Platone nacque ad Atene, da famiglia aristocratica, nel 427 a.C. A vent'anni cominciò a
frequentare Socrate e fu tra i suoi discepoli fino alla morte del maestro, che
rappresentò per lui un evento decisivo. Secondo quello che egli stesso dice nella lettera
VII, di fondamentale importanza per l'interpretazione della sua biografia e della sua
stessa persona, Platone avrebbe voluto infatti dedicarsi alla vita politica. La morte di
Socrate lo colpì tuttavia come un'ingiustizia imperdonabile e come una condanna generale
della politica del tempo. Platone si rese conto che le condizioni di vita associata
avrebbero dovuto essere radicalmente cambiate e che questo avrebbe dovuto costituire
il nuovo compito della filosofia. Solamente quando fossero giunti al potere i veri
filosofi, il genere umano sarebbe stato liberato. La filosofia da allora gli apparve dunque
come l'unica possibile via per condurre l'uomo e la comunità verso la giustizia. Platone fu
il fondatore dell'Accademia, chiamata così in quanto fiorì nel ginnasio fondato da
Accademo. Essa fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche, ovvero come
un'associazione religiosa, un "tiaso".
LE OPERE
Platone è l'unico filosofo dell'antichità di cui ci siano giunte tutte le opere. Abbiamo
infatti l'Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 11 lettere. Il grammatico Trasillo divise
l'opera di Platone in nove tetralogie: da questa divisione alcune opere rimasero spurie.
Per determinare la successione cronologica degli scritti si considerano i rinvii
contenuti nei
dialoghi stessi, mentre altre indicazioni fondamentali si ricavano dal contenuto delle
opere. A partire da questi elementi, l'attività letteraria di Platone può essere suddivisa
in un primo periodo, che comprende scritti giovani o socratici; segue un secondo
periodo che contiene gli scritti della maturità, tra cui compaiono Il simposio o Il Fedro;
infine un terzo periodo dell'attività platonica racchiude gli scritti della vecchiaia.
SOCRATE E PLATONE
IL MITO
Un’altra caratteristica fondamentale della filosofia di Platone è l’uso dei miti, nonché
racconti fantastici attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. Il
mito in Platone riveste due significati fondamentali: è uno strumento di cui il filosofo
si serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine
all’interlocutore. Da questo punto di vista, il mito è un’escogitazione didattico-
espositiva, concepita ai fini della comunicazione intellettuale. In un secondo senso, più
profondo, il mito è un mezzo di cui si serve il filosofo per poter parlare di realtà che
vanno al di là dei limiti cui l’indagine rigorosamente razionale può spingersi. La
filosofia, dunque, avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente,
spesso si muove ai limiti del pensabile, dinanzi a “sentieri interrotti” che la
costringono a tornare indietro, o a percorrere un’altra via, che Platone individua
nell’allusione mitica. Il mito platonico ha senso solo se analizzato in stretta
connessione con il discorso filosofico, in rapporto al quale riveste un valore
persuasivo e complementare.
L’APOLOGIA DI SOCRATE
I DIALOGHI
Queste tesi, che saranno presentate e difese nei dialoghi maturi, vengono preparate
“negativamente” da tutta una serie di dialoghi minori, volti a sgombrare il terreno dalle
tesi opposte. Il metodo prevalentemente seguito da Platone in questi dialoghi è
infatti quello dialettico: si ammette in via d’ipotesi la tesi opposta a quella di Socrate e si
dimostra che essa non conduce a nulla o a conseguenze assurde, rimanendo così
confutata. La tesi fondamentale secondo cui la virtù è scienza implica che la virtù sia una
sola, che non ci siano dunque tante virtù l’una diversa dall’altra definibili isolatamente. Se
è una sola la virtù, di conseguenza uno solo deve essere anche l’ideale o il valore che
essa tende a realizzare: Platone identifica questo valore, che comprende e assomma in
sé tutti gli altri, nel Bene. Uno solo deve essere dunque il valore per l’uomo e per il
filosofo e una sola l’attività umana volta a realizzarlo (virtù). In altri dialoghi Platone
insiste sull’esigenza di riconoscere la propria ignoranza come primo passo per
intraprendere la ricerca, che deve condurre alla scienza.
PROTAGORA
EUTIDEMO
GORGIA
Platone in quest’opera attacca l’arte che costituiva la principale creazione dei sofisti,
nonché la base del loro insegnamento: la retorica. La retorica voleva essere una
tecnica “della persuasione” totalmente indipendente rispetto ai contenuti della tesi
da difendere e dell’argomento trattato. Platone oppone l’idea secondo cui ogni arte è
veramente persuasiva solo se si esprime riguardo all’oggetto che le è proprio.
La retorica non ha un oggetto suo proprio, e dunque non è arte ma soltanto “pratica
adulatoria”. La retorica, ponendosi in difesa delle ingiustizie, implica la convinzione
secondo cui la giustizia è solo una convenzione umana.
DEL LINGUAGGIO
•
Il linguaggio è pura convenzione e si deve alla libera iniziativa umana
•
Il linguaggio è naturalmente prodotto dall’azione causale delle cose
•
Il linguaggio è lo strumento che serve ad avvicinare l’uomo alla
conoscenza delle cose (P)
Platone, in questo modo, fa diretto riferimento alle idee, che più spesso indica con il
termine di “sostanze”, intendendo “ciò che l’oggetto è”. Egli tuttavia non attribuisce la
creazione del linguaggio alla natura stessa delle cose: lo ritiene una produzione
dell’uomo, ma allo stesso modo ammette che questa produzione è diretta alla conoscenza
delle essenze, della natura delle cose.
LA DOTTRINA DELLE IDEE
La teoria delle idee segna l’avvio della seconda fase della speculazione platonica,
ovvero la fase in cui il filosofo, procedendo per conto proprio, va esplicitamente al di là
delle dottrine che Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio specifico pensiero. Nei
dialoghi la dottrina delle idee non è mai stata esposta in maniera organica. La dottrina
delle idee rappresenta il cuore del platonismo maturo, tanto è vero che Platone
parla della possibilità di risolvere i massimi problemi della filosofia solamente dopo averla
abbracciata. La genesi della teoria delle idee è da ricercarsi nell’approfondimento
platonico del concetto di “scienza”. In antitesi ai sofisti, e procedendo oltre lo stesso
Socrate, Platone ritiene che la scienza debba avere i caratteri della stabilità e
dell’immutabilità, e q u i n d i della perfezione. Ma e ssen do convi nto che il
pensiero
rifletta l’essere (realismo gnoseologico), ossia che la mente sia uno specchio, o una
riproduzione, di ciò che esiste, Platone si chiede quale sia l’oggetto proprio della
scienza. In altre parole, se il concetto socratico fonda una scienza assoluta, quale
sarà l’oggetto del concetto? Qual è la realtà fotografata dal sapere?
Si deve
necessariamente ammettere l’esistenza di un contenuto specifico della scienza.
Questo contenuto, tuttavia, non può essere costituito dalle cose del mondo sensibile,
poiché queste sono mutevoli e imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente
forma di conoscenza mutevole e imperfetta che Platone chiama “doxa”. Oggetto
proprio della scienza, secondo Platone, non possono essere che le idee.
Il termine “idea” denota per l’uomo una rappresentazione dell’intelletto, per Platone
indica invece un’entità immutabile e perfetta, che esiste per proprio conto (ousia,
sostanza, realtà autonoma) e che costituisce, con altre idee, una zona d’essere diversa
dalla nostra, che il filosofo chiama “ iperuranio” (metaforicamente, al di là del cielo). Il
fatto che le idee abbiano caratteristiche strutturali diverse da quelle rappresentate
dalle cose non esclude un loro stretto rapporto con gli oggetti, che Platone configura
nei termini di modello-copia. Per il filosofo le cose sono infatti copie, o imitazioni
imperfette, delle idee. L’idea platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose
molteplici e
imperfette di questo mondo. In Platone, dunque, esistono due grandi gradi
fondamentali di conoscenza, l’opinione e la scienza, cui fanno riscontro due tipi
d’essere distinti, le cose e le idee (dualismo gnoseologico e dualismo
ontologico). La verità imperfetta dell’opinione dipende dalla configurazione
imperfetta del suo oggetto, ossia dal carattere mutevole e transeunte delle cose
testimoniate dai sensi. La scienza costituisce una conoscenza stabile, duratura e
perfetta proprio perché la realtà che essa indaga è stabile, duratura e perfetta. Il
nostro mondo è il mondo della mutevolezza,
e questo pensiero è desunto da Eraclito; da Parmenide Platone riprende l’idea
dell’immutabilità dell’essere autentico. Da Parmenide Platone riprende anche il dualismo tra
le cose e l’essere, tra sensibilità e ragione. Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo
sensibile non ha connessioni con quello pensato dalla ragione, per Platone tra le due sfere di
realtà esiste un indissolubile rapporto, la cui precisa definizione costituisce uno dei
problemi più ostici del platonismo. Se per Parmenide il nostro mondo è apparenza
irrazionale e illusoria, per Platone esso possiede una sua imperfetta conoscibilità.
I VARI TIPI DI IDEE
Negli ultimi dialoghi Platone lascia cadere la nozione etico-matematica dell’idea, in favore
di una nozione logico-ontologica, propensa a far corrispondere ad ogni realtà la sua
specifica forma. L’idea platonica in tal modo finirà per configurarsi con la forma
unica e perfetta di qualsiasi gruppo di cose che vengono designate con un medesimo
nome e che possono essere fatte oggetto di scienza. Pur essendo molteplici le idee
non costituiscono una pluralità disorganizzata: esse costituiscono piuttosto una
trama di essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, con le idee valore in
cima e l’idea del Bene al vertice. Se le cose partecipano delle idee, le idee a loro volta
partecipano del Bene, che è l’idea massima, idea delle idee, supremo valore di cui
tutte le altre idee sono imitazione o riflesso. L’idea del bene è stata talora assimilata
a Dio. Quest’idea è stata tuttavia scartata, in quanto non compare tra i testi platonici
l’idea di un dio creatore. Pur essendo al di là dell’essere, ovvero delle idee, e pur
superandole tutte per “potenza e valore”, il Bene non “crea” le idee, che sono tutte
eterne, ma si limita a comunicare loro la perfezione. Nella filosofia di Platone fino ad
ora la critica non ha mai individuato un “Dio persona”, ma solamente il divino. Platone
utilizza infatti il termine di “to teion”, per designare una molteplicità di cose diverse.
Caratteri personali possiede invece il demiurgo, il quale è però un’entità inferiore alle
idee, che si limita a ordinare una materia preesistente.
IL RAPPORTO TRA LE IDEE E LE COSE
• Criterio di giudizio delle cose noi per giudicare circa gli oggetti ci riferiamo
inevitabilmente ad esse. Le idee sono la condizione della pensabilità degli
oggetti.
• Causa delle cose gli individui sono in quanto imitano o partecipano, sia pure
imperfettamente, delle essenze archetipiche. Dunque le idee sono la condizione
dell’esistenza degli oggetti, o la loro ragion d’essere.
Il rapporto tra le idee e le cose non è stato tuttavia ben definito da Platone, il quale, pur
parlando di “mimesi” (per cui le cose imitano le idee), di “metessi” (le cose partecipano
delle idee), di “parusia” (le idee sono presenti nelle cose), rimane sulla questione
piuttosto incerto e oscillante.
Le idee non possono derivare dai sensi, in quanto questi ci testimoniano solamente un
mondo di cose imperfette. Esse sono dunque l’oggetto di una “visione intellettuale”,
di uno “sguardo della mente”. Da dove proviene questa visione? Come si spiega
l’esistenza, nell’uomo che vive in un mondo sensibile, della nozione di forme ideali?
Platone ricorre alla dottrina-mito della “reminiscenza”, cioè del ricordo: egli afferma
che l’anima prima di calarsi nel corpo è vissuta, disincarnata, nel mondo delle
idee, dove, tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose.
Una volta discesa nel mondo l’anima conserva un ricordo sopito di ciò che ha veduto.
Grazie all’esperienza delle cose, che fungono da occasione o pungolo per la memoria,
essa ricorda ciò che ha visto nell’iperuranio. In questo senso “ conoscere è ricordare”, in
quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per tirarle
fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate tra loro da una sorta di parentela,
per cui basta rammentarne una perché tutte le altre tornino alla mente. La gnoseologia
di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, in quanto sostiene che la
conoscenza non derivi dall’esperienza sensibile (che funge da meccanismo sollecitatore
del ricordo), bensì da metri di giudizio preesistenti e connaturati con il nostro
intelletto. L’arte maieutica di Socrate subisce in Platone un’ulteriore radicalizzazione
metafisica, venendo a coincidere con la teoria stessa della reminiscenza, cioè con la tesi
secondo cui portiamo dentro di noi una verità prenatale, che è il frutto di una
precedente contemplazione delle idee.
REMINISCENZA E VERITA’
Secondo Platone l’uomo non possiede già la verità (altrimenti non la cercherebbe) e
neppure la ignora completamente (in tal caso non sentirebbe attrazione verso di
essa), ma la porta in sé come “ricordo”, ovvero sotto forma di un patrimonio che è
impegnato a esplicitare all’infinito. L’uomo per questo non parte né da uno stato di
ignoranza totale né di verità, bensì da una sorta di pre-conoscenza, o di ignoranza
gravida di sapere, da cui dobbiamo socraticamente “tirar fuori” la conoscenza vera e
propria.
L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA
IL MITO DI ER
La teoria dell’immortalità dell’anima serve a Platone per chiarire il problema del destino.
Platone ritiene infatti che la sorte di ogni individuo dipenda da una scelta
precedentemente compiuta dall’anima nel mondo delle idee. Egli illustra la sua
tesi con il mito di Er, con cui si chiude la Repubblica.
La parte centrale del racconto del guerriero, morto e resuscitato, riguarda la scelta del
desino alla quale le anime sono invitate nel momento che precede la loro reincarnazione.
Ogni anima sceglie quindi il modello di vita che incarnerà. La scelta molto spesso è guidata
dalle esperienze che l’anima ha compiuto nella sua vita precedente. Per Platone, dunque, è
l’uomo a scegliere il proprio destino, benché sia in ciò condizionato da quel che in vita ha
voluto essere ed è stato.
L’ASSOLUTISMO PLATONICO
Platone ritiene che il relativismo, dando libero corso all’urto delle opinioni, non possa che
produrre violenza e disordine. Di conseguenza con la dottrina delle idee Platone vuole
offrire agli uomini uno strumento che consenta loro di uscire dal caos delle opinioni e dei
costumi. L’assolutismo della teoria delle idee rappresenta dunque il principale
strumento di battaglia contro il relativismo politico e contro l’anarchia sociale. La
conoscenza delle idee equivale alla fondazione di una scienza politica universale
che conduca tra gli uomini pace e stabilità. Tutto ciò implica come risultato ultimo
quell’idea di filosofia al potere che è il punto di arrivo della meditazione platonica.
LA DOTTRINA DELL’AMORE E DELL’ANIMA
Il sapere stabilisce tra l’uomo e le idee e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un
sentimento che non è puramente intellettuale, in quanto impegna l’uomo nella sua
totalità: questo rapporto è definito da Platone “amore”. Alla teoria dell’amore sono
dedicati Il Simposio e Il Fedro.
IL SIMPOSIO
Come può l’anima umana percorrere i gradi di gerarchia della bellezza, fino a giungere
alla bellezza suprema? La natura dell’anima è simile ad una coppia di cavalli alati,
guidati da un auriga: uno dei cavalli è eccellente, l’altro è pessimo, sicché l’opera
dell’auriga è difficile e penosa. L’auriga cerca di indirizzare verso il cielo i cavalli, al
seguito degli dei, verso quella regione dell’iperuranio che è la sede dell’essere
autentico. In questa regione sta la vera sostanza, priva di colore e forma, impalpabile, che
può essere contemplata solo da quella guida dell’anima che è la ragione. Questa
sostanza è la totalità delle idee. Ma l’anima può contemplarla solo per poco, poiché il
cavallo nero tira verso il basso. Ogni anima, per ciò, contempla la sostanza pura
dell’essere di più o di meno. Tuttavia, quando per oblio e per colpa si appesantisce, perde
le ali e si incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quale essa lo rende.
Allora l’anima che ha visto di più vivificherà il corpo di un uomo che si consacrerà al
culto della sapienza e dell’amore, mentre le anime che hanno visto di meno s’incarneranno
in uomini che saranno alieni dalla ricerca della verità e della bellezza. Nell’anima che è
caduta e si è incarnata, il ricordo delle sostanze ideali viene risvegliato proprio dalla
bellezza: l’uomo, infatti, riconosce subito la bellezza, appena la vede, per la sua
luminosità. La vista, il senso corporeo più acuto, vede solo la bellezza, la sa riconoscere. La
bellezza dunque fa da mediatrice tra l’uomo caduto e il mondo delle idee, e al suo appello
l’uomo risponde con l’amore. L’amore può rimanere attaccato alla bellezza corporea e
pretendere di godere solo di questa, o viene realizzato nella sua più autentica natura,
facendosi guida dell’anima verso il mondo dell’essere vero. In questo caso i caratteri
passionali dell’amore vengono subordinati alla ricerca lucida dell’essere in sé e della
bellezza. L’eros allora diventa procedimento razionale, dialettica. La dialettica è al
contempo ricerca dell’essere in sé e unione delle anime.
LO STATO IDEALE
Tutti i temi speculativi e i risultati dei dialoghi precedenti si trovano riassunti nella
massima opera di Platone, la Repubblica, che li ordina e li connette intorno al motivo
centrale di una comunità perfetta, nella quale il singolo trovi la sua perfetta
formazione. I problemi sono: qual è lo scopo di questa comunità? Chi sono propriamente i
filosofi? Alla prima domanda Platone risponde: è la giustizia. Nessuna comunità umana
può sussistere senza giustizia; questa è la condizione fondamentale della nascita e
della vita dello Stato, che deve essere costituito da tre classi: quella dei governanti,
quella dei guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un’altra attività. La saggezza è
la virtù della prima classe, il coraggio è la virtù dei guerrieri e la temperanza, come
accordo tra governanti e governati, è invece virtù comune a tutte le classi. La giustizia
comprende in sé tutte e tre queste virtù, e si realizza quando ciascun cittadino
svolge correttamente il suo compito. La giustizia dunque garantisce l’unità dello Stato,
ma anche l’efficienza dell’individuo, che deve organicamente accordare le parti in
conflitto della propria anima individuale.
TRIPATRIZIONE DELL’ANIMA
• Parte razionale è quella con cui l’anima ragiona e domina gli impulsi
• Parte irascibile ausiliario del principio razionale, si sdegna e lotta per ciò
che la ragione ritiene giusto
Dunque nell’uomo singolo la giustizia si avrà quando ogni parte dell’anima svolgerà
soltanto la propria funzione.
In uno Stato, secondo Platone, vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da
individui diversi. Platone, rifacendosi alla tripartizione psicologica dell’anima, afferma
che la diversità tra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono dalla
preponderanza di una parte dell’anima sulle altre. Abbiamo così gli individui
prevalentemente razionali (governo), gli individui impulsivi (guerrieri), e gli individui
prevalentemente soggetti al corpo e ai suoi desideri (lavoro manuale). Per Platone
dunque la divisione degli individui in classi sociali non dipende da un fattore
ereditario, ma da un fattore antropologico e psicologico, ossia da come si è in quanto
uomini. Gli uomini dunque si distinguono tra loro non per nascita, ma per differenti
attitudini naturali. Tutto ciò implica la mobilità sociale e delinea una differenza
rispetto al sistema di caste chiuse alla maniera orientale, che non permetteva
movimento sociale.
IL COMUNISMO PLATONICO
Democrazia i cittadini sono liberi e ad ognuno è concesso di fare quel che vuole; l’uomo
democratico non è parsimonioso, ma tende ad abbandonarsi a desideri smodati.
Platone afferma che i custodi, prima di poter custodire gli altri, devono essere in
grado di custodire se medesimi. Da ciò l’importanza fondamentale del sistema educativo.
Ordinamento educativo e ordinamento politico tendono ad identificarsi nello Stato
platonico: quest’ultimo viene a configurarsi come una sorta di grande Accademia,
avente come scopo la formazione permanente di ineccepibili custodi. L’educazione
platonica ha comunque un carattere classista: il sapere deve essere prerogativa
delle classi superiori.
Platone paragona la conoscenza a una linea che viene divisa in due segmenti:
Platone ritiene che la filosofia sia superiore alla ragione matematica. Egli pensa infatti
che le discipline scientifico-matematiche da un lato trovino consistenti appigli nel
mondo sensibile, in quanto le loro nozioni primitive sono attinte o intraviste proprio
attraverso le cose sensibili, e inoltre partono da ipotesi indimostrate. La filosofia,
invece, in quanto scienza suprema, pur muovendo da ipotesi le considera come tali,
ovvero semplici punti
di partenza per salire ai principi supremi (idee) da queste al principio di tutto (il Bene).
Inoltre il filosofo, a differenza del matematico, si occupa dei problemi dell’uomo e
della città. Ciò non esclude che la matematica rivesta una fondamentale importanza nel
sistema di Platone: l’educazione scientifica segna infatti il passaggio tra una conoscenza
sensibile a una conoscenza razionale e matematica. Questo passaggio, secondo
Platone, va rintracciato nei metodi di misura. La misura ci dà modo per raggiungere
conoscenze che non sono più mutevoli e soggettive, ma oggettive e stabili. Le
discipline matematiche fondamentali per l’uomo, secondo Platone, sono l’aritmetica, la
geometria, l’astronomia, la musica: tutte queste discipline svolgono una funzione
propedeutica rispetto alla filosofia, preparano il filosofo all’accesso alla scienza delle
idee.
“Lo schiavo vorrebbe starsene sempre là”, a contemplare la luce e le cose nella loro forma reale:
è la tentazione del filosofo che vorrebbe chiudersi in una torre d’avorio. Lo schiavo
che torna nella caverna rappresenta il dovere del filosofo di far partecipi gli altri
delle proprie conoscenze; l’ex schiavo che non riesce a vedere le ombre rappresenta il
filosofo che per essersi troppo concentrato sulle idee si è disabituato alle cose; lo
schiavo deriso rappresenta la sorte dell’uomo di pensiero, preso per pazzo da coloro
che sono ancorati ai pregiudizi e ai modi di vita volgare. I grandi onori attribuiti a
coloro che sanno vedere le ombre rappresentano il premio offerto dalla società ai
falsi sapienti; l’uccisione del filosofo incarna la sorte toccata a Socrate. Nel mito della
caverna troviamo il dualismo gnoseologico e ontologico sotteso alla teoria delle idee;
c’è poi l’afflato religioso che spinge Platone a vedere il nostro mondo come un mondo
delle tenebre, contrapposto al regno della luce. Inoltre, è racchiuso nel mito il
concetto della finalità politica della filosofia, l’idea che tutte le conoscenze acquisite
debbano essere utilizzate per la fondazione di una comunità giusta e felice. Lo
schiavo liberato dovrà riabituarsi al buio della caverna: allora vedrà meglio dei
compagni che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i caratteri di ciascuna
immagine per averne visto il vero esemplare. Soltanto con il ritorno nella caverna,
solo cimentandosi nel mondo umano, l’uomo avrà compiuto la propria educazione e
sarà veramente filosofo.
L’ARTE IMITATIVA
Platone condanna l’arte per due motivi: uno metafisico-gnoseologico e l’altro di tipo
pedagogico-politico. In primo luogo, Platone ritiene che l’arte sia sostanzialmente
imitazione di un’imitazione (mimesis mimoseos), in quanto essa si limita a riprodurre
l’immagine di cose e di eventi naturali che sono a loro volta riproduzioni delle idee.
L’arte inoltre, nutrendosi di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso e risulta
totalmente aliena dalla misurazione matematica, primo gradino messo a disposizione
dell’uomo per uscire dal dedalo delle percezioni soggettive e per attingere a realtà
oggettive e comuni. Per quanto riguarda il secondo punto, Platone ritiene che l’arte in
generale, e la commedia in particolare, sia pedagogicamente negativa per il suo
potere corruttore sugli animi: l’arte incatena l’animo alle passioni rappresentate e
raffigura persone che si abbandonano agli istinti. Inoltre, nella tragedia, l’arte ra ffigura
un mondo dominato dal fato, escludendo ogni iniziativa umana. Per concludere, l’arte per
Platone esiste solamente se assoggettata alla filosofia.
L’ULTIMO PLATONE
Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme costituiscono la terza e ultima
fase del pensiero platonico, abbiamo un ulteriore approfondimento delle teorie del
filosofo, che rivedendo le proprie dottrine perviene a esiti in parte nuovi:questa
capacità di mettersi continuamente in discussione rappresenta la tipica eredità
socratica del platonismo. I problemi cruciali che si impongono al cosiddetto “ultimo
Platone” sono fondamentalmente due: come deve essere adeguatamente pensato il
mondo delle idee? Come va concepito il rapporto tra le idee e le realtà naturali?
Posto che l’“uno” è l’idea, mentre i “molti” sono gli oggetti di cui l’idea costituisce l’unità,
non si capisce come l’idea possa essere “partecipata” da più oggetti, o “diffusa” in
essi, senza risultare con ciò moltiplicata e distrutta nella sua unità.
Per spiegare come possano esistere più idee e come essa possano comunicare tra
loro, Platone elabora la cosiddetta teoria dei “generi sommi”, cioè degli attributi
fondamentali delle idee, che per il filosofo sono cinque: l’essere, l’identico, il diverso,
la quiete e il movimento. Innanzitutto, ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel
genere dell’essere. In secondo luogo, ogni idea è identica a sé stessa, e quindi rientra nel
genere dell’identico. “Essere” ed “essere identico” sono due generi differenti e non
coincidenti tra loro: infatti tutte le idee, pur esistendo, non per questo sono identiche
tra loro, altrimenti di avrebbe la fusione di tutte le idee in un’unica idea. Se ogni idea è
identica a sé, ma distinta dalle altre, significa che essa è diversa da queste, per cui ogni
idea rientra anche nel genere del diverso. Si giunge in tal modo al momento culminante
della critica a Parmenide: l’errore di fondo del pensiero di Elea, secondo Platone, è
stato quello di confondere il diverso con il nulla. L’unico modo in cui può esistere il
non essere è quello dell’essere diverso, che però, in quanto tale, non è il nulla assoluto,
poiché partecipa anch’esso dell’essere. Attribuendo una qualche forma di essere al non
essere, Platone si sbarazza del “fantasma” del nulla, infrangendo il divieto parmenideo di
parlare del non essere e quindi della molteplicità. Da qui il filosofo supera anche il
problema dell’errore: l’errore non consiste nel pronunciare il nulla, ma semplicemente nel
dire le cose in modo diverso da come esse effettivamente stanno. Giustificata in tal
modo la pluralità delle idee, ai tre generi sommi Platone aggiunge i due generi della
quiete e del moto.
LA DIALETTICA
Il bene per l’uomo è una forma di vita, anzi la forma di vita che maggiormente gli è
propria. La vita umana, che non è né una vita divina né puramente animale, sarà una vita
mista tra la ricerca del piacere e l’esercizio dell’intelligenza: tutto sta nella giusta
proporzione in cui il piacere e l’intelligenza devono mescolarsi per costituire la vita
propriamente umana. L’indagine morale di Platone in questo modo si trasforma in
un’indagine a sfondo matematico, e il problema diviene quello della misura. Platone
afferma che il piacere è un illimitato, che può essere diminuito o
aumentato indefinitamente, e che a esso bisogna imporre dunque un ordine o una
misura: questa è la funzione del limite. Ad imporre il limite è l’intelligenza, la quale
trasforma ciò che è illimitato in una proporzione numerica. Della vita dell’uomo devono
dunque far parte l’intelligenza, causa dell’ordine e della misura, ma anche il piacere,
disciplinato e proporzionato con un limite. Platone ritiene che tutta la vita
dell’intelligenza, tutte le forme di conoscenza, da quella più alta a quella più bassa,
debbano entrare a far parte della vita umana. La scienza dell’essere, dunque, non è
sufficiente: occorre che questa scienza sia utile alla necessità dell’uomo e bisogna
ricorrere dunque anche all’opinione. Quanto ai piaceri, devono entrare a far parte della
vita umana solo quelli puri, che non dipendono dall’appagamento di un bisogno, ma sono
dovuti alla contemplazione delle belle forme. La gerarchia dei valori viene esibita da
Platone nel modo seguente: al primo posto c’è l’ordine, la misura, il giusto mezzo; al
secondo posto ciò che è proporzionato, bello e compiuto; al terzo posto l’intelligenza,
come causa della proporzione e della bellezza; al quarto posto la scienza e l’opinione; al
quinto i piaceri puri.
IL TIMEO
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