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PLATONE

Platone nacque ad Atene, da famiglia aristocratica, nel 427 a.C. A vent'anni cominciò a
frequentare Socrate e fu tra i suoi discepoli fino alla morte del maestro, che
rappresentò per lui un evento decisivo. Secondo quello che egli stesso dice nella lettera
VII, di fondamentale importanza per l'interpretazione della sua biografia e della sua
stessa persona, Platone avrebbe voluto infatti dedicarsi alla vita politica. La morte di
Socrate lo colpì tuttavia come un'ingiustizia imperdonabile e come una condanna generale
della politica del tempo. Platone si rese conto che le condizioni di vita associata
avrebbero dovuto essere radicalmente cambiate e che questo avrebbe dovuto costituire
il nuovo compito della filosofia. Solamente quando fossero giunti al potere i veri
filosofi, il genere umano sarebbe stato liberato. La filosofia da allora gli apparve dunque
come l'unica possibile via per condurre l'uomo e la comunità verso la giustizia. Platone fu
il fondatore dell'Accademia, chiamata così in quanto fiorì nel ginnasio fondato da
Accademo. Essa fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche, ovvero come
un'associazione religiosa, un "tiaso".

LE OPERE

Platone è l'unico filosofo dell'antichità di cui ci siano giunte tutte le opere. Abbiamo
infatti l'Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 11 lettere. Il grammatico Trasillo divise
l'opera di Platone in nove tetralogie: da questa divisione alcune opere rimasero spurie.
Per determinare la successione cronologica degli scritti si considerano i rinvii
contenuti nei
dialoghi stessi, mentre altre indicazioni fondamentali si ricavano dal contenuto delle
opere. A partire da questi elementi, l'attività letteraria di Platone può essere suddivisa
in un primo periodo, che comprende scritti giovani o socratici; segue un secondo
periodo che contiene gli scritti della maturità, tra cui compaiono Il simposio o Il Fedro;
infine un terzo periodo dell'attività platonica racchiude gli scritti della vecchiaia.

SOCRATE E PLATONE

La fedeltà all'insegnamento e alla persona di Socrate è il carattere dominante


dell'intera attività filosofica di Platone. Lo sforzo costante del filosofo è quello di
rintracciare il significato vitale dell'opera e della persona di Socrate; e per
rintracciarlo ed esprimerlo il filosofo procede al di là del patrimonio dottrinale
dell'insegnamento socratico, formulando principi e dottrine che vogliono esprimere ciò
che la persona di Socrate incarnava. La ricerca platonica dunque tende a configurarsi
come uno sforzo di interpretazione della personalità filosofica di Socrate. La
stessa forma dell'attività letteraria di Platone, il dialogo, è un atto di fedeltà al
silenzio letterario di Socrate: l'una e l'altro si basano sulla concezione della filosofia
come "sapere aperto", che ripropone incessantemente i suoi problemi e le sue
soluzioni. La stessa convinzione che aveva trattenuto Socrate dallo scrivere spinge
dunque Platone ad adottare la forma dialogica. Il dialogo è il solo mezzo attraverso il
quale si possa esprimere e comunicare la modalità dell'indagine filosofica. Esso
riproduce l'andamento stesso della ricerca, che procede lentamente e
faticosamente, di tappa in tappa, e soprattutto riproducendo il carattere di
socialità e comunanza che rende solidali gli sforzi degli individui che coltivano la
filosofia. Questa concezione del filosofare come dialogo, ha fatto sì che Platone,
nonostante una forte tendenza assolutistica a voler trovare certezze di pensiero e di
vita fondate su realtà eterne ed immutabili, abbia di fatto praticato e vissuto la filosofia
come una ricerca inesauribile e mai conclusa, ossia come un infinito sforzo verso una
verità che l'uomo non possiede mai totalmente, ma attorno alla quale è doveroso
continuare incessantemente a interrogarsi.

IL MITO

Un’altra caratteristica fondamentale della filosofia di Platone è l’uso dei miti, nonché
racconti fantastici attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. Il
mito in Platone riveste due significati fondamentali: è uno strumento di cui il filosofo
si serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine
all’interlocutore. Da questo punto di vista, il mito è un’escogitazione didattico-
espositiva, concepita ai fini della comunicazione intellettuale. In un secondo senso, più
profondo, il mito è un mezzo di cui si serve il filosofo per poter parlare di realtà che
vanno al di là dei limiti cui l’indagine rigorosamente razionale può spingersi. La
filosofia, dunque, avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente,
spesso si muove ai limiti del pensabile, dinanzi a “sentieri interrotti” che la
costringono a tornare indietro, o a percorrere un’altra via, che Platone individua
nell’allusione mitica. Il mito platonico ha senso solo se analizzato in stretta
connessione con il discorso filosofico, in rapporto al quale riveste un valore
persuasivo e complementare.

L’APOLOGIA DI SOCRATE

L’Apologia costituisce un’esaltazione del compito che Socrate si è assunto di fronte


a sé stesso e di fronte agli altri, e perciò l’esaltazione della vita consacrata alla ricerca
filosofica. “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo ”. Socrate
dichiara che egli non tralascerà mai il compito che gli è stato assegnato dalla divinità:
l’esame di se stesso e degli altri per rintracciare la via del sapere e della virtù. Fin
dalla presentazione che Platone offre di Socrate è dunque evidente che egli vede
incarnata nella figura del maestro quella filosofia come ricerca alla quale egli stesso
dedica la propria esistenza.

I DIALOGHI

I dialoghi di Platone illustrano i capisaldi dell’insegnamento del filosofo, che sono


fondamentalmente tre:

1. La virtù è una sola e si identifica con la scienza

2. Solo come scienza, la virtù è insegnabile

3. Nella virtù come scienza consiste la felicità dell’uomo

Queste tesi, che saranno presentate e difese nei dialoghi maturi, vengono preparate
“negativamente” da tutta una serie di dialoghi minori, volti a sgombrare il terreno dalle
tesi opposte. Il metodo prevalentemente seguito da Platone in questi dialoghi è
infatti quello dialettico: si ammette in via d’ipotesi la tesi opposta a quella di Socrate e si
dimostra che essa non conduce a nulla o a conseguenze assurde, rimanendo così
confutata. La tesi fondamentale secondo cui la virtù è scienza implica che la virtù sia una
sola, che non ci siano dunque tante virtù l’una diversa dall’altra definibili isolatamente. Se
è una sola la virtù, di conseguenza uno solo deve essere anche l’ideale o il valore che
essa tende a realizzare: Platone identifica questo valore, che comprende e assomma in
sé tutti gli altri, nel Bene. Uno solo deve essere dunque il valore per l’uomo e per il
filosofo e una sola l’attività umana volta a realizzarlo (virtù). In altri dialoghi Platone
insiste sull’esigenza di riconoscere la propria ignoranza come primo passo per
intraprendere la ricerca, che deve condurre alla scienza.

PROTAGORA

In quest’opera Platone dimostra che soltanto la scienza si può insegnare e quindi la


virtù si può trasmettere e comunicare solo in quanto è scienza. Il Protagora nega
all’insegnamento sofistico ogni valore educativo e formativo e alla sofistica stessa
ogni contenuto umano. Di fronte al crollo della sofistica, l’insegnamento di Socrate appare
in tutto il suo valore.

EUTIDEMO

È una rappresentazione vivace e caricaturale del metodo eristico dei sofisti.


L’eristica è l’arte di battagliare a parole e di confutare tutto quello che si dice, falso
o vero che sia. Gli interlocutori del dialogo di divertono a dimostrare la validità di
tesi opposte: il fondamento di questi esercizi è la dottrina secondo cui non è possibile
l’errore e quindi qualsiasi cosa si dica è vera. Al che Socrate oppone che in questo
caso non vi sarebbe nulla da insegnare e nulla da apprendere, e la stessa eristica
sarebbe inutile. In realtà nulla si può insegnare se non la sapienza e la sapienza non si
può insegnarla né apprenderla se non amandola, e dunque filosofando. A questo punto
il dialogo si trasforma da critica eristica a esortazione alla filosofia. Questa parte
del dialogo è importante soprattutto in quanto contiene l’illustrazione del compito
proprio della filosofia, ovvero l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo.

GORGIA

Platone in quest’opera attacca l’arte che costituiva la principale creazione dei sofisti,
nonché la base del loro insegnamento: la retorica. La retorica voleva essere una
tecnica “della persuasione” totalmente indipendente rispetto ai contenuti della tesi
da difendere e dell’argomento trattato. Platone oppone l’idea secondo cui ogni arte è
veramente persuasiva solo se si esprime riguardo all’oggetto che le è proprio.
La retorica non ha un oggetto suo proprio, e dunque non è arte ma soltanto “pratica
adulatoria”. La retorica, ponendosi in difesa delle ingiustizie, implica la convinzione
secondo cui la giustizia è solo una convenzione umana.

DEL LINGUAGGIO

All’eristica si collega il “verbalismo” di Platone: il problema è se veramente il


linguaggio sia un mezzo per insegnare la natura delle cose. Platone ritiene che il
linguaggio debba essere adatto a farci discernere la natura delle cose. I nomi
presuppongono la conoscenza delle cose: prima della creazione del linguaggio gli
uomini devono conoscere le cose per altra via, dal momento che non dispongono
ancora del nome; noi stessi per giudicare la correttezza dei nomi non possiamo appellarci
ad altri nomi, bensì bisogna fare riferimento alla realtà della quale i nomi sono
immagine. Sicché il criterio per intendere il valore e il significato delle parole ci
porta a cercare, al di là delle parole, la natura stessa delle cose. Il dialogo contiene
dunque l’enunciazione delle tre alternative fondamentali che si presenteranno nella
storia della teoria del linguaggio:


Il linguaggio è pura convenzione e si deve alla libera iniziativa umana


Il linguaggio è naturalmente prodotto dall’azione causale delle cose


Il linguaggio è lo strumento che serve ad avvicinare l’uomo alla
conoscenza delle cose (P)

Platone, in questo modo, fa diretto riferimento alle idee, che più spesso indica con il
termine di “sostanze”, intendendo “ciò che l’oggetto è”. Egli tuttavia non attribuisce la
creazione del linguaggio alla natura stessa delle cose: lo ritiene una produzione
dell’uomo, ma allo stesso modo ammette che questa produzione è diretta alla conoscenza
delle essenze, della natura delle cose.
LA DOTTRINA DELLE IDEE

La teoria delle idee segna l’avvio della seconda fase della speculazione platonica,
ovvero la fase in cui il filosofo, procedendo per conto proprio, va esplicitamente al di là
delle dottrine che Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio specifico pensiero. Nei
dialoghi la dottrina delle idee non è mai stata esposta in maniera organica. La dottrina
delle idee rappresenta il cuore del platonismo maturo, tanto è vero che Platone
parla della possibilità di risolvere i massimi problemi della filosofia solamente dopo averla
abbracciata. La genesi della teoria delle idee è da ricercarsi nell’approfondimento
platonico del concetto di “scienza”. In antitesi ai sofisti, e procedendo oltre lo stesso
Socrate, Platone ritiene che la scienza debba avere i caratteri della stabilità e
dell’immutabilità, e q u i n d i della perfezione. Ma e ssen do convi nto che il
pensiero
rifletta l’essere (realismo gnoseologico), ossia che la mente sia uno specchio, o una
riproduzione, di ciò che esiste, Platone si chiede quale sia l’oggetto proprio della
scienza. In altre parole, se il concetto socratico fonda una scienza assoluta, quale
sarà l’oggetto del concetto? Qual è la realtà fotografata dal sapere?
Si deve
necessariamente ammettere l’esistenza di un contenuto specifico della scienza.
Questo contenuto, tuttavia, non può essere costituito dalle cose del mondo sensibile,
poiché queste sono mutevoli e imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente
forma di conoscenza mutevole e imperfetta che Platone chiama “doxa”. Oggetto
proprio della scienza, secondo Platone, non possono essere che le idee.
Il termine “idea” denota per l’uomo una rappresentazione dell’intelletto, per Platone
indica invece un’entità immutabile e perfetta, che esiste per proprio conto (ousia,
sostanza, realtà autonoma) e che costituisce, con altre idee, una zona d’essere diversa
dalla nostra, che il filosofo chiama “ iperuranio” (metaforicamente, al di là del cielo). Il
fatto che le idee abbiano caratteristiche strutturali diverse da quelle rappresentate
dalle cose non esclude un loro stretto rapporto con gli oggetti, che Platone configura
nei termini di modello-copia. Per il filosofo le cose sono infatti copie, o imitazioni
imperfette, delle idee. L’idea platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose
molteplici e
imperfette di questo mondo. In Platone, dunque, esistono due grandi gradi
fondamentali di conoscenza, l’opinione e la scienza, cui fanno riscontro due tipi
d’essere distinti, le cose e le idee (dualismo gnoseologico e dualismo
ontologico). La verità imperfetta dell’opinione dipende dalla configurazione
imperfetta del suo oggetto, ossia dal carattere mutevole e transeunte delle cose
testimoniate dai sensi. La scienza costituisce una conoscenza stabile, duratura e
perfetta proprio perché la realtà che essa indaga è stabile, duratura e perfetta. Il
nostro mondo è il mondo della mutevolezza,
e questo pensiero è desunto da Eraclito; da Parmenide Platone riprende l’idea
dell’immutabilità dell’essere autentico. Da Parmenide Platone riprende anche il dualismo tra
le cose e l’essere, tra sensibilità e ragione. Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo
sensibile non ha connessioni con quello pensato dalla ragione, per Platone tra le due sfere di
realtà esiste un indissolubile rapporto, la cui precisa definizione costituisce uno dei
problemi più ostici del platonismo. Se per Parmenide il nostro mondo è apparenza
irrazionale e illusoria, per Platone esso possiede una sua imperfetta conoscibilità.
I VARI TIPI DI IDEE

• Idee-valori corrispondono ai supremi principi etici, estetici e politici

• Idee matematiche corrispondono alle entità dell’aritmetica e della geometria

Negli ultimi dialoghi Platone lascia cadere la nozione etico-matematica dell’idea, in favore
di una nozione logico-ontologica, propensa a far corrispondere ad ogni realtà la sua
specifica forma. L’idea platonica in tal modo finirà per configurarsi con la forma
unica e perfetta di qualsiasi gruppo di cose che vengono designate con un medesimo
nome e che possono essere fatte oggetto di scienza. Pur essendo molteplici le idee
non costituiscono una pluralità disorganizzata: esse costituiscono piuttosto una
trama di essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, con le idee valore in
cima e l’idea del Bene al vertice. Se le cose partecipano delle idee, le idee a loro volta
partecipano del Bene, che è l’idea massima, idea delle idee, supremo valore di cui
tutte le altre idee sono imitazione o riflesso. L’idea del bene è stata talora assimilata
a Dio. Quest’idea è stata tuttavia scartata, in quanto non compare tra i testi platonici
l’idea di un dio creatore. Pur essendo al di là dell’essere, ovvero delle idee, e pur
superandole tutte per “potenza e valore”, il Bene non “crea” le idee, che sono tutte
eterne, ma si limita a comunicare loro la perfezione. Nella filosofia di Platone fino ad
ora la critica non ha mai individuato un “Dio persona”, ma solamente il divino. Platone
utilizza infatti il termine di “to teion”, per designare una molteplicità di cose diverse.
Caratteri personali possiede invece il demiurgo, il quale è però un’entità inferiore alle
idee, che si limita a ordinare una materia preesistente.
IL RAPPORTO TRA LE IDEE E LE COSE

Platone afferma la distinzione tra le idee e le cose, e dall’altro lato ne


sostiene lo strettissimo legame. Le idee infatti sono:

• Criterio di giudizio delle cose noi per giudicare circa gli oggetti ci riferiamo
inevitabilmente ad esse. Le idee sono la condizione della pensabilità degli
oggetti.

• Causa delle cose gli individui sono in quanto imitano o partecipano, sia pure
imperfettamente, delle essenze archetipiche. Dunque le idee sono la condizione
dell’esistenza degli oggetti, o la loro ragion d’essere.

Il rapporto tra le idee e le cose non è stato tuttavia ben definito da Platone, il quale, pur
parlando di “mimesi” (per cui le cose imitano le idee), di “metessi” (le cose partecipano
delle idee), di “parusia” (le idee sono presenti nelle cose), rimane sulla questione
piuttosto incerto e oscillante.

COME E DOVE ESISTONO LE IDEE

Le idee sono senz’altro “trascendenti”, in quanto esistono “oltre” la mente e “oltre” le


cose. Ma questo “oltre” allude forse a un vero e proprio mondo nell’aldilà? La tradizione,
prendendo alla lettera l’espressione platonica di “iperuranio”, ha considerato il mondo
delle idee come qualcosa di simile al paradiso cristiano o all’empireo dantesco.
Altri
critici del novecento hanno considerato le idee come modelli di classificazione delle
cose, dei criteri mentali attraverso i quali pensiamo gli oggetti. In realtà questa
lettura modernizza eccessivamente e travisa il pensiero platonico così come questo
emerge dagli scritti, che tende a considerare le idee come “sostanze” reali, non
unicamente come
“schemi” della mente. La prima interpretazione tende tuttavia ad essere troppo legata al
mito: gli studiosi dunque affermano che il mondo platonico, pur essendo una realtà
a se stante, non deve essere interpretato come un universo di “super cose”, ma soltanto
come un ordine eterno di forme o valori che, come tali, non esistono in alcun
luogo o empireo. Entrambe le interpretazioni trovano appigli nel mondo platonico e
presentano dei punti di debolezza, tanto che non è possibile stabilire quale sia quella
vera. Stando ai Dialoghi si può tuttavia definire con certezza che le idee, comunque
intese, costituiscono, come abbiamo detto, una zona diversa dalle cose.

LA CONOSCENZA DELLE IDEE

Le idee non possono derivare dai sensi, in quanto questi ci testimoniano solamente un
mondo di cose imperfette. Esse sono dunque l’oggetto di una “visione intellettuale”,
di uno “sguardo della mente”. Da dove proviene questa visione? Come si spiega
l’esistenza, nell’uomo che vive in un mondo sensibile, della nozione di forme ideali?
Platone ricorre alla dottrina-mito della “reminiscenza”, cioè del ricordo: egli afferma
che l’anima prima di calarsi nel corpo è vissuta, disincarnata, nel mondo delle
idee, dove, tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose.
Una volta discesa nel mondo l’anima conserva un ricordo sopito di ciò che ha veduto.
Grazie all’esperienza delle cose, che fungono da occasione o pungolo per la memoria,
essa ricorda ciò che ha visto nell’iperuranio. In questo senso “ conoscere è ricordare”, in
quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per tirarle
fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate tra loro da una sorta di parentela,
per cui basta rammentarne una perché tutte le altre tornino alla mente. La gnoseologia
di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, in quanto sostiene che la
conoscenza non derivi dall’esperienza sensibile (che funge da meccanismo sollecitatore
del ricordo), bensì da metri di giudizio preesistenti e connaturati con il nostro
intelletto. L’arte maieutica di Socrate subisce in Platone un’ulteriore radicalizzazione
metafisica, venendo a coincidere con la teoria stessa della reminiscenza, cioè con la tesi
secondo cui portiamo dentro di noi una verità prenatale, che è il frutto di una
precedente contemplazione delle idee.

REMINISCENZA E VERITA’

Secondo Platone l’uomo non possiede già la verità (altrimenti non la cercherebbe) e
neppure la ignora completamente (in tal caso non sentirebbe attrazione verso di
essa), ma la porta in sé come “ricordo”, ovvero sotto forma di un patrimonio che è
impegnato a esplicitare all’infinito. L’uomo per questo non parte né da uno stato di
ignoranza totale né di verità, bensì da una sorta di pre-conoscenza, o di ignoranza
gravida di sapere, da cui dobbiamo socraticamente “tirar fuori” la conoscenza vera e
propria.

L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA

La reminiscenza postula di per sé l’immortalità dell’anima, che diviene oggetto del


Fedone, dove Platone elenca altre dimostrazioni dell’immortalità dell’anima. Una
prima, definita “dottrina dei contrari”, afferma che come in natura ogni cosa
si genera dal suo contrario: la morte si genera dalla vita e la vita dalla morte, e
dunque
l’anima continua a vivere dopo la morte del corpo. Una seconda teoria, definita “della
somiglianza”, sostiene che l’anima, essendo simile alle idee, che sono eterne, sarà
anch’essa tale. Ciò che è semplice, come le idee o le anime, non può essere né
distrutto né creato. Una terza dottrina, detta “della vitalità”, argomenta che
l’anima, in quanto soffio vitale, è vita e partecipa all’idea di vita, onde non può
accogliere in sé l’idea opposta di morte. Nel Fedone troviamo anche la teoria della
filosofia come “preparazione alla morte”: filosofare significa morire ai sensi e al corpo
per poter cogliere meglio le idee.

IL MITO DI ER
La teoria dell’immortalità dell’anima serve a Platone per chiarire il problema del destino.
Platone ritiene infatti che la sorte di ogni individuo dipenda da una scelta
precedentemente compiuta dall’anima nel mondo delle idee. Egli illustra la sua
tesi con il mito di Er, con cui si chiude la Repubblica.

La parte centrale del racconto del guerriero, morto e resuscitato, riguarda la scelta del
desino alla quale le anime sono invitate nel momento che precede la loro reincarnazione.
Ogni anima sceglie quindi il modello di vita che incarnerà. La scelta molto spesso è guidata
dalle esperienze che l’anima ha compiuto nella sua vita precedente. Per Platone, dunque, è
l’uomo a scegliere il proprio destino, benché sia in ciò condizionato da quel che in vita ha
voluto essere ed è stato.

L’ASSOLUTISMO PLATONICO

Il relativismo sofistico tende a divenire un tutto indistinto e a identificarsi con una


filosofia negatrice di ogni stabile punto di vista sulle cose. Di fronte a questo
relativismo Platone promuove la restaurazione di una qualche forma di assolutismo.
Poiché per Platone l’unica via percorribile dopo il relativismo è la restaurazione di
certezze assolute, la dottrina delle idee diviene lo strumento più prezioso e
decisivo della filosofia. Infatti grazie ad essa Platone può asserire la presenza di
strutture o perfezioni ideali che, esistendo indipendentemente dall’arbitrio degli
individui, hanno validità oggettiva e universale. Il relativismo conoscitivo e morale dei
sofisti in questo modo crolla miseramente e totalmente. Esempio di ciò è la matematica,
che in virtù delle idee matematiche parla un linguaggio che vale per tutti e in tutte le
circostanze. Infine il linguaggio, che i sofisti ritenevano convenzionale e incapace di
riprodurre le strutture ultime del reale, torna a caricarsi di un valore assoluto, in quanto
fondato sulle idee.

FINALITA’ POLITICA DELLE IDEE

Platone ritiene che il relativismo, dando libero corso all’urto delle opinioni, non possa che
produrre violenza e disordine. Di conseguenza con la dottrina delle idee Platone vuole
offrire agli uomini uno strumento che consenta loro di uscire dal caos delle opinioni e dei
costumi. L’assolutismo della teoria delle idee rappresenta dunque il principale
strumento di battaglia contro il relativismo politico e contro l’anarchia sociale. La
conoscenza delle idee equivale alla fondazione di una scienza politica universale
che conduca tra gli uomini pace e stabilità. Tutto ciò implica come risultato ultimo
quell’idea di filosofia al potere che è il punto di arrivo della meditazione platonica.
LA DOTTRINA DELL’AMORE E DELL’ANIMA

Il sapere stabilisce tra l’uomo e le idee e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un
sentimento che non è puramente intellettuale, in quanto impegna l’uomo nella sua
totalità: questo rapporto è definito da Platone “amore”. Alla teoria dell’amore sono
dedicati Il Simposio e Il Fedro.

IL SIMPOSIO

Il Simposio considera prevalentemente l’oggetto dell’amore, ovvero la bellezza, e mira a


determinarne i gradi gerarchici. I discorsi pronunciati dagli interlocutori mettono in luce
una serie di caratteri subordinati e accessori dell’amore, che verranno unificati poi nel
discorso di Socrate. Una prima distinzione separa l’eros volgare, che si riferisce ai
corpi,
dall’eros celeste, che si rivolge alle anime. Un’altra teoria vede l’amore come una forza
cosmica che determina le proporzioni e l’armonia di tutti i fenomeni. Aristofane, con il
mito degli “androgini”, esseri primitivi composti d’uomo e donna, divisi dagli dei per
punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per ricostituire l’essere primitivo,
esprime uno dei caratteri fondamentali che l’amore rivela nell’uomo:
l’insufficienza. Da questo punto prende le mosse Socrate per il proprio discorso:
l’amore desidera qualcosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza.
L’amore soprattutto non ha la bellezza ma la desidera in quanto essa è il bene che rende
felici. L’uomo, che è mortale, tende a generare nella bellezza, e quindi a perpetuarsi
attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza
dunque è il fine, l’oggetto dell’amore. La bellezza ha tuttavia diversi gradi: in primo luogo
è la bellezza di un corpo quella che attrae e avvince l’uomo. Poi egli si accorge che la
bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare la bellezza
corporea nella sua totalità. Ma al di sopra c’è la bellezza dell’anima, e al di
sopra ancora la bellezza delle leggi e delle istituzioni, al di sopra ancora la
bellezza delle scienze; infine, al di sopra di tutto, si trova “la bellezza in sé” che è
eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa, oggetto
della filosofia e fonte di ogni altra bellezza.
IL FEDRO

Come può l’anima umana percorrere i gradi di gerarchia della bellezza, fino a giungere
alla bellezza suprema? La natura dell’anima è simile ad una coppia di cavalli alati,
guidati da un auriga: uno dei cavalli è eccellente, l’altro è pessimo, sicché l’opera
dell’auriga è difficile e penosa. L’auriga cerca di indirizzare verso il cielo i cavalli, al
seguito degli dei, verso quella regione dell’iperuranio che è la sede dell’essere
autentico. In questa regione sta la vera sostanza, priva di colore e forma, impalpabile, che
può essere contemplata solo da quella guida dell’anima che è la ragione. Questa
sostanza è la totalità delle idee. Ma l’anima può contemplarla solo per poco, poiché il
cavallo nero tira verso il basso. Ogni anima, per ciò, contempla la sostanza pura
dell’essere di più o di meno. Tuttavia, quando per oblio e per colpa si appesantisce, perde
le ali e si incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quale essa lo rende.
Allora l’anima che ha visto di più vivificherà il corpo di un uomo che si consacrerà al
culto della sapienza e dell’amore, mentre le anime che hanno visto di meno s’incarneranno
in uomini che saranno alieni dalla ricerca della verità e della bellezza. Nell’anima che è
caduta e si è incarnata, il ricordo delle sostanze ideali viene risvegliato proprio dalla
bellezza: l’uomo, infatti, riconosce subito la bellezza, appena la vede, per la sua
luminosità. La vista, il senso corporeo più acuto, vede solo la bellezza, la sa riconoscere. La
bellezza dunque fa da mediatrice tra l’uomo caduto e il mondo delle idee, e al suo appello
l’uomo risponde con l’amore. L’amore può rimanere attaccato alla bellezza corporea e
pretendere di godere solo di questa, o viene realizzato nella sua più autentica natura,
facendosi guida dell’anima verso il mondo dell’essere vero. In questo caso i caratteri
passionali dell’amore vengono subordinati alla ricerca lucida dell’essere in sé e della
bellezza. L’eros allora diventa procedimento razionale, dialettica. La dialettica è al
contempo ricerca dell’essere in sé e unione delle anime.

LO STATO IDEALE

Tutti i temi speculativi e i risultati dei dialoghi precedenti si trovano riassunti nella
massima opera di Platone, la Repubblica, che li ordina e li connette intorno al motivo
centrale di una comunità perfetta, nella quale il singolo trovi la sua perfetta
formazione. I problemi sono: qual è lo scopo di questa comunità? Chi sono propriamente i
filosofi? Alla prima domanda Platone risponde: è la giustizia. Nessuna comunità umana
può sussistere senza giustizia; questa è la condizione fondamentale della nascita e
della vita dello Stato, che deve essere costituito da tre classi: quella dei governanti,
quella dei guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un’altra attività. La saggezza è
la virtù della prima classe, il coraggio è la virtù dei guerrieri e la temperanza, come
accordo tra governanti e governati, è invece virtù comune a tutte le classi. La giustizia
comprende in sé tutte e tre queste virtù, e si realizza quando ciascun cittadino
svolge correttamente il suo compito. La giustizia dunque garantisce l’unità dello Stato,
ma anche l’efficienza dell’individuo, che deve organicamente accordare le parti in
conflitto della propria anima individuale.
TRIPATRIZIONE DELL’ANIMA

• Parte razionale è quella con cui l’anima ragiona e domina gli impulsi

• Parte concupiscibile è il principio di tutti gli impulsi corporei

• Parte irascibile ausiliario del principio razionale, si sdegna e lotta per ciò
che la ragione ritiene giusto

Dunque nell’uomo singolo la giustizia si avrà quando ogni parte dell’anima svolgerà
soltanto la propria funzione.

LA DIVISIONE TRA CLASSI

In uno Stato, secondo Platone, vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da
individui diversi. Platone, rifacendosi alla tripartizione psicologica dell’anima, afferma
che la diversità tra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono dalla
preponderanza di una parte dell’anima sulle altre. Abbiamo così gli individui
prevalentemente razionali (governo), gli individui impulsivi (guerrieri), e gli individui
prevalentemente soggetti al corpo e ai suoi desideri (lavoro manuale). Per Platone
dunque la divisione degli individui in classi sociali non dipende da un fattore
ereditario, ma da un fattore antropologico e psicologico, ossia da come si è in quanto
uomini. Gli uomini dunque si distinguono tra loro non per nascita, ma per differenti
attitudini naturali. Tutto ciò implica la mobilità sociale e delinea una differenza
rispetto al sistema di caste chiuse alla maniera orientale, che non permetteva
movimento sociale.

IL COMUNISMO PLATONICO

Affinchè lo Stato funzioni bene Platone suggerisce l’eliminazione della proprietà


privata e la comunanza di beni per le classi superiori, in modo tale che esse, al di là
dei propri interessi, attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica.
Sia la ricchezza sia la povertà sono nocive, per cui nella città ideale non dovrà esistere
né l’una né l’altra. Analogamente, la classe al potere non avrà famiglia: estendendo il
comunismo economico a quello sessuale, Platone ritiene che i governanti debbano
avere in comune anche le donne. Le unioni matrimoniali verranno stabilite dallo stato in
base a criteri eugenetici volti alla creazione di figli sani.
LA DEGENERAZIONE DELLO STATO

Timocrazia governo fondato sull’onore, che nasce quando i governanti si appropriano


di terre e case. Esso corrisponde all’uomo timocratico, ambizioso e amante del
comando e degli onori, diffidente verso i sapienti.

Oligarchia governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi.

Democrazia i cittadini sono liberi e ad ognuno è concesso di fare quel che vuole; l’uomo
democratico non è parsimonioso, ma tende ad abbandonarsi a desideri smodati.

Tirannide nasce dall’eccessiva libertà della democrazia. E’ la forma più spregevole in


quanto il tiranno deve circondarsi, per guardarsi dall’odio dei cittadini, dagli individui
peggiori. L’uomo tirannico è schiavo delle proprie passioni, alle quali si abbandona
disordinatamente.

OSTILITA’ VERSO LA DEMOCRAZIA

La politica di Platone nasce da una sostanziale ostilità nei confronti della


democrazia. Il progetto platonico di una riforma complessiva nasce infatti proprio in
antitesi alla degenerazione della democrazia ateniese. Questo severo giudizio nasce
non solamente da una reazione al clima di insicurezza e instabilità dei suoi tempi, ma
anche dal desiderio di ritrovare un modello aristocratico di coesistenza sociale.
Platone fa propria, nello scontro tra gli aristoi e il demos, la concezione
aristocratica: a reggere le sorti della cosa pubblica devono essere i “migliori”, una
minoranza che eccelle sui “molti”, per virtù e valore personale. Opposta alla concezione
platonica è la concezione democratica, secondo la quale il governo della polis non deve
essere appannaggio di pochi, ma funzione di tutti, un affare del popolo.

LA REGOLAMENTAZIONE DELLO STATO

La divisione in classi, nella Repubblica, non obbedisce ad un semplice criterio funzionale,


ma anche all’idea politica della necessità di una rigida diversificazione di attività in
grado di garantire staticità gerarchica contro i vari sommovimenti democratici: un
modello statico e gerarchico di coesistenza sociale basato su ruoli fissi e nettamente
differenziati. Secondo l’organicismo platonico uno Stato è sano quando, sulla base
della divisione del lavoro, ognuno attende all’attività che gli è propria e interiorizza la
necessità della sua particolare funzione per il bene del tutto. Lo Stato è malato quando
le classi non
sanno più stare al loro posto. Platone ritiene che la politica non sia un’arte destinata
a tutti, ma solo alla parte aurea della città. Il rigetto della democrazia si
accompagna a uno “statalismo” esasperato, che prevede una regolamentazione
della società fin
nei minimi particolari. L’artistocraticismo platonico si presenta in una forma
peculiare: lo Stato è lasciato nelle mani dei migliori, che tuttavia non sono tali per
forza o ricchezza o casato, bensì per il possesso del sapere. La ragione è al potere
e i filosofi al governo (Stato “sofocratico” o “noocratico”).

IL SISTEMA EDUCATIVO, LA CUSTODIA DEI CUSTODI

Platone afferma che i custodi, prima di poter custodire gli altri, devono essere in
grado di custodire se medesimi. Da ciò l’importanza fondamentale del sistema educativo.
Ordinamento educativo e ordinamento politico tendono ad identificarsi nello Stato
platonico: quest’ultimo viene a configurarsi come una sorta di grande Accademia,
avente come scopo la formazione permanente di ineccepibili custodi. L’educazione
platonica ha comunque un carattere classista: il sapere deve essere prerogativa
delle classi superiori.

SCIENZA, IGNORANZA E OPINIONE

Platone, esplicitando la propria concezione del sapere come “fotografia” dell’oggetto,


afferma che “ciò che assolutamente è, è assolutamente conoscibile; ciò che in
nessun modo è, in nessun modo è conoscibile”. Perciò all’essere, e quindi alle idee,
corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non essere l’ignoranza; al
divenire, che sta in mezzo tra l’essere e il non essere, corrisponde l’opinione, a metà
strada tra conoscenza e ignoranza.

I GRADI DELLA CONOSCENZA

Platone paragona la conoscenza a una linea che viene divisa in due segmenti:

• Conoscenza sensibile immaginazione (eikasia) : ha per oggetto le ombre


e le immagini degli oggetti (impressioni superficiali slegate dalle cose)

• credenza (pistis) : ha come oggetto le cose


sensibili nei loro rapporti scambievoli (percezione
chiara degli oggetti)

• Conoscenza razionale ragione matematica (dianoia) : ha per oggetto le idee


matematiche

• Intelligenza filosofica (noesis) : ha per oggetto


le
idee valori
RAPPORTI TRA FILOSOFIA E MATEMATICA

Platone ritiene che la filosofia sia superiore alla ragione matematica. Egli pensa infatti
che le discipline scientifico-matematiche da un lato trovino consistenti appigli nel
mondo sensibile, in quanto le loro nozioni primitive sono attinte o intraviste proprio
attraverso le cose sensibili, e inoltre partono da ipotesi indimostrate. La filosofia,
invece, in quanto scienza suprema, pur muovendo da ipotesi le considera come tali,
ovvero semplici punti
di partenza per salire ai principi supremi (idee) da queste al principio di tutto (il Bene).
Inoltre il filosofo, a differenza del matematico, si occupa dei problemi dell’uomo e
della città. Ciò non esclude che la matematica rivesta una fondamentale importanza nel
sistema di Platone: l’educazione scientifica segna infatti il passaggio tra una conoscenza
sensibile a una conoscenza razionale e matematica. Questo passaggio, secondo
Platone, va rintracciato nei metodi di misura. La misura ci dà modo per raggiungere
conoscenze che non sono più mutevoli e soggettive, ma oggettive e stabili. Le
discipline matematiche fondamentali per l’uomo, secondo Platone, sono l’aritmetica, la
geometria, l’astronomia, la musica: tutte queste discipline svolgono una funzione
propedeutica rispetto alla filosofia, preparano il filosofo all’accesso alla scienza delle
idee.

IL MITO DELLA CAVERNA

Immaginiamo che vi siano degli schiavi incatenati in una caverna sotterranea e


costretti a guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini
di statuette che sporgono al di sopra di un muricciolo alle spalle dei prigionieri e che
raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il muro si muovono, senza essere visti, i
portatori delle statuette e più in là brilla un fuoco che rende possibile il proiettarsi
delle immagini sul fondo. I prigionieri scambiano quelle ombre per l’unica realtà
esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi delle catene, voltandosi si
accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà.
Se egli riuscisse a risalire all’apertura della caverna, scoprirebbe con ulteriore
stupore che la vera realtà non sono nemmeno le statuette, in quanto sono a loro volta
imitazioni di cose reali, rese visibili dall’astro solare. Incapace di guardare la luce, egli
guarderebbe le cose riflesse nell’acqua. Ancora incapace di volgere gli occhi verso il
sole, guarderà il firmamento durante la notte. Alla fine egli sarà in grado di ammirare
alla luce lo spettacolo delle cose reali. Se lo schiavo tornasse alla caverna i suoi occhi
sarebbero offuscati dall’oscurità e non saprebbero più discernere le ombre:
verrebbe deriso dai compagni, che continuerebbero a riconoscere i massimi onori a
coloro che riescono a vedere meglio le ombre nella caverna. Alla fine, infastiditi dal suo
tentativo di portarli alla luce, lo ucciderebbero.

La simbologia di questo mito è ricchissima:


Caverna oscura il nostro mondo
Schiavi incatenati uomini
Catene, ignoranza e passioni che inchiodano alla vita
Ombre, immagine superficiale delle cose corrisponde al grado gnoseologico
dell’immaginazione
Statuette cose del mondo sensibile , corrispondenti al grado della credenza
Il fuoco principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono le cose
Liberazione dello schiavo azione della conoscenza e della filosofia
Mondo fuori dalla caverna idee Immagini delle cose riflesse nell’acqua idee matematiche che
preparano alla filosofia

Sole Bene che rende tutto è possibile e conciliabile

Contemplazione assorta del sole filosofia

“Lo schiavo vorrebbe starsene sempre là”, a contemplare la luce e le cose nella loro forma reale:
è la tentazione del filosofo che vorrebbe chiudersi in una torre d’avorio. Lo schiavo
che torna nella caverna rappresenta il dovere del filosofo di far partecipi gli altri
delle proprie conoscenze; l’ex schiavo che non riesce a vedere le ombre rappresenta il
filosofo che per essersi troppo concentrato sulle idee si è disabituato alle cose; lo
schiavo deriso rappresenta la sorte dell’uomo di pensiero, preso per pazzo da coloro
che sono ancorati ai pregiudizi e ai modi di vita volgare. I grandi onori attribuiti a
coloro che sanno vedere le ombre rappresentano il premio offerto dalla società ai
falsi sapienti; l’uccisione del filosofo incarna la sorte toccata a Socrate. Nel mito della
caverna troviamo il dualismo gnoseologico e ontologico sotteso alla teoria delle idee;
c’è poi l’afflato religioso che spinge Platone a vedere il nostro mondo come un mondo
delle tenebre, contrapposto al regno della luce. Inoltre, è racchiuso nel mito il
concetto della finalità politica della filosofia, l’idea che tutte le conoscenze acquisite
debbano essere utilizzate per la fondazione di una comunità giusta e felice. Lo
schiavo liberato dovrà riabituarsi al buio della caverna: allora vedrà meglio dei
compagni che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i caratteri di ciascuna
immagine per averne visto il vero esemplare. Soltanto con il ritorno nella caverna,
solo cimentandosi nel mondo umano, l’uomo avrà compiuto la propria educazione e
sarà veramente filosofo.
L’ARTE IMITATIVA

Platone condanna l’arte per due motivi: uno metafisico-gnoseologico e l’altro di tipo
pedagogico-politico. In primo luogo, Platone ritiene che l’arte sia sostanzialmente
imitazione di un’imitazione (mimesis mimoseos), in quanto essa si limita a riprodurre
l’immagine di cose e di eventi naturali che sono a loro volta riproduzioni delle idee.
L’arte inoltre, nutrendosi di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso e risulta
totalmente aliena dalla misurazione matematica, primo gradino messo a disposizione
dell’uomo per uscire dal dedalo delle percezioni soggettive e per attingere a realtà
oggettive e comuni. Per quanto riguarda il secondo punto, Platone ritiene che l’arte in
generale, e la commedia in particolare, sia pedagogicamente negativa per il suo
potere corruttore sugli animi: l’arte incatena l’animo alle passioni rappresentate e
raffigura persone che si abbandonano agli istinti. Inoltre, nella tragedia, l’arte ra ffigura
un mondo dominato dal fato, escludendo ogni iniziativa umana. Per concludere, l’arte per
Platone esiste solamente se assoggettata alla filosofia.

L’ULTIMO PLATONE

Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme costituiscono la terza e ultima
fase del pensiero platonico, abbiamo un ulteriore approfondimento delle teorie del
filosofo, che rivedendo le proprie dottrine perviene a esiti in parte nuovi:questa
capacità di mettersi continuamente in discussione rappresenta la tipica eredità
socratica del platonismo. I problemi cruciali che si impongono al cosiddetto “ultimo
Platone” sono fondamentalmente due: come deve essere adeguatamente pensato il
mondo delle idee? Come va concepito il rapporto tra le idee e le realtà naturali?

UNITA’ E MOLTEPLICITA’ DELLE IDEE

Posto che l’“uno” è l’idea, mentre i “molti” sono gli oggetti di cui l’idea costituisce l’unità,
non si capisce come l’idea possa essere “partecipata” da più oggetti, o “diffusa” in
essi, senza risultare con ciò moltiplicata e distrutta nella sua unità.

IL PROBLEMA DEL NON ESSERE

Il problema fondamentale che emerge nel Parmenide di Platone è il confronto-scontro


con la logica parmenidea. Il principio fondamentale dell’eleatismo, che costituiva
pure il suo punto di forza concettuale, è il principio per cui “ solo l’essere è, mentre il non
essere non è”. Pur riconoscendo in Parmenide un “maestro venerando e terribile”, Platone
si rende conto che questa affermazione, presa alla lettera, decreterebbe la morte
della teoria delle idee. L’inesistenza assoluta di ogni forma di non essere, infatti,
pregiudicherebbe inevitabilmente la molteplicità delle idee e i loro rapporti reciproci,
poiché ogni idea, non essendo l’altra, implicherebbe, dal punto di vista parmenideo,
l’illogica ammissione del non essere. Platone manifesta, tuttavia, di non voler
rinunciare alla teorie delle forme ideali, in quanto ribadisce che senza le idee, ossia senza
un punto fermo mediante il quale ordinare la molteplicità delle cose, non si potrebbe
neppure pensare e filosofare. Se, dunque, non è possibile rinunciare alle idee, allora
non rimane
che rinunciare al principio eleatico, ed è quanto Platone fa nel Sofista, che si conclude
con un vero e proprio “parmenicidio”.

I GENERI DELL’ESSERE E IL PROBLEMA DEL NULLA

Per spiegare come possano esistere più idee e come essa possano comunicare tra
loro, Platone elabora la cosiddetta teoria dei “generi sommi”, cioè degli attributi
fondamentali delle idee, che per il filosofo sono cinque: l’essere, l’identico, il diverso,
la quiete e il movimento. Innanzitutto, ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel
genere dell’essere. In secondo luogo, ogni idea è identica a sé stessa, e quindi rientra nel
genere dell’identico. “Essere” ed “essere identico” sono due generi differenti e non
coincidenti tra loro: infatti tutte le idee, pur esistendo, non per questo sono identiche
tra loro, altrimenti di avrebbe la fusione di tutte le idee in un’unica idea. Se ogni idea è
identica a sé, ma distinta dalle altre, significa che essa è diversa da queste, per cui ogni
idea rientra anche nel genere del diverso. Si giunge in tal modo al momento culminante
della critica a Parmenide: l’errore di fondo del pensiero di Elea, secondo Platone, è
stato quello di confondere il diverso con il nulla. L’unico modo in cui può esistere il
non essere è quello dell’essere diverso, che però, in quanto tale, non è il nulla assoluto,
poiché partecipa anch’esso dell’essere. Attribuendo una qualche forma di essere al non
essere, Platone si sbarazza del “fantasma” del nulla, infrangendo il divieto parmenideo di
parlare del non essere e quindi della molteplicità. Da qui il filosofo supera anche il
problema dell’errore: l’errore non consiste nel pronunciare il nulla, ma semplicemente nel
dire le cose in modo diverso da come esse effettivamente stanno. Giustificata in tal
modo la pluralità delle idee, ai tre generi sommi Platone aggiunge i due generi della
quiete e del moto.

LA NOZIONE GENERALE DI “ESSERE”

Questa determinazione delle cinque forme dell’essere si accompagna al tentativo


platonico di giungere a una ridefinizione del concetto di essere. Che cos’è l’essere? I
materialisti lo riducono a corporeità, altri lo identificano con le idee. In realtà, secondo
Platone, materialità e immaterialità non possono entrare nella definizione dell’essere,
poiché “sono” sia le cose corporee sia le entità incorporee. Di conseguenza Platone
ricerca una definizione ancor più generale e universale, e perviene alla tesi secondo cui
l’essere è possibilità. Per comprendere l’affermazione platonica è
necessario sottintendere il concetto di “rel azione” : la sua formula significa che
esiste tutto ciò che è capace di entrare in un campo di relazione qualsiasi, in una rete
di connessioni possibili. La controprova di ciò risiede nel fatto che il nulla, il quale non può
entrare in rapporto con alcunché, risulta inesistente per definizione. La definizione
dell’essere in termini di possibilità-relazione si applica, come i cinque generi sommi,
non soltanto alle idee, ma anche alle cose naturali e all’uomo: questa ultima fase della
filosofia platonica costituisce una generalizzazione e il vero antecedente dell’antologia
aristotelica che indagherà i caratteri comuni a tutti gli esseri.

LA DIALETTICA

Se l’essere e il mondo delle idee costituiscono un tessuto di rapporti possibili, la suprema


scienza delle idee, che Platone considera la dialettica, consisterà nello stabilire la mappa
di queste relazioni, cioè nel determinare quali idee si connettono e quali no, e in
quale modo. Scartate le tesi universali per cui “tutte le idee sono combinabili con tutte le
idee” (non avrebbe senso la fatica della dialettica) e per cui “tutte le idee non sono
combinabili con tutte le idee” (non sarebbe possibile il discorso), resta la tesi intermedia:
alcune idee sono combinabili tra loro e altre non lo sono. La tecnica della dialettica
consisterà dunque nel definire un’idea mediante successive identificazioni e
diversificazioni, attraverso un processo “dicotomico”, che avanza dividendo per due
un’idea, fino a giungere a un’idea indivisibile. Il processo dicotomico ci porta dunque ad
un’idea indivisibile, che ci fornisce la definizione specifica di ciò che cercavamo.
Ovviamente la definizione proposta non è l’unica possibile in quanto scegliendo altre
identificazioni iniziali potremmo costruire altre mappe dicotomiche. Sommando le varie
definizioni ottenute quindi si raggiungerà una migliore comprensione dell’idea
studiata. La dialettica platonica ha due caratteristiche fondamentali: si costruisce su una
base ipotetica, in quanto sceglie una definizione di partenza e poi la mette alla prova;
tende a strutturarsi come una ricerca inesauribile e sempre aperta a nuove
acquisizioni.

IL BENE PER L’UOMO

Il bene per l’uomo è una forma di vita, anzi la forma di vita che maggiormente gli è
propria. La vita umana, che non è né una vita divina né puramente animale, sarà una vita
mista tra la ricerca del piacere e l’esercizio dell’intelligenza: tutto sta nella giusta
proporzione in cui il piacere e l’intelligenza devono mescolarsi per costituire la vita
propriamente umana. L’indagine morale di Platone in questo modo si trasforma in
un’indagine a sfondo matematico, e il problema diviene quello della misura. Platone
afferma che il piacere è un illimitato, che può essere diminuito o
aumentato indefinitamente, e che a esso bisogna imporre dunque un ordine o una
misura: questa è la funzione del limite. Ad imporre il limite è l’intelligenza, la quale
trasforma ciò che è illimitato in una proporzione numerica. Della vita dell’uomo devono
dunque far parte l’intelligenza, causa dell’ordine e della misura, ma anche il piacere,
disciplinato e proporzionato con un limite. Platone ritiene che tutta la vita
dell’intelligenza, tutte le forme di conoscenza, da quella più alta a quella più bassa,
debbano entrare a far parte della vita umana. La scienza dell’essere, dunque, non è
sufficiente: occorre che questa scienza sia utile alla necessità dell’uomo e bisogna
ricorrere dunque anche all’opinione. Quanto ai piaceri, devono entrare a far parte della
vita umana solo quelli puri, che non dipendono dall’appagamento di un bisogno, ma sono
dovuti alla contemplazione delle belle forme. La gerarchia dei valori viene esibita da
Platone nel modo seguente: al primo posto c’è l’ordine, la misura, il giusto mezzo; al
secondo posto ciò che è proporzionato, bello e compiuto; al terzo posto l’intelligenza,
come causa della proporzione e della bellezza; al quarto posto la scienza e l’opinione; al
quinto i piaceri puri.

IL MITO DEL DEMIURGO

Nel Timeo viene approfondito il problema cosmologico dell’origine e della formazione


dell’universo. Il mondo naturale, anche nell’ultimo Platone, non ha saldezza e stabilità,
e non può dunque essere oggetto di scienza nel senso rigoroso del termine.
Sforzandosi di comprendere meglio il rapporto tra le idee e le cose, Platone introduce
un terzo termine mediatore: il demiurgo. Figura-limite tra il mito e la filosofia, il
demiurgo viene presentato da Platone come una sorta di divino artefice, dotato di
intelligenza e di volontà, che si trova in una posizione intermedia tra le idee e le cose.
All’inizio il mondo era solo un caos informe, una materia spaziale priva di vita che
Platone chiama chora (luogo), o necessità. Il demiurgo, essendo buono e amante del Bene,
ha voluto ordinare le cose del mondo a immagine e somiglianza delle idee, comunicando
loro una parte di perfezione dei modelli iperuranici (il demiurgo non è il creatore, bensì il
“plasmatore” di una materia preesistente, coeterna alle idee). In vista dei suoi
nobili scopi, il divino artefice ha dunque fornite le cose di un’anima del mondo, che
vivifica e ordina la materia, dando forma all’informe e trasformando l’universo in un
immenso organismo vivente in cui si riflette l’armonia delle idee. Per rendere questo
mondo ancora più simile al suo modello ideale, che è eterno, il demiurgo ha generato il
tempo, che Platone definisce suggestivamente come “immagine mobile dell’eternità”,
intendendo dire che il tempo riproduce nella forma del mutamento l’ordine
immutabile dell’eternità. L’opera del demiurgo, nonostante la sua buona volontà, è
limitata dalla resistenza “ribelle” della materia, cui Platone tende ad attribuire
le imperfezioni e i mali del nostro mondo. Le strutture del cosmo plasmato dal demiurgo
fanno della matematica la sintassi del mondo, cioè il codice di interpretazione di tutto ciò
che esiste (avvicinamento al pitagorismo). Platone nel Timeo, oltre ad un riavvicinamento
al pitagorismo, elabora anche un rinnegamento del meccanicismo atomistico,
subordinando totalmente le cause meccaniche alle cause finali.

IL TIMEO

La rilevanza di quest’opera consiste nell’aver diffuso il concetto di una


mente intelligente e ordinatrice del mondo. Inoltre, l’importanza della cosmologia
matematizzante del Timeo sta soprattutto nell’idea pitagorica secondo cui la
matematica costituisce la chiave interpretativa della natura. Platone ha il merito,
per la storia della scienza, di aver difeso l’idea pitagorica dello studio aritmetico-
geometrico della realtà, anche se la sua matematica resta lontana dalla matematica
scientifica di Galileo; il suo tentativo di spiegare finalisticamente la realtà mediante le
nozioni di scopo, anima e valori morali, mettendo a tacere per sempre il meccanicismo
democriteo, ha ritardato la nascita della scienza moderna, che sorge infatti da
presupposti anti-platonici.

LE LEGGI

Le leggi, secondo Platone, sono necessarie perché è impossibile dare prescrizioni


precise a ogni singolo individuo: esse si limitano a decretare ciò che è meglio per tutti.
Delle tre forme di governo esistenti ciascuna si distingue dalla corrispondente forma
deteriore proprio per l’osservanza delle leggi. Il problema a questo punto diventa: quali
leggi devono governare gli uomini? Il fine delle leggi, secondo Platone, è quello di
promuovere nei cittadini la virtù, che si identifica con la felicità.

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