introduzione generale, ElleDiCi, Leumann 19764, 139-152.
Il canone del Nuovo Testamento 301
2
Vedi sopra, cap. 5, 2.
3
Vedi sopra, cap. 9, 3.
302 Il canone delle sacre Scritture
Nel giorno chiamato del sole [cioè alla domenica] ci raccogliamo in uno
stesso luogo, dalla città e dalla campagna, e si fa la lettura delle memorie
degli apostoli [in 1,66, Giustino aggiunge: “dette vangeli”] e degli scritti dei
profeti, sin che il tempo lo permette4.
4
Giustino, Apol. 1,67: PG 6, 429 (Le Apologie, a cura di I. Giordani, Città Nuova,
Roma 1962, 125).
Il canone del Nuovo Testamento 303
5
Cfr. A. Saez, La trasmissione di tradizioni normative su Gesù da Papia a Giustino, in
G. Bellia – D. Garribba (edd.), Trasmettere la Parola nel I-II secolo: verso la formazione di
un corpus cristiano normativo. Atti del XV Convegno di Studi Neotestamentari (Bologna,
12-14 settembre 2013), in RicStoBib XXVII (2/2015) 149-184.
6
Su “il canone di Marcione” come fattore di accelerazione nel processo di formazione
del canone della chiesa attorno alla metà del II secolo, cfr. H. von Campenhausen, La
formation de la Bible chrétienne, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel - Paris 1971, 144-156;
W.G. Kümmel, Introduction to the New Testament, cit., 486-488; A. Wikenhauser – J.
Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, 58-61; T. Citrini, Identità della Bibbia, 37-
39. Cfr. anche J. Quasten, Patrologia 1, Marietti, Torino 19753, 236-240; M. Girolami,
Il “Vangelo” di Marcione. Criteri non scritti di scelte testuali, in G. Bellia – D. Garribba
(edd.), Trasmettere la Parola, 185-208.
304 Il canone delle sacre Scritture
2.2. P
rogressivo precisarsi
dell’estensione del Nuovo Testamento
Dalle citazioni dei Padri nel II e anche nel III secolo, dato il carattere
occasionale delle medesime, è difficile trarre conclusioni definitive e uni-
versali sul canone del NT in questo periodo. Nessun autore cita infatti
tutti i libri del NT; e la non citazione in nessuno di loro di Fm e della 3
Gv (forse anche della 2 Gv; cfr. tuttavia Policarpo, Ad Philipp. 7,1) può
spiegarsi facilmente con la brevità di questi scritti e il loro non spiccato
contenuto dottrinale.
La comparsa delle prime liste di libri del NT è indubbiamente di
notevole interesse per il problema del canone del NT, perché implicano
l’accettazione di un libro come ispirato, specialmente quando esse non
sono separate ma accoppiate con le liste dei libri dell’AT. Tuttavia, nep-
pure esse dirimono il problema.
7
Sull’incidenza del Diatessaron di Taziano nel processo di formazione del canone del
NT, cfr. I. Frank, Der Sinn der Kanonbildung, 133-143; A. Wikenhauser – J. Schmid,
Introduzione al Nuovo Testamento, 53s.; H. von Campenhausen, La formation de la Bible
chrétienne, 157s.; J. Quasten, Patrologia 1, 198-201.
8
Cfr. Eusebio, Hist. eccl. 4,26, 13-14: PG 20, 396s.
9
Tertulliano, Adv. Marc. 4, 1,6; 4, 22,3: PL 2, 390s.443.
10
Vedi sotto.
11
Cfr. E. Norelli, Sulla via del canone: la nuova sintesi di Ireneo, in G. Bellia – D.
Garribba (edd.), Trasmettere la Parola, 209-238.
Il canone del Nuovo Testamento 305
12
Cfr. Eusebio, Hist. eccl. 6,25, 1-14: PG 20, 580-585.
13
Ibid., 3,25, 1-5: PG 20, 268-273.
306 Il canone delle sacre Scritture
14
Vedi sopra, cap. 7.
Il canone del Nuovo Testamento 307
15
T. Citrini (Il problema del canone biblico, 554-567) compie un’accurata analisi del
«criterio di apostolicità», distinguendo «il parametro della apostolicità in senso letterario»,
quello della «apostolicità in senso giuridico», e «il parametro del contenuto evangelico»,
e conclude che «nessuna di queste maniere di concepire l’apostolicità del NT è senza
valore, ma nessuna è decisiva. Nessuna è sufficiente, ma forse tutte sono in qualche modo
necessarie» (pp. 563s.). Si deve pertanto insistere sul «carattere consensuale e sintetico
del riconoscimento della canonicità». Cfr. anche Id., Identità della Bibbia, cit., 35s.; A.
Wikenhauser – J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, 88-100.
308 Il canone delle sacre Scritture
nicità era resa ancor più problematica dalla incerta paternità giovannea
dello scritto (il greco dell’Ap non è quello del Vangelo di Giovanni, come
osservava Dionigi Alessandrino).
– La 2 e 3 di Gv poterono essere meno conosciute e meno apprezzate
per la loro brevità e il loro scarso contenuto teologico.
– Sulle lettere di Gc e Gd fu sollevata la questione della paternità let-
teraria; e il dubbio sulla loro canonicità fu rafforzato da alcune questioni
dottrinali ritenute sospette: in Gc, l’affermazione che «la fede senza le
opere è morta»; in Gd, la citazione dell’apocrifo Enoch.
– Infine, taluni scritti del tempo sub-apostolico – come la 1 e 2 di Cle-
mente, la Didaché, Erma e Barnaba – poterono venire accolti da qualche
comunità come libri canonici, o perché portavano il nome di discepoli
degli apostoli (come dicevamo sopra), oppure per la loro indiscussa anti-
chità: per esempio la 1 Clemente e la Didaché possono essere state scritte
prima della canonica 2 Pt.
16
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 134.
Il canone del Nuovo Testamento 309
17
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1377.
14.
Il problema teologico del canone
1
Vedi sotto, pp. 333-334.
2
Vedi sopra, cap. 12, 3.3.
Il problema teologico del canone 311
3
Cfr. A. Theinek, Acta genuina Concilii Tridentini, Zagabriae 1874, 17-78.84s.; il
brano in questione degli Acta è riportato da H. Höpfl – B. Gut, Introductio specialis in
Novum Testamentum, D’Auria - Arnodo, Neapoli - Romae 19495, 92.
4
R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1378.
312 Il canone delle sacre Scritture
È la stessa tradizione che fa conoscere alla chiesa l’intero canone dei libri
sacri (DV 8).
Qui si afferma non solo un dato di fatto, che del resto abbiamo am-
piamento verificato nel delineare una “storia” del canone dell’AT e del
NT nella chiesa cristiana, ma un dato di fede, anche se la DV non dice
come e in base a quali argomenti o criteri la tradizione offra alla chiesa
la certezza dei libri sacri e canonici.
5
Vedi sopra, cap. 12.
6
Vedi sopra, cap. 10.
Il problema teologico del canone 313
Discutendo il problema del canone, la chiesa non poteva fare altro che
cercare di fare chiarezza sul fatto che la regola della verità esisteva già e si
era già rivelata ad essa […]. Si può dire che i testi di cui si discute, proprio
perché erano già canonici, hanno potuto essere riconosciuti e proclamati
tali in seguito11.
7
Vedi sopra, cap. 11, 7.
8
Cfr. S. De Dietrich, Le Renouveau Biblique, Delachaux, Neuchâtel 1949, 22s.
9
T. Zahn, Geschichte des neutestamentlichen Kanons I, Erlangen 1888; cfr. H. Höpfl,
Canonicité, in DBS 1 (1928) 1038s.
10
Cfr. H. Höfel, Canonicité, 1040s.
11
K. Barth, Dogmatique, vol. I, tom. 2***, 16s.
12
Cfr. O. Cullmann, La Tradition, in D.J. Callahan – H.A. Oberman – D.J.
O’Hanlon (edd.), Catholiques et Protestants. Confrontations théologiques, sur l’Écriture et
la Tradition, l’interprétation de la Bible, l’Église, les Sacrements, la Justification, du Seuil,
Paris 1963, 30-41.
314 Il canone delle sacre Scritture
13
Cfr. M. Lods, Tradition et Canon des Écritures, in Aa.Vv., Études théologiques et
religieuses, Paris 1961, 58.
14
Cfr. P. Grelot, La Bible Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture
Sainte, Desclée, Paris 1965, 156-138.
15
Cfr. anche pp. 334.337-338 e 341.
16
Cfr. anche pp. 321-322. Oltre alla bibliografia riportata all’inizio del cap. 4, cfr. T.
Citrini, Tradizione, in DTI 3, 448-463; il Documento Scrittura, Tradizione e tradizioni
della Commissione «Fede e Costituzione» del CEC approvato nell’Assemblea di Montreal
del 1963, in E. Flesseman-van Leer (ed.), La Bibbia. La sua autorità e interpretazione
Il problema teologico del canone 315
20
Cfr. U. Betti, La rivelazione divina nella Chiesa, cit.; Id., La tradizione della divi-
na rivelazione, in Aa.Vv., La costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, ElleDiCi,
Leumann 1967, 250-255; L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, Paideia,
Brescia 1970, 177-189.
21
Vedi, a titolo indicativo, un elenco di queste verità in U. Betti, La tradizione della
divina rivelazione, 252, nota 94.
Il problema teologico del canone 317
22
Sul valore e i limiti di questi criteri esterni cfr. la sintesi offerta da P. Bovati – P.
Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 231-235.
23
J.R. Geiselmann, La Tradition, in Questions théologiques aujourd’hui 1, Desclée de
Brouwer, Paris 1964, 95-148.
24
P. Lengsfeld, Tradition, Écriture et Église dans le dialogue oecuménique, Paris 1964;
Y.J.M. Congar, La tradizione e le tradizioni, 2 voll., Edizioni Paoline, Roma 1965.
25
Si riprendono qui in buona parte le conclusioni di P. Bovati – P. Basta, «Ci ha
parlato per mezzo dei profeti», 242.
318 Il canone delle sacre Scritture
Lo Spirito Santo che ispirò gli apostoli e gli autori sacri continua ad agire
nella chiesa con gli stessi carismi funzionali di cui il Nuovo Testamento
già parla esplicitamente, e in particolare con quelli che si ricollegano alle
funzioni di insegnamento e di autorità. Continua così ad assistere la chiesa
perché essa conservi fedelmente il deposito apostolico nella sua integrità.
È dunque a questo titolo e infine con questo mezzo che la chiesa di tutti i se-
coli può riconoscere nella sua tradizione vivente i libri che la mettono in con-
tatto diretto con la tradizione apostolica. In questo campo, come in qualsiasi
altro, il suo magistero gode dell’infallibilità soltanto per conservare (non per
modificare o ampliare) il dato originale. Non si può trarre argomento dalle
variazioni che presenta la tradizione ecclesiastica sulla questione del canone
per mettere in dubbio questo indefettibile attaccamento al deposito aposto-
lico. Infatti un esame oggettivo dei casi particolari dimostra come, tanto per
l’Antico che per il Nuovo Testamento, essi si spieghino con l’interferenza di
influenze fondamentalmente estranee al problema della canonicità: appello
ai criteri interni (autenticità ecc.) o ricorso all’autorità del canone ebraico.
Tutti i problemi sollevati a proposito dei deuterocanonici vengono dall’una
o dall’altra di queste due cause. In questa prospettiva il canone ristretto dei
riformatori protestanti non può essere considerato veramente tradizionale; è
un canone mutilo e questa mutilazione denuncia il pericolo di una teologia
della chiesa in cui la Scrittura non si trova più al suo giusto posto, nel suo
rapporto reale con le altre strutture stabilite dagli apostoli26.
26
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 135.
Il problema teologico del canone 319
Se la tesi che abbiamo proposto è giusta, essa offre una via d’uscita dal
vicolo cieco (del problema del canone). Dobbiamo distinguere solo due
cose: da una parte la fondamentale rivelazione come tale (come evento)
sull’ispirazione di uno scritto, e dall’altra parte la formulazione in proposi-
zione riflessa, e l’atto di dare espressione a questa rivelazione. La prima deve
essere stata completa “con la morte dell’ultimo apostolo”. Ma la seconda no.
[…]. La rivelazione dell’ispirazione di uno scritto avviene semplicemente
perché lo scritto in questione sorge come genuina attuazione dell’essenza
della chiesa. Con ciò la sua ispirazione è già sufficientemente rivelata, a meno
che si pretenda che possa esser rivelato qualcosa solo in una proposizione,
e non invece anche in un fatto, aperto alla comprensibilità diretta; il che
però è una concezione troppo stretta, falsamente concettualistica delle pos-
sibilità proprie della rivelazione. Il fatto poi, una volta presentatosi (posto
da un’azione di Dio nella storia) può essere compreso e formulato ancora in
modo riflesso anche nel periodo post-apostolico, senza che per questo av-
venga una nuova rivelazione. Non c’è nessuna contraddizione ad ammettere
che soltanto la chiesa possegga il dono di discernere con assoluta sicurezza,
necessario per scoprire che questo o quello scritto del tempo apostolico
(il tempo della chiesa delle origini) è un elemento intrinseco, omogeneo
dell’autocostituzione della chiesa […]. La chiesa, riempita dallo Spirito,
giudica con “connaturalità”, inserisce un libro nella Scrittura in quanto que-
sto è qualcosa che risponde alla sua natura. Se questo è nello stesso tempo
“apostolico”, cioè un elemento nell’attuarsi della vita della chiesa primitiva
come tale, e come tale concepito, allora, secondo i presupposti della nostra
teoria, è ipso facto ispirato e come tale riconosciuto in modo riflesso, senza
che questa conoscenza, la quale diverrà riflessa eventualmente soltanto più
tardi, debba rappresentare il fatto stesso della rivelazione, o essere per lo
meno contemporanea con esso28.
27
Vedi sopra, cap. 11.
28
K. Rahner, Sull’ispirazione della Sacra Scrittura («Quaestiones Disputatae» 1), Mor-
celliana, Brescia 1967, 72s.
320 Il canone delle sacre Scritture
29
Cfr. ibid., 55-59.
Il problema teologico del canone 321
guidata dallo Spirito Santo e alla luce della tradizione vivente che ha rice-
vuto, la chiesa ha identificato gli scritti che devono essere considerati come
Sacra Scrittura […]. La fissazione di un “canone” delle Sacre Scritture fu la
conclusione di un lungo processo30.
30
Cfr. EB 1448-1450. IVSS contiene una breve sintesi circa la storia della formazione
del canone, ma non porta sostanziali novità; cfr. § 4.2; pp. 92-109.
31
P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 228.
322 Il canone delle sacre Scritture
testo canonico deve necessariamente tener conto del testo nel suo stato
finale32.
32
Cfr. ibid., 245-253.
33
IBC, pp. 45-50 (EB 1324-1342).
34
Cfr. J.A. Fitzmyer, The Biblical Commission’s Document “The Interpretation of the
Bible in the Church”. Text and Commentary (SubBi 18), Roma 1995, spec. p. 69. Per alcune
perplessità relative all’approccio canonico cfr. H. Simian Yofre, Introduzione. Esegesi, fede
e teologia, in Id. (ed.), Metodologia dell’Antico Testamento (Studi biblici 25), EDB, Bologna
20022, 13; F. Mosetto, Approcci basati sulla tradizione, in G. Ghiberti – F. Mosetto
(edd.), L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, ElleDiCi, Leumann 1998, 162-194.
Il problema teologico del canone 323
35
Cfr. G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, I-III, EDB, Bologna
1981-1984.
36
Cfr. per esempio il commentario di T. Lorenzin, I Salmi. Nuova versione, intro-
duzione e commento, Edizioni Paoline, Milano 2000.
37
Cfr. D. Scaiola, I Dodici profeti: perché “minori”? Esegesi e teologia, EDB, Bologna
2011.
324 Il canone delle sacre Scritture
Da 1 Cor 5,9 apprendiamo che Paolo aveva già scritto «una precedente
lettera» ai Corinti; inoltre, Col 4,16 ricorda una lettera «ai Laodicesi», la
cui lettura Paolo raccomanda agli stessi cristiani di Colossi. Queste due
lettere sono andate perdute. Erano ispirate?
Non ci pare che il problema possa risolversi nei termini un po’ sbri-
gativi di R.E. Brown – R.F. Collins: «La paternità paolina non sarebbe
certo sufficiente [per deciderne l’ispirazione e la canonicità], perché,
se la mancanza di attribuzione a un apostolo non esclude l’ispirazio-
ne, nemmeno il contrario la renderebbe automaticamente implicita»39.
Riteniamo che si debba innanzitutto tenere presente la distinzione tra
“ispirazione” e “canonicità” (cfr. sopra, pp. 319ss.). Quando un testo
deriva da un apostolo e quel testo esprime e media il suo carisma e
ministero di apostolo, quel testo di per sé non può non avere anche il
carattere di libro “ispirato” e quindi “normativo” per coloro ai quali era
destinato. Se poi questo testo è andato perduto e conseguentemente
non ha potuto usufruire di un lungo uso nelle chiese come libro ispirato
(uno dei criteri accennati dal concilio di Trento), si capisce perché non
sia potuto entrare nel canone. Evidentemente lo scritto non aggiunge-
rebbe niente di nuovo e di sostanziale al deposito della rivelazione, già
contenuta nei libri ispirati e riconosciuti tali dalla chiesa; e – per quanto
38
Vedi sopra, § 1.
39
Cfr. R.E. Brown – R.F. Collins, Canonicità, 1378.
Il problema teologico del canone 325
40
J. Michl, Le lettere cattoliche, Morcelliana, Brescia 1968, 118: dell’ultima frase
abbiamo dato una versione più precisa del testo originale (cfr. Die Katholischen Briefe,
Pustet, Regensburg 1968, 88). E tuttavia c’è chi sostiene che proprio la presenza di 1
Hen nel NT, attraverso la citazione di Giuda, crea un punto a favore della possibile ca-
nonicità del libro di Enoch: cfr. J. Hultin, Jude’s Citation of 1 Enoch: From Tertullian to
Jacob of Edessa, in J.H. Charlesworth – L.M. McDonald (edd.), Jewish and Christian
Scriptures. The Function of ‘Canonical’ and ‘Non-Canonical’ Religious Texts, T. & T. Clark,
Edinburgh 2010, 113-128.
41
Vedi sopra, cap. 7.
42
Cfr. P. Grelot, La Bible Parole de Dieu, 166-174; Id., La Bibbia e la Teologia, 136-
140. Cfr. anche M. Hengel, The Septuagint as Christian Scripture. Its prehistory and the
problem of its canon, Edinburgh - New York 2002. Una sintesi dell’argomento è reperibile
in M. Harl, La Septante chez les Pères grecs et dans la vie des chrétiens, in M. Harl – G.
Dorival – O. Munnich, La Bible grecque des Septante. Du judaïsme hellénistique au
christianisme ancien, du Cerf, Paris 1988, 289-320.
Il problema teologico del canone 327
A proposito di tutto quello che c’è nei Lxx e non nei manoscritti ebraici,
possiamo dire che lo Spirito di Dio ha voluto rivelarcelo attraverso gli scritti
del primo documento piuttosto che attraverso quelli del secondo, al fine di
mostrare che sia gli uni sia gli altri furono profeti50.
Girolamo, prima di iniziare la sua nuova versione latina dei testi ebrai-
ci, scrive che i traduttori greci «Spiritu Sancto pleni, ea quae vera fuerant
transtulerunt»51; ma successivamente la scoperta dell’hebraica veritas lo
43
Vedi sopra, cap. 10, 1.2.
44
«Essi [i Lxx traduttori] profetizzarono, come se Dio avesse preso possesso del loro
spirito, non ciascuno con parole differenti, ma tutti con le stesse parole e gli stessi giri di
frase, come se ciascuno fosse sotto dettatura di un invisibile ispiratore» (De vita Mosis 2,37).
45
«Il Santo mise il suo consiglio dentro il cuore di ciascuno dei traduttori, e accadde
che essi si trovarono dello stesso avviso; tuttavia essi scrissero… (seguono 13 passi biblici
che i Lxx avrebbero alterato)» (Mišnâ, bT, Megillâ 9 a).
46
Apol I, 31: PG 6, 376.
47
Adv. haer. 3,21,2: PG 7, 947s.
48
Strom. 1,22: PG 8, 893.
49
Catech. 4,34: PG 33, 497.
50
De Civ. Dei 18,43: PL 41, 604.
51
Praef. in Paralip.: PL 29, 402 (424).
328 Il canone delle sacre Scritture
52
Ep. 57 ad Pammachium 11: PL 22, 577.
53
A. Calmet, Dissertation pour servir de prolégomènes de l’Écriture Sainte 1/2, Paris
1720, 79-93.
54
P. Benoit, La Septante est-elle inspirée?, in Id., Exégèse et Théologie 1, du Cerf, Paris
1961, 3-12; Id., L’inspiration des Septante d’après les Pères, in L’homme devant Dieu 1
(Mélanges H. de Lubac), Aubier, Paris 1964, 169-187.
55
P. Grelot, La Bible Parole de Dieu; Id., La Bibbia e la Teologia.
Il problema teologico del canone 329
ziale della lingua greco-biblica del NT che sarà veicolo della definitiva
rivelazione neotestamentaria) abbia un prestigio tutto particolare e co-
stituisca davvero un evento provvidenziale nella storia della trasmissione
della rivelazione, questo è fuori discussione. Ma, affermarne l’ispirazione,
significa forse porre molti più problemi di quelli che s’intende risolvere;
si pensi a libri presenti nei Lxx, ma non considerati canonici, come per
esempio le Odi di Salomone.
2. Si deve fare più attenzione al concetto articolato di ispirazione, con
tutti i suoi precedenti nella fase di trasmissione fattuale, orale e anche
parzialmente scritta nelle tradizioni che precedono il testo biblico de-
finitivo (vedi anche sopra, pp. 251ss.): proprio nei termini dell’analisi
di P. Benoit e dello stesso P. Grelot. Esso consente di riconoscere una
particolare presenza e azione dello Spirito Santo in questi traduttori
greci, come tramite di una tradizione nell’ambito del popolo di Dio,
senza con ciò dover concludere all’ispirazione della loro versione alla
maniera degli scrittori sacri.
3. Per quanto concerne l’uso che gli autori del NT fanno talvolta di
alcuni testi dell’AT conforme alla versione dei Lxx (e in difformità del
testo ebraico), l’ispirazione del testo del NT è più che sufficiente per
assicurare l’uso che si fa dell’antica versione greca, senza che si debba
invocare l’ispirazione della medesima.
4. Un ultimo argomento in favore dell’ispirazione dei Lxx, sul quale
P. Grelot insiste tanto, è costituito dai libri deuterocanonici dell’AT dei
quali si è perduto l’originale ebraico o aramaico. Questi libri56, accolti
nel canone, sono pervenuti alla chiesa soltanto nella loro forma greca,
anche se – ad eccezione di Sap, 2 Mac, Bar 4,5–5,9 e i supplementi del
libro di Est – derivano tutti da originali semitici, in parte ritrovati nelle
grotte di Qumran (Tb, Sir), nelle rovine di Masada (Sir) e nella Genizah
del Cairo (Sir). In questi casi, dove si deve cercare l’originale ispirato? Nel
testo semitico perduto, e oggi – almeno in parte – ritrovato? Sarà forse
necessario, secondo l’ironica osservazione di Origene57, che la chiesa
chieda ai Giudei di comunicarle dei testi “puri”, allo scopo di correggere
la sua Bibbia? Senza dubbio, questo è l’argomento più consistente, ma
non lo riteniamo decisivo per un “sì” all’ispirazione nella versione dei
Lxx nella sua totalità. Infatti, quelle che risultano o risultassero vere e
56
Vedi sopra, cap. 6.
57
Lettera a Giulio Africano 4: PG 11, 57-60.
330 Il canone delle sacre Scritture
Bibliografia: F.F. Bruce, Il Canone delle Scritture, GBU, Chieti 2012; F. Ferrario, Dio
nella Parola. Frammenti di teologia dogmatica 1, Claudiana, Torino 2008; W. Pannenberg
– Th. Schneider (edd.), Verbindliches Zeugnis I. Kanon – Schrift – Tradition, Herder -
Vandenhoeck & Ruprecht, Freiburg i. Br. - Göttingen 1992; R. Slenczka, Schriftautorität
und Schriftkritik, in W. Pannenberg – Th. Schneider (edd.), Verbindliches Zeugnis I.
Kanon – Schrift – Tradition, 315-331; G. Wenz, Die Kanonfrage als Problem ökumenischer
Theologie, in W. Pannenberg – Th. Schneider (edd.), Verbindliches Zeugnis I. Kanon –
Schrift – Tradition, 232-288; Kanon – heilige Schrift – Tradition. Gemeinsame Erklärung,
in W. Pannenberg – Th. Schneider (edd.), Verbindliches Zeugnis I. Kanon – Schrift –
Tradition, 371-397.
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und evangelischer Dogmatik, in J. Barton – M. Wolter (edd.), Die Einheit der Schrift und
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Testament als Kanon. Dokumentation und kritische Analyse zur gegenwärtigen Diskussion,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1979, 98-108.
332 Il canone delle sacre Scritture
Per molto tempo, il dialogo tra cattolici e protestanti sulla Bibbia interes-
sava soprattutto due problemi di fondo, preliminari ad ogni altra discussione1.
Il primo riguardava il rapporto tra Scrittura e tradizione. L’assunto
della Scriptura sola costringeva i Riformatori a ridurre la tradizione più
o meno a un’elaborazione umana, indebitamente aggiunta alla parola
di Dio scritta; per il cattolicesimo, invece, valeva – e vale – il dettato del
concilio di Trento2, ripreso e riassunto dal Vaticano I:
1
Preferiamo parlare qui di “protestanti” o di “chiese della Riforma» (o “evangeliche”);
il termine “Riformati” lo riserviamo alle chiese di matrice calvinista (in tedesco: reformiert,
distinto da reformatorisch, cioè “della Riforma», protestante).
2
Vedi sopra, cap. 10, 3-4.
Il canone in prospettiva ecumenica 333
3
Vedi sopra, cap. 14, 2.2.1.
4
Vedi sopra, cap. 12, 1.
5
Cfr. La Sacra Bibbia, edita dalla «Società Biblica Britannica e Forestiera»: sia nella
traduzione di G. Diodati (1607), sia in quella rivista da G. Luzzi (1931).
6
Cfr. The New English Bible (with Apocrypha) 2, Oxford - Cambridge 1970, V-VII; La
Bibbia, 10: Apocrifi dell’AT, tradotta e commentata da G. Luzzi, Fides et Amor, Firenze
1930.
7
Per quanto riguarda la TILC, cfr. l’ultima edizione disponibile: Parola del Signore. La
Bibbia in lingua corrente, ElleDiCi - ABU, Torino - Roma 2014.
8
Vedi sopra, cap. 12, 1.
334 Il canone delle sacre Scritture
2. Lutero e la Riforma
9
Vedi sopra, cap. 14, 1.
10
Cfr. sopra, cap. 12.1.
11
O. Cullmann, Il Nuovo Testamento, il Mulino, Bologna 1968, 115.
Il canone in prospettiva ecumenica 335
12
G. Wenz, Die Kanonfrage als Problem ökumenischer Theologie, 251.
336 Il canone delle sacre Scritture
13
Trad. di A. Maffeis, Tra verità divina e critica storica. La trasformazione del concetto
di canone biblico in epoca moderna, 368-369.
14
Ibid., 372s.
Il canone in prospettiva ecumenica 337
15
J. Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons. Zweiter Teil: Mittelalter und
Neuzeit, J.C. Hinrichts’sche Buchhandlung, Leipzig 1908, 164s.
16
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, 32.
17
E. Käsemann, Il canone neotestamentario fonda l’unità della chiesa?, in Id., Saggi
esegetici, Marietti, Casale M. 1985, 58-68 [orig. ted. in EvTheol 11 (1951/52) 13-21]: «Il
canone neotestamentario in quanto tale non fonda l’unità della chiesa. In quanto tale,
vale a dire nella condizione in cui si trova e si presenta allo storico, esso fonda invece la
molteplicità delle confessioni» (65).
18
Ibid., 67s.
338 Il canone delle sacre Scritture
La Bibbia si rende essa stessa canone. Essa è canone perché in quanto tale si è
imposta alla chiesa e si impone sempre di nuovo. La memoria da parte della
chiesa della rivelazione divina compiuta ha dichiaratamente la Bibbia come
oggetto concreto perché, di fatto, questo e nessun altro oggetto è la promessa
della rivelazione divina veniente che può rendere l’annuncio di essa dovere
per la chiesa e darle coraggio e gioia per il compimento di questo dovere20.
19
Cfr. F. Ferrario, Dio nella Parola. Frammenti di teologia dogmatica 1, Claudiana,
Torino 2008, 220-224.
20
K. Barth, Die kirchliche Dogmatik I/1. Die Lehre vom Wort Gottes. Prolegomena zur
kirchlichen Dogmatik, Chr. Kaiser, München 1932, 110.
21
Cfr. il rapporto della sezione II: Scrittura, Tradizione e tradizioni, in Enchiridion
Oecumenicum VI. Fede e Costituzione. Conferenze mondiali 1927-1993, EDB, Bologna,
nn. 1908-1946.
Il canone in prospettiva ecumenica 339
22
G. Ebeling, “Sola Scriptura” und das Problem der Tradition, in E. Käsemann (ed.),
Das Neue Testament als Kanon, 297.
23
M. Ludlow, “Criteria of Canonicity” and the Early Church.
340 Il canone delle sacre Scritture
una teoria del canone che voglia essere all’altezza dei dati storici relativi al
processo della sua formazione deve riuscire a pensare in forma unitaria e
coerente il duplice principio di unità del canone neotestamentario: il suo
principio di unità dall’interno, derivante dalla testimonianza dell’evento
storico della rivelazione, che costituisce il contenuto essenziale degli scritti
canonici e il fondamento del loro carattere normativo, e il principio della
delimitazione verso l’esterno del corpo degli scritti canonici, che non è pen-
sabile se non in stretta connessione con l’uso ecclesiale di tali scritti e con la
loro ininterrotta interpretazione. Da questo duplice principio deriva anche
il differente significato che il concetto di canone può assumere: esso è norma
fondamentale della fede, che la chiesa riceve e non costituisce, ma è anche
norma che la chiesa stessa stabilisce con l’atto del suo riconoscimento e che
fa valere al proprio interno in forme analoghe a quelle con cui stabilisce la
norma dottrinale della propria fede26.
24
Ibid., 92.
25
Ibid., 90.
26
A. Maffeis, Il libro della Chiesa. Il canone del Nuovo Testamento nel dibattito teologico
contemporaneo, 67s.
27
G. Sauter, Kanon und Kirche.
Il canone in prospettiva ecumenica 341
28
Ibid., 251.
29
Ibid., 258.
30
Ibid., 256.
16.
La verità della Bibbia
Bibliografia: oltre ai vari commentari alla Dei Verbum (cfr. Bibliografia generale): Aa.Vv.,
La “verità” della Bibbia nel dibattito attuale (GdT 21), Queriniana, Brescia 1968, in par-
ticolare i saggi di P. Benoit, «La verità nella Bibbia. Dio parla il linguaggio degli uomini»
(pp. 149-179); P. Grelot, «La verità della Sacra Scrittura» (pp. 87-146 [orig. fr., «La vérité
de l’Écriture», in Id., La Bible Parole de Dieu. Introduction théologique à l’étude de l’Écriture
Sainte, Desclée, Paris 1965, 96-134]); A. Grillmeier, «La verità della Sacra Scrittura. Sul
terzo cap. della Cost. Dog. ‘Dei Verbum’ del Vaticano II» (pp. 183-264); I. de La Potterie,
«Verità della Sacra Scrittura e storia della salvezza alla luce della cost. dog. ‘Dei Verbum’»
(pp. 281-306); N. Lohfink, «Il problema dell’inerranza» (pp. 21-63). Vedi inoltre I. de La
Potterie, Storia e verità, in R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive
di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, 115-139; O. Loretz, La Verità della
Bibbia. Pensiero semitico e cultura greca, EDB, Bologna 1970; G. O’Collins, La verità
salvifica, in Id., Teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 19883, 295-301.
A.M. Artola, La Verità della Bibbia, in Id. – J.M. Sánchez Caro (edd.), Bibbia e
parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 183-203; G. Biguzzi, Il problema della verità biblica
nel Nuovo Testamento, in A. Izquierdo (ed.), Scrittura Ispirata. Atti del Simposio inter-
nazionale sull’ispirazione promosso dall’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (Atti e
Documenti 16), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 233-248; P. Bovati
– P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti». Ermeneutica biblica, San Paolo - GBP,
Milano - Roma 2012, 266-302; M.A. Grisanti, Inspiration, Inerrancy, and the OT Canon:
The Place of Textual Updating in an Inerrant View of Scripture, in Journal of the Evangeli-
cal Theological Society 44 (2001) 577-598; I. de La Potterie, Il Concilio Vaticano II e la
Bibbia, in Aa.Vv., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale M. 20002, 19-42; M. Tábet,
Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo, Cinisello B. 1997, 95-109.
1
Cfr. per esempio: Aa.Vv., in MS 1, 482-488; R.F. Collins, in Nuovo Grande Com-
La verità della Bibbia 343
libri sacri della Bibbia sono per noi parola di Dio in linguaggio umano
e offrono all’uomo la verità senza errore che lo guida alla salvezza storica
ed escatologica. Pertanto questo capitolo poteva benissimo figurare come
conclusione della parte terza, dedicata a «La Bibbia: parola di Dio». Se
cade la fede nella verità della Scrittura sembra di conseguenza cadere
l’intero valore della Bibbia come testo ispirato. Questa connessione tra
verità e ispirazione è di nuovo alla base del documento del 2014 della
Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità; in un’ampia trat-
tazione relativa alla testimonianza degli scritti biblici sulla verità delle
Scritture, il documento connette la «verità per la nostra salvezza» di DV
11 non solo con il concetto di ispirazione, ma anche con l’approccio
canonico alle Scritture stesse, considerate nel loro insieme di AT e NT
e lette alla luce del mistero di Cristo2.
Così, la verità della Scrittura è un tema più complesso e può anche
venire considerata come la conclusione logica del «canone della Bib-
bia», almeno per due motivi: 1. il significato primo e fondamentale di
“canone” è quello di norma, regola della verità3; 2. la Bibbia è un’unità
intera e completa, AT e NT insieme, e soltanto nel contesto di questo
complesso unitario (una «analogia Scripturae» simile alla «analogia fi-
dei») ogni singolo elemento della Bibbia può essere inteso nel suo senso
autentico e può essere affermato come vero. Stabilito, cioè, il canone
dell’AT e del NT nei suoi limiti precisi e definitivi, il discorso sulla verità
della sacra Scrittura trova nel canone un suo ambito e un suo contesto
perfettamente adeguati.
Come possiamo leggere la Scrittura senza negarne la verità, accoglien-
dola come parola di Dio e, allo stesso tempo, senza cadere nel fonda-
mentalismo e senza tuttavia negare l’esistenza, nella Scrittura stessa, di
evidenti errori, per esempio di carattere storico? È il grave problema che
la chiesa si è trovata ad affrontare nel corso dei secoli.
4
Vedi sopra, capp. 8-9.
5
De praem. et poen., 55.
6
A.M. Artola, La Verità della Bibbia, 185; cfr. anche I. de La Potterie, Verità della
Sacra Scrittura e storia della Salvezza.
La verità della Bibbia 345
7
Cfr. P. Gibert, Breve storia dell’esegesi biblica (GdT 238), Queriniana, Brescia 1995,
98-107. Sull’esegesi omerica e Filone cfr. M. Niehoff, Jewish Exegesis and Homeric Scho-
larship in Alexandria, Cambridge University Press, Cambridge 2011.
8
Origene, Contra Celsum, IV 36: PG 11,1083 [ed. it., Contro Celso, Morcelliana,
Brescia 2000]. Cfr. P. Gibert, Breve storia dell’esegesi biblica, 118-129; F. Mosetto, I
miracoli evangelici nel dibattito tra Celso e Origene (BSR 76), LAS, Roma 1983.
346 Il canone delle sacre Scritture
9
Contra Celsum, IV, 49: PG 11,1107.
10
Dial. c. Triph., 65: PG 6, 625.
La verità della Bibbia 347
Se non possiamo trovare una soluzione a tutte le difficoltà che appaiono nella
Bibbia, sarebbe nondimeno la più grande empietà il voler cercare un Dio
diverso da quello che è. Dovremmo affidare tali cose a Dio che ci ha fatti,
riconoscendo che le Scritture sono perfette poiché sono state pronunciate
dalla parola di Dio e dal suo Spirito11.
Le discordanze nella Bibbia furono uno dei motivi per cui gli antichi
scrittori cristiani ricorsero volentieri all’interpretazione allegorica di al-
cuni passi biblici, come all’unico modo che consentiva loro di ritrovarvi
quella verità divina che altrimenti sembrava compromessa (vedi sopra).
Ciò valeva per l’AT, ma anche per i vangeli per quanto concerne le di-
scordanze tra i Sinottici e Giovanni. Così Origene, a proposito degli inizi
del ministero di Gesù nei Sinottici e in Giovanni, scrive:
Bisogna precisare che la verità, per quanto riguarda questi fatti, risiede nel
loro significato intelligibile, altrimenti, se non si dà una spiegazione della
discordanza nei resoconti evangelici (tra Giovanni e gli altri tre evangelisti),
(molti) perdono la fede nei vangeli, come se non fossero veritieri né scritti
per ispirazione di uno Spirito più divino né precisi nel ricordare i fatti […].
Orbene, coloro che accettano i quattro evangeli e sono anche convinti che
la discordanza apparente non si risolleva con l’interpretazione analogica, ci
spieghino allora, oltre alle difficoltà da noi accennate in precedenza, a pro-
posito dei quaranta giorni della tentazione che non possono assolutamente
essere inseriti nella narrazione di Giovanni, ci dicano quando il Signore ven-
ne a Cafarnao. Se egli ci venne dopo i sei giorni successivi al battesimo, dato
che nel sesto avvenne l’“economia” alle nozze di Cana in Galilea, è chiaro che
Gesù non è stato tentato, non è stato a Nazaret e Giovanni non era ancora
stato imprigionato […]. Ma anche su numerosi altri punti, se uno esamina
attentamente i vangeli sulla loro discordanza sotto l’aspetto squisitamente
storico […], gli viene il capogiro; e a questo punto o gli passa la voglia di
dimostrare la verità dei vangeli e allora, se non se la sente di eliminare del
tutto la fede su ciò che concerne il nostro Signore, sceglie uno dei vangeli
a capriccio e vi aderisce; oppure li accetta tutti e quattro e dirà che la loro
verità non consiste in ciò che è corporeo12.
11
Adv. haer., 2,28,2: PG 7, 804s.
12
Origene, In Job. 10,2: PG 14, 309-311 (Commento al Vangelo di Giovanni, UTET,
Torino 1968, 382s.).
348 Il canone delle sacre Scritture
13
Epist. 82, 1,3: PL 33, 277 (Le Lettere 1, Città Nuova, Roma 1969, 675-677).
14
De actis cum Felice Manichaeo 1,10: PL 42, 525.
15
De Gen. ad litt. 2,9: PL 34, 270; cfr. ibid. 2,10: PL 34, 271s.
16
Quodl. 12, q.17, a.1, ad 1; cfr. Summa Theol. II-II, q.171, a.6.
17
Cfr. Summa Theol. I, q.68, a.1.
La verità della Bibbia 349
Dalle quali cose descendendo più al nostro particolare, ne seguita per ne-
cessaria conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se
il cielo si muova o stia fermo, né se la sua figura sia in forma di sfera o di
disco o distesa in piano, né se la terra sia contenuta nel centro di essa o da
una banda, non avrà manco avuta intenzione di renderci certi di altre con-
clusioni dell’istesso genere, e collegate in maniera con le pur ora nominate,
che senza la determinazione di esse non se ne può asserire questa o quella
parte; quali sono il determinar del moto e della quiete di essa Terra e del
Sole. E se l’istesso Spirito Santo ha pretermesso d’insegnarci simili proposi-
zioni, come nulla attinenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come
si potrà adesso affermare, che il tener in esse questa parte, e non quella, sia
tanto necessario che l’una sia de Fide, e l’altra erronea? Potrà dunque essere
un’opinione eretica, e nulla concernente alla salute delle anime? o potrà dirsi,
aver lo Spirito Santo voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io
qui direi quello che intesi da persona ecclesiastica in eminentissimo grado [il
18
Cfr. G. Pani, Il caso Galileo: il metodo scientifico e la Bibbia: Ratzinger-Galileo alla
Sapienza, a cura di V. D’Adamo, Sigma, Palermo 2008; un caso analogo sarà il problema
posto dalle teorie di Darwin sull’evoluzione. È in questo contesto polemico che dev’essere
inquadrata la discussione sulla inerranza biblica contenuta nella Providentissimus Deus
(vedi sotto). Cfr. anche A. Melloni, Galileo al Concilio. Storia di una citazione e della
sua ombra, EDB, Bologna 2014. Secondo Melloni, per i Padri del Vaticano II la vicenda
di Galileo, richiamata al concilio soltanto marginalmente in una nota a GS 36, diventa,
simbolicamente e paradossalmente, un modo con il quale scrutare l’abuso, «l’impianto
teologico che lo ha sorretto», la resistenza a rinnegarlo, il danno che ha causato «non
tanto alla reputazione della chiesa, ma alla sua trasparenza evangelica», il rischio che «la
mentalità che aveva presieduto all’errore del 1633 si riproponesse addirittura durante il
concilio su temi nuovi» (l’esegesi storico-critica, Teilhard de Chardin, la contraccezione,
la psicanalisi) e, infine, «la possibilità di ricavare da quella storia una lezione» sulla natura
del rapporto fra “fede e scienza”.
19
Vedi sopra.
350 Il canone delle sacre Scritture
[…] Perché le sue [di Giosuè] parole erano ascoltate da gente che forse
non aveva altra cognizione de’ movimenti celesti che di questo massimo
e comunissimo da levante a ponente, accomodandosi alla capacità loro,
e non avendo intenzione d’insegnargli la costituzione delle sfere, ma solo
che comprendessero la grandezza del miracolo fatto nell’allungamento del
giorno, parlò conforme all’intendimento loro21.
20
G. Galilei, Lettera alla Serenissima Madama la Granduchessa Madre (Cristina di
Lorena), in Le opere di Galileo 5, ed. Nazionale, G. Barbera, Firenze 1895, 319.
21
Ibid., 344.
22
Cfr. J. Levie, La Bible parole humaine et message de Dieu, Desclée, Paris - Louvain
1958, 9-226; L. Pacomio, in C.M. Martini – L. Pacomio (edd.), I libri di Dio. Intro-
duzione generale alla Sacra Scrittura, 172-194.
La verità della Bibbia 351
23
Cit. in F. Spadafora – A. Romeo – D. Frangipane, Il Libro Sacro, 1: Introduzione
generale, Messaggero, Padova 1958, 163s., note 467 e 469.
352 Il canone delle sacre Scritture
Una distinzione del genere, tra la dottrina religiosa e le cose profane della
Bibbia, è abbastanza artificiale. Da una parte, presuppone una concezione
intellettualistica della rivelazione, come se Dio si fosse rivelato, comuni-
cando all’uomo soltanto delle dottrine; concezione che è stata felicemente
superata dal concilio […]. D’altra parte, la limitazione dell’inerranza alle
sole cose religiose implicherebbe necessariamente che nella Bibbia molte
cose siano puramente profane. Ma come ammettere che Dio abbia ispirato
gli autori sacri allo scopo di far scrivere loro delle cose profane? Bisogna
dire invece che la parola di Dio, sempre e dappertutto, si riferisce al disegno
di Dio; è ovvio, pertanto, che la Bibbia ha sempre in qualche maniera un
carattere religioso24.
24
I. de La Potterie, in La “verità” della Sacra Scrittura, 283-284.
La verità della Bibbia 353
Che somiglianza infatti può esserci tra le cose naturali e la storia, quando
le cose fisiche riguardano tutto ciò che appare sensibilmente e perciò deve
concordare col fenomeno, mentre al contrario la legge precipua della storia
è questa: la necessità che lo scritto concordi con le cose accadute, così come
realmente accaddero? (EB 457).
L’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII nel 1943 aprì una strada
nuova per la soluzione del problema dell’inerranza della Bibbia, per
quanto riguarda le narrazioni storiche. Dopo aver ricordato che gli an-
tichi scrittori esponevano i fatti con una tecnica espositiva e linguistica
diversa dalla nostra, l’enciclica afferma:
25
Vedi sotto, § 2.
354 Il canone delle sacre Scritture
La DV si esprime cosi:
Poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri
della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che
Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre lettere (DV 11).
26
Vedi sotto, § 3.2.
27
Vedi sotto, § 3.
28
Cfr. A. Grillmeier, La verità della Sacra Scrittura, 181-264; R. Saccenti, La parola,
la Scrittura e la storia. Storia del capitolo terzo della Dei Verbum, in PdV 60/3 (2015) 6-10;
F. Gil Hellin, Dei Verbum, 90-92.
La verità della Bibbia 355
preconciliare - re- elaborato (Comm. rielab. (Comm. dot- discusso (4a sessio- promulgato (4a ses-
spinto (1a sess. 20 mista) - non disc. tr.) - disc. (3a sess., ne) 20-22 sett. 1965 sione) 18 nov. 1965
nov. 1962) (2a sess., 1963) 30 sett.-6 ott. 1964)
1 2 . L’ i n e r r a n z a 11. Ispirazione e iner 11. Ispirazione e iner 11. Ispirazione e VE 11. Ispirazione e VE
conseguenza del ranza ranza RITÀ RITÀ
l’Ispirazione
Da questa esten- Poiché dunque Dio Poiché dunque tutto Poiché dunque tutto Poiché dunque tut-
sione della divina viene dichiarato ciò che l’autore ispi- ciò che l’autore ispi- to ciò che gli autori
Ispirazione a tutto, l’autore principale rato… asserisce, è da rato… asserisce, è ispirati o agiografi…
deriva direttamente di tutta la Scrittura ritenersi asserito dal- da ritenersi asserito asseriscono, è da ri-
e necessariamente e lo è veramente, ne lo Spirito Santo, è da dallo Spirito Santo, tenersi asserito dallo
l’immunità assoluta consegue che tutta la ritenersi anche, per è da ritenersi anche, Spirito Santo, è da
dall ’errore in tutta Scrittura divinamen- conseguenza, che i per conseguenza, ritenersi anche, per
la S. Scrittura… (la te ispirata è assolu libri interi della Scrit- che i libri interi della conseguenza, che i
fede) ci insegna che tamente immune da tura… insegnano Scrittura… insegna- libri della Scrittura
sarebbe del tutto ogni errore. senza nessun errore no fermamente e insegnano con cer-
illecito concedere la VERITÀ. fedelmente, integral- tezza, fedelmente e
che l’autore sacro mente e senza errore senza errore la VE-
ha errato, poiché la la VERITÀ salvifica. RITÀ che Dio, per la
divina Ispirazione nostra salvezza, volle
per se stessa esclude fosse consegnata
e respinge così neces nelle Sacre Lettere.
sariamente ogni erro
re, in qualunque cosa 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra 12. Come la Sacra
religiosa o profana, Scrittura va interpre Scrittura va interpre Scrittura va interpre Scrittura va interpre
come è necessario tata. tata. tata. tata.
che Dio, somma Ve-
rità, non sia l’autore Ma poiché Dio ha … l’interprete della … l’interprete della … l’interprete della
di nessun errore. scritto per mezzo di sacra Scrittura, per Sacra Scrittura, per Sacra Scrittura, per
uomini…, l’interprete capir bene q u a l e capir bene ciò che capir bene ciò che
13. Come l’inerranza della Sacra Scrittu- VERITÀ Egli [Dio] ha Egli ha voluto comu- Egli ha voluto comu-
va giudicata. ra, affinché appaia voluto comunicarci, nicarci, deve ricerca- nicarci, deve ricer-
quale VERITÀ ha deve ricercare con re con attenzione, care con attenzione,
Tuttavia questa iner voluto comunicarci, attenzione, che cosa che cosa gli agiogra- che cosa gli agiografi
ranza va giudicata deve ricercare con gli agiografi in real- fi in realtà abbiano in realtà abbiano in-
secondo il modo attenzione che cosa tà abbiano inteso inteso significare e teso significare e a
in cui si raggiunge l’agiografo abbia in significare e a Dio è a Dio è piaciuto ma- Dio è piaciuto ma-
la VERITÀ nel libro realtà inteso signi- piaciuto manifestare nifestare con le loro nifestare con le loro
sacro. ficare. … il modo di con le loro parole. parole. parole.
… il modo di rag- raggiungere la VERI- … l’interprete ri- … l’interprete ri- … l’interprete ricerchi
giungere la VERITÀ TÀ va giudicato dal cerchi il senso che cerchi il senso che il senso che l’agio-
va giudicato anche senso che l’agiogra- l’agiografo intese l’agiografo intese grafo intese di espri-
dal senso che l‘a- fo intese di espri- di esprimere ed e- di esprimere ed mere ed espresse…
giografo espresse… mere ed espresse… presse… La VERITÀ espresse… La VERI- Per intendere ret-
la VERITÀ infatti e La VERITÀ dunque, infatti, ossia ciò che TÀ infatti, ossia ciò tamente ciò che
la credibilità della S. ossia ciò che l’auto- l’autore sacro volle che l’autore sacro l’autore sacro volle
Scrittura, ossia ciò re sacro volle signi- significare n e l l o volle asserire nello asserire nello scrive-
che l’autore volle ficare nello scrivere, scrivere, non viene scrivere, non viene re, si deve far debita
realmente significa- non viene intesa ret- intesa rettamente, intesa rettamente, attenzione ecc.
re n e l l o scrivere, tamente, se non si se non si fa debita se non si fa debita
sovente non viene fa debita attenzione attenzione ecc… (cfr. attenzione ecc.
intesa rettamente, a quei modi abituali lo Schema II).
356 Il canone delle sacre Scritture
29
Vedi sopra, § 1.3.
La verità della Bibbia 357
autori non ha voluto insegnare agli uomini queste cose [cioè l’intima
costituzione delle cose visibili] che non sarebbero state di nessuna utilità
per la loro salvezza (nulli saluti profutura)» (EB 121; FC 67).
L’intero schema preconciliare, dopo un’accesa discussione che si pro-
trasse dal 14 al 20 novembre 1962, fu respinto nella prima sessione del
concilio da 1368 Padri conciliari. Non essendo stata raggiunta la mag-
gioranza dei due terzi, secondo il regolamento, la discussione doveva
procedere sulla base di quel primo testo30. Si determinò subito un senso
di profondo disagio fra i Padri; e papa Giovanni XXIII, di sua autorità,
decise per una revisione generale del testo, affidandola ad una commis-
sione mista di cui fecero parte i membri della «Commissione dottrinale»
e i membri del «Segretariato per l’unità dei cristiani».
Nello schema II della Commissione mista (che tra l’altro non fu nep-
pure discusso nell’Aula conciliare, ma soltanto distribuito ai Padri per-
ché vi facessero le loro osservazioni per scritto) risulta soppressa la frase
incriminata dell’inerranza biblica «in qualunque cosa religiosa o profa-
na». Inoltre, nel n. 12 che porta un titolo più positivo («Come la sacra
Scrittura va interpretata»), il termine “verità” acquista ora un contenuto
teologico, nel senso che se ne mette in risalto la dimensione verticale
con un esplicito riferimento alla rivelazione: «… affinché appaia quale
verità [Dio] ha voluto comunicarci…».
Lo schema III costituisce un vero tournant nella genesi del testo con-
ciliare. Nel n. 11, finalmente, da una formulazione finora negativa («La
Scrittura divinamente ispirata è assolutamente immune da ogni errore»),
si passa ad una formulazione in positivo che mette l’accento sulla finalità
della Bibbia ispirata, quella appunto di «insegnare senza nessun errore
la Verità». La Bibbia è il libro di Dio, non perché è priva di errori, ma
perché insegna senza errore la Verità di Dio: appunto, «la Verità che Dio
ha voluto comunicarci…, che a Dio è piaciuto manifestare con le parole
degli agiografi» (n. 12).
Da questa nuova formulazione sorgeva spontanea una domanda, alla
quale i Padri conciliari non poterono sottrarsi: Quale verità insegna la
30
Acta Synodalia 1, pars III, pp. 254s.
358 Il canone delle sacre Scritture
Bibbia? Una prima risposta ce l’offre lo schema IV. In esso cambia il titolo
del n. 11, formulato positivamente: «Si stabilisce il fatto dell’ispirazione
e della verità della sacra Scrittura»; soprattutto, il termine nuovo “verità”
viene specificato in «verità salvifica (veritatem salutarem)». L’aggettivo
salutarem, che specificava la verità della Bibbia, fece da protagonista nelle
ultime e tenacissime polemiche dentro e fuori l’Aula conciliare.
Come si era giunti alla nuova formulazione? Nella discussione in aula
dello schema III, avvenuta dal 2 al 6 ottobre 1964, alcuni interventi
avevano sollecitato che «lealmente, senza ambiguità ed artificio» si spe-
cificasse quale verità la Bibbia abbia voluto insegnarci, dovendo prendere
atto che talvolta, in cose di storia e di scienze naturali, essa «deficit a
veritate». Cosi il card. König di Vienna, parlando a nome del gruppo di
lingua tedesca, attirava l’attenzione sui dati delle scoperte in Oriente e
affermava che, se da una parte avevano confermato la credibilità dell’AT,
dall’altra avevano anche offerto un altro risultato che non sarebbe stato
facilmente contraddetto dal progresso delle scienze: «Laudata scientia
rerum orientalium insuper demonstrat in Bibliis sacris notitias historicas
et notitias scientiae naturalis a veritate quandoque deficere». A conferma
di ciò, König adduceva alcuni esempi: Mc 2,26 confrontato con 1 Sam
21,1ss. (non si tratta del sommo sacerdote Abiatar ma di suo padre
Achimelec); Mt 27,9 (in realtà si cita Zc 11,12 e non Geremia); Dn 1,1
(l’assedio di Gerusalemme non avviene nel terzo anno del re Ioiakim
ma tre anni più tardi); e aggiungeva: «Aliae indicationes geographicae et
chronologicae eodem modo citandae essent»31. Nelle cose che riguardano
soltanto la veste esteriore della rivelazione si manifesta la «condescensio
Verbi Divini» di cui parla la DV 13; e la loro fallibilità non chiama in
causa la verità della Bibbia, che è unicamente la verità rivelata, quella
appunto di cui si parla in tutta la costituzione Dei Verbum. In questi
termini andava specificata la “verità” della Bibbia.
Sulla scia di König, i vescovi brasiliani intervennero a confermarne
la tesi e, facendo propria una proposta dei professori del Pontificio Isti-
tuto Biblico di Roma, proposero una formula equivalente: «la verità,
ossia la rivelazione senza errore», appellandosi al concilio Vaticano I, che
aveva usato tale espressione (cfr. EB 77). A conclusione dell’intervento
si affermava: «Criterium veritatis sacrae Scripturae non est illa accurata
31
Cfr. l’intero intervento del card. König, in Acta Synodalia 3, pars III, pp. 275s.; per
il commento, cfr. A. Grillmeier, La verità della Sacra Scrittura, 197-199.
La verità della Bibbia 359
La formula “verità salvifica” era già stata usata dal concilio Tridentino a
proposito del vangelo chiamato «la fonte di ogni verità salvifica» (fontem
omnis… salutaris veritatis: cfr. EB 57); addirittura veniva ripresa dalla
stessa DV 7, quando essa parla del vangelo «come la fonte di ogni verità
salutare e di ogni regola morale». Ma era “nuovo” il fatto di applicarla al
problema dell’inerranza biblica: nuovo e – a parere di molti – “ambiguo
e pericoloso”. Con questi aggettivi fu qualificata la formula «veritatem
salutarem» in un fascicolo che, nell’intervallo tra la terza e la quarta sessio-
ne del concilio, il cosiddetto «Comitato episcopale internazionale» aveva
divulgato in molti paesi34. Nelle votazioni sul cap. III della Dei Verbum,
all’inizio della quarta ed ultima sessione, i «placet iuxta modum» furono
324 e di questi ben 200 riguardavano tale formula35: essa sembrava li-
mitare l’inerranza biblica alle sole «res fidei et morum», contraddicendo
l’enciclica Providentissimus Deus e il successivo magistero della chiesa.
Il 14 ottobre 1965 un gruppo di Padri conciliari scrisse direttamente
al papa Paolo VI: «La formula veritatem salutarem era stata volutamen-
te introdotta per restringere l’inerranza alle sole cose soprannaturali,
riguardanti la fede e i costumi; essa contrastava apertamente con l’in-
32
Cfr. Acta Synodalia 3, pars III, p. 448.
33
«Commissioni visum est adhibendum esse appositum: “salutarem” ad “veritatem”, quo
verbo cointelleguntur facta quae in Scriptura cum historia salutis iunguntur» (Acta Synodalia
4, pars I, p. 359).
34
Cfr. G. Caprile, Aspetti positivi della terza sessione del Concilio, in CC 116/1 (1965)
329, nota 16.
35
Cfr. Acta Synodalia 4, pars II, p. 10.
360 Il canone delle sacre Scritture
Cum ergo omne id, quod auctores inspirati seu hagiographi asserunt, reti-
neri debeat assertum a Spiritu Sancto, inde Scripturae libri veritatem, quam
Deus nostrae salutis causā Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter
et sine errore docere profitendi sunt (DV 11).
36
Citato in G. Caprile, Tre emendamenti allo schema della Rivelazione, in CC 117/3
(1966) 225; cfr. R. Burigana, La Bibbia nel Concilio, 423-430; F. Gil Hellin, Dei
Verbum, 91-92.
37
«Voce “salutaris” nullo modo suggeritur s. Scripturam non esse integraliter inspiratam et
verbum Dei […]. Ut autem omnis abusus in interpretatione praecaveatur, admittit commissio
emendationem a 73 Patribus propositam, ita ut textus sit: “Cum ergo omne id, quod auctores”,
ecc.» (Acta Synodalia 4, pars V, pp. 708s.).
La verità della Bibbia 361
38
Su questo punto cfr. il rimprovero (fondato) mosso da R. Vignolo, Metodi, erme-
neutica, statuto del testo biblico. Riflessioni a partire da L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa (1993), in G. Angelini (ed.), La Rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia.
Raccolta di studi in onore del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano in
occasione del suo LXX compleanno (Quodlibet 7), Glossa, Milano 1998, 7.
La verità della Bibbia 363
non si deve partire dalla loro realtà profana isolata, ma dal punto di vista
speciale del come e quanto l’oggetto formale dell’ispirazione, il salutis causa
si realizzi in essi […]. Comunicare la “verità salvifica” è l’oggetto formale
permanente della sacra Scrittura. Così anche le verità o notizie profane
acquistano un carattere salvifico. Vengono scelte e fornite in considerazione
della salvezza. E sono libere da errore in quanto notizie contenenti l’agire o
il rivelare salvifico di Dio, o in proporzione, maggiore o minore, del rapporto
che con tale agire divino hanno […]. Ispirazione ed inerranza (o positiva-
mente “verità”) si estendono ad ogni parte della Scrittura, la seconda in gradi
differenti secondo come si attua l’oggetto formale della Scrittura ispirata. Le
affermazioni salutari rivelate vere e proprie, oppure anche, se intese da Dio,
certe determinate verità acquisibili naturalmente o fatti naturalmente con-
statabili, sono come tali essenzialmente inerranti; il resto rispetto alle verità
rivelate nostrae salutis causā, ha una funzione di servizio; è mezzo o cornice
delle verità propriamente intese, ed è perciò partecipe dell’inerranza solo in
virtù di questo servizio alla parola di Dio vera e propria. In tal modo tutto
nella Scrittura è partecipe della «veritas, quam Deus nostrae salutis causā litte-
ris sacris consignari voluit», o direttamente ed essenzialmente, o indirettamente
ed in virtù del suo servizio alla verità salvifica. Appunto in questa gradazione
è fornita la garanzia del firmiter, fideliter et sine errore docere. Ma nei libri
sacri tutto è sotto il carisma dell’ispirazione39.
Per quel che riguarda la metafisica, i libri sacri non danno alcun tentativo
di spiegazione razionale delle cose, elaborato per via di riflessione astratta e
sfociante nella costruzione di un sistema coerente come quello di Platone,
Aristotele o Filone. Da questo punto di vista tecnico, la Bibbia non insegna
39
A. Grillmeier, in La “verità” della Bibbia, 252-254.
40
Cfr. P. Grelot, in La “verità” della Bibbia, 106-124.
364 Il canone delle sacre Scritture
Parlando del caso Galilei42, abbiamo già visto che la Bibbia non in-
tende istruirci sulla conformazione fisica delle cose; gli autori sacri ne
parlano seguendo le opinioni comuni della loro epoca, come avevano
già intuito Agostino e Tommaso d’Aquino. Le idee possono cambiare,
la scienza può e deve progredire, senza che il messaggio biblico venga
a soffrirne. Nell’affrontare questi problemi è fondamentale che non si
commettano estrapolazioni. Il biblista e il teologo devono vigilare perché
non si imprestino alla Bibbia affermazioni che essa non fa; da questo
punto di vista, non va trascurato il duro paragrafo che IBC dedica al
fondamentalismo biblico, una tendenza ancora oggi viva in molte aree
del cristianesimo43. D’altra parte, anche lo scienziato deve stare attento
a non introdurre, nella sua teoria, in modo surrettizio, qualche afferma-
zione metafisicamente erronea44.
Il ricorso all’idea dei generi letterari (vedi sotto) ci aiuta a capire che
la Bibbia parla il linguaggio del suo tempo; Gen 1-11, per esempio, non
vuole dirci il “come” Dio crea il mondo, ma il “perché”, ovvero il senso
della creazione; occorre dunque cercare nelle pagine della Scrittura ciò
che riguarda la salvezza, proprio secondo il principio contenuto in DV 11.
41
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 118; più estesamente, in La “verità” della Bibbia,
107-109 (orig. fr., La Bible Parole de Dieu, 109-111).
42
Vedi sopra, § 1.2.
43
Il fondamentalismo biblico – applicato per esempio ai racconti della creazione con-
siderati come storicamente veri – viene definito in modo molto forte come «una forma
di suicidio del pensiero»; cfr. IBC, I F (EB 1381-1390).
44
Anzi, come scrive F. Dreyfus a proposito di Gen 1, «il suo messaggio attuale risulta
dal confronto di due modi della parola di Dio: il libro della Scrittura da una parte, il libro
della creazione dall’altra. L’evento costituito dal progresso scientifico, permettendo di
leggere meglio la parola di Dio nel libro della creazione, ci dà la possibilità di distinguere,
in Gen 1, tra ciò che ha un valore sempre attuale e ciò che è caduco perché legato a una
lettura imperfetta del libro della creazione, ormai meglio conosciuto» (L’actualisation de
l’Écriture. I. - Du texte à la vie, in RB 86 [1979] 38s.).
La verità della Bibbia 365
45
Vedi sotto, § 3.2.
46
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 119s.; più estesamente, cfr. Id., in La “verità” della
Bibbia, 111-124 («Scrittura e storia») e 130-145 («Il problema del mito. Il problema della
storia nell’AT e nel NT»); La Bible Parole de Dieu, 112-120.124-133.
366 Il canone delle sacre Scritture
47
Cfr. G. Garbini, Storia e ideologia nell’Israele antico, Paideia, Brescia 1986; per tutta
la questione cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti», 298-301.
48
IVSS, nn. 111-114: «Le differenze, che in parte possono essere armonizzate, riguar-
dano aspetti secondari rispetto alla figura centrale di Gesù, Figlio di Dio, Salvatore degli
uomini, che è comune ai due evangelisti» (n. 114).
49
Cfr. P. Beauchamp, Le récit, la lettre et le corps. Éssais bibliques. Nouvelle édition
augmentée, du Cerf, Paris 1992. Su tutto il problema si veda J.-L. Ska, La Parola di Dio
nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 1999; piccolo libretto molto raccomandato.
IVSS si occupa, da parte sua, dei problemi legati alla verità storica dei racconti biblici ai
nn. 106-123.
50
Vedi sotto, cap. 19.
La verità della Bibbia 367
Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto tra l’altro anche
dei “generi letterari”. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa
nei testi in varia maniera storici, o profetici, o poetici, o con altri modi di dire.
È necessario inoltre che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di
esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del
suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso. Per
comprendere infatti nel loro giusto valore ciò che l’autore sacro volle asserire
nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originari modi
di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia
a quelli che allora erano in uso nei rapporti umani (DV 12)51.
51
Per un esame più dettagliato di questo testo, vedi sotto, cap. 19,1.1-2.
52
Cfr. anche IVSS, n. 110.
53
Per esempio; al tempo di Geroboamo II e del Giona di cui si parla in 2 Re 14, Ninive
non era neppure la residenza del re di Assiria; non si poteva parlare allora di Ninive come
di una metropoli: le rovine di Ninive esplorate dagli archeologi non corrispondono a
una città per il cui attraversamento occorrono tre giorni di cammino; il titolo di «Re di
Ninive» non compare mai nei documenti né biblici né assiri, nei quali si parla sempre di
re di Assur; né la Bibbia al di fuori del libro di Giona, né gli annali assiri contengono una
parola sulla missione di un profeta e la conseguente conversione sensazionale di Ninive;
la lingua ebraica in cui è redatto il libro di Giona è recente e ha paralleli con quella di
Esdra-Neemia e Cronache: siamo cioè nel post-esilio ecc.
54
Cfr. voce Giona, in DB, 415s.
368 Il canone delle sacre Scritture
storia viene collegata col nome del profeta Giona (di cui 2 Re 14,25
fornisce soltanto il nome) forse perché Giona significa in ebraico co-
lomba e incarna molto bene il popolo di Israele (cfr. Os 7,11), ingenuo
e colpevole insieme.
In Israele e nella cultura del tempo si insegna raccontando; e, quan-
do si racconta, eventi e personaggi non possono mancare, soprattutto
debbono incuriosire, piacere, divertire.
55
Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009, 1700.
56
N. Lohfink, in La “verità” della Bibbia, 56.
La verità della Bibbia 369
Esiste dunque una storia della rivelazione, da cui derivano serie con-
seguenze dal punto di vista dogmatico e da quello morale.
57
Vedi sopra, cap. 3, 6.
370 Il canone delle sacre Scritture
58
P. Grelot, La Bibbia e la Teologia, 120; cfr. Id., in La “verità” della Bibbia, 125-127.
59
Ibid., 121.127s.
60
IVSS, nn. 119-123: «Dobbiamo dunque tener conto del fatto che i Vangeli non sono
soltanto cronache degli avvenimenti della vita di Gesù, poiché gli evangelisti intendono
altresì esprimere, secondo il modulo narrativo, il valore teologico di tali avvenimenti»; essi
intendono cioè offrire un “commento teologico” ai fatti che stanno raccontando (n. 123).
La verità della Bibbia 371
61
Per questa soluzione, cfr. P. Bovati – P. Basta, «Ci ha parlato per mezzo dei profeti»,
288-293, spec. 293. Gli stessi autori, alle pp. 281-288, applicano lo stesso principio
all’esistenza di una pluralità testuale sia per l’AT che per il NT, concludendo che non
si dovrebbe contrapporre una lezione critica a un’altra, ma considerarle come diverse
possibilità di senso.
62
Per una più ampia trattazione, cfr. J. Levie, La Bible parole humaine et message de
Dieu, Desclée, Paris - Louvain 1958, 261-275. Cfr. anche IVSS, nn. 124-136.
63
Per il testo della «stele di Mesha», cfr. M. Cimosa, L’ambiente storico-culturale delle
Scritture ebraiche, EDB, Bologna 2000, 286-290.
372 Il canone delle sacre Scritture
Queste lunghe tappe del passato che ebbero luogo nel corso della storia della
rivelazione non debbono essere semplicemente messe da parte come supe-
rate. All’interno di una ermeneutica biblica complessiva esse conservano un
nucleo di verità, che noi ogni volta tendiamo troppo spesso ad accantonare.
In un certo senso, Dio è e rimane un Dio della violenza e dello sterminio
di tutto ciò che è male. Lo è, nonostante sia il Dio della pace ed esiga dai
64
Per queste difficoltà legate alla storicità dei racconti di Gs-Gdc, cfr. L. Mazzinghi,
Storia di Israele. Dalle origini all’epoca romana, EDB, Bologna 2007, 30-36; cfr. IVSS,
n. 127.
La verità della Bibbia 373
suoi di rinunciare alla violenza. Egli instaura la propria signoria non vio-
lenta pur lasciando che nel mondo divampi la violenza che cospira contro i
suoi progetti. Il proprio Figlio, e tutti coloro che si uniscono a lui, ne sono
le vittime, e solo attraverso questa non violenza che fa dono della propria
vita, Dio instaura la sua signoria di pace. Se non disponessimo di questi
terribili racconti, che risalgono a un’epoca nella quale lo stesso Israele era
ancora profondamente coinvolto perlomeno in una violenza verbale, forse
penseremmo di poter raggiungere il mondo della pace in un modo diverso
da quello che richiede una adesione al Messia ucciso: con discorsi eleganti,
marce di protesta o addirittura con la ragione65.
65
N. Lohfink, La “guerra santa” e la “scomunica” nella Bibbia, in PSV 37 (1998) 94.
66
Cfr. IVSS, nn. 128-131.
374 Il canone delle sacre Scritture