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GIUSTIZIA

AMMINISTRATIVA
- Franco Gaetano Scoca -

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LA FORMAZIONE DEL SISTEMA
Il sistema della giustizia amministrativa italiano è la risultante di una lenta stratificazione di atti normativi,
emanati in diversi momenti storici.

Prima dell’Unità d’Italia (1861) la tutela dei cittadini era affidata al CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO (sul
modello del sistema francese), istituito nel 1847 e successivamente ripreso e confermato da una serie di
regi decreti del 1859. Non era ancora concepibile, per il principio di separazione dei poteri, che
l’amministrazione potesse essere portata davanti agli organi giurisdizionali.
In base a tali decreti, la giustizia amministrativa era così organizzata:
- Le controversie con l’amm.ne erano devolute ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo:
organi collegiali di natura amministrativa, con prerogative di minima indipendenza perché inseriti
nell’organizzazione dell’esecutivo. Nel Regno di Sardegna questi tribunali erano: I grado – Consiglio
di governo; II grado – Consiglio di Stato (per le materie di contenzioso elencate dalla legge, nonché
organo in unico grado in materia di pensioni).
- Giudici speciali del contenzioso amministrativo: erano giudici con competenze in merito a materie
specifiche (appartenenti alla Corte dei Conti con competenza in materia di contabilità pubblica, al
Consiglio di Stato con competenza in materia di pensioni, al Consiglio superiore della pubblica
istruzione per questioni di istruzione…).
- Giudici ordinari: questa categoria comprendeva i giudici civili, chiamati a decidere in merito a
questioni attinenti al rapporto cittadini-Stato, allorquando questo agiva come soggetto di diritto
privato e non iure imperio (es. per controversie inerenti al diritto di proprietà o relative
all’applicazione e interpretazione dei comuni contratti di diritto privato).

Rimaneva fuori da qualsiasi forma di sindacato giurisdizionale la cd. amministrazione economica, cioè
tutta quell’attività amministrativa non disciplinata da norme di legge o rimessa totalmente alla
valutazione discrezionale e/o tecnica della PA. In tali ipotesi il cittadino, eventualmente leso
dall’operato della PA, non aveva possibilità di adire alcun giudice, non potendo invocare alcuna norma
violata dalla stessa PA.
Questa tipologia di sistema favoriva il sorgere di numerosi conflitti non solo tra giudici ordinari e amministrativi, ma
anche tra i giudici e la stessa amministrazione: per porre fine al proliferarsi di conflitti fu emanata la L. 3780/1859 in
base alla quale il conflitto poteva essere sollevato anche dal rappresentante locale dell’esecutivo (Governatore prima,
Prefetto poi), che, interferendo nel procedimento giurisdizionale, aveva anche la facoltà di imporre la sospensione del
giudizio. Il conflitto era deciso con decreto reale (al Re era attribuita sia la funzione amministrativa che giudiziaria),
previo parere del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio dei Ministri. Tuttavia, la
decisione effettiva spettava al Ministro dell’interno che formulava la proposta del decreto: l’autorità amministrativa
prevaleva, dunque, su quella giurisdizionale.

Con l’unificazione del Paese, si pose il problema di unificare anche la frammentaria legislazione vigente in
tutti gli Stati preunitari.
La classe dirigente liberale si divise tra coloro che sostenevano il sistema del contenzioso amministrativo e
coloro che, invece, erano a favore della sua abolizione per le seguenti ragioni:
- le controversie tra PA e cittadino dovevano essere affidate al G.O. in quanto estraneo
all’amministrazione, quindi in grado di decidere in modo imparziale;
- l’esistenza di una categoria di giudici speciali privilegiava la PA, a danno delle garanzie di libertà dei
cittadini;
- l’amministrazione doveva essere separata dalla giurisdizione e sottratta al suo controllo, così come
il giudice doveva essere separato dall’amministrazione.
A tali motivazioni, i promotori del sistema del contenzioso amministrativo opponevano:
- la specialità del diritto dell’amministrazione;
- la non inamovibilità dei giudici del contenzioso amministrativo, a differenza, invece, dei G.O.: da ciò
ne scaturiva una maggiore responsabilità e ponderazione nell’assumere le decisioni;
- l’esistenza dei giudici ad hoc per il contenzioso amministrativo, a garanzia dell’autonomia e
supremazia dell’azione amministrativa.

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Le leggi sull’unificazione amministrativa furono promulgate con la L. 2248/1865 di UNIFICAZIONE
AMMINISTRATIVA, costituita da 6 allegati. Della giustizia amministrativa si interessavano:
- Allegato D: disciplinava il Consiglio di Stato;
Ne conferma la suddivisione in 3 sezioni (interno, grazia-giustizia, finanze), gli attribuiva
competenze consultive e, in alcuni casi tassativamente previsti, anche funzioni
giurisdizionali (es. come giudice speciale per controversie in materie di debito pubblico).
Inoltre al Consiglio di Stato, in qualità di giudice speciale, fu conferita una competenza di
particolare rilievo istituzionale: la risoluzione dei conflitti tra amministrazione e autorità
giurisdizionale. In tal modo si assicurava equilibrio tra l’esigenza di evitare la prevalenza
dell’ordine giudiziario rispetto all’amministrazione e quella di assicurare una decisione
“giurisdizionale” e non “politica” del conflitto. Precedentemente, infatti, la competenza del
Ministero dell’interno implicava la mancanza di qualsiasi garanzia giurisdizionale.

- Allegato E: si occupava del contenzioso amministrativo


Prevede la soppressione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo, mantenendo la
giurisdizione dei giudici speciali.
Il sistema, imperniato sulla giurisdizione del G.O., veniva a essere così organizzato:
 Tutte le questioni aventi ad oggetto diritti civili e/o diritti politici furono affidate alla
giurisdizione del G.O.
Qualsiasi diritto soggettivo, vantato dal cittadino nei confronti dell’amministrazione,
aveva acquisito la tutela giurisdizionale; la cognizione del G.O. era estesa a qualsiasi
controversia su diritti soggettivi. Nell’espressione “diritto civile e politico” erano
ricompresi tutti i diritti soggettivi, secondo l’univoca interpretazione.
 La giurisdizione del G.O. era estesa anche ai provvedimenti del potere esecutivo e a
quelli delle autorità amministrative;
 Gli affari non compresi furono riservati all’autorità amministrativa. In quest’ambito
erano state introdotte alcune garanzie a tutela del cittadino: le autorità amministrative
dovevano provvedere con decreto motivato, osservando le regole del contraddittorio e,
ove previsto, acquisendo pareri di organi consultivi. In ogni caso avverso le decisioni
dell’amministrazione era consentito il ricorso in via gerarchica. Permaneva, inoltre, la
possibilità di esperire il ricorso (straordinario) al Re, che veniva deciso su parere del
Consiglio di Stato.

Accanto a questi limiti “esterni” della giurisdizione civile nei confronti dell’amministrazione, la
L. 2248/1865 prevedeva dei limiti interni, riguardanti i vincoli del giudicato del G.O. In
particolare:
o il sindacato riguardava solo la legittimità dell’atto amministrativo e non l’opportunità e la
convenienza dello stesso (limite alla cognizione);
o il G.O. non poteva annullare, revocare o modificare i provvedimenti amministrativi, ma solo
disapplicarli (ossia non ne teneva conto ai fini della decisione).
o La pronuncia estendeva i suoi effetti solo alle parti interessate, anche se l’atto era di
portata generale.

Tale riforma si rivelò però insufficiente:


- in assenza di diritto soggettivo non era concepibile alcun intervento del giudice, e d’altra parte
nemmeno ai diritti soggettivi era assicurata una tutela in forma specifica (non avendo il giudice
poteri costitutivi nei confronti della PA);
- Il G.O. non era preparato a risolvere controversie amministrative.
- Il Consiglio di Stato, che aveva il compito di risolvere i conflitti di attribuzione tra organi
amministrativi e giurisdizionali, contribuì a limitare l’ambito della tutela giurisdizionale. → Quando
la controversia riguarda provvedimenti amministrativi, in particolare provvedimenti discrezionali,
essa non può avere ad oggetto diritti soggettivi, quindi non rientra nell’ambito della giurisdizione
così come delineato dalla legge del 1865. La competenza del G.O. veniva in tal modo circoscritta

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solo ai casi di atti emanati dalla PA nell’esclusivo interesse della stessa amministrazione e non a
tutela di un interesse pubblico generale.

Molti criticarono l’attribuzione di tale competenza al Consiglio di Stato, stante la stretta relazione
intercorrente tra esso e il governo.
Tutto ciò condusse a un nuovo intervento legislativo in merito alla disciplina dei conflitti: con l’emanazione
della L. 3761/1877, la decisione dei conflitti tra amministrazione e autorità giudiziaria (cd. conflitti di
attribuzione) o tra giudici speciali e giudici ordinari (cd. conflitti di giurisdizione) fu affidata alle SSUU della
Cassazione. Tuttavia quest’ultima continuò nell’indirizzo precedentemente manifestato dal Consiglio di
Stato, rendendo salda l’interpretazione sui limiti esterni della giurisdizione ordinaria.

L’amministrazione era intesa come autorità, espressione della sovranità. Nella sfera entro la quale si
esercitava il potere non vi era posto per i diritti dei cittadini.
In questa prospettiva, i diritti civili e politici non potevano collidere con il potere amministrativo: la tutela
dei diritti era limitata ai casi in cui l’autorità amministrativa agiva in violazione delle leggi civili e politiche,
senza potersi estendere alla violazione delle leggi amministrative.
- Leggi amministrative: attribuivano poteri all’amministrazione, e ciò escludeva necessariamente la
contemporanea attribuzione di diritti ai cittadini e quindi l’assenza di tutela giurisdizionale. Le
controversie relative alla sfera dei poteri amministrativi erano sottratte alla cognizione del giudice e
lasciate a quella dell’amministrazione, che vi provvedeva mediante l’esame e la decisione dei ricorsi
amministrativi.
- Leggi civili e politiche: attribuivano diritti soggettivi ai cittadini, e di conseguenza non attribuivano
poteri all’amministrazione, quindi era assicurata la tutela giurisdizionale.

Salandra: prima risposta unitaria al problema della tutela nei confronti dell’amm.ne. I riformatori vollero affermare le
“guarentigie giuridiche della libertà civile”, così come nel periodo post-rivoluzionario francese si erano cercate le
“guarentigie politiche della sovranità popolare”.

L’esigenza di una nuova riforma si manifesto quasi immediatamente dopo il 1865, e venne crescendo nel
tempo. L’occasione fu la caduta del Governo della Destra, durato ininterrottamente dall’Unità, nel 1876. Il
problema della tutela nei confronti dell’amm.ne suscitò una nuova attenzione, tanto che la Destra lo inserì
al primo posto nel proprio programma politico. Si determinò un movimento per la “giustizia
nell’amministrazione” i cui massimi esponenti furono Marco Minghetti e Silvio Spaventa.
→ Si voleva completare l’opera del 1865, ponendo un freno ai favoritismi e alle parzialità, tutelando
maggiormente i cittadini davanti alla p.a.

LA GIUSTIZIA NELL’AMMINISTRAZIONE
Nel 1876 cadde il Governo di destra e subentrò la Sinistra presieduta da Francesco Crispi.
Fu varata la L. 5992/1889: modificò l’organizzazione interna del Consiglio di Stato con l’istituzione, accanto
alle prime tre (risalenti al 1831), della Quarta Sezione denominata “per la giustizia amministrativa”.
→ competente a: decidere i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti e
provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per
oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi stessi non siano di competenza
dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione e alle attribuzioni contenziose di
corpi o collegi speciali (art. 3).
Venivano in tal modo garantite quelle situazioni lasciate, dalla legge del 1865m prive di tutela
giurisdizionale: la tutela degli “interessi” dei cittadini lesi da atti della PA era, perciò, demandata a
un’autorità specifica, con un prestigio paragonabile a quello del giudice civile, ma dotata di un potere di
annullamento.
- Scelta della tutela successiva apparve adeguata a assicurare la giustizia nell’amministrazione,
evitare i favoritismi e le parzialità, senza intralcio per lo svolgimento dell’attività amministrativa.

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Coerentemente, vennero sottratti alla nuova forma di tutela “gli atti o provvedimenti emanati dal
Governo nell’esercizio di un potere politico.
- Non si spiegava però cosa fosse l’interesse: non si sapeva in cosa consistesse dal pdv giuridico,
poteva essere identificato quale non-diritto soggettivo.
- Al sindacato di legittimità si aggiungeva, in alcuni limitati casi, il sindacato di merito: uno dei casi
riguardava l’obbligo per l’amministrazione di conformarsi al giudicato del G.O.

La riforma del sistema di giustizia amministrativa fu poi ultimata con l’istituzione di un organo
giurisdizionale periferico - la Giunta provinciale amministrativa – cui venne affidata, dalla L. 6837/1890, la
cognizione dell’impugnativa degli atti amministrativi degli enti locali e di altre controversie riguardanti gli
stesso, con appello al Consiglio di Stato.

Con questa riforma si aprì la strada al SISTEMA DUALISTICO oggi vigente, in quanto venne definita la
giurisdizione generale del G.A. per lesione di interessi legittimi, individuando i futuri pilastri del processo
amministrativo: ricorso per l’impugnazione di atti o provvedimenti, per vizi di legittimità, a tutela di
interessi individuali, diversi dai diritti soggettivi.

La cognizione e i poteri della Quarta Sezione


Mentre la legge del 1865 aveva negato che il giudice potesse annullare gli atti dell’amm.ne, la legge del
1889 conferiva alla Quarta Sezione il potere di annullamento.
Il risultato conseguito fu la generalità della tutela, salva la zona franca degli atti politici: era data tutela per
ogni controversia che il cittadino avesse nei confronti di una qualunque amministrazione. Ciò non portò
tuttavia alla pienezza della tutela, perché i mezzi di tutela (esperibili davanti al giudice e davanti alla Quarta
Sezione) non erano cumulabili:
- Se si trattava di un diritto soggettivo: si effettuava un’azione di accertamento e condanna al
pagamento di una somma di denaro;
- Se concerneva interessi: si procedeva all’azione di annullamento.
L’obiettivo della pienezza della tutela non era stato ancora centrato.

La legge del 1889 non usa mai i termini “giurisdizione” e “sentenza”, ma “competenza” e “decisione”: per il
legislatore dell’epoca, il controllo sull’attività amministrativa poteva essere effettuato solo da un organo
appartenente all’amministrazione stessa.
Per conciliare il carattere amministrativo della Quarta Sezione con quello sostanzialmente giurisdizionale
della sua funzione, si parlò di “controllo giurisdizionale dentro la stessa PA contro l’abuso dei suoi organi”,
accogliendo una nozione ampia di giurisdizione. Anche la dottrina dell’epoca (Santi Romano, Orlando,
Codacci Pisanelli) si schierò su posizioni analoghe.

Il riconoscimento della natura giurisdizionale (in senso proprio) della Quarta Sezione e, quindi, delle
“decisioni” da essa adottate, fu opera delle SSUU della Cassazione romana, sulla base della legge 1887 sui
conflitti e della stessa legge del 1889.
Questo le permise di fissare il criterio di riparto tra giurisdizione del G.O. e competenza della Quarta
Sezione sulla causa petendi, ma soprattutto le permise di trasformare la Quarta Sezione da organo
amministrativo in organo giurisdizionale
In base alla legge 1887, alle SSUU spettava di:
1) regolare la competenza tra l’autorità giudiziaria e l’autorità amministrativa quando l’una o l’altra
sian dichiarate incompetenti - decidere quindi i conflitti negativi di attribuzione;
2) nonché della nullità delle sentenze di queste giurisdizioni per incompetenza od eccesso di potere –
ossia di decidere i conflitti di giurisdizione, positivi e negativi.
A fronte di decisioni della Quarta Sezione affermanti la “competenza” della Sezione stessa, le SSUU, per
impedire usurpazione delle attribuzioni affidate all’autorità giudiziaria, non avevano altro mezzo che
trasformare il conflitto di attribuzione in conflitto di giurisdizione, con la conseguente possibilità di

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annullare, per incompetenza o eccesso di potere, le decisioni stesse – sul presupposto che tali decisioni
fossero sentenze e che la Quarta Sezione fosse una giurisdizione speciale.
La natura giurisdizionale della Quarta Sezione venne più tardi sancita dalla l. 62/1907.
La presa di posizione delle SSUU sul criterio di riparto fondato sulla causa petendi originò un dibattito
dottrinale sulla possibilità affidata al G.A., auspicando così di arrivare alla tanto desiderata doppia tutela. La
dottrina fu profondamente divisa. di assicurare ai diritti soggettivi sia la tutela risarcitoria già accordata al
G.O., che quella di annullamento

LA LEGGE E IL REGOLAMENTO DEL 1907


Silvio Spaventa (pres. Quarta Sezione): parlò di giurisdizione come funzione attribuibile all’amministrazione,
esercitata da essa come forma nuova del supremo diritto di ispezione del Governo sugli atti
dell’amministrazione. Nuova perché tale potere era condizionato alla richiesta dei privati che vi hanno
direttamente interesse, ma procede con forme processuali…
→ Tale giurisdizione doveva necessariamente avere carattere oggettivo: l’interesse individuale offeso è
solamente preso come motivo o occasione per l’amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti. Così
poteva superarsi il binomio diritto soggettivo - tutela giurisdizionale: il processo di diritto oggettivo
prescinde dalla considerazione (e dalla tutela) di situazioni giuridiche soggettive.

Partendo da una nozione più rigorosa di giurisdizione, e riconoscendo il carattere autenticamente


giurisdizionale della Quarta Sezione, la possibilità di tutela giurisdizionale in assenza di diritto soggettivo
costituiva un problema. Sorse così l’esigenza di individuare una forma di interesse, che non fosse mero
interesse semplice (privo di rilievo giuridico), ma che non fosse nemmeno diritto soggettivo: si iniziò a
parlare dunque di interesse legittimo, in rapporto occasionale con un diritto obiettivo.
L’orientamento della Quarta Sezione si spostò progressivamente verso un modello di processo di diritto
soggettivo, finalizzato alla tutela di situazioni soggettive; contemporaneamente la dottrina iniziò ad
approfondire il concetto di interesse legittimo.

Prima della Cost., è necessario ricordare:


- L. 62/1907: istituì la Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale
venne attribuita una giurisdizione di merito, contrapposta a quella di legittimità, spettante alla IV
sezione. Tale legge inoltre riconobbe formalmente la natura giurisdizionale della IV sezione,
introducendo la distinzione tra sezioni “consultive” e sezioni “giurisdizionali”.
Fu così consacrata definitivamente la distinzione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa,
partendo dalla differenza esistente tra le posizioni soggettive: al Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale fu affidata la competenza in materia di tutela di posizioni soggettive particolari (gli
interessi legittimi);

- Il TU delle leggi su Consiglio di Stato, approvato con R.D. 1054/1924, con il quale si abolì la
distinzione di competenza tra la Quarta e la Quinta sezione del Consiglio di Stato.
Vennero inoltre introdotte le seguenti innovazioni:
o al G.A., nell’ambito dei giudizi di sua competenza, si riconobbe il potere di conoscere in via
incidentale le posizioni di diritto soggettivo, evitando, in tal modo, la sospensione del giudizio e il
conseguente rinvio al G.O., in tutte quelle ipotesi in cui fosse necessario esaminare una questione di
diritto soggettivo per la decisione della questione principale;
o si attribuì al G.A., in talune materie in cui era difficile separare con certezza interessi legittimi da
diritti soggettivi (es. pubblico impiego), la possibilità di conoscere questioni aventi ad oggetto diritti
soggettivi in via principale (cd. giurisdizione esclusiva). Si creò quindi un secondo criterio di riparto
delle giurisdizioni, fondato sulle materie, avente carattere speciale, rispetto a quello generale
fondato sulle SGS.
o Al G.O. erano riservate invece, oltre alle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, anche le
questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o
provvedimento avverso il quale si è fatto ricorso.

- Il D.LGS. 642/1948: che istituì la Sesta sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.

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La legge del 1923 si limitò a creare la giurisdizione esclusiva ma non dettò una disciplina propria del
processo relativo; cosicchè la tutela dei diritti soggettivi fu compressa nello stretto ambito del processo
amministrativo (con possibilità di esercitare solo l’azione di annullamento).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha nel tempo eliminato qualche grave strozzatura:
- ha consentito la proposizione del ricorso entro i termini di prescrizione, anziché entro i termini di
decadenza, quando la controversia attiene ai diritti soggettivi;
- (!) ma non ha mai intrapreso la strada della costruzione in via pretoria di un processo adeguato alla
tutela congiunta delle situazioni di diritto e di interesse legittimo, ossia un processo di giurisdizione
esclusiva. Ne è la conferma la differenziazione dei termini per la proposizione del ricorso a seconda
che vengano impugnati atti paritetici (lesivi di diritti) o atti autoritativi (lesivi di interessi legittimi).

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA

L’IMPATTO COSTITUZIONALE
La “costituzionalizzazione” del sistema
La Cost. contiene alcune disposizioni riguardanti la giustizia amministrativa ed altre, più generali, che
fissano principi sulla magistratura in generale e sulla tutela giurisdizionale.
I costituenti preferirono lasciare immutate le linee fondamentali del sistema dell’epoca:
- è stato sanzionato con norma cost. il sistema dualistico, ripartendo le controversie con l’amm.ne
tra G.O. e G.A., secondo il criterio delle situazioni soggettive, conservando la giurisdizione esclusiva
in particolari materie indicate dalla legge (art. 103 comma 1).
- Si è vietata l’istituzione di giudici speciali (art. 102 comma 2) ed è stata prescritta la revisione, entro
5 anni, degli organi di giurisdizione esistenti (sono stati fatti salvi Consiglio di Stato e Corte dei conti
– VI disp. trans.).
Il Consiglio di Stato resta organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela di giustizia
nell’amministrazione; la Corte dei Conti è contemporaneamente organo di controllo e organo di
giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
→ I magistrati di entrambi gli istituti vengono considerati giudici delle giurisdizioni speciali (art. 108
comma 2), in quanto si collocano fuori dell’ordine giudiziario.

Per quanto attiene ai giudici amministrativi, la Costituzione prescrive la istituzione di organi di giustizia
amministrativa di primo grado; tale prescrizione sarà attuata solo negli anni 70, con la istituzione dei
Tribunali amministrativi regionali.
In attuazione dello Statuto della Regione siciliana, è stato istituito il Consiglio di giustizia amministrativa
della Regione siciliana (corrispondente, quanto a funzioni, al Consiglio di Stato).

Le “aperture” costituzionali
Norme che riguardano qualsiasi giurisdizione, e si applicano quindi anche alle giurisdizioni amministrative:
- ART. 24:
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
- ART. 113:
Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti
e degli interessi legittimi (comma 1).
Gli interessi legittimi vengono accostati ai diritti soggettivi: per la prima volta la locuzione nel
linguaggio legislativo.
Ciò ha dato un contributo decisivo a quel movimento dottrinale, che era già iniziato, teso a
dimostrare il carattere sostanziale (e non solo processuale) della situazione giuridica soggettiva,
conosciuta come interesse legittimo.
Il riconoscimento dell’interesse legittimo come situazione soggettiva che trova tutela nel processo
sancisce definitivamente il carattere di processo di diritto soggettivo e di processo di parti che il

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processo amministrativo aveva da tempo acquisito. Inoltre apre strada alla risarcibilità delle lesioni
inferte dall’amministrazione all’interesse legittimo.
La Cost. riafferma la generalità della tutela nei confronti dell’amministrazione: vengono meno,
pertanto, sia le limitazioni connesse con la impugnabilità di alcune categorie di atti (gli atti politici
ne sono l’esempio più rilevante) sia quelle derivanti dalla esclusione della sindacabilità degli atti
sotto alcuni profili (di solito l’eccesso di potere).

La tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti (comma 2).
La Cost. ha voluto assicurare, oltre alla generalità, anche la pienezza della tutela giurisdizionale. Il
che comporta che, nelle controversie con l’amministrazione, devono poter essere esperibili tutte le
azioni che, in via generale, sono esperibili nelle controversie tra privati.
In questo modo si supera la situazione precedente: il G.O. non può né annullare atti amministrativi
né condannare l’amministrazione ad un facere e a un dare specifici, e il G.A. non poteva emettere
ogni tipo di sentenza attuando il principio di atipicità delle azioni.

L’opera della Corte Costituzionale


Nei decenni precedenti la nuova Cost. il panorama dei giudici speciali si era andato arricchendo di
numerose figure. L’inadeguata composizione di tali organi e la rozzezza della disciplina del processo che
dinanzi a loro si svolgeva hanno determinato il disfavore dei costituenti per i giudici speciali. Tuttavia il
legislatore non ha dato seguito al dovere di attuarne la revisione entro il termine di 5 anni.
L’inerzia del legislatore ha spinto la Corte costituzionale ad eliminare molti dei tali giudici speciali, facendo
leva sull’art. 108 comma 2 e sul principio di indipendenza ivi sancito: i Consigli di Prefettura, le Giunte
Provinciali amministrative, i Capitani di porto.
Indicativa è la vicenda del contenzioso elettorale amministrativo: per antica tradizione i ricorsi elettorali
venivano decisi rispettivamente dai consigli comunali e provinciali. La Corte costituzionale dichiarò costituzionalmente
illegittime le norme che disciplinavano il contenzioso, senza che fossero garantite l‘indipendenza e l’imparzialità
dell’organo giudicante. Il legislatore ritenne di risolvere il problema, istituendo le Sezioni del contenzioso elettorale,
come Sezioni speciali degli istituendi Tribunali amministrativi regionali, composte da due funzionari statali e da tre
membri eletti dai consigli regionali o provinciali. La Corte ha ritenuto che un collegio così formato violasse il principio
di indipendenza del giudice. il problema è stato poi risolto attribuendo la giurisdizione in tema di operazioni elettorali
amministrative ai TAR.

- ha contribuito a far nascere i giudici parlamentari;


- si è occupata della nomina governativa di alcuni dei magistrati del Consiglio di Stato, ritenendola
costituzionalmente legittima.
- si è occupata, in una seconda stagione, della disciplina del processo amministrativo:
- È più volte intervenuta sulla tutela cautelare;
- Ha riconosciuto valore costituzionale alla regola del doppio grado di giudizio;
- Ha stigmatizzato il sistema probatorio, ma soltanto con riferimento al processo di pubblico impiego;
- Ha introdotto l’opposizione di terzo ordinaria;
- Ha sottolineato l’importanza e le implicazioni del rispetto del principio del contraddittorio;
- Ha individuato rigorosi limiti alla espansione della giurisdizione esclusiva.

L’ISTITUZIONE DEI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI


L'articolo 125 Cost. venne attuato tardivamente con L. 1034/1971, che istituì i TAR quali “organi di giustizia
amministrativa di primo grado”, con circoscrizione regionale. La sede è nel capoluogo di Regione; in alcune
regioni sono state istituite Sezioni staccate.
L'istituzione di organi di primo grado era stata resa urgente dalla dichiarazione di incostituzionalità delle
Giunte provinciali amministrative, che fungevano da organi di giustizia amministrativa di primo grado con
giurisdizione limitata.
- I nuovi tribunali hanno invece giurisdizione corrispondente a quella del Consiglio di Stato, ormai
diventato giudice d'appello. L'unico caso di giurisdizione in un unico grado del Consiglio di Stato

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riguarda il ricorso per ottemperanza alle decisioni dello stesso Consiglio di Stato, quando esse non
confermino le decisioni di primo grado (art. 113 comma 1 CPA).
- Inizialmente venne riservata la presidenza dei Tar ai consiglieri di Stato, e venne creato il ruolo dei
magistrati amministrativi regionali separato; successivamente (1982) la presidenza dei tribunali è
stata estesa a magistrati amministrativi regionali, inseriti in un unico ruolo insieme a quelli del
Consiglio di Stato.

Nel 1982 è stato istituito il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, con le medesime funzioni
che il consiglio superiore della magistratura svolge per i magistrati ordinari. Il presidente è nominato con
decreto del presidente della repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei Ministri; il consiglio di
presidenza ha solo la possibilità di fornire un parere non vincolante.
La legge del 1971 sui Tar, quando possibile, ha ripetuto letteralmente le formule del t.u. sul Consiglio di
Stato, per non far percorrere agli appena istituiti Tar vie giurisprudenziali diverse da quelle del Consiglio di
Stato. Nonostante questo però i Tar hanno fornito un contributo di innovazione rispetto alla tradizionale
giurisprudenza amministrativa.

La legge del 1971 ha provato a dettare una disciplina processuale che potesse fornire una guida per i nuovi
organi giudicanti.
- Innovazioni effettive riguardano la giurisdizione:
sono state attribuite ai G.A. le controversie in materia di operazioni elettorali relative alle elezioni
amministrative, estesa la giurisdizione esclusiva ai ricorsi relativi ai rapporti di concessione di beni e
di servizi pubblici.
- In sede giurisdizione esclusiva, nella materia relativa ai diritti, il G.A. può condannare
l'amministrazione al pagamento di somme di cui risulta di debitrice.
- L'appello è stato disegnato secondo lo schema del gravame e non secondo quello di impugnazione
in senso stretto. Il giudice d'appello ha la stessa cognizione del primo giudice: il gravame infatti
impugnazione illimitata con effetto devolutivo.
- Si è stabilita l’impugnabilità dei provvedimenti non definitivi, consentendo l'esercizio dell'azione
giurisdizionale a prescindere dalla previa impugnazione dei provvedimenti con ricorso
amministrativo (ordinario) e dalla conclusione del relativo procedimento.

Nonostante le grandi innovazioni però la legge del 1971 non ha dato luogo ad una riconsiderazione globale
e sistematica dei mezzi di tutela, né ha introdotto una disciplina processuale esauriente.

VERSO IL SISTEMA ATTUALE


L’opera della giurisprudenza
Il Consiglio di Stato, nel periodo in cui è stato giudice unico (1890-1974), ha esercitato la sua giurisprudenza
per chiarire ed integrare la lacunosa disciplina processuale.
L’entrata in scena dei TAR ha sollecitato una grande ripresa di tale giurisprudenza, essendo il Consiglio di
Stato unico giudice con funzione di nomofilachia.
- Si è allargata la legittimazione ad agire e il riconoscimento dell’impugnabilità di taluni atti,
inizialmente ritenuti non impugnabili, ed è stato ritenuto che il giudice amministrativo possa
disapplicare i regolamenti.
- Grande evoluzione si è avuta in tema di processo cautelare: si è affermato il carattere decisionale
delle ordinanze sospensive e se ne è consentito l'appello; è stato individuato un metodo per
garantire che tali ordinanze fossero effettivamente eseguite dall'amministrazione; è stata estesa la
tutela cautelare contro i provvedimenti negativi; è stato affermato che i diritti soggettivi, anche se
relativi e di natura patrimoniale, possono ottenere piena ed effettiva tutela giurisdizionale, anche
d'urgenza, da parte dei G.A.
- È stata inoltre riscritta la disciplina del processo di ottemperanza, sottolineando il suo carattere
giurisdizionale, la struttura contenziosa, la natura cognitoria e la funzione non semplicemente
esecutiva. Prima è stata negata, poi affermata, la necessità che la sentenza da ottemperare fosse

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passata in giudicato, e dopo primo atteggiamento negativo è stata riconosciuta l'appellabilità delle
sentenze di ottemperanza.
- Per il silenzio invece la giurisprudenza ha continuato ad oscillare tra la sua individuazione come
oggetto del giudizio e la sua considerazione come semplice presupposto processuale.
- L'azione risarcitoria invece, introdotta con una sentenza delle SSUU della cassazione nel 1999, è
stata poi espressamente prevista per legge, ritenendo che fosse ammissibile solo se
tempestivamente impugnato il provvedimento illegittimo e lesivo.
- È stato poi chiarito che in appello è ammissibile l'integrazione del contraddittorio, che la rinuncia
ricorso estingue processo solo a seguito della presa d'atto da parte del giudice e che l'eccezione di
prescrizione di crediti nei confronti dell'amministrazione può essere sollevata solo nel primo grado
di giudizio.
- Sono stati chiariti alcuni aspetti processuali del regolamento di competenza.
La giurisprudenza non ha fatto altro cioè che precisare da disciplina processuale, puntando verso l'obiettivo
dell'effettività della tutela giurisdizionale.

Sul piano legislativo dal 1971 alla fine degli anni ‘90 si sono avuti solo interventi episodici, anche se la
dottrina ha più volte richiesto una riforma complessiva. Gli interventi legislativi hanno riguardato:
a) Allargamento della giurisdizione esclusiva: edilizia, accordi amministrativi, tutela della
concorrenza, provvedimenti dell’Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, procedure di
affidamenti di lavori, servizi, forniture pubbliche… (art. 133 CPA).
In tal modo si è ampliato il riparto della giurisdizione e di conseguenza il criterio fondato sulle
materie anziché sulle situazioni giuridiche soggettive.
Nel 1998 sono state devolute al G.O. tutte le controversie relative al rapporto di lavoro con gli enti
pubblici, mentre le materie dei servizi pubblici, edilizia ed urbanistica sono state devolute alla
giurisdizione esclusiva del G.A.
b) Ricerca, per le controversie delicate, forme processuali semplificate o riti accelerati.
Il legislatore si è anche preoccupato di stringere i tempi processuali, ampliando il campo di azione
dei riti accelerati. Inizialmente per le controversie relative ai lavori pubblici, forme speciali o termini
abbreviati sono stati poi applicati per il contenzioso elettorale, per le controversie in materia di
sciopero nei servizi pubblici essenziali, per i provvedimenti di espulsione degli stranieri, per il diritto
di accesso agli atti amministrativi, in tema di parità di accesso ai mezzi di informazione durante le
campagne elettorali, nei confronti del silenzio dell'amministrazione…

La legge n. 205/2000
L’intervento legislativo più recente e importante è dato dalla l. 205/2000, risultato di un'elaborazione
parlamentare incompleta a causa della fretta determinata dalla sentenza della Corte Cost. 292/2000, che
ha dichiarato illegittimo per eccesso di delega l'art. 33 del d.lgs. 80/1998.
Per il processo sono state dettate delle norme di razionalizzazione:
- norma che prescrive di raccogliere insieme, attraverso il mezzo dei motivi aggiunti, le controversie
tra le stesse parti, relative a tutti i provvedimenti connessi con quello impugnato con il ricorso
introduttivo del processo.
- introdotto un rapido processo avverso il silenzio, per quanto riguarda i riti speciali
- introdotte più discipline processuali speciali, caratterizzate dalla riduzione della durata del
processo.
- in materia di giurisdizione esclusiva sono stati allargati i poteri istruttori e decisori del giudice e si è
reso uniforme un modello processuale prima assai variegato.
- Sono stati integrati anche i poteri del G.A., che ora in sede di legittimità e in sede di giurisdizione
esclusiva, può conoscere anche dell'azione risarcitoria.
Nonostante le critiche, con la L.25/2000 il processo amministrativo ha acquisito maggiore elasticità e
incisività.

Negli ultimi tempi si è riavviato il dibattito sul principio dell’unitarietà della giurisdizione e sull’architettura
stessa della magistratura e dei corpi che la compongono.

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IL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
Come emerge dall’excursus storico, il problema della tutela del cittadino in caso di controversie insorte con
la PA ha risentito, in particolare sul piano delle garanzie processuali, della frammentarietà della disciplina
applicabile nonché dell’evoluzione del rapporto PA – cittadino, che da autoritativo è divenuto collaborativo
e paritario.
Si è pertanto denunciata la mancanza di una riscrittura organica della disciplina vigente, improntata ai
principi della pienezza e della rapidità della tutela, della concentrazione processuale e dell’immediatezza. Di
questa esigenza è stato consapevole il legislatore, che ha introdotto nella l. 69/2009 una delega al Governo
per il riassetto della disciplina del processo amministrativo.

Tra i principi e criteri direttivi: disciplinare le azioni e le funzioni del giudice


1) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del G.A. anche rispetto alle altre giurisdizioni;
2) riordinando i casi di giurisdizione estesa al merito;
3) disciplinando e riducendo i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia
di provvedimenti del giudice;
4) prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della
parte vittoriosa.

Il Governo, per attuare la delega, si è avvalso del Consiglio di Stato, presso il quale è stata costituita una
commissione (consiglieri di stato, magistrati Tar, esperti, avvocati…).
La delega è stata attuata con d.lgs. 104/2010 recante l’approvazione del CODICE DEL PROCESSO
AMMINISTRATIVO, che per primo reca una disciplina organica del processo amministrativo.
Tra le principali linee di fondo che caratterizzano il CPA, si segnalano:
a) la puntuale definizione della giurisdizione del G.A., a cui sono devolute tutte le controversie aventi ad oggetto
interessi legittimi, e nelle materie indicate dalle leggi, diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato
esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili
anche mediatamente all’esercizio di tale potere e posti in essere da pubbliche amministrazioni;
b) la specificazione delle azioni esperibili innanzi al G.A., che segue il sistema delle tradizionali azioni di
cognizione (costitutive, di accertamento, di condanna);
c) la compiuta disciplina dell’azione risarcitoria, quale manifestazione dell’azione di condanna, esperibile contro
la PA per danni da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa (quindi a tutela di interessi legittimi),
nonché, nei casi di giurisdizione esclusiva, per danni da lesione di diritti soggettivi;
d) l’allineamento agli strumenti del processo civile del bagaglio di mezzi di prova utilizzabili nel processo
amministrativo;
e) l’allineamento dei mezzi di impugnazione a quelli previsti dal c.p.c. Viene anche prevista una disciplina
positiva del rimedio dell’opposizione di terzo nel processo amministrativo, a tutela sia di diritti soggettivi che
di interessi legittimi;
f) l’introduzione di un’articolata e armonica disciplina relativa al procedimento cautelare, per la prima volta
completa;
g) il definitivo acclaramento della natura giurisdizionale del Consiglio di Stato, quale organo di ultimo grado
della giurisdizione amministrativa.

Fin dalle sue prime applicazioni la giurisprudenza amministrativa, con la dottrina, ha evidenziato alcune
criticità delle nuove disposizioni e messo in evidenza alcune incongruenze presenti nello stesso testo.
Così, sulla scorta di quanto previsto dalla legge delega che individuava come termine massimo per
correggere il CPA due anni dall’entrata in vigore, il Governo ha incaricato la speciale Commissione istituita
presso il Consiglio di Stato di predisporre i necessari elaborati.
- Primo decreto correttivo – d.lgs. 195/2011: modifiche sostanziali al giudizio di ottemperanza,
elenco materie cui si applica il giudizio abbreviato, elenco delle materie di giurisdizione esclusiva,
materie riservate alla competenza funzionale del TAR Lazio sede di Roma.
- Secondo decreto correttivo – d.lgs. 160/2012: rivista la disciplina della competenza, precisata la
disciplina dell’azione di condanna al rilascio di provvedimenti.

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IL GIUDICE AMMINISTRATIVO

IL CONSIGLIO DI STATO
= organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione (art. 100. 1)
- assoluta indipendenza dell’organo e dei suoi componenti di fronte al Governo, pur essendo un
organo ausiliario di esso.
- Compiti di consulenza preventiva in materia di attività normativa del Governo e delle
amministrazioni statali che ne facciano richiesta.
- Funzioni giurisdizionali sono esercitate, tradizionalmente, da tre Sezioni: IV (1889), V (1907), VI
(1948). Numero dei consiglieri assegnati non può essere inferiore a 12.

Organo complesso, composto da organi permanenti (Presidente, Sezioni, Adunanza generale, Adunanza
plenaria) e da organi temporanei o straordinari (commissioni speciali).
- PRESIDENTE:
nominato con decreto del Capo dello Stato, su proposta del presidente del Consiglio, previa
delibera del Consiglio dei Ministri, fra i magistrati amministrativi che abbiano esercitato per almeno
5 anni funzioni direttive.
Compiti di natura istituzionale: potere di convocazione e presidenza delle riunioni dell’Adunanza
Plenaria e Generale, stabilire la composizione delle Sezioni consultive e giurisdizionali e assegnare i
ricorsi/pareri alle singole Sezioni, presiede Consiglio di presidenza e nomina l’ufficio elettorale per
la scelta degli altri componenti del Consiglio.
Compiti di natura amministrativa: adotta tutti i provvedimenti relativi ai magistrati e ai funzionari
delle segreterie, ha uno specifico potere di proposta in tali materie al Presidente del consiglio e,
tramite questo, al Capo dello Stato. Esercita il potere di vigilanza su tutti gli uffici e sui magistrati ed
è titolare dell’azione disciplinare.
È coadiuvato, nell’esercizio delle sue funzioni, da un segretario generale, scelto tra i consiglieri di
Stato (incarico quinquennale, decreto Presidente del Consiglio, su proposta del Presidente del
Consiglio di Stato, sentito il Consiglio di Presidenza).

- ADUNANZA GENERALE:
= organo collegiale con funzioni unicamente consultive. È composto dal presidente del Consiglio di
Stato e da tutti i consiglieri in servizio.
Ha competenza in materia di pareri sui progetti di legge, t.u., regolamenti, e per le questioni sulle
quali il Presidente, le singole Sezioni ritengano necessaria una pronuncia. È prevista infatti la
possibilità della singola Sezione di richiedere l’intervento dell’Adunanza Generale qualora il punto
di diritto oggetto del parere da emanare dia luogo a contrasti giurisprudenziali.

- ADUNANZA PLENARIA:
= funzioni esclusivamente giurisdizionali. Composta dal presidente del Consiglio di Stato e da 12
magistrati assegnati alle sezioni giurisdizionali.
Possibilità, su richiesta delle parti o d’ufficio, di investire AP ad opera della Sezione che ritenga
necessaria una pronuncia su un punto di diritto che dà luogo a contrasti giurisprudenziali;
deferimento del Presidente per questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere
contrasti giurisprudenziali (art. 99 CPA).
A queste due ipotesi (già previste dal t.u. 1924) è stata aggiunta la possibilità della sezione di
rimettere la decisione laddove ritenga di non condividere un principio di diritto enunciato dall’AP.
L’AP può infine, laddove la questione sia di particolare importanza, enunciare il principio di diritto
nell’interesse della legge anche quando il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero
l’estinzione del giudizio (pronuncia non ha effetto sulla sentenza impugnata).

CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA:


- istituito con d.lgs. 654/1948 al fine di soddisfare e completare le esigenze di autonomia
riconosciute a tale Regione dallo statuto speciale (approvato con l. cost. 2/1948).
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- Ha funzioni di giudice d’appello avverso le pronunce di primo grado del TAR Sicilia, nonché funzioni
di natura consultiva quale organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo regionale.
- Ha sede a Palermo, il Presidente è designato dal Presidente del Consiglio di Stato tra i Presidenti di
Sezione. La composizione della sezione giurisdizionale e di quella consultiva è disciplinata dal d.lgs.
373/03.

I TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI E LA LORO COMPOSIZIONE


Nel 1971 con l. 1034 è stata data completa attuazione all’art. 125 Cost.: in ogni capoluogo di Regione è
stato istituito un TAR articolato in un’unica Sezione, il cui funzionamento interno e il reclutamentodel
personale sono disciplinati dal regolamento di esecuzione (d.p.r. 214/1973).
L’art. 5 CPA dispone ora che sono organi di giurisdizione amministrativa di primo grado i TAR e il Tribunale
di giustizia amministrativa per la Regione autonoma del Trentino Alto Adige (diversa disciplina per
composizione e nomina magistrati).

- Composizione: Presidente, consiglieri (nominati a tempo indeterminato all’esito di un concorso),


primi referendari, referendari.
- Il collegio giudicante esercita le proprie funzioni con la presenza del presidente e di due magistrati.
In mancanza del presidente, il collegio è presieduto dal magistrato con maggiore anzianità (art. 5
comma 2).
- Spetta al Presidente dirigere i lavori della prima Sezione laddove il Tribunale si articoli in più
Sezioni, predisporre il calendario delle udienze e la ripartizione delle cause, nonché stabilire la
composizione dei collegi giudicanti sulla base dei criteri individuati dal Consiglio di Presidenza.

Un rilievo particolare merita la Regione Trentino Alto Adige, nella quale esercitano le funzioni di organo di
giustizia amministrativa di primo grado il Tribunale regionale di Giustizia Amministrativa (TRGA):
- istituito e disciplinato dallo statuto speciale e dal d.p.r. 426/1984
- è contemplata una Sezione con ordinamento speciale, con sede a Bolzano, che può considerarsi un
vero e proprio Tribunale autonomo, al punto che i relativi conflitti di competenza con il TRGA si
Trento vengono risolti dal Consiglio di Stato.
Criteri in grado di garantire la compresenza di giudici di lingua italiana e tedesca. Gli 8 magistrati
sono nominati con decreto del PdR per una metà su proposta del PdC, sentito il parere del Consiglio
di Presidenza della giustizia amministrativa e, limitatamente al gruppo linguistico tedesco, con il
consenso del Consiglio provinciale di Bolzano; per l’altra metà vengono proposti dal Consiglio
provinciale.

I MAGISTRATI AMMINISTRATIVI E LA LORO ORGANIZZAZIONE


Con l.186/1982 il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre una disciplina organica dell’ordinamento e
della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei TAR:
- modalità di reclutamento distinte dei giudici dei TAR rispetto a quelli del Consiglio di Stato.
→ Nomina a giudice TAR: accesso a qualifica di “referendario” (primo livello della carriera di
magistrato amministrativo) è subordinato al superamento di un pubblico concorso, la cui
partecipazione è riservata a soggetti appartenenti a categorie determinate. Dopo 4 anni di anzianità
nella qualifica è possibile conseguire la nomina a primo referendario. Con ulteriori 4 anni di
anzianità si consegue la nomina a consigliere TAR, secondo la stessa procedura.
→ Nomina a consigliere di Stato: ai sensi della l. 1982, i posti vacanti venivano ricoperti secondo
questo criterio:
a) Per metà: riservati a consiglieri di TAR con 4 anni di anzianità nella qualifica, che ne facciano
domanda;
b) Per un quarto: nominati dal Governo tra prof. ordinari di materie giuridiche, avvocati abilitati
alle magistrature superiori, con 15 anni di anzianità di esercizio di attività professionale, ovvero
tra dirigenti generali, nonché tra magistrati con qualifica non inferiore a magistrato di Corte
d’appello;

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c) Per un quarto: da candidati che superano un concorso per titoli ed esami, avvocati dello stato,
funzionari della carriera direttiva dello Stato in possesso di alcuni requisiti.

- Garanzia di inamovibilità:
funzioni assegnate possono venire meno solo in presenza di una specifica deliberazione del
Consiglio di Presidenza la quale, necessariamente, deve acquisire il consenso dell’interessato.

Con L. 205/2000 sono state apportate alcune modifiche alla composizione dell’organo di autogoverno e
delle competenze ad esso attribuite.
Attualmente l’autogoverno dei giudici amministrativi è affidato a un unico organismo denominato Consiglio
di Presidenza:
- composto da 11 magistrati amministrativi di cui uno di diritto (Presidente del Consiglio di Stato) e
10 elettivi. Tra questi, 4 sono di estrazione parlamentare (2 eletti dal Senato, 2 dalla Camera) tra i
prof. ordinari di università in materie giuridiche o avvocati con iscrizione all’albo da oltre 20 anni. I
membri elettivi durano in carica 4 anni e non solo immediatamente rieleggibili.
- Competenze: adozione provvedimenti in materia di assunzione, assegnazione di sede e funzioni;
determinazione delle piante organiche del personale dei TAR e eventuale divisione di questi in
Sezioni, individuazione dei criteri per la distribuzione dei carichi di lavoro, emanazione parere
obbligatorio per la nomina del segretario generale e dei segretari delegati.
Questi ultimi formano l’ Ufficio del segretariato generale del Consiglio di Presidenza che la legge
individua nel segretario generale del Consiglio di Stato, al quale è demandato il compito di
coadiuvare il presidente.

GLI ALTRI GIUDICI DELLE CONTROVERSIE CON L’AMMINISTRAZIONE


IL GIUDICE ORDINARIO
La giurisdizione del G.O. in relazione agli atti amministrativi è disciplinata dalla L. 2248/1865 allegato E (cd.
legge abolitrice del contenzioso amministrativo).
Art. 2: Sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle
quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la PA, e ancorché
siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa.
Tale norma si deve considerare attualmente in vigore, nella parte in cui non è stata abrogata, per
incompatibilità, dalle successive leggi che hanno istituito la giurisdizione del G.A.

Rientrano nella giurisdizione del G.O.:


a) le cause per contravvenzioni, ovvero tutte le violazioni della legge penale;
b) tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico: la cognizione del G.O. si
estende a tutti i diritti soggettivi siano essi pubblici o privati (fanno eccezione le materie attribuite
alla giurisdizione esclusiva dei TAR);
c) comunque vi possa essere interessata la PA: il G.O. è competente non solo nell’ipotesi in cui la PA
sia parte attrice, ma anche quando essa è convenuta;
d) ancorché siano stati emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa:
la giurisdizione del G.O. non è preclusa dal fatto che la PA abbia emanato un atto di autorità.

In deroga all’art. 2 della l. 2248/1865, all. E, sono previsti alcuni casi in cui la cognizione è attribuita ad altri giudici,
ancorché la controversia verta in materia di diritti soggettivi:
a) casi di materie attribuite aslla giurisdizione di giudici speciali, cioè la giurisdizione della Corte dei Conti in
materia di pensioni e delle Commissioni tributarie;
b) casi di giurisdizione esclusiva del G.A.;
c) casi di arbitrati: nei contratti conclusi dalla PA possono essere inserite clausole in base alle quali la soluzione
delle relative controversie è rimessa a collegi arbitrali, in deroga alla competenza del GO.

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Il G.O. può conoscere di tutti i comportamenti della PA lesivi di diritti soggettivi, sia dei meri
comportamenti, che degli atti compiuti in esecuzione di provvedimenti amministrativi. In particolare:
- può conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio e il suo sindacato è
limitato alla sola valutazione, in via incidentale, di legittimità (non di merito) dell’atto;
- non può incidere sull’atto amministrativo, anche se illegittimo: non può quindi annullarlo,
revocarlo, modificarlo;
- può solo dichiarare l’illegittimità dell’atto, quindi disapplicarlo: cioè non tenerne conto ai fini della
singola decisione, senza efficacia esterna di giudicato.

Limite specifico: l’accertamento dell’atto amministrativo da parte del G.O. è limitato dalla rilevanza che
esso riveste per il giudizio in corso. Il G.O., quindi, può conoscere degli effetti dell’atto solo in funzione della
pronuncia che sarà tenuto ad emettere sugli effetti dell’atto stesso, e non anche con efficacia erga omnes.
Inoltre, il sindacato del G.O. è di sola legittimità e non potrà in nessun caso estendersi al merito dell’atto
stesso.

Da parte sua, lo stesso legislatore è venuto individuando una serie di casi in cui i limiti contenuti nella l. del
1865 non trovano applicazione, dando luogo a una giurisdizione piena del giudice ordinario, il quale si trova
nella condizione di annullare, sospendere o riformare l’atto amministrativo nell’ambito di un sindacato che
si estende al di là dell’esclusiva tutela del diritto soggettivo.
- opposizione a sanzioni amministrative;
- accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori;
- provvedimenti di espulsione;
- ricorso per la tutela giurisdizionale dei dati personali da presentarsi al Tribunale civile da parte
dell’interessato avverso i provvedimenti dell’Autorità garante per la riservatezza dei dati personali;
- determinazioni emanate in materia di obiezione di coscienza.
- trascrizione del matrimonio;
- rettifica di certificati di stato civile;
- poteri in materia di tutela dei minori;
- poteri in materia di atti giudiziali per il rilascio di copie;
- cancellazione di ipoteca;
- retrocessione dei beni espropriati; …

Il potere di disapplicazione degli atti amministrativi da parte del G.O. è stato introdotto in ossequio al
principio di separazione dei poteri.
a) Ambito di operatività: il problema fondamentale è stabilire se il potere di disapplicazione riguardi la
sola ipotesi di cognizione incidentale su atti illegittimi, oppure assieme a questa anche quella di
cognizione diretta.
b) Oggetto: secondo la dottrina prevalente il G.O. è legittimato a esercitare un controllo sugli atti
amministrativi esteso a qualsiasi vizio di legittimità, ivi compreso l’eccesso di potere in tutte le sue
figure sintomatiche, rimanendone invece esclusa la cd. invalidità per vizi di merito.
c) Officiosità del potere di disapplicazione: il potere di disapplicazione incidentale può essere
esercitato d’ufficio dal giudice e, pertanto, non è precluso né dalla mancanza di apposita istanza di
parte, né dall’eventuale inoppugnabilità dell’atto. La disapplicazione dell’atto conosciuto
principaliter è invece assoggettata all’iniziativa di parte e non pone problemi di elusione di termini
decadenziali, poiché concerne atti lesivi di diritti soggettivi.
d) Rapporti con il giudice amministrativo: la disapplicazione dell’atto amministrativo è inibita laddove
la legittimità dell’atto sia stata acclarata dal G.A. con sentenza resa in contraddittorio tra le parti e
dotata di efficacia di giudicato. Di qui l’impossibilità di far valere innanzi al G.O. i vizi dedotti e
deducibili innanzi al G.A.

Azioni ammissibili nei confronti della PA innanzi al G.O.


- Azioni costitutive: tendono a ottenere dal giudice una sentenza che, accertati determinati
elementi, costituisca, modifichi o estingua un determinato rapporto giuridico. La dottrina
tradizionale riteneva inopponibile davanti al G.O. qualsiasi domanda rivolta a ottenere una
sentenza costitutiva nei confronti della PA, in quanto ciò avrebbe comportato la sostituzione della
volontà del giudice a quella della PA. La dottrina e la giurisprudenza hanno, tuttavia, lentamente
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modificato tale opinione, per cui oggi ritengono ammissibili le azioni costitutive quando non
incidono sui poteri pubblici della PA.
- Azioni dichiarative: sono quelle dirette all’accertamento di uno stato di fatto o di diritto, sempre
consentite contro la PA.
- Azioni di condanna: sono quelle in seguito alle quali il giudice, accertato l’obbligo di una delle parti
o un suo comportamento antigiuridico produttivo di responsabilità, ordina alla stessa una
prestazione positiva, atta a ristabilire l’equilibrio giuridico violato (es. pagamento di una somma di
denaro a titolo di risarcimento, facere).
- Azioni risarcitorie: sono sempre ammissibili in quanto la PA può sempre essere condannata al
pagamento di una somma di denaro, tanto se tale pagamento risulti dovuto in forza di
un’obbligazione contratta dalla PA nella sua veste di soggetto privato, quanto se esso costituisca,
invece, il risarcimento del danno derivante dalla lesione di un diritto soggettivo del privato
cagionato dalla PA nell’esercizio di una potestà pubblica.
- Azioni reintegratorie: poiché implicano un facere specifico non avente carattere pecuniario in capo
alla PA, devono ritenersi ammissibili solo qualora questa abbia agito o detenuto qualcosa sine
titulo, eccedendo il titolo o sulla base di un titolo inefficace. Sono invece inammissibili quelle
sentenze in cui il facere o la consegna di un bene determinato da parte della PA richiedano
l’emanazione di un provvedimento amministrativo (in quanto il G.O. si sostituirebbe alla PA
nell’emanazione dell’atto), ovvero quando il bene sia stato destinato a pubblica utilità (perché
verrebbe ad annullare il provvedimento di destinazione del bene).
Questo divieto non opera in caso di lesione dei diritti fondamentali (es. diritto alla salute)
dell’individuo – insuscettibili di affievolimento nella loro essenza – nel qual caso il G.O. può
condannare la PA a un facere specifico.
Una normativa speciale è dettata in deroga a questo divieto dall’art. 28 Statuto dei lavoratori che
consente al G.O. di ordinare, su istanza delle associazioni sindacali, la cessazione del
comportamento illegittimo (antisindacale), e la rimozione degli effetti.
- Azioni possessorie: la giurisprudenza ne ha ammesso l’esperibilità a fronte di tutte le attività poste
in essere iure privatorum, sine titulo e senza potere.

- Si è discusso sulla possibilità o meno di ammettere le azioni cautelari in grado di sospendere


l’efficacia delle determinazioni amministrative: esse sono consentite nei soli casi in cui non ci si
trovi di fronte a un provvedimento amministrativo, mentre i poteri decisori del G.O. vengono
limitati alla semplice condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni causati al
destinatario dell’atto.
Negli ultimi anni la Cassazione ha cominciato ad individuare delle eccezioni a questa regola, con
riferimento alle fattispecie riconducibili alla tutela di diritti ritenuti indegradabili in quanto
riconducibili ai diritti fondamentali, a garanzia dei quali è consentita la proposizione di azioni
cautelari, strumentali alla salvaguardia del diritto fatto valere in giudizio.

Parzialmente diverso è il caso della materia del pubblico impiego, attribuita alla giurisdizione ordinaria dal
d.lgs. 29/1993 e successive modificazioni (prima era riservato alla giurisdizione esclusiva del G.A.).
- Al G.O. sono state devolute, dal 30 giugno 1998, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro,
incluse quelle relative all’assunzione, alle indennità di fine rapporto, al conferimento e la revoca
degli incarichi dirigenziali e alla responsabilità dirigenziale. Sono devolute al G.O. anche le
controversie relative a comportamenti antisindacali delle PA e quelle promosse da organizzazioni
sindacali, dall’ARAN e dalle PA relative alle procedure di contrattazione collettiva.
- Restano devolute le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei
dipendenti delle PA, nonché quelle relative ai dipendenti esclusi dalla privatizzazione, ivi comprese
quelle attinenti a diritti patrimoniali connessi, in sede di giurisdizione esclusiva.

 giudice ha il potere di adottare nei confronti delle p.a. tutti i provvedimenti di accertamento,
costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati;

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 gli atti amministrativi presupposti possono essere disapplicati e l’eventuale impugnazione in sede
giurisdizionale amministrativa non determina la sospensione del processo davanti al G.O.

Per l’esecuzione delle sentenze del G.O. può esperirsi il giudizio di ottemperanza, secondo quanto previsto
dalle disposizioni contenute nel libro IV del Codice.

In ordine alla possibilità di portare ad esecuzione giudizialmente le sentenze di condanna ottenute nei
confronti della PA, occorre ricordare che l’esecuzione forzata, ove ammissibile, può esercitarsi sia nella
forma dell’espropriazione, sia nelle forme specifiche regolate dagli artt. 2930-2933 c.c.
- Beni: la dottrina ritiene che l’esecuzione forzata può aver luogo solo su beni patrimoniali disponibili,
non su beni patrimoniali indisponibili e su quelli demaniali.
- Denaro: la giurisprudenza riteneva pignorabili solo i crediti originati da rapporti di diritto civile e
non quelli originati da titoli di diritto pubblico, perché vincolati a finalità pubbliche.
- Per quanto riguarda l’esecuzione forzata in forma specifica, è ritenuta ammissibile tranne quando
risulti eccessivamente onerosa per il debitore o la distruzione della cosa sia di pregiudizio per
l’economia nazionale.

IL GIUDICE CONTABILE:
Si tratta della Corte dei Conti, che ha funzione giurisdizionale nelle materie di contabilità pubblica e nelle
altre specificate dalla legge (art. 103 Cost.).
Rientrano nella giurisdizione cont
abile: i giudizi di responsabilità amministrativa e contabile dei pubblici funzionari, il contenzioso
pensionistico, i giudizi di conto, i giudizi a istanza di parte in materia contabile.
- Ha giurisdizione piena, non sottoposta ad alcun limite circa l’accertamento di atti, fatti e
comportamenti.
- Esercita un sindacato esclusivo (sia per diritti soggettivi che interessi legittimi) e sindacatorio (può
estendere il processo anche ad altri soggetti non chiamati a parteciparvi, a prescindere dall’atto di
iniziativa del procuratore generale/regionale o delle parti).

Organizzazione: È organizzata in sezioni regionali (a seguito del decentramento della giurisdizione


contabile) e presso ognuna opera un procuratore regionale con funzione di PM, mentre a livello centrale
tale funzione è svolta dal procuratore generale.
Alle Sezioni Riunite giurisdizionali, composte da tutti i magistrati appartenenti alle varie Sezioni e
presiedute dal Presidente della Corte dei conti, è demandato il compito di dirimere i conflitti di
competenza, ovvero le questioni di massima ad es. deferite dalle Sezioni giurisdizionali regionali, centrali o
su iniziativa del procuratore generale.
Il Collegio delle Sezioni regionali è composto da 3 magistrati, mentre quelle centrali giudicano con la
presenza di 5 magistrati (fatta eccezione per le Sezioni giurisdizionali che ne prevedono 7).

Il GIUDIZIO DI RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA ha inizio con l’esercizio della relativa azione da parte
del procuratore regionale, il quale ha ampi poteri in materia istruttoria.
Se l’istruttoria si conclude con l’atto di citazione, il procuratore deve invitare il presunto responsabile a
dedurre entro il termine di 30 giorni. Entro 120 giorni dalla scadenza del termine per le deduzioni deve
essere depositata la citazione, a pena di nullità. Essa dovrà essere notificata agli interessati unitamente al
decreto presidenziale di fissazione dell’udienza.
Al Collegio spettano gli stessi poteri istruttori attribuiti al procuratore generale e il giudizio si conclude con
un’udienza pubblica in cui le parti svolgono le proprie tesi difensive. Il giudizio si conclude con una sentenza
di condanna o assoluzione del responsabile.
L’esecuzione della sentenza ha luogo tramite la stessa amministrazione beneficiaria della somma liquidata
nella pronuncia che accerta la sussistenza del danno erariale.
L’obbligo degli agenti contabili di presentare il conto giudiziale è il presupposto che giustifica l’attivazione
del cd. giudizio di conto. Si tratta di un giudizio necessario che si instaura a prescindere dall’esistenza
concreta di una controversia.

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La regolarità del conto giudiziale è dichiarata con decreto presidenziale di discarico del contabile. Si tratta di
una fase amministrativa, in assenza di contraddittorio, non riconducibile al procedimenti giurisdizionali.
Nell’ipotesi di richiesta di condanna del procuratore, invece, ha inizio al vera e propria fase contenziosa.
Tale giudizio termina con una decisione che, se sfavorevole, determina la condanna del responsabile delle
violazioni accertate. Avverso questa pronuncia l’agente può presentare ricorso entro 30 giorni presso la
segreteria della Sezione che ha emanato la decisione.
Decorsi 5 anni dal deposito del conto senza che siano stati formulati rilievi da parte dell’amministrazione o
degli organi di controllo, il giudizio si estingue.

Rientra, poi, nella giurisdizione del giudice contabile il cd. GIUDIZIO PENSIONISTICO, avente ad oggetto le
controversie sulle pensioni civili e militari degli iscritti alle casse di previdenza, nonché quelle realtive alle
pensioni di guerra. Si tratta di un giudizio finalizzato all’accertamento del diritto patrimoniale alla pensione
fatto valere dal ricorrente.
La causa è decisa da un giudice monocratico, in funzione di giudice unico, appartenente alla Sezione
giurisdizionale regionale competente per territorio, il quale dispone di tutti i poteri istruttori riconosciuti al
giudice del lavoro.
Al termine dell’udienza di discussione il giudice monocratico definisce il giudizio con sentenza esecutiva.

Formano la categoria dei giudizi ad istanza di parte i contenziosi azionati da privati per la tutela di diritti
patrimoniali nei confronti delle amministrazioni, quali i ricorsi per contestazioni tra contabili, per il rimborso
di quote inesigibili…

Avverso le sentenze della Sezione regionale giurisdizionale è ammesso appello alle Sezioni giurisdizionali
centrali, o a quella di appello per la Regione siciliana, entro 60 giorni dalla notifica.
- giudizio devolutivo caratterizzato dal divieto di ius novorum.
- La proposizione dell’appello sospende automaticamente l’esecutività della sentenza di primo grado
- All’esito della discussione viene emessa una sentenza, seguendo le stesse modalità del giudizio di
primo grado. Tali decisioni sono impugnabili davanti alle SSUU Cassazione, esclusivamente per
motivi di giurisdizione; nonché mediante ricorso per revocazione da proporsi nei confronti dello
stesso giudice che ha emanato la sentenza.

Funzioni di controllo, in sede giurisdizionale, dei conti periodicamente resi da coloro che gestiscono denaro o beni pubblici, per
verificare che i movimenti in entrata ed uscita siano conformi alla legge ed alle regole contabili, accertando il credito dell'erario per
gli eventuali ammanchi. La corte dei conti ha inoltre il potere di accertare, sempre in sede giurisdizionale, i danni cagionati allo
stato o altro ente pubblico dai suoi agenti e condannare i responsabili al risarcimento.
Funzione tipica delle corti dei conti è anche la verifica del bilancio consuntivo dello stato o di altri enti pubblici, allo scopo di
accertare il rispetto delle regole contabili e l'attendibilità del bilancio stesso, trasmettendo in esito a tale controllo una relazione al
parlamento.
La corte dei conti può, inoltre, avere funzioni amministrative di controllo, di tipo preventivo o successivo. Il controllo preventivo si
esercita sui singoli atti che danno luogo a spese o entrate, impedendone l'efficacia in caso di illegittimità. Il controllo successivo
tende, invece, ad essere incentrato, più che sui singoli atti, sulla complessiva attività dell'organo controllato e si traduce in relazioni
al parlamento, al governo o allo stesso organo controllato.
Questo tipo di controllo tende ora ad essere esteso dalla sola legalità all'efficienza o, addirittura, all'efficacia dell'attività
amministrativa.
Quanto ai soggetti controllati, oltre alle amministrazioni pubbliche la competenza della corte dei conti può estendersi alle imprese
pubbliche e ad altri enti, anche di diritto privato, che utilizzano fondi pubblici.

IL GIUDICE TRIBUTARIO
Ha la funzione di risolvere le controversie tra cittadini e amministrazione finanziaria o altri enti impositori.
Tale scelta si spiega con l’esigenza di non aumentare il carico di lavoro dei giudici ordinari e amministrativi,
alla luce dell’ingente numero di ricorsi proposti annualmente dai contribuenti.
Il sistema attuale si articola in:
- Commissioni tributarie provinciali (organi di primo grado);
- Commissioni tributarie regionali (organi di secondo grado);
- Avverso le pronunce di queste ultime è ammesso ricorso in Cassazione.

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Ogni Commissione si articola in Sezioni, ognuna delle quali composta da un presidente, un vice presidente e
da almeno 4 giudici tributari.
Il procedimento giurisdizionale è regolato dal d.lgs. 546/1992. Entro 60 giorni dalla notifica della sentenza
di primo grado può proporsi appello alla Commissione tributaria regionale. In alcune ipotesi le pronunce
delle Commissioni tributarie regionali possono essere impugnate in Cassazione, a norma dell’art. 111 Cost.
In caso l’amministrazione non si adegui alla sentenza delle Commissioni tributarie passate in giudicato, è
esperibile il giudizio di ottemperanza.

IL GIUDICE DELLE ACQUE PUBBLICHE


Le controversie in materia di acque sono demandate alla cognizione dei tribunali delle acque. Nell’ambito di
questi ultimi si deve distinguere tra:
- Tribunali regionali delle acque pubbliche: istituiti presso otto Sezioni di Corte di appello. Ad essi
spetta la giurisdizione in materia di diritti soggettivi: utilizzazione delle acque, limiti dei corsi e dei
bacini, diritti relativi a utilizzazione di acque pubbliche, indennità e risarcimenti per occupazioni di
fondi e espropriazioni occorrenti per l’esecuzione o la manutenzione di opere, denunce di nuova
opera e di danno temuto…
- Avverso le sentenze dei Tribunali regionali può essere proposto appello al Tribunale superiore
delle acque, con sede a Roma. Esso ha natura mista: svolge funzione di G.O. quando si atteggia
quale organi di secondo grado, mentre nelle materie di sua competenza si atteggia da G.A.
È titolare, in unico grado, di una competenza generale di legittimità per i ricorsi volti a censurare i
provvedimenti emanati dall’amministrazione in materia di acque pubbliche. In questi casi provvede
ad emanare sentenze di annullamento (non di accertamento o condanna).
Gli è attribuita inoltre una competenza speciale di merito sui ricorsi avverso le contravvenzioni alle
norme di polizia demaniale… Ha competenza sia in grado di appello che in sede di legittimità per le
controversie relative ad acque pubbliche sotterranee…
Le regole del processo sono quelle che regolano il giudizio avanti il Consiglio di Stato.

L’appello avverso le sentenze dei Tribunali regionali delle acque è proponibile entro 30 giorni dalla notifica
della pronuncia, ovvero entro 6 mesi dal deposito della sentenza.
Nel caso di mancata esecuzione della sentenza, il relativo giudizio è di competenza del Consiglio di Stato
(nel caso di sentenza emessa dal Tribunale superiore quale giudice d’appello) o dello stesso Tribunale
superiore.
Contro le pronunce del Tribunale superiore è ammesso ricorso per revocazione, nonché ricorso alle SSUU
sia per violazione di legge che per difetto di motivazione.

I GIUDICI PARLAMENTARI
Retti dal principio dell’autodichia (per garantire l’autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali, per
quanto riguarda l’attività interna da essi svolta) e dalla regola della non sindacabilità, da parte della
giurisdizione ordinaria o amministrativa, degli atti emanati da tali organi.
Il nuovo regolamento prevede due organi interni, cui viene affidato il contenzioso:
- Consiglio di giurisdizione (competente delle controversie di primo grado);
- Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza (per l’appello).
Gli organi sono composti da deputati nominati dal presidente della Camera e il procedimento è simile a
quello previsto per il giudizio amministrativo.
Organi simili sono previsti presso il Senato della Repubblica.
È stata esclusa la ricorribilità in Cassazione contro le sentenze dei giudici parlamentari ex art. 111 Cost,
poiché trattandosi di giurisdizione domestica, sarebbe assente la terzietà del giudice, e non potrebbero tali
organi essere considerati giudici speciali, se non in senso formalistico.

L’ARBITRATO

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A partire dalla L. 205/2000 (ora trasfuso nell’art. 12 CPA) è utilizzabile anche nel settore della giustizia
amministrativa. Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del G.A. possono
essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto.
Problemi:
- Giudice competente a dirimere le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del lodo
arbitrale? Dovrebbe essere competenza della Corte d’Appello, ma così si rischierebbe di derogare
al riparto delle giurisdizioni, posto che la cognizione della controversia viene di fatto ad essere
spostata dal G.A. al G.O. (rischiando un contrasto con artt. 25 e 103 Cost.).
- D’altra parte permangono incertezze sul tipo di situazioni soggettive cui può essere applicato
l’arbitrato: es. risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi, in relazione al
quale la compromettibilità in arbitri risulterà strettamente connessa alla riconduzione o meno di
tale pretesa alla nozione di diritto soggettivo. …
Per questo è auspicabile un intervento del legislatore.

L’AMBITO DELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE
Il sistema della doppia giurisdizione (cd. “doppio binario”) del nostro sistema di giustizia amministrativa ha
posto sin dal momento della sua formazione (a partire dall’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato)
il problema di fissare il criterio sulla base de quale determinare il giudice competente.
Il punto controverso è sempre stato quello di capire se il riparto dovesse fondarsi su:
1) petitum: giudice competente viene individuato in ragione del tipo di pronuncia richiesta. Se si
chiede l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, il giudice competente è il G.A.; se si
chiede una sentenza di condanna della p.a. al risarcimento dei danni, il giudice competente è il G.O.
a) il diritto soggettivo leso può essere fatto valere come interesse legittimo attraverso la
richiesta di annullamento del provvedimento illegittimo;
b) il sistema di giustizia amministrativa è in grado di offrire una doppia tutela: è possibile
rivolgersi alternativamente al G.A. (per contestare le modalità di esercizio del potere) e al
G.O. (per far valere le conseguenze patrimoniali sfavorevoli derivanti dall’esercizio del
potere amministrativo).
2) causa petendi: si fonda sulla natura della posizione giuridica lesa – diritto soggettivo: G.O.;
interesse legittimo: G.A.
a) non vi può essere alcuna doppia tutela;
b) ogniqualvolta il giudice travalica le proprie attribuzioni si pone una questione attinente alla
giurisdizione.

Dal 1930, dopo un lungo conflitto giurisprudenziale, Consiglio di Stato e Cassazione adottarono il criterio
della causa petendi. Furono comunque necessari ulteriori criteri per individuare il riparto qualora una lite
tra p.a. e privato. Le principali strade percorse hanno fatto leva su:
a) teoria della degradazione dei diritti;
b) distinzione tra carenza di potere e scorretto esercizio del potere;
c) distinzione tra norme di relazione e norme di azione;
d) distinzione tra potere discrezionale e potere vincolato;
e) natura meramente dichiarativa di determinati atti amministrativi.

Teoria della degradazione dei diritti soggettivi in interessi legittimi:


I diritti soggettivi, se colpiti da un potere amministrativo, degradano in interessi legittimi, con
conseguente competenza del G.A. a conoscere della relativa controversia.
Ma come può un diritto soggettivo, se limitato o estinto, “trasformarsi” in un’altra situazione
giuridica soggettiva quale l’interesse? E quando si è comunque in presenza di poteri amministrativi,
ma il diritto soggettivo non è degradabile (es. perché protetto in Cost.)?
L’effetto di degradazione del diritto a interesse viene a mancare, a giudizio della giurisprudenza, in
una serie di ipotesi il cui tratto comune è costituito dal fatto che il diritto del privato è per sua

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natura non degradabile ad opera di provvedimenti della p.a. (es. diritto è sottratto ad ogni
apprezzamento della p.a., rango costituzionale del diritto…). Muovendo da questa premessa si è
venuta enucleando la categoria dei diritti cd. resistenti, in quanto costituzionalmente garantiti.

Nel 1949 a SSUU la Cassazione ha adottato il criterio di riparto basato sulla formula “carenza di potere –
scorretto uso del potere”.
- Si ha carenza di potere quando si contesta l’esistenza stessa del potere amministrativo →
Controversia riguarda il diritto soggettivo e la giurisdizione spetta al G.O.
- Si ha scorretto uso del potere quando si contesta il suo illegittimo esercizio → Controversia
riguarda l’interesse legittimo e la giurisdizione spetta al G.A.

Teoria che si fonda sulla distinzione tra norme di azione e norme di relazione:
- Norma d’azione: quando la relativa disciplina è volta a tutelare in via principale l’interesse
pubblico. Il privato è titolare di un interesse legittimo, controversia appartiene al G.A.
- Norma di relazione: quando la disciplina è volta a tutelare in via principale l’interesse del privato. Il
privato è titolare di un diritto soggettivo, controversia appartiene al G.O.
La dottrina maggioritaria è critica a questa teorizzazione, sostenendo che la distinzione sarebbe meramente
descrittiva, nulla dice sui connotati delle norme dell’una e dell’altra categoria e sul modo di riconoscerle.

Teoria si basa sulla differenza tra attività discrezionale e vincolata:


Nei confronti di un atto vincolato il privato può vantare un diritto soggettivo perfetto; nei confronti di un
atto discrezionale può vantare solo un interesse legittimo.
Precisazione: mentre è vera la seconda affermazione, non sempre lo è la prima, perché deve distinguersi a
seconda che l’attività sia vincolata da norme di relazione (cioè attributive di diritti soggettivi al privato)
ovvero da norme di azione (cioè norme che regolano l’azione amministrativa senza incidere su rapporti
intersoggettivi). In questa seconda ipotesi l’attività è vincolata, ma essendo tale non per tutelare in via
immediata e diretta una posizione soggettiva del privato, quest’ultimo non può vantare che un interesse
legittimo.

Qualificazione d alcuni atti amministrativi come atti dichiarativi o meramente ricognitivi:


- atti vincolati a carattere meramente dichiarativo: provvedimento di decadenza della concessione
edilizia per decorso del termine, di decadenza dall’autorizzazione al commercio dolo la scadenza
del relativo termine, atto di acquisizione al Comune dell’immobile abusivo…

LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE DEL PRIVATO


Le situazioni giuridiche soggettive (= situazioni sostanziali di interesse che sono tutelate dall’ordinamento
giuridico, anche nei confronti della p.a.), che il privato può vantare nei confronti della p.a., sono il diritto
soggettivo e l' interesse legittimo.

IL DIRITTO SOGGETTIVO:
Secondo i più recenti indirizzi dottrinali, il diritto soggettivo è una posizione giuridica soggettiva di
vantaggio che l’ordinamento giuridico conferisce a un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in
ordine a un bene, nonché la tutela degli interessi al bene stesso, in modo pieno e immediato.
In dottrina si è parlato di diritto soggettivo come agere licere, cioè una facoltà che il soggetto possiede di esplicare la
propria attività in una determinata situazione giuridica secondo i limiti che l’ordinamento delinea. In altri termini, nel
diritto soggettivo l’interesse sostanziale è direttamente tutelato dalla legge, nel senso che è quest’ultima a garantire il
conseguimento del bene della vita. L’intervento dell’autorità giudiziaria si ha solo nel caso in cui il terzo interferisca
nell’esercizio del pieno godimento del diritto, con funzione sanzionatoria di detto illecito comportamento.
è rimessa al G.O. e solo in casi tassativamente previsti (cd. giurisdizione
esclusiva) al G.A.

INTERESSE LEGITTIMO:

21
E’ una situazione giuridica soggettiva individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento
con la L. 5992/1889 istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, quale giudice di quegli interessi
sostanziali diversi dai diritti soggettivi che, fino ad allora, erano rimasti del tutto sforniti di tutela.
Di interesse legittimo si occupano tre norme della Cost.:
- art. 113 Cost.: contro gli atti della p.a. è sempre ammessa tutela giurisdizionale dei diritti e interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa
- art. 24 Cost.: tutti possono agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi
- art. 103 Cost.: il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela
nei confronti della p.a. degli interessi legittimi, e in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti
soggettivi

Le norme costituzionali non si occupano di fornirne una definizione. Tale espressione si deve alla dottrina,
la quale si è subito preoccupata di individuarne la portata, al fine di riconoscere agli interessi legittimi piena
autonomia dai diritti soggettivi.
→ Si è posta dunque la questione di definire le caratteristiche dell'interesse legittimo, di individuarne
l'oggetto e le forme e modi di protezione.
→ In secondo luogo, si è posta la questione di capire quando il privato possa vantare nei confronti della p.a.
un diritto soggettivo o un interesse legittimo, e definire il criterio in base al quale individuare il giudice
competente.

Soprattutto nella dottrina meno recente si è talvolta negata all'interesse legittimo natura di situazione
giuridica soggettiva, soprattutto perché alla fine dell'800 l'unica situazione giuridica soggettiva ammissibile
era il diritto soggettivo. Ciò comportava che l'interesse legittimo venisse considerato un mero potere di
reazione nei confronti del provvedimento illegittimo idoneo a legittimare la proposizione del ricorso
giurisdizionale da parte del privato.
Tale impostazione non è però seguita dalla dottrina più recente, soprattutto perché la Cost. colloca
l'interesse legittimo a fianco del diritto soggettivo e tratta in modo parallelo delle forme di tutela di
entrambi. Inoltre si è notato che nel nostro diritto positivo esistono dei rimedi giuridici, i ricorsi
amministrativi, utilizzabili per tutelare l’interesse legittimo prima e indipendentemente da qualsiasi azione
giurisdizionale e ciò prova la rilevanza che questa figura ha sul piano sostanziale.

L’interesse legittimo è ormai considerato situazione giuridica soggettiva, correlata all’esercizio della potestà
amministrativa (o, secondo altra prospettiva, l’unica sgs utilizzabile ai fini di tutela nei confronti
dell’esercizio della potestà amministrativa).
Gli interessi privati, i quali sono oggetto dell’esercizio delle potestà amministrative, nel senso che si di essi
si producono i relativi effetti giuridici, possono avere tanto la consistenza di un diritto soggettivo quanto di
un interesse di fatto. Essi non possono comunque essere utilizzati per tutelare il titolare nei confronti delle
potestà amministrative, posto che queste non hanno limiti in questi interessi.
Se la tutela del privato deve esserci, allora non può che collocarsi nello spazio costituito dalle regole
giuridiche che disciplinano le potestà stesse, la cui inosservanza dà luogo all’illegittimità dei provvedimenti.
Questo spazio non può essere occupato dai diritti soggettivi (essendo essi protetti in modo pieno, essi
negherebbero qualsiasi potestà che possa esplicarsi nei loro confronti e che possa pregiudicarli), ma
nemmeno dagli interessi (la loro soddisfazione richiede un provvedimento favorevole, costitutivo di SGS
nuove).
È quindi necessario disporre di una SGS diversa dal diritto soggettivo al fine di tutelare il privato a fronte del
non corretto esercizio del potere amministrativo. Questa situazione è l’INTERESSE LEGITTIMO, il quale è
sempre collegato a un interesse finale del privato.
Dottrina e giurisprudenza hanno distinto gli interessi legittimi, in base al tipo di interesse materiale
protetto, in:
 oppositivi: legittimano il privato ad opporsi all’adozione di atti e comportamenti da parte della p.a.,
che sarebbero pregiudizievoli per la propria sfera giuridica. L’esercizio delle potestà amministrative
comporta il sacrificio dell’interesse legittimo, per cui il privato ha interesse ad opporsi alle potestà
amministrative;
 pretensivi: si sostanziano in una pretesa del privato a che l’amministrazione adotti un determinato
provvedimento o ponga in essere un dato comportamento. Se gli effetti sono ampliativi

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dell’interesse finale, il privato ha interesse a che le potestà amministrative vengano esercitate in
senso per sé favorevole.
Questa distinzione ha peraltro un mero valore descrittivo ma non concettuale.

Quali sono le caratteristiche dell’interesse legittimo? Qual è il suo oggetto, ovvero l’interesse protetto?
Il dibattito dottrinale è vivace e si contendono diverse teorie.
Se lo spazio entro cui si colloca l’interesse legittimo è quello rappresentato dai limiti posti normativamente
all’esercizio delle potestà amministrative, per impostare correttamente il problema occorre partire da
questi limiti. Si possono, in particolare, prospettare due ipotesi:
1) se questi limiti non sono violati: la potestà amministrativa è esercitata in modo legittimo e
altrettanto legittimo è l’eventuale sacrificio o non soddisfazione imposti, in ragione delle esigenze
di cura dell’interesse pubblico, agli interessi finali del privato.
2) Se questi limiti vengono violati: le potestà amministrative sono esercitate in modo illegittimo e,
dunque, l’eventuale sacrificio o non soddisfazione imposti agli interessi finali non sono tollerabili.

a) Un primo orientamento afferma che l’interesse legittimo non può che consistere nella
pretesa alla legittimità del provvedimento amministrativo. Tale pretesa costituisce
l’interesse oggetto di protezione da parte dell’interesse legittimo di un soggetto che,
rispetto a un dato potere della p.a., si trovi in una particolare posizione differenziata
rispetto agli altri soggetti.
Secondo questo orientamento, l’interesse legittimo è una SGS di vantaggio (perché tutela il
privato contro l’illegittimità dell’azione amministrativa) riconosciuta al privato avente
carattere strumentale (perché comporta l’eventuale e indiretta tutela dell’interesse finale).

b) Vi è un altro orientamento che muove dalla considerazione che la legittimità dell’azione


amministrativa rappresenta il limite di protezione che l’ordinamento giuridico riconosce
all’interesse legittimo, nel senso che questo è protetto solo nell’ipotesi in cui l’azione sia
illegittima. Da qui la conseguenza che ciò che rappresenta un limite alla protezione non può
trasformarsi in oggetto della protezione stessa e, dunque, nell’oggetto dell’interesse
legittimo.
La tutela che l’ordinamento può accordare a fronte dell’esercizio delle potestà,
nell’impossibilità di riconoscere agli interessi finali una tutela diretta, non può che
consistere nella tutela dell’interesse al provvedimento favorevole, ovvero al
comportamento favorevole della p.a. rispetto agli interessi finali.

c) Un terzo orientamento definisce l’interesse legittimo come la posizione di vantaggio


concessa ad un soggetto dell’ordinamento in ordine a un interesse ad un bene della vita
oggetto del potere amministrativo. Questa posizione consiste nell’attribuzione allo stesso
soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere amministrativo in modo
da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene.
L’interesse finale è esso stesso l’oggetto dell’interesse legittimo ma, dal momento che esso
può essere oggetto di esercizio del potere amministrativo, risulta tutelabile nella misura in
cui detto esercizio non avvenga nel rispetto dei limiti ad esso posti dall’ordinamento.
Carattere peculiare di questo orientamento è che tra diritto soggettivo e interesse legittimo
non vi sono differenze né in ordine alla loro natura (di SGS), né relativamente al loro
oggetto (in entrambi i casi è l’interesse a un bene della vita). La loro differenza sta nel
grado di tutela nel senso che, mentre il diritto soggettivo consente la realizzazione in via
diretta dell’interesse al bene; l’interesse legittimo non può mai far conseguire l’interesse al
bene se non per il tramite dell’esercizio del potere in quanto questo glielo consenta.

d) Quarta posizione di recente ipotizzata: definisce l’interesse legittimo come una SGS che si
colloca a fronte del potere discrezionale e che ha alla base un interesse sostanziale
consistente nella possibilità di conservare o acquisire un bene della vita. L’oggetto
dell’interesse legittimo è un interesse sostanziale ovvero un bene della vita. Tale interesse
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non si identifica con l’interesse finale bensì con quell’interesse che nel diritto privato è
denominato chance. Posto che la chance è un bene giuridico, che è oggetto di tutela nel
diritto privato, l’interesse legittimo può ben assumere quest’ultima come suo oggetto.

Non vi è ancora oggi accordo in dottrina sulla definizione dell'interesse legittimo, e soprattutto sull'oggetto
e sull'interesse tutelato: in ogni caso deve esistere un rapporto di reciproca corrispondenza tra lesione
dell'oggetto e bisogno di tutela: nella teoria che identifica l'oggetto dell'interesse legittimo con la pretesa al
corretto esercizio del potere amministrativo, tale rapporto non è poi di piena corrispondenza.
Se in dottrina vi sono divergenze sulla definizione dell'interesse legittimo, vi è invece consenso per i poteri
che sono propri di tale situazione giuridica soggettiva, e che possono essere esercitati dal titolare a fini di
tutela:
- poteri di partecipazione al procedimento amministrativo,
- potere di esperire i ricorsi amministrativi,
- potere di proporre ricorso in sede giurisdizionale.

Più dibattuto è invece il problema concernente il modo di individuazione dell’interesse legittimo.


- La dottrina maggioritaria ritiene che si può individuare la presenza di un interesse legittimo in
quanto vi sia una base normativa (atteso che ogni SGS è tale in quanto prevista e riconosciuta da
una norma, a questa regola non può sfuggire l’interesse legittimo. Posto che questo è sempre
correlato all’esercizio delle potestà amministrative, se ne trae conseguenza che occorre osservare
la norma attributiva delle potestà per individuare quali interessi sono presi in considerazione al fini
dell’esercizio delle potestà stesse).
Sennonché si riconosce che questa non è un’operazione agevole (es. potere di rilascio del permesso di
costruire a fronte del quale, se appare chiara la rilevanza in termini di interesse legittimo dell’interesse di
colui che richiede il permesso, meno sicuro è se, a fronte di questo potere, si collochino interessi legittimi –
ad es. quelli di coloro che risiedono nelle vicinanze). In questo caso la ricerca della presenza dell’interesse
legittimo va fatta allargando l’indagine all’intera disciplina del settore in relazione al quale è riconosciuto il
potere stesso.

Posizione della GIURISPRUDENZA:


- fase iniziale: non riconosceva all’interesse legittimo la natura di SGS;
- in seguito si è orientata a riconoscere tale natura, dividendosi sul problema dell’oggetto. Per la
giurisprudenza maggioritaria esso consisterebbe, comunque, nella pretesa al corretto esercizio del
potere.
- La Cassazione, nel mutare con la sent. n. 500/1999 la propria posizione sul tema della risarcibilità
dei danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, ha aderito senza riserve alla tesi che vede
in questo interesse una SGS avente ad oggetto l’interesse a un bene della vita fatto oggetto
dell’esercizio del potere amministrativo.

Il problema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo
Per lungo tempo i danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi non erano considerati risarcibili.
- particolare interpretazione della locuzione “danno ingiusto” ex art. 2043: solo quello derivante
dalla lesione di un diritto soggettivo (prima solo assoluto, poi anche relativo). Conseguenza: posto
che l’interesse legittimo è situazione giuridica diversa dal diritto soggettivo, i danni che si
determinano a seguito della sua lesione da parte della p.a. e dei relativi atti illegittimi non
integravano uno degli elementi della fattispecie risarcitoria.
- Anche a voler considerare risarcibili questi danni, la relativa controversia non poteva trovare un
giudice competente a risolverla. Non il G.O. in quanto giudice dei diritti soggettivi lesi dalla p.a.;
ma nemmeno il G.A. in quanto sprovvisto (all’epoca) del potere di pronunciare nei confronti della
p.a. una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro, essendo consentita solo
l’adozione di sentenze di annullamento del provvedimento illegittimo.

→ Il concorso di queste due ragioni determinava una sorta di immunità nei confronti dei danni arrecati al
privato nello svolgimento illegittimo della propria funzione.

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Unico caso in cui si poteva ottenere il risarcimento era dato dal concorrere di due condizioni:
a) provvedimento illegittimo adottato dalla p.a.;
b) interesse finale colpito dal provvedimento avente sul piano dell’ordinamento generale,
indipendentemente dall’esercizio della potestà amministrativa, la consistenza di un diritto
soggettivo.
In tal caso, per effetto dell’annullamento del provvedimento da parte del G.A., il provvedimento perdeva ab
origine ogni efficacia, mentre il diritto soggettivo si ricostituiva in capo al suo titolare. Questo integrava gli
estremi del comportamento illecito della p.a. a fronte del quale si poteva chiedere il risarcimento dei danni
subiti in sede di giurisdizione ordinaria. In questo caso, però, ad essere risarciti non erano i danni derivanti
dalla lesione dell’interesse legittimo come tale, ma quelli derivanti dalla lesione del diritto soggettivo
preesistente.

L’esistenza di un’ampia area nell’ambito della quale alla p.a. veniva garantita una sostanziale
irresponsabilità nei confronti dei danni recati al privato nello svolgimento illegittimo della propria attività,
non era più tollerabile (soprattutto alla luce delle previsioni costituzionali).
- A partire dagli anni ’60 la Cassazione, nell’ambito dei rapporti tra privati, aveva cominciato a
risarcire danni derivanti dalla lesione di interessi a rigore non qualificabili come veri e propri diritti
soggettivi (es. risarcimento per perdita di chance). Essa aveva di fatto cambiato la lettura dell’art.
2043: l’illecito ivi disciplinato viene considerato non più come tipico, ma come atipico, e dunque la
locuzione “danno ingiusto” sta a significare danno derivante dalla lesione di qualsiasi interesse
(non tipizzato da norme dell’ordinamento) tuttavia meritevole di considerazione e tutela.
- Consolidamento dell’ordinamento comunitario in termini di primazia sugli ordinamenti interni.
Vige il principio in base al quale la Comunità deve risarcire i danni arrecati dalle sue istituzioni
nell’esercizio delle sue funzioni.
- D.lgs. 80/1998: amplia le materie di giurisdizione esclusiva (servizi pubblici, urbanistica, edilizia) e
prevede la possibilità per il G.A. di condannare in sede di giurisdizione esclusiva l’amministrazione
al risarcimento del danno ingiusto. La norma è stata interpretata come applicabile anche all’ipotesi
dei danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi.

La sentenza n. 500/1999 della Cassazione apre alla risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione
dell’interesse legittimo, risolvendo questioni di ordine sostanziale e processuale che il tema poneva.
Nella sentenza i giudici avevano posto due regole chiare:
1) il giudice competente a risolvere le controversie in tema di risarcimento dei danni derivanti dalla
lesione dell’interesse legittimo era il G.O. , con la sola eccezione delle controversie rientranti nelle
materie di giurisdizione esclusiva spettanti al G.A.
2) Il rapporto tra azione di annullamento del provvedimento illegittimo e l’azione risarcitoria era stato
risolto nel senso di escludere che quest’ultima fosse subordinata al previo esperimento con
successo dell’azione di annullamento. Le due azioni quindi potevano essere proposte
alternativamente ovvero pendere contemporaneamente (davanti al G.A. e davanti al G.O.).

- La Corte recepisce l’orientamento della dottrina circa l’art. 2043. Non vi è alcun argomento da cui
si possa desumere l’applicabilità della disciplina solo ai danni derivanti dalla lesione del diritto
soggettivo. La locuzione “danno ingiusto” va interpretata come una clausola generale che offre
protezione nei confronti di tutti i danni arrecati anche ad interessi che, pur non riconosciuti da una
norma, appaiono meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento. È il giudice che dovrà selezionare
gli interessi rilevanti comparando l’interesse del danneggiato e quello perseguito con la condotta
lesiva, così da accertare se il sacrificio al soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella
realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta.
à dei danni derivanti dalla lesione
dell’interesse legittimo: tra il polo del diritto soggettivo e il polo dell’interesse meramente
rilevante non può non trovare collocazione, ai fini della tutela risarcitoria, l’interesse legittimo.

- La Cassazione ha poi preso posizione sull’interesse legittimo e sulla sua definizione, asserendo che
esso consiste in una “posizione giuridica di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione a un
bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo… consistente nell’attribuzione a tale
25
soggetto di poteri idonei a influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la
realizzazione dell’interesse al bene”.
La Cassazione fa propria una particolare teoria dell’interesse legittimo, ossia quella teoria che
individua l’oggetto dell’interesse legittimo nell’interesse al bene della vita. Conseguenza: si
potranno avere dei danni risarcibili in quanto si dimostri l’effettiva spettanza, in capo al privato,
dell’interesse al bene stesso.
- Tale circostanza, nel caso di interesse legittimo oppositivo, discende ipso facto dall’illegittimità
del provvedimento: il bene non doveva né poteva essere sacrificato, dunque sperrava al
privato.
- Non si può dire lo stesso nel caso degli interessi pretensivi: l’illegittimità del provvedimento (di
diniego), specie se a carattere discrezionale, che ha impedito la realizzazione dell’interesse al
bene non equivale all’accertamento della sua spettanza.
Mentre la lesione dell’interesse legittimo oppositivo da parte di un provvedimento riconosciuto
illegittimo è condizione necessaria e sufficiente per ottenere il risarcimento dei danni patiti,
viceversa la lesione dell’interesse legittimo pretensivo è una condizione necessaria ma non
sufficiente ai fini del risarcimento del danno.
Quindi in quest’ultimo caso, ai fini del risarcimento del danno, il giudice non dovrà limitarsi ad
accertare l’illegittimità del provvedimento di diniego ma dovrà anche, per mezzo di un giudizio che
viene definito prognostico, verificare se al titolare dell’interesse legittimo spettasse l’adozione del
suddetto provvedimento.

- Per quanto riguarda l’elemento soggettivo di cui all’art. 2043, la Cassazione ha inoltre stabilito che
è necessario dimostrare la colpa della p.a. come apparato (non con riferimento al funzionario
agente). La colpa consiste nella violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione.

Nel quadro normativo attuale:


La cognizione delle questioni risarcitorie è oggi attribuita espressamente al G.A. nel Codice.
Art. 7 comma 4: stabilisce che sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del G.A. le
controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle p.a., comprese quelle relative al risarcimento
del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte
in via autonoma.
Art. 30 comma 6: di ogni domanda di condanna al risarcimento del danno per lesioni di interessi legittimi o,
nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi, conosce esclusivamente il G.A.
a) non esiste alcuna pregiudizialità tra azione di annullamento del provvedimento e azione di
condanna al risarcimento del danno;
b) questa azione può essere proposta autonomamente entro il termine di decadenza di 120 giorni
decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il
danno deriva direttamente da quest’ultimo;
c) se l’azione di annullamento è stata proposta, la domanda risarcitoria può essere formulata nel
corso del giudizio o comunque sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza;
d) ove sussistano i presupposti di cui all’art. 2058, il danneggiato può chiedere il risarcimento del
danno in forma specifica;
e) nella determinazione del risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti; esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti
evitare usando ‘ordinaria diligenza;
f) per il risarcimento del danno prodottosi a seguito dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento, il termine per la proposizione della domanda di risarcimento non
decorre sino a quando perdura l’inadempimento, ma trascorso 1 anno dalla scadenza del termine
per provvedere il termine inizia a decorrere.

Problema: pregiudizialità tra azione di annullamento e azione risarcitoria.

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 Dopo la sent. 500/1999, e in contrasto con la posizione ivi prospettata, il G.A. si era schierato a
favore della tesi della pregiudizialità (subordinazione dell’azione risarcitoria a azione di
annullamento).
→ La tesi della pregiudizialità comportava che l’azione di risarcimento, sottoposta al termine di
prescrizione quinquennale, fosse esperibile davanti al G.A. solo se in presenza della tempestiva
impugnazione del provvedimento causativo del danno davanti al medesimo giudice nel termine di
decadenza previsto in via generale per l’impugnazione degli atti amministrativi.
 La Cassazione non condivideva questa posizione: la decisione del G.A. contraria a riconoscere la
tutela risarcitoria degli interessi legittimi in assenza della previa proposizione dell’azione di
annullamento costituiva rifiuto dell’esercizio della propria giurisdizione, con conseguente possibilità
di proporre entro la stessa ricorso in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.

Oggi, con l’introduzione del Codice, questa questione può dirsi sostanzialmente risolta: il G.A. è l’unico
giudice competente a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria per danni derivanti dalla lesione dell’interesse
legittimo. Tale domanda può anche essere prodotta in via autonoma, indipendentemente dalla
proposizione dell’azione di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo causativo del
danno.
Il Consiglio di Stato nell’AP 3/2011 ha ribadito come, alla luce delle disposizioni del CPA, e in particolare
dell’art. 30 comma 3, nessuna pregiudizialità in rito vi sia tra azione di annullamento e azione risarcitoria.
Ha poi precisato che, pur in mancanza di questa pregiudizialità, tra le due azioni vi è una sorta di
dipendenza sostanziale: la mancata proposizione dell’azione di annullamento può determinare effetti sul
risarcimento nel senso che tale omissione costituisce un fatto concreto da apprezzare, nel quadro del
complessivo comportamento delle parti, per escludere il risarcimento dei danni (o limitarne il quantum)
evitabili in tutto o in parte per effetto del giudizio di annullamento.

La giurisdizione esclusiva e il riparto per materie


In presenza della giurisdizione esclusiva il nostro sistema di giustizia amministrativa, da dualista torna ad
essere monista: infatti in sede di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo è competente a giudicare
sia della lesione dell'interesse legittimo sia della lesione del diritto soggettivo. Al criterio della causa petendi
si sostituisce quello basato sulle materie.
La giurisdizione esclusiva pone due ordini di problemi:
1) La Cost. parla di “particolari materie indicate dalla legge”, si è posto il problema se esista un limite
quantitativo all'espansione di tale giurisdizione.
→ Non sarebbe costituzionalmente legittimo, attraverso l’attribuzione progressiva di materie al G.A.,
eliminare del tutto ogni competenza del giudice ordinario rispetto alla tutela di diritti soggettivi. Ma il vero
problema è un altro: esistono limiti quantitativi all’espansione della giurisdizione esclusiva, superati i quali si
può dire che il sistema della giustizia amministrativa si atteggi in forme non legittime dal punto di vista
costituzionale? Una parte della dottrina, nel registrare l’intento del legislatore di concentrare il più possibile
le controversie tra p.a. e privati davanti al G.A., ha indicato quale strada maestra quella di una modifica della
Cost. che renda il nostro sistema di giustizia amministrativa un sistema monistico.

2) Vi è il problema dei criteri sulla cui base andare a scegliere le materie indicate dal legislatore.
Delimitare con esattezza le materie è tutt’altro che un’operazione agevole. Anche l’applicazione di questo
criterio di riparto, in presenza di un incremento delle materie di giurisdizione esclusiva, è destinata ad
accrescere il contenzioso relativo all’individuazione del giudice competente.

Entrambe le questioni sono state affrontate dalla Corte Cost. con sent. 204/2004, la quale ha chiarito che
l'art. 103 Cost. non ha conferito legislatore ordinario un'assoluta ed incondizionata discrezionalità
nell'attribuzione al G.A. di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito un potere
che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte e non fondarsi esclusivamente sul dato
oggettivo delle materie.
In particolare, le materie che possono essere devolute alla giurisdizione esclusiva devono essere
caratterizzate dalla circostanza che la p.a. agisce come autorità. Non sono sufficienti né la partecipazione
della p.a. al giudizio né il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia.

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LE FORME DELLA GIURISDIZIONE
La giurisdizione amministrativa è esercitata dai TAR e dal Consiglio di Stato secondo le norme del CPA (art.
4). L’art. 7 CPA, dedicato alla giurisdizione amministrativa, individua specificamente la tipologia di
controversie che possono essere conosciute dal GA:
- in via generale si tratta di controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle
particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato
esercizio del potere amministrativo e aventi ad oggetto provvedimenti, atti, accordi e
comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere.
- Altro requisito richiesto è che i provvedimenti, gli atti, gli accordi e i comportamenti in relazione ai
quali è sorta una contestazione, siano stati posti in essere da una PA ovvero da soggetti ad essa
equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo.

amministrativa solo quegli atti che, in senso oggettivo siano esplicazione di pubblica potestà, e, in
senso soggettivo, promanino da un’autorità amministrativa e siano lesivi di interessi legittimi del
privato.

politico, esplicitando, così, la principale differenza tra atti amministrativi e atti politici.

L’art. 7 CPA, oltre a definire la giurisdizione del G.A., individua il contenuto delle tre diverse tipologie in cui
la stessa può articolarsi:
1) Giurisdizione di legittimità: il giudice valuta la sola legittimità dell’atto amministrativo, cioè verifica
la conformità dello stesso ai principi dell’ordinamento giuridico e la sua immunità dai tre vizi di
legittimità (eccesso di potere, incompetenza, violazione di legge). Si definisce anche giurisdizione di
annullamento nel senso che il giudice può disporre esclusivamente l’annullamento dell’atto
giudicato illegittimo e in nessun caso può incidere sullo stesso, revocandolo o sostituendolo. In tali
ipotesi il GA conosce solo degli interessi legittimi.
2) Giurisdizione esclusiva: il GA, in deroga al principio del riparto delle giurisdizioni, ha cognizione
anche in materia di diritti soggettivi.
3) Giurisdizione di merito: il GA può non solo annullare l’atto amministrativo, ma sindacare anche
l’opportunità o convenienza dello stesso e, conseguentemente, sostituirsi all’amministrazione.

LA GIURISDIZIONE GENERALE DI LEGITTIMITÀ


Ai sensi dell’art. 7 comma 4 CPA, il GA in sede di giurisdizione di legittimità conosce delle controversie
relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle PA, comprese, quelle relative al risarcimento del danno
per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via
autonoma.

Caratteri della giurisdizione di legittimità:


- Generale: riguarda ogni controversie relativa alla legittimità di un atto amministrativo che abbia
leso un interesse legittimo (tranne le materie riservate alla cognizione di altra giurisdizione
speciale). Ogniqualvolta non sia indicato dalla legge un giudice diverso, la competenza appartiene
al GA.
- Simmetrica: con la giurisdizione spettante, per i diritti soggettivi, al GO. Come il GO è il giudice dei
diritti, così il GA è il giudice degli interessi legittimi (art. 103 Cost.).
- Limitata, quanto ai poteri di cognizione, all’accertamento dei soli tre vizi di incompetenza,
violazione di legge e eccesso di potere. Il giudice cioè non può sostituirsi all’amministrazione nella
valutazione dell’opportunità o convenienza dell’atto adottato, ma solo verificarlo limitatamente
all’accertamento del vizio di legittimità eccepito.
- Limitata quanto al potere di decisione: il GA può solo annullare l’atto illegittimo. Non può
riformarlo né sostituirlo. Tali poteri sono invece riconosciuti al GA quando è chiamato a decidere
su un ricorso per vizi di merito nei casi espressamente previsti dalla legge.

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Quanto alla possibilità di esperire l’azione di risarcimento del danno, il legislatore da un lato riprende
quanto già previsto con l’art. 7 della L. 1034/1971, sancendone la proponibilità, dall’altro risolve
l’importante questione dell’ammissibilità della stessa indipendentemente dalla richiesta di annullamento
dell’atto illegittimo, mediante l’inciso “pure se introdotte in via autonoma”.
È chiaro che il risarcimento del danno è sempre subordinato alla presenza, nella fattispecie concreta
sottoposta all’esame del giudice, dei presupposti stabiliti dalla legge: il danno ingiusto, ovvero la lesione di
un interesse giuridicamente rilevante, il dolo o la colpa dell’amministrazione, cioè l’elemento soggettivo, e
il nesso di causalità tra il comportamento illecito posto in essere e il danno subito.
Conseguentemente, l’ampliamento dei poteri di decisione del giudice porta con sé un sensibile
ampliamento dello stesso oggetto del giudizio, che non può più definirsi come giudizio di mera legittimità.
- l’accertamento del G.A., oltre ad avere ad oggetto la legittimità o meno di un atto amministrativo,
dovrà estendersi alla verifica della sussistenza di tutti gli altri presupposti necessari a fondare la
pretesa risarcitoria del ricorrente e, in primo luogo, la sussistenza ed entità del pregiudizio
lamentato.
→ L’accertamento del giudice dovrà essere pieno, onde consentire il cd. giudizio di spettanza del
ricorrente alla pretesa risarcitoria. I poteri del G.A. non sono più i soli poteri di annullamento di atti
illegittimi, ma anche poteri di accertamento e condanna.

Oggetto del ricorso al TAR:


l’art. 7 CPA afferma che il ricorso può essere esperito contro atti, provvedimenti o omissioni delle PA. E’
quindi impugnabile innanzi al GA:
a) un atto amministrativo esistente: il ricorso è improponibile se l’atto non esiste, per mancanza di
oggetto. Art. 34 comma 2 CPA: in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati;
b) consistente in una manifestazione di volontà: in linea generale si può affermare che sono
impugnabili i provvedimenti in senso stretto, cioè gli atti consistenti in una manifestazione di
volontà, lesivi per il loro destinatario;
c) formalmente e materialmente amministrativo: nei casi in cui la PA, pur dovendo emanare un atto,
omette di farlo, l’interessato dovrà impugnare l’illegittimo silenzio. Il relativo procedimento è
disciplinato dall’art. 117 CPA, da leggersi in combinato disposto con il precedente art. 31,
disciplinante l’azione avverso il silenzio.

Casi in cui il GA conosce dei diritti soggettivi:


al di fuori delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il legislatore non ha inteso attribuire al GA il potere di
annullare gli atti amministrativi lesivi di diritti soggettivi.
Vi sono però dei casi in cui il GA, pur non avendo giurisdizione esclusiva, conosce comunque di diritti
soggettivi.
Secondo la previsione dell’art. 8 CPA, il GA, oltre ai casi di giurisdizione esclusiva, può conoscere di
questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti soggettivi quando la soluzione delle stesse è
presupposto necessario per la decisione della questione principale, relativa a un interesse. Si tratta dunque
di una decisione pronunciata incidenter tantum, con valore nel solo ambito del giudizio amministrativo in
cui si inserisce, che non ha efficacia di giudicato. Tale principio vale sia nel caso di giudizio di legittimità che
di merito.
Tuttavia alcune questioni di diritto civile, per la loro particolare delicatezza, sono riservate in ogni caso al
GO, ai sensi dell’art. 8 comma 2:
a) questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone fisiche, esclusa la capacità di stare in
giudizio;
b) le questioni relative alla falsità di atti e documenti (cd. incidente di falso).

LA GIURISDIZIONE DI MERITO
Storicamente si tratta della prima forma di giustizia amministrativa. Con la legge abolitiva del contenzioso
Amministrativo (1865), alcune attribuzioni appartenenti al contenzioso amministrativo preunitario erano
state “salvate” all’abolizione e affidate alla “giurisdizione propria” del Consiglio di Stato (in

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contrapposizione alla “giurisdizione ritenuta” del Sovrano cui il Consiglio di Stato partecipava, solo in via
consultiva, delibando sui ricorsi straordinari).
→ Questa embrionale giurisdizione amministrativa era una vera e propria giurisdizione di merito e non di
sola legittimità. Mentre infatti nel formulare i pareri sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato, il Consiglio
di Stato limitava il suo esame alla sola legittimità, nella giurisdizione propria tale limitazione non sussisteva.
Dall’istituzione della IV Sezione, però, la “giurisdizione” di merito iniziò il suo declino.

L’art. 7 comma 6 CPA definisce la giurisdizione di merito del GA, sancendo le ipotesi in cui è possibile
l’esercizio di tale giurisdizione e individuando il potere di cui risulta investito il giudice.
Il GA quando esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito può sostituirsi all’amministrazione: il GA
è tenuto a esaminare l’atto impugnato, oltre che dal punto di vista della sua legittimità, sotto il profilo della
convenienza e opportunità, quindi della conformità al principio di buona amministrazione ex art. 97 Cost.
In cosa si esplicita concretamente questo potere sostitutivo è chiarito dal successivo art. 34, dedicato alle
sentenze di merito, laddove viene specificato che, nei casi di giurisdizione di merito il GA “adotta un nuovo
atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato”.

Caratteri della giurisdizione di merito del G.A.:


- Eccezionale: in quanto ammessa eccezionalmente, in deroga al principio del sindacato
giurisdizionale di sola legittimità sull’atto amministrativo.
- Tassativa: attuabile solo nei casi previsti dalla legge (non suscettibili di estensione analogica per il
carattere eccezionale delle norme in questione).
- Aggiuntiva: non esclude ma si aggiunge alla giurisdizione di legittimità, dovendo il giudizio di
legittimità precedere quello di merito.

Casi di giurisdizione di merito:


Attualmente, l’art. 7 comma 6 CPA, dispone che: il G.A. esercita giurisdizione con cognizione estesa al
merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’art. 134. Quest’ultimo prevede solo cinque tipi di
controversie aventi ad oggetto:
a) attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del
giudizio di ottemperanza;
b) atti e operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa;
c) sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del G.A.:
d) contestazioni sui confini degli enti territoriali;
e) diniego di rilascio di nulla osta cinematografico.

Ad eccezione del giudizio di ottemperanza, oggi la giurisdizione di merito è quasi dimenticata, a favore della
giurisdizione di legittimità. Alla base di questo scarso rilievo riconosciuto alla giurisdizione di merito c’è
forse l’idea che nel nostro ordinamento questi casi rappresentino un residuo storico e qualcosa di anomalo
rispetto ai connotati propri della funzione giurisdizionale modernamente intesa.
Tuttavia, due recenti interventi legislativi sembrano andare in direzione inversa e lasciare qualche apertura a una
diversa considerazione della giurisdizione di merito (norme che hanno introdotto la cd. class action pubblica, norme
che CPA dedica al processo in materia di appalti pubblici). Si tratta di figure di giurisdizione di merito del tutto nuove
che, pur essendo eccezionale, rispetto alla giurisdizione generale non è necessariamente aggiuntiva rispetto ad essa e
non richiede l’esercizio di poteri sostitutivi.

LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA
La giurisdizione esclusiva è caratterizzata, ai sensi dell’art. 7 comma 5 CPA, dalla circostanza per cui al GA è
attribuita, pure ai fini risarcitori, la cognizione, in via principale, sia dei diritti soggettivi che degli interessi
legittimi.
La ratio di tale tipo di giurisdizione è da ricercare, essenzialmente, nella difficoltà oggettiva, rispetto a
determinate materie, di distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi, ai fini del riparto della
giurisdizioni. In queste materie si richiede al giudice una conoscenza tecnica specifica, nonché una diretta
esperienza dell’attività amministrativa. Si ritenne quindi che ragioni eminentemente pratiche abbiano
indotto il legislatore a istituire la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato.

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La previsione della giurisdizione esclusiva è frutto della riforma amministrativa del 1923: infatti, con il R.D.
2840/1923 (concernente l’ordinamento del Consiglio di Stato) sono state elencate, per la prima volta, in
modo tassativo, le materie devolute al GA riguardanti la tutela dei diritti soggettivi. Pertanto, la
giurisdizione esclusiva è antecedente alla Cost., sebbene poi quest’ultima l’abbia disciplinata all’art. 103
Cost, il quale prevede che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giurisdizione amministrativa hanno
giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nei confronti della PA e, in particolari materie, anche dei
diritti soggettivi.

In dottrina è stato osservato che la giurisdizione esclusiva pone due problematiche di fondo:
- da un lato vi è la genericità dell’espressione costituzionale “particolari materie”, che non fa
intendere se sussista un limite quantitativo all’espansione della giurisdizione de qua, anche con
riferimento alla giurisdizione ordinaria;
- dall’altro lato, vi è il problema della necessità di predeterminare e evidenziare i criteri in base ai
quali operare una delimitazione delle materie indicate dal legislatore.
In realtà circoscrivere le materie , quali blocchi di discipline organiche concernenti i rapporti tra
amministrazione e cittadini, devolute alla giurisdizione esclusiva del GA, è assolutamente
difficoltoso.

Già prima del CPA, della questione si era occupata la Corte Cost. che, con la sentenza 204/2004, aveva
preso posizione sui limiti alla giurisdizione esclusiva del GA. In particolare aveva chiarito che:
- il vigente art. 103 comma 1 Cost. non ha conferito al legislatore ordinario un’assoluta e
incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al GA di materie devolute alla sua giurisdizione
esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei
confronti della PA” investe “anche” diritti soggettivi. È un potere che deve considerare la natura
delle SGS coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo delle materie.
- Il legislatore ordinario può ben ampliare l’area della giurisdizione esclusiva, purchè lo faccia con
riguardo a materie peculiari che, in mancanza di tale previsione, contemplerebbero comunque, in
virtù della presenza della PA-autorità, la giurisdizione generale di legittimità. Ciò esclude che il
generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia sia sufficiente a devolverla al
GA.

Caratteri della giurisdizione esclusiva:


- Eccezionale: poiché limitata ai soli casi indicati dalla legge;
- Non ammette concorrenza con altre giurisdizioni, sia ordinaria che amministrativa: nell’ambito
della giurisdizione esclusiva non ha ragion d’essere la distinzione diritti soggettivi-interessi
legittimi;
- Si può ricorrere al giudice per la lesione sia di diritti soggettivi che di interessi legittimi;
- È soggetta ai principi generali che regolano la giurisdizione amministrativa, laddove si verta in
tema di interessi legittimi.
- Se oggetto del ricorso è la violazione di diritti soggettivi, il ricorrente può esperire oltre all’azione
di annullamento dell’atto lesivo del diritto, anche autonoma azione di condanna (art. 30 CPA). Per
controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale, deve segnalarsi il dettato
dell’art. 118 CPA, il quale prevede l’applicazione delle norme processual-civilistiche relative al
procedimento di ingiunzione. Inoltre, può essere chiesto il risarcimento del danno anche da lesione
di diritti soggettivi.

Oggetto del ricorso in sede di giurisdizione esclusiva:


Normalmente oggetto dell’impugnativa è un atto amministrativo. Ma l’azione innanzi al GA può avere ad
oggetto, oltre che un atto, anche un rapporto, laddove l’azione dell’amministrazione abbia inciso proprio
sui diritti soggettivi dei destinatari.
Nel caso di giurisdizione esclusiva può parlarsi non più di sola giurisdizione su atti, ma anche di giurisdizione
su rapporti.

Materie oggetto di giurisdizione esclusiva:

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Le materie in cui il GA esercita giurisdizione esclusiva sono elencate all’art. 133 CPA (Libro V). Con detta
disposizione, il legislatore ha operato una ricognizione della legislazione vigente e ha disciplinato
organicamente sia ipotesi contemplate in precedenti testi normativi che casi nuovi, positivizzando principi e
interpretazioni frutto dell’evoluzione giurisprudenziale.
Proprio per l’importanza fondamentale della disposizione ai fini dell’esatta individuazione della
giurisdizione del GA, conformemente alla riserva di legge di cui all’art. 7 comma 5, il legislatore è
intervenuto in più occasioni sull’art. 133 CPA, correggendo le ipotesi contemplate e introducendone di
nuove. Tra le tante si ricordano:
- quelle in relazione alla legge sul procedimento amministrativo: ad es. la giurisdizione in tema di
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento; in relazione agli accordi integrativi e sostitutivi di
provvedimento e agli accordi tra PPAA, nonché in materia di accesso ai documenti amministrativi e
di silenzio assenso.
- Con riguardo ai contratti pubblici, il legislatore, modificando corrispondentemente l’art. 244 del
d.lgs. 163/2006, ribadisce la giurisdizione esclusiva per le controversie relative a procedure di
affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture e estende la stessa alla declaratoria di inefficacia
del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione e alle sanzioni amministrative.
- Urbanistica e edilizia
- Espropriazione per pubblica utilità
- Servizi pubblici
- Rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico
- Concessione di beni pubblici, con l’eccezione delle controversie relative a indennità, canoni o altri
corrispettivi e quelle attribuite ad altra autorità giurisdizionale.

133. Materie di giurisdizione esclusiva


1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge:
a) le controversie in materia di:
1) risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento amministrativo;
2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli
accordi fra pubbliche amministrazioni;
3) silenzio di cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3, e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione
certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività, di cui all’articolo 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990 n.
241 (1);
4) determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto in caso di revoca del provvedimento amministrativo;
5) nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato;
6) diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa (2);
a-bis) le controversie relative all’applicazione dell’articolo 20 della legge 7 agosto 1990 n. 241 (3);
b) le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione
delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque
pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche;
c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti
indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal
gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un
pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle
assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di
pubblica utilità;
d) le controversie concernenti l’esercizio del diritto a chiedere e ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle
comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali;
e) le controversie:
1) relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella
scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di
evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della
giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed
alle sanzioni alternative;
2) relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione
del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui
all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163, nonché quelle relative ai provvedimenti applicativi
dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’ articolo 133, commi 3 e 4, dello stesso decreto;
f) le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e
edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio, e ferme restando le giurisdizioni del Tribunale superiore
delle acque pubbliche e del Commissario liquidatore per gli usi civici, nonché del giudice ordinario per le controversie

32
riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura
espropriativa o ablativa;
g) le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche
mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per
pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la
corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa;
h) le controversie aventi ad oggetto i decreti di espropriazione per causa di pubblica utilità delle invenzioni industriali;
i) le controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico;
l) le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai
rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Banca d’Italia, dagli Organismi di cui agli articoli 112-bis, 113 e 128-
duodecies del decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385, [dalla Commissione nazionale per le società e la
borsa], dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni,
dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, e dalle altre Autorità istituite ai sensi della legge 14 novembre 1995 n. 481,
dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dalla Commissione vigilanza fondi
pensione, dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità della pubblica amministrazione,
dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private, comprese le controversie relative ai ricorsi avverso gli atti che
applicano le sanzioni ai sensi dell’articolo 326 del decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209 (4);
m) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti in materia di comunicazioni elettroniche, compresi quelli relativi
all’imposizione di servitù, nonché i giudizi riguardanti l'assegnazione di diritti d'uso delle frequenze, la gara e le altre
procedure di cui ai commi da 8 a 13 dell’articolo 1 della legge 13 dicembre 2010 n. 220, incluse le procedure di cui
all'articolo 4 del decreto-legge 31 marzo 2011 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2011 n.
75 (5);
n) le controversie relative alle sanzioni amministrative ed ai provvedimenti adottati dall’organismo di regolazione
competente in materia di infrastrutture ferroviarie ai sensi dell’articolo 37 del decreto legislativo 8 luglio 2003 n. 188;
o) le controversie, incluse quelle risarcitorie, attinenti alle procedure e ai provvedimenti della pubblica amministrazione
concernenti la produzione di energia, i rigassificatori, i gasdotti di importazione, le centrali termoelettriche e quelle
relative ad infrastrutture di trasporto ricomprese o da ricomprendere nella rete di trasmissione nazionale o rete
nazionale di gasdotti (6);
p) le controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di
emergenza dichiarate ai sensi dell’articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992 n. 225, nonché gli atti, i
provvedimenti e le ordinanze emanati ai sensi dell’articolo 5, commi 2 e 4, della medesima legge n. 225 del 1992 e le
controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con
comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere,
quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati (7);
q) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti anche contingibili ed urgenti, emanati dal Sindaco in materia di
ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e di polizia locale, d’igiene pubblica
e dell’abitato;
r) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti relativi alla disciplina o al divieto dell’esercizio d’industrie
insalubri o pericolose;
s) le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danno
all’ambiente, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle
misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, nonché quelle inerenti le ordinanze
ministeriali di ripristino ambientale e di risarcimento del danno ambientale;
t) le controversie relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari;
u) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti in materia di passaporti;
v) le controversie tra lo Stato e i suoi creditori riguardanti l’interpretazione dei contratti aventi per oggetto i titoli di
Stato o le leggi relative ad essi o comunque sul debito pubblico;
z) le controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non
riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra società,
associazioni e atleti;
z-bis) le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti i
rapporti di impiego, adottati dall’Agenzia nazionale di regolamentazione del settore postale di cui alla lettera h) del
comma 2 dell’articolo 37 della legge 4 giungo 2010 n. 96 (8);
z-ter) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti dell'Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in
materia di acqua istituita dall’articolo 10, comma 11, del decreto legge 13 maggio 2011 n. 70, convertito, con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011 n. 106 (9);
z-quater) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto
legislativo 6 settembre 2011 n. 149 (10);
z-quinquies) le controversie relative all'esercizio dei poteri speciali inerenti alle attività di rilevanza strategica nei
settori della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni (11);
z-sexies) le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo
108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i
provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (CE) n.
659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, a prescindere dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l'ha concesso.

33
L’elencazione contenuta nell’art. 133 però non è esaustiva. Lo stesso legislatore, al comma 1 della
disposizione del qua, fa salve le ulteriore ipotesi previste dalla legge. Tra queste deve ricordarsi il d.lgs.
198/2009 che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del GA le controversie in materia di ricorso per
l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari dei servizi pubblici.

→ La giurisdizione esclusiva dal G.A. non è una terza specie di giurisdizione rispetto a quella di legittimità e
di merito. Qui il giudice infatti pronuncia ora come giudice di merito, ora come giudice di legittimità, a
seconda che le materie in essa confluite siano state attribuite al giudice in cognizione piena o limitata.
Non si tratta nemmeno di un tertium genus di giurisdizione distinta, quanto alla sua natura, sia dal G.A. che
dal G.O.

LA COMPETENZA
La competenza può essere definita come la “misura”, il quantum della giurisdizione spettante a ciascun
organo giudiziario. Le norme sulla competenza determinano la distribuzione della giurisdizione in capo agli
organi che compongono la compagine giurisdizionale composta da: Consiglio di Stato, TAR, Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
All’interno della giurisdizione amministrativa la competenza è attribuita sulla base di questi criteri:
a) grado;
b) territorio;
c) materia.

LA COMPETENZA PER GRADO


= disciplina il riparto della cognizione giurisdizionale tra giudici di grado diverso appartenenti allo stesso
ordine giurisdizionale.
Fino all’istituzione dei TAR (1971) l’unico giudice amministrativo era il Consiglio di Stato. Ora, il CPA
prevede:
- art. 4: la giurisdizione amministrativa è esercitata dai TAR e dal Consiglio di Stato.
- art. 5: organi della giurisdizione amministrativa di primo grado – TAR, TRGA.
- art. 6 comma 1: il Consiglio di Stato viene riconosciuto come organo di ultimo grado della
giurisdizione amministrativa.

Il criterio di competenza per grado trova alcune eccezioni:


a) competenza in unico grado del Consiglio di Stato: giudizio di ottemperanza ove esperibile in ultima
istanza.
b) Giustizia amministrativa nella regione Sicilia: art. 6 comma 6 – “gli appelli avverso le pronunce del
TAR della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel
rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione”.

LA COMPETENZA TERRITORIALE
La competenza territoriale dei TAR è inderogabile.
Nel regime precedente al d.lgs. 104/2010 vigeva invece il principio della derogabilità della competenza
territoriale del Tribunale di primo grado, per cui rientrava nella disponibilità delle parti la scelta del TAR da
adire: tale principio aveva come diretta conseguenza che l’eventuale incompetenza non poteva costituire
motivo di impugnazione della decisione. Nella sua applicazione pratica la derogabilità della competenza era
sfociata nella prassi (di comodo) del cd. forum shopping, per cui sostanzialmente il ricorrente, prima di
instaurare un giudizio, “sceglieva” il tribunale più favorevole, ossia quello presso il quale erano maggiori le
possibilità di raggiungere un esito positivo del giudizio. Viceversa, l’inderogabilità era sancita solo per le
ipotesi di competenza funzionale del Tribunale, che costituivano comunque un’eccezione alla regola
generale.

34
Il legislatore del CPA ha, invece, optato per il principio dell’inderogabilità della competenza, indicando,
all’art. 13 CPA, i criteri per procedere all’individuazione del giudice territorialmente competente. Ciò
significa che a poter decidere su una determinata questione può essere solo un TAR specifico, con
esclusione di tutti gli altri, ossia quello individuato facendo applicazione dei criteri individuati dal CPA. Tale
principio è stato ribadito e rafforzato dal d.lgs. 160/2012 che, oltre ad aver riorganizzato le norme sulla
competenza, ha introdotto importanti novità in ordine al suo regime.

La competenza territoriale inderogabile:


L’art. 13 CPA dispone che sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di PA
è inderogabilmente competente il TAR nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede.
Il TAR è, comunque, inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti,
accordi o comportamenti di PA i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il
tribunale ha sede.

Il d.lgs. 104/2010 ha, pertanto, chiarito, con riguardo alla competenza per territorio, che:
- il criterio ordinario è quello della sede della PA cui fa capo l’esercizio del potere oggetto della
controversia: è infatti competente il TAR nella cui circoscrizione essa ha sede;
- il secondo criterio indicato è quello che considera gli effetti diretti che si sono prodotti: in tal caso
la competenza è del TAR nella cui circoscrizione tali effetti si verificano. Tale principio generale
spiega la previsione per cui quando gli effetti sono limitati al territorio di una regione, la
controversia sarà conosciuta dal TAR che ha sede nella stessa.

Resta fermo poi il principio per cui, per le controversie riguardanti pubblici dipendenti, è inderogabilmente
competente il TAR nella cui circoscrizione è situata la sede di servizio.

Se si tratta di atti di soggetti pubblici, diversi dalle amministrazioni dello Stato, che abbiano efficacia
ultraregionale: sarà territorialmente competente il TAR nella cui circoscrizione ha sede il soggetto pubblico.
Per gli atti delle amministrazioni dello Stato che abbiano efficacia ultraregionale: la competenza
territoriale, indipendentemente dalla sede dell’amministrazione agente, spetta al TAR del Lazio, sede di
Roma.

Inoltre, il comma 4 dell’art. 13, stabilisce che l’inderogabilità della competenza sia funzionale che
funzionale, del TAR si estende anche in ordine alle misure cautelari. Tale previsione si traduce:
a) nella necessità che la questione della competenza sia decisa con priorità dal giudice adito;
b) nell’impossibilità per il GA di pronunciarsi sulla domanda cautelare, eventualmente proposta,
qualora ritenga di non essere competente a decidere la causa nel merito.

Art. 47 comma 1: non è considerata questione di competenza la ripartizione delle controversie tra TAR con sede nel
capoluogo e sezione staccata (salve le ipotesi di competenza funzionale art. 14).
- Le questioni in esame, ove non concernano ipotesi di competenza funzionale, sono risolte dal Presidente del
tribunale con ordinanza motivata non impugnabile; non trova applicazione la disciplina dell’art. 15
(regolamento di competenza) ad eccezione dei commi 8 e 9 nel caso siano state disposte misure cautelari.
- Ove tali questioni concernano ipotesi di competenza funzionale, troverà applicazione la disciplina dell’art. 15
(e dell’art. 16, sembrerebbe).

Lo spostamento della competenza territoriale per ragioni di connessione:


Con il d.lgs. 160/2012 il legislatore ha inserito, nell’art. 13 CPA, il comma 4bis che introduce un principio di
rilevanza pratica teso a risolvere una specifica ipotesi in cui sia particolarmente problematica l’esatta
individuazione del tribunale territorialmente competente a conoscere una vicenda: si tratta del caso in cui,
in ordine a una stessa fattispecie, sussista la competenza di due tribunali diversi, uno in relazione al
provvedimento principale e un altro con riferimento agli atti presupposti allo stesso provvedimento.
Tale comma si risolve nella definizione di un nuovo criterio di individuazione della competenza territoriale
inderogabile del TAR.

35
à
essere instaurato dinanzi al giudice competente a giudicare il provvedimento da cui deriva l’interesse a
ricorrere.

Nella realtà delle controversie, l’atto amministrativo impugnato non si presenta sempre isolato, ma
variamente collegato con altri atti, sia precedenti che successivi, sia della stessa che di altre autorità.

a) Potrebbe quindi accadere che il ricorso proposto avverso uno o più atti amministrativi risulti in
tutto o in parte coincidente con altro ricorso già pendente davanti ad un altro G.A.: CONNESSIONE
SOGGETTIVA.
(!) Continua a mancare nel CPA una disposizione che preveda la confluenza in un’unica sede delle
liti oggettivamente connesse, in deroga ai criteri generali e speciali.
→ La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di poter superare il silenzio normativo in un’unica
ipotesi riconoscendo, ove il gravame impugnatorio investa allo stesso tempo l’atto presupposto e
l’atto applicativo, la competenza del giudice dell’atto presupposto.

b) Il CPA non dice nulla nemmeno per i casi di LITISPENDENZA.


Giurisprudenza: può comunque applicarsi in via analogica il disposto dell’art. 39 comma 1 c.p.c. che
adotta il criterio della prevenzione (è competente il giudice adito per primo). Se in sede di
trattazione di un ricorso risulta che il ricorrente ha già proposto contro lo stesso provvedimento
altro ricorso pendente davanti a un diverso TAR, il giudice adito per secondo deve dichiarare la
litispendenza e disporre con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo.
Si ha litispendenza quando si verifichi la contemporanea pendenza di più processi relativi alla stessa
causa (eadem res, eadem persona, uguale petitum e uguale causa petendi) davanti a giudici diversi
(se sono proposti davanti allo stesso giudice: art. 273 comma 1 c.p.c. – riunione di cause).

c) CONTINENZA DI CAUSE: = rapporto tra due azioni, una delle quali più ampia, contiene in sé l’altra,
essendo identici i soggetti e la causa petendi e con il solo petitum differente (in una di esse il
petitum è maggiore e comprende in sé quello dell’altra).
In giurisprudenza si è ritenuto non ipotizzabile, data l’intrinseca differenza di ciascun atto
amministrativo da ogni altro, che oggetto di un giudizio amministrativo possa essere ricompreso in
un altro indirizzato contro un atto diverso. Questa conclusione, però, vale solo per i giudizi di
annullamento di atti e non per gli altri giudizi o pretese che in sede di giurisdizione piena o esclusiva
possono essere dedotti davanti al G.A.

COMPETENZA FUNZIONALE
Si caratterizza per due elementi:
1) questa competenza, ascritta ex lege in capo a un determinato TAR e in relazione a determinate
controversie, era assolutamente inderogabile dalle parti. → elemento necessario
2) la competenza funzionale poteva e può essere ascritta in capo un TAR diverso rispetto a quello
ordinariamente competente in base a criteri che determinano la competenza territoriale. →
elemento eventuale
es. d.l. 245/2005: competenza funzionale del TAR del Lazio, sede di Roma, a conoscere della legittimità delle ordinanze
adottate e dei consequenziali provvedimenti commissariali, anche qualora i ricorsi sarebbero attratti alla competenza
territoriali di altri TAR.

Molto spesso invece, il TAR individuato dalla legge come funzionalmente competente coincideva anche con
quello già territorialmente competente.
Nel nuovo sistema delle competenze realizzato dal CPA, la competenza funzionale finisce per distinguersi
dall’ordinaria competenza territoriale solo nei casi in cui il TAR individuato dalla legge come funzionalmente
competente risulta (al contempo) diverso da quello che sarebbe territorialmente competente ex art. 13.

36
→ La ragione che induce il legislatore a prevedere ipotesi di competenza funzionale risiede nell’esigenza
che determinate tipologie di controversie, afferenti a particolari materie, risultino affrontate e risolte, già in
primo grado, da una stessa (e quindi uniforme) giurisprudenza amministrativa.

L’art. 14 CPA prevede sei ipotesi di competenza funzionale:


1) comma 2: TAR Lombardia, sede Milano – tutte le controversie relative ai poteri esercitati
dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas;
2) comma 1: TAR Lazio, sede Roma – controversie elencate all’art. 135 e tutte le altre relativamente
alle quali “la legge” preveda la competenza funzionale di questo stesso TAR;
3) comma 3: è funzionalmente inderogabile la competenza per i giudizi di cui all’art. 113 che disciplina
il Giudice dell’ottemperanza. Valgono le seguenti regole:
o ricorso deve essere proposto dinanzi allo stesso G.A. che ha emesso il provvedimento della
cui ottemperanza si tratta, quando con esso si voglia conseguire l’attuazione delle sentenze
passate in giudicato nonché delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi;
o deroga: la competenza dello stesso TAR anche per l’attuazione dei suoi provvedimenti
confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto0 dispositivo e
conformativo dei provvedimenti di primo grado.
o laddove, attraverso il giudizio di ottemperanza, si voglia conseguire l’attuazione di: a)
sentenze passate in giudicato del G.O., b) sentenze passate in giudicato per i quali non sia
previsto il rimedio dell’ottemperanza, c) lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili:
ricorso deve essere proposto al TAR nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha
emesso la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza.

4) comma 3: è funzionalmente inderogabile la competenza per i giudizi di cui all’art. 119 CPA.
Disposizione è poco comprensibile: l’art. 119, che disciplina il rito abbreviato comune a determinate
materie, non prevede alcuna indicazione circa la competenza di determinati TAR; lo stesso per l’art.
120 cui fa riferimento. In questi casi non può che farsi ricorso agli ordinari criteri dell’art. 13.

5) comma 3: la competenza è funzionalmente inderogabile per ogni altro giudizio per il quale la legge
o il presente codice individuino il giudice competente con criteri diversi da quelli dell’art. 13.
Artt. 42 comma 4 e art. 130 dettano disposizioni particolari concernenti la competenza dei TAR in
riferimento, rispettivamente a:
o rapporti tra ricorso principale e incidentale: la cognizione del ricorso incidentale è attribuita
al giudice competente per quello principale, salvo che la domanda introdotta con il ricorso
incidentale sia devoluta alla competenza del TAR del Lazio (sede Roma) ovvero alla
competenza di un TAR ai sensi dell’art. 14.
o ricorsi elettorali: controversie concernenti le elezioni di comuni, province e regioni -
competenza del TAR nella cui circoscrizione hanno sede tali enti territoriali; controversie
concernenti le elezioni ai membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia – competenza
funzionale del TAR del Lazio sede Roma.

Il rilievo dell’incompetenza:
L’art. 15 CPA, nella nuova formulazione voluta dal legislatore del d.lgs. 160/2012, disciplina la tempistica e
le conseguenze del rilievo dell’incompetenza, rendendo più veloce e snello il relativo regime mediante la
previsione di un limite temporale per l’eccezione di incompetenza sollevata dalle parti, di un’udienza filtro,
dell’abolizione del regolamento preventivo di competenza, sia su istanza di parte che d’ufficio.

Innanzitutto viene stabilito che il difetto di competenza è rilevato in primo grado anche d’ufficio.

Quanto alla tempistica, è stabilito che:


a) Nei giudizi di primo grado il difetto di competenza può essere rilevato d’ufficio finchè la causa non
è decisa, ovvero, in mancanza di domanda cautelare può essere eccepito dalla parte entro il
termine per la costituzione in giudizio.

37
In quest’ultimo caso, il Presidente fissa la camera di consiglio per una pronuncia immediata sulla
sollevata questione di competenza, secondo le regole fissate dall’art. 87 comma 3 CPA (termini
processuali dimezzati, fissazione dell’udienza alla prima utile trascorsi 30 gg dalla scadenza del
termine di costituzione delle parti intimate, audizione dei difensori che ne fanno richiesta).
Se è proposta istanza cautelare, in ogni caso il giudice ha l’obbligo di decidere sulla competenza
prima di provvedere sulla domanda cautelare e nell’ipotesi in cui riconosca di non avere, in ordine
alla fattispecie sottoposta al suo esame, competenza – né territoriale né funzionale – non può
decidere sull’istanza.
b) Nei giudizi di impugnazione il difetto di competenza è rilevato se dedotto con specifico motivo
avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo esplicito o implicito, ha statuito sulla
competenza (proponibilità con particolare motivo di appello).

Come osservato dalla dottrina la soluzione accolta dal legislatore non è esente da critiche. Se lo scopo delle nuove norme sulla
competenza è quello di evitare che il difetto del giudice venga rilevato, come poteva avvenire secondo la disciplina
precedente, anche a conclusione del giudizio di merito, tale rischio non sembra essere stato dissipato dall’intervengo
legislativo del 2012. Infatti, il meccanismo dell’eccezione di incompetenza entro il termine per la costituzione in giudizio e della
conseguente udienza filtro rischia di tradursi in un aggravio di procedura che non è compensato da uno snellimento effettivo:
infatti, se dopo il termine di costituzione in giudizio è preclusa l’eccezione di parte, resta però fermo, fino alla decisione di
primo grado, il potere del giudice di rilevare d’ufficio l’incompetenza. E nulla impedisce alla parte decaduta dall’eccezione di
poter, fino a udienza di discussione del merito, sollecitare l’esercizio del potere ufficioso del giudice di rilievo
dell’incompetenza. Pertanto in difetto di udienza cautelare o di eccezione di parte, resta in piedi l’inconveniente lamentato nel
regime precedente, di una decisione definitiva che a distanza di anni dichiara l’incompetenza del giudice adito.

Il giudice, quando decide preliminarmente la propria competenza (in sede cautelare o all’esito
dell’eccezione di parte), provvede con ordinanza: se si riconosce incompetente deve contestualmente
indicare il giudice che ritiene competente a decidere la controversia.
In tal caso, se la causa è riassunta dinanzi al giudice indicato, nel termine di 30 gg dalla comunicazione
dell’ordinanza, il processo prosegue dinanzi a quest’ultimo. Tendenzialmente, la riassunzione preclude alla
parte che l’ha effettuata qualsiasi ulteriore contestazione della competenza, e quindi anche la proposizione
del regolamento di competenza.

Per quanto riguarda il regime di impugnazione dell’ordinanza del giudice, si devono distinguere due ipotesi:
a) l’ordinanza che pronuncia sulla competenza senza decidere la domanda cautelare: è impugnabile
esclusivamente con il regolamento di competenza. Se il giudice dinanzi al quale la causa è riassunta
ritiene a sua volta di essere incompetente, richiede d’ufficio il regolamento di competenza;
b) l’ordinanza che pronuncia sulla competenza e sulla domanda cautelare: può essere impugnata
con il regolamento di competenza oppure nei modi ordinari (appello cautelare) quando insieme
con la pronuncia sulla competenza si impugna quella sulla domanda cautelare.

La norma si chiude con le previsioni: che i provvedimenti cautelari pronunciati dal giudice dichiarato
incompetente perdono efficacia alla scadenza del termine di 30 gg dalla data di pubblicazione
dell’ordinanza che regola la competenza; la domanda cautelare può essere riproposta al giudice dichiarato
competente.

Il regolamento di competenza:
Il legislatore del secondo correttivo ha modificato anche la disciplina del regolamento di competenza, oggi
contenuta nell’art. 16 CPA, abrogando la precedente possibilità di esperirlo in via preventiva per individuare
il giudice competente a decidere una controversia.
- Il regolamento di competenza è proposto con istanza notificata alle altre parti nel termine,
perentorio e non soggetto a dimezzamento, di 30 gg dalla notificazione ovvero 60 gg dalla
pubblicazione dell’ordinanza che pronuncia sulla competenza ed è depositato, unitamente a copia
degli atti utili al fine del decidere, entro il termine di cui all’art. 45 ridotto a metà presso la
segreteria del Consiglio di Stato.

38
- Nel caso di regolamento richiesto d’ufficio dal giudice indicato come competente dal giudice
originariamente adito, l’ordinanza è immediatamente trasmessa al Consiglio di Stato a cura della
segreteria e comunicata alle parti.
- Il Consiglio di stato decide con ordinanza in camera di consiglio, previo avviso della fissazione della
stessa, inviato almeno 10 gg prima ai difensori che si siano costituiti.
- La pronuncia sulla competenza resa dal Consiglio di Stato, in sede di regolamento o di appello,
vincola i TAR. Se viene indicato come competente un TAR diverso da quello adito, il giudizio deve
essere riassunto nel termine perentorio di 30 gg dalla notificazione dell’ordinanza che pronuncia
sul regolamento, ovvero entro 60 gg dalla sua pubblicazione.

CARATTERI GENERALI DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO


IL MODELLO PROCESSUALE
Processo = iter sequenziale nel quale si svolge l'operazione logica del giudizio.
Giudizio = operazione logica consistente nella soluzione della controversia.
Il processo può avere struttura e funzioni diverse ma è sempre una sequenza di atti disciplinati in modo più
o meno rigoroso nelle forme nei termini.

Ogni processo serve a rendere giustizia, ma per arrivare a questo si possono seguire due strade:
- costruire il processo come semplice applicazione della legge (processo di diritto oggettivo, come il
processo penale);
- o dare tutela alle situazioni giuridiche soggettive coinvolte (processo di diritto soggettivo, come il
processo civile).

Il processo amministrativo, in conformità dell’art. 24 comma 1 Cost., risponde all’archetipo del processo di
diritto soggettivo, in quanto è finalizzato a tutelare le situazioni soggettive che il cittadino vanta nei
confronti della p.a.: in linea generale interessi legittimi, in particolari materie anche diritti soggettivi.
- È un processo di parti: queste, e non il giudice, hanno il potere di dare inizio, farlo proseguire ed
eventualmente terminare senza che la controversia sia decisa. Quando non sono coinvolti interessi
generali (indisponibili), esso comporta che le parti abbiano la piena disponibilità del processo: esse
possono condurlo secondo i propri interessi.
- È un processo dispositivo: come configurato dal CPA. Prima si parlava di “sistema dispositivo con
metodo acquisitivo”, poiché il modello processuale presentava qualche deviazione in tema di
acquisizione e valutazione delle prove.

Posizione e poteri delle parti


Il processo amministrativo, come processo di parti, è caratterizzato da una peculiare distribuzione dei
poteri tra giudice e parti: lascia al giudice la decisione della controversia e la direzione del processo,
attribuisce alle parti l’intera (o quasi) iniziativa processuale.
Il modello processuale è caratterizzato dai seguenti principi o regole fondamentali:
1) Principio della domanda: si tratta di un principio generale, che riguarda cioè qualsiasi modello
processuale. Nel processo dispositivo significa che: non solo il giudice non può attivarsi ed aprire il
processo senza una domanda di parte, ma egli è tenuto a dimensionare il giudizio esattamente sulla
domanda di parte, nel senso che deve pronunciarsi su tutte e solamente sulle domande di parte.
Il ricorrente (attore) con la domanda esercita il proprio potere d’azione e determina l’oggetto della
decisione del giudice. L’oggetto può essere ampliato ma solo su iniziativa di parte, mai dal giudice.
È pertanto la parte che, nel giudizio riguardante la legittimità di un provvedimento amministrativo,
rappresenta attraverso i motivi del ricorso, i vizi di legittimità su cui il giudice deve pronunciarsi. Egli
non può, di sua iniziative, prendere in considerazione vizi diversi da quelli prospettati dalla parte.

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2) Principio dell’impulso di parte: il processo inizia e persegue soltanto se una delle parti adotta
appositi atti di impulso.
A prescindere dalla domanda iniziale (ricorso), occorre un atto di fissazione per ogni udienza, così
come un atto di richiesta per ogni operazione istruttoria che il giudice debba compiere.
Solo per l’istruzione probatoria sussiste un potere del giudice non condizionato dalla richiesta di
parte; ed è ciò che determinava il c.d. carattere (o metodo) acquisitivo del processo amministrativo.
Nella prassi il giudice esercita tale potere in casi assolutamente eccezionali: si r sisi itiene solo se le
parti senza colpa non siano riuscite a raggiungere la piena prova dei fatti allegati.
(Sembra eccessivo: sarebbe più semplice che il ricorso iniziale avesse anche il significato di
domanda di fissazione di udienza e che non fosse necessario ripetere atti di impulso ogni volta che
l’udienza sia stata celebrata o un’attività istruttoria celebrata).

3) Principio della disponibilità del processo: il processo amministrativo non termina necessariamente
con la formulazione del giudizio e l’emanazione della sentenza; può terminare per: ragioni obiettive
(cessazione della materia del contendere; difetto sopravvenuto di interesse) o per atti (rinuncia) e
inerzia (perenzione) delle parti.
- Il ricorrente può rinunciare al ricorso in ogni fase e grado del processo, perfino in grado di
appello e dopo aver ottenuto una sentenza di primo grado favorevole. A differenza di
quanto avviene nel processo civile, la rinuncia non ha bisogno di essere accettata dalle
controparti; è sufficiente che venga loro notificata e che esse non si oppongano.
- Anche la perenzione (estinzione del processo per inattività delle parti protratta per un
anno, di norma) si fonda sul carattere dispositivo del processo: il mancato compimento di
atti di procedura non solo non fa avanzare il processo ma a lungo andare lo estingue.

4) Principio di non contestazione: è il principio per il quale il giudice è tenuto a prendere in esame e
decidere solo le questioni effettivamente controverse. La materia del contendere (thema
decidendum) è solo quella in cui vi è contestazione.
Corollario: dovere del giudice di ritenere necessaria la prova (thema probandum) per i fatti non
espressamente contestati.
Tale principio comporta l’onere di contestazione : la parte che intende far decidere dal giudice una
qualsiasi affermazione delle altre parti deve contestarne la fondatezza.

Posizione e poteri del giudice


Il giudice ha il compito di formulare il giudizio, e di dirigere il processo.
- Adotta, su istanza di parte, i decreti di fissazione delle udienze;
- Adotta, anche d’ufficio, le ordinanze istruttorie e di integrazione del contraddittorio, i decreti di
presa d’atto della rinuncia, della cessazione della materia del contendere, della estinzione del
processo e della maturazione perenzione;
- Pronuncia eventualmente la sospensione e l’interruzione del processo;
- Adotta i decreti e le ordinanze cautelari e, in caso di controversie concernenti diritti soggettivi
patrimoniali, anche decreti ingiuntivi;
- Pronuncia sentenze di merito e di rito, di cui agli artt. 34 e 35 CPA.

Principi:
1) Principio di collegialità: i poteri di direzione del processo spettano, salve ipotesi espressamente
indicate dalla legge, al collegio giudicante. Non è prevista la figura del giudice istruttore né una fase
istruttoria.
Questo principio si è andato nel tempo affievolendo: dopo l’istituzione dei TAR (1971), gli “incombenti istruttori”
possono essere disposti, oltre che dal collegio, anche dal presidente o da un magistrato delegato, salva la
verificazione e la consulenza tecnica. Con la riforma del 2000 e il CPA la rinuncia al ricorso, la cessazione della
materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione sono pronunciate con decreto del presidente o di
un magistrato da lui delegato. In casi di estrema gravità e urgenza il presidente può, con proprio decreto, disporre
misure cautelari provvisorie, anche ante causam, che sono efficaci sino alla pronuncia del collegio.

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2) Il dato che caratterizzava il processo amministrativo, sotto il profilo dei poteri del giudice, è il c.d.
metodo (o principio) acquisitivo: al giudice viene riconosciuto il potere , non solo di valutare, ma
anche di acquisire le prove, prescindendo dalla iniziativa di parte.
Il CPA ha mantenuto i poteri istruttori d’ufficio del giudice, ma ha affermato il principio dell’onere
della prova: la parte attrice deve provare i fatti che costituiscono fondamento della sua pretesa,
parte convenuta deve provare i fatti sui quali fonda le sue eccezioni. Il giudice può intervenire
d’ufficio soltanto se le parti non sono in grado, senza loro colpa, di raggiungere la prova piena.
Il potere acquisitivo del giudice è strumentale al completamento della prova dei fatti allegati da
ciascuna delle parti: si giustifica perché la prova è talvolta nella disponibilità della sola parte
pubblica.
Nella prassi il metodo acquisitivo è stato delimitato: il giudice ritiene di non utilizzarlo allorché la
prova può essere considerata nella disponibilità della parte che se ne può giovare (es. eccezione di
tardività del ricorso).
Il principio dell’onere della prova costituisce anche la cd. regola del giudizio, che il giudice deve
seguire in caso in cui non sia stata raggiunta la piena prova dei fatti allegati dalle parti. Prima del
CPA si faceva riferimento al principio di libero convincimento del giudice. Questo orientamento non
può essere condiviso perché rischia di compromettere la posizione di terzietà e imparzialità del
giudice. Esso è stato sostituito dalla regola del prudente apprezzamento, in piena corrispondenza
con la regola vigente nel processo civile.
Il G.A. ha il potere di acquisire le prove, ponendo la loro esibizione o formazione a carico della parte
che ne abbia la disponibilità; ha il potere di valutare le prove acquisite al giudizio; nei casi dubbi
deve applicare la regola di giudizio dell’onere della prova.
L’onere della prova comporta due regole: una istruttoria (attiene all’allegazione e prova dei fatti),
una decisoria (attiene al modo di elaborare il giudizio nel caso in cui i fatti allegati siano rimasti non
pienamente provati).

L’oggetto del processo in generale


Il processo nasce come giudizio di impugnazione di atti amministrativi. Esso risponde a un tipo di tutela
reattiva, che presuppone che l'amministrazione abbia posto in essere comportamenti che colui che si
rivolge al giudice ritiene lesivi delle sue situazioni giuridiche soggettive.
Essendo un processo di impugnazione, il processo amministrativo o di solito essere instaurato solo dopo
che un provvedimento sia stato adottato: riguarda la conformità del provvedimento impugnato alle norme
che lo disciplinano; si conclude, se il ricorso è accolto, con l’annullamento del provvedimento. Quest’ultimo
riveste dunque il ruolo il presupposto processuale, di oggetto della cognizione del giudice e di oggetto della
decisione.
Secondo la tesi maggioritaria: il processo amministrativo ha come oggetto l’atto amministrativo impugnato.
Secondo altre tesi minoritarie: pretesa processuale del ricorrente, potere di provocare l’annullamento
dell’atto, rapporto amministrativo.

La stessa nozione di oggetto del processo è assai controversa.


6) Oggetto del processo non può essere altro che l’operazione logica del giudizio;
7) Oggetto del giudizio è la controversia la controversia, che si articola attorno all’affermazione
processuale del ricorrente, in quanto contestata dalle affermazioni delle parti convenute;
8) Oggetto della controversia è una o più questioni di diritto sostanziale, ossia la diversa
rappresentazione, in fatto e in diritto, di una situazione oggettiva sostanziale che coinvolge gli
interessi delle parti. Tale situazione sostanziale è la res in iudicium deducta: la questione dedotta in
giudizio, su cui il giudice deve pronunciarsi.
Risulta evidente che la materia del contendere (insieme delle questioni che il giudice deve decidere
per poter affrontare la questione principale) può assumere molto ampia: si articola in questioni
pregiudiziali di rito, questioni preliminari di merito, questione principale di merito.
La dottrina è divisa:
o secondo alcuni accanto all’oggetto sostanziale andrebbe collocato l’oggetto processuale del
processo (fondatezza e ammissibilità della domanda);

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o secondo altri – opinione preferibile – non esisterebbe un oggetto processuale unitario né
sarebbe configurabile una decisione sulla questione dell’ammissibilità della domanda, salva la
formazione del giudicato (anche implicito).
Ove si ritenga che la nozione di oggetto del processo risponda all’esigenza di chiarire in che modo il
diritto sostanziale si renda nel processo, tale nozione non può che essere ridimensionata sulla
questione principale di merito introdotta nel processo: oggetto del processo corrisponde alla res in
iudicium deducta.

L’oggetto del processo amministrativo


Il problema che si pone per il processo è l’individuazione del suo oggetto tipico. Si tratta di stabilire se:
- è limitato al provvedimento impugnato (più esattamente alla questione concernente la sua
legittimità),
- ovvero se esso si estenda a questioni collegate ma non coincidenti con la questione di legittimità
dell’atto impugnato, e tuttavia riguardanti la tutela delle situazioni soggettive di cui sono titolari le
parti processuali. → Giudizio sul rapporto

La dottrina tradizionale si è schierata sulla prima posizione, la quale appare piuttosto limitativa. D’altra
parte non si può ritenere l’oggetto del giudizio esteso oltre l’atto solo perché le questioni di legittimità
sollevabili possono riguardare i presupposti e il procedimento di formazione del provvedimento: tali
questioni infatti vengono proposte e decise alla stregua di questioni di legittimità del provvedimento.
Viceversa, ciò che fuoriesce dalla questione di legittimità dell’atto impugnato è il cd. contenuto
conformativo della sentenza, cioè la parte del giudizio e della motivazione della sentenza con la quale il
giudice traccia la via che l’amministrazione deve seguire nell’adozione degli “ulteriori provvedimenti”
necessari per riempire il vuoto provocato dall’annullamento.
Ci sono poi ipotesi in cui il processo amministrativo non riguarda atti amministrativi ma semplici
comportamenti: es. processo sul silenzio, o in tema di accesso ai documenti.
Recentemente si è aggiunta una nuova ipotesi di giudizio in assenza di provvedimento: processo avente ad
oggetto la s.c.i.a. – considerata come atto del privato dichiarante e non come provvedimento dell’autorità.
è alcun provvedimento quale oggetto del processo, il qu ale assicura la tutela di SGS
le quali non possono restare estranee all’oggetto del processo.

 L’oggetto del giudizio amministrativo è il potere amministrativo (inteso come situazione giuridica
soggettiva) o, più esattamente, la legittimità degli atti (e dei comportamenti) che ne costituiscono
esercizio, in funzione della tutela dell’interesse legittimo (o eventualmente diritto soggettivo) della/e
parte/i privata/e. E’ il rapporto amministrativo, nei limiti della domanda giudiziale.
Con ciò è evidente che il rapporto amministrativo non può essere dedotto in giudizio nella sua
integralità; l’oggetto del giudizio si riferisce ai profili di legittimità del provvedimento che definisce il
procedimento i quali siano stati dedotti con l’atto introduttivo del processo.
L’oggetto del giudizio è definito dalla parte ricorrente e non può essere modificato dalle parti
convenute se non attraverso un apposito ricorso incidentale proponibile da parte dei controinteressati.

Caratteri del processo


Il processo amministrativo ha una struttura molto semplice: si risolve ordinariamente in un’unica udienza
pubblica di discussione orale sulla materia del contendere.
Manca una fase dedicata all’istruzione: si passa dalla fase introduttiva alla fase decisoria. In particolare,
manca l’istruzione probatoria: l’acquisizione delle prove avviene su iniziativa di parte, anche a seguito di
ordinanza del giudice, che può essere adottata anche fuori udienza.
Ciò non significa che non c’è un’istruttoria: nell’affrontare la decisione il giudice deve seguire un preciso
ordine logico, fissato dall’art. 276 c.p.c. – “decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle
parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa”.
Il giudizio può essere definito, ex art. 279, con decisione:
1) sulle questioni di giurisdizione e competenza;

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2) sulle questioni pregiudiziali attinenti al processo o sulle questioni preliminari di merito;
3) sul merito della controversia.
Da ciò si ricava che la decisione sul merito implica necessariamente, anche in forma implicita, una decisione
sulla giurisdizione, sulla competenza, sulle pregiudiziali processuali e sulle preliminari di merito.

I PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO


Con legge cost. n. 2/1999 è stato modificato l’art. 111 Cost.: al vecchio testo sono stati premessi cinque
commi, e nel primo di essi è stata inserita l’espressione ”giusto processo”.
9) Comma 1: la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
È una riserva qualificata di legge, nel senso che:
a) può essere stabilita con fonti di livello legislativo, e precisamente con leggi statali, e non
può essere contenuta in fonti di livello diverso;
b) la disciplina legislativa deve modellare il processo secondo i principi del giusto processo,
che sono enunciati dal comma 2 dell’art. 111 e altri artt. della Cost. (24, 25, 101 ss.).
Per il processo amministrativo la riserva di legge è pienamente rispettata solo a seguito
dell’approvazione del CPA.

10) Comma 2: ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a
un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
I principi del giusto processo ricavabili dalla Cost. possono essere distinti in:
a) principi strutturali, attinenti al processo in quanto tale
→ principio di precostituzione (art. 25), indipendenza (art. 108), terzietà e imparzialità,
contraddittorio paritario, necessaria motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (art.
111).
b) principi funzionali, riguardanti il processo come strumento di tutela giurisdizionale
→ principio della generalità della tutela giurisdizionale e dell’inviolabilità del diritto di
difesa (art. 24), pienezza della tutela (art. 113), tempestività della tutela (art. 111).

Il “giusto processo” comporta che ogni modello concreto di processo configuri un equilibrio razionale tra
garanzie di equità e garanzie di efficienza.

I principi riguardanti il giudice


I principi strutturali si risolvono in garanzie di equità nell’esame e nella soluzione delle controversie.
Attengono da un lato alla posizione e alla qualità del giudice e dall’altro alla posizione e ai poteri delle parti.

1) Principio del giudice naturale precostituito per legge:


può ritenersi completamente attuato. Non violano il principio i numerosi casi in cui, in deroga alle
ordinarie regole sulla competenza territoriale dei TAR, la competenza è attribuita in via esclusiva al
TAR del Lazio. La distribuzione delle controversie tra le Sezioni di uno stesso TAR o tra le Sezioni
giurisdizionali del Consiglio di Stato risponde a criteri precostituiti; anche se può dubitarsi che il
principio del giudice naturale possa estendersi fino a influire sulla ripartizione del lavoro all’interno
di un organo giurisdizionale strutturalmente complesso.

2) Principio di indipendenza:
riguarda il giudice inteso come organo giudicante, e comporta che esso debba essere posto al
riparo da influenze estranee, soprattutto da influenze di altri poteri pubblici.
In attuazione del principio di indipendenza, i G.A. sono in regime di autogoverno: la loro scelta, la
nomina, la carriera, i trasferimenti, le autorizzazioni allo svolgimento di attività extra-giurisdizionali,
sono funzioni gestite dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (organo
corrispondente per composizione e funzioni al CSM).

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Lo status di magistrato amministrativo è sostanzialmente corrispondente, quanto a garanzie di
indipendenza, allo status del magistrato ordinario (stabilità, inamovibilità, intrasferibilità).

3) Principi di terzietà e imparzialità:


riguardano direttamente il giudice come persona: deve essere terzo (cioè equidistante rispetto alle
parti) e imparziale nella decisione della controversia (cioè equidistante rispetto agli interessi
coinvolti nel giudizio).
Secondo la Corte Cost. essi vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio
delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni
comportamento.
Con legge è stato approvato doppio elenco di comportamenti che i magistrati sono tenuti a evitare
nell’esercizio e fuori dell’esercizio delle loro funzioni (es. partecipazione sistematica e continuativa
a partiti politici).
Nei confronti dei magistrati amministrativi si pone un problema particolare: come ogni cittadino
hanno spesso necessità di rivolgersi alle amministrazioni pubbliche, e nel tempo può succedere che
si stabiliscano rapporti di consonanza (o dissonanza) che possono influire sulla terzietà del giudice.
Per questa ragione è stato proposto un limite di durata della permanenza dei magistrati
amministrativi nella stessa sede e con le stesse funzioni.
Il principio di terzietà rispetto alle parti deve influire sui poteri attribuiti al giudice. Si può ritenere
che mentre i poteri di direzione possono essere lasciati alla discrezionalità del giudice, i poteri di
giudizio è opportuno che vengano disciplinati dalla legge in modo per quanto possibile incisivo.
Al principio di terzietà può essere rapportato anche il principio della domanda, che si fonda sulla
distinzione tra chi propone la controversia e chi la decide. Contrasta con tale principio l’azione
iniziata d’ufficio, che si ha, ad es., in materia di usi civici.

In relazione al principio di imparzialità è stato più volte affrontato dalla Corte Cost., con riferimento al
processo penale, il problema della forza della prevenzione: un giudice persona fisica che si sia occupato una
volta di una controversia non può occuparsene una seconda volta, in altro grado o fase del suo stesso
processo, perché potrebbe essere influenzato dal suo precedente orientamento.
La soluzione dell'astensione e della ricusazione, adottate nel processo civile, possono essere accolte anche
per quello amministrativo.
La forza della prevenzione può avere peso effettivo quando lo stesso magistrato si deve pronunciare
esattamente il suo stesso oggetto, e ciò si verifica: tra primo e secondo grado (se magistrato è trasferito dal
TAR al Consiglio di Stato), tra processo ordinario processo di rievocazione, tra processo ordinario e giudizio
di rinvio, tra processo ordinario e opposizione di terzo.
Fino all’entrata in vigore del CPA non era ritenuto applicabile l’art. 52 c.p.c. per cui, in presenza di
un’istanza di ricusazione, il giudizio principale non veniva sospeso e il giudice ricusato poteva partecipare al
collegio che decideva sulla ricusazione. Questa prassi è stata superata dall’art. 18 CPA, secondo il quale
sull’istanza di ricusazione decide il collegio “previa sostituzione del magistrato ricusato”.

Il principio di imparzialità è canone essenziale del giusto processo riferibile al giudice: l’indipendenza e la
terzietà non sono altro che presidi dell’imparzialità.
Riguarda il giudice anche il dovere di motivare tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111 comma 6 Cost.,
art. 2 CPA). Questa regola è rimasta a lungo inosservata dal G.A. per quanto riguarda le ordinanze cautelari,
ma questa prassi è ormai da tempo superata. Anche le sentenze in forma semplificata devono contenere la
motivazione che può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto di diritto ritenuto risolutivo o ad
un precedente conforme.

Principi riguardanti le parti


Valore fondamentale ha il principio del contraddittorio e il suo complemento essenziale della parità delle
armi: ciascuna parte deve disporre di strumenti equivalenti per determinare il convincimento del giudice e,
di conseguenza, il contenuto della decisione.

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- Nel diritto sostanziale amministrativo i soggetti non hanno posizioni paritarie: i soggetti
pubblici sono titolari di poteri e i soggetti privati di interessi legittimi. C’è un notevole squilibrio
che non può in alcun modo riflettersi sul piano processuale: la parte pubblica non può che
avere posizione e poteri del tutto equivalenti a quelli delle parti private.
- Nella disciplina processuale il principio viene assicurato dalla sequenza: ricorso – controricorso
– memorie scritte – repliche – discussione orale.

una decisione “giusta”. E’ chiaro che nel processo dispositivo non è necessario che il confronto dialettico tra
le parti si realizzi effettivamente, essendo sufficiente che sia assicurata a ciascuna delle parti l’effettiva
possibilità di parteciparvi.

Il contraddittorio, per essere tale, deve rispondere a due requisiti:


Completezza: deve estendersi a tutti i soggetti interessati alla controversia;
Sotto questo profilo il processo amministrativo mostra qualche smagliatura: il ricorso deve essere notificato,
a pena di inammissibilità, soltanto a uno dei controinteressati. Questa regola non può che comportare che
alcune parti necessarie del giudizio non partecipino a tutte le fasi del processo. Cosicché l’integrazione del
contraddittorio deve essere disposta dal giudice tempestivamente; anche, se necessario, prima della
decisione sull’istanza cautelare.
Continuità: deve riguardare ogni fase del processo.
Il contraddittorio deve essere integro per l’intera durata del processo: deve consentire che la dialettica tra le
parti sia organizzata razionalmente e che “il dialogo” con il giudice sia continuo. Anche per la procedibilità
delle istanze cautelari deve essersi perfezionata la notificazione del ricorso ai destinatari.

Il contraddittorio deve sussistere sia nella fase istruttoria, sia nella formazione del convincimento del
giudice. Nessuna decisione del giudice può essere adottata senza che le parti abbiano avuto modo di
pronunciarsi preventivamente sulla questione da decidere.
- Sul piano istruttorio: il G.A. ha il potere di acquisire d’ufficio le prove, ma è necessario che
l’ordinanza di acquisizione sia preceduta dalla possibilità di dibattito sulla rilevanza o sulla
superfluità delle prove da acquisire.
- Quanto alla formazione del convincimento del giudice: il rispetto del principio del contraddittorio
comporta importanti conseguenze.
questioni rilevabili d’ufficio: la giurisprudenza ha riconosciuto che, in un modello processuale
fondato sul principio del contraddittorio, la rilevabilità d’ufficio di una questione non significa
che, per ciò stesso, tale questione possa essere decisa d’ufficio senza essere sottoposta al
contraddittorio delle parti (art. 73 CPA).
Il giudice non può decidere la controversia assumendo una soluzione diversa (cd. terza via) da
quelle prospettate dalle parti e sulle quali si è svolto il confronto dialettico. Se ritiene di
scegliere la terza via, deve sottoporla preventivamente al contraddittorio tra le parti.

Principi funzionali o di efficienza

Scopo del processo è fornire tutela alle situazioni giuridiche soggettive: questa per essere “giusta” deve
essere generale, piena e tempestiva.
- La generalità è sancita dall'art. 24 Cost. e, con riferimento specifico alle controversie nei confronti
dell'amministrazione pubblica, dall'art. 113 comma 1 (“contro di atti della p.a. è sempre ammessa
la tutela giurisdizionale dei diritti degli interessi legittimi davanti agli organi di giurisdizione
ordinaria o amministrativa”).
Oltre al diritto di azione, ha copertura costituzionale anche il diritto di difesa in ogni stato e grado
del procedimento, il quale è anzi qualificato come “diritto inviolabile” (art. 24 comma 2 Cost.).
Oltre al diritto di azione, è sancito dalla costituzione anche il diritto di difesa in ogni stato e grado
del procedimento, il quale è qualificato come diritto inviolabile (art. 24 comma 2).

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- Pienezza: il processo deve assicurare ogni possibile forma di tutela, senza limitazioni che non siano
giustificare da altri principi di pari rango costituzionale. Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale
nei confronti dell’amministrazione pubblica, tale principio è espressamente inserito in Cost., la
quale prescrive che la tutela “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione” (art. 113 comma 2).
Prima del CPA la disciplina del processo amministrativo non consentiva tutte le forme di tutela
possibili e previste dal c.c. e dal c.p.c. Nell’ambito della giurisdizione di legittimità erano esperibili
l’azione di annullamento e, solo dal 2000, l’azione di risarcimento del danno. Nell’ambito della
giurisdizione esclusiva il ventaglio di azioni proponibili era più ampio, ma non completo.
Inoltre il G.A. ritiene di non essere dotato del potere di disapplicazione degli atti amministrativi
illegittimi, anche se lesivi di diritti soggettivi; e questo condiziona fortemente la tutela di tali
situazioni soggettive.
Il CPA ha sperato anche per quanto attiene al sistema probatorio le ristrettezze della disciplina
precedente, avendo disposto che le parti possono avvalersi, e il G.A. possa disporre, di tutti i mezzi
di prova previsti dal c.p.c. con esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Alle prove
dal 2000 si aggiunge la consulenza tecnica.
Il CPA non ha invece ridisegnato in senso riduttivo le innumerevoli cause di inammissibilità,
irricevibilità ed improcedibilità che impediscono che il processo possa chiudersi con la soluzione
della questione di merito.

- Tempestività: la tutela giurisdizionale per essere effettiva deve essere tempestiva (Bentham:
justice delayed is justice denied). La stessa Corte Cost., prima della modifica dell'art. 111, aveva
sancito che il diritto di azione implica una ragionevole durata del processo affinché la tutela
giurisdizionale assicuri l'efficace protezione dei diritti e, in definitiva, la realizzazione della giustizia.
La CEDU configura come vero e proprio diritto a che la controversia sia decisa in tempo
ragionevole, secondo parametri ormai consolidati che tengono conto della peculiarità dei
procedimenti, della complessità della controversia e del comportamento delle parti nonché degli
organi pubblici.
L'art. 111 Cost. segue un metodo diverso: demanda alla legge dello Stato il compito di assicurare
che il processo abbia una durata ragionevole. La durata eccessiva del processo può dipendere dalla
disciplina processuale, ma può dipendere anche dal modo in cui gli uffici giudiziari sono organizzati
e dalle risorse di cui dispongono.
Per porre freno alle ricorrenti condanne della corte di Strasburgo per l'eccessiva durata dei
processi, in Italia è stata emanata la legge 89/2001 che ha previsto uno speciale processo di
competenza della Corte d'appello per coloro che abbiano subito un danno, anche patrimoniale, per
l'eccessiva durata del processo. La nuova legge trasforma quello che secondo la convenzione è un
diritto all'indennizzo in un diritto al risarcimento del danno, il che comporta che non si debba
provare in giudizio solo la durata irragionevole del processo ma anche l'esistenza di un danno e il
nesso di causalità tra la durata del processo e il danno subito.

LA TIPOLOGIA DELLE AZIONI PROPONIBILI


L’AZIONE è il potere attribuito a tutti i soggetti dell’ordinamento di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti ed interessi legittimi. I caratteri più importanti dell’azione:
- GENERALITA’: è esperibile da tutti;
- ASTRATTEZZA: prescinde da un’autentica sussistenza della situazione giuridica soggettiva. Scopo
dell’azione, e del processo, è proprio quello di verificare l’esistenza della situazione giuridica
soggettiva (diritto, interesse legittimo) ed, in subordine, la spettanza di tale situazione giuridica
soggettiva;
- AUTONOMIA: rispetto alla sussistenza della SGS che ne costituisce l’oggetto.

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- Se nel processo la posizione giuridica vantata dovesse risultare non meritevole di tutela, la domanda verrà
respinta come infondata nel merito. Il potere di provocare una pronuncia sulla fondatezza della domanda
sussiste anche se la situazione giuridica vantata risulta poi infondata.
- Se invece risultassero mancanti le condizioni dell’azione (requisiti della domanda) la domanda verrà
respinta per motivi di ordine processuale: motivi di rito. In questo caso si dirà che il soggetto non aveva
azione.

Altra caratteristica dell’azione è l’ATIPICITA’: l’azione è una, atipica e assume le fattezze della tutela di cui
necessita la SGS che si intende far valere in giudizio, prevista dalle norme sostanziali.
→ l’azione avrà contenuto reale, reintegratorio, obbligatorio, di condanna, di costituzione di effetti
giuridici, di accertamento, ecc... senza che occorra la previsione delle rispettive azioni.
L’atipicità costituisce garanzia di tutela piena, completa ed efficiente, possibilmente satisfattiva di ogni SGS
prevista dalle norme sostanziali e, contemporaneamente, espressione di libertà e autonomia.
La recente giurisprudenza amministrativa afferma, con riguardo all’ammissibilità di un’azione atipica nel
processo amministrativo, che: l’assenza di una previsione legislativa espressa non osta all’esperibilità di
un’azione di tal genere quante volte detta tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire una protezione
adeguata e immediata dell’interesse legittimo. Qualora le azioni tipizzate non possano soddisfare l’esigenze di
tutela, l’ammissibilità trova fondamento nelle norme costituzionali immediatamente precettive – artt. 24, 103
e 113.

Prima del CPA non vi era normativa che disciplinasse i requisiti e i presupposti sostanziali delle azioni che
sono stati costruiti dalla dottrina, considerando il contenuto delle sentenze di merito che poteva adottare il
giudice in conseguenza dell’accoglimento del ricorso.
Le leggi sul processo amministrativo stabilivano la forma dell’atto introduttivo del ricorso, il suo contenuto
essenziale, i termini per la proposizione del ricorso, a chi dovesse essere notificato, ma non il diritto
sostanziale alla base delle azioni.
Il CPA è stato il primo provvedimento legislativo a disciplinare le azioni ammissibili nel processo
amministrativo (Libro I, Titolo III, Capo II), e ne garantisce la generalità, nonché la snellezza ed effettività.
Sono ammissibili: pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte
vittoriosa. Il CPA raccoglie quindi sia la normativa sostanziale che quella processuale.

Va sottolineato come nel progetto preliminare la rosa di azioni esperibili fosse più ricca (accertamento,
avverso silenzio, annullamento, condanna, adempimento, esecutive, cautelari) ridotte nel progetto finale a
quelle contenute agli articoli 29-31 CPA:
1) Azione di annullamento (art. 29),
2) Azione condanna (art. 30),
3) Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità (art. 31).
Il d.lgs. 160/2012 ha introdotto poi un’importante novità, positivizzando l’azione di esatto adempimento,
che aveva avuto riconoscimento solo in sede giurisprudenziale.

Le azioni escluse, sebbene mancanti dal punto di vista sostanziale, sono comunque esperibili, poiché v’è
l’apposita disciplina processuale (alle misura cautelari è dedicato ampio spazio, così come al giudizio di
ottemperanza..). Un problema si è posto però per l’azione di accertamento.

Per affrontare questo problema, occorre quindi esaminare le disposizioni del CPA e, in particolare, le
decisioni che può assumere il giudice in caso di accoglimento del ricorso: sia quelle che sono collocate nelle
disp. generali (Libro I) – art. 34, sia quelle che sono disseminate negli altri libri del codice.
Nella logica del processo, le azioni proponibili e le pronunce del giudice sono necessariamente correlate e,
alla previsione di una determinata tipologia di azione, deve corrispondere un potere del giudice che possa
soddisfare la domanda proposta e viceversa, anche se si è in presenza di poteri esercitabili d’ufficio dal
giudice.
Le decisioni sulle sentenze di merito vanno altresì messe in relazione con l’impianto complessivo del CPA,
con riferimento particolare ai principi generali, quanto stabilito nella legge delega, gli artt. 24 3 111 Cost., i
diritti fondamentali dell’uomo (giusto processo – CEDU).

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All’ART. 32 CPA è disposta la CUMULABILITA’ nello stesso giudizio delle domande proposte in via principale
o incidentale, precisando che nel caso in cui siano soggette a riti diversi di applica quello ordinario (salva
l’eccezione rappresentata dal contenzioso elettorale).

1. AZIONI COSTITUTIVE
 Costitutive di riforma e di produzione (dell’atto amministrativo)
Sono quelle azioni che attribuiscono al ricorrente il potere di chiedere al giudice di modificare l’atto
amministrativo impugnato, di adottare un atto in sostituzione di quello emanato dalla p.a. o,
comunque, di dettare in via diretta la regolamentazione del rapporto tra le parti litiganti.
Il giudice può pronunciarle ex art. 34 lett. D, nei casi di GIURISDIZIONE DI MERITO, tassativamente
elencati all’art. 134 CPA. Qui il giudice ha un potere cognitorio pieno che gli permette non solo di
valutare il merito dell’atto impugnato ma anche di riformarlo (modificarlo) o produrne uno nuovo
(sostituendo al provvedimento da impugnare uno nuovo da questi costituito).
La sentenza del giudice assume così i connotati di un vero e proprio ATTO AMMINISTRATIVO,
importando una nuova regolamentazione del rapporto giuridico intercorrente tra amministrazione
e privato. La sostituzione del giudice all’amministrazione è resa possibile in ragione del fatto che
questa agisce secondo DISCREZIONALITA’, esercitando un potere soggetto a principi fissati dalle
norme giuridiche e da regole di buona amministrazione verificabili, alle quali si adegua il giudice
quando pronuncia la sentenza.

 Costitutive di annullamento
Sin dall’istituzione della Sez. IV del Consiglio di Stato, è l’azione principe davanti al G.A. in sede di
GIURISDIZIONE DI LEGITTIMITA’ e di GIURISDIZIONE ESCLUSIVA.
Si tratta dell’azione con cui il giudice amministrativo elimina direttamente il provvedimento con
cessazione ex tunc degli effetti giuridici, sin dal momento dell’adozione dell’atto amministrativo.
L’effetto tipico, ma non esclusivo, di questa azione è di tipo cassatorio-demolitorio.
Art. 29 del CPA: ‘L’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di
potere si propone nel termine di decadenza di 60 giorni.’
A questo articolo va coordinato poi l’art. 34 sulle sentenze di merito, per cui il giudice può annullare
in tutto o in parte il provvedimento amministrativo, nonché l’art. 88, che prevede che la sentenza
debba contenere l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Manca un riferimento all’atto o provvedimento impugnato, che però si ritrova puntualmente all’art.
7 CPA in base al quale il G.A. decide sulle controversie ‘concernenti l’esercizio o il mancato
esercizio del potere amministrativo, riguardanti ATTI, ACCORDI, o COMPORTAMENTI riconducibili
anche mediatamente all’esercizio di tale potere’. In tale articolo possono rientrare totalità di
occasioni in cui il privato è portatore di interessi legittimi nei confronti della PA, che possono
tradizionalmente essere di 2 tipi:
INT. LEG. OPPOSITIVI: per cui sarà pienamente satisfattiva la semplice eliminazione del
provvedimento contestato con ripristino della situazione quo ante (es. commerciante contesta
l’autorizzazione amministrativa data al concorrente a vendere beni dello stesso tipo nell’esercizio a
fianco al suo)
INT. LEG. PRETENSIVI: per cui non sarà pienamente satisfattiva la semplice eliminazione del
provvedimento contestato (es. commerciante vuole ottenere l’autorizzazione amministrativa, ma la
PA nega tale autorizzazione; il semplice annullamento del diniego non basta al commerciante per
potersi dire soddisfatto.. serve qualcosa di più!).
La giurisprudenza, per fornire PIENA tutela al privato, è quindi arrivata a valorizzare il ruolo della
MOTIVAZIONE della sentenza ove si possono indicare le direttive dell’azione amministrativa di
adeguamento al dictum del giudice, con il c.d. effetto conformativo cui deve uniformarsi
l’Amministrazione nell’ottemperare il giudicato, adottando l’atto amministrativo che attribuisca il
vantaggio al ricorrente (soddisfazione dell’interesse di pretesa al bene della vita).
La motivazione assume in questo caso un ruolo diverso rispetto a quello svolto nel processo civile:
in quest’ultimo caso il dispositivo precisa esattamente gli effetti che produce la decisione,

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assegnando alla motivazione solo il compito di spiegare le ragioni della regolamentazione di
interessi contesa, disciplinata dal dispositivo. La sentenza del G.A. si conclude invece, in caso di
accoglimento della domanda, con un dispositivo di mero annullamento dell’atto e la motivazione
reca in sé non solo il perché della soluzione della lite ma anche la soluzione stessa.
Le azioni costitutive di annullamento, in conseguenza dell’effetto conformativo espresso dalla
motivazione, possono tendere anche a proporre l’assetto degli interessi satisfattivo della SGS
pretensiva, può giungere anche alla condanna ad un facere infungibile all’emanazione di un
determinato atto amministrativo. Il giudice può disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione
del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un Commissario ad acta.
La soluzione ottimale per la soddisfazione di interessi legittimi pretensivi è, in ogni caso, l’azione di
adempimento perché, rispetto all’effetto conformativo vi sono significative differenze ai fini della tutela in
quanto:
a) è il ricorrente che può chiedere la condanna dell’amm.ne all’emanazione del provvedimento richiesto o
denegato, ed il giudice deve provvedere sulla domanda;
b) nel giudizio di cognizione interviene l’apposita pronuncia del giudice che condanna l’amm.ne all’adozione
dell’atto, senza che si debba ricorrere al giudizio di ottemperanza per individuare la misura idonea a
soddisfare l’interesse del ricorrente.

L’azione di annullamento è diretta a ottenere questi effetti:


1. eliminazione dell’atto, accordo o comportamento riconducibile anche mediatamente all’esercizio del
potere amministrativo;
Conseguenza necessaria dell’accoglimento dell’azione di annullamento che si produce allorché il
ricorrente decida di proporre questa azione e il giudice accerti l’illegittimità dell’azione
amministrativa. Effetto indisponibile sia da parte del ricorrente che del giudice.
2. retroazione degli effetti normalmente sino al momento dell’adozione dell’atto, accordo o
comportamento;
Non può prodursi in tre ipotesi: a) il fatto non sia ripristinabile, b) è nell’interesse del ricorrente che
l’annullamento non comporti la retroazione totale o parziale degli effetti, c) il giudice ritenga che gli
effetti ex nunc, totali o parziali, non soddisfino l’interesse del ricorrente e anzi si risolvano in una
lesione del suo interesse.
3. effetto conformativo volto a disciplinare l’azione amministrativa in esecuzione della sentenza.
Trova impiego di solito quando venga in rilievo la lesione di un interesse legittimo pretensivo e il
ricorrente può, al più, spingere, attraverso l’esposizione dei motivi, verso la determinazione
dell’effetto conformativo. Se il giudice però non lo coglie o non intende prenderlo in
considerazione, il ricorrente non ha rimedio. È un effetto nella disponibilità del giudice.

2. AZIONI DI CONDANNA
L’azione di condanna è in generale definita come quell’azione tesa a ottenere un ordine dal giudice,
consistente in un facere o in un non facere, nell’imporre un pagamento di una somma di denaro o la
consegna di un bene.
Per il processo amministrativo, tale azione è disciplinata dall’art. 30 CPA mediante un’articolata
disposizione che, sebbene incentrata sul risarcimento del danno, ha una portata generale applicabile
quando risulta necessaria, dopo l’annullamento, una tutela in forma specifica del ricorrente mediante
modificazione della realtà materiale o sia rimasta inadempiuta un’obbligazione di pagamento o debba
comunque provvedersi mediante l’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica
soggettiva. È evidente quindi la scelta del legislatore di disciplinare l’azione di condanna ma di non tipizzare
i contenuti della stessa.

Tale circostanza è confermata dall’art. 34 comma 1 CPA, per cui il giudice amministrativo, con la sentenza
con cui definisce nel merito il giudizio, può:
- ordinare all’amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine;
- condannare al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del
danno;

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- condannare all’adozione di misure idonee a tutelare la posizione giuridica dedotta in
giudizio – ipotesi di cd. condanna atipica.
Ai sensi del comma 1, l’azione di condanna può essere proposta sia contestualmente ad un’altra azione che
in via autonoma, nei soli casi, però, di giurisdizione esclusiva e negli altri casi individuati dallo stesso art. 30.

Dalla lettera del comma 1 della disposizione si evince che l’azione di condanna non può essere proponibile in
via autonoma per la tutela di interessi legittimi, essendo la stessa ammessa solo nelle ipotesi di giurisdizione
esclusiva e nelle limitate ipotesi risarcitorie disciplinate dallo stesso art. 30.
In merito, la dottrina ha osservato che il comma in questione configura l’azione di condanna come azione
complementare all’esercizio di altre azioni nella giurisdizione di legittimità: non essendo posto il limite della
condanna al solo pagamento di somme di denaro, è ammissibile la condanna dell’amministrazione ad un
facere, ma a condizione che tale domanda sia collegata all’esercizio di altre azioni (es. annullamento).

Allora, l’azione di condanna ex art. 30 comma 1 CPA può essere proposta, contestualmente ad altra azione,
per ottenere le misure idonee a soddisfare l’interesse legittimo (o il diritto soggettivo nella giurisdizione
esclusiva) di cui si lamenti la lesione in giudizio.

 Azione di adempimento
Tale azione, espressamente prevista nel testo originario del Codice in via contestuale ad azione di
annullamento o avverso il silenzio (art. 40 comma 2), consiste nel chiedere la condanna
all’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto o denegato (art. 40 comma 1).
Altra applicazione può individuarsi nella condanna dell’amministrazione al pagamento delle somme
in denaro di cui risulti debitrice, proponibile qualunque sia il fatto o l’atto generatore del debito.

Per l’azione di adempimento, il secondo correttivo del CPA (d.lgs. 160/2012), ha espressamente
aggiunto all’art. 34 comma 1 lett. c) che: l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento
richiesto è esercitato nei limiti di cui all’art. 31 comma 3, contestualmente all’azione di
annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio.
L’azione di adempimento è quindi divenuta tipica e i suoi caratteri sono quelli:
a) di un’azione di condanna non autonoma, ma da proporsi in connessione alle domande di
annullamento del provvedimento di diniego o avverso il silenzio;
→ legato al comma 2: in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati.
b) può essere accolta in presenza di attività vincolata o quando non residuino ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere
compiuti dall’amministrazione.

 Condanna al risarcimento del danno, anche in forma specifica


Rappresenta una species del più ampio genus dell’azione di condanna.
E’ un’azione, ormai chiaramente assegnata alla competenza (la sent. Cass. SS.UU. 500/1999 aveva
affermato diversamente conferendola al G.O.) del G.A., il quale può condannare al risarcimento del
danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato
esercizio di quella obbligatoria (indipendentemente dal fatto che si discuta dalla lesione di un
interesse legittimo o di un diritto soggettivo) nei casi di giurisdizione esclusiva.

Dal punto di vista sostanziale, veniva in rilievo la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c. orientata nel
senso che solo la lesione di un diritto soggettivo perfetto configurasse la fattispecie di danno ingiusto. In
una prospettiva processualistica, invece, la preclusione derivava dalla struttura bifasica del sistema di
giustizia amministrativa che, da una parte concedeva al GA solo il potere di annullare l’atto lesivo
dell’interesse legittimo, ma gli vietava di pronunciare una sentenza di condanna al risarcimento dei danni e,
dall’altra parte, attribuiva al GO il potere di emettere sentenze di condanna al risarcimento dei danni, ma
gli precludeva la possibilità di giudicare degli interessi legittimi.
La dottrina aveva iniziato a criticare la restrittiva lettura dell’art. 2043 c.c. e a denunciare come iniqua la
sostanziale immunità della PA che avesse esercitato illegittimamente le proprie funzioni provocando danni

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alla sfera patrimoniale dei privati.
Solo a seguito della sentenza 500/1999 si è aperta la strada all’ammissibilità di un’azione risarcitoria del
danno da lesione di interessi legittimi (o danno da provvedimento).
Sulla scorta di questa decisione, il legislatore, con la l. 205/2000 ha modificato l’art. 7 della l. 1034/1971 e
ha riconosciuto che il TAR, “nell’ambito della sua giurisdizione conosce anche di tutte le questioni relative al
risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali”. Tale previsione è stata poi giudicata legittima dalla Corte Cost. cons sentenza n. 204/2004:
secondo i giudici il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia,
attribuita alla giurisdizione del GA, ma uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico
demolitorio (e/o conformativo) da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della PA.

La domanda di risarcimento del danno può essere proposta per equivalente pecuniario o in forma
specifica se sussistono i presupposti dell’art. 2058 c.c. (cioè quando tale forma di reintegrazione
risulti in tutto o in parte possibile e non sia eccessivamente onerosa per il debitore).

La questione che il CPA ha affrontato è stata quella della possibilità di proporre la domanda
risarcitoria per lesione di interessi legittimi in via autonoma o solo contestualmente o a seguito del
tempestivo ricorso per l’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo => PREGIUDIZIALE
AMMINISTRATIVA.
Il problema è rilevante perché, se si ritiene che il risarcimento dei danni possibile solo se venga
annullato l’atto amministrativo, diventa essenziale il rispetto del termine di decadenza di 60 giorni
per promuovere il giudizio di annullamento (salvo il successivo esperimento dell’azione risarcitoria
nel più ampio termine prescrizionale); viceversa, vale il termine prescrizionale di 5 anni (trattandosi
di illecito extracontrattuale) ove non si ritenga pregiudiziale l’annullamento.
Su tale questione posizioni contrapposte sono state, da sempre, assunte dalla Corte di Cassazione e
dal Consiglio di Stato.
→ Corte di Cassazione: poteva essere proposta al GA autonoma domanda risarcitoria senza la
preventiva impugnazione del provvedimento lesivo. Ciò trovava un proprio fondamento
legittimante in esigenze di tutela dei cittadini nei confronti della PA e nella considerazione che non
esiste una norma che assoggetti esplicitamente la domanda di risarcimento del danno a un termine
di decadenza. Conseguenze di tale orientamento sono la sussistenza della giurisdizione del GA per
le domande risarcitorie da attività provvedimentale illegittima e l’applicazione del termine
prescrizionale di 5 anni.
→ Giudici amministrativi: necessità del previo annullamento del provvedimento amministrativo, al
fine di poter esperire, nei confronti della PA, una valida azione di risarcimento del danno. L’azione
risarcitoria avrebbe potuto essere proposta sia unitamente a quella di annullamento che in via
autonoma, ma, in tale ultima ipotesi, sarebbe stata ammissibile solo a condizione che si sia
impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che si sia coltivato con successo il
relativo giudizio di annullamento. Questa posizione era fondata su due ordini di motivi: 1) il rischio
di elusione del termine di decadenza di 60 gg, qualora si consentisse ad un soggetto di far valere
l’illegittimità di un provvedimento amministrativo (non contestata nei termini) ai fini del
risarcimento nei termini di prescrizione; 2) la mancata attribuzione al GA del potere di
disapplicazione, per cui il GA, salvo i casi di regolamenti e diritti soggettivi, è legittimato solo a
conoscere del provvedimento in via principale ai fini del relativo annullamento.

Il CPA ha inteso risolvere la diatriba giurisprudenziale dedicando alcuni commi dell’art. 30 all’azione
risarcitoria innanzi al GA.
L’azione di risarcimento è consentita per riparare un danno ingiusto derivante dall’illegittimo
esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.
Con l’art. 30 viene poi definitivamente superata la questione della pregiudiziale amministrativa,
prevedendo la possibilità che l’azione di condanna, e, quindi, di risarcimento, possa essere
esercitata anche autonomamente (nei casi di giurisdizione esclusiva e nelle ipotesi disciplinate dallo
stesso art. 30). In conseguenza di tale principio, risulta rimessa al soggetto leso la decisione sulla via
giurisdizionale più consona alle sue esigenze.

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Ammessa la possibilità di un’azione risarcitoria autonoma, il successivo comma 3 introduce un
potente strumento di dissuasione rispetto all’opzione meramente risarcitoria, che finisce per
svuotare di ogni significato il potere di scelta del soggetto leso dall’azione amministrativa. L’AZIONE
DI CONDANNA AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI può essere
proposto ANCHE IN VIA AUTONOMA, ma:
a) entro il termine di 120 GIORNI dal giorno in cui il fatto si è verificato / conoscenza del
provvedimento (se il danno deriva direttamente da questo); ovvero nel corso del giudizio di
annullamento, fino a quando non è definito o (una volta definito) entro 120 giorni dal passaggio
in giudicato della sentenza di annullamento.
b) nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il complessivo
comportamento delle parti e esclude il risarcimento per i danni che si sarebbe potuto evitare
usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti
(quindi anche l’annullamento dell’atto).
La pregiudizialità diventa da processuale a sostanziale! In base al testo originario del CPA si
evince che rientrerebbe nell’ordinaria diligenza la richiesta, da parte dell’attore, di azione di
cognizione o cautelare.
c) Quando il ricorrente dimostri di aver subito danno per inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento: i 120 giorni non decorrono finchè non si conclude il
procedimento e, comunque, decorrono dopo un anno dalla scadenza del termine per
provvedere.

Il termine di 120 giorni è stabilito per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi e
non di diritti soggettivi, per i quali si applicano i termini di prescrizione stabiliti dal c.c. → Nelle
materie di giurisdizione esclusiva occorrerà distinguere tra le SGS, riproponendosi il problema che si
è inteso superare con l’istituzione della giurisdizione esclusiva e cioè quello di stabilire la natura
della SGS se di diritto soggettivo o interesse legittimo.

Il presupposto di tale domanda è il risarcimento del danno ingiusto ex art. 2043 c.c.
Ne consegue che la condanna a un facere specifico, salva l’ipotesi dell’azione di adempimento e di
altre azioni tipiche (accesso ai documenti amministrativi), resta sempre circoscritta alle ipotesi del
fatto illecito.
L’azione di condanna per fatto illecito incide sensibilmente sul processo amministrativo, perché il
giudice deve valutare aspetti della controversia che non sono passati attraverso il processo
amministrativo. Nell’azione costitutiva di annullamento invece il giudice conosce dell’assetto degli
interessi stabiliti dalla PA che nel procedimento ha acquisito i fatti e gli interessi, per cui gli
elementi del giudizio,e particolarmente il fatto, giungono al processo già vagliati e formati dalla p.a.
e il giudice ne verifica la legittimità attraverso gli atti del procedimento e il provvedimento.

La pregiudiziale amministrativa – percorso giurisprudenziale e legislativo


Punto di partenza per l’intera questione è stata la sentenza della Cassazione a SS.UU 500/1999 con cui si è
stabilito un punto fermo nell’evoluzione del diritto amministrativo: la risarcibilità degli interessi legittimi, in
sede di g.o. Con tale sentenza ci si allontana dalla necessità, per potere avanzare richiesta di risarcimento,
dell’annullamento dell’atto di cui si controverte, inizialmente considerata fondamentale per la teoria
dell’affievolimento dell’interesse legittimo in diritto soggettivo.
La sent. 500/1999 ha così spezzato la tradizione della pregiudiziale amministrativa (in base alla quale si può
agire con richiesta di risarcimento per lesione di interessi legittimi, avanti al g.o., solo dopo l’annullamento
dell’atto di cui si controverte, avanti al g.a.), con espresso riconoscimento normativo nella L.205/2000 che
stabiliva però come competente a conoscere della questione della risarcibilità non il g.o. ma bensì il g.a.
E’ da questo momento che inizia un periodo di fortissimi contrasti giurisprudenziali tra gli organi
giurisdizionali di vertice della giustizia ordinaria (Corte di Cassazione) e della giustizia amministrativa
(Consiglio di Stato) che sostengono diverse tesi:
CASSAZIONE (tesi autonomistica) : nel solco della sentenza 500/1999 si afferma la totale autonomia
fra le due azioni (annullamento/risarcimento), per cui per chiedere il risarcimento, nel più lungo termine
prescrizionale di 5 o 10 anni a seconda della fonte dell’illlecito, basta un semplice accertamento
dell’illegittimità dell’atto.
CONSIGLIO DI STATO (tesi della pregiudizialià amministrativa necessaria) : ribadisce la sussistenza

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della pregiudiziale amministrativa, come presupposto essenziale per la tutela risarcitoria, che rispetto
all’azione annullatoria ne riveste carattere consequenziale, ulteriore ed eventuale, grazie anche al conforto
della Corte Costituzionale. In questo senso si prospetterebbe quindi un termine decadenziale per l’azione
di soli 60 giorni.

Nel corso della diatriba tra i giudici, la Cassazione si spinge fino a ritenere che, l’eventuale sentenza con cui
il g.a. nega la risarcibilità del danno per mancanza del previo annullamento, sia soggetta a cassazione per
violazione di norme sulla giurisdizione, ex art. 111 comma 7 Cost, creando non poco scompiglio.
Con il nuovo CPA si rende quindi necessario porre fine alla eterna querelle, adottando una soluzione
transattiva (anche se, per certi versi, fortemente favorevole al g.a.) contenuta all’art. 30 CPA. In questo
articolo si stabilisce:
I. PIENA AUTONOMIA dell’azione di risarcimento del danno rispetto all’azione di annullamento, fatta
sempre salva la possibilità di proporla in via contestuale.
II. TERMINE DECADENZIALE (breve) di 120 giorni dal danno/conoscenza o altrimenti decorrenti dal
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.
III. RILIEVO dato all’ORDINARIA DILIGENZA del ricorrente, che questi deve usare per evitare i danni,
attraverso l’esperimento dell’azione di annullamento o, comunque, della tutela cautelare.

 Condanna al pagamento delle spese di lite


Tale azione è autonoma rispetto all’azione principale perché è consequenziale e accessoria all’esito
della lite, ma il giudice non può pronunciare la condanna alle spese se non vi sia un’espressa
domanda di parte.
La regola tradizionale era quella della soccombenza, per cui le spese dovevano essere pagate dalla
parte soccombente (ma il G.A. era restio a condannare la PA al pagamento delle spese, sebbene
dopo il 1907 questo trend si sia invertito). Con il tempo si è fatta strada la prassi della
compensazione delle spese di lite fra le parti.
L’art. 26 CPA, che si occupa specificatamente della questione, rinvia agli articoli 91-97 c.p.c.,
prevedendo quindi l’abbandono della strada della compensazione delle spese di lite.
c) Art. 91: il giudice condanna la parte soccombente al pagamento delle spese e degli onorari a favore
dell’altra parte;
d) Art. 92: il giudice può escludere la condanna alle spese sostenute dalla parte vincitrice se le ritiene
eccessive o superflue e, indipendentemente dalla soccombenza, può condannare una parte al rimborso
delle spese quando vi sia stata trasgressione al dovere di lealtà e probità e può compensare, parzialmente
o per intero, le spese tra le parti se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali
ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione.
e) Art. 93: prevede la distrazione delle spese a favore del difensore che dichiara di aver anticipato le spese e
non riscossi gli onorari.
f) Art. 94: condanna di rappresentanti e curatori.
g) Art. 96: per la responsabilità aggravata dove il giudice può anche d’ufficio condannare la parte
soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, se
ritiene sussistere la responsabilità aggravata.
h) Art. 97: riguarda la responsabilità di più soccombenti.

Un criterio specifico per la liquidazione delle spese è stato introdotto dal secondo correttivo: si
deve tener conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3 comma 2.
Interessante è il secondo comma dell’art. 26 CPA, come sostituito dal primo correttivo, che prevede
il potere del giudice di condannare d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione
pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato
dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte ha agito o resistito temerariamente
in giudizio, da versarsi nel bilancio dello Stato per la rassegnazione secondo l’art. 15 delle norme di
attuazione del CPA. La norma è tesa a scoraggiare iniziative giudiziarie temerarie.

 Condanna all’accesso ai documenti amministrativi


Nel quadro dei mutati rapporti tra cittadino e amministrazione ispirati alla trasparenza, i documenti
amministrativi sono tutti accessibili, ad eccezione di quelli segreti per la tutela di rilevanti e ben
individuati interessi pubblici e del diritto alla riservatezza di terzi.

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Contro il rifiuto espresso della p.a. di visione o estrazione di copia dei documenti, o il silenzio-rifiuto
(comportamento inerte della p.a. per 30 gg dalla richiesta) è ammesso ricorso, nel termine di 30 gg
al TAR. Questo decide con una procedura snella (in camera di consiglio, senza la necessaria
assistenza del difensore) ai sensi dell’art. 116 CPA, coni termini ridotti a metà.
Il ricorso può essere proposto anche nel giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, con istanza
depositata nel ricorso pendente, previa notifica alle parti. In questo caso la decisione può essere
assunta con ordinanza ovvero con sentenza che definisce il giudizio.
Il giudice, se accoglie la domanda, condanna la p.a. all’esibizione dei documenti (condanna a un
facere specifico).

 Azione avverso il silenzio


Espressamente prevista all’art. 31 CPA e disciplinata dall’art. 117 CPA: essa è definita come
‘accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere’ ma figura più come un’azione di
condanna all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, di 30 gg.
E’ azione di accertamento, ma anche e soprattutto, di condanna ad un mero provvedere (non è
quindi azione di adempimento).

-> PRESUPPOSTI SOSTANZIALI (art. 31 CPA)


-TERMINI: l’azione può essere proposta fintantoché perdura l’inadempimento e comunque non
oltre UN ANNO dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento;
-GIUDIZIO SULLA FONDATEZZA DELLA PRETESA: può essere espresso dal giudice solo quando
risulta che si tratti di attività vincolata, risultando che non residuino margini di esercizio della
discrezionalità.
-SILENZIO: può essere esercitata quest’azione solo avverso il silenzio inadempimento o il silenzio
rifiuto, non già avverso il silenzio significativo (silenzio assenso e silenzio diniego), e solo a fronte di
un’attività provvedimentale della PA, non già di diritto privato.

-> PROCEDIMENTO (art. 117 CPA)


- all’azione avverso il silenzio possano cumularsi altre azioni (ex art. 32 CPA) quali quella di
risarcimento del danno o l’impugnazione per motivi aggiunti;
-Il ricorso è proposto (anche senza diffida) e notificato alla PA ‘silenziosa’ ed ad un contro
interessato;
-il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata, ed in caso di (totale o parziale) accoglimento,
si ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a 30 giorni
con la possibilità ulteriore di nominare un commissario ad acta.
-se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento, questo può essere impugnato per motivi
aggiunti.

3. AZIONI DI MERO ACCERTAMENTO


Il CPA, innovando rispetto alla precedente normativa, ha disciplinato le ipotesi in cui il GA può anche
adottare una pronuncia di accertamento. Queste ipotesi sono previste agli artt. 31 e 34 commi 3 e 5 CPA.

Le azioni di questo tipo possono essere proposte davanti al TAR solo se sono in gioco posizioni di diritto
soggettivo di cui l’amministrazione possa avere conoscenza (giurisdizione esclusiva), per ottenere la
dichiarazione di esistenza di tale situazione giuridica soggettiva. L’azione è volta ad accertare diritti di
natura patrimoniale e non patrimoniale.
- Rispetto ad un diritto soggettivo si può dire che il titolare di esso può essere soddisfatto dalla
sentenza di mero accertamento (es. la sentenza che dichiara che un dato immobile è mio) che
potrà far valere anche nei rapporti e negli eventuali giudizi nei confronti delle parti del processo.
- L’interesse legittimo invece è configurabile solo in relazione ad un esercizio o un mancato esercizio
di un potere dell’amministrazione. Il portatore di tale interesse non sa che farsene del mero
accertamento della titolarità in capo a lui di un interesse legittimo. Il suo interesse è che
l’amministrazione eserciti correttamente il suo potere e che venga annullato l’eventuale

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provvedimento illegittimo attraverso una pronuncia costitutiva. Rispetto ad un interesse legittimo
l’azione dichiarativa non serve.
→ L’azione di accertamento sarà quindi completamente da escludersi in sede di giurisdizione di legittimità,
così come in sede di giurisdizione esclusiva, in quanto si discorra di interessi legittimi, sia OPPOSITIVI che
PRETENSIVI (l’esclusione è operata tanto a livello dottrinale che giurisprudenziale).

L’esclusione della configurazione dell’azione di mero accertamento per la tutela degli interessi legittimi non
significa che nel processo amministrativo di legittimità non si possano avere pronunce di mero
accertamento. Infatti sono sentenze di accertamento quelle che si arrestano ai profili di “rito”
(inammissibilità, irricevibilità…) di cessazione della materia del contendere, di perenzione, di sopravvenuta
carenza di interesse, ecc… Sennonché a queste sentenze non sono correlate azioni di mero accertamento
poiché queste ultime considerano l’istanza di tutela che è alla base della posizione del ricorrente e non
attengono alla richiesta di tutela che induce a promuovere il giudizio.
Quindi, se è corretto affermare che l’azione di mero accertamento mira ad ottenere una sentenza di
accertamento, non è detto che ad ogni sentenza di mero accertamento faccia capo un’azione così
qualificabile.

Nella giurisdizione esclusiva vi è però l’esigenza di tutelare i diritti soggettivi con l’azione di accertamento.
Tale azione è divenuta strumento efficiente di tutela anche nella giurisdizione di legittimità:
11) la previsione normativa di atti amministrativi nulli (art. 21 septies l. 241/1990) che, non
producendo effetti, portano alla soddisfazione dell’interesse con la mera dichiarazione dello stato
viziato della nullità.
12) per la S.C.I.A. il G.A. ha ritenuto soluzione adeguata attribuire al terzo l’azione per la dichiarazione
della mancanza degli elementi e presupposti per l’inizio dell’attività “segnalata” dall’interessato,
con conseguente privazione di legittimità ed efficacia della S.C.I.A.

 Azione di nullità
L’esclusione di un’azione di accertamento nella giurisdizione generale di legittimità è correlata
all’affermazione della dottrina e della giurisprudenza che l’unico stato viziato dell’atto
amministrativo sia l’annullabilità. Conseguenza: atto amministrativo, pur illegittimo, produce effetti
e quindi, estinguendo i diritti soggettivi del destinatario, radica la giurisdizione del GA anche
quando l’interessato sia titolare di un diritto soggettivo.
In casi eccezionali il G.A. ha individuato ipotesi di NULLITA’ dell’atto amministrativo, ma in materia
di pubblico impiego in cui all’epoca aveva giurisdizione esclusiva (es. dipendente pubblico che
lavora presso una p.a. senza essere stato reclutato in base ad un concorso).
Diversa è la giurisprudenza del G.O. il quale, attraverso il vizio della carenza di potere, ha acquisito
ambiti di giurisdizione perché, in presenza di tali vizi, l’atto non produce effetti e quindi non
estingue i diritti soggettivi che l’interessato può far valere davanti al G.O.

Solo con l’art. 21-septies della L. 241/1990 si è disciplinata la nullità dell’atto amministrativo che
ricorre nelle ipotesi di:
- mancanza di elementi essenziali
- difetto assoluto di attribuzione
- violazione o elusione del giudicato
- altri casi espressamente previsti dalla legge.
In queste ipotesi, siccome l’atto non produce effetti, non vi è l’estinzione dei diritti soggettivi, per
cui l’interessato potrà far valere queste SGS davanti al G.O., ad eccezione delle controversie
attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A. (che conosce anche dei diritti soggettivi).
Quando si è in presenza di (iniziali) interessi legittimi, il titolare di quest’ultima SGS potrà proporre
anche un’azione di mero accertamento che dichiari la nullità dell’atto e l’improduttività di effetti
(es. chi impugna un’autorizzione commerciale rilasciata ad un concorrente, ma priva degli elementi
essenziali o adottata da soggetto in difetto assoluto di attribuzione: potrà chiedere al G.A. che
accerto la nullità dell’autorizzazione, improduttiva di ogni effetto).

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L’azione di accertamento potrà avere impiego nella giurisdizione generale di legittimità, nella
misura in cui verranno individuate ipotesi di nullità dell’atto amministrativo, come tale
improduttivo di effetti e, pertanto, aggredibile con un’azione volta a dichiarare la nullità.

L’art. 31 CPA dedica un solo comma all’azione di nullità. Esso regola una diversa ipotesi di azione
che il soggetto interessato può esperire in caso di inattività dell’amministrazione una volta decorsi i
termini di conclusione del procedimento. In tali eventualità, così come negli altri casi previsti dalla
legge, l’interessato può adire l’autorità giurisdizionale amministrative al fine di ottenere una
pronuncia di accertamento (e relativa declaratoria con sentenza) dell’obbligo dell’amministrazione
di provvedere.
a) azione può essere proposta finchè perdura l’inadempimento e comunque non oltre un
anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento;
b) in relazione ai poteri del giudice, il legislatore ha previsto che lo stesso può direttamente
pronunciare sulla fondatezza della pretesa dell’interessato fatta valere in giudizio, ma solo
qualora in relazione alla stessa non sia necessario l’esercizio di alcuna attività discrezionale.
La pronuncia del giudice può avvenire infatti quando si tratta di attività vincolata ovvero
quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non
sono necessari adempimenti istruttori che dono essere compiuti dall’amministrazione.

Altra ipotesi disciplinata dall’art. 31 è quella dell’accertamento, e relativa declaratoria, delle


nullità previste dalla legge. Il legislatore ha previsto che la relativa azione deve essere proposta nel
termine decadenziale di 180 giorni e che la nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte
resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Eccezione alla disciplina di detta azione di accertamento è data dalla nullità di un atto per
violazione o elusione di giudicato (art. 21 septies l. 241/1990): in tal caso trovano applicazione le
disposizioni in materia di giudizio di ottemperanza, di cui al Titolo I Libro IV del CPA.

Bisogna poi considerare i casi in cui il GA, nella giurisdizione esclusiva, conosca dei diritti soggettivi
che si confrontino con un atto nullo.
Nella giurisdizione esclusiva il GA ha stabilito che il diritto soggettivo possa essere fatto valere in
giudizio nel termine lungo di prescrizione, anziché nei 60 gg a pena di decadenza.
Il CPA conferma la giurisdizione esclusiva nelle materie indicate dall’art. 133, precisando che il GA
conosce dei diritti soggettivi pure ai fini risarcitori, ma nulla dispone in ordine alle diverse regole
applicabili quando il ricorrente alleghi la violazione dei diritti soggettivi. Tuttavia è da ritenere che i
principi che la giurisprudenza amministrativa ha introdotto per la tutela dei diritti soggettivi
conosciuti nell’ambito della giurisdizione esclusiva continuino a trovare applicazione. È quindi da
ritenere che il diritto soggettivo, attribuito alla giurisdizione esclusiva del GA, possa essere azionato
nel ricorso volto alla dichiarazione di nullità dell’atto nell’ordinario termine di prescrizione di 10
anni.
La nullità dell’atto amministrativo è rilevabile d’ufficio e l’azione è imprescrittibile per
l’amministrazione ed è improduttivo di effetti nonché insanabile. L’improduttività di effetti vale
anche per il cittadino il quale, decorso il termine di decadenza di 180 giorni, non potrà chiedere la
dichiarazione di nullità al giudice, ma lo stato viziato non muta con tutte le sue conseguenze.

→ Non si riescono a capire le ragioni di questo trattamento differenziato, che pare incostituzionale. Esso
realizza una sperequazione tra il ricorrente e le altre parti del processo, a danno del primo. Questa
sperequazione cozza con la Cost., specie se si considera la posizione del controinteressato. Questi non viene
considerato dalla norma ma, secondo la dottrina, potrebbe sempre opporre la nullità che, invece, sarebbe
difficile immaginarlo per l’amministrazione che, avendo dato causa alla nullità, non avrebbe interesse a
sollevarla d’ufficio.

 Azione esperibile dal terzo avverso la S.C.I.A.

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La S.C.I.A. (sostitutiva della D.I.A.) ha posto un problema di natura giurisdizionale circa lo strumento
che può esperire il terzo leso dall’attività svolta sulla base della S.C.I.A.
Da un lato si era ipotizzata la possibilità di esperire azione di annullamento della determinazione
formatasi tacitamente; diffidare la p.a. ad esercitare il suo potere, anche in autotutela ed
eventualmente agire contro l’atto espresso o il silenzio-rifiuto.

Il Consiglio di Stato, in considerazione del fatto che la SCIA è atto privato sostitutivo di un atto
amm.vo, ha rilevato che il terzo ha come strumento autonomo per difendere le proprie situazioni
giuridiche soggettive un’azione di ACCERTAMENTO avente ad oggetto la non esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto per svolgere l’attività oggetto della SCIA, con eventuale ordine, nei
confronti della PA, di rimuovere gli effetti della condotta posta in essere dal denunciante.
Il ricorrente deve seguire le regole proprie del giudizio di legittimità quanto al termine (di
decadenza di 60 gg), all’istruttoria…
Quest’ultimo orientamento apre il giudizio amministrativo di legittimità all’azione di accertamento
che diventa ammissibile, pur mantenendo struttura e regole proprie del giudizio di annullamento, e
che termina con una decisione di mero accertamento.

Quasi contemporaneamente alla decisione del Consiglio di Stato, il legislatore ha dettato per
l’impugnativa della SCIA ad opera del terzo leso, questa regola: la SCIA, la DIA non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle
verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui
all’art. 31 commi 1, 2, 3 del CPA. (La soluzione non pare proprio in linea con quanto sostenuto
dall’AP Consiglio di Stato, e riapre la discussione perché sceglie la strada dell’azione avverso il
silenzio, nel caso l’amministrazione non provveda).

4. AZIONI COLLETTIVE
Gli interessi superindividuali sono quegli interessi che, travalicando la dimensione personale, fanno capo a
una ben determinata collettività di individui quali associazioni culturali, partiti, comitati di cittadini…
a) interessi diffusi (o adespoti): sono quelli comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non
organizzata e non individuabile autonomamente e, dal punto di vista oggettivo, attengono a beni
non suscettibili di fruizione differenziata;
b) interessi collettivi (o di categoria): sono quelli che hanno come portatore un ente esponenziale di
un gruppo non occasionale, della più varia natura giuridica (es. ordini professionali, associazioni
private riconosciute, associazioni di fatto), ma autonomamente individuabile. Essi sono:
c) differenziati: fanno capo ad un soggetto individuato, cioè a un’organizzazione di tipo
associativo che si distingue tanto dalla collettività che dai singoli partecipanti. Da ciò
consegue che la lesione dell’interesse collettivo legittima al ricorso solo l’organizzazione e
non i singoli che di essa fanno parte.
d) qualificati: sono previsti e considerati, sia pure indirettamente, dal diritto oggettivo.

La tutela degli interessi collettivi in sede amministrativa va valutata anche nel momento del procedimento
di formazione dell’atto amministrativo. Anche prima della l. 241/1990 erano presenti numerosi ipotesi in
cui la legge attribuiva il potere di presentare osservazioni, deduzioni, proposte a soggetti estranei alla p.a.
procedente.

La previsione, ex art. 9 della l. 241/1990, della facoltà degli enti esponenziali di partecipare al procedimento
è destinata a incidere sulla questione della loro legittimazione processuale amministrativa.
La giurisprudenza è stata per lungo tempo orientata nel senso di negare l’ammissibilità di una tutela
giurisdizionale di questi interessi, sulla base dell’argomentazione che l’interesse a ricorrere deve essere
personale e individuale.
Negli ultimi decenni, tuttavia, la giurisprudenza si è accollata il compiuto di selezionare nella massa degli
interessi diffusi, quelli aventi i caratteri della differenziazione e della qualificazione e, quindi, come tali,
suscettibili della tutela giurisdizionale che uno Stato deve assicurare.

57
Al riguardo sono stati elaborati i seguenti criteri:
a) Criterio del collegamento territoriale: in forza di questo criterio la legittimazione va riconosciuta in
via esclusiva agli enti, organizzazioni e soggetti residenti nell’ambito territoriale soggetto alla sfera
di operatività del provvedimento impugnando;
b) Criterio della personalizzazione giuridica degli interessi diffusi in un ente rappresentativo: il primo
criterio si dimostrò presto inapplicabile in quanto, ove generalizzato, poteva comportare
l’aberrante conseguenza dell’esperibilità di migliaia di ricorso nei confronti di un medesimo atto.
Con una sentenza storica del 1973 del Consiglio di Stato si ammise la tutelabilità giurisdizionale
amministrativa degli interessi diffusi in materia ambientale, purchè il ricorso fosse proposto da
un’associazione privata riconosciuta, statutariamente deputata al perseguimento delle finalità di
protezione di siffatti interessi;
c) Criterio della rappresentatività: a seguito di tale contrasto giurisprudenziale si pervenne alla
conclusione che il riconoscimento della personalità giuridica non era condizione necessaria per
radicare la legittimazione processuale di un ente associativo. Ne derivava la legittimazione
processuale degli enti di fatto, laddove questi fossero stabilmente collegati con il territorio e muniti
di un’organizzazione associativa arrecante i caratteri della stabilità e dell’effettiva
rappresentatività;
d) Criterio della partecipazione procedimentale: negli ultimi anni si è preferito fare riferimento a
questo criterio, in forza del quale la legittimazione a tutela degli interessi collettivi deve essere
riconosciuta a tutte le organizzazioni di tipo associativo le quali, a prescindere dal possesso o meno
della personalità giuridica, siano ammesse a partecipare al procedimento amministrativo
finalizzato all’emanazione del provvedimento impugnando.
Questo criterio ha assunto un particolare rilievo pratico a seguito dell’intervento della l. 241/1990:
l’art. 9, nella misura in cui sancisce la legittimazione procedimentale dei portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni e comitati, rappresenta una fonte normativa generale della legittimazione
processuale degli stessi, con la conseguenza che la legittimazione processuale stessa vada ascritta a
tutte quelle organizzazioni che siano abilitate a partecipare al procedimento amministrativo poi
sfociato nel provvedimento da impugnare.
Ulteriore riferimento è l’art. 4 del d.p.r. 194/2006 (in materia di accesso ai documenti
amministrativi) laddove prevede che le disposizioni sulle modalità del diritto di accesso si applicano
anche ai portatori di interessi diffusi o collettivi.

Con riferimento ad alcuni ambiti, quali quello ambientale e della tutela del consumatore, il legislatore ha, di
fatto, circoscritto le ipotesi di tutelabilità dei relativi interessi collettivi attribuendo una legittimazione ex
lege solo ad alcune organizzazioni rappresentative di questi interessi.
13) In ambito ambientale: l’art. 13 della l. 349/1986 limita la legittimazione in giudizio alle sole
associazioni individuate con apposito decreto ministeriale. Solo queste si riconosce il potere di
intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per
l’annullamento di atti illegittimi.
La giurisprudenza ha premuto per ampliare le ipotesi di legittimazione ex lege anche a soggetti
inizialmente privi di riconoscimento (ministeriale) purché portatori di un interesse collettivo: in tal
modo viene di fatto garantito l’ingresso al processo a tutti quei soggetti che, pur non dotati del
riconoscimento, vogliano far valere in giudizio la lesione di un interesse indifferenziato e sociale,
prospettandolo come meritevole di considerazione giudiziale.
In tale prospettiva, alla stregua della più recente giurisprudenza, si ritiene ad es. che in materia ambientale la
legittimazione spetti non solo alle associazioni di protezione a carattere nazionale, individuate con decreto
ministeriale, ma anche alle articolazioni regionali delle stesse, purchè pregiudicate dall’atto impugnato.

Nella prospettiva di ampliamento della legittimazione processuale degli organismi collettivi si


segnalano quegli orientamenti interpretativi del Consiglio di Stato in base ai quali, dopo la riforma del
Titolo V della Cost., desume la funzione degli enti territoriali quali enti esponenziali rappresentativi
degli interessi della collettività di riferimento – da cui si ricava la legittimazione a ricorrere avverso
provvedimenti ritenuti illegittimi e connessi alla cura di interessi facenti capo ad essi.
(Perplessità: l’interesse sul quale poggia la legittimazione dei soggetti esponenziali di gruppi non occasionali
non può corrispondere alla somma degli interessi individuali dei singoli aderenti, ma deve avere carattere

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collettivo, non potendo il soggetto collettivo surrogarsi nella situazione di colui che risente degli effetti lesivi
dell’azione amministrativa, in quanto non sono consentite nel nostro ordinamento legittimazioni con le quali il
diritto d’azione venga conferito ad un soggetto diverso dal naturale portatore dell’interesse protetto).

AZIONI COLLETTIVE (Class action):


La class action è un’azione collettiva, promossa da uno o più soggetti che richiedono tutela non solo per sé
stessi, ma per la classe, ovvero tutti coloro che hanno subito il medesimo illecito.
In particolare, si tratta di un’azione che può essere esercitata da uno o più facenti parte di una categoria di
cittadini, consumatori o utenti, con lo scopo di risolvere una questione di comune rilevanza, attraverso una
sentenza che sia efficace non per chi concretamente agisce, ma anche per tutti gli altri soggetti che si
trovino nella stessa situazione giuridica.
Come affermato dalla dottrina, si tratta di una forma ti tutela collettiva di diritti aventi natura individuale.

Detta azione ha origine anglosassone, dove è particolarmente efficace per la sua natura risarcitoria che ha consentito di
condannare affermate compagnie e colossi economici al pagamento di ingenti somme di denaro a favore di cittadini o utenti
danneggiati. La class action anglosassone, oltre che riparatoria, è anche sanzionatoria, svolgendo così efficacemente la sua
funzione deterrente rispetto a comportamenti illeciti e soprusi perpetrati da potenti soggetti economici nei confronti dei
singoli utenti.

La class action civilistica:


L’avvio di una forma di tutela collettiva in Italia si è avuto nell’ambito della disciplina del consumatore: gli
artt. 139 e 140 del Codice del consumo (d.lgs. 206/2005) hanno infatti previsto una tutela collettiva degli
interessi dei consumatori, consentendo alle associazioni rappresentative di convenire in giudizio l’impresa
ed ottenere un provvedimento inibitorio dell’uso di una clausola abusiva. Si tratta di un provvedimento di
accertamento e di natura preventiva.
La l. 244/2007 ha poi istituito e disciplinato un’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori,
aggiungendo l’art. 140 bis (rubricato Azione di classe) al Codice del consumo.
Conformemente alla sua origine ultranazionale, l’azione collettiva civilistica ha natura risarcitoria (ma non
sanzionatoria) dei danni subiti dai consumatori o utenti ed è esperibile nei soli confronti di privati. Tale
azione può essere esperita da un consumatore/utente, anche dando mandato a un’associazione o comitato
cui partecipa, a tutela di diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti, contro l’impresa che li
ha violati. Si chiede al giudice, accertatene le responsabilità, di condannare l’impresa scorretta al
risarcimento del danno e alle restituzioni.
La novità di questa azione consiste nel fatto che tale accertamento produce effetti non solo tra le parti del
processo, ma anche nei confronti di tutti coloro che, pur non prendendo parte al giudizio, vi abbiano
aderito.

La class action pubblicistica:


E’ stata introdotta, con d.lgs.198/2009, una nuova azione di classe pubblica contro le inefficienze delle p.a.
e dei concessionari dei pubblici servizi. Trattasi di rimedio a carattere residuale rispetto all’azione collettiva
risarcitoria, per cui sono state introdotte apposite norme di coordinamento tra le due azioni.
à di
utenti e consumatori possono agire nei confronti della p.a. e dei concessionari di servizi pubblici, in caso di
lesione diretta, concreta e attuale dei propri interessi, per la violazione degli standard qualitativi e
economici degli obblighi contenuti nelle carte dei servizi, ovvero ancora per la mancata emanazione degli
atti amministrativi nei termini previsti.
Si tratta di uno strumento di tutela aggiunto rispetto a quelli previsti nel CPA, azionabile da singoli e
associazioni.
SCOPO dell’azione è quello di garantire il corretto svolgimento della funzione pubblica o la corretta
erogazione dei servizi, affidando la supervisione e il controllo dei parametri di efficienza, efficacia e
economicità ai singoli utenti, ovvero alle associazioni rappresentative dei loro interessi.

Tale azione può essere esperita non prima di aver rivolto all’amministrazione o al concessionario una diffida
a provvedere, entro 90 gg, al ripristino delle condizioni di efficienza del servizio o della funzione

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amministrativa mal (o non) esercitata. Decorso inutilmente questo termine, l’interessato può rivolgersi
entro il termine perentorio di 1 anno, al G.A. in sede di giurisdizione esclusiva, al fine di ottenere una
sentenza di accertamento e di condanna a un facere, che ordini in via generica all’amministrazione la
rimozione delle cause e (se possibile) gli effetti del disservizio.
Si tratta di un’ipotesi di giurisdizione amministrativa esclusiva del G.A.
Non è previsto alcun risarcimento del danno eventualmente subito dagli utenti, avendo l’azione mera
funzione sollecitatoria e ripristinatoria. In ordine al risarcimento del danno rimangono fermi i rimedi
ordinari.
Lo scopo deterrente proprio dell’azione di classe è rimesso unicamente alla previsione della trasmissione
della sentenza di accoglimento alla Corte dei conti e agli organismi di valutazione e misurazione delle
performances dei pubblici dipendenti, con l’obbligo, per l’amministrazione coinvolta, di accertare i soggetti
che hanno concorso a cagionare l’omissione o il ritardo sanzionati dal giudice e di adottare i conseguenti
provvedimenti di competenza.

Dottrina e associazioni dei consumatori hanno criticato che lo strumento è insufficiente a garantire risultati concreti, e
quindi è privo di utilità. Atteso che il privato, per ottenere il risarcimento, è tenuto ad attivare gli ordinari meccanismi
di tutela, sobbarcandosi i relativi costi, lo stesso non trae di fatto alcuna utilità dall’esperire l’azione di classe
(considerato anche il fatto che la sentenza positiva non garantisce comunque l’immediata risoluzione del disservizio,
essendo necessario, in caso di inerzia, ricorrere nuovamente in via giurisdizionale per l’ottemperanza della pronuncia).

GLI INTERESSI SEMPLICI:


L’interesse semplice è la pretesa a che la p.a., nell’esercizio del suo potere discrezionale, si attenga a quei
criteri di opportunità e convenienza che afferiscono al cd. merito amministrativo, e che sono tutelati dalle
norme non giuridiche di azione (cd. norme di buona amministrazione).
Tali interessi non ricevono tutela se non a livello amministrativo: essi possono essere fatti valere solo con i
ricorsi gerarchici. Soltanto eccezionalmente, e per casi tassativamente previsti, è ammessa la tutela
giurisdizionale avverso atti viziati nel merito -> nel qual caso però assurgono al rango di veri e propri
interessi legittimi.

GLI INTERESSI DI FATTO:


Sono quegli interessi, non qualificati né differenziati, a che la p.a. osservi i doveri giuridici posti a suo carico
e a vantaggio della collettività non soggetivizzata.
Essi sono del tutto irrilevanti per il diritto e non ricevono alcuna tutela: non sono interessi giuridici e, come
tali, non possono neanche legittimare la richiesta di accesso agli atti della p.a. (es. interesse a che le strade
siano ben mantenute, ben illuminate…).
L’unica garanzia riconosciuta a tutela di tali interessi sta nell’obbligo di buona amministrazione che grava
sulla p.a. I privati possono, con reclami, far rilevare eventuali mancanze alla p.a.: trattasi però di mere
denunce, di cui l’amministrazione può non tener conto. Solo in casi eccezionali i cittadini, uti singuli,
possono esperire azioni a tutela di interessi di fatto.

Le azioni popolari sono le azioni esperibili da soggetti non titolari di posizioni di diritto soggettivo o interesse
legittimo, in deroga al principio generale di cui all’art. 100 c.p.c. Esse si distinguono in:
- azioni suppletive: sono inquadrabili nel fenomeno della sostituzione processuale, laddove il cittadino
supplisca all’inerzia dell’amministrazione agendo a tutela di interessi non tutelati dalla stessa (art. 9 d.lgs.
267/2000: “Ciascun elettore può var valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano ai Comuni e alle
Province”);
- azioni correttive: rivolte nei confronti della stessa amministrazione, al fine di far valere una situazione di
illegittimità provocata dalla stessa. Esse sono considerate forme di democrazia indiretta.

LE PARTI

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PARTE DEL PROCESSO = soggetti titolari del potere di costituire rapporti processuali, allo scopo di ottenere
una decisione del giudice. -> soggetti diversi dal giudice nei confronti dei quali questi è investito della
decisione sulla controversia della controversia insorta.

L’istituzione della giurisdizione amministrativa non è avvenuta per assicurare una tutela diretta alle
posizioni giuridiche dei singoli, ma è concepita come una giurisdizione speciale di diritto pubblico, volta ad
tutelare l’interesse alla legittimità dell’attività amministrativa. Ciò che si voleva garantire era l’interesse
pubblico del quale la stessa amministrazione era portatrice. Se il giudice era chiamato a vedere se i
provvedimenti amministrativi erano legittimi, l’unica vera parte del processo era l’amministrazione, in
quanto portatrice dell’interesse pubblico (unico soggetto titolare dell’interesse in gioco). Il ricorrente in
realtà era un soggetto che veniva usato come strumento, occasione per provocare la verifica della
legittimità degli atti dell’amministrazione. Solo sul piano del processo si creava un rapporto tra ricorrente e
amministrazione chiamata in causa; a questo rapporto non corrispondeva però anche un rapporto
sostanziale.
Si dava vita a un processo fondato su un’istituzionale nono equivalenza tra interessi, e dunque tra parti. era
una giurisdizione di tipo oggettivo, volta alla tutela dell’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa,
che costruiva, di conseguenza, un processo puro di impugnazione che lasciava sullo sfondo le SGS delle
parti e poneva al centro l’atto amministrativo.

Giurisprudenza e dottrina hanno progressivamente riconosciuto il CARATTERE SOGGETTIVO del processo


amministrativo, mediante l’elaborazione ed riconoscimento (anche costituzionale) dell’interesse legittimo
come posizione giuridica sostanziale e garantita, e non come mero interesse processuale. Questo lavorio
dottrinale e giurisprudenziale è stato pienamente recepito dal CPA che delinea il processo amministrativo
come PROCESSO DI PARTI, retto dal PRINCIPIO DISPOSITIVO, ed avente carattere essenzialmente
SOGGETTIVO (è volto alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive). Il CPA dedica specificamente alle
parti (e ai difensori) il Titolo II del Libro I.
→ nel progetto preliminare del CPA era prevista una norma con l’elenco di tutte le parti, poi eliminato dal
testo definitivo, che erano: RICCORRENTE PRINCIPALE, RICORRENTE INCIDENTALE, AMMINISTRAZIONE o
soggetto equiparato resistente, CONTROINTERESSATO, INTERVENTORE.
Va evidenziato tuttavia che il ruolo delle parti è disegnato non solo dalle norme del Titolo II del Libro I, ma
da tutte le norme relative ai poteri delle parti contenute nei diversi libri del Codice. Esso ha infatti
consolidato l’evoluzione del processo amministrativo come processo di parti, valorizzandone il ruolo nei
singoli istituti processuali. Non pare tuttavia pienamente raggiunto l’obiettivo di un processo in cui
posizione e poteri processuali delle parti possano considerarsi del tutto equivalenti, in ossequio al
contraddittorio.

Attraverso la centralità acquisita dall’interesse individuale si è costruito il processo amministrativo come un


vero e proprio processo, davanti ad organi giurisdizionali, per la tutela di situazioni giuridiche sostanziali. In
conseguenza si è passati da un modello di processo di parti in senso formale ad un modello di processo di
parti in senso sostanziale.

 PARTE IN SENSO FORMALE (o processuale) -> SOGGETTO DEGLI ATTI PROCESSUALI -> colui che
propone la domanda (ricorrente) e colui nei confronti del quale la domanda è proposta (resistente).
La nozione di parte in senso formale non dice però niente per quanto attiene al rapporto giuridico
controverso. L’assetto di interessi sottesi al rapporto dedotto in giudizio emerge sol quando si
considerino le parti sotto l’aspetto sostanziale: quando cioè la parte è presa in esame non tanto
come soggetto degli atti processuali, bensì come destinataria degli effetti del processo o della
sentenza.
 PARTE IN SENSO SOSTANZIALE -> DESTINATARIO DEGLI EFFETTI DEL PROCESSO O DELLA SENTENZA
-> colui che è titolare della situazione giuridica soggettiva che si fa valere in giudizio lamentandone
la lesione e colui cui è imputabile la lesione.

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La parte in senso sostanziale è la parte che ha la legitimatio ad causam, cioè la capacità di presentare il
ricorso per la tutela di una situazione giuridica soggettiva. A tale nozione si affianca quella di legitimatio ad
processum, espressione della capacità di stare in giudizio (capacità di agire).

Esempi: Minore o incapace, proprietario di beni espropriabili:


la legitimatio ad causam è del minore, o incapace, titolare della proprietà;
la legitimatio ad processum è del genitore o del tutore.

Comune debitore di somme di denaro:


la legitimatio ad causam è dell’ente pubblico;
la legitimatio ad processum è del legale rappresentante dell’ente (sindaco).

Con riferimento al giudizio amministrativo le parti possono essere individuate secondo due possibili opzioni
teoriche:

A. CRITERIO DELL’ATTO: in base al quale sono parti la p.a. che ha emanato l’atto ed il soggetto che ne
chiede l’annullamento. L’atto è un efficace punto di riferimento, come espressione formalizzata della
decisione amministrativa, nel senso che nello svolgimento della sua attività l’amministrazione ha già
provveduto a fissare i termini del rapporto sostanziale determinando allo stesso tempo i soggetto
dell’eventuale rapporto processuale.
Il CPA sembra sostanzialmente rimanere ancorato a questo criterio, prevedendo come parti necessarie:
RICORRENTE, RESISTENTE, CONTROINTERESSATI.

B. CRITERIO SOGGETTIVO DELL’INTERESSE COINVOLTO: lo si può, seppur limitatamente, considerare


inserito nel CPA. Tale inserimento determina un ampliamento del numero delle parti fino a ricomprendere
‘tutti i soggetti nei cui confronti la pronuncia giurisdizionale è destinata in qualche modo ad incidere
rispondendo così ad esigenze irrinunciabili di giustizia sostanziale’.
Questa impostazione pare essere confluita nell’art. 28 CPA che al comma 1 disciplina l’intervento
(improprio) del CONTROINTERESSATO PRETERMESSO, parte necessaria nel senso che questo è una delle
parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata.

Sullo sfondo resta la questione dei rapporti tra partecipazione procedimentale e legittimazione
processuale. Il problema non si pone per il destinatario del provvedimento, legittimato ex se
all’impugnazione, ma per le altre figure soggettive che a vario titolo partecipano al procedimento.
Tra procedimento e processo non vi è identità di funzione: il primo è la sede di individuazione e valutazione
di tutti gli interessi rilevanti per l’esercizio del potere; il secondo la sede della tutela di uno degli interessi
rilevanti che si assuma ingiustificatamente sacrificato.
Se pare auspicabile l’affermazione di una corrispondenza tra soggetti del procedimento e soggetti del
processo, va evidenziato come interessi giuridicamente significativi vengono introdotti nel procedimento da
soggetti che, rispetto ad essi, non possono considerarsi titolari o centri esponenziali esclusivi o qualificati
degli stessi.
In giurisprudenza si afferma che non vi è piena corrispondenza tra le parti del procedimento e quelle del
processo: da un lato la partecipazione procedimentale non costituisce ex se titolo di legittimazione
processuale; dall’altro la mancata partecipazione al procedimento non preclude la possibilità di essere
parte processuale.
In questo senso si può affermare:
14) per la partecipazione procedimentale è sufficiente un interesse semplice;

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15) per la legittimazione processuale è necessaria la titolarità di un interesse legittimo o di un diritto
soggettivo, cioè di una SGS di tipo sostanziale della quale il soggetto abbia la disponibilità.

-PRINCIPALI-> determinano l’oggetto del processo


P.P. NECESSARIE-> parti in relazione alle quali il rapporto processuale deve sussistere
P.P. NON NECESSARIE -> parti che possono anche non essere coinvolte per la riuscita del processo
-ACCESSORIE-> subiscono le decisioni poste in essere dalle parti principali.

1) RICORRENTE :
è colui che propone il ricorso (sul piano formale) ma anche il titolare della situazione giuridica soggettiva
che si fa valere in giudizio (sul piano sostanziale).
Il ricorrente sarà tipicamente un soggetto privato, che lamenti la lesione di un interesse legittimo, a seguito
dell’adozione di un determinato provvedimento da parte della PA; ovvero a prescindere dall’eventuale
impugnativa di un provvedimento, il titolare di un diritto soggettivo leso, nelle materie di giurisdizione
esclusiva.
Sono possibili ricorrenti anche gli enti esponenziali di interessi superindividuali, quando la legge vi riconosca
espressamente la capacità di curare un interesse del gruppo (es. ordini professionali) ovveri di interessi
collettivi/diffusi (ambiente, consumatori…).
La legittimazione processuale degli enti esponenziali forza, ma non supera, l’ordinario criterio di
legittimazione, che resta legato alla titolarità di un interesse sostanziale in capo al ricorrente. Diverso è il
caso delle azioni cc.dd. popolari, che si sostanziano nel riconoscimento per legge di una legittimazione
processuale al quisque de popolo, che agendo in giudizio fa proprio un interesse diffuso.

Ipotesi controversa è il rapporto determinato dalla S.C.I.A.: dà vita a un caso di cd. autoamministrazione,
per cui l’eventuale lesione della sfera giuridica soggettiva del privato titolare di un interesse contrario
all’intrapresa dell’attività deriva dalla segnalazione del privato e non da un atto dell’amministrazione.
Questo crea incertezze sulle possibilità per il terzo dia assumere la veste di ricorrente. La giurisprudenza più
recente costruisce la tutela mediante proposizione di un’azione di accertamento autonomo volta a
verificare la sussistenza dei presupposti giuridici per l’esercizio dell’attività oggetto della segnalazione.

Nella giurisdizione esclusiva possono fronteggiarsi diritti soggettivi ed obblighi, quindi la p.a. può essere in
ipotesi titolare di un diritto soggettivo nei confronti del privato. Questo impone una riflessione
sull’individuazione della parte ricorrente.
Il problema si pone con evidenza quando si considerano i rapporti nascenti da attività amministrativa di
tipo consensuale: accordi tra privati e p.a., contratti pubblici, controversie in materia di pubblici servizi,
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urbanistica ed edilizia…). In questi casi la PA può a sua volta convenire in giudizio un’altra PA, oppure può
convenire direttamente un privato.
Oltre che nei rapporti di tipo consensuale, l’amministrazione può assumere la veste di ricorrente nei casi in
cui il privato chieda al G.A., in sede di giurisdizione esclusiva, l’emanazione di un decreto ingiuntivo. In base
alle norme del c.p.c., richiamate dall’art. 118 CPA, il processo di cognizione si attiva mediante ricorso in
opposizione da parte del soggetto ingiunto, che potrà essere la p.a.

Non mancano tuttavia casi in cui, anche al di fuori della giurisdizione esclusiva, possa assumere la veste di
parte ricorrente un soggetto pubblico. In via generale ciò può accadere in tutti i casi in cui il rapporto
processuale si instaura tra due soggetti pubblici.
In quest’ambito assume una certa rilevanza l’ipotesi del soggetto pubblico parte ricorrente in relazione ai
conflitti di competenza (es. invasione delle competenze degli enti locali da parte delle Regioni), nonché, per
alcuni aspetti, alle decisioni assunte mediante una conferenza di servizi (si è posto il problema della
possibilità per uno dei partecipanti di ricorrere avverso l’atto finale. Si ritiene che possano proporrete
ricorso le amministrazioni dissenzienti, ma non le amministrazioni regolarmente convocate, ma assenti).
Una particolare ipotesi di soggetto pubblico come parte ricorrente è quella dell’autorità garante della concorrenza e
del mercato, ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi
amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato.

2) RESISTENTE:
= Può individuarsi nell’autorità che ha posto in essere provvedimenti, atti, accordi o comportamenti
riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere che il ricorrente assume come lesivo o, più in
generale, nell’amministrazione nei cui confronti si faccia valere una pretesa sostanziale.
L’art. 41 comma 2 ha una formula ancora ancorata al vecchio modello impugnatorio del processo
amministrativo: l’amministrazione resistente è quella cui deve essere notificato il ricorso, in quanto autrice
dell’atto impugnato.
Nel processo amministrativo è sconosciuto l’istituto della contumacia, per cui una volta introdotto il
giudizio da parte del ricorrente, questo può proseguire anche senza che il resistente si costituisca. La scelta
di comparire o non comparire in giudizio spetta comunque alla p.a. resistente.
La chiamata in giudizio da parte del ricorrente fa acquisire all’amministrazione intimata la qualità di parte in
senso formale, ma può accadere che il ricorrente non abbia correttamente individuato l’amministrazione
resistente. In questo caso all’amministrazione non è preclusa la costituzione in giudizio, per far valere la sua
estraneità, ma il giudice concluderà nel senso dell’inammissibilità del ricorso a causa dell’irregolare
instaurazione del contraddittorio.

RISVOLTI PROBLEMATICI CIRCA L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DELLA P.A .


- Regola generale: è giusta parte resistente solo l’amministrazione che ha emanato l’atto finale del
procedimento, e non già organi o soggetti che abbiano preso parte a vario titolo all’iter.
Se uno degli atti presupposti è stato lesivo di situazioni giuridiche soggettive del ricorrente:
ammissibile proposizione del ricorso nei confronti degli organi o enti che l’abbiano posto in essere,
purchè l’atto sia immediatamente lesivo e sia preclusivo rispetto alla prosecuzione stessa del
procedimento, ovvero assuma carattere vincolante per l’autorità preposta all’emanazione del
provvedimento finale.
- Attività di controllo: qualora il controllo abbia esito negativo e conduca all’annullamento dell’atto
controllato, il ricorso potrà essere proposto contro l’amministrazione controllante, poiché è all’atto
negativo di controllo che è riconducibile la lesione della SGS. In caso di controllo positivo, questo
viene assorbito nel procedimento di formazione dell’atto – il ricorso andrà proposto contro
l’amministrazione che ha emanato il provvedimento.
- Nel caso di concorso di + amministrazioni (atto complesso), resistenti saranno tutte le P.A. cui
l’atto è imputabile.
- Nel caso di trasferimento di competenze da un’autorità all’altra: secondo l’orientamento
tradizionale sarebbe parte resistente l’autorità cui la funzione è stata trasferita (parte della

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giurisprudenza ha tuttavia affermato che parte resistente è comunque l’autorità emanante, a
prescindere da un successivo trasferimento di funzioni).
- Particolari problemi si sono posti in relazione alla legittimazione passiva dello Stato: deve essere
sempre fatta nella ‘persona del Ministro competente ratione materiae’. Le altre amministrazioni
stanno in giudizio nella persona dei soggetti che ne hanno la rappresentanza per legge o per
Statuto.
- Rappresentanza processuale degli enti locali: Comuni e province stanno in giudizio nella persona
di Sindaco e Presidente della Provincia, salvo che sia diversamente disposto dagli Statuti (in cui la
rapp.za può essere attribuita a dirigenti nell’ambito dei rispettivi settori di competenza).
- Nello schema classico del processo amministrativo parte resistente è necessariamente una p.a. La
legislazione degli ultimi anni ha imposto in molti casi a soggetti privati concessionari di pubblico
servizio di adottare per l’affidamento di lavori le stesse procedure seguite dai soggetti pubblici. La
giurisprudenza ha ritenuto che, nonostante si tratti di una lite tra privati, il carattere
oggettivamente amministrativo dell’attività esercitata dal concessionario debba indurre la
giurisdizione del G.A.

3) CONTROINTERESSATI quali contraddittori formali:


Sono controinteressati i soggetti titolari di una situazione giuridica soggettiva di SEGNO CONTRARIO
rispetto a quella del ricorrente.
L’art. 41 CPA dispone che il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, a:
- almeno uno dei controinteressati individuati nell’atto impugnato (nelle azioni di annullamento);
- eventuali beneficiari dell’atto illegittimo (nelle azioni di condanna).

Il controinteressato è il soggetto cui l’atto ha attribuito una posizione di vantaggio e che ha interesse alla
sua conservazione.
L’interesse del controinteressato non è diverso da quello del ricorrente, anzi deve considerarsi
qualitativamente ad esso omogeneo, in quanto sono entrambi coinvolti nell’azione amministrativa e
devono essere ugualmente considerati dall’amministrazione. Dovranno, quindi, considerarsi
controinteressati coloro nei cui confornti l’azione amministrativa ha spiegato efficacia, determinando in
modo diretto una posizione di vantaggio.
Il ruolo di controinteressato presuppone una posizione qualificata e differenziata, connessa alla titolarità
di un interesse sostanziale – omogeneo, ma antitetico, rispetto a quello del ricorrente – alla conservazione
dell’atto (non varrebbe un interesse indiretto, eventuale o di mero fatto).

In base alla vigente disciplina, i controinteressati sono PARTI NECESSARIE nel processo amministrativo,
poiché il contraddittorio deve essere instaurato, a pena di inammissibilità del ricorso, oltre che nei
confronti dell’amministrazione resistente, anche del controinteressato (art. 27 CPA).
L’art. 41 CPA, ribadendo l’orientamento formalistico formatosi in giurisprudenza, stabilisce che è
controinteressato “il soggetto che sia individuato nell’atto stesso”. Quindi dovrebbero considerarsi
litisconsorti necessari solo i soggetti espressamente menzionati nell’atto. Ma questo criterio appare troppo
formale, anche perché farebbe dipendere l’ampiezza del contraddittorio dalle tecniche di redazione dei
provvedimenti.
La scelta dell’art. 41 CPA, e del suo ancoraggio al dato formale, è dettato da un lato dall’esigenza di
ampliare il contraddittorio, e dall’altro, di notificare il ricorso ad almeno uno dei controinteressati, salva
l’integrazione successiva del contraddittorio, ex art. 49 CPA.
Questo è importante perché se un soggetto è parte necessaria, è necessario che gli sia garantita la
possibilità del contraddittorio, visto che la garanzia del contraddittorio è condizione di validità della
sentenza. Se il soggetto non è parte necessaria, non c’è l’obbligo di informarlo dell’esistenza del processo,
né quello di integrare il contraddittorio nei suoi confronti. l giudizio è quindi, ex art. 41, validamente
instaurato, quando il ricorso sia stato notificato AD ALMENO UNO DEI CONTROINTERESSATI.

Sulla disciplina dei contro interessati si è aperta una frattura tra:


- DOTTRINA (teorie sostanzialiste): la dottrina preme per una rilettura sostanzialista della figura del
contro interessato, al di là delle risultanze testuali dell’atto impugnato. E’ contro interessato in

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senso sostanziale CHIUNQUE sia portatore di un interesse uguale e contrario rispetto a quello del
ricorrente, anche se non sia facilmente identificabile sulla base dell’atto. Viene comunque in
evidenza la necessità che il contro interessato sia quantomeno titolare di una situazione giuridica
soggettiva qualificata (interesse legittimo/diritto soggettivo).
- GIURISPRUDENZA (teorie formaliste): la giurisprudenza ha più volte ribadito che, per ottenere la
qualifica di contro interessato è necessario un doppio elemento:
- formale: esplicita contemplazione del soggetto nel provvedimento impugnato (o immediata
individuabilità)
- sostanziale: riconoscimento in capo al contro interessato di un interesse al mantenimento
della situazione esistente, che è proprio di coloro che sono coinvolti da un provvedimento
amministrativo ed abbiano acquisito, in relazione a detto provvedimento, una posizione
giuridica qualificata alla sua conservazione.

In base ad una interpretazione estensiva dell’art. 41, saranno controinteressati:


- quelli ai quali l’atto direttamente si riferisce sono controinteressati da notiziare al ricorso;
- quelli espressamente menzionati nell’atto;
- quelli comunque facilmente individuabili sulla base dell’atto.

CONTROINTERESSATO SOSTANZIALE, OCCULTO O SOPRAVVENUTO:


Quando un soggetto può considerarsi controinteressato in senso sostanziale?
- Dottrina: chiunque sia portatore di un interesse uguale e contrario a quello del ricorrente, anche se
non sia facilmente identificabile sulla base dell’atto.
- Giurisprudenza: ha elaborato un criterio sostanziale che considera controinteressati i soggetti
titolari di interessi sostanziali e giuridicamente qualificati alla conservazione dell’atto, confliggenti
con la posizione del ricorrente. Tuttavia questo criterio non riceve applicazione sistematica e la
giurisprudenza afferma costantemente la contemporanea presenza sia dell’elemento dormale
(individuabilità sulla base del provvedimento) che dell’elemento sostanziale (titolarità di un
interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato).

→ Sul presupposto della contemporanea ricorrenza dell’elemento formale e sostanziale, la giurisprudenza


esclude dal novero dei controinteressati formali:
- i cc.dd. contro interessati occulti, la cui posizione di vantaggio non si evince dal provvedimento
impugnato, o sopravvenuti, la cui posizione di vantaggio emerge solo DOPO l’emanazione della
sentenza di primo grado.
- i soggetti, pur se individuati espressamente nell’atto, la cui posizione si traduce in un interesse alla
conservazione di un provvedimento a contenuto negativo e non nell’attribuzione di un vantaggio
(a contenuto positivo);
- i soggetti titolari di situazioni soggettive coinvolte da atti amministrativi.

Particolari problemi si pongono in relazione ai modelli di amministrazione cd. consensuale.


Art. 11 l. 241/1990 tiene fermo il principio che gli accordi tra privati e p.a. possano concludersi “senza
pregiudizio dei diritti dei terzi”. Ma in quali casi questi terzi assumono la veste di controinteressati?
Da un punto di vista sostanziale, l’individuazione di terzi controinteressati rispetto all’accordo può
emergere con riferimento alla loro partecipazione nella fase procedimentale antecedente alla conclusione
dell’accordo, ovvero in quanto siano espressamente contemplati nella determinazione che l’organo
procedente deve emanare prima della stipulazione dell’accordo.

Disciplina processuale dettata dal CPA in materia di silenzio-inadempimento:


se non sono configurabili controinteressati in un giudizio su un comportamento omissivo che si concluda
con una pronuncia a contenuto meramente dichiarativo, ben diversa è la situazione nel momento in cui il
giudice può esaminare la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente (art. 31). In quest’ultima
ipotesi sono configurabili controinteressati in senso sostanziale, poiché l’oggetto del giudizio non è il mero

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inadempimento dell’amministrazione, bensì il provvedimento che l’amministrazione sarebbe tenuta a
adottare in seguito alla decisione di accoglimento del ricorso.

Ambito delle materie di giurisdizione esclusiva:


il giudizio non ha necessariamente carattere impugnatorio, pertanto, manca un atto cui fare riferimento
per individuare i contro interessati.

controinteressato in senso formale, parte necessaria. Ciò non significa che ai controinteressati sostanziali
sia del tutto preclusa la possibilità di partecipare nel processo attraverso altri meccanismi.
- INTERVENTO VOLONTARIO in PRIMO GRADO. Art. 28 comma 2: ‘Chiunque non sia parte del
giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire
accettando lo stato ed il grado in cui il giudizio si trova’.
- La giurisprudenza ha mostrato aperture in favore di una lettura sostanziale della posizione del
controinteressato per quanto concerne la LEGITTIMAZIONE AD APPELLARE.
Possono proporre appello contro la sentenza di annullamento coloro che, anche se non siano stati
controinteressati nel giudizio di primo grado, o vi abbiano partecipato in qualità di interventori
volontari, abbiano tuttavia un apprezzabile interesse al mantenimento dell’atto impugnato (anche
se l’art. 102 CPA, come rinnovato, non sembra tenere conto di queste aperture giurisprudenziali).

IL PRINCIPIO DELL’INTEGRITA’ DEL CONTRADDITTORIO E L’INTEGRAZIONE IUSSU IUDICIS

CONTRADDITTORIO = posizione di eguaglianza delle parti del processo, in ordine alla possibilità astratta di
contribuire all’elaborazione del contenuto della sentenza.
- art. 2 CPA: richiama il contraddittorio quale principio del processo amministrativo
- art. 27 CPA: disciplina specifica del contraddittorio, con riferimento alla corretta instaurazione del
rapporto processuale.

Il principio del contraddittorio è soddisfatto SE tutti i soggetti coinvolti sono semplicemente messi in
condizione di prendere parte al giudizio, a prescindere dalla loro concreta partecipazione: si dice che il
contraddittorio nel processo amministrativo è sempre e solo eventuale! Trattandosi di un processo da
ricorso, l’atto introduttivo non è vocatio in ius, ma vocatio iudicis, un atto con cui si chiama il giudice a
provvedere sull’oggetto della domanda.

Il compito di garantire il contraddittorio è affidato rispettivamente a:


- RICORRENTE: deve notificare il ricorso alla PA e ad ALMENO un controinteressato (art. 41 comma
2);
- GIUDICE: può agire in base a quanto disposto da:
o ART. 49 CPA: INTEGRAZIONE IUSSU IUDICIS: se il ricorso è stato proposto SOLO contro
taluno dei contro interessati il presidente, o il collegio, ordina l’integrazione del
contraddittorio nei confronti degli altri. L’integrazione del contraddittorio iussu iudicis non
è discrezionale, ma espressione di un potere-dovere del giudice.
Data la nozione formalistica di controinteressato, accolta nel codice all’art. 41,
l’integrazione iussu iudicis. potrà essere disposta solo in favore dei contro interessati cc.dd.
‘formali’.
o ART. 28 CPA: INTERVENTO COATTO: il giudice, anche su istanza di parte, quando ritenga
opportuno che il processo possa svolgersi anche nei confronti di un terzo ne ordina
l’intervento secondo quanto previsto dall’art. 51 CPA (in questo caso l’integrazione è
pienamente discrezionale).

COINTERESSATI:

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Sono parti non necessarie del processo amministrativo: = soggetti titolari di un interesse della stessa natura
di quello del ricorrente.
Si è dibattuto molto in giurisprudenza circa la necessarietà della loro figura nel processo amministrativo e la
soluzione prevalente era quella negativa, maggiormente rafforzata oggi dal dato testuale del CPA.
Nel processo amministrativo non si danno ipotesi di litisconsorzio necessario dal lato attivo, per cui se un
provvedimento lede più soggetti, non è necessario che propongano ricorso congiuntamente, né sussiste
l’obbligo di chiamarli tutti in giudizio.
I cointeressati accederanno quindi al giudizio amministrativo solo in quanto propongano autonoma
impugnativa, entro il termine decadenziale, avverso il provvedimento lesivo. Una diversa soluzione
consentirebbe un’ingiustificata elusione del termine di decadenza per la proposizione del ricorso.
Si è posto il problema se consentire ai controinteressati di partecipare al processo attraverso lo strumento
dell’intervento. La giurisprudenza generalmente esclude che tale strumento sia utilizzabile, poiché i
controinteressati sono titolari di una posizione autonoma e equiparata a quella del ricorrente e non
dipendente dall’oggetto del giudizio. La formulazione dell’art. 28 CPA però consente senz’altro l’intervento
dei controinteressati, ma conferma il necessario rispetto del termine per la proposizione del ricorso,
quando impone per l’intervento volontario in giudizio la condizione di non essere decaduto dall’esercziod
elle relative azioni.

La difesa in giudizio delle parti


La rappresentanza processuale è diversa dalla rappresentanza tecnica e dalla difesa, la quale deve essere
prestata dal difensore. Nel giudizio amministrativo le parti devono essere assistite (non necessariamente
rappresentate) da un avvocato, abilitato al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori per i giudizi di fronte
al Consiglio di Stato (art. 22 comma 2), salvo le eccezioni in cui la parte può stare in giudizio personalmente
di cui all’art. 23 CPA:
a. Giudizi in materia elettorale
b. Giudizi in materia di diritto d’accesso
c. Giudizi relativi al diritto dei cittadini dell’UE e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel
territorio degli Stati membri.

L’art. 25 disciplina l’elezione di domicilio: se la parte non elegge domicilio nel comune dove ha sede l’ufficio
giudiziario, il domicilio si intende eletto presso la segreteria dell’ufficio stesso.
E’ possibile che il legale ottenga una procura speciale per rappresentare la parte; se non c’è tutti gli atti
processuali devono essere firmati sia dalla parte che dall’avvocato.
Il CPA stabilisce espressamente che la procura si intende conferita anche per proporre motivi aggiunti e
ricorso incidentale, salvo che in essa sia diversamente disposto. La procura non comprende, tuttavia, la
proposizione delle impugnazioni, dovendosi ritenere applicabile l’art. 83 c.p.c. che stabilisce che la procura
speciale si presume conferita per un determinato grado del processo, salvo diversa statuizione.

Al pari delle parti private, anche per le p.a. nei giudizi amministrativi sussiste l’obbligo del patrocinio di un
avvocato.
- amm.ni statali + enti pubblici espressamente autorizzati da disposizioni di legge -> sono rappresentate,
salvo ipotesi eccezionali, dall’AVVOCATURA DELLO STATO (di essa possono avvalersi anche le Regioni,
tranne che nelle controversie contro lo Stato).
- altre amministrazioni -> UFFICIO LEGALE INTERNO o RICORSO A PROFESSIONISTA ESTERNO.

ATTI PROCESSUALI
PROCESSO = speciale tipo di procedimento consistente in una sequenza di atti tra loro connessi e finalizzati
all’adozione di un provvedimento finale, con il quale viene risolta una controversia. Sotto il profilo
funzionale, consiste in quel particolare procedimento mediante il quale viene esercitata la funzione
giurisdizionale.

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ATTO PROCESSUALE = qualsiasi condotta prevista dalla normativa regolatrice di quella sequenza
procedimentale nella quale si sviluppa il processo. Questa definizione si attaglia anche agli atti del processo
amministrativo, essendo questo una species del processo giurisdizionale.

Gli atti processuali si distinguono secondo:


SOGGETTI DA CUI PROMANANO ATTI DI PARTE: condotte normativamente tipizzate che le parti
tengono nel processo (servono ad introdurre il processo, a
stimolarne la prosecuzione o a farlo estinguere).

PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI: atti posti in essere dall’organo


giurisdizionale, possono distinguersi in:
- ATTI PREPARATORI (conducono all’atto conclusivo del processo,
sono strumentali alla sua adozione);
- ATTI FINALI (provvedimenti di merito o di rito).

I provvedimenti giurisdizionali si distinguono, secondo la forma, in


SENTENZA, ORDINANZA e DECRETO.

EFFICACIA EFFICACIA PROCESSUALE: Atti che esauriscono il loro rilievo


all’interno del processo (es. rinuncia all’azione).
EFFICACIA SOSTANZIALE: atti che proiettano i loro effetti fuori dal
processo, incidendo nella sfera giuridica sostanziale del soggetto
(es. sentenza di merito).

CONTENUTO ISTANZE RIVOLTE AL GIUDICE (o ausiliari): mirano a dare impulso


all’attività processuale (ed attivare le funzioni del giudice).

ATTI DEFENSIONALI: sono finalizzati ad esternare le


argomentazioni giuridiche poste a sostegno dell’azione, o
dell’eccezione, e delle connesse pretese, e ad ottenere decisioni su
questioni istruttorie, processuali o di merito.

Anche i provvedimenti giurisdizionali si distinguono in relazione al


contenuto:
- provvedimenti di rito: dispongono atti istruttori, pronunciano la
sospensione del giudizio o la sua estinzione (per irricevibilità,
inammissibilità o intervenuta perenzione, improcedibilità).
- provvedimenti di merito: definiscono la controversia, decidendo
per l’accoglimento o il rigetto della domanda.

FORMA E LUOGO DEGLI ATTI PROCESSUALI:


Per quanto riguarda la FORMA degli atti, sembra doversi ritenere operante anche nel processo
amministrativo l’art. 121 c.p.c., che stabilisce che ‘gli atti del processo per i quali la legge non richiede
forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo’. Si
introduce così il PRINCIPIO DI LIBERTA’ DELLE FORME DEGLI ATTI.

Nonostante questo principio, le eccezioni in materia però sono tante:


1. FORMA SCRITTA ad substantiam per la maggior parte degli atti processuali (la forma orale è usata
solo per le istanze avanzate in udienza o per le discussioni dei difensori, o dal giudice per gli atti
presidenziali di direzione o polizia dell’udienza -> l’atto orale è poi documentato previa
VERBALIZZAZIONE, prescritta ad probationem).
2. USO DELLA LINGUA ITALIANA (i cittadini di lingua tedesca possono usare la loro lingua sia in primo
grado che in appello).

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3. SOTTOSCRIZIONE DA PARTE DELL’AUTORE: pur se stabilita a pena di nullità solo per il ricorso
introduttivo del giudizio e la sentenza, l’onere di sottoscrizione costituisce corollario di un principio
generale.
4. USO DI FORMULE SACRAMENTALI (previsto in alcune ipotesi). Es. art. 101 Cost. prevede che le
sentenze siano pronunciate “in nome del popolo italiano”.

Per quanto riguarda il LUOGO degli atti: non tutti devono essere compiuti presso l’Ufficio giudiziario o
innanzi al Collegio giudicante.
- Atti orali: vanno compiuti sempre presso la sede dell’Ufficio giudiziario, innanzi al Collegio e al
segretario, il quale redige il relativo processo verbale.
- Atti scritti: bisogna distinguere tra le varie fasi che conducono alla loro realizzazione -> redazione,
sottoscrizione, deposito. Gli atti da produrre in giudizio possono essere redatti di regola ovunque.
Gli atti processuali che presuppongono una decisione non si perfezionano, di regola, se non con la
sottoscrizione dell’autore. La sottoscrizione dei provvedimenti giudiziari deve avvenire sempre in
presenza del segretario verbalizzante.
Gli atti giudiziari divengono efficaci non appena resi pubblici. La pubblicazione può compiersi:
a) mediante deposito in segreteria;
b) mediante adozione in pubblico (in pubblica udienza o in camera di consiglio alla presenza del
pubblico o dei soggetti che hanno titolo per presenziare).

NOTIFICAZIONE
E’ l’atto con cui l’ufficiale giudiziario (o altro soggetto cui la legge assegna funzioni analoghe) porta a
conoscenza del destinatario un atto giuridico ed attesta, con effetto certatorio, di averlo fatto.
Molti atti del processo amministrativo vanno notificati. La disciplina della notificazione dei vari atti prevede
diverse forme ed è contenuta in vari testi normativi.
I soggetti che possono compiere le notificazioni sono:
- UFFICIALI GIUDIZIARI
- MESSI DI CONCILIAZIONE -> serve autorizzazione del Pres. TAR o Consiglio di Stato, nei soli casi in
cui u.g. o ausiliari manchino o siano impediti.
- AVVOCATI -> serve procura speciale + autorizzazione del Consiglio dell’ordine forense + obbligo di
mantenere registro delle notifiche. Può essere fatta solo via posta, o consegna diretta (ma solo nel
caso in cui destinatario sia un altro avvocato, nella qualità di procuratore costituito).

Gli Ufficiali giudiziari hanno competenza limitata, territorialmente e funzionalmente. Regole della
notificazione applicabili al processo amministrativo:
1) Se gli u.g. non utilizzano il servizio postale possono notificare SOLO nell’ambito circoscrizionale ove
ha sede l’ufficio presso cui sono addetti (con la posta possono invece notificare OVUNQUE)
2) In ogni caso, possono notificare SOLO atti relativi ad affari per i quali è competente l’u.g. presso cui
sono addetti.
3) L’inosservanza di queste due disposizioni non determina la nullità della notifica, ferma restando la
responsabilità disciplinare dell’ufficiale incompetente.

Le forme della notificazione sono:


- MEDIANTE CONSEGNA DIRETTA: a mani proprie del destinatario; presso abitazione/ufficio/luogo di
lavoro del destintario; nelle mani di un portiere o di un vicino che accetti di riceverla (purché se ne
dia avviso al destinatario ed al mittente); mediante deposito di copia del ricorso nella casa
comunale seguito dall’affissione del relativo avviso alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del
destinatario e dalla comunicazione allo stesso dell’avvenuto deposito; nel caso in cui siano
sconosciuti la residenza/dimora/domicilio, mediante deposito di copia dell’atto nella casa
comunale dell’ultima residenza o nella casa comunale del luogo di nascita.
(Norme più specifiche regolano le notifiche ai soggetti non residenti in Italia, per le quali il termine
per la notificazione è aumentato di 30 gg se paese europeo, 90 gg se fuori Europa); e ai militari).

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- MEDIANTE SERVIZIO POSTALE -> per il notificante fa fede la data di consegna all’ufficiale
giudiziario. La Corte Costituzionale ha precisato come il termine di efficacia sia diverso per:
-notificante: consegna dell’atto all’u.g.
-notificato: ricezione dell’atto (attestata dall’avviso di ricevimento).

- MEDIANTE PUBBLICI PROCLAMI -> è prevista ex art. 41 quarto comma CPA, si utilizza nel caso in
cui ‘la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle
persone da chiamare in giudizio’. E’ effettuata previa autorizzazione del presidente del Tribunale,
nei modi da questi indicati.

- PER VIA TELEMATICA, FAX o qualunque mezzo idoneo -> è prevista ex art. 52 CPA; può essere
fatta solo se espressamente autorizzata dal presidente del Tribunale ed a fronte di cause che
determinano l’oggettiva impossibilità di ricorrere agli strumenti ordinari di notificazione.

INVALIDITA’ DELLA NOTIFICA:


vale la regola generale (di cui all’art. 156 c.p.c.) applicabile al processo amministrativo, della IRRILEVANZA
DELLE NULLITA’ DEGLI ATTI CHE ABBIANO COMUNQUE RAGGIUNTO LO SCOPO, per cui la costituzione in
giudizio di chi è stato evocato in giudizio in forza di una notifica nulla ha effetto sanante (ancorché questi si
sia costituito con il solo fine di rilevare la nullità).
Il CPA ha precisato che nelle ipotesi in cui la notificazione sia nulla e il destinatario non si costituisca, il
giudice può rimettere in termini il ricorrente, ove la nullità non sia a lui imputabile (art. 44 comma 4).
La notificazione è nulla quando è fatta al domicilio reale dell’Amm.ne statale invece che presso l’ufficio
dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’organo giurisdizionale competente a decidere.

UDIENZE
Sono il periodo di tempo durante il quale il giudice siede per rendere giustizia in una sala della sede
dell’Ufficio giudiziario a ciò destinata prendendo contatto con le parti processuali o con i loro
rappresentanti.
Durante l’udienza, il giudice ascolta le istanze rivoltegli dalle parti, per decidere sulla controversia posta alla
sua attenzione.
Il CPA dedica una serie di disposizioni al tema: alla fissazione dell’udienza (art. 71), all’udienza di
discussione (art. 73 e 87). L’art. 9 dell’Allegato 2 al CPA disciplina il calendario delle udienze.

Le udienze del processo amministrativo si distinguono in:


UDIENZE PUBBLICHE UDIENZE CAMERALI CAMERA DI CONSIGLIO
Udienze che il giudice tiene presso Sono quelle particolari udienze a Consiste nella riunione riservata dei
un’aula alla quale ha accesso porte chiuse nelle quali compaiono soli magistrati componenti il Collegio
chiunque intenda presenziare, anche davanti al giudice esclusivamente giudicante, riunione nella quale gli
se non interessato direttamente. alcune categorie di soggetti indicati stessi discutono e decidono l’esito
La regola generale, valida anche per dalla legge: parti, difensori, della causa.
il processo amministrativo, è che le testimoni, ausiliari del giudice. Per espressa previsione normativa,
udienze sono pubbliche, pena la Ad esse possono presenziare di devono essere trattati in CdC, da
nullità delle stesse. regola esclusivamente i difensori fissarsi successivamente al 30mo
delle parti ma non anche queste giorno decorrente dalla scadenza del
ultime personalmente. termine di costituzione delle parti
intimate, i giudizi cautelari e quelli
relativi all’esecuzione delle misure
cautelari collegiali; il giudizio in
materia di silenzio; di accesso ai
documenti amministrativi; i giudizi di
ottemperanza; di opposizione ai
decreti che pronunciano l’estinzione
o l’improcedibilità del giudizio.
Il procedimento in CdC è previsto

71
anche per le ipotesi di correzione di
errore materiale della sentenza;
appello avverso l’ordinanza che ha
sospeso o interrotto il giudizio;
avverso la decisione che ha declinato
la giurisdizione o la competenza.

In materia di polizia delle udienze, dispongono gli artt. 8 e ss. dell’Allegato 2.


- udienza è diretta dal Presidente in caso di adunanza collegiale e il segretario redige il verbale
d’udienza sottoscritto poi dal Presidente.
- È vietato fare segni di approvazione o disapprovazione, o cagionare in qualsiasi modo disturbo. È
prevista la possibilità per il Presidente del Collegio di richiedere, ove lo ritenga necessario,
l’intervento della forza pubblica al fine di garantire il regolare svolgimento dell’udienza.
- All’udienza deve assistere il segretario della Sezione, che ha funzione di verbalizzare, a fini di
certazione, alcune circostanze e attività che si svolgono in sua presenza.

GLI ATTI DEL GIUDICE


Nel processo amministrativo il giudice è eminentemente collegiale. Sono previsti alcuni atti monocratici, di
competenza del Presidente del collegio giudicante o di un giudice da lui delegato. In particolare le sentenze sono
sempre collegiali.
Nel procedimento di formazione degli atti giudiziari assume autonomo rilievo il momento dell’assunzione della
decisione che, se collegiale, deve essere adottata in camera di consiglio. L’art. 76 CPA disciplina le modalità della
votazione.
Gli atti giudiziari sono efficaci appena resi pubblici nei modi previsti dalla legge. La PUBBLICAZIONE può avvenire:
a) mediante deposito in segreteria (atto diviene conoscibile da chi ne abbia interesse);
b) mediante notifica o comunicazione al destinatario;
c) mediante adozione in pubblico quando l’atto viene compiuto, in pubblica udienza o camera di consiglio, alla
presenza del pubblico o dei soggetti che hanno titolo per presenziare.

Questi atti possono essere classificati in:


1) SENTENZE:
La sentenza è il provvedimento giudiziario che conclude il processo, o parte di esso (ex. art. 33 CPA : il
giudice pronuncia sentenza ‘quando definisce in tutto o in parte il grado di giudizio’).
Prima dell’istituzione dei TAR, il legislatore definiva “decisione” e non “sentenza” il provvedimento
giudiziario conclusivo del procedimento: ciò rispondeva all’originaria natura non giurisdizionale del
ricorso alla IV Sezione del Consiglio di Stato (giustizia amministrativa come giustizia
NELL’amministrazione). La concezione della giustizia amministrativa è poi cambiata e da quando si è
riconosciuto alle Sezioni giudicanti del Consiglio di Stato la natura di organi giurisdizionali, anche le
”decisioni” da loro assunte sono state considerate “sentenze”.
La sentenza, una volta assunta la decisione, va redatta nel termine di 45 giorni (termine ritenuto non
perentorio), e viene resa pubblica attraverso il suo deposito in segreteria. Nei processi a ritto accelerato
o immediato i termini sono abbreviati. Diversi termini sono previsti anche per i giudizi in materia
elettorale.

La sentenza si compone di tutti gli elementi di cui all’art. 88 CPA, che sono essenzialmente:
- INTESTAZIONE
- PARTE DESCRITTIVA DEL FATTO
- PARTE ARGOMENTATIVA CONTENENTE LA MOTIVAZIONE -> ex art. 118 c.p.c. basta una ‘succinta
motivazione’
- PARTE DISPOSITIVA CON IL COMANDO PER LE PARTI

Le sentenze dei giudici amministrativi si distinguono in:

72
- Definitive: definiscono del tutto la controversia. Se la definizione avviene solo in parte la sentenza
si dice parziale (in questo caso si decide su una questione di rito o merito, disponendo per il resto
incombenti istruttori e processuali e riservandosi di decidere successivamente in ordine alle
questioni non risolte). Le sentenze così pronunciate passano in giudicato e sono appellabili.
- Non definitive: non definiscono il giudizio. Hanno solo la forma delle sentenze, mentre in nulla
differiscono in sostanza dalle ordinanze, delle quali hanno analoga funzione. Non determinano res
giudicata e non sono appellabili.

Le sentenze sono poi tradizionalmente divise in sentenze di:


- RITO: (art. 35 CPA) quando definiscono il giudizio senza risolvere il merito della controversia. Sono
tali le sentenze dichiarative di:
-IRRICEVIBILITA’ DEL RICORSO -> per tardività della notificazione/deposito
-INAMMISSIBILITA’ DEL RICORSO -> per carenza originaria di interesse/difetto di condizione
dell’azione o presupposto processuale
-IMPROCEDIBILITA’ DEL RICORSO -> per carenza sopravvenuta di interesse/mancata integrazione del
contraddittorio nel termine stabilito/sopravvenienza di ragioni ostative alla prosecuzione del
giudizio.
I primi due tipi di sentenza si riferiscono a VIZI DEL RICORSO, gli altri due a VIZI SOPRAVVENUTI IN
CORSO DI GIUDIZIO.

- MERITO (art. 34 CPA) quando risolvono la controversia di diritto sostanziale, attraverso una
pronuncia di accoglimento o di rigetto della domanda giudiziale, distinguendosi a seconda
dell’azione proposta e decisa.
- annulla, in tutto o in parte, il provvedimento impugnato
- ordina all’amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine
- condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno,
all’adozione delle misure idonee a tutelare la SGS dedotta in giudizio e dispone misure di
risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c. [Il d.lgs. 160/2012 ha poi aggiunto l’ipotesi
della condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, purchè la relativa azione sia esercitata nei
limiti del 31 CPA, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o
all’azione avverso il silenzio].
- nei casi di giurisdizione di merito adotta un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello
impugnato
- dispone le misure idonee ad assicurare attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese,
compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con
effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza.

E’ anche prevista, all’art. 74 CPA, la possibilità di emanare sentenza in forma semplificata, qualora
il giudice rilevi la manifesta infondatezza, fondatezza, inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità
del ricorso. In queste ipotesi la sentenza potrà anche consistere in un sintetico riferimento al punto
di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.

2) ORDINANZE
Le ordinanze sono ‘provvedimenti succintamente motivati che possono essere adottati anche fuori
dall’udienza’. Le ordinanze si possono distinguere in:
o monocratiche
 presidenziali, se adottate da un presidente di Sezione
 delegate, adottate dal magistrato delegato
o collegiali
E’ sempre necessaria: data e sottoscrizione del magistrato; anche del presidente per le ordinanze
collegiali.
Le ordinanze sono adottate nel contraddittorio delle parti, sono di regola revocabili e modificabili.
Il CPA all’art. 33 dispone che le ordinanze (e i decreti), se non pronunciati in udienza o in camera di
consiglio e inseriti nel relativo verbale, sono comunicati alle parti nel termine di cui al comma 3
dell’art. 89 – entro 5 gg dal deposito.

73
Ex art. 36 CPA il giudice provvede con ordinanza in tutti i casi in cui non definisce nemmeno in parte
il giudizio.
Sono di regola disposti con ordinanza: istruttoria, integrazione del contraddittorio, decisione
sull’istanza in materia di accesso presentata in relazione a un giudizio pendente, pronuncia sulla
competenza, istanza di correzione dell’errore materiale della sentenza, opposizione avverso il
decreto di estinzione o improcedibilità, esecuzione di un’ordinanza per il giudizio di ottemperanza…

3) DECRETI
Hanno medesima funzione delle ordinanze, di tipo quindi ordinatorio o preparatorio.
La differenza tra ordinanze e decreti la si riscontra quindi essenzialmente sul piano STRUTTURALE,
per cui il decreto:
-ha portata essenzialmente individuale;
-è adottabile anche in assenza di contraddittorio;
-è atto processuale che l’organo giudiziario rivolte essenzialmente al proprio ufficio per ordinare che
venga formalizzato un adempimento;
-può essere adottato SOLO NEI CASI PREVISTI DALLA LEGGE (ex art. 33 comma 1 lett. C) CPA)

INVALIDITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI


Nel CPA è rimasta la lacuna relativa alla disciplina dell’invalidità degli atti processuali. Dottrina e
giurisprudenza si sono interrogate sulla possibilità di estendere al processo amministrativo le regole del
c.p.c. -> AP Consiglio di Stato nel 1963 ha statuito che le norme del c.p.c. sono applicabili, ad integrazione di
quelle contenute nel regolamento di procedura del 1907, ogniqualvolta non contrastino con i principi
propri dell’ordinamento amministrativo.
Il CPA conferma questo orientamento stabilendo che si applicano le disposizioni del CPC ‘in quanto
compatibili o espressione di principi generali’ (art. 39 comma 1).

NORMA BASE: ART. 156 CPC


- Comma 1: la nullità non può essere pronunciata per inosservanza di forme di alcun atto del
processo, se essa non è comminata per legge. → Tassatività della nullità
- Commi 2 e 3: norma di chiusura, per cui la nullità può essere pronunciata quando l’atto manca dei
requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, sempreché quest’ultimo non sia
stato comunque raggiunto.

- sono invalidanti i vizi per i quali è espressamente comminata la nullità;


- sono invalidanti i vizi determinati dalla mancanza di un requisito essenziale di forma;
- sono irrilevanti – mere irregolarità – tutti gli altri vizi;
- la concreta individuazione dei casi tipici di vizio invalidante per mancanza di requisiti formali per i
quali il legislatore abbia omesso la comminatoria espressa della nullità, è devoluta al giudice.

La sentenza è NULLA:
a) quando abbia omesso di rilevare la nullità insanabile del ricorso;
b) quando è stata adottata da un organo giurisdizionale invalidamente costituito;
c) quando manchi della sottoscrizione del presidente e dell’estensore;
d) quando difetti dell’indicazione del nome e cognome delle parti e loro avvocati, ovvero se il ricorso
è stato sottoscritto da un professionista non abilitato; quando manchino: indicazione domande,
esposizione motivi di fatto e diritto, dispositivo, ordine di esecuzione, indicazione del giorno e
luogo, firma del segretario (purchè non siano desumibili dal contesto e sempre che la loro
mancanza non impedisca alla sentenza di realizzare lo scopo che le è proprio).

In ogni caso la disciplina sull’invalidità va integrata con quanto disposto dalle ALTRE NORME IN
MATERIA:

74
- ART. 157 CPC: nullità può essere rilevata d’ufficio solo quando ciò è disposto per legge, nullità ad
istanza di parte può essere proposta solo dalla parte che ne riceve pregiudizio, nullità non può essere
opposta dalla parte che vi ha dato causa né da quella che vi ha rinunciato.
- ART. 159 CPC: la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti o degli atti successivi
indipendenti, la nullità di una parte dell’atto non colpisce le altre parti se ne sono indipendenti, se il
vizio impedisce un determinato effetto l’atto può tuttavia produrre gli effetti ai quali è idoneo.

La giurisprudenza ha generalmente ritenuto:


- che il ricorso è insanabilmente nullo solo nei casi di mancanza di mandato ad litem o
sottoscrizione, ed in cui l’inosservanza di prescrizioni determini incertezza assoluta sulle persone o
sull’oggetto della domanda;
- nei casi in cui la nullità è sanabile, la costituzione in giudizio dell’intimato ne determina
automaticamente la sanatoria;
- la nullità del ricorso determina l’inammissibilità della domanda rilevabile d’ufficio;
- qualora un ricorso volto all’introduzione di una domanda sia privo dei requisiti che dovrebbero
connotarlo, ma sia rispondente allo schema legale di un altro tipo di ricorso, esso va considerato
idoneo a produrre gli effetti tipici dell’atto del quale ha i requisiti;
- anche la nullità della notifica viene sanata, salvo che non sia tardiva, dalla costituzione in giudizio
delle controparti.
→ Tendenza è quella di ritenere applicabili i principi di CONSERVAZIONE E CONVERSIONE DEGLI ATTI
PROCESSUALI di cui all’art. 159 c.p.c.

Ugualmente critica è la posizione sul concetto di INESISTENZA. Secondo la dottrina consisterebbe nella
mancanza di un requisito costitutivo della fattispecie. Quanto ai caratteri paradigmatici, la dottrina
afferma che l’atto inesistente, pur se pienamente efficace sino alla sua eventuale caducazione, sarebbe
insanabile, ma inidoneo a produrre effetti definitivi. L’inesistenza sarebbe sempre rilevabile sia in via di
azione che in via di eccezione. Ciò equivale a dire che tale vizio non viene assorbito neanche dal
giudicato. E poiché, invece, qualsiasi vizio di regola si consolida nel giudicato, la disposizione diventa
una deviazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.

Rinnovazione e correzione degli atti invalidi:


Art. 162 c.p.c. è dedicato alla cd. rinnovazione degli atti invalidi: il giudice che pronuncia la nullità deve
disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende.
La norma va letta in relazione all’art. 159 ai sensi del quale la nullità di un atto o di una sua parte si estende
agli atti successivi, o delle parti dell’atto, che da esso dipendono.
Dipendenza: in senso logico e non solo cronologico. Si ha dipendenza quando i due atti siano
inscindibilmente connessi sotto il profilo eziologico.
La norma ha la finalità di sanare in corso di causa eventuali nullità derivate allo scopo che esse si riflettano,
viziandola, sulla decisione finale.

I PRESUPPOSTI E LE CONDIZIONI DELL’AZIONE


I PRESUPPOSTI PROCESSUALI sono il punto di passaggio tra il diritto sostanziale ed il diritto processuale:
devono ricorrere per la corretta instaurazione del procedimento giurisdizionale.
La dottrina è arrivata alle più diverse soluzioni circa l’individuazione dei presupposti dell’azione, specie per
l’intrecciarsi con le condizioni dell’azione. Non vi è unicità di vedute tra i requisiti che costituiscono i
presupposti e quelli che fanno parte delle condizioni dell’azione poiché sono diversi i punti di partenza.

PRESUPPOSTI PROCESSUALI: sono elementi necessari perché possa affrontarsi il merito di una
questione.

75
Effetti giuridici: consistono nel permettere che si possa esprimere il giudizio sul merito che, non essendo
influenzato dai presupposti, non è pregiudicato dalla mancanza dei presupposti stessi. Ciò comporta che la
carenza dei presupposti non impedisce la riproposizione della domanda, non essendo intervenuta alcuna
decisione sul merito.
1) esistenza della giurisdizione del giudice adito;
2) la competenza; mancanza determina IRRICEVIBILITA’ ricorso
3) la capacità di essere parti, capacità processuale

1. GIURISDIZIONE:
= insieme di poteri cognitori, cautelari, istruttori e decisori che vengono attribuiti a un ordine
giurisdizionale.
Nelle controversie in cui è parte la p.a. vi sono due ordini giurisdizionali che hanno giurisdizione in via
generale: il G.O. e il G.A. L’erronea individuazione del giudice comporta una pronuncia di difetto di
giurisdizione.
Le norme che disciplinano il riparto hanno natura processuale e non riguardano la pretesa sostanziale del
ricorrente, ma la corretta instaurazione del rapporto processuale, per cui costituisce un presupposto la cui
mancanza consente la riproposizione dell’azione innanzi al giudice avente giurisdizione.

2. COMPETENZA
= È una misura organizzativa per distribuire in base a regole predeterminate (territorio, valore, funzione…),
la giurisdizione tra i diversi giudici che compongono il medesimo ordine giurisdizionale.
Sono le norme processuali a regolare la competenza e il suo difetto comporta che il giudice concretamente
adito dichiari la propria incompetenza, senza pregiudicare la pretesa sostanziale perché questo
presupposto riguarda la corretta instaurazione del rapporto processuale, non il merito della controversia,
consentendo all’interessato di riproporre la domanda davanti al giudice competente.
Nel giudizio amministrativo di primo grado la competenza tra i diversi TAR è regolata essenzialmente per
territorio ed è inderogabile. L’errore nell’individuazione del TAR competente rimane privo di conseguenze
in ordine alla tutela della situazione giuridica soggettiva che viene fatta valere davanti al TAR competente,
senza alcuna preclusione, purchè intervenga la tempestiva riassunzione innanzi al TAR competente.

3. CAPACITA’ AD ESSERE PARTE


E’ la trasposizione in chiave processuale della capacità giuridica: sono capaci ad essere parti quindi le
persone fisiche, le persone giuridiche, e gli altri enti considerati come soggetti di diritto (associazioni non
riconosciute, enti di fatto, organismi di diritto pubblico comunitario).
La mancanza di tale presupposto non consente al giudice di affrontare il merito, ma deve fermarsi a
constatare che non vi è una parte che possa avere l’attitudine ad essere titolare del diritto di azione.

CAPACITA’ PROCESSUALE
E’ la trasposizione in chiave processuale della capacità d’agire, capacità a stare in giudizio e di esercitare i
propri diritti. Il minore, ad esempio, non ha la legitimatio ad processum, e quindi la capacità processuale,
sebbene abbia la capacità ad essere parte.
Dovranno osservarsi le regole proprie di ogni figura soggettiva che disciplinano la possibilità giuridica di far
valere le proprie ragioni, quale che sia la posizione processuale assunta in giudizio.
La mancanza di questo presupposto consente di riproporre la domanda e ad es. il rappresentante del
minore potrà agire nuovamente perché non è pregiudicata la situazione giuridica sostanziale.


CONDIZIONI DELL’AZIONE: stanno prima della decisione del merito ma, a differenza dei presupposti,
attengono alla pretesa e quindi sono espressione di regole sostanziali.
La carenza delle c.d.a. incide sulla pretesa sostanziale, non consentendo di ottenere una sentenza
favorevole. Ciò impedisce la riproposizione della domanda.

76
1) legittimazione a ricorrere (o a contraddire);
2) interesse a ricorrere; mancanza determina INAMMISSIBILITA’ ricorso
3) esistenza di un atto impugnabile o, in alternativa,
la sussistenza di una figura di silenzio suscettibile
di essere valutata da una decisione di merito.
La dottrina individua un’altra distinzione:
a) i presupposti processuali devono sussistere al momento in cui il ricorso viene proposto, valendo a
consentire l’instaurazione del rapporto processuale;
b) le condizioni dell’azione devono sussistere anche al momento della decisione, riguardando la
pretesa sostanziale.

1. LEGITTIMAZIONE AD AGIRE
= individua il soggetto cui spetta il diritto di azione ed il soggetto nei cui confronti va esercitata l’azione.
La legittimazione è ancorata alla SGS sostanziale che è fatta valere ed a chi ha inferto la lesione, perché dal
rapporto sostanziale tra chi assume di aver subito la lesione della SGS e chi ha provocato tale lesione si
individua colui che ha diritto di azione e colui nei cui confronti va esercitato.
Il soggetto legittimato ad agire coincide normalmente con il titolare della situazione giuridica sostanziale,
ma si può far valere in giudizio un rapporto intercorrente tra altre persone (es. azione surrogatoria ex art.
2900 c.c.).
La verifica della legittimazione va fatta in relazione all’affermazione del ricorrente: è legittimato chi affermi
di aver subito la lesione della SGS, non chi l’abbia effettivamente subita perché quest’ultima è la
conclusione del processo.
La legittimazione ad agire non ha però il trattamento del presupposto:
1) se si afferma che il ricorrente non ha legittimazione attiva: non può riproporre l’azione perché il
giudice ha escluso che sia il soggetto cui spetti il diritto di azione.
L’assenza di legittimazione attiva esclude la possibilità di esercitare l’azione, per cui incide sulla
pretesa sostanziale, non consento di ottenere una sentenza favorevole nel merito. Essa impedisce
la riproposizione della domanda, quindi è da ascrivere tra le condizioni dell’azione e non tra i
presupposti.
2) Difetto di legittimazione a contraddire: qui il ricorrente ha mal individuato il resistente o il
controinteressato per cui, in astratto, è possibile che il soggetto che assuma di aver subito la
lesione ripeta la domanda nei confronti di colui che è legittimato passivo.
→ In conclusione: la legittimazione avrebbe un doppio trattamento – quello delle condizioni dell’azione per
la legittimazione ad agire, quello dei presupposti per la legittimazione a contraddire.

Si è posto il problema della legittimazione ad agire delle associazioni per la tutela degli interessi (diffusi) di
cui sono portatori. In alcuni casi è intervenuta la legge per attribuire la legittimazione attiva (es. associazioni
protezionistiche).
a) la tesi che esclude la legittimazione attiva fa perno sul fatto che degli interessi generali non
possono trasformarsi in interessi legittimi perché inseriti nei fini statutari e istituzionali di questi
organismi (associazioni, enti…), ma vi è una tendenza a ritenere legittimate le figure soggettive che
pongano gli interessi tra i loro fini fondanti.
b) Il legislatore segue invece il principio della formalizzazione “amministrativa” anche per le
associazioni di utenti di servizi pubblici a cui il G.A. pare adeguarsi.

2. INTERESSE A RICORRERE
Ai sensi dell’art. 100 c.p.c., consiste nell’’utilità concreta che il ricorrente può ottenere dal giudizio. Ciò si
traduce non già nell’effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere, ma nella possibilità di ottenere un
qualche beneficio dall’accoglimento del ricorso.
Il beneficio che il ricorrente può trarre dalla sentenza del giudice è identificabile nell’attribuzione allo stesso
di un bene della vita o comunque un vantaggio o, quantomeno, nella possibilità di eliminargli un
pregiudizio. Conseguentemente, il concetto di utilità che può derivare al ricorrente non deve essere inteso
necessariamente in senso economico, ma può essere un’utilità di tipo spirituale e a livello personale

77
un’utilità di tipo etico: es. portatori di interessi collettivi e diffusi che tutelano beni immateriali, tutela del
diritto all’immagine…
L’interesse a ricorrere deve sussistere durante tutto il corso del giudizio fino alla pronuncia definitiva con la
sentenza di merito (pena una sentenza dichiarativa dell’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto
di interesse).

L’interesse del ricorrente deve così essere:


- PERSONALE -> deve riguardare direttamente il ricorrente (profilo che va in parte a sovrapporsi con
quello della ‘legittimazione’).
- DIRETTO -> la lesione deve derivare immediatamente dal provvedimento impugnato o, nei giudizi
nei quali non vi è impugnativa di atti amministrativi, dal comportamento contestato.
- ATTUALE -> occorre quindi che la lesione dell’interesse
--sia già avvenuta
--non richieda l’emanazione di provvedimenti successivi, pur annunziati
--non dipenda da avvenimenti futuri o incerti
--venga ‘riparata’ dalla sentenza
--sussista al momento della decisione

3. ATTI IMPUGNABILI / SILENZIO


L’ATTO IMPUGNABILE è uno snodo essenziale nel giudizio di annullamento dell’atto amministrativo.
- fino alla LEGGE TAR (1034/1971) il ricorso era ammesso solo contro ATTI DEFINITIVI, contro cui
erano già stati esperiti i ricorsi in via gerarchica sino all’ultimo grado della gerarchia (tranne che nei
casi di: atto emanato da un’autorità al massimo grado della gerarchia -> Ministro, atto adottato da
organi non soggetti a gerarchia -> organi collegiali).
- dopo la LEGGE TAR (1034/1971), con l’introduzione di un regime di facoltatività tra
ricorso/impugnazione, possono essere impugnati anche ATTI NON DEFINITIVI.
- CPA: ha mantenuto questo impianto. Art. 29: giurisdizione amministrativa concerne “l’esercizio o il
mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili, anche mediatamente all’esercizio di tale potere”.

Non tutti gli atti amministrativi sono impugnabili. L’atto, per essere impugnabile, deve: produrre
effetti all’esterno, ledere l’interesse del ricorrente in modo personale, diretto ed attuale e deve
essere EFFICACE. È consentita anche l’impugnativa di atti non aventi natura provvedimentale,
purchè rechino al ricorrente una leisone personale diretta e attuale dell’interesse sostanziale.
Non sono impugnabili: atti endoprocedimentali, accessori, prodromici, preliminari, istruttori, che
svolgono nel procedimento una funzione preparatoria del provvedimento.
- atti esecutivi: che eseguono materialmente quanto stabilito in un precedente provvedimento
lesivo (immediatamente impugnabile che continuerebbe a produrre effetti);
- atti consequenziali o presupponenti, se mero svolgimento di atti presupposti, non impugnati, ai
quali sono legati da un nesso di presupposizione così stretto che non possono produrre effetti se
venga meno l’atto presupposto;
- atti regolamentari, in quanto contengano norme generali ed astratte che non determinano una
lesione attuale e concreta dell’interesse dei possibili destinatari. Essi sono impugnabili unitamente
agli atti che applicano le norme poiché solo allora sorge l’interesse al ricorso.
- atti confermativi di precedenti atti, perché il loro annullamento non soddisferebbe l’interesse la
cui lesione è stata già prodotta dagli atti confermati non più impugnabili per decorso del termine di
impugnativa.
- atti di proroga, se il ricorso riguarda l’assetto degli interessi determinato dall’atto prorogato (non
impugnato): l’impugnazione è ammissibile se si assume l’illegittimità in sé della proroga.

Questa indicazione è esemplificativa.


L’atto impugnabile è condizione dell’azione, infatti l’impugnabilità del provvedimento e il
provvedimento stesso devono sussistere sino al momento della decisione. Qualora manchi ab

78
origine il ricorso andrà rigettato in quanto inammissibile. Qualora venga a mancare in corso di
processo, il ricorso sarà da dichiararsi improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse o
cessazione della materia del contendere.
La ripetizione della domanda non è consentita nel caso di impugnativa di atti confermativi,
regolamentari, endoprocedimentali, presupponenti, di proroga.

Il SILENZIO consiste nell’inerzia della pubblica amministrazione.

PRIMA SILENZIO P.A.= qualificato come provvedimento tacito di rifiuto (silenzio-rifiuto). -> Il
DOTTRINA silenzio era così equiparato ad un atto, ed in quanto tale risultava impugnabile in sede
di annullamento.

DOTTRINA SILENZIO P.A.= qualificato come fatto patologico dell’attività amministrativa,


POSTERIORE inadempimento dell’obbligo di provvedere (silenzio-inadempimento). -> azionabilità
(anni ’60) giudiziale del silenzio si fondava così sull’art. 21-bis L.1034/1971.

Ad oggi, a seguito della L. 241/1990, e dei suoi aggiornamenti nel 2005 e nel 2009, e l’ingresso nel
panorama della giustizia amministrativa del CPA si deve tracciare un’importante distinguo tra:

→ SILENZIO SIGNIFICATIVO: è il silenzio cui la legge attribuisce espressamente un valore positivo


(silenzio-assenso) o negativo (silenzio-diniego). Nel contesto del silenzio significativo valgono:
- PRINCIPIO GENERALE (del SILENZIO-ASSENSO): esposto all’art. 20 L.241/1990, in base al
quale il silenzio della P.A. equivale a provvedimento di accoglimento della domanda,
trascorso il termine di 30 giorni dalla sua presentazione. Ciò vale tranne nei casi in cui la
legge attribuisca espressamente al silenzio il valore di diniego.
- ECCEZIONI (di SILENZIO-DINIEGO): sono espressamente determinate dalla legge, come:
-art. 20 quarto comma L.241/1990, atti e provvedimenti riguardanti il patrimonio culturale
e paesaggistico, ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza ed immigrazione..
-art. 25 quarto comma L.241/1990, istanza di accesso ai documenti amministrativi;
-D.P.R. 380/2001, istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria;

In queste ipotesi di SILENZIO SIGNIFICATIVO la tutela è concessa dall’azione di


annullamento, ex art. 29 CPA, che ora può essere apprestata, giusto riferimento all’art. 4
CPA non solo contro atti e provvedimenti ma anche OMISSIONI (=silenzio)

→ SILENZIO NON SIGNIFICATIVO: è il silenzio cui la legge non ricollega alcun tipo di valore. In
questo caso si può chiedere al giudice l’accertamento dell’obbligo di provvedere in capo
all’Amministrazione, qualora questa non concluda nei termini il procedimento (art. 31 CPA).
Il ricorso avverso il silenzio può essere proposto anche senza necessità di diffida
dell’amministrazione inadempiente (art. 117 CPA), finchè perdura l’inadempimento e non oltre un
anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento.

LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO DI PRIMO GRADO


LA FASE INTRODUTTIVA

Il cuore del CPA è costituito dai Libri II e III, aventi ad oggetto, rispettivamente, la disciplina del processo
amministrativo di primo grado e il sistema delle impugnazioni.

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Dal combinato disposto degli artt. 38 e 39 CPA, si evince inoltre che il processo amministrativo si svolge
secondo le disposizioni del Libro II del codice stesso che, se non espressamente derogate, si applicano
anche alle impugnazioni nonché ai riti speciali (rinvio interno); infine, per quanto non disciplinato dallo
stesso codice, si applicano le disposizioni del c.p.c., in quanto compatibili o espressione di principi generali
(rinvio esterno).

IL RICORSO INTRODUTTIVO
Anche nel processo amministrativo vige il principio della domanda e dell’impulso di parte.
L’atto introduttivo del giudizio davanti al TAR è il RICORSO, cioè l’istanza rivolta al giudice dall’interessato.
Contenuto del ricorso:
3) nelle azioni costitutive: è volto a ottenere dal giudice l’annullamento del provvedimento ovvero,
nelle ipotesi di giurisdizione di merito, la modifica o sostituzione del provvedimento stesso.
4) nelle altre azioni esperibili: rivolto ad ottenere quelle statuizioni (di accertamento o di condanna)
proprie di tali tipologie di azione.

Il ricorso al GA assume un ruolo diverso rispetto a quello che riveste l’atto di citazione nel processo civile. Mentre nel
processo amministrativo il ricorso realizza una vocatio iudicis, intesa nel senso di invitare il giudice a provvedere sulla
questione sottoposta al suo giudizio, con la citazione si attiva una vocatio in ius, essendo l’atto rivolto a un soggetto
(convenuto), che viene invitato a comparire dinanzi al giudice.

Il ricorso va indirizzato al giudice che si intende adire e che sarà costituito dal TAR individuato secondo le
regole della competenza. La mancata o erronea indicazione della sede staccata o del capoluogo regionale
non sembrano costituire, però, un’invalidità: la distinzione tra sezioni va intesa come mera suddivisione
organizzativa di uffici, irrilevante sotto il profilo della competenza. In tali ipotesi il giudice adito deve solo
ordinare la rinnovazione della notifica per consentire alle parti intimate di costituirsi presso la sede in cui il
ricorso è stato correttamente depositato.

Ai sensi dell’art. 40 CPA, come sostituito dal d.lgs. 160/2012, il ricorso deve contenere distintamente:
 elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è
proposto.
Per il legislatore delegato si devono includere anche dati ulteriori: codice fiscale, partita iva,
indicazione dell’organo che ha la rappresentanza in giudizio (per persone giuridiche). Questa
disposizione è estesa anche all’indicazione delle parti cui il ricorso è notificato, le quali devono
essere ora chiaramente evincibili dall’epigrafe di ricorso (e non solo nella relata di notifica).

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 l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente
impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza.
Non occorre che siano riportati tutti gli estremi identificativi dell’atto impugnato, essendo sufficiente che
esso possa essere identificato in maniera inequivocabile sulla base di elementi diversi dalla data o dal numero
di protocollo. esso, il privato, anteriormente all’instaurazione
del giudizio, non era posto nella condizione di conoscere gli estremi identificativi dell’atto che si assumeva
lesivo, ed era diffusa la prassi del ricorso cd. al buio.
Il CPA, nel richiedere l’indicazione della data in cui il provvedimento è stato notificato, comunicato o
conosciuto, ha recepito la giurisprudenza che, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione,
equipara la data della conoscenza ufficialmente ricevuta mediante la notifica del provvedimento a quella
della conoscenza aliunde.

 Esposizione sommaria dei fatti:


narrazione, chiara e sintetica ma completa, della realtà fattuale che è alla base dell’emanazione del
provvedimento impugnato (o del comportamento tenuto dall’amministrazione) che il ricorrente
assume lesivo della situazione soggettiva azionata.

 I motivi specifici su cui si fonda il ricorso:


Indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si assumono violati. Attraverso
l’enunciazione dei motivi di ricorso, colui che agisce in giudizio individua la causa petendi (ragione
o titolo posto a fondamento della domanda). Il giudice, nella sua decisione, è vincolato ai motivi
addotti dal ricorrente (principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato).
Nelle azioni volte a ottenere l’annullamento dell’atto impugnato, il ricorrente assume che l’atto sia
illegittimo (ovvero che esso sia viziato da incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge) e
quindi annullabile (art. 21 octies l. 241/1990). Nei pochi casi di giurisdizione di merito, il parametro
di riferimento è esteso all’opportunità dell’atto impugnato.
Non tutti i vizi che colpiscono il provvedimento si traducono in motivi del ricorso; così come non
sempre ogni motivo di ricorso costituisce un vizio dell’atto.
- Da un lato il ricorrente è libero di far valere in giudizio anche solo alcuni dei vizi da cui è
colpito il provvedimento; così come può chiedere al giudice un annullamento parziale
dell’atto (in tali casi il giudice deve astenersi dal rilevare motivi ulteriori e diversi da quelli
dedotti dal ricorrente, ovvero dall’adottare una sentenza di annullamento totale).
- Dall’altro lato, nella redazione di un ricorso, la suddivisione in motivi prospettata dal
ricorrente non corrisponde sempre all’indicazione di altrettanti vizi dell’atto impugnato.

In ogni caso, per orientamento costante, si ritiene che i motivi di ricorso non possono essere
dedotti né in forma del tutto generica né ipotetica, né per relationem ad altro ricorso.

Il secondo correttivo al CPA, sostituendo l’art. 40, ha posto l’accento sull’obbligatorietà di presentare motivi
specifici, pena l’inammissibilità degli stessi. La dottrina ha rilevato, in merito, che l’espressa prescrizione di
indicare “distintamente” i contenuti del ricorso e la comminatoria di inammissibilità dello stesso per omessa
indicazione dei “motivi specifici su cui si fonda il ricorso” sono finalizzate a evitare la proposizione di motivi
cd. subdoli, inseriti in modo non evidente nella parte in fatto e facilmente sfuggenti agli avversari e ai giudici.

L’omessa indicazione, ovvero l’indicazione erronea a lacunosa, degli articoli di legge violati non
rendono nullo il ricorso, a meno che non sia possibile in alcun modo individuare le specifiche
censure mosse al provvedimento impugnato. Il motivo di ricorso non può essere nemmeno
integrato successivamente. In ogni caso non assume alcuna rilevanza la qualificazione del vizio data
dalla parte, a cui il giudice non è vincolato.

Violazione di legge: basta il riferimento alla disposizione violata (se questa è errata il ricorso sarà ammissibile
se dal contesto generale è desumibile il dato normativo della cui inosservanza il ricorrente si duole.
Eccesso di potere: è necessario indicare una o più figure sintomatiche tipiche. Se il ricorrente svolge censure
che impongono apprezzamenti di fatto, tali fatti devono essere indicati e non genericamente asseriti come
esistenti (es. nell’ipotesi in cui venga dedotta una disparità di trattamento sarà necessario indicare in
concreto la situazione nei cui confronti è stato operato il trattamento diverso; nell’ipotesi di contraddittorietà

81
tra atti bisognerà indicare quel determinato atto che funge da elemento di confronti per il sindacato
sull’operato discrezionale dell’amministrazione).

Ai sensi dell’art. 21 octies comma 2, per ottenere l’accoglimento del ricorso, e quindi
l’annullamento del provvedimento impugnato, il ricorrente è poi tenuto a dimostrare che il
provvedimento è vincolato e in ogni caso:
a) (secondo un orientamento meno rigoroso) che in assenza della violazione delle regole
procedimentali di cui si duole, il provvedimento avrebbe potuto avere un contenuto diverso da
quello adottato.
b) (secondo un indirizzo più rigido) il ricorrente dovrebbe allegare in giudizio gli elementi che
avrebbe fornito all’amministrazione in sede procedimentale e solo in tal caso sorgerebbe in
capo all’amministrazione l’onere di dimostrare che tali elementi non avrebbero mutato il
contenuto dispositivo del provvedimento impugnato.

 Indicazione dei mezzi di prova:


il CPA conferma implicitamente il principio della prova espressamente enunciato nell’art. 64, fermo
restando che non sembrano sussistere preclusioni ad una indicazione successiva.

 Il provvedimento richiesto dal giudice:


Esse sono modulabili, e cumulabili, in relazione al tipo di azione esercitata. E così potranno aversi
richieste di: annullamento (anche parziale), accertamento, condanna, riforma o sostituzione
dell’atto impugnato.
Il ricorso può sempre contenere anche domande accessorie, volte a stimolare gli incidenti cautelari
ovvero gli adempimenti istruttori e gli altri incidenti processuali (es. questione di legittimità cost.,
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia).

 Sottoscrizione:
il ricorso va sottoscritto in modo autografo dal difensore, con indicazione della procura speciale
ovvero dal ricorrente se esso sta in giudizio personalmente nei casi previsti dall’art. 23 e
limitatamente al giudizio di primo grado ex art. 95 CPA.

In ordine ai contenuti del ricorso, la previsione dell’art. 40 deve essere comunque integrata: agli elementi
essenziali indicati dal legislatore, vanno, infatti, aggiunti:
- l’indicazione del TAR adito;
- l’elezione di domicilio;
- la dichiarazione del valore della causa ai fini del pagamento del contributo unificato.
Inoltre la norma deve essere letta anche in considerazione di quanto disposto dall’art. 136, relativamente al
sistema delle comunicazioni relative al processo, che devono essere portate a conoscenza della parte e,
quindi, del difensore, affinché quest’ultimo esplichi nel modo migliore il suo mandato. Tale articolo
stabilisce che il difensore, nel ricorso o nel primo atto difensivo, deve indicare un indirizzo di PEC e un
numero di fax ove intendono ricevere dette comunicazioni. La mancata indicazione della PEC o del fax è
sanzionata con un aumento dell’importo del contributo unificato dovuto, pari alla metà di quest’ultimo.

Sempre nell’ottica delle comunicazioni processuali deve essere letto l’art. 25 CPA, riformulato dal l.lgs.
195/2011 per coordinarlo con quanto disposto dall’art. 136, per il quale ciascuna parte, nel costituirsi in
giudizio, deve effettuare l’elezione di domicilio. Come osservato in dottrina, essa assolve alla finalità di
stabilire un luogo ove tutte le comunicazioni e le notifiche relative al giudizio possano essere inoltrate.
Regole generali del processo amministrativo sono che la parte può eleggere domicilio nei limiti del
territorio comunale dove ha sede il TAR o la sezione staccata da adire (nel caso del ricorrente) o dove
pende il giudizio (per il resistente) e che una volta eletto il domicilio, la parte conserva sempre la facoltà di
modificare la propria scelta dandone comunicazione, nelle forme stabilite dalla legge. Se non viene eletto
alcun domicilio, questo si intende effettuato, a tutti gli effetti di legge (es. notificazioni) presso la segreteria
del TAR.

82
Le stesse regole si applicano ai giudizi davanti al Consiglio di Stato: il domicilio deve essere eletto in Roma e,
in mancanza, si intende effettuato presso la segreteria del CdS.

Regime dell’invalidità:
Ai sensi dell’art. 44 CPA, il ricorso è NULLO:
a) in caso di difetto di sottoscrizione;
b) nei casi in cui l’inosservanza delle prescrizioni dettate nell’art. 40 determini incertezza assoluta
sulle persone o sull’oggetto della domanda.

Nell’ipotesi di prescrizioni la cui violazione non determina la nullità del ricorso ma mere irregolarità, il
collegio può ordinare che il ricorso sia rinnovato entro un termine a tal fine fissato.

La costituzione in giudizio dell’intimato determina comunque la sanatoria sia delle irregolarità sia della
nullità della notificazione per raggiungimento dello scopo anche se la parte si costituisce al solo fine di
eccepire dell’invalidità, con salvezza però dei diritti acquisiti anteriormente alla comparizione (es. diritto di
eccepire altri vizi del ricorso che ne determinano l’inammissibilità), e comunque non si estende ai vizi
dipendenti da quelli sanati.
Nei casi in cui sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene
che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente
un termine perentorio per rinnovarla e la rinnovazione impedisce ogni decadenza. (Viceversa, nel processo
civile il giudice può ordinare la rinnovazione della notificazione in caso di convenuto contumace e di vizio
della notifica).

Il regime della nullità degli atti processuali è stato completato dal legislatore con il correttivo al CPA, il
d.lgs. 195/2011, con il quale è stata introdotta nel CPA la previsione che la nullità degli atti è rilevabile
d’ufficio dal giudice (art. 44 comma 4 bis).

Inoltre, occorre sottolineare che, ai sensi dell’art. 49 CPA, qualora il ricorso sia stato proposto solo contro
alcuni dei controinteressati, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, a
meno che il ricorso non sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato,
provvedendosi, in questi casi, con sentenza in forma semplificata (senza inutili integrazioni).
Il giudice, nell’ordinare l’integrazione del contraddittorio, fissa il relativo termine, indicando le parti cui il ricorso deve
essere notificato. Può autorizzare, se ne ricorrono i presupposti, la notificazione per pubblici proclami prescrivendone
le modalità. Se l’atto di integrazione del contraddittorio non è tempestivamente notificato e depositato, il giudice
provvede a dichiarare l’improcedibiità del ricorso ex art. 35.
I soggetti nei cui confronti è integrato il contraddittorio non sono, comunque, pregiudicati dagli atti processuali
anteriormente compiuti.

Vanno prese in esame le ipotesi di:

CUMULO DI AZIONI:
Art. 32 CPA: “sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via
principale o incidentale”.
a) SOGGETTIVO -> RICORSO COLLETTIVO: si ha quando
- più soggetti impugnano lo stesso provvedimento;
- più soggetti impugnano un atto plurimo (cioè un atto che contiene una pluralità di
provvedimenti diretti a persone diverse);
- più soggetti che si trovano nella stessa posizione giuridica (vantando identica SGS)
propongono, con un’unica azione, la medesima domanda giudiziale.
Presupposti per poter esperire un ricorso collettivo sono: assenza di conflitto di interesse tra i
ricorrenti + comunanza a tutti i ricorrenti di causa petendi e petitum.
Trattandosi di concentrazione in un unico rapporto processuale di una pluralità di azioni autonome,
le condizioni di ammissibilità e di ricevibilità riguardanti ciascun singolo ricorrente non si

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comunicano agli altri; così come l’iniziativa processuale di un ricorrente non può giovare né
pregiudicare la posizione degli altri.

Esiste la regola per cui ogni soggetto leso dovrebbe proporre un’azione. Questo principio però subisce delle
eccezioni per cui più soggetti possono proporre ricorso assieme:
a. soggetti diversi impugnano lo stesso provvedimento per motivi, almeno in parte, comuni;
1. Più proprietari di un immobile impugnano il permesso di costruzione rilasciato al proprio vicino.
2. Proprietari di aree di una stessa zona impugnano il provvedimento con il quale l’amministrazione ha deciso di
installare un impianto smaltimento rifiuti perché deprezza il valore dei loro terreni.
b. più soggetti impugnano provvedimenti identici di una stessa autorità per motivi, almeno in parte, comuni;
Caso di sanzione disciplinare identica irrogata ad un certo numero di dipendenti con distinte delibere (è anche un
ricorso cumulativo).
Per la giurisprudenza, per ammettere ricorsi collettivi di questo tipo, bisogna che le posizioni dei vari soggetti
siano omogenee. Si evita il rischio di pronunce discordanti sulle medesime questioni.

Posizioni omogenee: l’accoglimento della domanda di uno non implica il sacrificio della posizione dell’altro.
Es.: Più soggetti esclusi da una procedura di concorso possono impugnare i risultati del concorso se ritengono di essere
stati malgiudicati.
Nel momento in cui dovesse emergere una situazione di conflitto tra le diverse posizioni, il ricorso collettivo
non è più ammesso. Il conflitto di interessi tra due o più soggetti impedisce la proposizione dell’impugnativa
collettiva. Il conflitto va valutato in rapporto al risultato immediato dell’impugnativa, non in relazione a fasi
successive.

b) OGGETTIVO -> RICORSO CUMULATIVO: si realizza sia nell’ipotesi di impugnazione di provvedimenti


diversi che di più domande giudiziali differenti fra loro connesse (es. azione impugnatoria e azione
di condanna); e in ogni caso quando l’atto introduttivo del giudizio si fonda su più causae petendi.
La giurisprudenza, contro il dato letterale di cui all’art. 104 c.p.c., richiede un minimo di
connessione tra le azioni per il cumulo, che può avvenire anche in corso di causa (ad es. mediante la
proposizione di motivi aggiunti).

Ogni atto andrebbe impugnato con singolo ricorso ma si deroga quando le diverse domande formulate
presentano profili di connessione oggettiva. Ammettendo ciò si evita che atti collegati siano oggetto di
verifica in sedi separate e si evita al ricorrente l’assunzione di oneri maggiori. Si ravvisa connessione oggettiva
che giustifica l’impugnativa congiunta in caso di:
a) atti LOGICAMENTE INTERDIPENDENTI, cioè atti legati tra loro da rapporto di presupposizione / consequenzialità;
1. La delibera comunale che approva un progetto + la delibera comunale che affida l’esecuzione di quell’opera
all’appaltatore.
2. La delibera comunale di approvazione di un progetto + la delibera che dispone l’occupazione d’urgenza del
terreno sul quale dovrà sorgere l’opera.
b) ATTI COLLEGATI PERCHÉ CONCORRONO A CONFIGURARE UN UNICO CONTESTO LESIVO della posizione del ricorrente. Il
soggetto fa ricorso per contestare un’attività lesiva dell’amministrazione che risulta da più atti.
L’amministrazione rileva la possibilità che una costruzione sia abusiva; per impedire un peggioramento emette
l’ordine di sospensione dei lavori. Accertata al nullità del permesso di costruzione, l’amministrazione lo annulla in
via di autotutela. La lesione alla posizione del ricorrente si produce attraverso due atti, anche se non sono l’uno
l’antecedente logico – giuridico dell’altro.
c) ATTI ANALOGHI E COEVI IMPUGNATI PER MOTIVI IN PARTE COINCIDENTI, cioè atti provenienti dalla stessa
amministrazione e aventi lo stesso oggetto.
1. Il comune dà ad un professionista l’incarico di progettare l’asilo, la scuola e una strada. Sono tre delibere.
L’amministrazione perde fiducia nel professionista ed emette tre atti con cui annulla o revoca le precedenti
delibere. Il tipo di censure che il professionista può rivolgere contro i tre atti di revoca può essere lo stesso, quindi
il singolo può fare un solo ricorso per ottenere in uno stesso giudizio l’annullamento di più atti.
2. L’amministrazione aveva preso provvedimenti aventi ad oggetto la nomina di un certo numero di dipendenti
con una certa qualifica. Poi l’amministrazione si convince che quelle promozioni erano illegittime e fa atti di
annullamento di censura della promozione. I motivi posti a base di ciascuna delibera di annullamento sono gli
stessi: i singoli dipendenti possono fare ricorso assieme deducendo gli stessi motivi. Qui il ricorso oltre che
cumulativo è collettivo.

CONVERSIONE DELLE AZIONI:


Il legislatore, al comma 2 dell’art. 32 a chiarito che spetta solo al giudice la qualificazione della
domanda, che in alcun modo è condizionata dal nomen iuris fornito dalle parti. Infatti, il legislatore

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è fermo nel ritenere che tale qualificazione deve essere data sulla base degli elementi sostanziali
dell’azione.
In ogni casi è fatto salvo il potere del giudice, in presenza dei presupposti di legge, di disporre la
conversione delle azioni, al fine di facilitare la concentrazione delle azioni o il passaggio da
un’azione all’altra, avendo sempre riguardo al contenuto delle stesse.

RIUNIONE DEI RICORSI:


può essere disposta, ex art. 70 CPA, dal collegio su istanza di parte o d’ufficio. E’ una facoltà,
prevista ai fini di economia processuale, con la conseguenza che il mancato esercizio del potere di
riunione non determina l’innammissibilità dei ricorsi decisi separatamente, salvo che tra le stesse
cause non sussista un rapporto di pregiudizialità tale da non poterne consentire la decisione
separata.
Rimane sempre nella facoltà del giudice disporre, in un secondo momento, la separazione dei
giudizi allorché siano venuto meno i motivi di opportunità che avevano giustificato in precedenza la
riunione.

TERMINE PER LA PROPOSIZIONE DEL RICORSO


La proposizione del ricorso contenente un’azione di annullamento deve essere effettuata, a pena di
decadenza, entro il termine “previsto dalla legge” che, di regola, è di 60 giorni (a fini di certezza dei rapporti
giuridici).
Tale termine decorre:
- per gli atti per cui è richiesta notifica individuale: dalla notifica (comunicazione) del
provvedimento;
- per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale: dal giorno in cui sia scaduto il termine
della pubblicazione nell’albo. Conformandosi a un orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, il legislatore prevede che la pubblicazione in questo caso determina la presunzione
assoluta di conoscenza solamente se tale forma di pubblicità sia espressamente prescritta dalla
legge (art. 41 comma 2 CPA).
- Se il provvedimento ha come destinatari soggetti nominativamente indicati o individuabili in base
al contenuto: deve essere notificato personalmente a ciascuno di essi. Il termine decorre quindi
dall’avvenuta comunicazione o notifica del provvedimento, e non dalla sua eventuale
pubblicazione.

comma 1 lett. b) e 41 comma 2 CPA si evince che la piena


conoscenza del provvedimento è equipollente alla comunicazione o alla notificazione dello stesso. Quindi:
- Il termine decadenziale per l’impugnazione decorre da essa in tutte le ipotesi in cui non sono
previste forme di notificazione o comunicazione personale o forme di pubblicazione a meno che
queste non siano richieste come forme di efficacia dell’atto.
- Nell’ipotesi in cui siano previste forme di comunicazione o pubblicazione del provvedimento, la
soluzione è più complessa:
a) secondo una parte della giurisprudenza, il termine decorre dalla piena conoscenza dell’atto se
questa viene acquisita anteriormente alla pubblicazione;
b) secondo l’orientamento opposto, in caso di pubblicazione obbligatoria il meccanismo della
conoscenza non rileva.

La prova dell’avvenuta conoscenza, da parte del ricorrente, del provvedimento impugnato, incombe su chi
eccepisce la tardività del ricorso.
La prova dell’avvenuta pubblicazione incombe sulla p.a. che eccepisce la tardività del ricorso.

Altro filone giurisprudenziale riguarda la NOZIONE DI PIENA CONOSCENZA O CONOSCENZA EFFETTIVA: quando si può
dire che si è raggiunta una conoscenza idonea a far decorrere il termine?
1) Occorre che il privato sappia che l’atto esiste e ne conosca il contenuto (lesivo) essenziale. Non occorre che il
privato sia venuto in possesso dell’atto. La condizione non è idonea se il soggetto ha una percezione dell’atto

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vaga e imprecisa. Non occorrerebbe una conoscenza dell’atto tale da far percepire i vizi di cui è affetto, basta
la percezione del carattere lesivo dell’atto. La sopraggiunta conoscenza di elementi ulteriori rispetto a quelli
essenziali determina la possibilità di presentare i motivi aggiunti.

Piena conoscenza = percezione del carattere lesivo del provvedimento.

Questo orientamento si è modificato dopo la legge 241/90; la giurisprudenza si richiama all’art. 3 (obbligo di
motivazione di qualsiasi provvedimento discrezionale e vincolato) per fondare la necessità che
l’amministrazione porti a conoscenza del privato anche la motivazione, senza la quale il soggetto non può
rappresentarsi i vizi dell’atto.
Si dice anche che per la decorrenza del termine occorre che il privato abbia anche la percezione del danno
ingiusto che deriva dal provvedimento. In dottrina si osserva che si nega che il termine possa decorrere da
conoscenza generica o indiretta, soprattutto se al cittadino è stato negato l’accesso ai documenti
amministrativi.

2) In tema di piena conoscenza, altra linea giurisprudenziale sostiene che la stessa si possa desumere anche da
presunzioni (circostanze presuntive). Si potrebbe presumere la piena conoscenza solo da indizi gravi, precisi e
concordanti, non basterebbe la probabilità che c’è stata conoscenza.
La prova che vi fu piena conoscenza incombe su chi eccepisce la tardività del ricorso: a questi fini non basta
provare che il difensore del ricorrente sapeva del provvedimento; occorre che il diretto interessato sapesse
dell’atto.

Il termine decadenziale di 60 giorni non opera in sede di GIURISDIZIONE ESCLUSIVA, laddove il ricorrente
lamenti la lesione di un diritto soggettivo: l’azione è proponibile entro l’ordinario termine di prescrizione
del diritto che si fa valere.

Per distinguere le ipotesi di operatività del termine decadenziale da quelle in cui dovrebbe operare il
termine di prescrizione, la giurisprudenza distingue tra:
- atti autoritativi
- atti paritetici: atti posti in essere dall’amministrazione senza esercizio unilaterale di poteri
autoritativi, quindi in esecuzione di un rapporto obbligatorio.

Per quanto riguarda la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi, l’art. 30 CPA prevede al
comma 4 un termine di decadenza di 120 giorni decorrente dal giorno in cui si è verificato ovvero dalla
conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo.
Azione di accertamento delle nullità: art. 31 CPA fissa, colmano una lacuna, il termine di 180 giorni
(sebbene la nullità possa sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio).

In alcune ipotesi specifiche, il termine è più breve di quello ordinario di 60 giorni: es. in materia di
procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture (art. 120 CPA); ricorsi elettorali (art. 129) → per i quali
è di 30 giorni.

Decorrenza del termine nelle ipotesi di inerzia dell’amministrazione.


Bisogna innanzitutto distinguere il tipo di silenzio:
1. SILENZIO – ACCOGLIMENTO
L’inerzia produce gli stessi effetti di un provvedimento favorevole. E’ possibile che il silenzio formatosi, anzi, gli
effetti, siano lesivi rispetto ad un soggetto diverso da quello che aveva chiesto il provvedimento.
Il soggetto pregiudicato da questi effetti, se vuole farà un’impugnativa.
Da quando decorrono i 60 gg.? Il termine decorre dal momento in cui questo soggetto viene a sapere dell’avvenuta
formazione della fattispecie silenziosa. Il termine decorre dalla piena conoscenza.
2. SILENZIO – RIGETTO
L’inerzia ex lege equivale a reiezione della domanda. In questo caso il ricorrente è lo stesso soggetto che ha proposto
la domanda: il termine decorre dal momento in cui, concretamente, si completa la fattispecie silenziosa.
3. SILENZIO – INADEMPIMENTO
L’amministrazione resta inerte davanti all’istanza del provvedimento, senza una norma che qualifichi il valore del
silenzio: l’amministrazione si mostra inadempiente rispetto al dovere di pronunciarsi. E’ discusso se sia sufficiente la

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mera scadenza per la conclusione del procedimento con atti espressi fissata dalla legge 241/90.
Secondo Casetta la scadenza del termine per la conclusione del procedimento configura già il silenzio –
inadempimento. Secondo altri occorre che dopo tale scadenza venga messa in mora l’amministrazione (con una
diffida) affinché provveda.
Verificata la sussistenza del silenzio – inadempimento, resta il problema di individuare il momento da cui comincia a
decorrere il termine. Esistono due soluzioni:
a) Se nel silenzio dell’amministrazione si ravvisa un atto negativo implicito, il termine decorre dal momento in
cui si completa la fattispecie del silenzio. Si tratterebbe di far annullare un atto negativo implicito. Opinione
non condivisa in dottrina.
Secondo la dottrina il silenzio è solo silenzio, l’inerzia è un qualcosa che si rinnova di giorno in giorno, il dovere di
provvedere continua ad incombere. Non decorre alcun termine dal momento in cui si completa la fattispecie
silenziosa, almeno fino a quando l’amministrazione non si pronuncia con un provvedimento negativo esplicito.

Conseguenze dell’inosservanza del termine:


È prevista la possibilità di rimessione in termini per errore scusabile, in presenza del quale il giudice, anche
d’ufficio, ritiene tempestivo il ricorso notificato tardivamente, ovvero autorizza il ricorrente a rinnovare le
notifiche.
L’istituto dell’errore scusabile è ora previsto dall’art. 37 che fa riferimento alla presenza di oggettive ragioni
di incertezza su questioni di diritto o di gravi inadempimenti di fatto (difficoltà interpretative e applicative di
una norma nuova, esistenza di contrasti giurisprudenziali, incertezza oggettiva sul termine o sulle forme di
tutela processuale, presenza di un comportamento equivoco dell’amministrazione, errori di notifica
ascrivibili all’ufficio).

NOTIFICAZIONE DEL RICORSO:


Una volta predisposto materialmente il ricorso, questo deve essere portato a conoscenza degli altri soggetti
interessati mediante la notifica, che va effettuata nei termini precedenti. Al riguardo, dopo aver previsto
che le domande si introducono con ricorso al TAR competente, l’art. 41 CPA prevede che la notifica del
ricorso va effettuata, a pena di inammissibilità:
- all’amministrazione (nella persona di chi ne abbia la rappresentanza legale; è ritenuta equivalente
la notifica all’organo che ha emanato l’atto anche se diverso dal rappresentante).
a. se è un’amministrazione statale: presso Avvocatura dello Stato (che di essa ha il patrocinio
ex lege) sito nella città ove ha sede il TAR competente a decidere.
Eccezione: impugnazione dell’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico (art. 120 CPA) –
notifica presso nella sede reale in data non anteriore alla notifica presso l’Avvocatura al fine di
rendere possibile la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto.
b. se è un’amministrazione diversa da quella statale: presso la sede della stessa.

- ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso (è ammessa l’integrazione
successiva del contraddittorio ai sensi degli artt. 27 e 49 CPA).
La notifica del ricorso ai controinteressati si giustifica in relazione all’interesse di cui gli stessi sono portatori. I
controinteressati sono coloro che hanno tratto vantaggio dal provvedimento impugnato e, perciò, hanno
interesse a intervenire nel giudizio al fine di conservarlo. Essi quindi hanno un interesse uguale e contrario
rispetto a quello del ricorrente e rivestono una posizione analoga a quella del resistente. Pertanto, sono parti
necessarie del processo.

- agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo (art. 102 c.p.c.) – se è proposta azione di condanna
anche in via autonoma. Questo ai fini dell’instaurazione di un litisconsorzio necessario che, ove non
correttamente instaurato, viene composto dal giudice mediante emanazione dell’ordine di
integrazione del contraddittorio (art. 49 CPA).

Quanto la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle
persone da chiamare in giudizio, il Presidente del Tribunale o della sezione cui è assegnato il ricorso può
disporre, su richiesta di parte, che la notificazione sia effettuata per pubblici proclami, prescrivendone le
modalità.

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Il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di 30 gg se le parti o alcune di esse risiedono in altro
Stato d’Europa, o di 90 gg se risiedono fuori dall’Europa.

Inoltre, in merito, occorre rilevare che:


 i termini sono perentori;
 la tardività della notifica all’autorità che ha emanato il provvedimento, e ad almeno uno dei
controinteressati, rende il ricorso irricevibile;
 è applicabile l’istituto della rimessione in termini;
 i termini sono sospesi nel periodo feriale (1 agosto – 15 settembre).

Quanto alle modalità con cui può realizzarsi la notifica del ricorso, ai sensi del rinvio esterno al c.p.c., ex art.
39 CPA, le notificazioni degli atti del processo amministrativo sono disciplinate dal c.p.c. nonché dalle leggi
speciali concernenti la notificazione degli atti giudiziari in materia civile.
In particolare, la notificazione avviene tradizionalmente per mezzo di Ufficiale Giudiziario o di messo
comunale mediante consegna diretta al destinatario di una copia conforme all’originale dell’atto da
notificare (art. 137 comma 2 c.p.c.).
Altre modalità per effettuare la notifica sono:
- mediante servizio postale;
- per pubblici proclami;
- per via telematica o mediante fax.

Notificazione a mezzo posta: per l’osservanza del termine si deva far riferimento alla consegna dell’atto
all’ufficiale giudiziario. L’avviso di ricevimento deve essere depositato a pena di inammissibilità del ricorso
per inesistenza della notificazione.
Nell’ipotesi di irreperibilità o rifiuto alla ricezione della copia dell’atto, la notificazione effettuata in base
all’art. 140 c.p.c. viene perfezionata con il ricevimento della raccomandata e non con la semplice
spedizione.
Resta naturalmente fermo che per il destinatario la notifica si intende perfezionata solo dalla ricezione
dell’atto attestata dall’avviso di ricevimento della raccomandata.

Le invalidità della notificazione sono da ritenersi quelle individuate dalla giurisprudenza:


- notifica inviata a indirizzo diverso da quelli stabiliti dalla legge ma comunque collegati in qualche
modo con il destinatario;
- notifica effettuata a amministrazione statale nel suo domicilio reale.
In questi casi la costituzione dell’intimata sana il difetto di notifica.

Il deposito del ricorso notificato e la costituzione in giudizio del ricorrente


Nel processo amministrativo l’instaurazione del rapporto tra organo giudicante e parti si realizza con la
COSTITUZIONE IN GIUDIZIO.
Per il ricorrente la costituzione si realizza con il DEPOSITO, presso la segreteria del giudice adito,
dell’originale del ricorso + prova delle avvenute notificazioni + procura del difensore (se conferita con atto
separato) – da effettuarsi entro 30 giorni dal momento in cui l’ultima notifica si perfeziona anche per il
destinatario (art. 45).

Se:
- manca il deposito -> le altre parti notificate possono presentare autonomo ricorso per far
dichiarare la mancata instaurazione del processo;
- il deposito è fatto fuori termine -> il processo è instaurato, ma giudice può dichiarare inammissibile
il ricorso
- il deposito è fatto prima della perfezione della notifica per il destinatario -> il processo è instaurato,
ma la procedibilità del ricorso è condizionata all’ulteriore deposito del documento che comprova il
perfezionamento della notificazione per il suo destinatario.

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Se il ricorrente non deposita COPIA DELL’ATTO IMPUGNATO, non ci sono problemi: ad oggi questo è
un’onere dell’amministrazione, ex art. 46 comma 2 CPA. L’amministrazione, a prescindere dalla circostanza
che essa si costituisca o meno in giudizio, è obbligata, entro 60 giorni dal perfezionamento nei propri
confronti della notificazione del ricorso, a depositare:
- atto impugnato;
- atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato;
- atti in esso citati;
- atti che l’amministrazione ritiene utili al giudizio.

Nella prospettiva della salvaguardia del diritto di difesa del ricorrente, questa previsione non è pienamente
soddisfacente: il termine di 60 giorni non è perentorio, in quanto manca qualsiasi sanzione in caso di ottemperanza!
Un eventuale inadempimento dell’Amministrazione sarà ‘risolto’ con un ordine di esibizione del giudice, nell’ambito
della sua discrezionalità.

Dell’avvenuto deposito si darà poi COMUNICAZIONE alle parti costituite secondo quanto previsto dall’art.
46 comma 3 e art. 136. Da tale comunicazione dovrebbero decorrere il termine decadenziale per la
proposizione dei motivi aggiunti.

Costituzione delle parti intimate


Nel processo amministrativo vale il principio della UNILATERALITA’ DELL’AZIONE, e non è quindi previsto
l’istituto della contumacia: una volta perfezionata la costituzione del ricorrente, attraverso la notificazione
dell’atto introduttivo e il deposito dello stesso unitamente al provvedimento impugnato, è irrilevante il
contegno assunto dal soggetto resistente e degli eventuali contro interessati (la loro costituzione non è un
momento necessario per la prosecuzione del giudizio).

La costituzione in giudizio dell’Amm.ne che ha emesso l’atto impugnato e delle altre parti intimate, ex art.
46 CPA, può avvenire mediante il deposito di costituzione o di una memoria difensiva (controricorso) entro
60 giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso.
Nello stesso termine possono fare istanze e indicare i mezzi di prova cui intendono avvalersi e produrre
documenti.
Tale termine è:
- ORDINATORIO per la parte -> può costituirsi anche DOPO i 60 gg purché prima dell’udienza di
discussione;
- DILATORIO per il giudice -> prima dei 60 gg non può fissare l’udienza di discussione del ricorso, a
tutela del diritto di difesa delle parti diverse dal ricorrente.

Domanda di fissazione dell’udienza


Il deposito della DOMANDA DI FISSAZIONE DELL’UDIENZA, ad opera di una qualsiasi delle parti costituite, è
il punto di avvio concreto del giudizio.
La domanda va presentata, con atto separato dal ricorso, al Presidente del Collegio; va depositata nella
segreteria del giudice adito e annotata in un registro entro un anno dal deposito del ricorso/cancellazione
della causa dal ruolo, per evitare l’estinzione del processo per perenzione (art. 81 CPA).
Il Presidente fissa così con decreto la data di udienza, nominando il giudice relatore. Da questo momento
l’onere dell’impulso processuale si trasferisce dalla parte al giudice (diversamente da quanto accade nel
processo civile). In seguito la segreteria provvede all’iscrizione della causa al ruolo d’udienza.
La domanda di fissazione dell’udienza è NON REVOCABILE dalla parte che l’ha presentata (per arginare
comportamenti dilatori e poco consoni agli obiettivi di efficienza processuale).

Nel momento in cui la causa è iscritta al ruolo, il decreto presidenziale di fissazione del giorno dell’udienza
di discussione deve essere comunicato a cura dell’ufficio di segreteria almeno 60 giorni prima dell’udienza
sia al ricorrente che alle parti costituite nel domicilio eletto.

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Nei casi d’urgenza il Presidente del Tribunale può, su istanza di parte, abbreviare fino alla metà i termini
previsti dal CPA per la fissazione di udienze o di camere di consiglio. -> Conseguentemente sono ridotti
proporzionalmente i termini per le difese della relativa fase.

La fissazione dell’udienza dovrebbe seguire l’ordine di iscrizione delle domande nel registro. Nelle ipotesi
dichiarate urgenti, d’ufficio, su istanza di parte (istanza cd. di prelievo), ovvero nei casi previsti dallo stesso
CPA, la trattazione può essere anticipata. Si prevedono, in particolare, tre ipotesi di anticipazione:
1) Ricorso va fissato con ASSOLUTA PRIORITA’ in caso di procedure di affidamento lavori pubblici,
servizi e forniture (art. 120)
2) Ricorso va fissato con PRIORITA’ nell’ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado e
di pluralità di ricorsi vertenti su unica questione (art. 105)
3) Ricorso va fissato con URGENZA nel caso di ricorsi in materia elettorale, e con SOLLECITUDINE dopo
i diversi esiti della udienza camerale per la concessione delle misure cautelari (art. 55)
4) Esigenze di connessione per materia, funzionalità dell’ufficio, ogniqualvolta sussista la necessità di
udienze straordinarie e in ogni caso in cui il Consiglio di Stato abbia annullato la sentenza o
l’ordinanza esaminate e rinviato la causa al giudice di primo grado.

Art. 82: decorsi 5 anni dal deposito del ricorso, la segreteria del giudice adito notifica alle parti costituite
apposito avviso in virtù del quale è fatto onere, a pena di perenzione del ricorso, alle parti ricorrenti di
presentare una nuova istanza di fissazione d’udienza entro 180 giorni dalla data di ricezione dell’avviso
stesso.

Ai sensi dell’art. 73 le parti del giudizio hanno la possibilità di produrre:


- documenti -> entro 40 gg
- memorie -> entro 30 gg
Esse poi possono presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista
dell’udienza -> entro 20 gg liberi anteriori al giorno fissato per l’udienza di discussione.
Le memorie del ricorrente, in ogni caso, non possono comunque essere utilizzate per formulare domande
nuove ovvero estendere il thema decidendum, essendo ciò consentito nei limiti e con le modalità dei motivi
aggiunti. Esse costituiscono lo strumento attraverso cui il ricorrente ribadisce, nel corso del giudizio e prima
dell’udienza di discussione, le argomentazioni poste a fondamento delle censure sviluppate nell’atto
introduttivo anche in risposta alle eccezioni sollevate dalle altre parti del giudizio intimate e costituite.

È possibile, anche per le parti intimate, la presentazione tardiva di memorie e documenti, su richiesta di
parte e con l’autorizzazione eccezionale del collegio ex art. 54 CPA, ove la produzione nel termine di legge
risulti estremamente difficile e nel rispetto del diritto di difesa.

Le parti intimate possono formulare eccezioni, a meno che non siano soggette a termini di decadenza (es.
eccezione di incompetenza deve essere sollevata nell’atto di costituzione o comunque con atto depositato
non oltre 30 giorni dalla scadenza del termine di cui all’art. 46; eccezione di prescrizione può essere fatta
valere solo in primo grado dalla p.a.).

Integrazione del contraddittorio – intervento


Il contraddittorio può essere integrato secondo diverse modalità:
a) INTEGRAZIONE IUSSU IUDICIS -> ART. 49 CPA
b) INTERVENTO VOLONTARIO -> ART. 50 CPA
c) INTERVENTO COATTO IUSSU IUDICIS -> ART. 51 CPA

Per essere ritenuto ammissibile il ricorso, ex art. 27 CPA, deve essere notificato a AMMINISTRAZIONE
RESISTENTE + ALMENO UNO DEI CONTROINTERESSATI. Questa previsione è bilanciata dall’art. 49, secondo
cui il G.A., ravvisata nel corso del giudizio di primo grado l’esistenza di controinteressati non intimati, ordina
con sentenza che il ricorrente, entro un termine perentorio, provveda ad integrare le notificazioni mancanti

90
ai soggetti espressamente indicati dal giudice stesso e a depositare in giudizio le relative prove
(INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO IUSSU IUDICIS).
Il mancato rispetto dell’ordine di integrazione del contraddittorio comporta l’improcedibilità del ricorso ai
sensi dell’art. 35 CPA. La decisione finale emessa in difetto dell’integrazione del contraddittorio è affetta da
vizio di procedura rilevabile d’ufficio in appello dal giudice che deve annullarla con rinvio al giudice di primo
grado. In ogni caso, l’intervento in giudizio delle parti che avrebbero dovuto ricevere la notificazione sana
tali carenze.
Se è proposta domanda di condanna, anche in via autonoma, il ricorso deve essere notificato anche agli
eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 c.p.c. – ai fini dell’instaurazione di un
litisconsorzio necessario che, ove non correttamente instaurato, viene composto dal giudice attraverso
l’emanazione dell’ordine di integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 49 CPA.
Art. 29 chiarisce anche che una volta costituiti i controinteressati, questi non saranno pregiudicati dagli atti
processuali anteriormente compiuti.
Sinora però, lo strumento dell’integrazione ex art. 49 CPA si è mostrato notevolmente limitato per:
adesione al requisito formale per l’individuazione delle parti necessarie del giudizio; assenza nel processo
amministrativo di un momento in cui controllare la regolare integrazione del contraddittorio (che non sia
l’udienza di discussione).
Per evitare verificarsi di pregiudizi in capo alle parti del giudizio, parte della giurisprudenza, già in epoca
anteriore alla l. 205/2000, aveva imposto l’integrazione del contraddittorio prima della decisione della
domanda cautelare: in questo modo l’ordinanza di sospensione assunta prima dell’integrazione del
contraddittorio sarebbe stata illegittima e annullata dal giudice dell’appello con restituzione degli atti al
TAR.
Ex art. 49 comma 2 CPA, SE il ricorso è manifestamente irricevibile/inammissibile/improcedibile/infondato
allora l’integrazione non deve essere ordinata. In questi casi, la sentenza è resa in forma semplificata ex art.
74 CPA. Se il giudice d’appello ritiene condivisibile tale decisione di primo grado, non annulla con rinvio,
atteso che le parti non presenti in giudizio non hanno ricevuto alcun pregiudizio dalla pronuncia del giudice.

INTERVENTO:
costituisce oggetto di previsione degli artt. 28, 50 e 51 CPA.
- Art. 28: nelle ipotesi in cui il giudizio non sia stato pronunciato contro alcuna delle parti nei cui
confronti la sentenza debba essere pronunciata, queste possono intervenirvi, senza pregiudizio del
diritto di difesa. Inoltre, chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle
relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio
si trova.

- Per quanto riguarda invece l’INTERVENTO VOLONTARIO nel giudizio


o CONTENUTO: art. 50 stabilisce che l’atto di intervento deve contenere → intestazione,
generalità dell’interventore, ragioni su cui si fonda l’intervento, produzione dei documenti
giustificativi, sottoscrizione del difensore. Non può estendere il thema decidendum oltre i
limiti fissati dal ricorrente mediante i motivi del ricorso principale.
o FORMA PROCESSUALE: deve essere notificato a tutte le parti processuali e
all’amministrazione resistente, nel domicilio eletto ai sensi dell’art. 170 c.p.c.; deve essere
depositato presso la segreteria dell’organo giurisdizionale nei termini di cui all’art. 45 CPA
(30 giorni decorrenti dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto si è perfezionata
per il destinatario).

- Art. 28 comma 3: il giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si
svolga nei confronti di un terzo, ne ordina l’intervento. Ai sensi dell’art. 52, quando il giudice ordina
alla parte di chiamare il terzo in giudizio, indica gli atti da notificare e il termine della notificazione.
L’interventore, a sua volta, si costituirà nelle forme e nei termini contemplati dall’art. 46 CPA. →
INTERVENTO COATTO IUSSU IUDICIS.
= è una chiamata in giudizio ordinata dal giudice, per coinvolgere nel processo (d’ufficio o su istanza
di parte) i controinteressati esclusi dal ricorrente. Ove il terzo non sia chiamato nel termine
prescritto, il giudice dichiara il ricorso improcedibile ex art. 35. La costituzione dell’interventore
91
avviene entro 60 giorni (termine non perentorio) dal perfezionamento nei propri confronti della
notificazione del ricorso.

Avuto riguardo invece all’intervento in corso giudizio:


dottrina e giurisprudenza, avuto riguardo alle differenze strutturali e funzionali del processo amministrativo
rispetto al giudizio civile, hanno escluso
→ intervento principale (per impossibilità di configurare giuridicamente un interesse di un privato che sia
allo stesso tempo incompatibile con l’amministrazione e con gli altri privati coinvolti dall’esercizio del
potere amministrativo);
→ intervento litisconsortile (per il timore che l’intervento offrisse l’occasione per eludere il principio della
perentorietà del termine per ricorrere).
In questo caso ha ritenuto ammissibile l’intervento del soggetto legittimato in via principale solo se ancora
in termini e previa conversione dell’atto di intervento in ricorso in via autonoma. Dal lato passivo, ove non
sussistano termini perentori per la costituzione in giudizio, ha accolto l’esperibilità dell’intervento da parte
del controinteressarto pretermesso.

L’unica forma di intervento ammessa nel processo amministrativo è l’ intervento adesivo dipendente da
parte di colui che, avendo qualche interesse, aderisce alle ragioni di una delle parti:
- intervento ad adiuvandum: interveniente aderisce alla posizione del ricorrente
- intervento ad opponendum: interveniente aderisce alla posizione della parte intimata o dei
controinteressati, opponendosi alle argomentazioni del ricorrente.

Per potere accedere al giudizio è necessario che l’interventore sia titolare di un interesse DERIVATO o
RIFLESSO rispetto all’interesse legittimo tutelato in via principale. C’è quindi una sostanziale differenza tra
l’interesse del ricorrente principale e quello dell’interventore.
(!) Per evitare elusioni del termine di decadenza per la proposizione del ricorso, si esclude anche che il
controinteressato possa intervenire in giudizio ad adiuvandum. L’intervento è ammesso SOLO entro i
termini decadenziali, convertendosi sostanzialmente in un ricorso principale.

Nella vigenza della precedente disciplina, è stata riconosciuta la possibilità di intervenire anche ai soggetti
titolari di una SGS autonoma e incompatibile, che legittimerebbe il titolare, oltre che a proporre intervento,
anche ad appellare ovvero a proporre opposizione di terzo. L’interesse finale cui il privato aspita è
differente tanto da quello del ricorrente quanto da quello del controinteressato: si colloca in una posizione
intermedia tra questi due poli.
In questa prospettiva, l’intervento volontario in giudizio è ammesso per garantire una maggiore stabilità
alla sentenza, onde evitare che i mancati interventori possano poi agire con l’opposizione di terzo.

Nel GIUDIZIO D’APPELLO sono parti:


- tutti i soggetti che tali sono stati (o avrebbero dovuto essere) nel giudizio di primo grado,
- soggetti intimati dall’appellante,
- può intervenire chiunque ritenga di essere pregiudicato dalla sentenza (chiunque sia legittimato
cioè a proporre opposizione di terzo),
(!) Non possono intervenire coloro che avrebbero dovuto proporre ricorso in primo grado in qualità di
controinteressati; ovvero proporre appello in via principale in qualità di soccombenti. Costoro, non avendo
tempestivamente impugnato, hanno prestato acquiescenza al provvedimento e alla sentenza.

Proposizione di motivi aggiunti


Trattasi di istituto introdotto gradatamente in via giurisprudenziale, per concretizzare appieno il principio
del contraddittorio: la sua affermazione è stata favorita dall’abolizione, per via legislativa, del segreto
d’ufficio nel processo amministrativo e l’adozione del principio, opposto, della pubblicità e trasparenza
dell’azione dei pubblici poteri. Il ricorso per motivi aggiunti ha assunto, nel tempo, un ruolo
importantissimo nello svolgimento delle dinamiche processuali.

92
→ La presenza di motivi aggiunti è stata dichiarata ammissibile in conseguenza della cognizione, da parte
del ricorrente, di fatti o atti sopravvenuti alla proposizione del ricorso principale, in grado di far emergere
la sussistenza di ulteriori vizi originari del provvedimento impugnato.
Questo trova conferma nel vincolo derivante dall’immodificabilità del petitum individuato nell’atto introduttivo del
giudizio, essendo solo permesso l’eventuale arricchimento della causa petendi.

Il recepimento, da parte del legislatore, di questa importante produzione dottrinale e giurisprudenziale,


non è stato però (quantomeno in prima battuta) del tutto soddisfacente:
 L. 205/2000: si è limitata a prevedere la possibilità di integrare la domanda principale allorché, nel
corso del giudizio, l’amministrazione emani un nuovo provvedimento incidente sulla situazione
giuridica fatta valere con la proposizione di ricorso principale.
Tale disciplina, per quanto abbia recepito una giurisprudenza minoritaria e coraggiosamente aperta
all’effettività della tutela, non manca però di contraddizioni: la possibilità di impugnare i
provvedimenti sopravvenuti nel corso del giudizio era condizionata all’esistenza di una connessione
non solo oggettiva ma anche soggettiva al thema decidendum del processo pendente! (Ciò lasciava
fuori una nutrita serie di casi, sottoponendo gli interessati ad una duplicazione di giudizi e con la
possibilità di dare vita ad un contrasto fra giudicati!).
La giurisprudenza, partendo da questa norma coraggiosa ma purtroppo non pienamente
soddisfacente, ha assunto una posizione più aperta, volta a considerare ammissibili i motivi aggiunti
proposti nei confronti di atti connessi al provvedimento originariamente impugnato anche
nell’ipotesi in cui siano diversi i controinteressati.

 Queste incongruenze sono state eliminate dall’ art. 43 CPA: ‘I ricorrenti, principale ed incidentale,
possono introdurre con motivi aggiunti NUOVE RAGIONI A SOSTEGNO DELLE DOMANDE GIA’
PROPOSTE, ovvero DOMANDE NUOVE PURCHE’ CONNESSE A QUELLE GIA’ PROPOSTE. Ai motivi
aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini.’
Unico presupposto per l’allargamento del giudizio è qui una connessione genericamente intesa; la
formulazione della norma è così volta al superamento delle aporie create dalla precedente
legislazione, e favorisce l’ingresso in giudizio di atti fra loro anche flebilmente connessi (atti del
medesimo procedimento, atto presupposto e consequenziale, regolamento ed atto applicativo).

Questo allargamento permette veramente di massimizzare il principio del contraddittorio in sede


giurisdizionale, permettendo di coinvolgere contro interessati occulti ma sempre con il rischio che i nuovi
soggetti entrati nel processo potrebbero risultare penalizzati dall’attività, soprattutto istruttoria, già svolta
in loro assenza. L’art. 43 risolve numerose aporie legate alla vecchia formulazione:
1) ricorso per motivi aggiunti è doveroso o discrezionale? Alla luce dell’art. 43 CPA il ricorso è
discrezionale (‘possono’), il cui mancato rispetto comporterebbe l’inamissibilità del ricorso proposto
in via autonoma contro gli atti connessi. Art. 43 comma 3 non demanda più alla valutazione
discrezionale del giudice l’opportunità di riunire i ricorsi, optando al contrario per un vero e proprio
obbligo di trattare congiuntamente le questioni sottoposte al suo sindacato.
2) ricorso per motivi aggiunti è accessorio o meno al ricorso principale? Bisogna distinguere a
seconda della tipologia di motivi aggiunti dedotti in ricorso. Se la questione aggiunta può dirsi
autonoma rispetto al ricorso principale, allora l’eventuale impossibilità di decidere nel merito la
controversia principale non sarà d’ostacolo alla decisione della stessa; diversamente la questione
aggiunta dovrà dirsi improcedibile.
3) ricorso per motivi aggiunti avanti a che giudice va deciso? Per il caso in cui la competenza a
conoscere dell’impugnazione del provvedimento sopravvenuto connesso spetta ad un TAR
differente da quello inizialmente adito.. che fare?
Il CPA è chiaro circa l’inderogabilità della competenza territoriale, ma dall’altro lato i principi di
concentrazione ed economia processuale (artt. 1-2 CPA e 111 Cost.) richiederebbero che tali ricorsi
fra loro connessi vadano discussi assieme davanti alla stessa autorità giurisdizionale. In questo caso
il superamento della non derogabilità della competenza pare legittimo, sia in virtù del richiamo ai
principi del processo civile (in assenza di precise indicazioni sul piano positivo), sia in conseguenza

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dell’espressa statuizione da parte dello stesso legislatore che, inspiegabilmente, ha previsto questa
deroga in sede di disciplina del ricorso incidentale ex art. 42.
4) ricorso per motivi aggiunti integra un rito speciale, diverso dal principale? E’una possibilità
remota, ma ad esempio per il ricorso contro il silenzio (art. 117 comma 5) si prevede che , nel caso di
emanazione del provvedimento richiesto nel corso della controversia volta a accertare l’obbligo
dell’amministrazione di provvedere, il processo deve proseguire con il nuovo rito.

Il ricorso per motivi aggiunti deve contenere, oltre a requisiti propri di qualsiasi ricorso, anche l’indicazione
degli estremi del giudizio nel quale si innesta.
Il ricorso va presentato ENTRO LO STESSO TERMINE PREVISTO per la proposizione del ricorso principale, e
senza l’eventuale DIMIDIAZIONE dei termini che sono sempre pieni. Art. 43: ai motivi aggiunti si applica la
disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini.
Il ricorso va notificato a: amministrazione + eventuali contro interessati (anche se non costituiti in giudizio),
nel termine di decadenza di 60 giorni dalla avvenuta conoscenza del documento nuovo o dell’adozione del
nuovo provvedimento. La notificazione va fatta secondo la procedura indicata ex art. 170 c.p.c., come
prescritto dall’art. 43 comma 2.
L’originale dell’atto notificato, munito della prova dell’avvenuta notifica, va depositato presso la segreteria
della sezione presso cui pende il ricorso originario.

Ricorso incidentale e domande riconvenzionali


RICORSO INCIDENTALE -> si tratta dello strumento attraverso cui si impugna l’atto in quella parte che non è
stata impugnata dal ricorrente, ed eventualmente per motivi diversi. Esso è consentito, ex art. 42, alle parti
resistenti e ai controinteressati, i quali possono proporre DOMANDE il cui interesse sorge in dipendenza
della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale.

Questa possibilità di spiega con la necessità di assicurare al ricorrente incidentale la tutela della propria
situazione soggettiva, in conseguenza della richiesta rivolta al G.A. – contenuta nel ricorso principale – di
annullare il provvedimento gravato.
E’ un’autonoma azione di impugnazione, qualificabile come ‘eccezione in senso tecnico’, in quanto mira a
paralizzare l’azione principale e neutralizzare gli effetti derivanti dall’eventuale accoglimento del ricorso
principale (favorendo la conservazione in capo al controinteressato dell’assetto degli interessi sancita dal
provvedimento impugnato).
Diversamente, se il ricorrente incidentale, oltre all’accertamento dell’inammissibilità della domanda
principale chiede al giudice l’annullamento di parti diverse del provvedimento oggetto dell’impugnazione
principale, ci troviamo di fronte a una vera e propria eccezione in senso sostanziale.
(es. soggetto che, risultato vincitore in un concorso impugnato da altro candidato non vincitore sull’assunto
dell’omessa valutazione di alcuni titoli, impugni a sua volta lo stesso provvedimento per far valere l’omessa
valutazione di altri titoli in suo favore, in modo da ripristinare la preminenza nella graduatoria rispetto al ricorrente
principale).

Il ricorso incidentale si pone in POSIZIONE ACCESSORIA rispetto all’oggetto del giudizio principale, in quanto
strettamente collegato alle sorti di quest’ultimo (gli atti sono legati da un nesso di presupposizione e
l’impugnazione incidentale dell’atto presupposto a quello impugnato in via principale viene effettuata dal
controinteressato per neutralizzare o contrastare la pretesa del ricorrente).

Ricorso incidentale va notificato a pena di decadenza, secondo le regole ordinarie, entro 60 giorni dalla
NOTIFICA del ricorso principale, al ricorrente principale ed alle altre parti del giudizio e poi DEPOSITATO
nella segreteria del giudice adito nei 30 giorni successivi.

Una novità, per quanto riguarda la competenza, è esposta al comma 4 dell’art. 42 CPA: DI REGOLA il ricorso
va introdotto avanti al giudice che conosce della domanda principale, MA nel caso eccezionale in cui il
ricorso incidentale vada proposto avanti ad un giudice dotato di competenza funzionale, allora l’intero
giudizio si sposterà al giudice funzionale.

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Bisogna poi approfondire le tematiche relative a:
 MODALITA’ DI DECISIONE DEL RICORSO INCIDENTALE
di norma il giudice deciderà sul ricorso incidentale dopo essersi pronunciato sul ricorso principale.
Pertanto, il ricorso incidentale andrebbe considerato inefficace nell’ipotesi in cui il ricorso
principale venga dichiarato inammissibile; nell’ipotesi di pronunce che precludano l’adozione di una
decisione sul merito dell’impugnativa principale; nell’ipotesi in cui il ricorso principale venga
rigettato per infondatezza.
Sebbene largamente condivise, in epoca recente tali conclusioni sono state sottoposte ad una
consistente revisione soprattutto con riferimento alle modalità di decisione del ricorso incidentale,
di legittimazione (attiva e passiva) e di oggetto del relativo giudizio.
Quanto al primo profilo, secondo la più recente giurisprudenza in alcune ipotesi la regola della
preventiva decisione del ricorso principale deve essere disattesa quando dalla definizione delle
questioni dedotte con il ricorso incidentale possano discendere soluzioni ostative o preclusive
dell’esame delle censure formulate con il ricorso principale. In tal caso, per ragioni gi economia
processuale, le censure adottate nel ricorso incidentale vanno decise con precedenza, in modo che
dal loro accoglimento possa derivare la chiusura del giudizio, con conseguente “assorbimento”
delle questioni sollevate nel ricorso principale che non verrebbero esaminate dal giudice.

Orientamento Consiglio di Stato in relazione all’ordine di esame e alle sorti delle impugnative proposte per le
controversie relative alle procedure di gara, quando una parte contesti all’altra la mancata esclusione delle
rispettive offerte, quando alla procedura selettiva abbiano partecipato solo 2 soggetti → l’effetto
“paralizzante” del ricorso incidentale sul ricorso principale attraverso cui il controinteressato fa valere
l’illegittimità dell’ammissione dell’offerta del ricorrente e, dunque, la priorità nella trattazione del ricorso
incidentale rispetto al ricorso principale non si verifica (avendo entrambe le imprese interesse a un’ulteriore
gara), per cui vanno esaminati entrambi i ricorsi, al cui contestuale accoglimento corrisponderà l’obbligo
dell’amministrazione di rinnovare la procedura di gara.

 LEGITTIMAZIONE ATTIVA
- giurisprudenza: visione restrittiva, la proposizione del ricorso incidentale spetta SOLO ai
controinteressati formali (ossia coloro che, in quanto parti necessarie, sono i destinatari esclusivi
della notificazione del ricorso principale). Esclude che i controinteressati possano utilizzare il
ricorso incidentale.
- dottrina: è sempre più volta ad ammettere la proposizione del ricorso incidentale da parte di tutti
i controinteressati, formali e sostanziali.

Il ricorso incidentale è volto ad ottenere, in capo ai soggetti che lo propongono, il vantaggio da essi
già ottenuto, non essendo però idoneo a determinare una riapertura dei termini per le
impugnazioni di un provvedimento percepito fin dall’inizio come pregiudizievole.
Può essere proposto anche dall’amministrazione resistente, qualora non possa esercitare i poteri di
autotutela volti all’eliminazione dell’atto (ad esempio per censurare atti di un’altra
amministrazione).

 LEGITTIMAZIONE PASSIVA
In applicazione della regola generale dell’accessorietà, legittimato passivo è considerato SOLO il
ricorrente principale. Le parti diverse dal ricorrente difatti si pongono sullo stesso piano del
ricorrente incidentale, essendo portatori di un interesse CONFORME alla conservazione del
provvedimento.
In ogni caso, qualora l’impugnazione incidentale inerisca ad atti diversi da quelli che formano
oggetto del ricorso principale, legittimata passivamente sarà certamente anche l’amministrazioen
che ha emesso tale atto; nonché tutti i soggetti controinteressati rispetto a tale atto, ancorché
diversi dalle parti già evocate in giudizio.

DOMANDA RICONVENZIONALE -> consente al contro interessato di introdurre un nuovo thema


decidendum, che configura una vera e propria eccezione in senso sostanziale.

95
Art. 42 comma 5: Le domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in giudizio sono proposte nei
termini e con le modalità di cui al presente articolo.
Tale formulazione però non è delle migliori, poiché ancorando la proponibilità delle domande
riconvenzionali ‘nei termini e le modalità di cui al presente titolo’ potrebbe introdurre delle ingiustificate
disparità di trattamento a seconda il diritto soggettivo venga azionato avanti al G.A. o al G.O.

FASE CAUTELARE
La tutela cautelare nel giudizio dinanzi al GA è finalizzata ad evitare che il decorso del tempo pregiudichi la
completa soddisfazione della pretesa fatta valere in giudizio: infatti, vista la durata spesso lunga dei
processi, può accadere che, durante il tempo occorrente per il completamento del processo, vengano a
mutare le condizioni patrimoniali o di fatto di una delle parti, con il pericolo che l’altra, a processo ultimato,
possa non conseguire il soddisfacimento della sua pretesa.
Come evidenziato dalla dottrina, il tratto caratterizzante di tale fase del processo è quindi che con la misura
cautelare si ha, in un certo senso, un’anticipazione degli effetti della sentenza che, se pronunciata in tempi
ordinari, sarebbe il più delle volte inutiliter data, per il conseguimento del risultato dopo un notevole lasso
di tempo.
Per tale ragione, nel processo amministrativo, da fase meramente eventuale, la tutela cautelare è andata
assumendo sempre più importanza, fino a trovare compiuta trattazione nel CPA, del quale anzi rappresenta
uno dei punti maggiormente innovativi.

Excursus storico-legislativo-giurisprudenziale:
La disciplina delle misure cautelari ha conosciuto un’evoluzione complessa ed articolata.
LEGGE CRISPI (1889) -> UNICO strumento tutelare a disposizione del giudice era la sospensione
dell’esecuzione del provvedimento impugnato. Tale unico strumento, assieme alla previsione della CORTE
COSTITUZIONALE, non poteva essere ritenuto però soddisfacente! 
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 190/1985 -> riconosce al G.A. la possibilità che nelle controversie
patrimoniali in materia di pubblico impiego sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, potesse adottare i
provvedimenti d’urgenza che apparissero più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della
decisione sul merito. PROBLEMI: non trova applicazione a tutte le controversie in materia di pubblico
impiego che non fossero patrimoniali e alle altre materie di giurisdizione esclusiva; scarsa applicazione
giudiziale.

La misura era strumentale alla sentenza di annullamento che poteva adottare il G.A.: si poteva sospendere
l’esecuzione dell’atto che, poi, con la sentenza veniva annullato, consolidandosi l’effetto della privazione
interinale dell’efficacia ed eliminando gli effetti eventualmente prodotti prima della sospensione.
Il legislatore concepiva la sospensione come un incidente del processo amministrativo a carattere
eventuale e di rara applicazione. Il momento cautelare nel processo è poi divenuto gradualmente lo
strumento per dare soddisfazione all’interesse del ricorrente, senza la necessità di attendere una sentenza
che, se giungeva, arrivava tardi.
Il legislatore si è poco occupato di dare una disciplina alla misura cautelare nel processo amministrativo,
dovendo la giurisprudenza adattare l’unica misura tipica prevista (cioè la sospensione del provvedimento)
alle esigenze di tutela. Il G.A. pertanto ha potuto usare solo questo strumento in tutti i tipi di giudizio,
anche nella giurisdizione esclusiva e pure in presenza di diritti soggettivi.

GIURISPRUDENZIA AMMINISTRATIVA -> La ristrettezza delle attribuzioni cautelare al giudice


amministrativo ha imposto un’evoluzione della giustizia amministrativa per garantire, e rendere più
effettiva, la possibilità di tutela cautelare. Con il tempo si è arrivati a riconoscere:
SOSPENSIONE DEGLI ATTI, non solo ad esecuzione istantanea ma anche continuativa (a partire
dagli anni ’40). In altri termini, si riteneva possibile l’adozione di una pronuncia giudiziale di
sospensione che determinasse l’interruzione degli effetti finchè gli effetti dell’esecuzione perdurassero.

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SOSPENSIONE DEGLI ATTI NEGATIVI, in quanto comunque produttivi di effetti materiali! Dagli anni
’60, e poi ancora di più a seguito dell’istituzione dei TAR, la produzione giurisprudenziale in materia
diviene veramente importante con un notevole incremento del numero dei ricorsi, con conseguente
dilatarsi dei tempi necessari per ottenere la decisione. Il tempo necessario ad ottenere la decisione nel
merito non può andare a danno di colui che invochi la tutela, per cui il G.A. si è spinto a sospendere
diverse tipologie di atti negativi (di controllo, provvedimenti di esclusione alla partecipazione a gare di
appalto, atti di non ammissione di studenti ad esami di maturità, dinieghi di iscrizione agli albi
professionali…). Sul punto della ‘sospensione’:
 parte della giurisprudenza optava per la SOSPENSIONE limitata agli atti negativi i cui effetti sono
preregolati dalla norma o dagli atti endoprocedimentali, come rilevato dalla dottrina (la
sospensione toglie un limite alla negazione di effetti innovativi, ma non pone una regola degli
effetti da produrre). Essa funge da ostacolo, quando la sospensione riguarda atti ad effetti
innovativi, impedendo la concretizzazione degli effetti, mentre quando va a incidere su atti negativi
senza effetti innovativi elimina l’ostacolo alla produzione degli effetti. Ma il giudice, in entrambi i
casi, non determina gli effetti dal pdv del loro contenuto perché la regola degli effetti non è
stabilita dall’ordinanza ma dalla norma, dagli atti endoprocedimentali.
 La giurisprudenza, soprattutto di primo grado, invece.. sospendeva tutti i tipi di atti negativi,
ordinando alla p.a. di riesaminare la questione alla luce dei motivi del ricorso o di specifici elementi
di fatto o di diritto indicati nella motivazione. Vengono così tutelati non solo gli interessi oppositivi
ma anche quelli pretensivi!
La giurisprudenza è passata dalla tutela cautelare dei soli interessi legittimi oppositivi, alla tutela
degli interessi pretesivi, seguendo la tesi che l’esecuzione attiene agli effetti giuridici in senso
stretto, con conseguente ripercussione anche sugli effetti di adeguamento del reale.
La misura cautelare, in sostanza, ha seguito l’evoluzione del giudizio di merito che, attraverso
l’effetto conformativo, è giunto a dare soddisfazione anche agli interessi legittimi pretensivi.

D.LGS. 80/1998 e L.205/2000 -> hanno aumentato non solo i poteri istruttori del G.A. ma anche quelli
decisori, con l’introduzione delle azioni di condanna al risarcimento del danno anche in forma specifica.
L’art. 3 della L.205/2000 afferma l’ATIPICITA’ DELLA MISURA CAUTELARE, rendendo così possibile
l’adozione di qualsiasi provvedimento urgente strumentale alle decisioni che il giudice può assumere con la
sentenza (sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 700 c.p.c. in tema di tutela d’urgenza nel processo
civile).
Per poter accedere alla tutela cautelare la norma espressamente richiedeva che il ricorrente allegasse un
pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento
inerte dell’amministrazione durante il tempo necessario a giungere a una decisione sul ricorso: solo a tali
condizioni era possibile chiedere al giudice l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a
pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee a assicurare interinalmente gli effetti
della decisione sul merito.

CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (2010) -> ha proceduto, innanzitutto, a una sistemazione
organica della tutela cautelare, dedicando alla materia il Titolo II del Libro II, artt. 55-62. Interviene poi con
specifiche disposizioni, in diverse fasi del processo, preoccupandosi di stabilire le regole da cui sono rette le
misure cautelari.
Il legislatore delegato, per la disciplina delle misure cautelari, non opera alcun rinvio ad altre norme di
legge, né al c.p.c. L’istituto ha una sua peculiarità che lo distingue in maniera decisa dalle misure cautelari
previste negli altri processo e, in particolare, da quelle previste dal c.p.c.
In secondo luogo, è da notare che il CPA attua una suddivisione tra le tipologie delle misure stesse,
articolate, a seconda del grado di urgenza in:
- misure cautelari collegiali: nel caso il ricorrente alleghi di subire un pregiudizio grave e irreparabile
durante il tempo necessario per giungere alla decisione del ricorso;
- misure cautelari monocratiche: ossia richieste e eventualmente concesse dal Presidente del TAR
dinanzi a cui pende il relativo ricorso, in ipotesi di estrema gravità e urgenza tali da non consentire
neppure la dilazione fino alla camera di consiglio;

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- misure cautelari anteriori alla causa: previste in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non
consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure provvisorie con
decreto presidenziale.

Nel sistema antecedente il CPA erano previste unicamente le prime due forme di misure cautelari, quelle collegiali e
quelle monocratiche, anche se queste ultime venivano comunemente definite ante causam.

Altri importanti profili da tenere presenti sono rappresentati dal rafforzamento della tempestività di tale
rito nonché dal principio del contraddittorio che lo caratterizza, come pure dalla circostanza che l’istanza di
fissazione dell’udienza di merito diventa, sia per la tutela collegiale che per quella presidenziale, una vera e
propria condizione di procedibilità dell’azione cautelare.

DISCIPLINA DELLE MISURE CAUTELARI


Ex art. 55 CPA: “Se il ricorrente allegando di subire un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo
necessario a giungere alla decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari, compresa
l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria, che appaiono, secondo le circostanze più idonee ad
assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il collegio si pronuncia con ordinanza emessa
in Camera di consiglio”.

Non è esplicitata la ‘FONTE’ del pregiudizio (atto, comportamento..) volutamente, per evitare conflitti con il
art. 7 CPA. Si ripete essenzialmente la struttura dell’art. 700 c.p.c., ma con le dovute distinzioni.
 L’art. 700 c.p.c. è misura cautelare, sì atipica, ma residuale, nel senso che può essere promossa solo
quando non si possano richiedere i provvedimenti tipici (quali la denunzia di nuova opera e di
danno temuto, sequestro…).
 Nel sistema di giustizia amministrativa:
- è UNICA, non solo tra le misure cautelari, ma anche per le tre giurisdizioni del G.A. Essa si modella
sulle decisioni, si adatta ai poteri decisori del G.A. quali che siano, a prescindere dal tipo di
giurisdizione che esercita.
- Qui diventa diritto positivo il principio della STRUMENTALITÀ della misura cautelare che la dottrina
aveva individuato come carattere ontologico di questi rimedi processuali. I provvedimenti urgenti
hanno la loro ratio nella necessità di impedire che la durata del processo possa risolversi in danno
di chi abbia subito un’illegittima lesione della sua SGS. La misura cautelare, in questo senso, viene
strettamente a correlarsi alla decisione di merito della quale si fa strumento nel disporre
interinalmente gli effetti che successivamente saranno regolati dalla sentenza. La misura cautelare
deve anticipare in tutto o in parte i contenuti della decisione finale, ma non può spingersi oltre.
Essa deve essere compatibile con la sentenza finale, non attribuire vantaggi ulteriori.

Conseguenza necessitata dell’atipicità della misura cautelare è che, per stabilire quali provvedimenti
urgenti possa adottare il giudice, occorre considerare i poteri decisori del G.A. ed esaminare questi ultimi
perché sono essi il parametro da tenere presente (ex art. 34).
Contenuti della misura cautelare:
- sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, strumentale all’annullamento dell’atto;
- ingiunzione a pagare una somma correlata o meno alla condanna risarcitoria;
- provvedimenti anticipatori della reintegrazione in forma specifica o di contenuto atipico, correlati:
a) alla sentenza funzionale alla soddisfazione piena ed effettiva del ricorrente (es. adozione dello
specifico provvedimento idoneo alla soddisfazione dell’interesse pretensivo o alla pronuncia di
accertamento),
b) alla misura idonea ad assicurare l’adozione del giudicato anche con la nomina di un
commissario ad acta strumentale a una sentenza di cognizione che può avere questo contenuto.
- sostituzione, modifica, riforma dell’atto (nella giurisdizione di merito).

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Spetta alla parte specificare il tipo di provvedimento richiesto, dal momento che il giudice non può
pronunciarsi oltre la domanda, anche cautelare, del ricorrente, in ragione del principio dispositivo vigente
nel processo amministrativo.
Nel processo civile si è stabilito che i provvedimenti cautelari mantengono il loro effetti anche se non venga
iniziato il giudizio di merito o, se iniziato, per una qualunque ragione si estingua, se: emessi ai sensi dell’art.
700 c.p.c., idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, emessi a seguito di denuncia di nuova
opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688. Ciascuna parte pero può iniziare il giudizio di merito e
l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in diverso processo.
Il legame di strumentalità strutturale (necessità di una sentenza di merito) si è sciolto perché le parti, paghe
della sistemazione della controversia in sede cautelare, potrebbero decidere di non volere la sentenza e
non attivarsi. È rimesso alla volontà delle parti giungere o meno alla sentenza, esaltando il carattere
dispositivo del processo.

Nel processo amministrativo si è verificata una situazione analoga, ma con caratteri diversi.
Il legislatore con la l. 168/2005 ha stabilito che l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono
i candidati sono conseguiti ad ogni effetto se vengono superate le prove d’esame scritte e orali previste dal
bando, anche se l’ammissione alle stesse o la ripetizione della valutazione da parte della Commissione sia
stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela.
Ciò significa che se il G.A. disponga con la misura cautelare, per un aspirante avvocato non ammesso agli
orali, che la Commissione ripeta la valutazione e, con il riesame, il candidato venga ammesso agli orali
superandoli, l’abilitazione professionale è conseguita ad ogni effetto (senza che il G.A. pronunci sentenza
nel merito per accertare se la prima valutazione negativa sia illegittima o meno).
→ Qui salta non solo la strumentalità strutturale (non occorre più la sentenz a di merito) ma forse anche
quella funzionale (per effetto della misura cautelare si consegue l’abilitazione che la sentenza non avrebbe
potuto assegnare).
→ A differenza del processo civile non è rimessa alle parti la scelta di chiedere la sentenza di me rito perché
la disposizione è imperativa e la misura cautelare si trasforma in sommaria, acquisendo l’autorità di
giudicato.

E’ stata rimessa alla Corte Cost. la questione di legittimità costituzionale della disposizione per violazione:
a) della strumentalità strutturale e funzionale della misura cautelare, deducibile dal principio di
uguaglianza, ragionevolezza e giusto processo (artt. 3, 24, 111, 113 Cost.);
b) della garanzia dell’effettività del contraddittorio perché il controinteressato, se non interviene nella
fase cautelare, non può partecipare al giudizio di merito che non si tiene (art. 24, 111 Cost.);
c) del giudice naturale precostituito per legge, quello di merito (art. 25 Cost.);
d) dell’impugnabilità in appello e del riesame che vengono preclusi all’Amministrazione resistente e al
controinteressato, con conseguenza che il TAR può diventare giudice di unico grado, determinando
disparità di potere di appello delle parti (art. 24, 111, 113, 125 Cost.).
→ La Corte ha definito la questione infondata.

ORDINANZE CAUTELARI che dispongono il riesame del provvedimento impugnato che possono trovare
impiego in ogni controversia e settore dell’attività amministrativa.
Il G.A. in sede cautelare può ordinare all’amministrazione di procedere al riesame sulla base dei motivi di
illegittimità contenuti nel ricorso. In conseguenza, l’amministrazione riapre il procedimento e adotta altro
provvedimento, sostitutivo di quello impugnato:
a) sia quando il dispositivo dell’atto è lo stesso di quello impugnato: pur se il provvedimento presenti
la stessa regolamentazione degli interessi stabilita con l’atto impugnato, si è in presenza del
rinnovato esercizio del potere amministrativo che priva il ricorrente dell’interesse a ottenere la
sentenza nel merito, concludendosi il giudizio con una declaratoria di sopravvenuto difetto di
interesse e l’interessato, se lo ritiene, può impugnare il (secondo) provvedimento di riesame.
b) sia nell’ipotesi in cui il dispositivo soddisfi l’interesse del ricorrente: il giudizio si concluderà con una
sentenza dichiarativa di cessazione della materia del contendere, senza valutazione della legittimità
del (primo) provvedimento impugnato.
Dunque, se l’ordinanza cautelare disponga il riesame, il giudizio, comunque, viene definito con misura
urgente, non dovendo più il giudice valutare la legittimità del (primo) provvedimento.
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In queste ipotesi la strumentalità della misura cautelare viene superata sul piano strutturale e forse anche
funzionale, e trasformata in provvedimento sommario, non più provvisorio ma definitivo.
Il CPA ha ignorato del tutto questo problema, non dettando nessuna norma.

I PROCEDIMENTI CAUTELARI individuati dal CPA, sono 4:


ORDINANZA COLLEGIALE (art. 55)
DECRETO MONOCRATICO IN CAUSA (art. 56)
DECRETO MONOCRATICO ANTERIORE ALLA CAUSA (art. 61)
ORDINANZA COLLEGIALE / DECRETO INTERINALE IN ATTESA DELL’INTEGRAZIONE DEL
CONTRADDITTORIO (art. 27 comma 2).

I primi tre tipi concludono procedimenti appositamente disciplinati per legge, mentre il quarto non ha un
proprio procedimento, può intervenire sia nel corso del procedimento relativo all’ordinanza collegiale che
nei procedimenti riguardanti le misure monocratiche in causa ed ante causam.

Il procedimento riguardante le misure cautelari collegiali può definirsi ordinario e necessario: sia perché la
fase cautelare normalmente si svolge innanzi al collegio, sia perché la fase cautelare di primo grado si
conclude con l’ordinanza collegiale. I provvedimenti cautelari adottati con decreto monocratico devono
passare al vaglio dal collegio, e hanno efficacia sino alla pronuncia di quest’ultimo che chiude la fase
cautelare.
- L’ordinanza collegiale chiude la fase cautelare e produce effetti sino alla sentenza che definisce il
ricorso;
- mentre i decreti monocratici hanno efficacia interinale, al massimo sino all’ordinanza collegiale che
definisce la fase cautelare.

Presupposto processuale per ogni provvedimento cautelare, a seguito della promulgazione del CPA (per
fermare il fenomeno della transmigrazione dei processi cautelari), è la VERIFICA, anche d’ufficio, della
competenza territoriale, inderogabile, nonché la presentazione dell’istanza di discussione, salvo che debba
essere fissata d’ufficio.
Eccessiva è forse la previsione dei riti dei due decreti, i cui presupposti non sono poi così differenti: estrema
gravità ed urgenza per il decreto monocratico in causa, o eccezionale gravità ed urgenza per l’ante causam.
Sarebbe stato sufficiente il solo decreto ante causam, semplificando così i procedimenti.

IL PROCEDIMENTO ORDINARIO:
La domanda cautelare può essere proposta con:
- RICORSO
- ISTANZA SUCCESSIVA alla presentazione del ricorso -> da fare avanti al giudice presso cui pende la
controversia. In questo caso andrà notificata anche alle altre parti e depositata in segreteria.

Sulla domanda cautelare il giudice pronuncia nella PRIMA CAMERA DI CONSIGLIO SUCCESSIVA al 20° giorno
dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione, e al 10° giorno dal deposito del
ricorso.
Le altre parti possono presentare memorie e documenti fino a 2 giorni liberi prima della camera di consiglio
(termine può essere superato se lo autorizza il collegio per gravi ed eccezionali ragioni).
Nella camera di consiglio però è ammessa comunque la costituzione formale delle altre parti, pur senza il
rispetto del termine dei 2 giorni, ed i difensori sono sentiti ove ne facciano richiesta.
È prassi però che il ricorrente e le altre parti sono ammesse all’illustrazione della questione, anche in
assenza della richiesta di essere sentite.

Il margine di tempo più lungo, rispetto alla previsione legislativa precedente (prima camera di consiglio
utile decorso 10 gg dall’ultima notifica), e la possibilità di depositare documenti e memorie, è volta al
migliore riequilibrio del principio del contraddittorio fra le parti.

100
Il termine di 20 gg è dimezzato nei giudizi aventi ad oggetto le controversie indicate nel Titolo V del Libro IV.

La fase cautelare ritualmente introdotta non impedisce la perenzione del procedimento, sia nel caso in cui
si sia conclusa con un provvedimento favorevole o sfavorevole all’interessato, sia nel caso in cui il giudice
non sia pronunciato. Il decorso della perenzione è impedito solo dal deposito dell’apposita domanda di
discussione, che costituisce presupposto per la procedibilità della domanda cautelare (a meno che non sia
fissata d’ufficio).

Il giudice pronuncia con ORDINANZA, immediatamente esecutiva e motivata.


L’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissa la data di discussione del ricorso nel merito. In
caso di mancata fissazione dell’udienza, il CdS, se conferma in appello la misura cautelare, dispone che il
TAR provveda alla fissazione della stessa con priorità. A tal fine l’ordinanza è trasmessa a cura della
segreteria al primo giudice. In sede di esame della domanda cautelare il collegio adotta, su istanza di parte,
i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria e l’integrità del contraddittorio.
Il TAR adito può disporre le misure cautelari solo se ritiene sussistente la propria competenza ai sensi degli
artt. 13 e 14. In caso contrario si applica l’art. 15 comma 4, per cui il giudice non decide sulla domanda
cautelare, ma con ordinanza indica il diverso TAR che reputa competente.

Per poter concedere la tutela cautelare sono necessari i due presupposti classici, esposti all’art. 55 CPA:
a) FUMUS BONI IURIS
= ‘profili che, ad un sommario esame, inducono una ragionevole previsione sull’esito del ricorso’.
Fino alla legge 205/2000 questo non era espressamente menzionato.
L’art. 23 bis richiede, per particolari materie, la presenza di profili che inducono a pensare ad una
ragionevole probabilità di buon esito del ricorso.
Secondo la dottrina per la concessione della misura cautelare occorre che il giudice ravvisi la
probabilità dell’accoglimento del ricorso. Non basterebbe più che il ricorso non appaia
manifestatamene inammissibile o infondato, ma occorrerebbe la probabilità del suo accoglimento,
anche alla luce di un esame sommario. Questo però sembra eccessivo.
Nell’esame del profilo del fumus il giudice non osserva solo i motivi di merito, ma anche i profili di
ammissibilità per la ricevibilità del ricorso. Effettua una verifica dei presupposti di tipo processuale.
La pronuncia resa in ordine al fumus boni iuris non vincola il giudice al momento della decisione
finale nel merito.
Una prassi di questo tipo trasforma il Consiglio di Stato nel giudice di primo grado, mentre
dovrebbe essere l’organo di appello; dovrebbe infatti rifare le valutazioni del giudice di prima
istanza. Inoltre il giudice non dovrebbe sentirsi vincolato dalla motivazione data in sede cautelare,
perché questa comporta una cognizione sommaria.
La motivazione del provvedimento cautelare deve quindi essere una vera motivazione, nei limiti di
ciò che una cognizione sommaria può permettere.

b) PERICULUM IN MORA
= ‘pregiudizio grave ed irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso’
Quanto al periculum in mora c’è un espresso riferimento al pregiudizio grave e irreparabile
derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato ovvero dal comportamento inerte
dell’amministrazione durante il tempo necessario per giungere ad una decisione sul ricorso.
Oggi la legge parla di pregiudizio, mentre prima si parlava di danni. Il pregiudizio rappresenta
qualcosa di meno rilevante del danno. Il danno ha sempre una valutazione economica che il
pregiudizio potrebbe non avere. Con ciò si è operato un allargamento dell’ambito nel quale la
misura cautelare è ottenibile. Non si richiede l’imminenza e l’attualità del pregiudizio come l’art.
700 c.p.c. Si potrebbe così assumere come pregiudizio anche quello probabile, non solo quello
imminente e incombente.
I G.A. respingono le domande cautelari rispetto ai provvedimenti la cui esecuzione non sia
prossima, ma solo probabile.
Secondo parte della giurisprudenza manca il presupposto per la sospensione del provvedimento
impugnato se il pregiudizio è già stato arrecato, avendo avuto il provvedimento stesso completa
101
esecuzione. Se invece tutti gli effetti pregiudizievoli dell’atto non sono stati portati a compimento,
allora la sospensione è ancora possibile. Si può concepire la sospensione di un provvedimento già in
parte attuato quando questo comporta il protrarsi nel tempo dei suoi effetti.
Altro punto è che la rivalutazione del pregiudizio è correlata anche alla valutazione del tempo
necessario per giungere alla decisione del ricorso: questo consentirebbe di fare differenziazioni in
ragione dei tempi con cui il TAR decide rispetto alla concessione di una determinata misura
cautelare. Se il TAR ha pochi ricorsi da decidere e può emettere la decisione in tempi brevi può
anche non concedere la sospensione.
Il giudice, nel valutare il pericolo del decorso del tempo, può essere più severo in relazione alla
concessione della sospensione. Un giudice che abbia più lavoro è invece quasi costretto a
concedere la misura cautelare.
- Gravità: il pregiudizio va valutato nella sua oggettività, ma possono venire in
considerazione anche le condizioni soggettive di chi chiede la misura cautelare.
Esempi: sanzione pecuniaria per una piccola o grande impresa, condizione personale di un
dipendente colpito da sanzione pecuniaria.
- Irreparabilità: non solo quando è materialmente impossibile il ripristino della situazione
precedente all’accoglimento del ricorso; va intesa anche solo come difficoltà pratica o
economica di ripristinare la situazione.
E’ usuale che il giudice faccia un bilanciamento tra la gravità del pregiudizio che subirebbe il privato
dall’esecuzione del provvedimento e il pregiudizio che subirebbe il pubblico interesse dal ritardo
nell’esecuzione dello stesso che deriverebbe dalla concessione della misura cautelare. Tale
valutazione è discrezionale. In questo bilanciamento non è in posizione primaria necessariamente
l’interesse pubblico: il giudice tiene conto che l’ordinamento accorda tutela agli interessi dei privati
contro i pregiudizi gravi e irreparabili.
E’ possibile che il giudice, accogliendo la sospensiva, la conceda a tempo determinato o che
sospenda solo certi effetti del provvedimento impugnato ma non altri. O ancora il giudice può
subordinare la sospensione al verificarsi di determinate condizioni.

Al secondo comma dell’art. 55 CPA è prevista la possibilità di imporre la prestazione di una CAUZIONE,
qualora dalla domanda cautelare derivino effetti irreversibili.
La cauzione non può essere disposta quando la domanda cautelare attiene a diritti fondamentali della
persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale.
Alla prestazione della cauzione è subordinata la concessione o il diniego della misura cautelare, che può
essere posta a carico di ricorrente, resistente e controinteressato.
Il giudice deve stabilirne importo, oggetto, modo di prestarla e termine entro cui la prestazione va eseguita.
a) ha carattere generale, salvo le specifiche eccezioni;
b) il presupposto della sua previsione è l’irreversibilità degli effetti derivanti dalla decisione sulla
domanda;
c) può essere prestata da tutte le parti, a seconda dell’accoglimento o rigetto della misura cautelare;
d) il giudice deve stabilire oggetto, modalità, termini ed entità della cauzione che può essere prestata
anche con fideiussione.

La cauzione viene disposta, comunque, in base a una valutazione diversa ed autonoma dall’accoglimento o
dal rigetto della misura cautelare e cioè dall’irreversibilità o meno degli effetti prodotti dall’ordinanza
cautelare. E’ un provvedimento sì accessorio, ma anche autonomo, e quindi riformabile in appello se non
sussistono i presupposti previsti dalla legge.
Il giudice, nel determinare la cauzione, deve stabilirla in modo da rendere possibile, per la parte gravata, la
prestazione della cauzione, per cui non può essere rappresentata da una somma ingente, tenuto conto
degli effetti irreversibili e della qualità delle parti, e non possono essere fissati termini impossibili da
rispettare.
Secondo la previsione della norma, il diniego o l’accoglimento della misura cautelare sono subordinati alla
prestazione della cauzione, per cui opera come una condizione sospensiva, ma bisogna distinguere tra:
Accoglimento della domanda -> allora la misura cautelare produrrà gli effetti stabiliti dal giudice
quando sarà prestata la cauzione

102
Respingimento della domanda -> gli effetti stabiliti dal provvedimento, dal comportamento della PA o
dall’accordo e non dal giudice, si produrranno se sarà prestata la cauzione. In questo caso la mancata
prestazione della cauzione impedirà di porre in esecuzione il provvedimento impugnato ovvero di
continuare nel comportamento pregresso, ma sarà necessario un espresso dictum del giudice se la misura
cautelare satisfattiva dell’interesse del ricorrente sarà diversa dalla mera sospensione dell’esecuzione.

Decorsi almeno 20 gg. dall’ultima notificazione, il giudice può definire, in camera di consiglio, la
controversia con sentenza in forma semplificata (art. 60 CPA).
Presupposto:
- sentite le parti costituite: adempimento processuale espressamente prescritto la cui inosservanza
determina l’annullabilità della sentenza perché attiene all’esercizio del diritto di difesa delle parti,
le quali devono poter esporre oralmente le ragioni che ritengono precludere o consentire la
decisione nel merito, in relazione ai presupposti sostanziali stabiliti dalla legge.
- Il giudice non è vincolato da quello che le parti manifestano. Però se una di esse dichiara di voler
proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza o giurisdizione, non è
possibile decidere con sentenza in forma semplificata.
- Per la definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare, il giudice deve accertare la completezza
del contraddittorio e dell’istruttoria.

La conversione del giudizio cautelare in giudizio di merito è prassi molto utilizzata in vari TAR. Il giudice è
portato a decidere nel merito il ricorso non solo quando risulti la fondatezza o infondatezza, ma anche se,
presentandosi il processo già istruito, può risolvere la lite con riferimento ad un profilo che ritiene
assorbente e risolutivo ovvero si tratti di questione non molto complessa.
Infatti, per esaminare la domanda cautelare, il giudice deve comunque studiare il processo è, se riesce a
cogliere il punto centrale della vicenda, lo decide nel merito, con sentenza in forma semplificata.
In tal modo la durata del processo si ridimensiona notevolmente e viene garantita una veloce risoluzione
della controversia (il giudice non deve studiare lo stesso fascicolo due volte, quando decide la domanda
cautelare e quando esamina il merito, e redige una motivazione sintetica).

L’esame della misura cautelare costituisce l’unica possibilità di investire il giudice della conoscenza del
ricorso, prima che sia fissata l’udienza di discussione.
In sede cautelare, il giudice, su istanza di parte, ordina l’integrazione del contraddittorio e assicura la
completezza istruttoria, potendo, comunque, disporre nelle more le misure cautelari urgenti.
Art. 55 comma 10 CPA: qualora il TAR, in sede cautelare, ritenga che “le esigenze del ricorrente siano
apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito,
fissa con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito”. Allo stesso modo può
provvedere il Consiglio di Stato, trasmettendo, in caso di riforma dell’ordinanza di primo grado, la
pronuncia al TAR per la sollecita fissazione dell’udienza di merito.

Per la misura cautelare, la giurisprudenza aveva ritenuto di non poter condannare alle spese che andavano
liquidate con la sentenza che definisce il merito, ponendole a carico del soccombente, e in mancanza di una
norma che lo prevedesse.
Con la novella della l. 205/2000 si è invece stabilito che: in caso di rigetto o di dichiarazione di
inammissibilità o irricevibilità della domanda cautelare, il giudice può provvedere in via provvisoria sulle
spese del procedimento cautelare. → ciò era legato alla natura della cautela che dura sino alla decisione del
ricorso.
Il CPA ha stabilito che ‘con l’ordinanza che decide sulla domanda il giudice provvede sulle spese della fase
cautelare’, conservando questa ordinanza anche efficacia anche dopo la sentenza che definisce il giudizio
salva diversa statuizione espressa nella sentenza (ex art. 57 CPA). → Valorizzazione della specificità e
autonomia della fase cautelare: la condanna alle spese contenuta nell’ordinanza che chiude il
procedimento cautelare può rimanere a carico della parte poi vittoriosa nel merito, salvo diversa
statuizione nella sentenza.
103
Per le spese relative all’esecuzione delle misure cautelari si segue la stessa logica: il giudice provvede sulle
spese di questa fase eventuale e la liquidazione prescinde da quella conseguente al giudizio di merito, salvo
diversa statuizione espressa nella sentenza (art. 59 CPA).

LE MISURE CAUTELARI MONOCRATICHE:


DECRETO MONOCRATICO IN CORSO DI CAUSA (art. 56 CPA):
PRIMA della trattazione della domanda cautelare del collegio, per cause di ESTREMA gravità ed urgenza, tali
da non poter attendere la fissazione della camera di consiglio, il ricorrente può – con domanda cautelare o
con distinto ricorso notificato alle controparti - chiedere al presidente del TAR o della sezione cui il ricorso è
assegnato, nello stesso ricorso o con istanza separata, di disporre misure cautelari provvisorie.
Anche nel caso di misure cautelari monocratiche è previsto, inoltre, che la domanda cautelare è
improcedibile finchè non è presentata l’istanza di fissazione d’udienza per il merito, salvo che questa debba
essere fissata d’ufficio.
Il presidente o un magistrato da lui delegato verifica che la notificazione del ricorso si sia perfezionata nei
confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati e provvede con
decreto motivato non impugnabile.

DECRETO MONOCRATICO ANTE CAUSAM (art. 61 CPA):


In caso di ECCEZIONALE gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure di redigere il ricorso e la
domanda di misure cautelari ex art. 56 CPA, il ricorrente può presentare al presidente del TAR competente
per il giudizio, previa notifica alle altre parti, istanza per l’adozione delle misure interinali e provvisorie che
appaiono indispensabili durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della
domanda in corso di causa.
La relativa istanza va proposta al presidente del TAR competente per il giudizio, il quale, accertato il
perfezionamento della notifica, provvede sull’istanza sentite, ove necessario, le parti e omessa ogni
formalità.
Il decreto che rigetta l’istanza non è impugnabile: tuttavia, la stessa istanza può essere riproposta dopo
l’inizio del giudizio di merito con le forme delle domande cautelari in corso di causa.
Il provvedimento di accoglimento è notificato dal richiedente alle altre parti entro il termine perentorio
fissato dal giudice, non superiore a 5 gg.

In entrambi i casi il decreto monocratico reso dal giudice va notificato alla controparte, in modo tale da
poter instaurare un minimo di contraddittorio, potendo questi presentare non solo documenti ma anche
memorie volte alla contestazione della sussistenza dei requisiti di gravità ed urgenza, nonché del fumus
boni iuris.
In entrambi i procedimenti, il presidente, verificati la competenza per territorio e il perfezionamento per il
destinatario della notifica, provvede, valutando la ricorrenza dell’estrema o eccezionale gravità e urgenza.
Si discute se debba esaminare, anche se molto sommariamente, il fumus boni iuris.
> D.M. in causa : il giudice può valutarne la sussistenza alla luce del contenuto del ricorso, ove è
sono esposti il fatto e i motivi. E’ sufficiente un’istanza molto sommaria, il giudice è in grado di
apprezzare i profili di illegittimità. Qui il giudice provvede con decreto motivato.
> D.M. ante causam: manca del tutto il ricorso, il giudice non può valutare le ragioni di fatto, ma
solamente vedere la sussistenza dell’eccezionale gravità ed urgenza! Qui il giudice provvede con
semplice decreto, in cui sarà comunque inserita una valutazione circa sussistenza del requisito della
eccezionale gravità ed urgenza.

Normalmente i decreti sono destinati ad essere sostituiti da un’ordinanza collegiale, ed hanno quindi
durata molto breve, per cui:
D.M. in causa: camera di consiglio del giudice è fissata nel decreto ed è la PRIMA successiva al
20° giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione. Decreto è
efficace sino alla camera di consiglio, perde efficacia se il collegio non provvede sulla domanda
cautelare.

104
D.M. ante causam: va notificato nel termine perentorio fissato dal giudice, non superiore a 5
giorni, e perde comunque effetto ove non venga entro 15 giorni dalla sua emanazione notificato il
ricorso con la domanda cautelare, da depositare nei successivi 5 gg. La camera di consiglio deve
essere fissata non oltre il 20° giorno dal perfezionamento ed il decreto ha comunque un’efficacia
limitata di 60 giorni dalla sua emissione (dopodiché restano efficaci le sole misure cautelari che
siano confermate o disposte in corso di causa).

Una volta concessi i decreti, ed accolti in camera di consiglio con ordinanza, si segue il procedimento
ordinario che si conclude con l’ordinanza collegiale.
I due decreti possono, in caso di effetti irreversibili, essere subordinati alla prestazione di una cauzione,
anche mediante fideiussione.
I decreti monocratici non sono appellabili. Contro i decreti monocratici è possibile riproporre domanda
cautelare con il procedimento ordinario, in caso di rigetto del decreto ante causam, mentre per quello in
corso di causa deve provvedere il collegio secondo il procedimento ordinario. Se vi è accoglimento si può
chiedere la revoca e modifica, con istanza di parte previamente notificata.

Il CPA, in ordine alla disciplina delle misure cautelari, prevede inoltre che:
- Con l’ordinanza con la quale decide sulla domanda, il giudice provvede sulle spese della fase
cautelare e la pronuncia sulle stesse conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il
giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito (art. 57 comma 1).
Questo è stato introdotto dal primo correttivo. Da un lato viene considerata l’ipotesi che il processo sfoci non
necessariamente in una sentenza: può accadere che lo stesso si concluda con un’ordinanza che definisca il processo
in rito su una questione di competenza ovvero con un decreto presidenziale, nel caso di dichiarazione di perenzione
o improcedibilità. Dall’altro si consente solo alla sentenza di merito di modificare la statuizione sulle spese resa con
ordinanza collegiale, laddove quest’ultima, nel sistema codicistico, sopravvive anche a una diversa statuizione sulle
spese se la sentenza non ha esplicitamente preso in considerazione il punto.
- Viene ampliato l’ambito della revoca o modifica delle misure cautelari collegiali nonché della
riproposizione delle stesse.
- È inserita una norma specifica sull’esecuzione delle misure cautelari: a tale proposito, l’art. 59
stabilisce che, nell’ipotesi in cui i provvedimenti cautelari non siano eseguiti, in tutto o in parte,
l’interessato, con istanza motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al TAR le misure
attuative ritenute opportune in relazione alla fattispecie concreta. In tal caso il TAR esercita i poteri
tipici del giudice dell’ottemperanza e provvede sulle spese.
- Il giudizio può essere definito, ex art. 60, anche in sede di decisione della domanda cautelare con
sentenza in forma semplificata, purchè sia stata accertata la completezza del contraddittorio e
dell’istruttoria e siano state sentite le parti; questo non può, però, accadere qualora una delle parti
dichiari l’intenzione di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o
di giurisdizione.

RIMEDI CONTRO L’ORDINANZA CAUTELARE


Già la giurisprudenza amministrativa aveva ammesso l’impugnabilità delle ordinanze cautelari avanti al
Consiglio di Stato, vista la loro natura sostanzialmente decisoria.
La giurisprudenza costituzionale si è attestata su questa posizione ribadendo il principio del doppio grado di
giurisdizione, quindi la possibilità di un riesame del provvedimento decisorio del giudice di primo grado.
La l. 205/2000 recepiva tali orientamenti, e così il CPA che all’art. 62 stabilisce che:
- APPELLO contro le ORDINANZE CAUTELARI avanti al Consiglio di Stato va proposto entro 30 giorni
(prima 60 giorni) dalla notificazione dell’ordinanza, e in mancanza 60 giorni dalla pubblicazione
(prima 120 giorni). Il giudice decide sull’appello, che va depositato entro 30 giorni dall’ultima
notificazione, ed è deciso in camera di consiglio, con ordinanza motivata, decidendo anche sulle
spese della domanda cautelare.
-> il procedimento è strutturato sull’impianto del primo grado, per cui si possono chiedere anche
decreti monocratici (ma solo in causa) ed imporre cauzione.

- REVOCA: la giurisprudenza aveva stabilito che fosse richiedibile:

105
o allorché si modificasse la situazione di fatto esistente all’epoca dell’emanazione
dell’ordinanza stessa;
o risultassero violate le norme di procedura poste a garanzia del diritto di difesa delle parti;
o ricorressero le previsioni dell’art. 669-septies c.p.c. (domanda contiene nuove ragioni di
fatto e di diritto).

Il CPA dedica ora un apposito articolo alla revoca, il 58 CPA, che stabilisce che questa possa essere
richiesta ogniqualvolta:
 si verifichino mutamente nelle circostanze;
 si alleghino fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al
provvedimento cautelare;
 nelle ipotesi di cui al 395 CPC.
1) se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra;
2) si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la
parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate false prima della sentenza;
3) dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in
giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa;
5) la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata;
6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
La revoca va presentata allo stesso giudice che ha adottato l’ordinanza revocanda. Se i
provvedimenti cautelari non sono eseguiti, l’art. 59 CPA dispone che l’interessato, con istanza
motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al TAR le opportune misure attuative e il TAR
esercita i poteri di cui dispone nel giudizio di ottemperanza, liquidando le spese.
Il rito è molto semplificato e si svolge in camera di consiglio.

IL DECRETO INGIUNTIVO
Con il d.lgs. 80/1998 al G.A. veniva attribuita la giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi. Ne è
conseguita l’attribuzione al G.A. di controversie relative a rapporti obbligatori di credito-debito per i quali,
in precedenza, era possibile chiedere al G.O. il decreto ingiuntivo per il pagamento delle somme fondate su
prova scritta. Dopo posizioni giurisprudenziali contrastanti, l’AP del Consiglio di Stato stabilì che era
possibile adottare la misura cautelare ex art. 700 c.p.c. per consentire ai creditori della p.a. e alla p.a. stessa
di ottenere un’ordinanza urgente immediatamente esecutiva di pagamento.
Con la l. 205/2000 si attribuiva al TAR il potere di adottare decreti ingiuntivi nelle controversie devolute alla
giurisdizione esclusiva del G.A., aventi ad oggetto diritto soggettivi di natura patrimoniale.
Sennonché la Corte Cost., con sentenza 204/2004 dichiarava incostituzionale l’art. 33 comma 1 del d.lgs.
80/1998, come sostituito dall’art. 7 lett. a) della l. 205/2000, nella parte in cui prevedeva che sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutte le controversie in materia di pubblici servizi. Sono escluse infatti
quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi: in questo modo elimina dalla giurisdizione
esclusiva le questioni patrimoniali.
Il CPA mantiene la giurisdizione del G.O. per queste materie. Ne consegue che l’adozione di decreti
ingiuntivi da parte del G.A. è rara. Però:
- vi è un richiamo ricettizio a quanto dispone il c.p.c., con l’attribuzione al Presidente del TAR del
potere di ingiungere il pagamento e la previsione che l’opposizione si propone con ricorso.
→ è un’ipotesi diversa dall’ingiunzione a pagare una somma prevista per la misura cautela re
atipica. Qui il giudice non deve valutare i presupposti del pericolo imminente e irreparabile e del
fumus boni iuris, ma considerare se ricorrono le condizioni di ammissibilità ex art. 633 c.p.c.: se del
diritto fatto valere si dà prova scritta. Quindi l’ingiunto può, nel termine di 40 gg dalla notifica del
decreto ingiuntivo, proporre opposizione al TAR con ricorso e, se non interviene l’opposizione, il
decreto acquista lo stesso valore di sentenza passata in giudicato.
Per la sommaria tutela non cautelare non è necessaria la successiva definizione del giudizio con
sentenza, perché la cognizione piena della controversia interviene solo se lo richieda il debitore
ingiunto.

106
FASE ISTRUTTORIA
Uno dei momenti essenziali attraverso cui si articola lo svolgimento del giudizio è quello dell’attività
istruttoria, diretta all’acquisizione dei mezzi di prova, forniti dalle parti o richiesti dal giudice, sulla base dei
quali fondare la decisione fonale del processo.
Si dice ISTRUZIONE PROBATORIA, l’insieme delle attività tese ad acquisire il materiale necessario per il
giudizio. In questa fase:
- parti: hanno onere di provare quanto dedotto o di offrire prova contraria;
- giudice: ha il potere di
--disporre l’ammissione delle prove richieste dalle parti
--disporre il completamento dell’istruttoria
--valutare le prove acquisite ai fini del giudizio.

Si possono distinguere tre diversi momenti istruttori:


ISTRUZIONE PRIMARIA Attività svolta dal privato al di fuori del processo, in un momento
anteriore alla sua instaurazione, finalizzata alla raccolta di tutti gli
elementi essenziali per la domanda e così funzionale all’adempimento
dell’onere di allegazione dei fatti principali e secondari in causa.
ISTRUZIONE PREPARATORIA Attività compiuta dal giudice sin dalla prima udienza, fino al momento in
cui la stessa causa non viene rimessa al Collegio per la decisione, con
esclusione delle attività di acquisizione delle prove.
ISTRUZIONE PROBATORIA Attività svolta dalle parti e dal giudice per la conoscenza dei fatti,
finalizzata a rendere possibile una pronuncia definitiva sulla base della
conoscenza della realtà dei fatti su cui si fonda l’affermazione del
ricorrente.
L’istruzione, per quanto nel processo civile assurga effettivamente alla dimensione di una vera e propria
fase, non trova nel processo amministrativo quell’autonomia tipica. Le ragioni di questo vanno ricercate
nelle caratteristiche proprie del processo amministrativo, come sindacato di sola legittimità. Il G.A. dunque
non nasce come giudice del fatto ma come giudice dell’atto. Ad esso erano riconosciuti margini di
intervento limitati alla verifica della legittimità del provvedimento impugnato, alla stregua degli
accertamenti in fatto effettuati dalla stessa p.a. e introdotti nel giudizio attraverso le cd. PROVE
PRECOSTITUITE (formate nel corso del procedimento, prima dell’instaurazione del giudizio).

Ma qual è il modello di istruzione probatoria che si rinviene nel giudizio amministrativo? Le opzioni sono 3:
a) METODO DISPOSITIVO PURO -> piena sovranità delle parti nell’introduzione dei fatti della realtà
esterna nel giudizio, con piena disponibilità degli stessi anche in ordine alla prova.
b) METODO DISPOSITIVO MISTO, ATTENUATO CON IL METODO ACQUISITIVO -> è un metodo misto,
in cui confluiscono il modello dispositivo ed il modello inquisitorio, per cui il potere di acquisire le
prove spetta tanto alle parti quanto al giudice.
c) METODO INQUISITORIO -> in cui i poteri in ordine alla acquisizione delle prove sono di spettanza al
giudice.

Il processo amministrativo nasce come processo inquisitorio, e solo ad opera della dottrina e della
giurisprudenza ha subito una lenta e graduale evoluzione, venendosi a caratterizzare come un processo di
parti alle quali à stata via via riconosciuta posizione di parità. Questo è confermato dal fatto che non è
strutturato come processo per citazione, bensì come processo introdotto attraverso un ricorso e, dunque,
tipizzato dalla vocatio iudicis.
- originariamente la partecipazione del ricorrente e delle altre parti diverse dall’amministrazione alla
fase di acquisizione delle prove era soltanto eventuale e rimessa alla discrezionalità del giudice, il
quale poteva autorizzarle qualora lo ritenesse necessario ad assistervi e a produrre documenti.
- T.U. Consiglio di Stato: scelta di un sistema istruttorio che, pur mantenendo una caratterizzazione
dispositiva, subisce un’attenuazione per via dell’assunzione di un metodo acquisitivo, cioè del
riconoscimento in capo al giudice di autonomi poteri di integrazione della prova. Questo si

107
giustifica anche per il fatto che, anteriormente all’emanazione della l. 241/1990, le parti avevano
un limitato accesso agli atti dell’istruttoria procedimentale.
- CPA: conferma l’opzione del metodo dispositivo, cui fa da contraltare la scelta di un metodo
acquisitivo. Ciò si ricava in primo luogo dai poteri e dagli oneri posti in capo alle parti in seno
all’istruttoria che ha inizio con la proposizione del ricorso: il ricorrente, con il suo deposito assieme
ai documenti e alla copia del provvedimento impugnato, oltre a delineare il thema decidendum,
compie il primo atto istruttorio.

La fase istruttoria:
Caratteristica del processo amministrativo è rappresentata dall’assenza di una fase autonoma, governata
da un giudice istruttore.
In passato alcuni Presidenti della Sezione dei Consiglio di Stato avevano instaurato la prassi della cd.
“udienza istruttoria” nella quale venivano prese in esame le istanze presentate dalle parti e,
conseguentemente, assunti i provvedimenti utili per la decisione del ricorso.
La ragione di questa in autonomia vanno storicamente ricercate nelle caratteristiche proprie del processo
amministrativo: il sindacato del GA era per certi versi assimilabile a quello di sola legittimità svolto dalla
Cassazione, rispetto al quale l’accertamento del fatto non era richiesto.
Al GA, non nascendo come giudice del fatto ma come giudice dell’atto, erano riconosciuti margini di intervento limitati
alla verifica della legittimità del provvedimento impugnato alla stregua degli accertamenti in fatto effettuati dalla
stessa amministrazione e introdotti nel giudizio attraverso le cd. prove precostituite (ossia quelle prove documentali
formatesi nel corso del procedimento, anteriormente all’instaurazione del giudizio). Il giudice poteva ritenere
sufficienti queste prove per la verifica della legittimità o meno del provvedimento.

Nelle sue linee essenziali il sistema richiamato ha trovato accoglimento anche nel CPA.
- La regola generale prevede un onere, in capo alle parti, di depositare nel termine di 30 gg per il
ricorrente (art. 45 comma 1) e di 60 giorni dalla notifica del ricorso (art. 46 comma 1) per le parti
intimate, il ricorso (le memorie) e documenti a sostegno del ricorso, nonché una copia del
provvedimento impugnato. Si esclude che il termine sia perentorio (art. 46 comma 4: la mancata
produzione, da parte del ricorrente, del provvedimento impugnato e della documentazione a
sostegno del ricorso non implica la decadenza).
- L’art. 54 prevede poi che il Collegio, su richiesta delle parti possa, solo eccezionalmente,
autorizzare il deposito tardivo di documenti e memorie, quando la produzione nel termine di legge
risulta estremamente difficile, assicurando il pieno rispetto del diritto delle controparti al
contraddittorio su tali atti.
Questa produzione, per gravi ed eccezionali ragioni, può essere autorizzata in camera di consiglio,
nell’ipotesi in cui sia richiesta l’adozione di una misura cautelare collegiale, con consegna di copia
alle altre parti fino all’inizio della discussione. → Deroga al comma 5, che prevede, per il deposito
di memorie e documenti, il termine di 2 giorni liberi prima della camera di consiglio (termine
dimidiato, ai sensi dell’art. 119 comma 2, per i riti abbreviati e il rito appalti). Per gli altri
procedimenti che si svolgono in camera di consiglio i termini previsti dall’art. 73 sono dimidiati.

=> Conseguenze: la definizione del thema decidendum viene protratta a ridosso dell’udienza di merito, ove
non sia stata presentata, anche solo strumentalmente, un’istanza volta a ottenere l’emanazione di una
misura cautelare. Siamo in presenza di un sistema che non garantisce in alcun modo che al momento della
trattazione, in sede di udienza di merito, la causa sia compiutamente istruita!

Oggetto dell’onere delle parti nel metodo dispositivo:


1. Il ricorso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda, l’indicazione dei
mezzi di prova e dei provvedimento richiesti al giudice (art. 40 CPA).
2. La mancata produzione, da parte del ricorrente, della copia del provvedimento impugnato, e della
documentazione a sostegno del ricorso non implica la decadenza, spostando solo l’onere di
produzione sull’amministrazione (art. 45 comma 4 CPA) – che deve produrre, nel termine di 60 gg
dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso, l’eventuale provvedimento

108
impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati
e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio (art. 46 CPA).
3. Se l’amministrazione non adempie, il termine non è perentorio, il giudice ne può ordinare
l’esibizione in giudizio (art. 65 comma 3 CPA).

Estensione dell’onere della prova della parte:


L’opinione prevalente ha riservato in capo alla parte anche l’allegazione dei fatti secondari, oltre ai
fatti principali, su cui si fondano le sue pretese.
Dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto in capo alla parte il c.d. onere del principio di prova:
non è stata addossata alle parti la responsabilità della completezza dell’istruttoria, contrariamente
a quanto previsto nel c.p.c.
Art. 64 CPA: spetta alle parti l’onere di fornire la prova dei fatti posti a fondamento delle rispettive
domande e eccezioni che sono nella loro disponibilità. Con obbligo per il giudice, salvo i casi previsti
dalla legge, di porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti dalle
stesse non contestati (in linea con art. 115 comma 2 c.p.c.). L’intervento acquisitivo è limitato solo a
quelle ipotesi in cui gli elementi di prova, ritenuti necessari per la decisione della causa, non siano
nella disponibilità della parte.
Successivamente alla sentenza 500/1999 delle SSUU ha trovato piena applicazione il principio generale
sancito dall’art. 2697 c.c., secondo il quale chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi la
domanda. Quindi: il privato che agisce in giudizio ai fini del risarcimento dei danni da lesione di interessi
legittimi è tenuto a fornire la prova dell’esistenza del danno, non potendosi limitare a invocare il principio
acquisitivo.
La limitazione dell’onere della prova, fondata sulla naturale ineguaglianza delle parti nell’ambito del rapporto
amministrativo, viene meno con riguardo alla prova dell’an e del quantum dei danni (non patrimoniali)
azionati in sede risarcitoria, poiché, in applicazione del cd. criterio della vicinanza della prova, grava sul
ricorrente l’onere di dimostrare la sussistenza e l’ammontare dei danni azionati in giudizio stante la relazione
con la sfera soggettiva della parte che si assume lesa.

I poteri del giudice e il principio di non contestazione:


Se in capo alla parte grava un onere probatorio circoscritto, ove la prova non sia nella disponibilità della
parte, al solo principio di prova, occorre verificare entro quali limiti può essere bilanciato dal potere
acquisitivo del giudice.
Evidente presupposto per l’esercizio del potere acquisitivo è la verifica della completezza del materiale
probatorio, con i limite che il giudice non può supplire all’inerzia della parte.
Quanto ai confini entro cui il giudice può esercitare il potere acquisitivo, all’interno del CPA nulla è detto in
generale sulla tipologia né sulla doverosità dello stesso.
- Unica indicazione è quella desumibile dall’art. 65 comma 3: configura come vincolato il potere del
giudice di emanare l’ordine di esibizione del provvedimento e degli altri documenti in caso di
inadempimento della p.a. Negli altri casi è rimesso alla discrezionalità del giudice, che deciderà se
esercitarlo o meno in relazione alla ritenuta compiutezza dell’istruttoria e all’ammissibilità e
rilevanza della prova richiesta.

- Art. 64 comma 2: il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti,
nonché i fatti non contestati dalle parti costituite.
→ Viene così introdotto, nel processo amministrativo, il PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE.
Bisogna però distinguere: dall’esame della disciplina emerge la non equivalenza tra contestazione
e prova piena.
Il principio di contestazione trova piena applicazione solo nei confronti delle parti costituite
(possono costituirsi fino all’udienza di discussione), risultando un comportamento rilevante ai fini
della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, al quale non
residua alcuna discrezionalità. Questo però non vale per le parti che non si sono costituite.
Problemi: le parti potrebbero essere indotte a non costituirsi, con evidenti pregiudizi per la
completezza del contraddittorio!

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Ulteriore limite alla valenza dei fatti non contestati è rappresentato dall’insussistenza di elementi
emersi nel corso del giudizio, che si pongano in contrasto con le affermazioni non contestate. Le
risultanze istruttorie, indipendentemente dalla loro provenienza, concorrono tutte alla formazione
del convincimento del giudice.

I momenti di ingresso della prova nel processo sono essenzialmente due:


1) FASE INIZIALE : rileva essenzialmente l’attività svolta dalle parti attraverso le allegazioni
documentali ed altre richieste istruttorie contenute nel ricorso.
2) FASE INTERMEDIA (preliminare all’udienza di discussione).
3) FASE FINALE: attività delle parti (che possono depositare documenti, o presentare altre
istanze istruttorie), attività acquisitiva del giudice.

Anche con riferimento a questi profili la disciplina del CPA non è lineare:
- Art. 65 contempla l’istruttoria collegiale e quella presidenziale che può essere svolta anche da un
magistrato delegato dallo stesso Presidente.
I poteri istruttori sono ricondotti, con eccezione di CTU e verificazione, in capo tanto al collegio
quanto al Presidente, cui spetta ad es. l’ammissione delle prove richieste dalle parti.
L’istanza di parte viene espressamente richiamata solo per le ipotesi di istruttoria presidenziale e in
relazione all’assunzione della testimonianza (art. 63 comma 3) e all’assunzione dei provvedimenti
necessari per completare l’istruttoria (art. 65 comma 1).
- Non viene chiaramente delineato l’ambito dei poteri spettanti al G.A.: il legislatore si è limitato a
confermare il potere del giudice di chiedere, anche d’ufficio, chiarimenti o documenti (art. 63
comma 1) o di ordinare all’amministrazione l’esibizione degli atti e documenti ove questa non
provveda al deposito del provvedimento impugnato e degli altri atti ex art. 46 (art. 65 comma 3).
Questo potere si estende nei confronti dei terzi ai quali può ordinare l’esibizione in giudizio di
documenti o quant’altro ritenga necessario (ispezione).
- Art. 63 comma 5 pone in capo al giudice il potere di disporre l’assunzione degli altri mezzi di prova
previsti dal c.p.c., con esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Inoltre, il potere di
disporre l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella
disponibilità della p.a. (art. 64 comma 3).

PROVVEDIMENTI ISTRUTTORI
Il sistema previgente prevedeva che i provvedimenti istruttori fossero assunti in forma di ORDINANZA, con
la conseguente applicazione ad essa del regime previsto dal c.p.c. – modificabile e revocabile, non
suscettibile di impugnazione se non congiuntamente all’impugnazione di merito (artt. 177 e 279 c.p.c.).
Ad esse si affiancavano quei provvedimenti (sentenze) interlocutori assunti dal Consiglio di Stato in
applicazione della regola del c.p.c. del 1865, prassi mantenuta anche dopo l’istituzione dei TAR.
Alla luce delle disposizioni del CPA pare confermata la scelta dell’ordinanza: art. 33 comma 1 lett. b)
prevede che il giudice pronunci ‘ordinanza quando assume misure cautelari od interlocutorie’, ossia in tutti
quei casi in cui il giudice non definisce neppure in parte il giudizio. E’ superata la forma della sentenza
interlocutoria (alla luce dell’art. 36 comma 2 – provvedimenti interlocutori: il giudice pronuncia sentenza
non definitiva quando decide solo su alcune questioni, anche se adotta provvedimento istruttori per
l’ulteriore trattazione della causa).

REGOLA DI GIUDIZIO:
Quali sono i poteri del giudice rispetto alla valutazione delle prove prodotte in giudizio e rispetto ai fatti
incerti?
- al G.A. viene riconosciuto il potere di influire sulla ripartizione dell’onere della prova ponendolo in
capo a quella parte che, a suo avviso, può consentirgli di superare la situazione di incertezza.
- Le parti hanno un onere di collaborazione, la cui violazione ha sempre portato al riconoscimento
della veridicità dei fatti affermati dal ricorrente, non potendosi il giudice esimere dal pronunciare.

110
Ripartizione dell’onere della prova: vale il richiamo dell’art. 116 CPA al principio del ‘libero
convincimento del giudice’, in base al quale il giudice è libero di stabilire se vi sia o meno un principio di
prova e di valutare come questo debba essere ripartito.
Valutazione delle prove raccolte: art. 64 CPA precisa che il giudice deve valutare le prove secondo il
suo prudente apprezzamento e può desumere gli argomento di prova dal comportamento tenuto dalle parti
nel corso del processo. Quindi, come avviene nel processo civile, il giudice può anche prendere in
considerazione quegli elementi che derivano dal mancato adempimento di un’istruttoria disposta (ossia
qualora la p.a. non fornisca elementi idonei a confutare la veridicità degli stessi, non ottemperando a
incombenti istruttori, in applicazione della regola di giudizio contenuta all’art. 116 comma 2 c.p.c.).

E per quanto riguarda l’istruzione probatoria nel GIUDIZIO D’APPELLO? Bisogna distinguere:

PRIMA Non c’erano preclusioni per quanto atteneva alla proposizione di nuove prove, tranne che per quelle
DEL CPA ipotesi rientranti nell’ambito di operatività dell’art. 35 legge TAR e per quei casi in cui la
rilevanza/ammissibilità delle prove, di cui si chiedeva l’ammissione nel giudizio di appello, era stata
già esclusa nella sentenza impugnata.
All’ultimo comma dell’art. 28 è stabilito che il giudice d’appello abbia gli stessi poteri cognitori e
decisori del giudice di primo grado con il limite di:
-improponibilità di nuovi motivi;
-applicazione del regolamento di procedura.
(tali regole non si applicano alla giurisdizione esclusiva: si era prospettata da parte della dottrina
l’applicazione delle regole del processo civile, giungendo ad escludere l’ammissibilità di nuove prove
in appello, con l’eccezione di quelle ipotesi in cui il Collegio le avesse ritenute indispensabili, o la
parte avesse dimostrato di essere stata nell’impossibilità di esperirli in primo grado).
DOPO ART. 104 CPA richiama espressamente ART. 345 CPC: non ammette domande nuove nel giudizio di
IL CPA appello e così l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili
ai fini del giudizio, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di
primo grado per causa ad essa non imputabile, nonché in caso di ius superveniens -> DIVIETO DI
NUOVE PROVE, SIA COSTITUENDE CHE PRECOSTITUITE.

I MEZZI DI PROVA
= sono tutti quegli strumenti processuali per mezzo dei quali il giudice forma il proprio convincimento circa
la verità o meno dei fatti affermati dalle parti del giudizio.
Le prove sono regolate sia da un punto di vista sostanziale, in quanto sostrato dei fatti costitutivi dei diritti
delle parti, sia processuale, per quanto attiene alla loro ammissibilità, rilevanza, nonché concludenza
rispetto all’oggetto del giudizio.
Ai sensi dell’art. 63 comma 5 CPA: il G.A. è autorizzato ad acquisire tutti i mezzi di prova previsti dal c.p.c.,
con la sola esclusione del giuramento e dell’interrogatorio formale.

Inizialmente nel processo amministrativo le preclusioni erano notevoli, poi attenuatesi grazie a:
- SENTENZA ADDITIVA CORTE COST. 146/1987 -> con riferimento alla sola giurisdizione esclusiva,
sono introdotti nel giudizio tutti i mezzi di prova di cui agli artt. 421 commi 2 e 4, 422, 424, 425
c.p.c.
- L. 205/2000 -> introduce lo strumento della CTU e esteso l’applicabilità degli istituti probatori del
processo civile (ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento), nelle materie di
giurisdizione esclusiva.
- CPA -> all’art. 63 comma 5 è riconosciuto che il giudice può disporre, oltre alla consulenza tecnica
d’ufficio e la prova testimoniale, gli altri mezzi di prova previsti dal c.p.c., ad eccezione
dell’interrogatorio formale e del giuramento. Tale limitazione è spiegata in ragione
dell’incompatibilità tra prova legale e sistema dispositivo con metodo acquisitivo, in quanto il
processo amministrativo è basato sul principio del libero convincimento del giudice e non vi
sarebbero al suo interno diritti di cui le parti abbiano disponibilità.

Elenco dei mezzi di prova:


DOCUMENTI:

111
Sono prove precostituite. Nel processo amministrativo, nato come giudizio impugnatorio, hanno un
ruolo fondamentale ai fini probatori.
Il documento è normalmente un enunciato scritto, che può comunque essere integrato da
documenti grafici o plastici. Il documento può essere prodotto in originale o in copia autentica. E’
riconosciuta la possibilità che esistano anche provvedimenti impliciti e dichiarazioni silenziose.
I provvedimenti amministrativi sono normalmente esternati in forma scritta, talora richiesta ad
substantiam.
Dal punto di vista del suo autore, il documento può essere:
 Privato;
 Pubblico: risultato di un’operazione documentativa di una pubblica autorità. Comprende sia
gli atti pubblici che gli altri documenti formati nell’esercizio di un’attività pubblica non
specificamente diretta alla documentazione.
o atto pubblico: contiene una dichiarazione di volontà, destinata a modificare la
realtà giuridica;
o atto di certezza pubblica (può essere esternato anche con documento non
costituente atto pubblico): contiene una dichiarazione di verità, destinata a una
mera rappresentazione della realtà. Tale è il documento che contiene un atto
pubblico, il quale costituisce piena prova della sua provenienza dal pubblico
ufficiale, che se ne afferma autore sottoscrivendolo, nonché delle circostanze
relative al tempo e al luogo della sua formazione. Fa altresì piena prova delle
dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il PU attesta essere avvenuti in sua
presenza.

questi. I documenti costituenti atti pubblici sono infatti produttivi di certezze legali
destinate circolare nella realtà sostanziale ma rilevanti anche nel processo, cui si collega
una presunzione iuris et de iure in ordine alle rappresentazioni in essi contenute. I
documenti pubblici che non sono atti pubblici, invece, pongono dei problemi: deve ritenersi
che devono essere valutati secondo il principio del prudente apprezzamento, che l’art.
2729 c.c. afferma con riguardo alle presunzioni semplici.
(!) A differenza dei privati, i pubblici poteri hanno la potestà di creare certezze giuridiche,
destinate a circolare nella realtà sostanziale. Quando esse vengono acquisite al processo,
anche se il documento non costituisca prova legale, inevitabilmente verranno a influenzare
il convincimento del giudice (es. relazioni di ispezione, di inchiesta…).

RICHIESTA DI CHIARIMENTI:
è prevista all’art. 63 comma 1, per cui il giudice può richiedere all’amministrazione interessata, in
quanto soggetto pubblico e non parte, chiarimenti, con riguardo ai fatti introdotti nel giudizio dalle
parti. La richiesta può essere fatta anche alla parte privata.
Quanto ai contenuti, si tratta di una dichiarazione di conoscenza, da rendersi in forma scritta, che
può essere: semplice (relazione dell’amministrazione al giudice su determinati fatti), documentata
(relazione cui viene aggiunta una allegazione documentale) o complessa (se nella relazione
vengono illustrati elementi tecnici).
In nessun caso possono essere utilizzati per superare una carenza istruttoria o un difetto di
motivazione del provvedimento impugnato. Ove l’amministrazione non provveda, senza giustificato
motivo, a fornire i chiarimenti richiesti intorno a fatti affermati dal ricorrente e da essa negati, il suo
comportamento potrà essere valutato come ammissione dei fatti.
Tale mezzo istruttorio è prevalentemente usato in combinazione con la richiesta di documenti.

VERIFICAZIONE (art. 66):


consiste nella richiesta, presentata dal giudice, di effettuare una verifica su alcuni profili dell’atto.
Può comportare attività diverse quali: ispezioni, sopralluoghi, esperimenti, esami tecnici e qualsiasi
altra operazione necessaria per rispondere ai quesiti formulati dal giudice.
La verificazione era inizialmente riservata all’amministrazione interessata, mentre solo in un
secondo momento è stata estesa all’amministrazione sovraordinata che esercitava poteri di

112
controllo o vigilanza su quella parte in causa. Poi si è ammessa la possibilità per il giudice di
avvalersi di organi tecnici di altre amministrazioni con competenze tecniche specifiche che
garantivano una maggiore neutralità, in sostituzione dello strumento della consulenza tecnica.
La verificazione non prevede (più) contraddittorio fra le parti, né la possibilità di farsi assistere da
un consulente di parte.
Mentre la verificazione può essere disposta nella generalità dei casi, il giudice può fare ricorso alla
CTU solo qualora lo ritenga indispensabile.
La verificazione è disposta dal collegio con ordinanza, nella quale deve essere individuato
l’organismo che deve provvedere alla verificazione, i quesiti formulati e il termine entro il quale la
verificazione deve essere compiuta e deve essere depositata la relazione conclusiva (che può essere
resa oralmente al giudice).
La verificazione è affidata a un organismo pubblico estraneo alle parti del giudizio, munito di
specifiche competenze tecniche, a garanzia della terzietà e imparzialità. Prima il verificatore era
invece un organo della stessa amministrazione dalla quale proveniva l’atto impugnato.
Il verificatore può essere ricusato dalle parti per i motivi indicati all’art. 51 c.p.c. : la competenza a
decidere sulla ricusazione spetta al giudice che l’ha nominato. È da ritenere, anche se non
espressamente previsto, che il verificatore debba astenersi nel caso in cui sussistano quelle ragioni.

CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO (art. 67):


può essere disposta dal giudice, solo ove lo ritenga indispensabile (artt. 19 comma 1 e art. 63
comma 4).
Anche per la CTU è prevista una nomina da parte del collegio, al quale spetta formulazione dei
quesiti e fissazione del termine entro cui il consulente deve prestare il giuramento. Nella stessa
ordinanza deve essere individuato il magistrato che viene delegato per l’assunzione dell’incarico e
la prestazione del giuramento da parte del consulente.

-> dal punto di vista soggettivo, la CTU può essere affidata a:


- dipendenti pubblici
- professionisti iscritti negli albi di cui all’art. 13 disp. att. c.p.c.
- altri soggetti aventi particolari competenze
Come per il verificatore, è sovente la nomina di persone che ricoprono incarichi importanti in
ambito accademico o organismi specializzati.
A garanzia dell’imparzialità e terzietà del consulente è previsto che non possono essere nominati
coloro che prestano attività in favore delle parti del giudizio.
Il consulente ha l’obbligo di fornire il proprio ufficio, ad eccezione dei casi in cui il giudice riconosca
la sussistenza di ingiustificato motivo, e può essere ricusato dalle parti per i motivi di cui all’art. 51
c.p.c. Per gli stessi motivi ha l’obbligo di astenersi e può fornire oralmente i chiarimenti richiesti.

La CTU non costituisce un mezzo di prova propriamente detto, ma un mezzo istruttorio a


disposizione del giudice che, quando lo ritiene indispensabile, si avvale di un proprio ausiliario per
acquisire nozioni della scienza o dell’arte delle quali sia sfornito (non uno strumento per accertare
la storicità o la verità di un fatto).

-> dal punto di vista oggettivo: la CTU mira all’acquisizione di un giudizio tecnico, ponendosi così su
un piano eminentemente conoscitivo (la verificazione invece mira ad un accertamento, da fare su
un piano valutativo).
Due tipi di consulenza:
o deducente: valutazione di fatti già acquisiti ed asseverati;
o percipiente: il consulente non è chiamato per effettuare solo la valutazione, ma per
costituire esso stesso fonte di prova (ad es. rendendo una dichiarazione di scienza su fatti
di cui ha avuto conoscenza, risultando di fatto la sua opera assimilabile alla testimonianza).

Problema: applicabilità della CTU nei casi in cui la scelta sia qualificabile in termini di discrezionalità
tecnica. Se l’amministrazione deve applicare regole tendenzialmente esatte, che portano
all’accertamento tecnico di un fatto la CTU è ammessa da parte della giurisprudenza; se si è nel
113
campo della discrezionalità tecnica invece la CTU sarebbe inammissibile, perché vista come una
sostituzione del giudizio di un soggetto terzo a quello dell’amministrazione.
È tuttavia possibile individuare uno spazio di operatività della CTU anche in questo ultimo caso:
valutazione da parte del consulente di profili attinenti all’attualità del parametro (tecnico) applicato
dall’amministrazione e alla correttezza del procedimento applicativo, nei limiti delle contestazioni
mosse dalle parti (es. attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della correttezza, del
criterio scelto e del procedimento applicativo).

ISPEZIONE ED ESIBIZIONE:
- ISPEZIONE: richiamata espressamente all’art. 63 comma 2 CPA, è regolata dall’art. 118 c.p.c.
Consiste in un’attività del giudice diretta a percepire determinati oggetti della cui conoscenza il
giudice ha bisogno per esercitare la propria potestà. È relativa a persone e cose in possesso di una
parte o di un terzo.
- ESIBIZIONE: regolata dall’art. 210 c.p.c. Può essere disposta dal giudice anche su istanza di parte.
Concerne documenti o altra cosa di cui si ritenga necessaria l’acquisizione nel processo.

TESTIMONIANZA:
Con la riforma, il CPA ha espressamente previsto all’art. 63 comma 3 la possibilità di esperire
all’interno del processo la prova testimoniale estendendo alla giurisdizione di legittimità la
disciplina prevista per quella esclusiva. Presupposto: istanza di parte.
La testimonianza è assunta su istanza di parte. Nel processo amministrativo però è ammessa solo in
quanto sia assunta in forma scritta, nelle forme previste dal c.p.c., che richiede come presupposto
l’accordo delle parti sull’assunzione.
Oggetto della testimonianza è solo la conoscenza di fatti storici, per cui non è consentito porre ad
oggetto valutazioni, neppure di natura tecnica.
Art. 257-bis c.p.c. prevede che il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della
causa e di ogni altra circostanza, possa disporre l’assunzione di una testimonianza scritta chiedendo
al testimone di fornire nel termine fissato le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. La
testimonianza è rilasciabile mediante compilazione di apposito modulo preimpostato e con
necessaria sottoscrizione della parte autenticata da un segretario comunale o cancelliere di un
ufficio giudiziario. Il testimone può essere sentito personalmente dal giudice dopo aver esaminato
le risposte o le dichiarazioni rese, è ciò è da ritenere applicabile anche nel processo amministrativo.

I MEZZI DI PROVA NON AMMESSI:


Nel CPA viene mantenuta la preclusione per l’interrogatorio formale e il giuramento (art. 63 comma 5), già
affermata nella l. 205/2000 che aveva mutato il sistema probatorio in relazione alla sola giurisdizione
esclusiva per le controversie aventi ad oggetto un rapporto giuridico civilistico.

INTERROGATORIO:
- formale: volto a provocare la confessione dei fatti sfavorevoli alla parte
- non formale: il giudice ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti, in
contraddittorio tra loro, per interrogarle liberamente sui fatti di causa.

GIURAMENTO: prova legale che consiste nella dichiarazione con cui una parte asserisce come vero un fatto,
nella forma solenne prevista dalla legge.
Può essere deferito in relazione a un fatto proprio della parte alla quale viene deferito (g. de veritate) o in
relazione a un fatto altrui del quale la parte ha conoscenza (g. de notitia / scientia).
- decisorio: quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale
della causa;
- suppletorio: deferito d’ufficio ad una delle parti al fine di decidere la causa, quando la domanda o
le eccezioni non sono compiutamente provate ma non sono del tutto sfornite di prova.

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Sebbene una parte della dottrina avesse recepito all’interno del processo amministrativo il principio di
tipicità delle prove, altra parte della dottrina ne ha rilevato l’inidoneità e ha consentito l’ingresso delle
prove cd. atipiche (cioè non previste dalla legge) di fatto compatibili con il quadro normativo previgente e
attuale.
- Sotto il profilo della produzione documentale rilevano le cd. dichiarazioni sostitutive di atto
notorio: consistono in dichiarazioni rese a PU per il processo. Esse costituivano un mezzo
surrettizio per introdurre nel processo la prova testimoniale.
- Prove assunte in altro processo: ai sensi dell’art. 310 comma 3 c.p.c. sono valutate dal giudice
come argomenti di prova. Nell’ambito del giudizio amministrativo, è problematico ammettere il
valore probatorio delle prove assunte in altro processo alle quali viene riconosciuto il valore di
indizio, sia pure nei limiti della garanzia del contraddittorio e del rispetto del connesso diritto di
difesa.
- Perizia stragiudiziale: ha assunto un rilievo crescente soprattutto nel settore delle valutazioni
tecniche svolte dall’amministrazione. Non mancano ipotesi nelle quali il G.A. ha ordinato il riesame
delle prove concorsuali alla commissione giudicatrice sulla base di una rilevata incongruità della
valutazione delle stesse sopportata in giudizio da una perizia giurata (che in questo caso ha
assunto il valore di vera e propria fonte di convincimento del giudice).
- Accertamento tecnico preventivo: ritenuto ammissibile da una parte della dottrina, la cui necessità
potrebbe manifestarsi già nell’ambito del giudizio cautelare.

FASE DECISORIA
Dopo la discussione del ricorso, in pubblica udienza o adunanza camerale, il presidente del collegio
giudicante dispone la ASSEGNAZIONE della causa in decisione: questo atto segna il passaggio alla FASE
DECISORIA, in cui il collegio si ritira in camera di consiglio per deliberare, ossia per discutere e decidere
l’esito della causa.
Una volta definito l’oggetto del processo e completata l’istruzione probatoria, il processo amministrativo si
indirizza verso il suo epilogo: formulazione del giudizio + emanazione della sentenza.

La disciplina della fase decisoria copre sia profili formali che alcuni aspetti di carattere sostanziale:
 Profilo FORMALE: principi processuali e previsioni normative relative alla corretta composizione del
collegio giudicante, alle modalità di deliberazione, stesura e pubblicazione della decisione, nonché
le norme sulla sentenza come atto processuale.
 Profilo SOSTANZIALE: norme che descrivono i poteri decisori del G.A., che attengono all’iter logico
della formazione del convincimento del giudice e sono quindi idonei a influire sul contenuto
sostanziale della decisione.

FORMAZIONE DELLA DECISIONE (artt. 75 e ss. CPA)


In base agli artt. 75 e 76 CPA, il collegio giudicante, dopo la discussione del ricorso, si ritira in camera di
consiglio per deliberare.
Nella pratica dei TAR, il collegio giudicante non si ritira in camera di consiglio dopo la chiusura della discussione di ogni
singolo ricorso, ma di regola dopo la trattazione di tutte le cause chiamate alla stessa udienza.
Sebbene l’art. 75 CPA fissi a dopo la discussione la pronuncia della decisione, la giurisprudenza ritiene che l’indicazione
temporale abbia carattere puramente ordinatorio. Lo stesso art. 75 prevede che la decisione può essere differita a una
delle successive camere di consiglio.
Dopo la discussione del ricorso in udienza, quindi, il presidente del collegio dispone l’assegnazione della
causa in decisione, dichiarando chiuso il dibattimento.
- Da un lato preclude ai componenti del collegio la possibilità di esercitare il diritto di astensione;
- dall’altro determina la chiusura del contraddittorio e la fissazione della posizione processuale delle
parti che non possono più svolgere ulteriori attività difensive né introdurre motivi aggiunti.

115
L’esercizio del potere di assegnazione della causa in decisione deve essere esercitato dal presidente nel
rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, i quali impediscono di spedire la causa in
decisione qualora il difensore abbia dichiarato di rinunziare al ricorso o si sia riservato di proporre motivi
aggiunti (produzione di documenti da parte dell’amministrazione resistente ovvero adozione di
provvedimenti connesso all’oggetto del ricorso). Per le stesse ragioni è necessario riportare la causa in
udienza dinanzi a una normativa sopravvenuta o altra sopravvenienza di diritto o di fatto, che sia
potenzialmente idonea a incidere sulla decisione.
→ Art. 73 comma 3: Se ritiene di porre a fondamento una questione rilevata d’ufficio, il giudice la indica in
udienza dandone atto nel verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva
quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a 30 gg per il deposito di
memorie.

Se nella fase decisoria si verifica un fatto che impedisca al collegio che ha già assistito alla discussione di
formarsi in modo regolare (morte, decadenza, incompatibilità…), la causa viene rimessa a ruolo e assegnata
ad altro collegio dinanzi al quale si riapre il contraddittorio e si rinnova la discussione.
→ Art. 76 comma 2 CPA, art. 276 c.p.c.: alla deliberazione della decisione in camera di consiglio possono
prendere parte solo i giudici componenti il collegio, che hanno assistito alla discussione => PRINCIPIO
DELL’IMMODIFICABILITA’ DEL GIUDICE.
Corollario: deve sussistere coincidenza a pena di nullità tra i giudici che hanno preso parte alla decisione in
camera di consiglio e quelli che la sentenza indica come componenti del collegio giudicante.
L’art. 76 non si limita a regolare la composizione del collegio, ma mira anche a garantire che la formazione
del giudizio e la decisione della causa siano opera di tutti i magistrati componenti il collegio giudicante, e
soltanto di questi. Secondo una prassi consolidata e diffusa presso i TAR, in camera di consiglio siedono
tutti i magistrati della sezione che assistono (senza parteciparvi) anche al dibattito relativo a ricorsi
assegnati a collegi di cui non fanno parte. Questa impostazione appare ora recepita e positivizzata dal CPA
che all’art. 76 comma 1 prevede espressamente che possono essere presenti in camera di consiglio i
magistrati designati per l’udienza.

DELIBERAZIONE
Anche se la disciplina processuale parla genericamente di deliberazione della decisione, si devono
distinguere due momenti:
- DIBATTITO CAMERALE: è momento ineliminabile del giudizio, in cui ogni giudice dà il proprio
parere sulla questione oggetto del giudizio, manifestando così il suo voto. L’ordine del dibattito è
fissato dal presidente e avviene sulla base delle osservazioni e chiarimenti che il relatore aggiunge
all’esposizione già fatta in udienza.
- DELIBERAZIONE (in senso stretto) è essenzialmente la votazione sulla soluzione della controversia,
le cui modalità sono disciplinate all’art. 76 CPA e art. 276 c.p.c. La manifestazione del voto va fatta
al presidente, il quale procede alla raccolta dei voti; vota prima il relatore, poi l’altro componente e
infine il presidente. La decisione è presa a maggioranza assoluta dei votanti. Nei giudizi davanti al
Consiglio di Stato il primo a votare è il relatore, poi il meno anziano in ordine di ruolo e così
continuando sino al presidente.
Oggetto del giudizio sono le questioni, cioè i dubbi attorno ai vari punti di fatto o di diritto oggetto
della controversia. Se nel corso del dibattito vengono prospettate in ordine a una determinata
questione diverse soluzioni, è possibile che non si formi una maggioranza assoluta. In tal caso si
applica l’art. 276 c.p.c.: il presidente che mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una,
quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così via, fino a che le
soluzioni non siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva (cd. formazione
artificiale della maggioranza per esclusione progressiva delle soluzioni di minoranza).

Una volta che la decisione sia stata deliberata in camera di consiglio:


1) Presidente provvede alla STESURA e alla SOTTOSCRIZIONE DEL DISPOSITIVO,
2) il relatore è incaricato della STESURA DELLA MOTIVAZIONE (o, se la soluzione adottata non era
quella del relatore, estensore).

116
L’art. 89 comma 1 CPA prevede che alla redazione della decisione debba procedersi “non oltre il 45°
giorno da quello della decisione della causa”: si tratta di un termine di natura puramente
ordinatoria. La motivazione consiste essenzialmente nella redazione dei motivi di fatto e di diritto
posti a base della decisione, dovendo riflettere l’iter logico di formazione della decisione.
3) Completata la stesura della decisione questa è SOTTOSCRITTA dal presidente e dall’estensore (art.
88 CPA).
L’art. 89 CPA prevede che la sentenza non può più essere modificata dopo la sua sottoscrizione. La
giurisprudenza ha precisato, anzi, che la decisione è modificabile fino al momento della
pubblicazione della decisione, che ha luogo subito dopo la redazione e la sottoscrizione.
4) È con la PUBBLICAZIONE che si completa il processo formativo della decisione: con essa la decisione
acquista esistenza giuridica. Il CPA ha confermato il sistema della pubblicazione mediante deposito
in segreteria: il segretario dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma.
5) La decisione è poi COMUNICATA alle parti entro 5 giorni a cura del segretario. Il termine non è
perentorio in senso tecnico: alla sua inosservanza non si collega la consumazione di alcun potere e
la comunicazione non è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione della sentenza.
6) A tal fine occorre la NOTIFICAZIONE e, in difetto di questa, il termine lungo di impugnazione di 6
mesi decorre dalla data della pubblicazione.

LA FORMULAZIONE DEL GIUDIZIO


La pronuncia nel merito spesso deve essere preceduta dall’esame e dalla decisione di questioni
pregiudiziali. La disciplina del c.p.c. (art. 276 comma 2) prevede che in tali casi “il Collegio, sotto la direzione
del Presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio, e
quindi il merito della causa’.
L’ordine da seguire nell’analisi, come individuato dalla dottrina, è quindi:
1) questioni preliminari di rito -> prima di tutto ci sono le QUESTIONI PROCESSUALI: procedibilità,
ricevibilità del ricorso, giurisdizione, competenza, condizioni dell’azione, cause di estinzione del
processo. Esse condizionano la possibilità stessa di scendere all’esame delle questioni di merito.
Questa soluzione va però parzialmente rivista alla luce della nuova disciplina posta dal CPA, ai sensi
della quale, dopo la questione processuale del difetto di giurisdizione (rilevabile in primo grado
anche d’ufficio – art. 9 comma 1), ha un ordine vincolato la questione del difetto di competenza
(rilevabile in primo grado anche d’ufficio – art. 15 comma 1), essendo la competenza divenuta
inderogabile e non potendo il giudice incompetente esaminare alcuna questione, nemmeno quelle
cautelari.
La giurisprudenza, pur aderendo formalmente a questo indirizzo dottrinale, ha spesso fatto
applicazione del criterio di economia , per cui è giunta spesso a dare la precedenza a questioni di
più spedita soluzione. Spesso accade che tra più questioni pregiudiziali il giudice tenda a prendere
in considerazione quella idonea a risolvere la controversia con una pronuncia di rito. Anzi in alcuni
casi il giudice prescinde dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dal resistente per giungere
a un rigetto in merito del ricorso.

2) QUESTIONI PREGIUDIZIALI DI MERITO: sono quelle dalla cui soluzione dipende la soluzione di altra
questione, mirano quindi a condizionare la pronuncia nel merito.
Anche nel processo amministrativo trova applicazione un principio generale del diritto processuale,
ai sensi del quale il giudice della questione principale giudica incidentalmente, a meno che non si
tratti di cause pregiudiziali, su tutte le questioni pregiudiziali, ossia su tutti i punti controversi la cui
risoluzione sia necessaria per la soluzione della controversia principale (anche se tali questioni
esulino dalla giurisdizione del G.A.).
o La QUESTIONE PREGIUDIZIALE attiene a un punto contestato che può essere deciso dal giudice (della
questione principale) in via incidentale, e con efficacia limitata al giudizio in corso.
o La CAUSA PREGIUDIZIALE attiene anch’essa a un punto pregiudiziale contestato, che però deve
essere deciso in via principale in un autonomo giudizio di cui costituisce l’oggetto esclusivo.
Art. 8 CPA: riconosce al G.A., nelle materie di cui non ha giurisdizione esclusiva (e pertanto
nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità), la competenza a decidere le questioni

117
pregiudiziali e incidentali relative a diritti soggettivi, escludendo però che le determinazioni abbiano
carattere di giudicato.
Casi in cui la decisione è sempre riservata al G.O.: incidente di falso, stato e capacità delle persone.
A parte questi casi (cause pregiudiziali), la pregiudiziale civile resta di regola questione
pregiudiziale. Costituiscono inoltre sempre cause pregiudiziali l’incidente di costituzionalità e le
questioni relative all’interpretazione dei trattati comunitari.

3) MERITO DELLA CAUSA:


Essendo il thema decidendum dissato dalle domande proposte dal ricorrente, e avendo il giudice il
dovere di pronunciarsi su tutte quelle, il problema dell’ordine di esame delle domande dovrebbe
essere privo di effetti sul piano dell’effettività.
Un ordine nell’esame delle doglianze dovrebbe imporsi solo nei casi in cui il ricorrente stesso
manifesti un interesse in tale senso, avendo egli la possibilità di graduare i motivi.
Il problema in concreto si pone, tuttavia, in quanto la giurisprudenza spesso riconosce al giudice il
potere di stabilire liberamente l’ordine di priorità nell’esame delle doglianze, e su ciò fonda la
prassi dell’assorbimento dei motivi: una volta accolto il ricorso per un motivo, il giudice omette di
esaminare le altre doglianze proposte dal ricorrente.
Tuttavia la giurisprudenza non è univoca: accanto a decisioni che ritengono che l’assorbimento sia facoltativo,
altre affermano che vi sia un dovere del giudice (una volta accertata la fondatezza di un motivo selezionato
come prioritario rispetto ad altri, il giudice sarebbe tenuto a non pronunciarsi sugli altri). Accanto a pronunce
che ammettono l’assorbimento dei motivi d’impugnazione nelle sentenze di accoglimento, vi sono pronunce
di rigetto che si limitano ad affermare la legittimità dell’atto rilevando semplicemente che esso è stato
emanato in presenza di tutti i presupposti.

A volte l’assorbimento è autorizzato espressamente dalla disciplina processuale (cd.


ASSORBIMENTO LEGALE):
- nel giudizio immediato, in cui il giudice può motivare, adottando sentenza in forma
semplificata, con riferimento al punto ritenuto risolutivo;
- in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, infondatezza, che consente di assorbire
la questione di mancata integrità del contraddittorio.
In altri casi l’assorbimento, pur non espressamente previsto, pare giustificato: es. più motivi sono
posti in relazione a diverse interpretazioni del provvedimento impugnato – il giudice seleziona
un’interpretazione e esamina le singole censure che presuppongono quell’interpretazione,
assorbendo le altre.

La DOTTRINA ha evidenziato che l’assorbimento talora si giustifica in quanto non ogni motivo
proposto dal ricorrente è in ogni caso tale da rappresentare un autonomo vizio del provvedimento
impugnato (es. attraverso un gruppo di motivi ricorrente denunzia un solo vizio). Il capo di
domanda non coincide con il motivo di ricorso: capo di domanda è ogni motivo o gruppo di motivi
che denuncia un autonomo vizio di legittimità. Quindi si ritiene che l’assorbimento sarebbe
consentito solo nell’ambito di un gruppo di motivi che denunciano lo stesso vizio, o anche tra capi
di domanda fungibili o interdipendenti.
Nella prassi, prima del CPA, si ammetteva l’assorbimento delle questioni di rito nei casi in cui il ricorso fosse
ritenuto infondato nel merito. Questa prassi non può più essere ritenuta corretta in caso di questione di
giurisdizione, posto che con la translatio iudicii tra diversi organi giurisdizionali la causa può trasmigrare
all’ordine giurisdizionale cui è riservata la definizione del merito. Ora la questione di giurisdizione va sempre
esaminata prima del merito.

Non crea problemi il cd. accorpamento dei motivi di ricorso. Si tratta di un’operazione logica: il
giudice seleziona più censure proposte dalla parte in quanto tra loro simili o collegate (es. più profili
dell’eccesso di potere: G.A. tende a raggruppare l’esame di figure sintomatiche tra loro omogenee,
ad es. vizi della motivazione, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria…).

VALUTAZIONE DELLE PROVE E LIBERO CONVINCIMENTO

118
Nella fase decisoria, il G.A. procede innanzitutto alla valutazione del materiale probatorio acquisito al
giudizio: trova applicazione il PRINCIPIO DEL LIBERO CONVINCIMENTO del giudice.
Nel processo amministrativo il principio vale ad escludere (art. 64 comma 5 CPA) le prove legali:
confessione e giuramento.
La valutazione delle prove dev’essere razionale, compiuta in base a criteri obiettivi e verificabili (massime di
esperienza e regole di logica): essa non implica assoluta libertà di apprezzamento, né possibilità di arbitrio.
Ex art. 64 comma 4 CPA, il giudice “deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento”. Il
principio del libero convincimento si esplicita nella regola valutazione prudente delle prove. Il prudente
apprezzamento ricomprende, tra le altre cose, i fatti notori e le massime di esperienza, nonché le regole
della logica e della parità di trattamento.
Una recente dottrina ha rilevato che il cd. principio del libero convincimento del giudice, usualmente riferito al
momento della valutazione della prova, riguarderebbe invece il momento immediatamente successivo. Il giudice
prima valuta le prove (secondo il suo prudente apprezzamento), poi forma il suo convincimento sulla base della
valutazione operata. Deve parlarsi quindi di “prudente” valutazione delle prove (guidata dalle regole della logica), e di
“libero”convincimento del giudice.
Per questo è evidente l’esigenza di una valutazione analitica delle prove, che sia esternata attraverso
un’adeguata motivazione in fatto sulle prove.

LA REGOLA DEL GIUDIZIO


Nel caso in cui i fatti allegati dalle parti sino rimasti incerti, si pone il problema di individuare una regola che
consenta al giudice di emettere comunque una pronuncia sul merito: questa è la cd. regola di giudizio. Il
giudice non può pronunciare un non liquet, giustificato sulla permanenza del dubbio sulla situazione di
fatto.
Anche nel processo amministrativo trova applicazione la regola di giudizio dell’onere della prova (artt. 63,
64 CPA, art. 2697 c.c.). Queste previsioni pongono due regole:
a) regola istruttoria: attiene all’allegazione e alla prova dei fatti;
b) regola di giudizio: pur non enunciando espressamente questa regola, nel ripartire lo svolgimento
dell’attività probatoria tra le parti, implicitamente distribuiscono tra le stesse il rischio della
mancata prova dei fatti, e quindi fissano la regola di giudizio.

Nel processo civile, essendo la prova dei fatti allegati normalmente nella piena disponibilità delle parti, il
giudice non potrò mai trattare come esistente un fatto non pienamente provato. → Nell’ipotesi di
incertezza circa l’esistenza della situazione di fatto allegata, è destinata a soccombere la parte che non sia
stata in grado di soddisfare l’onere di prova gravante su di essa.
Nel processo amministrativo l’applicazione della regola di giudizio è operata tenendo conto del metodo
acquisitivo, che si fonda sulla circostanza che le prove sono spesso nella disponibilità della sola parte
pubblica. Il G.A. ha il potere di acquisire le prove, ponendole a carico della parte che ne ha la disponibilità.
ò essere fatto gravare dal
giudice sulla parte più vicina alla prova, che può essere talvolta la parte contraria a quella che ha adempiuto
all’onere di allegazione.
La parte (ricorrente) che ha allegato il fatto, ma che sia stata esonerata dal compito di provarlo, non potrà
essere ritenuta responsabile dell’incertezza attorno all’esistenza del fatto solo perché la controparte non
abbia ottemperato all’ordine istruttorio del giudice. In questo caso si ritiene che l’intervento del giudice sul
piano istruttorio si rifletta anche sulla distribuzione tra le parti del rischio della mancata prova.

VALUTAZIONE DEL COMPORTAMENTO PROCESSUALE DELLE PARTI


Problema: effetti da attribuire sul piano probatorio all’inottemperanza dell’amministrazione all’ordinanza
istruttoria di documenti.
→ La giurisprudenza non è univoca: a volte afferma che si deve ritenere provata l’affermazione del
ricorrente, a volte desume dal comportamento dell’amministrazione un “argomento di prova” ai sensi
dell’art. 116 comma 2 c.p.c. Altre volte ha disposto la reiterazione del provvedimento istruttorio, ovvero ha
nominato commissari ad acta al fine dell’acquisizione coattiva dei documenti ritenuti imprescindibili ai fini
del giudizio.

119
Da preferire è quest’ultimo orientamento: l’inottemperanza di per sé non ha mai valore di prova, ma
rappresenta un elemento di valutazione ulteriore e sussidiario che deve concorrere con altri fatti probatori.
ARGOMENTI DI PROVA: elementi da soli non sufficienti a formare il convincimento del giudice. Sono elementi di
giudizio complementari, semplici mezzi di valutazione di altre prove.

Il comportamento processuale dell’amministrazione può quindi essere utilizzato dal giudice come mezzo
per la valutazione della prova, non liberamente come fonte di prova. L’inottemperanza all’ordine di
esibizione di documenti, ad es., può assumere un significato tale da influire sulla ricostruzione del fatto da
parte del giudice, pur se di per sé non rilevante ai fini della decisione.
La regola di giudizio non costituisce l’effetto immediato della mancata ottemperanza, ma va applicata in
quei pochi casi in cui l’inottemperanza viene ad innestarsi in un quadro probatorio talmente scarno da
rendere inutile la sua valutazione quale argomento di prova. In tali casi, mancando altre prove da
corroborare e valutare, l’argomento di prova non può operare sulla determinazione del convincimento del
giudice.

LE IMPUGNAZIONI
I mezzi di impugnazione delle sentenze amministrative sono:
- l’appello;
- la revocazione;
- l’opposizione di terzo;
- il ricorso per Cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

La disciplina delle impugnazioni è stata profondamente innovata dal CPA, il quale se ne occupa al Libro III,
in cui sono contenute sia norme di carattere generale applicabili a tutti i mezzi di impugnativa, sia
disposizioni che disciplinano nel dettaglio le singole impugnazioni.

Relativamente alle disposizioni di carattere generale, si deve ricordare che:


- le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio
di 60 gg dalla notificazione della sentenza (art. 92 CPA). In mancanza della notificazione, viene
previsto un termine lungo per impugnare, fissato in 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza, al
pari di quanto previsto nel giudizio civile dall’art. 327 c.p.c. Tale disposizione non si applica quando
la parte che non si è costituita in giudizio dimostri di non avere avuto conoscenza del processo a
causa della nullità del ricorso o della sua notificazione;
- l’impugnazione deve essere notificata nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte
nell’atto di notificazione della residenza o, in difetto, presso il difensore o nella residenza
dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio risultante dalla sentenza (art. 93 CPA).
Qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è trasferito senza notificare una
formale comunicazione alle altre parti, la parte che intende proporre l’impugnazione può presentare al
Presidente TAR o al Presidente del Consiglio di Stato, a seconda del giudice adito, un’istanza, corredata
dall’attestazione dell’omessa notificazione, per la fissazione di un termine perentorio per il completamento
della notificazione o per la rinnovazione dell’impugnazione.

- Per quanto concerne il deposito, invece, l’art. 94 prevede che nei giudizi di appello, di revocazione
e di opposizione di terzo il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena
di decadenza, entro 30 giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45, unitamente a una copia
della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni.

- Per quanto riguarda le parti del giudizio di impugnazione, l’art. 95 dispone che l’impugnazione
della sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti è notificata a tutte le
parti in causa e, negli altri casi, alle parti che hanno interesse a contraddire.

120
La differenziazione tra cause scindibili e inscindibili e di derivazione dottrinaria e si rifà alla disciplina
del processo civile.
Laddove nel giudizio di primo grado vi è stata una pluralità di parti (litisconsorzio), il c.p.c. ha previsto
il principio dell’unità del procedimento di impugnazione, disponendo che tutte le impugnazioni
proposte contro la stessa sentenza devono essere riunite, anche d’ufficio, in un solo processo.
Per applicare questo principio è necessario preventivamente verificare se la causa sia scindibile o
inscindibile. Le cause inscindibili sono quelle in qui la pluralità di parti nel giudizio (derivante da
litisconsorzio necessario o da motivi sopravvenuti, come la successione mortis causa ad una parte di
più soggetti) impone che anche il giudizio di impugnazione si svolga nei confronti di tutte le parti che
hanno partecipato alla fase precedente; laddove ciò non accada, il giudice ordina l’integrazione del
contraddittorio.
Sono invece cause scindibili quelle in cui la pluralità di parti (derivante da connessione oggettiva o
litisconsorzio facoltativo) non impone che anche il giudizio di impugnazione si svolga nei confronti di
tutte le parti: il rapporto con un soggetto può restare deciso in un modo, quello con un altro
soggetto in modo diverso senza che si verifichi contrasto di giudicati.

L’impugnazione deve essere notificata, a pena di inammissibilità, nei termini previsti dall’art. 92 CPA, ad
almeno una delle parti interessate a contraddire.

Se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti di cui al comma 1, il giudice ordina
l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere eseguita, nonché
la successiva udienza di trattazione. L’impugnazione è dichiarata improcedibile se nessuna delle parti
provvede all’integrazione nel termine fissato dal giudice.
Il Consiglio di Stato, se ritiene che l’impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile
o infondata, può non ordinare l’integrazione del contraddittorio, quando l’impugnazione di altre parti è
preclusa o esclusa.
Ai giudizi di impugnazione non si applica l’art. 23 comma 1 sulla difesa personale delle parti.

Nei giudizi di impugnazione, ex art. 97 CPA, chi vi ha interesse può intervenire, con atto notificato a tutte le
parti. Inoltre, l’art. 98 CPA statuisce che il giudice dell’impugnazione può, su istanza di parte, valutati i
motivi proposti e qualora dall’esecuzione possa derivare un pregiudizio grave e irreparabile, disporre la
sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, nonché le altre opportune misure cautelari, con
ordinanza pronunciata in camera di consiglio.

APPELLO

Dal 1971 il nel nostro sistema di giustizia amministrativa vige il principio del DOPPIO GRADO di
giurisdizione: dopo l’istituzione dei TAR, il Consiglio di stato è divenuto (salvo poche eccezioni) giudice di
secondo grado, ovvero d’appello.
Ai sensi dell’art. 100 CPA, contro le sentenze dei TAR è ammesso appello al Consiglio di Stato, ferma
restando la competenza del CGA per gli appelli proposti contro le sentenze del TAR Sicilia.

La previsione costituzionale di un doppio grado di giudizio nella giustizia amministrativa appare tuttavia
dubbia:
- TESI AFFERMATIVA: l’art. 125 COST. prevede che nelle Regioni sono istituiti organi di giustizia
amministrativa di primo grado (→ da qui la conclusione che la volontà del costituente sia stata
quella di garantire al cittadino una tutela in duplice grado nei confronti degli atti e delle attività
della p.a.);
- TESI NEGATIVA: l’art. 125 COST. si limita a prevedere il primo grado, senza nulla dire riguardo al
secondo. (!) A ben guardare tale silenzio appare giustificabile in quanto la rilevanza del secondo
grado è implicitamente ricavabile dal riferimento al primo grado di giudizio e dall’esistenza di altre
norme costituzionali relative alla funzione giurisdizionale del Consiglio di Stato.

121
- TESI INTERMEDIA: l’art. 125 COST. starebbe a significare, vista la sua collocazione nel titolo V, che il
doppio grado vale solo per l’attività amministrativa regionale o infraregionale. (!) A tale tesi si può
obiettare la sua incapacità di ricondurre a ragionevolezza la scelta del costituente, dal momento
che non si vedono motivi che possono giustificare una diversità di trattamento così marcata in
termini di tutela giurisdizionale tra attività amministrativa statale da un lato e locale dall’altro.
È preferibile aderire all’orientamento che attribuisce al doppio grado di giurisdizione valore di principio
costituzionale.

Oltre a questa copertura istituzionale, l’appello è ora disciplinato compiutamente nel libro III del CPA (artt.
91-105). Si ritiene che, per gli aspetti non disciplinati nel CPA, sono destinate a trovare applicazione:
- altre disposizioni contenute nel CPA (in virtù del interno contenuto all’art. 38: Il processo amministrativo si
svolge secondo le disposizioni del Libro II che, se non espressamente derogate, valgono anche per le
impugnazioni e per i riti speciali);
- disposizioni del CPC in quanto compatibili (stante il rinvio esterno di cui all’ art. 39 comma 1).

L’APPELLO AL CONSIGLIO DI STATO ha carattere..

RINNOVATORIO IMPUGNATORIO
= mezzo che adempie alla funzione di consentire = mezzo che adempie alla funzione di consentire il
che un giudice diverso esprima un nuovo giudizio riesame critico della sentenza da parte di un altro
sulla stessa questione decisa dal giudice di primo giudice, ai fini del suo annullamento.
grado. Si tratta di uno strumento che consente di
Il carattere rinnovatorio è illustrato all’art. 105 censurare vizi della sentenza di primo grado, come
comma 1 CPA: indica i casi in cui il Consiglio di esposto all’art. 101 CPA che disciplina i contenuti
Stato deve rimettere la causa al giudice di primo del ricorso in appello. Tale atto oggi deve essere
grado. Da qui si può affermare che in via generale costruito non limitandosi a riproporre le censure
il Consiglio di Stato giudica sul merito. già esposte in primo grado, ma formulando una
specifica critica della sentenza, o delle
argomentazioni che il giudice a posto a
fondamento della propria decisione.

Altra importante caratteristica dell’appello è rappresentata dal cd. EFFETTO DEVOLUTIVO: effetto di
trasferimento al giudice di secondo grado della stessa controversia decisa dal giudice di primo grado.
Posto che anche nel processo amministrativo vige il principio dispositivo, ne consegue che l’effetto
devolutivo si produce nei limiti del thema decidendum così come fissato dall’attività delle parti.
Pur in presenza del principio dispositivo, l’effetto devolutivo non può superare i confini della controversia
fissati in primo grado.
- Art. 104 comma 1: nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande né nuove
eccezioni non rilevabili d’ufficio. → DIVIETO DI IUS NOVORUM.
(!) Eccezione: art. 104 comma 3 – Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a
conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli
atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati, purchè la conoscenza sia intervenuta DOPO il giudizio di
primo grado.
- Art. 104 comma 2: in appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova né possono essere prodotti
documenti nuovi, salvo che il giudice non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa
ovvero che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per
causa ad essa non imputabile.
- L’effetto devolutivo non si può verificare automaticamente per le questioni non esaminate dal
giudice di primo grado o dichiarate assorbite. Art. 101 comma 2: si intendono rinunciate le
domande e le eccezioni non assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che non siano
state espressamente riproposte nell’atto di appello o per la parte diversa dall’appellante con
memoria depositata a pena di decadenza entro il termine di costituzione in giudizio.

122
- L’effetto devolutivo è rilevante anche con riferimento al problema del difetto di giurisdizione: art. 9
comma 1 stabilisce che nei giudizi di impugnazione il difetto di giurisdizione del giudice di primo
grado è rilevato solo se l’appellante abbia proposto specifico motivo di impugnazione avverso il
capo della sentenza che in modo esplicito o implicito avvia statuito sulla giurisdizione.
[La disposizione recepisce un orientamento della Cassazione che, nel riconoscere che la statuizione di merito
presuppone sempre una previa decisione, anche implicita, sulla giurisdizione, riduce la portata dell’art. 37
c.p.c., sostenendo che la questione non è rilevabile d’ufficio dal giudice d’appello per preclusione da giudicato
implicito].

Da qui si ricava che:


a) il giudice d’appello conosce solo delle domande e delle eccezioni che, se non esaminate o
dichiarate assorbite in primo grado, vengono espressamente riproposte in appello;
b) l’appellante, che sia stato ricorrente (soccombente) in primo grado, ha l’onere di riproporre,
nell’atto di appello, le domande di cui sopra;
c) l’appellante che sia stato resistente in primo grado ha lo stesso onere con riguardo alle eccezioni;
d) l’appellato, che sia stato ricorrente (vittorioso) in primo grado, ha l’onere di riproporre le domande
nella memoria depositata a pena di decadenza entro il termine (30 giorni) per la costituzione in
giudizio;
e) l’appellato, che sia stato resistente in primo grado, ha lo stesso onere che grava sull’appellato
(ricorrente vittorioso), relativamente alle eccezioni.

Rimane aperto il problema dell’effetto devolutivo rispetto alla riemersione in appello delle questioni
relative al ricorso introduttivo (inammissibilità, irricevibilità, nullità…) non affrontate dal giudice di primo
grado. → Orientamento dominante: queste questioni possono essere esaminate anche d’ufficio in appello.

La proposizione dell’appello non sospende l’efficacia della sentenza di primo grado: tale efficacia può
essere sospesa su istanza di parte. Ex art. 98 comma 1 CPA: il giudice dell’impugnazione, valutati i motivi
proposti dalla parte, e qualora ritenga che dall’esecuzione della sentenza possa derivare un danno grave e
irreparabile, dispone la sospensione dell’esecutività della sentenza medesima, nonché le altre opportune
misure cautelari.

Posto che l’appello è un RIMEDIO GENERALE (art. 100 CPA), ne consegue che tutte le sentenze di tale
giudice possono essere in appello. Possono essere oggetto di appello tutte le decisioni del giudice di primo
grado che, indipendentemente dalla loro qualificazione in termini di sentenza, presentano un contenuto
decisorio.
Conseguenze:
- In passato si è ammessa l’appellabilità delle ordinanze cautelari adottate dal giudice di primo
grado proprio a motivo del loro contenuto decisorio.
- Controverso se fossero appellabili le sentenze non definitive (non vi era alcuna norma relativa al
processo amministrativo). Nel processo civile la parte può scegliere se adire immediatamente il
giudice di secondo grado (appello immediato) oppure fare riserva d’appello (attendendo la
risoluzione di tutte le questioni controverse). Oggi l’art. 103 comma 1 CPA prevede che contro le
sentenze non definitive è proponibile l’appello o la riserva d’appello, con atto notificato entro il
termine e depositato nei successivi 30 gg presso la segreteria del TAR.

LEGITTIMAZIONE AD APPELLARE: ex art. 102 CPA possono proporre appello:


- le parti tra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado: con ciò ci si riferisce sia alle
parti che vi hanno preso parte attivamente, sia alle parti che, seppur invitate ad entrare nel
processo, non si siano costituite in giudizio. A seconda del tipo di sentenza pronunciata in appello
possono cambiare le posizioni.
- L’interventore solo se titolare di una posizione giuridica autonoma: cioè coloro che sarebbero stati
legittimati a resistere in primo grado, o coloro che sono legittimati a reagire in virtù di una
decisione di primo grado che li riguarda in quanto in quella sede interventori ad adiuvandum e ad
opponendum.

123
a) controinteressato pretermesso che ha partecipato al giudizio di primo grado attraverso
l’intervento ad opponendum;
b) interventore che in primo grado si è visto rigettare la domanda di intervento.
Essi sono legittimati a proporre appello limitatamente a quei capi di sentenza che hanno
pronunciato direttamente nei loro confronti, ad es. dichiarando irricevibile o inammissibile
l’intervento.
Comunque nel giudizio d’appello è possibile esperire INTERVENTO nelle due forme, con atto
notificato a tutte le parti (art. 97 CPA).

- Coloro che non hanno partecipato al giudizio di primo grado a causa della circostanza che non sono
stati messi nella condizione di poterlo fare: es. controinteressato che non ha ricevuto la
notificazione del ricorso (controinteressato pretermesso); controinteressati occulti o successivi
(soggetti la cui posizione di interessati ad opporsi all’annullamento del provvedimento non si evince
dal provvedimento impugnato ovvero matura solo dopo la sentenza di primo grado).
→ La legittimazione a impugnare non può essere definita unicamente con riguardo alla posizione
processuale della parte in primo grado, ma deve essere valutata alla luce dell’interesse sostanziale
di chi propone appello. Inoltre vi possono essere appelli proposti da chi non risulta formalmente
soccombente nel giudizio di primo grado.

Il CPA individua anche le parti cui l’atto va notificato (art. 95 comma 1): a) nelle cause inscindibili, nelle
quali ricorre l’ipotesi di litisconsorzio necessario, a tutte le parti in causa; b) negli altri casi alle parti che
hanno interesse a contraddire.

L’appello si propone con RICORSO, da indirizzare al Consiglio di Stato (o al Consiglio di Giustizia


Amministrativa per la Regione Siciliana, se il ricorso è stato presentato avanti ad uno dei TAR della Sicilia), e
deve contenere gli elementi indicati nell’art. 101 CPA.
TERMINI:
- 60 gg dalla notificazione della sentenza (art. 92 comma 1), o
- 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza ove la notificazione non vi sia stata (art. 92 comma 3).
Tuttavia questo non si applica quando la parte che non si è costituita in giudizio dimostri di non aver avuto
conoscenza del processo a causa della nullità del ricorso o della sua notificazione (art. 94 comma 4).

L’appello va NOTIFICATO nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell’atto di
notificazione della sentenza o in difetto presso il difensore o nella residenza dichiarata o nel domicilio
eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza.
Ai sensi dell’art. 93 comma 2, qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è trasferito
senza notificare una formale comunicazione alle parti, la parte che intende proporre impugnazione può presentare al
Consiglio di Stato un’istanza corredata dall’attestazione dell’omessa notificazione per la fissazione di un termine
perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione dell’impugnazione.

Il ricorso va poi DEPOSITATO entro il termine perentorio di 30 gg dal perfezionamento dell’ultima


notificazione (decorrente dal perfezionamento della stessa verso il destinatario) presso la segreteria del
Consiglio di Stato, unitamente a una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite
notificazioni.

Vi sarà poi la COSTITUZIONE IN GIUDIZIO DELLE PARTI, entro 60 gg dalla notifica dell’appello (art. 46 CPA).
Prima del CPA questo termine era considerato ordinatorio e non perentorio. Nel silenzio del CPA, si deve
ritenere il termine ordinatorio. Tuttavia, nell’ipotesi in cui la parte voglia riproporre le domande o le
eccezioni non esaminate o dichiarate assorbite in primo grado, deve farlo con memoria depositata entro il
termine per la costituzione in giudizio a pena di decadenza. O la parte si costituisce entro questo termine, o
perde la possibilità che la questione possa essere sollevata e decisa in appello.

Per quanto riguarda l’INTERVENTO, la relativa domanda deve essere notificata alle parti e depositata entro
il termine di 30 gg decorrenti dal momento in cui l’ultima notifica si è perfezionata per il destinatario.

124
Art. 119 CPA:
- Comma 1: elenca una serie di controversie nei cui giudizi si applicano le disposizioni contenute
nell’articolo stesso.
- Comma 2: in relazione a queste controversie tutti i termini processuali ordinari sono dimezzati, salvo
nei giudizi di primo grado quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e
dei motivi aggiunti, nonché quelli di cui all’art. 62 comma 1, e quelli espressamente disciplinati dallo
stesso art. 119.

APPELLO INCIDENTALE
L’art. 96 CPA è quello che riguarda l’appello incidentale, ed esordisce dicendo che ‘tutte le impugnazioni
proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo’. Lo stesso
articolo continua poi facendo esplicito rinvio agli articoli:
- Art. 333 CPC -> IMPUGNAZIONE INCIDENTALE può essere rivolta contro qualsiasi capo della
sentenza. L’appello incidentale deve essere proposto dalla parte nel termine di 60 gg dalla
notificazione della sentenza o, se anteriore, entro 60 gg dalla prima notificazione nei suoi
confronti dell’impugnazione proposto da altra parte.
- Art. 334 CPC -> IMPUGNAZIONE INCIDENTALE TARDIVA: possono essere impugnati anche capi
autonomi della sentenza, nel termine sempre di 60 gg dalla notificazione dalla data in cui si è
perfezionato nei suoi confronti la notificazione dell’impugnazione principale e depositata,
unitamente alla prova dell’attenuta notificazione, entro 10 gg.

Il CPA disciplina due ipotesi:


1) Vi sono più parti, tutte legittimate ad appellare: se una propone appello principale, le altre
possono proporre appello incidentale, dopo che questo (o la sentenza di primo grado) sia
stato loro notificato. Conseguenza: il termine per la proposizione dell’appello è sempre di 60
gg e decorre dalla notificazione della sentenza (se l’appello della parte più diligente venga
notificato dopo la notificazione della sentenza) o dalla notificazione dell’appello proposto dalla
parte più diligente (se tale notifica cade anteriormente alla notifica della sentenza di primo
grado).

2) Ipotesi di parziale accoglimento del ricorso di primo grado: consente alla parte appellata di
formulare censure nei confronti della sentenza diverse da quelle formulate dall’appellante le
quali se accolte dal giudice d’appello avrebbero comunque consentito alla stessa di mantenere
inalterata la posizione di vantaggio assicuratagli dalla sentenza di primo grado.
Es. atto di approvazione della graduatoria di un concorso pubblico. Il primo degli esclusi impugna l’atto
dinanzi al G.A. adducendo la mancata valutazione di alcuni titoli che, se correttamente presi in
considerazione, gli avrebbero consentito di acquisire un punteggio tale da essere utilmente collocato in
graduatoria. Il G.A. accoglie solo uno dei motivi prospettati, sufficiente a ottenere il vantaggio sperato,
cioè l’immissione nella graduatoria. A questo punto il controinteressato, cioè colui che è stato collocato
utilmente nella graduatoria, ma all’ultimo posto, propone appello. Di fronte all’appello l’originario
ricorrente propone a sua volta appello incidentale riproponendo i motivi rigettati in primo grado di
modo che, ove il motivo accolto dal giudice di primo grado venga considerato non fondato in appello,
l’eventuale accoglimento dei motivi rigettati consentirebbe comunque al ricorrente in primo grado,
appellato in secondo ma anche appellante incidentale, di conseguire un’utile collocazione in
graduatoria.
L’appello incidentale si presenta quindi come strettamente dipendente dall’appello principale:
fino a quando questo non viene proposto non vi è ragione per proporre appello incidentale.
Se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde
efficacia in quanto non ha più motivo per essere decisa.

SE MANCA LA RIUNIONE DELLE IMPUGNAZIONI -> la decisione di una delle impugnazioni NON
determina l’improcedibilità delle altre (art. 96 comma 6 CPA).

125
Le decisioni pronunciate dal giudice di appello possono essere diverse:
- SENTENZE DI RIGETTO: è possibile che in sede di appello la sentenza del giudice di secondo grado
corregga la motivazione della sentenza del giudice di primo grado senza che venga meno la
qualificazione della prima in termini di sentenza di rigetto (es. Consiglio di Stato ravvisa una
carenza di motivazione e provveda a integrarla).

- SENTENZE DI ACCOGLIMENTO -> distinguendosi in questo caso due momenti:


o RESCINDENTE: eliminazione della sentenza di primo grado
o RESCISSORIO: adozione della sentenza che decide nel merito la controversia

- SENTENZA DI ANNULLAMENTO CON RINVIO -> si rimette la causa al giudice di primo grado. Tale
ipotesi si verifica nei casi di cui all’art. 105 CPA e cioè:
1. se è mancato il contraddittorio
2. è stato leso il diritto di difesa di una delle parti in primo grado
3. quando il giudice di primo grado ha erroneamente declinato la giurisdizione, quando ha pronunciato
sulla competenza ritenendola erroneamente sussistente ovvero insussistente, quando ha dichiarato
erroneamente l’estinzione o la perenzione del giudizio.

Successivamente all’annullamento da parte del Consiglio di Stato, le parti devono riassumere il processo con
ricorso notificato nel termine perentorio di 90 gg dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della
sentenza o dell’ordinanza.

- SENTENZA DI ANNULLAMENTO SENZA RINVIO -> il Consiglio di Stato decide senza rinvio (perché
non ci può essere alcuna decisione sulla controversia). Ciò accade:
1. quando il giudice d’appello riconosce il difetto assoluto di giurisdizione
2. quando si è in presenza di nullità insanabile del ricorso introduttivo o di cause impeditive o estintive
del giudizio (perenzione, decadenza).

Il deferimento del ricorso all’Adunanza Plenaria:


L’art. 99 CPA conferma la peculiare funzione nomofilattica dell’AP del CdS. Infatti, detta disposizione
prevede che la sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il pungo di diritto sottoposto al suo esame ha
dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o
d’ufficio, può rimettere il ricorso all’esame dell’AP. Quest’ultima, qualora ne ravvisi l’opportunità, può
restituire gli atti alla sezione remittente.
Prima della decisione, inoltre, il Presidente del CdS, su richiesta delle parti o d’ufficio, può deferire all’AP
qualunque ricorso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere
contrasti giurisprudenziali.
Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’AP,
rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. L’AP decide l’intera controversia,
salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione
remittente.
Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l’AP può comunque enunciare il principio di diritto
nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero
l’estinzione del giudizio. In tali casi, la pronuncia dell’AP non ha effetto sul provvedimento impugnato
(l’originaria formulazione della norma faceva riferimento alla sentenza impugnata: la modifica è
intervenuta ad opera del primo correttivo. La ratio della novella è da ricercare nella circostanza per cui la
rimessione all’AP, contrariamente a quanto si desume dalla collocazione dell’art. 99, non può essere
limitata ai soli giudizi di impugnazione di sentenze, ma deve essere possibile anche nei giudizi di
impugnazione di ordinanza e nei giudizi in unico grado, nei quali è esclusa qualsiasi impugnazione di
provvedimenti giurisdizionali, come, ad es. il giudizio di ottemperanza).

LE IMPUGNAZIONI STRAORDINARIE CONTRO LE DECISIONI DEI GIUDICI AMMINISTRATIVI


REVOCAZIONE

126
Le sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e modi previsti dagli
artt. 395 e 396 del c.p.c. (art. 106 CPA).
Ai sensi dell’art. 395 c.p.c. citato, il ricorso per revocazione è ammesso nei casi di:
1) Sentenza effetto di DOLO di una delle parti in danno dell’altra:
si verifica solo in presenza di un comportamento delle parti e dei loro difensori talmente fraudolento
che preclude al giudice l’accertamento dei fatti allegati al giudizio facendo apparire una situazione
diversa da quella reale.
Non costituiscono dolo, invece: omessa allegazione di circostanze o documenti utili alla difesa
avversaria, allegazione di fatti non veritieri quando possono essere contestati dalla controparte,
deposito di documenti o motivi aggiunti nell’imminenza dello scadere dei termini…

2) Decisione si fonda su PROVE RICONOSCIUTE O COMUNQUE DICHIARATE FALSE dopo la sentenza, o il


cui riconoscimento o dichiarazione di falsità, anteriore alla sentenza, sia stato ignorato dalla parte (la
quale ha a disposizione il rimedio della querela di falso se tale vicenda avviene nel corso del giudizio).
La disposizione si riferisce a tutte le prove ammesse nel tipo di giudizio che si conclude con la
sentenza di revocazione. Il riconoscimento dovrebbe promanare da una delle parti processuali,
precisamente dalla parte a cui vantaggio la prova è stata utilizzata dal giudice.
L’esperibilità della revocazione viene esclusa nell’ipotesi in cui la dichiarazione di falsità della prova
sia contenuta in una sentenza inidonea a acquistare autorità di giudicato sostanziale nei confronti dei
soggetti contro cui è rivolta domanda di revocazione.

3) RITROVAMENTO, SUCCESSIVAMENTE ALLA SENTENZA, DI UNO O PIÙ DOCUMENTI DECISIVI che la


parte non ha potuto produrre per causa di forza maggiore ovvero per il fatto dell’avversario.
La disposizione fa riferimento al documento in senso stretto:
- deve preesistere alla sentenza revocanda;
- deve essere rimasto ESTRANEO alla cognizione del giudice non per un difetto di diligenza della
parte nello svolgimento dell’attività difensiva Il documento;
- deve essere DECISIVO cioè idoneo a provocare una decisione diversa o più favorevole alla parte
che agisce in revocazione, o comunque una sostanziale modifica della valutazione di un punto
decisivo della controversia.
Il vizio revocatorio si verifica quando la parte che agisce in revocazione ha ignorato incolpevolmente
per tutte le fasi del precedente giudizio inclusa la fase di appello, l’esistenza del documento o il luogo
di conservazione dello stesso, ovvero quando la controparte o un terzo in possesso del documento
non abbia ottemperato all’ordine di esibizione o di ispezione emanato dal giudice.
Chi agisce in revocazione deve inoltre provare la data del ritrovamento nonché il recupero del
documento ai fini della verifica della decorrenza dei termini per la proponibilità del ricorso stesso.
Deve depositare in giudizio il documento unitamente all’atto di ricorso, non essendo considerata
sufficiente la sola indicazione di esso.

4) Sentenza inficiata da un ERRORE DI FATTO risultante dagli atti e documenti della causa.
Deve trattarsi di una ‘svista materiale’ del giudice sul contenuto materiale degli atti di causa tale da
determinare una falsa rappresentazione della realtà. La svista deve essere tale da indurre ad
affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, invece incontestabilmente escluso dagli atti e
documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti e documenti stessi risulti
positivamente accertato (sempre però che la questione attenga ad un punto di cognizione non
controverso, ossia sul quale la decisione finale non abbia espressamente pronunciato in quanto
altrimenti si verterebbe in un’ipotesi di errore di diritto).

≠ L’errore non può consistere in un’erronea valutazione delle risultanze processuali, ricostruire
esattamente nella loro oggettività, né in un’anomalia del procedimento logico di interpretazione
delle prove (→ errore di giudizio non prospettabile ai fini della revocazione).
Non configura errore revocatorio ammissibile neppure la circostanza che il giudice abbia dato una
lettura e un’interpretazione dei documenti di causa difforme da quella proposta da una delle parti.

127
≠ L’errore di fatto va distinto anche dall’errore di diritto, ossia dall’erronea percezione di norme che
contemplano la rilevanza giuridica dei fatti oggetto della controversia, nel senso sia della mancata
considerazione dell’esistenza di una norma (falsa applicazione) sia di distorsione dell’effettiva portata
di essa (violazione di legge).

La giurisprudenza amministrativa nel tempo ha favorito un’applicazione estensiva della revocazione


per errore di fatto riconducendovi anche l’omissione di pronuncia (ossia le ipotesi di omesso esame di
motivi di ricorso e di eccezioni di inammissibilità contenute in atti difensivi).
L’omissione di pronuncia può essere fatta valere quindi come vizio revocatorio se è la risultante di un
errore, nella formazione del giudizio, caratterizzato dai requisiti dell’incontestabilità, decisività,
oggettiva rilevabilità. Questo errore, ha precisato la giurisprudenza, deve essere identificabile
attraverso la motivazione.
L’errore va considerato decisivo quando sussiste uno stretto nesso di causalità tra l’erronea
supposizione e la decisione resa, tale da poter affermare con ragionevole certezza che la seconda si
fondi unicamente sulla prima.

5. CONTRADDITTORIETÀ della statuizione contenuta nella sentenza con altra sentenza precedente
avente tra le parti autorità di giudicato.
Perché vi sia contraddittorietà è necessario che tra le due pronunce, rese in giudizi diversi, esista
identità, oltre che nei soggetti, anche nell’oggetto.
Il giudicato idoneo ad operare con efficacia preclusiva al di fuori del giudizio in cui è stato reso e,
quindi, a giustificare la domanda di revocazione è quello formatosi rispetto a decisioni che abbiano
investito il merito del ricorso. Escluse: ipotesi del preteso contrasto con un giudicato interno, una
delle due sentenze è stata emessa in sede di giudizio di ottemperanza, contrasto tra dispositivo
depositato nella segreteria e contenuto nella motivazione poi pubblicata.

6. Ipotesi di DOLO DEL GIUDICE, accertato con sentenza passata in giudicato, ossia l’ipotesi in cui il
giudice abbia tenuto un comportamento scientemente a favore di una parte del giudizio in violazione
del dovere di imparzialità.

DECISIONI REVOCABILI:
Il ricorso per revocazione è esperibile contro:
1) sentenze di primo grado: SOLO se i relativi motivi di doglianza non possono essere più dedotti con
l’appello;
2) sentenze d’appello.
→ La revocazione appare così in vincolo di SUBORDINAZIONE rispetto all’appello.

Si possono distinguere due fattispecie:


a) Revocazione ordinaria: fondata sulle fattispecie di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c., ossia su
circostanze già evidenziabili al momento dell’adozione della sentenza e sulla base del contenuto dei
questa. È assoggettata al regime generale dei termini per le impugnazioni e, se proposta, impedisce
la formazione della cosa giudicata forale ai sensi dell’art. 324 c.p.c.
b) Revocazione straordinaria: è proponibile entro un termine decorrente dalla concreta rilevabilità
del vizio, anche oltre i limiti temporali previsti in linea generale per il passaggio in giudicato della
sentenza in quanto basata sui motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., ossia su motivi
esteriori alla sentenza e dipendenti da fatti non conosciuti prima della formazione del giudicato.

L’art. 395 c.p.c. trova applicazione alle sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado. L’art. 396
c.p.c. si occupa delle sentenze per cui è scaduto il termine per l’appello, statuendo la revocabilità di queste
per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3, 6 dell’art. 395 e precisando che se i suddetti vizi sono scoperto durante la
pendenza del termine per la proposizione dell’appello, tale termine viene prorogato dal giorno
dell’avvenimento.

128
Quindi, sia nel processo civile che in quello amministrativo avverso le sentenze di primo grado ancora
appellabili risultano inammissibili sia la revocazione ordinaria, sia la revocazione straordinaria (se i vizi sono
scoperti durante la pendenza del termine per appellare). In entrambi i casi i motivi revocatori si convertono
in motivi di appello.

TERMINI per proporre la revocazione sono ora esposti all’art. 92 CPA in base al quale il giudizio per
revocazione si propone con ricorso nel termine perentorio di 60 giorni decorrenti da:
 notificazione sentenza, per i casi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. (oppure entro il termine lungo
di 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza, ove non vi sia stata la notificazione);
 dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o falsità o collusione o è stato recuperato il documento o è
passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice nei casi di cui ai nn. 1, 2, 3, 6
art. 395 c.p.c.
Nel termine perentorio il ricorso deve essere notificato, a pena di inammissibilità, ad almeno un
controinteressato, salvo l’onere di estendere, a pena di inammissibilità, il contraddittorio a tutti gli altri
controinteressati (ove esistenti) nel termine perentorio fissato dal giudice.
Il ricorso per revocazione va NOTIFICATO, a scelta del ricorrente, nella residenza dichiarata o nel domicilio
eletto dalla parte nell’atto di notificazione della sentenza o, in difetto, presso il difensore o nella residenza
dichiarata o domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza.
I vizi delle notificazioni (salvo le ipotesi di inesistenza) sono suscettibili di sanatoria con la costituzione del
convenuto o con la rinnovazione della stessa spontaneamente o in esecuzione dell’ordine del giudice.

Il ricorso una volta notificato va DEPOSITATO nella segreteria del giudice adito, nel termine decadenziale di
30 gg decorrenti dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto si è perfezionata anche per il
destinatario.

In applicazione del principio del simultaneus processus, l’art. 96 stabilisce, con portata generale, che tutte
le impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza devono essere riunite per essere definite in un solo
processo. Ove tale regola non venga applicata, comunque la decisione di una di esse non determina
l’improcedibilità delle altre.

Anche nel giudizio di revocazione è possibile esperire INTERVENTO, sia ad opponendum che ad
adiuvandum, con atto notificato a tutte le parti.

Sul punto della LEGITTIMAZIONE a proporre domanda di revocazione si sono sempre riscontrate oscillazioni
giurisprudenziali.
- Orientamento maggioritario: solo le parti formali del giudizio conclusosi con sentenza revocanda;
- Orientamento minoritario: tutte le parti sostanziali del processo (tutti i soggetti i cui interessi
vengono lesi dalla sentenza revocanda).
Il CPA detta una disciplina unitaria a tutte le impugnazioni in relazione alle parti cui va fatta la notifica
dell’atto (art. 95): tutte le parti in causa (ricorrente, resistenti, controinteressati) nelle cause inscindibili,
nelle quali ricorre l’ipotesi di litisconsorzio necessario; e negli altri casi alle parti che hanno interesse a
contraddire.

Il giudizio di revocazione si propone davanti allo stesso giudice che ha emesso la sentenza revocanda, e
dunque si propone al TAR per le sentenze di primo grado e al Consiglio di Stato per le sentenze di appello.

Il giudizio di revocazione si articola in 2 fasi:


A. dopo aver valutato la sussistenza dei presupposti, il giudice si pronuncia sulla ammissibilità della
domanda di revocazione (iudicium rescindens);
B. a seguito dell’esito positivo di questa fase di accertamento, che porta all’eliminazione della sentenza
impugnata, il giudice può riesaminare nel merito la controversa già decisa (iudicium rescissorium).

129
La fase rescissoria può anche concludersi con una sentenza interlocutoria qualora il giudice ritenga di non
disporre di elementi sufficienti per la pronuncia definitiva e ritenga necessario effettuare ulteriori
adempimenti istruttori (con gli stessi limiti del giudizio d’appello).

A pena di inammissibilità il ricorso deve contenere la richiesta eliminatoria, la richiesta rinnovatoria nonché
il motivo di revocazione e la prova dei fatti su cui esso si fonda.
Il ricorso non determina la sospensione della sentenza di primo grado, per cui è necessaria invece apposita
istanza di parte ex art. 98 comma 1 CPA.
La proposizione del ricorso per revocazione avverso una sentenza della Corte di Cassazione impedisce il
passaggio in giudicato della sentenza impugnata solo ove il ricorso per cassazione sia stato accolto, non
anche quando sia stato respinto.
Qualora la sentenza revocanda sia passata in giudicato, la proposizione del ricorso in revocazione non
preclude l’instaurazione del giudizio di ottemperanza, fatti salvi gli effetti delle pronunce di accoglimento
emesse nel giudizio di revocazione sull’attività di ottemperanza dell’amministrazione.

Ex art. 107 c.p.c., la sentenza emessa al termine del giudizio di revocazione è sottoposta agli stessi mezzi di
impugnazione della sentenza revocata. Però non può essere nuovamente sottoposta a revocazione (v. art.
403 comma 1 CPA). La giurisprudenza amministrativa ha però ammesso la revocazione per errore di fatto
avverso una sentenza del Consiglio di Stato che aveva dichiarato inammissibile un precedente ricorso per
revocazione proposto avverso una sentenza di appello.
Sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’intero quadro normativo, è giunta a
dimostrare che la preclusione dell’utilizzabilità della revocazione non può valere per le sentenze del
Consiglio di Stato in quanto queste sono ricorribili in cassazione solo per motivi di giurisdizione.

OPPOSIZIONE DI TERZO
E’ un mezzo attraverso cui un soggetto che non è stato parte formale di un giudizio impugna la sentenza
conclusiva di quel giudizio, passata in giudicato o comunque esecutiva, in quanto arrechi un PREGIUDIZIO
alla situazione giuridica soggettiva (diritti o interessi legittimi) di cui è titolare (art. 404 comma 1 c.p.c.).
Colui che non è stato parte del processo mira, in sostanza, ad eliminare, o comunque a rendere a sé non
opponibile, una sentenza che, pur non essendo suscettibile di esplicare nei suoi confronti efficacia diretta di
giudicato, assume nei suoi confronti una portata pregiudizievole nel momento in cui viene portata ad
esecuzione.

E’ considerato, al pari della revocazione, un mezzo di impugnazione straordinario, che può essere proposto
anche a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza che si impugna.
L’opposizione di terzo è stata introdotta nel novero delle impugnazioni delle sentenze del G.A. solo a
seguito di una sentenza additiva della Corte Costituzionale (177/1995), e ora è espressamente disciplinata
nel titolo I e IV del Libro IV. La Corte Cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 36 e 28 della
legge TAR nella parte in cui non prevede l’opposizione di terzo tra i mezzi di impugnazione delle sentenze
del Consiglio di Stato e delle sentenze del TAR.

L’opposizione di terzo può essere proposta nelle due forme di cui all’art. 91 CPA:
1) OPPOSIZIONE ORDINARIA, esperibile dal terzo avverso la sentenza che pregiudichi i suoi diritti o
interessi legittimi;
2) OPPOSIZIONE REVOCATORIA, esperibile dagli aventi causa ed i creditori di una delle parti, avverso
la sentenza effetto di dolo o collusione a loro danno.

LEGITTIMAZIONE:
- Nel processo civile: litisconsorti necessari pretermessi, titolari di una situazione soggettiva
autonoma e incompatibile rispetto a quella cui il giudice ha dato prevalenza nella sentenza
opposta.

130
- Nel processo amministrativo: art. 108 CPA la limita solo a quei soggetti che siano titolari di una
situazione soggettiva autonoma ed incompatibile rispetto a quella cui il giudice ha dato prevalenza
nella sentenza opposta. L’esperibilità dell’opposizione di terzo sarà da ritenersi quindi preclusa per
i cointeressati, i quali avrebbero solo il rimedio dell’appello (ma sarebbero privi di rimedi
nell’ipotesi di passaggio in giudicato della sentenza formatasi senza la loro partecipazione).

L’opponente, titolare di una situazione soggettiva che non può trovare soddisfazione contestualmente alla
situazione soggettiva tutelata nella sentenza impugnata (in quanto entrambe hanno ad oggetto lo stesso
bene), censurerà l’ingiustizia della sentenza sotto il profilo dell’inosservanza delle regole sostanziali sulla
prevalenza delle situazioni soggettive dedotte nel giudizio conclusosi con la decisione che si intende
opporre.

La giurisprudenza amministrativa, nelle prime applicazioni dell’istituto, ha operato un adattamento dei


concetti di autonomia e incompatibilità utilizzati nel sistema civilistico. Si afferma che il giudizio di
prevalenza inerisce non al rapporto tra SGS ma al legame tra atti, appartenenti a fasi procedimentali
diverse in quanto successive o legate da un nesso di presupposizione, su cui ciascuno dei soggetti coinvolti
fonda il proprio interesse protetto.
Per quanto attiene al giudice competente a conoscere dell’opposizione, la regola è che questi sia lo stesso
giudice che ha adottato la sentenza ex art. 109 CPA, trattandosi di competenza funzionale.
Tale regola subisce però una vistosa deroga nel caso di opposizione esperita avverso una sentenza del G.A.
non passata in giudicato. In questo caso:
- se è già stato proposto appello, opponente dovrà intervenire (proponendo atto di intervento e non
opposizione);
- se l’opposizione è già stata proposta al TAR, dovrà dichiararsi improcedibile;
- se il terzo non è ancora intervenuto gli si dà un termine per intervenire.

Nel caso di concorrenza tra revocazione e opposizione di terzo, sembra preferibile la tesi favorevole alla
prosecuzione separata dei due giudizi, salvo poi il coordinamento delle relative sentenze alla stregua del
criterio della prevalenza temporale.

Il termine previsto per la proposizione dell’azione è sempre di 60 giorni dalla notifica della sentenza, ovvero
dal giorno in cui sono stati scoperti il dolo o la collusione.

L’opposizione di terzo va introdotta con ricorso, che deve indicare la decisione giudiziale opposta e essere
notificato a tutti i soggetti che hanno partecipato al precedente giudizio.
La parte rimasta estranea al giudizio denuncia la prevalenza della propria SGS rispetto a quella cui il giudice
della sentenza opposta ha dato tutela.
Con l’opposizione si possono richiedere nuovi mezzi istruttori (dubbia è la possibilità di proporre nuove
domande).
La proposizione del ricorso non determina la sospensione dell’esecutività della sentenza pronunciata inter
alios, quindi non esclude che nelle more del giudizio l’attuazione della sentenza opposta determine un
pregiudizio a quella SGS che l’opponente intende salvaguardare attraverso la proposizione dell’opposizione.
Tale efficacia può essere sospesa su istanza di parte (art. 98 CPA). L’eventuale ordinanza di sospensione
dovrebbe, a differenza del modello civilistico, ritenersi impugnabile (in appello o per revocazione).

All’esito del giudizio:


- La sentenza che dichiara inammissibile o improcedibile il ricorso in opposizione, ovvero lo rigetta
per infondatezza dei motivi, condanna l’opponente al pagamento di una pena pecuniaria secondo
il disposto dell’art. 408 c.p.c.
- Nell’ipotesi di accoglimento del ricorso appare opportuno distinguere in relazione ai motivi posti a
fondamento dell’impugnazione:
a) Se ad agire è il controinteressato pretermesso: la sentenza dispone la rimessione delle parti
dinanzi al giudice di primo grado per l’esame nel merito.
b) Altri casi: il giudice dell’opposizione si pronuncia anche nel merito del ricorso.

131
La sentenza resa nel giudizio di opposizione di terzo è soggetta alle stesse impugnazioni alle quali poteva
essere sottoposta la pronuncia impugnata. Nel processo amministrativo va ricordato che avverso le
sentenze dei TAR l’opposizione va presentata dinanzi allo stesso giudice (non può essere impugnata davanti
al Consiglio di Stato stesso).

IL RICORSO PER CASSAZIONE


E’ previsto dall’art. 111 comma 8 Cost., ai sensi del quale: Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della
Corte dei Conti il ricorso per Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
Detta disposizione è ripresa dall’art. 110 CPA, che ammette il ricorso contro le sentenze del CdS per i soli
motivi inerenti alla giurisdizione:
- difetto assoluto di giurisdizione;
- difetto di giurisdizione del GA rispetto al GO;
- difetto di giurisdizione del TAR o del CdS rispetto ad altri GA (es. Corte dei conti);
- difetto di giurisdizione ove il GA abbia esplicato un sindacato di merito su questione in cui esso
aveva competenza solo di legittimità;
- difetto di giurisdizione per irregolare composizione del collegio giudicante.

RISOLUZIONE DELLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE


Nel nostro sistema giuridico la tutela giurisdizionale delle SGS è costituzionalmente necessaria: lo si ricava
tanto dagli artt. 24 e 113 Cost.
La giurisdizione è delineata dalla Cost. come funzione unitaria che si deve esprimere nel “giusto processo”
(art. 111 Cost.).
Nel disegno costituzionale, la funzione giurisdizionale è deputata a garantire la protezione effettiva ed
efficace delle SGS che necessitino di protezione, e il suo esercizio è affidato a una pluralità di plessi
individuati sulla base della consistenza (diritti soggettivi e interessi legittimi) delle SGS per le quali la
protezione sia richiesta. La proposizione di una domanda giudiziale a giudice appartenente a un plesso
diverso da quello competente a pronunciare sulla sua fondatezza non è di per sé preclusiva della
conseguibilità della protezione giurisdizionale.

Le questioni di giurisdizione rappresentano il modo in cui rileva il problema della sussistenza e della
consistenza delle SGS. I confini delle competenze giurisdizionali del G.O. e del G.A. sono ancora oggi incerti
perché incerto appare il discrimine tra diritti soggettivi e interessi legittimi.
- Nella prima metà del ‘900, un orientamento giurisprudenziale del G.O. affermava la propria
competenza giurisdizionale nei casi in cui un potere autoritativo fosse stato esercitato ma
difettando in concreto dei presupposti di legge per il suo esercizio. Il provvedimento con il quale
esso viene esercitato è nullo e non produce alcuna incisione sulla sfera giuridica del destinatario,
spettando alla competenza del G.O. il relativo accertamento.
- G.A. è orientato nel senso di ritenere che le controversie concernenti atti nulli appartengano alla
sua competenza. L’esperibilità dell’azione di nullità davanti al G.A. è sancita ora all’art. 31 CPA.
- Alla giurisprudenza del G.O. si deve anche l’enucleazione della categoria dei diritti incomprimibili o
non degradabili in forza dell’esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione, identificati con i
diritti fondamentali. La competenza giurisdizionale sulle controversie instaurate per la protezione
di diritti fondamentali spetta unicamente al G.O., ancorché siano stati emanati provvedimenti
amministrativi, ritenuti non suscettibili di incidere sui diritti a fondamento costituzionale
determinandone la degradazione in meri interessi legittimi.
→ Ove sussiste la giurisdizione esclusiva del G.A. : il G.A. può conoscere anche dei diritti
fondamentali. Ove non sussista giurisdizione esclusiva del G.A.: la competenza spetta al G.O.
quand’anche sia stato emanato un provvedimento amministrativo.

132
Le decisioni che si formano sulle questioni di giurisdizione si distinguono in:
- decisioni che la declinano -> possono declinare la giurisdizione in senso assoluto (se nessun giudice
è fornito di competenza giurisdizionale sulla controversia, perché non si è in presenza di una SGS),
o in senso relativo (se un altro giudice diverso da quello adito è fornito della necessaria
competenza giurisdizionale). Le decisioni declinatorie della competenza sono sempre e
necessariamente ESPLICITE.
Tutte le sentenze che declinano la giurisdizione pongono fine al processo incardinato davanti al giudice adito.
Poiché la legge impone al giudice in capo al quale ritiene che la competenza giurisdizionale di indicare il
diverso giudice in capo al quale ritiene che la competenza giurisdizionale sussista, sarà dinanzi a quello che
l’interessato potrà rivolgersi per ottenere la pronuncia sulla domanda.

- decisioni che la affermano -> possono essere sia ESPLICITE, se contenute in una statuizione
espressa, che IMPLICITE, qualora il giudice abbia deciso nel merito riconoscendo quindi come
sussistente la propria giurisdizione.
La figura della decisione implicita sulla giurisdizione è stata originariamente riconosciuta dalla giurisprudenza
delle SS.UU. che l’ha elevata a oggetto del giudicato formale (implicito) in difetto di tempestivo appello. Ora
è oggetto di riconoscimento normativo all’art. 9 CPA, secondo cui il difetto competenza giurisdizionale del
G.A. può essere affermato dal Consiglio di Stato, quale giudice d’appello, solo se la parte ha proposto
tempestivo appello contro il capo di sentenza del giudice di primo grado che, anche in modo implicito, abbia
affermato sussistente la competenza.
Il riconoscimento normativo della figura della decisione implicita impone il definitivo abbandono
dell’orientamento giurisprudenziale del G.A. che, facendo perno sull’art. 37 c.p.c. – per il quale “il difetto di
giurisdizione… è rilevato anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo” – lo conduceva a ritenere
rilevabile d’ufficio il proprio difetto di giurisdizione anche nel grado di appello e a ritenere escluso il potere di
rilievo officioso solo a fronte di un capo di sentenza di primo grado che avesse espressamente affermato la
sussistenza della giurisdizione e non fosse stata tempestivamente appellata.

Condizione necessaria per pronunciare sulla fondatezza della domanda giudiziale è l’accertamento della potestas
iudicandi del giudice adito. Di qui la norma dell’art. 276 comma 2 c.p.c. che fissa l’ordine di trattazione delle questioni
da parte del giudice imponendo la decisione prioritaria di quelle pregiudiziali rispetto a quelle di merito. Poiché le
SS.UU. hanno riconosciuto che la logica di ogni processo è quella della decisione per gradi, se ne ricava la conseguenza
che la regola dell’art. 276 comma 2 c.p.c. è un principio generale pienamente applicabile anche al processo
amministrativo.
Dal principio della decisione per gradi deriva la regola per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione, è cioè
chiamato a risolvere, prima di ogni altra, la questione della sussistenza e della spettanza a sé della competenza
giurisdizionale a decidere sulla controversia che gli è sottoposta. Nessun giudice può però ritenersi vincolato dalla
pronuncia sulla giurisdizione resa da un giudice diverso: è possibile che giudici appartenenti a plessi diversi
pervengano a decisioni opposte sulla stessa questione di giurisdizione.
Si giustifica così la scelta del nostro ordinamento di individuare un organo giurisdizionale al quale spetta di
statuire sulla giurisdizione: le SS.UU. della Cassazione. Esse risolvono, statuendo cono forza vincolante per
ogni giudice e per le parti:
- questioni sulla sussistenza della potestà giurisdizionale;
- questioni sulla spettanza della potestà giurisdizionale all’uno o all’altro plesso.
o se riconoscono che nessun giudice è fornito di competenza giurisdizionale sulla domanda ->
accertano il difetto assoluto di giurisdizione;
o se riconoscono che la competenza giurisdizionale sussiste -> devono determinare a quale
plesso giurisdizionale spetta, definendo con ciò la consistenza della SGS azionata.

- conflitti reali di giurisdizione: quando vi siano pronunce giurisdizionali contrastanti sulla spettanza,
in ordine a una stessa controversia, della competenza giurisdizionale;
- conflitti virtuali: allorché si configuri la possibilità che un conflitto reale possa insorgere.

- conflitti positivi: giudici di plessi giurisdizionali diversi affermino di essere titolari di competenza
giurisdizionale in ordine a una stessa controversia;
- conflitti negativi: la competenza giurisdizionale è negata sia dagli uni che dagli altri.

133
A seguito della statuizione delle SS.UU. che fissa la competenza giurisdizionale in capo all’uno o all’altro
giudice, il giudizio potrà proseguire innanzi al giudice di cui è stata accertata la competenza giurisdizionale,
senza che questo sia vincolato a riconoscere la titolarità in concreto, in capo alla parte, della SGS affermata,
nonché a riconoscere che la domanda giudiziale è comunque proponibile.

Le SS.UU. possono essere investite della funzione di statuire su una questione di giurisdizione attraverso
quattro vie:
1) la trafila delle impugnazioni;
2) il regolamento preventivo di giurisdizione;
3) la denuncia dei conflitti di giurisdizione ex art. 362 comma 2 c.p.c.;
4) promozione d’ufficio da parte del giudice della questione ex art. 59 comma 3 l. 69/2009 e art. 11
comma 3 CPA.


IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE
L’art. 9 CPA disciplina le ipotesi in cui nel corso del giudizio sorga un problema di giurisdizione, ed individua
le modalità per sollevare la relativa questione:
- PRIMO GRADO: il difetto di giurisdizione è rilevato anche d’ufficio
- IMPUGNAZIONE: il difetto di giurisdizione è rilevabile solo se dedotto con specifico motivo avverso
il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, abbia statuito sulla
giurisdizione. Con tale formulazione il legislatore ha recepito l’orientamento della Cassazione sul
cd. giudicato implicito, formatosi con riguardo al processo civile.

Il giudicato implicito sulla giurisdizione si concreta nella circostanza per cui la questione di giurisdizione non
è più sollevabile dalle parti o d’ufficio se nei gradi precedenti del giudizio non è stato posto il problema in
maniera esplicita.
Nella sentenza 24883/2008, le SSUU, interpretando restrittivamente l’art. 37 c.p.c. hanno individuato le
ipotesi in cui si forma tale giudicato, affermando che “qualora il giudice decida espressamente sia sulla
giurisdizione sia sul merito, e la parte impugni solo il merito, è precluso al giudice d’appello e alla
Cassazione il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione e alla parte interessata non è consentito
introdurla in sede di legittimità se non l’abbia proposta anche in appello”. Lo stesso se i giudici di merito
non abbiano dedicato un capo della sentenza alla questione di giurisdizione. in questo caso si può ritenere
che “qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi; tale verifica, in
assenza di formale eccezione o questione sollevata d’ufficio, avviene comunque implicitamente. Il giudice
che ha deciso il merito ha anche già deciso di poter decidere.

A. TRAFILA DELLE IMPUGNAZIONI


La decisione sulla giurisdizione assunta dal giudice di primo grado è suscettibile di essere appellata al
giudice di secondo grado, in applicazione della regola generale sull’appellabilità delle pronunce di primo
grado (art. 100 CPA).
→ Così la sentenza del TAR declinatoria della competenza è suscettibile di essere appellata dinanzi al
Consiglio di Stato il quale, ove ritenga sussistente la competenza negata in primo grado, dovrà riformare la
sentenza declinatoria del primo giudice e a questo rimettere la causa (art. 105 comma 1 CPA).
Il CPA non reca alcuna disposizione che indichi e disciplini il meccanismo attraverso il quale, a seguito della
sentenza del Consiglio di Stato che riformi la sentenza del TAR declinatoria della giurisdizione, il giudizio
verrà a essere nuovamente incardinato davanti al giudice di primo grado:
- Si limita a stabilire all’art. 8 comma 2 disp. att., che il Presidente del TAR potra’ (non dovrà!) fissare
l’udienza di trattazione della causa.
Affinché il giudice sia reinvestito del potere decisorio, è necessario che la parte, che ha interesse
alla pronuncia, presenti l’istanza di fissazione dell’udienza. È dubbio se l’interessato sia gravato
anche dell’onere di riassumere il giudizio.

→ Naturalmente anche la pronuncia del TAR che affermi la competenza giurisdizionale del G.A. potrà
essere appellata dinanzi al Consiglio di Stato, che potrà confermarla o riformarla.

134
Nel caso in cui riformi la pronuncia affermativa della giurisdizione resa in primo grado, il Consiglio di Stato
declinerà la giurisdizione: o in senso assoluto, o in senso relativo. In questo secondo caso deve indicare il
diverso giudice ritenuto competente.
La parte soccombente rispetto alla sentenza resa sulla questione di giurisdizione dal giudice d’appello potrà
gravarsene con ricorso alle SS.UU. Cassazione (ai sensi dell’art. 111 ultimo comma Cost. e art. 110 CPA).

È da escludere che sia suscettibile di ricorso in cassazione per motivi di giurisdizione una decisione implicita
del Consiglio di Stato sulla sussistenza della giurisdizione del G.A.

La disciplina del ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione è ora dettata dal Libro IV, Titolo I
(“Impugnazioni in generale) e V (“Ricorso per cassazione”) del CPA.
- TERMINE per la proposizione del ricorso: 60 gg dalla notificazione della sentenza, ovvero 6 mesi
dalla pubblicazione della sentenza (in mancanza di notifica).
- Consiglio di Stato può sospendere gli effetti della sentenza impugnata per cassazione, e disporre le
altre opportune misure cautelari, su istanza di parte e purchè sussistano ragioni di eccezionali
gravità e urgenza.
- In caso di accoglimento del ricorso la Corte cassa la decisione impugnata:
o senza rinvio – quando riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni
altro giudice difettano di giurisdizione;
o con rinvio, determinando il giudice competente – nel caso in cui riconosca che la
competenza spetta a giudice diverso da quello originariamente adito, ovvero nel caso in cui
riconosca l’erroneità della sentenza declinatoria di competenza pronunciata dal giudice la
cui sentenza è stata oggetto del ricorso alle SS.UU.

- Il giudice del rinvio è investito del potere decisorio sulla controversia in forza di un atto di
riassunzione, da notificare nel termine di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza delle SS.UU.
(art. 392 c.p.c.). Questa disciplina deve ritenersi applicabile anche per il giudizio di rinvio che si
deve svolgere dinanzi al G.A.
Per l’art. 11 comma 3 CPA, laddove le SS.UU. statuiscano per la spettanza al G.A. della competenza
giurisdizionale su controversia originariamente radicata innanzi a giudice diverso, il G.A. viene
investito del relativo potere decisorio in forza della riproposizione del giudizio a opera della parte
che vi ha interesse, da effettuarsi entro il termine di 3 mesi dalla pubblicazione della decisione
delle SS.UU.

(!) Lo strumento della riassunzione è strutturalmente e funzionalmente diverso da quello della riproposizione
del giudizio.
- Riassunzione: è strumento per la prosecuzione dello stesso rapporto processuale. Nel processo riassunto
quindi operano le preclusioni eventualmente maturate nella fase svolta dinanzi al giudice del quale risulti
esclusa la competenza. Nella seconda fase dello stesso processo sono pienamente utilizzabili le risultanze
istruttorie acquisite nella prima.
- Riproposizione: a questa consegue l’instaurazione di un processo nuovo, nel quale non dovrebbero né
operare le preclusioni maturate in altro processo, né essere utilizzabili le prove in altro processo acquisite.

Da qui emerge che è ben possibile che venga a radicarsi davanti al G.A. una controversia originariamente
radicata davanti a un giudice diverso. Quando ciò accade si verifica il fenomeno della TRANSLATIO IUDICII
transgiurisdizionale.
= ipotesi in cui un giudice, con sentenza, declini la propria la propria giurisdizione affermando la sussistenza
di quella di altro giudice e il giudizio prosegua innanzi a quest’ultimo, con salvezza degli effetti sostanziali e
processuali collegati alla domanda originariamente proposta.

Questo meccanismo è disciplinato dall’art. 59 l. 69/2009 e dall’art. 11 CPA:


- Art. 11 comma 1 CPA: il G.A., quando declina la propria giurisdizione deve indicare, se esistente, il
giudice nazionale che ne è fornito.
- Comma 2: laddove la giurisdizione è declinata dal G.A. in favore di altro giudice o viceversa, la
domanda giudiziaria, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, conserva i suoi

135
effetti sostanziali e processuali se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella
pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine perentorio di 3 mesi dal suo passaggio in
giudicato. Quando poi il giudizio è tempestivamente riproposto innanzi al G.A., questi può
sollevare il conflitto di giurisdizione, anche d’ufficio, alla prima udienza.
- Comma 4: prende in considerazione l’ipotesi in cui una controversia introdotta davanti a un altro
giudice, le SSUU, investite della questione di giurisdizione, attribuiscano quest’ultima al G.A. Anche
in tal caso, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti
processuali e sostanziali della domanda, se il giudizio è riproposto dalla parte che vi ha interesse
nel termine di 3 mesi dalla pubblicazione della decisione delle SSUU.
- Può accadere, inoltre, che l’errata individuazione del giudice adito si accompagni all’errata
individuazione della SGS tutelata e, quindi, sui termini per esercitare l’azione. In tal caso, il comma
5 prevede la possibilità per il giudice, nel giudizio riproposto, di concedere la rimessione in termini
per errore scusabile rispetto alle preclusioni e alle decadenze intervenute.
- Relativamente alle misure cautelari, queste perdono efficacia 30 gg dopo la pubblicazione del
provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti però,
possono riproporre le domande cautelari al giudice munito di giurisdizione (comma 7).
- Infine, se il giudizio viene riproposto innanzi al G.A. le prove raccolte dinanzi al giudice sprovvisto di
giurisdizione possono essere valutate come elementi di prova.

Il CPA non si pronuncia sulla problematica della possibilità, in caso di translatio iudicii, di mutamento della
domanda giudiziale (quando la declinatoria della giurisdizione concerna una domanda di accertamento o di
condanna proposta davanti al G.O., e una domanda di accertamento o condanna non sia proponibile in via
autonoma nel processo amministrativo; quando la declinatoria concerna una domanda costitutiva proposta
dinanzi al G.A. e ad essere ammessa nel giudizio civile sia solo una domanda di accertamento o di
condanna).
→ Pur non avendo disposto alcunché, sembra che per aver impiegato lo strumento della
riproposizione del giudizio, abbia inteso sancire che ciò che trasmigra è l’oggetto del giudizio, cioè
la domanda di protezione della SGS (o domanda di giustizia in senso sostanziale, non la domanda
originariamente proposta in quanto identificata da uno specifico petitum formale).

L’art. 11 CPA stabilisce che il giudice indicato come giurisdizionalmente competente dal diverso giudice che
abbia declinato la competenza giurisdizionale del plesso cui appartiene, non è vincolato dall’indicazione da
questo fornita, potendo giungere anch’esso alla declinatoria della propria competenza. → Caso di doppia
declinatoria!!
La legge processuale consente che il giudice indicato come giurisdizionalmente competente nella sentenza
declinatoria di un diverso giudice, e che ritenga di dover dubitare della propria competenza, deve sollevare
d’ufficio la QUESTIONE DI GIURISDIZIONE denunciando alle SS.UU. il conflitto (negativo) di giurisdizione. Ciò
è possibile solo fino alla prima udienza.

TRANSLATIO IUDICII
Prima della L.69/2009 e del CPA vigeva una prassi non codificata per cui qualora il giudice adito
dichiarasse, con sentenza, il difetto della propria giurisdizione a favore di un giudice appartenente ad
un diverso ordine giurisdizionale ALLORA il giudizio andava riproposto avanti al giudice indicato come
competente nella sentenza, ex novo (c.d. incomunicabilità tra giudici appartenenti ad ordini
giurisdizionali diversi). Tale prassi era fortemente svantaggiosa per il ricorrente che agiva in giudizio,
nonché lesiva del diritto di azione di cui all’art. 24 COST. e fu così che la Corte Costituzionale (su spinta
della Corte di Cassazione e della Consulta, che già avevano censurato la legge sul punto) con sentenza
77/2007 dichiarò incostituzionale l’art. 30 L.TAR., oggi trasfuso nell’art.9CPA, nella parte in cui non
prevedeva che gli effetti sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta al giudice privo
di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito
davanti al giudice munito di giurisdizione. Tale pronuncia ha avuto l’effetto di introdurre, anche nel
sistema di giustizia amministrativa, il principio della TRANSLATIO IUDICII e di renderlo operativo al di
fuori del settore giurisdizionale ordinario!
Con la legge 69/2009 è stato codificato tale importante obiettivo giurisprudenziale, condensato
nell’art. 59. E così esteso a tutte le ipotesi in cui un giudice, in materia civile, amministrativa,
contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiari il proprio difetto di giurisdizione; in questa evenienza

136
il giudice de quo dovrà indicare il giudice effettivamente competente avanti al quale riassumere la
controversia.
Sul punto è intervenuto anche l’art. 11 CPA, statuendo che qualora intervenga pronuncia declinatoria
di giurisdizione del giudice adito, in favore di altro giudice, ferme restando le preclusioni e le
decadenze intervenute, SE il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che
declina la giurisdizione entro il termine perentorio di 3 mesi dal suo passaggio in giudicato.

B. REGOLAMENTO PREVENTIVO DI GIURISDIZIONE


Tra i sistemi di verifica della giurisdizione nel corso del giudizio, l’ordinamento contempla il ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione, la cui disciplina è quella dell’art. 41 c.p.c., richiamato dall’art. 10
CPA.
→ In forza di tale rimando, nei giudizi innanzi ai TAR è possibile chiedere alle SSUU della Cassazione di
risolvere, con efficacia vincolante per tutti gli altri giudici, le questioni di giurisdizione, ossia di verificare, nel
caso concreto, la sussistenza della giurisdizione e di individuare l’autorità giudiziaria deputata a
pronunciarsi.

Ratio: conseguire rapidamente, per saltum, una definitiva pronuncia sulla giurisdizione da parte dell’organo
che, istituzionalmente, si occupa di regolare tali questioni, ossia le SSUU. Esso non è un mezzo di
impugnazione, in quanto implica propriamente l’inesistenza di una pronuncia sul merito: infatti, ai sensi
dell’art. 41 c.p.c., il regolamento è esperibile finchè la causa non sia decisa nel merito.

L’art. 41 distingue due ipotesi, a seconda che la p.a. sia o meno parte in causa:
- Se la p.a. è parte in causa: può presentare, come qualsiasi altro soggetto, può presentare istanza
alle SSUU della Cassazione, affinché risolvano la questione di giurisdizione;
- Se la p.a. non è parte in causa, ma solo interessata a un giudizio che si svolge tra altri soggetti: può
chiedere alle SSUU, in ogni stato e grado del giudizio, finchè la giurisdizione non sia stata affermata
con sentenza passata in giudicato, che sia dichiarato il difetto di giurisdizione del G.O., essendo il
sindacato rimesso ai poteri dell’autorità amministrativa.

La proposizione del ricorso non determina la sospensione automatica del giudizio radicato davanti al
giudice della cui competenza si dubiti, producendosi solo ove questo ritenga che la questione di
giurisdizione non sia manifestamente inammissibile o infondata (art. 367 c.p.c.).

Allorché il giudizio amministrativo sia sospeso, il giudice potrà esercitare i poteri cautelari che
ordinariamente gli competono, ma solo ove ritenga di essere competente (art. 10 comma 2 CPA).

L’art. 362 comma 2 c.p.c. ammette la possibilità di risolvere in ogni tempo i conflitti attraverso la
proposizione del ricorso in cassazione delle sentenze tra loro confliggenti.
La contestazione può avere ad oggetto:
- conflitti (positivi o negativi) di giurisdizione tra giudici speciali o tra questi e i giudici ordinari;
- conflitti negativi di attribuzione tra amministrazione e G.O.

La giurisprudenza ha precisato che la norma sottrae la proponibilità del rimedio ai limiti temporali fissati
per le impugnazioni e, di conseguenza, ammette la proposizione del ricorso anche nel caso in cui una delle
due decisioni sia passata in cosa giudicata formale.
Ciò è logico: il conflitto tra pronunce giurisdizionali integra una grave incisione al principio di certezza delle
situazioni giuridiche, e l’ordinamento deve prevedere strumenti idonei a eliminarlo.
Perché si profili un conflitto è necessario che le pronunce tra loro in contrasto abbiano deciso una
controversia identica (identità va valutata sulla base del titolo della pretesa azionata, non sulla base del
petitum formale che può anche essere diverso).

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SOSPENSIONE DEL PROCESSO

Durante lo svolgimento dell’iter processuale si possono verificare atti o fatti di carattere accidentali, che
costituiscono una deviazione rispetto al corso ordinario del giudizio: cd. QUESTIONI INCIDENTALI o
INCIDENTI del processo. Essi si distinguono in due gruppi:
1) incidenti che non sospendono il giudizio: ricorso incidentale, intervento in causa, riunione dei
ricorsi, misure cautelari, domanda di ricusazione del giudice.
2) incidenti che sospendono il giudizio: determinano un temporaneo arresto nello svolgimento del
processo, che prende il nome di SOSPENSIONE.

La sospensione:
- attiene all’ufficio del giudice e non alla posizione delle parti;
- ha carattere volontario;
- deve essere disposta dal giudice.

- propria: pende davanti al giudice altra causa la cui decisione è pregiudiziale rispetto alla causa
incardinata innanzi al G.A. (es. sospensione facoltativa per pregiudizialità civile);
- impropria: nel processo amministrativo si svolge una fase affidata alla cognizione di altro giudice
(es. regolamento preventivo di giurisdizione, regolamento di competenza, questione di legittimità
costituzionale, questione di interpretazione di norme comunitarie…).

→ Art. 79 comma 1 CPA: La sospensione del processo è disciplinata dal c.p.c., dalle altre leggi e dal diritto
dell’UE”.

- QUESTIONI PREGIUDIZIALI: talora l’emersione di un contrasto sulla questione pregiudiziale non


determina la sospensione del processo, poiché al giudice della questione principale è consentito
risolvere incidenter tantum, e quindi senza forza di giudicato, anche la questione pregiudiziale.
Ciò avviene nel processo amministrativo con riguardo alle pregiudiziali civili: l’art. 8 CPA prevede
che il G.A., nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva, possa conoscere, senza efficacia di
giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia
necessaria per pronunciare sulla questione principale.
Nei rapporti tra giudizi amministrativi si è invece sempre ritenuto applicabile l’art. 295 c.p.c. il
quale, per evitare un contrasto tra giudicati, rimette la sospensione alla discrezionalità del giudice
in ogni caso i cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia civile o amministrativa,
dalla cui definizione dipende la decisione della causa.
È comunemente esclusa, nel processo amministrativo, la sospensione su istanza di parte ex art.
296 c.p.c.
Quanto all’ipotesi in cui penda procedimento penale connesso al giudizio incardinato davanti al
G.A., si esclude la sospensione di quest’ultimo alla luce del principio di separazione dei processi
dell’art. 2 comma 3 c.p.p.: tale norma disconosce efficacia vincolante in altri processo alle decisioni
del giudice penale che risolvano incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale.

luogo nel termine perentorio di 6 mesi dalla conoscenza della cessazione della causa di
sospensione.

Sussistono altre ipotesi nelle quali la sospensione è inevitabile, posto che la legge preclude al
giudice della questione principale di conoscere anche di quella incidentale, rimettendo
quest’ultima alla cognizione di altro giudice. Il G.A. non può conoscere:
o legittimità di atti amministrativi inoppugnabili
o questioni di legittimità costituzionale delle leggi e questioni di interpretazione di norme
comunitarie
o questioni pregiudiziali di stato e capacità delle parti, questioni di falso -> riservate al G.O.
dal TU Consiglio di Stato

138
La falsità non può essere conosciuta dal G.A., ma deve essere dedotta di fronte al G.O. con l’apposito
strumento della querela di falso. Si è in presenza di una causa anch’essa pregiudiziale, in quanto la
questione stessa, pur mantenendo la propria funzione di antecedente, forma oggetto di un
autonomo giudizio.
In entrambi i casi il G.A. sospende il processo in attesa che si pronunci il G.O. (art. 77
comma 4 CPA). Emerge tuttavia la sussistenza di un rilevante ambito valutativo riservato al
G.A., concernente la verifica che la contestazione possa essere decisa indipendentemente
dal documento del quale è dedotta la falsità. Ove tale verifica dia esito positivo, il collegio
pronuncia senz’altro sulla controversia.
Al termine del giudizio di falso, la parte interessata a far valere la falsità del documento
deve depositare la relativa sentenza presso la segreteria del G.A. Il ricorso è dichiarato
estinto se nessuna parte deposita nel termine di 90 gg dal passaggio in giudicato.

Fintanto che permanga la causa di sospensione trova applicazione l’art. 298 c.p.c., secondo cui non possono
essere compiuti atti del procedimento e rimangono interrotti i termini in corso.
Quando sia cessata la causa di sospensione, il giudizio amministrativo sospeso può essere riassunto
mediante presentazione della domanda di fissazione di udienza, entro 90 gg dalla comunicazione dell’atto
che fa venir meno la causa della sospensione (art. 80 comma 1 CPA).

INTERRUZIONE DEL PROCESSO


= Situazione di stasi del processo a seguito di eventi involontari menomativi o esclusivi della capacità di
stare in giudizio della parte, del suo rappresentante legale o del suo procuratore.
Finalità dell’istituto è assicurare il pieno dispiegarsi del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti
davanti a eventi che potrebbero pregiudicarli.
L’art. 79 CPA assoggetta l’istituto alle disposizioni del c.p.c.:

- Art. 299 c.p.c. – Morte o perdita della capacità prima della costituzione:
il processo è interrotto, salvo che coloro ai quali spetta proseguirlo si costituiscano
volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione, osservati i termini di cui
all’art. 163-bis.

- Art. 300 c.p.c. – Morte o perdita della capacità della parte costituita o del contumace:
quando alcuno degli eventi di cui sopra si avvera nei riguardi della parte che si è costituita a mezzo
di procuratore, questo lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti. Dal momento di tale
dichiarazione o notificazione il processo è interrotto, salvo che avvenga la costituzione volontaria o
la riassunzione a norma dell’art. precedente.
Si regola inoltre il dies a quo dell’interruzione:
o se la parte è costituita personalmente: il processo è interrotto dal momento dell’evento;
o se l’evento riguarda la parte dichiarata contumace: il processo è interrotto dal momento in
cui il fatto interruttivo è notificato o è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di
notificazione di uno dei provvedimenti di cui all’art. 292 c.p.c.
o se alcuno degli eventi si avvera o è notificato dopo la chiusura della discussione davanti al
collegio: non produce effetto se non nel caso di riapertura dell’istruzione.

Queste previsioni sono state estese anche al soggetto dichiarato fallito dopo la sua costituzione in
giudizio.

In sintesi:
a) SE LA PARTE È COSTITUITA IN GIUDIZIO: la dichiarazione relativa all’evento interruttivo
deve provenire dal suo procuratore con formale dichiarazione in udienza o con atto
notificato alle altre parti. Dal momento in cui questi incombenti sono adempiuti inizia a
decorrere il termine di 6 mesi per la riassunzione del processo.
Questa regola non vale per l’interveniente il quale, non essendo parte necessaria, non ha
titolo per chiedere l’interruzione del processo, di cui non ha la disponibilità. Fa poi

139
eccezione l’ipotesi del fallimento: il termine semestrale inizia a decorrere, per il ricorrente,
dalla dichiarazione di fallimento.

b) SE LA PARTE NON È ANCORA COSTITUITA: l’evento provoca ipso iure l’interruzione, salva
successiva presa di conoscenza da parte del G.A.
Dottrina: teme l’effetto distorsivo o paralizzante che potrebbe derivare dall’elevato numero di
controinteressati che caratterizza alcuni processi davanti al G.A. Il problema potrebbe peraltro
superarsi assumendo l’irrilevanza degli eventi interrottivi che colpiscano la parte non costituita una
volta decorso il termine previsto dall’art. 46 comma 1 per la costituzione in giudizio.

Con riferimento alla parte pubblica: è frequente che si verifichi una successione tra enti o un trasferimento di
competenza da un’amministrazione a un’altra (assimilabili alla morte di una persona fisica). Nella disciplina
previgente si escludeva la sospensione del processo ammettendo l’ente subentrante a intervenire. Oggi deve
ritenersi che sia praticabile questa soluzione, facendo leva sulle norme relative all’intervento.

- Art. 301 – Morte o impedimento del procuratore:


laddove, in pendenza di giudizio, sopravvenga la morte, radiazione o sospensione del patrocinatore,
il processo è interrotto dal giorno dell’evento.

interessata può eccepire lo stato viziante nella prima udienza o difesa successiva all’atto o notizia
dell’evento interruttivo.
Non costituiscono cause di interruzione la revoca della procura e la rinuncia alla stessa, nel
presupposto che si tratti di eventi volontari e conosciuti dalla parte, alla quale si fa onere di attivarsi
perché sia posto rimedio senza intralcio per il normale corso del giudizio.

Art. 80 comma 2 CPA prevede che il processo interrotto prosegua se la parte nei cui confronti si è verificato
l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione dell’udienza.
All’eventuale omissione di tale parte può supplire la parte più diligente mediante la riassunzione, cioè
notificando apposito atto a tutte le altre parti nel termine perentorio di 90 gg dalla conoscenza legale
dell’evento interruttivo.
Orientamento dell’AP Consiglio di Stato: pur difettando l’atto di riassunzione, il giudizio interrotto a causa
della morte di un difensore non si estinguerebbe qualora la parte colpita dall’evento lo prosegua
tempestivamente mediante il deposito della procura al nuovo difensore prima dell’udienza di discussione
già fissata in precedenza.
L’estinzione del giudizio per mancata riassunzione può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 80 CPA).
Si deve ritenere che queste disposizioni circa l’interruzione del processo di primo grado operino anche nel
giudizio d’appello.

ESTINZIONE DEL PROCESSO


Il processo amministrativo si conclude, di regola, con la sentenza che definisce la controversia nel merito,
ovvero per ragioni attinenti al rito.
Può accadere tuttavia che il procedimento esaurisca la sua portata PRIMA della sua fine naturale, per il
verificarsi di alcune circostanze preclusive alla prosecuzione del rapporto processuale:
- viene meno l’impulso processuale di parte;
- viene meno la stessa volontà della parte di proseguire nel giudizio;
- casi che rendono non utile la prosecuzione del giudizio (per il sopravvenire di circostanze di fatto o
di nuovi atti dell’amministrazione)

In questi casi il rapporto processuale si estingue in quanto non più necessario. L’estinzione opera di diritto o
ad istanza di parte, ma richiede sempre una pronuncia del G.A. che ne dia atto.
1) RINUNCIA AL RICORSO -> rinunzia agli atti del giudizio è disciplinata all’art. 84 CPA, secondo cui la
parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante DICHIARAZIONE

140
da essa sottoscritta, o dall’avvocato munito di mandato speciale, e depositata presso la segreteria.
La rinuncia può essere effettuata anche mediante dichiarazione resa in udienza dall’avvocato.
La rinuncia è ATTO DI PARTE, UNILATERALE e RECETTIZIO e va notificata alle altre parti almeno 10
giorni prima dell’udienza.
Il processo si estingue solo se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongano.
Anche se il codice tace sul punto, si deve ritenere che, anche a seguito di rinuncia ritualmente
notificata, depositata e non opposta dalle altre parti, il giudizio si estingua solo dopo l apresa d’atto
da parte del giudice.
La rinuncia può essere dichiarata anche per un ricorso in appello: in questo caso, con la sentenza
che ne dà atto si produce l’effetto del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

2) PERENZIONE DEL RICORSO -> determina l’estinzione del processo, ipso iure, per mancanza di
impulso processuale di parte.
- ex art. 81 CPA: il ricorso si considera perento se nel corso di un anno (prima due anni) non
sia compiuto alcun atto di procedura. Il termine non decorre dalla presentazione
dell’istanza di fissazione dell’udienza e finchè non si sia provveduto su di essa.

Una volta proposta tempestivamente l’istanza di fissazione nel termine di un anno dal deposito del
ricorso, la parte non ha l’onere processuale della riproposizione dell’istanza entro l’anno successivo.
L’onere, in capo alla parte interessata, del compimento di atti processuali per evitare la perenzione
trova applicazione solo nei casi in cui l’istanza di fissazione dell’udienza abbia, per qualche ragione,
esaurito i suoi effetti e non sussista alcun ulteriore onere processuale in capo al giudice (es.
cancellazione causa dal ruolo). In questi casi il termine annuale per la presentazione della nuova
istanza di fissazione di udienza decorre dalla data in cui sono state comunicate alla parte la
cancellazione della causa dal ruolo.
L’estinzione del processo opera di diritto e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.

- ex art. 82 CPA: disciplina particolare della perenzione per i ricorsi ultra quinquennali.
Si prevede che, dopo il decorso di 5 anni dalla data di deposito del ricorso, la segreteria
comunica alle parti costituite apposito avviso in virtù del quale si fa onere al ricorrente di
presentare una nuova istanza di fissazione di udienza entro 180 gg dalla data di ricezione
dell’avviso. In mancanza il ricorso è dichiarato perento.
Il ricorso è parimenti dichiarato perento dal presidente del collegio con decreto se, in
assenza dell’avviso di cui si è appena detto, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione
dell’udienza di discussione nel merito e il ricorrente non dichiari, anche in udienza, di avere
interesse alla decisione.

Questo istituto costituisce un meccanismo per verificare se, a distanza di anni dalla presentazione
del ricorso, permanga un interesse alla prosecuzione del giudizio da parte del ricorrente ovvero se
la parte non intenda più coltivare tale iniziativa giurisdizionale. Per questo motivo il legislatore ha
richiesto che l’istanza di fissazione dell’udienza fosse atto di parte e non solo del suo difensore.

3) MANCATA RIASSUNZIONE (o PROSECUZIONE) del PROCESSO


- mancata riassunzione del processo dopo evento interruttivo;
- mancata prosecuzione del processo dopo evento sospensivo.
Ai sensi dell’art. 79 CPA, la sospensione del processo è disciplinata dal c.p.c., leggi e diritto dell’UE;
mentre l’estinzione è regolata dal c.p.c.
Art. 80 CPA: il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento
interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza. Se non avviene tale prosecuzione, il
processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con apposito atto notificato a tutte
le altre parti, nel termine perentorio di 90 gg dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo,
acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione.
Per la sospensione del processo bisogna prendere in considerazione l’art. 297 c.p.c.:

141
o nei casi di sospensione necessaria del processo (ex art. 295 c.p.c.), se con il provvedimento
di sospensione non è stata fissata udienza in cui il processo deve proseguire, allora le parti
devono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di 6 MESI dalla data di
cessazione della causa di sospensione di cui all’art. 3 c.p.p. o dal passaggio in giudicato della
sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa.
o Nei casi di sospensione facoltativa (ex art. 294 c.p.c.) l’istanza deve essere proposta 10 gg
prima della scadenza del termine di sospensione.

proseguito o riassunto nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice.

4) CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE -> si ha quando vi è sopravvenienza di circostanze


di fatto nuove che rendono non più necessaria la prosecuzione del giudizio.
- Casi in cui l’amministrazione, in pendenza di giudizio, annulli o riformi in maniera
satisfattoria per il ricorrente il provvedimento contro cui è stato proposto ricorso. Ai sensi
dell’art. 34 comma 5 CPA il giudice dichiara cessata la materia del contendere.
- Ritiro del provvedimento impugnato (o il suo annullamento) disposto da Amministrazione o
autorità diversa da quella che lo aveva emanato, ovvero a seguito di pronuncia
giurisdizionale di altro giudice -> Il ritiro dovrà essere completamente satisfattivo della
domanda di tutela del ricorrente (non se l’atto di revoca ha effetto ex nunc, in quanto
lascia impregiudicati gli effetti lesivi medio tempore prodottisi e di cui il ricorrente si duole;
non l’annullamento parziale dell’atto, ovvero un atto di ritiro che sostituisca il
provvedimento impugnato con altro sostanzialmente confermativo di quello ritirato).
- Allorché il ricorso sia avverso il silenzio dell’amministrazione ai sensi dell’art. 31 CPA: il
provvedimento sopravvenuto di rigetto dell’istanza che il ricorrente aveva in un primo
tempo avanzato all’Amministrazione non determina la cessazione della materia del
contendere, perché non ha contenuto satisfattivo.
- Nel caso di ricorso avente ad oggetto pretese patrimoniali (anche di tipo risarcitorio), la
cessazione della materia del contendere si verifica con la corresponsione di tutte le somme
richieste (comprensive degli interessi e rivalutazione monetaria).

5) CARENZA SOPRAVVENUTA DI INTERESSE del ricorrente -> emergere di circostanze di fatto e di


diritto che rendano non utile la prosecuzione del giudizio medesimo.
Bisogna tenere diversa questa figura da quella della della cessazione della materia del contendere:
in questo caso difatti, si realizza una situazione di fatto incompatibile con la permanenza
dell’interesse al ricorso. Molti studiosi rilevano la totale compatibilità di questa figura con quella
della cessazione, ritenendo controproducente la loro ‘separazione’.
Tuttavia la distinzione è rimasta ferma nel nuovo impianto del CPA, il cui art. 84 comma 4 dispone
che il giudice, anche a prescindere da rinuncia di parte, può desumere dall’intervento di fatti o atti
univoci dopo la proposizione del ricorso, nonché dal comportamento delle parti, argomenti di prova
della sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa.
Del resto anche l’art. 35 comma 1 lett. c) CPA dispone che il giudice dichiara, anche d’ufficio,
improcedibile il ricorso quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti
alla decisione.

FORMA E RITO PER ESTINZIONE ED IMPROCEDIBILITA’:


- Art. 85 CPA: l’estinzione e l’improcedibilità possono essere pronunciate con DECRETO (emesso dal
presidente o da un magistrato delegato), depositato in segreteria, che ne dà comunicazione alle
parti.
Ogni parte può proporre opposizione al decreto avanti al collegio, nel termine di 60 giorni dalla
comunicazione mediante atto notificato a tutte le parti.

142
Il giudizio che ne segue si svolge ai sensi dell’art. 87 comma 3 (camera di consiglio, dimidiazione dei
termini), ed è deciso con ordinanza che, in caso di accoglimento dell’opposizione, fissa l’udienza di
merito. In caso di rigetto le spese sono poste a carico dell’opponente e vengono liquidate dal
collegio nella stessa ordinanza (depositata in segreteria, che ne dà comunicazione alle parti
costituite).
Contro tale ordinanza può essere proposto appello, che procede secondo le regole ordinarie.
- L’estinzione e l’improcedibilità sono dichiarate con SENTENZA se si verificano o vengono accertate
all’udienza di discussione.

I RITI COMPATTI
IL RITO IMMEDIATO
Art. 74 CPA: nel caso in cui ravvisi la manifesta infondatezza ovvero la manifesta irricevibilità,
inammissiblità o infondatezza del ricorso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata. La
motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto
risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.

- L’obiettivo di velocizzazione la definizione del processo di realizza nella semplificazione di un


elemento formale della sentenza, ossia della motivazione – deve consistere in un sintetico
riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero ad un precedente conforme. La
motivazione non può essere in nessun caso apodittica o inadeguata, ma deve essere sempre
giustificata sulla base di un discorso esaustivo e comprensibile.
Questo principio è particolarmente importante ai fini di un’interpretazione della norma secondo
Costituzione. In realtà i casi in cui il ricorso appaia “manifestamente” irricevibile, inammissibile,
improcedibile, fondato o infondato sono pochi.
o manifesta tardività della notificazione: prova evidente che il termine di decadenza sia
inutilmente decorso;
o manifesta inammissibilità: nelle rare ipotesi in cui non sia stato notificato
all’amministrazione resistente o ad almeno uno degli eventuali controinteressati;
o manifesta fondatezza del ricorso: è necessario che la motivazione dia adeguatamente conto
della ragione, di fatto o di diritto, idonea a risolvere la controversia, non semplicemente a
provocare l’annullamento dell’atto impugnato.
o manifesta infondatezza: la condizione del ricorso deve risultare prima facie, non deve
comportare l’esame di problematiche complesse (in assenza di tali presupposti la sentenza
può essere impugnata per error in procedendo). Anche in questo caso il riferimento al
punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo dev’essere esternato con precisione (es.
identificazione dei mezzi di prova acquisiti al processo idonei a smentire l’affermazione del
ricorrente deve essere rigoroso).

Art. 60 CPA prevede che: in sede di decisione della domanda cautelare, purchè siano trascorsi almeno 20 gg
dall’ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza del contraddittorio e
dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con
sentenza in forma semplificata.
- la decisione è assunta a seguito di concentrazione della fase cautelare con quella di merito,
consentendo al giudice di definire il giudizio in camera di consiglio e non all’esito dell’udienza
pubblica.
- La completezza del contraddittorio è essenziale: il giudice è onerato di una sorta di obbligo di
salvataggio nei confronti delle parti che, ritualmente intimate, non abbiano perfezionato la
costituzione nel termine assegnato dalla legge, o non siano comparse alla camera di consiglio.

143
Il giudice non può peraltro definire il giudizio con sentenza in forma semplificata qualora una delle
parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di
competenza, ovvero regolamento di giurisdizione -> assegna un termine non superiore a 30 gg.
Accertata la ricorrenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di difesa, il giudice deve disporre
l’integrazione del contraddittorio o il rinvio per consentire la proposizione di motivi aggiunti,
ricorso incidentale, regolamento di competenza o giurisdizione e fissare contestualmente la data
per il prosieguo della trattazione.

IL RITO ABBREVIATO
Prevede la riduzione dei termini processuali della metà.
Art. 119 comma 2 CPA: tutti i termini processuali sono dimezzati ad eccezione, nei soli giudizi di primo
grado, di quello per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti.
Non sono neppure dimezzati i termini per la proposizione dell’appello contro le ordinanze cautelari, da
proporre nel termine di 30 gg dalla notificazione dell’ordinanza, ovvero di 60 gg dalla sua pubblicazione.

- il CPA ha fatto proprio l’orientamento dell’AP Consiglio di Stato, secondo cui l’abbreviazione dei
termini costituisce essa stessa eccezione all’ordinaria durata dei termini processuali. Pertanto,
quella che appare un’eccezione al dimezzamento, prevista per il termine di proposizione del
ricorso introduttivo, costituisce in realtà una riaffermazione delle regole generali. La ratio alla base
della scelta normativa di non estendere il dimezzamento al termine di notifica dell’atto
introduttivo del giudizio riposa nell’esigenza di garantire il diritto di difesa, che sarebbe risultato
eccessivamente compresso per abbreviazione del termine.
Le eccezioni al dimezzamento dei termini sono tassative. La deroga al dimezzamento riguarda solo
il termine per la notificazione del ricorso, sicchè deve ritenersi dimezzato il termine per il deposito
del gravame.
- La dottrina ha ritenuto che la ratio degli istituti acceleratori previsti dall’art. 119 sta nell’esigenza di
evitare che l’azione amministrativa, in alcuni settori, si protragga troppo a lungo, o che la durata
dei processi possa recare pregiudizio agli interessi pubblici perseguiti dai provvedimenti impugnati.
- La norma si applica a processi cd. impugnatori poiché l’elencazione contenuta al comma 1
menziona sempre “procedure” e “provvedimenti”, assunti nei vari settori individuati dalla norma.
Non è quindi un’individuazione per materia.

Ambito oggettivo di applicazione del rito abbreviato:


a)Giudizi sui provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, ad eccezione
di quelli, di cui all’art. 120 comma 1 (cui si applica il rito accelerato), aventi ad oggetto gli atti delle procedure di
affidamento;
b)Provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti;
c)Provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli
relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni da parte degli enti locali.
Il legislatore allude sia alle fattispecie di alienazione di beni sia a quelle che vengono indicate come operazioni di
privatizzazione (che a loro volta consistono in dismissioni o alienazioni di partecipazioni azionarie dello Stato e degli
enti pubblici in società).
Il rito differenziato si applica inoltre ai provvedimenti di costituzione, modificazione e soppressione di soggetti
gestori di servizi pubblici locali.
c-bis) Giudizi sui provvedimenti adottati nell’esercizio dei poteri speciali inerenti alle attività di rilevanza strategica nei
settori della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni.
d)Provvedimenti di nomina, adottati previa delibera del Consiglio dei ministri.
e)Provvedimenti di scioglimento di enti locali e quelli connessi concernenti la formazione e il funzionamento degli
organi.
f)Provvedimenti relativi alle procedure di occupazione e espropriazione delle aree destinate all’esecuzione di opere
pubbliche o di pubblica utilità e provvedimenti di espropriazione delle invenzioni adottati ai sensi del codice della
proprietà industriale.
g)Giudizi avverso i provvedimenti del CONI o delle Federazioni sportive.
h)Ordinanze emergenziali

144
i)Controversie relative al rapporto di lavoro del personale dei servizi di informazione per la sicurezza
l)Controversie attinenti alle procedure e ai provvedimenti della p.a. in materia di impianti di generazione di energia
elettrica
m)Controversie sui provvedimenti della commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di
protezione, recanti applicazione, modificazione e revoca delle speciali misure di protezione nei confronti dei
collaboratori e testimoni di giustizia.
m-bis) Controversie aventi per oggetto i provvedimenti dell’Agenzia nazionale di regolamentazione del settore postale.
m-quater) Azioni individuali e collettive avverso le discriminazioni di genere in ambito lavorativo, allorchè esse
appartengano alla giurisdizione del GA.

Disciplina positiva del rito abbreviato:


Se non sussistono i presupposti per la definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare, il TAR chiamato
a pronunciare sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero disposta
l’integrazione dello stesso, se ritiene, ad un primo sommario esame, la sussistenza di profili di fondatezza
del ricorso e di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione del merito alla
prima udienza successiva alla scadenza del termine di 30 gg dalla data di deposito dell’ordinanza,
disponendo altresì il deposito dei documenti necessari e l’acquisizione delle eventuali altre prove
occorrenti.
Se l’istanza cautelare viene rigettata, ed il Consiglio di Stato la riformi in appello, l’ordinanza del Consiglio di
Stato è trasmessa al TAR per la fissazione dell’udienza di merito. In tale ipotesi il termine di 30 gg decorre
dalla data di ricevimento dell’ordinanza da parte della segreteria del TAR che ne dà avviso alle parti.

- Nel rito abbreviato quindi la delibazione sommaria sulla sussistenza dei presupposti del fumus boni
iuris e del periculum in mora costituisce condizione non per l’accoglimento dell’istanza cautelare
ma per la fissazione dell’udienza di merito decorsi 30 gg dal deposito dell’ordinanza. La delibazione
su questi presupposti è obbligatoria è dev’essere formalizzata con ordinanza.
L’ordinanza non ha natura decisoria. Spesso però l’ordinanza è stata impiegata esclusivamente
quale strumento per addivenire a una più celere fissazione dell’udienza di merito, impregiudicata
ogni valutazione del collegio sul grado di fondatezza del ricorso. L’ordinanza è quindi una
pronuncia ordinatoria litis, poiché si limita a concentrare la decisione cautelare in quella di merito
e, quindi, all’atto della sua adozione, non produce alcuna modificazione giuridica della situazione in
atto.
Questa ordinanza non può ritenersi appellabile davanti al Consiglio di Stato. Nulla esclude che il
risultato della delibazione sommaria che aveva condotto all’adozione dell’ordinanza di fissazione
del merito non possa essere sovvertito, anche alla luce delle difese prodotte dalle parti.

Differenza tra rito ordinario e rito abbreviato:


- nell’ambito del primo il giudice deve decidere sull’istanza cautelare e, all’esito, il ricorso inizierà il
suo normale periodo di giacenza;
- con il giudizio abbreviato di regola non vi sarà decisione cautelare, ma il collegio fisserà
direttamente l’udienza di discussione. La decisione sull’istanza cautelare è solo eventuale, e
subordinata alla ricorrenza di casi di estrema gravità e urgenza.

Appellabili sono quindi:


- ordinanze di rigetto dell’istanza cautelare, ossia le decisioni che hanno ravvisato la non ricorrenza
dei presupposti per la fissazione dell’udienza di merito “a breve”;
- ordinanze che hanno accolto o negato la cautela ai sensi del comma 4, e che hanno quindi ritenuto
sussistente o insussistente il requisito dell’estrema gravità e urgenza.
- Art. 119 consente l’appello immediato avverso il dispositivo con riserva dei motivi, allo scopo di
chiedere al Consiglio di Stato la sospensione dell’esecutività del dispositivo.

IL RITO ACCELERATO

145
- Art. 120 CPA detta una disciplina speciale per l’impugnazione degli atti delle procedure di
affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di
attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture,
nonché dei connessi provvedimenti dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e fornitura.
- La disciplina va completata con le disposizioni introdotte dal d.lgs. 53/2010 nel Codice dei contratti
pubblici.

Art. 11 comma 10 ter del d.lgs. 163/2006: la proposizione del ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva, con
contestuale domande cautelare, impedisce la stipula del contratto a far data dalla notificazione dell’istanza cautelare
di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado, in caso di decisione del merito
all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti, se successiva.
Questo effetto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente o fissa con
ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvio al giudizio di merito l’esame
della domanda cautelare, con consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della
domanda cautelare.

- (!) Non si capisce quale possa essere il caso in cui il giudice fissi udienza di merito senza provvedere sulla
cautela. Art. 120 comma 8 CPA dispone che il giudice si pronunci interinalmente sull’istanza cautelare anche
se dispone istruttoria, concede termini a difesa o solleva d’ufficio o vengono proposti incidenti processuali, di
modo che sembrerebbe espressamente stabilito l’obbligo del giudice di pronunciarsi comunque, alla prima
udienza utile sull’udienza cautelare. L’unica ipotesi immaginabile è quella in cui la disponibilità della
decisione sull’istanza cautelare è rimessa in via esclusiva al ricorrente, il che accade allorché egli vi rinunci
espressamente (ma anche in questo caso non è detto che il giudice adotti un’ordinanza di fissazione del
merito!). Secondo il Consiglio di Stato, l’ordinanza di fissazione del merito a breve senza concedere la cautela
rappresenterebbe un accoglimento parziale della domanda cautelari ai soli fini della fissazione del merito,
con reiezione della richiesta di sospensione degli atti impugnati. Questo è poco convincente.
- (!) Rinvio della cautela al merito: codifica una prassi, spesso fonte di gravi abusi. La richiesta in tal senso, che
deve essere condivisa da tutte le parti costituite e presenti in udienza, è equiparata ex lege alla rinuncia
implicita all’immediato esame della domanda cautelare.

L’art. 6 del d.lgs. 53/2010 ha aggiunto al d.lgs. 163/2006 l’art. 243 bis: nelle materie contemplate dall’art. 120 CPA i
soggetti che intendono proporre un ricorso giurisdizionale devono informare le stazioni appaltanti della presunta
violazione e dell’intenzione di proporre un ricorso giurisdizionale.
La stazione appaltante, entro 15 gg dalla comunicazione, deve comunicare le proprie determinazioni in ordine ai
motivi indicati dall’interessato, stabilendo se intervenire o meno in autotutela. L’inerzia equivale a diniego di
autotutela. Il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all’atto cui si
riferisce, ovvero, se quest’ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti.
L’istituto sarebbe un potenziale strumento di deflazione del contenzioso, secondo il parere del Consiglio di Stato.

Art. 8 del d.lgs. 53/2010, come modificato dal CPA: esclusione della proponibilità del ricorso straordinario al Capo
dello Stato per tutti gli atti delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, compresi quelli relativi agli incarichi
di progettazione e di attività tecnico-amministrative connesse, e dei correlati provvedimenti dell’Autorità di vigilanza
sui contratti pubblici.
Il dies a quo per la proposizione del ricorso è quello successivo alla data di pubblicazione dell’avviso di aggiudicazione
(nel caso in cui la gara sia stata esperita senza previa pubblicazione del bando). Il termine è di 30 gg, a condizione che
l’avviso sia accompagnato dalla motivazione circa la scelta della mancata pubblicità. In caso di omissione di tale avviso,
il termine di decadenza è di 6 mesi, decorrente dal giorno successivo a quello di stipula del contratto.
Ove la controversia non sia definita con sentenza in forma semplificata in occasione della trattazione dell’istanza
cautelare, e ove il collegio non abbia fissato l’udienza di merito “a breve” ai sensi dell’art. 119 comma 3, è previsto che
l’udienza pubblica sia comunque fissata “con assoluta priorità”.
Il processo deve essere sempre definito con pubblicazione del dispositivo, da emettersi entro 7 gg dalla data della sua
deliberazione. Il dispositivo è impugnabile, ma al solo fine di chiederne la sospensione dell’esecutività prima della
pubblicazione della sentenza.
Il rito accelerato trova applicazione in tutti i giudizi di impugnazione, comprese la revocazione e l’opposizione di terzo.

146
Gli artt. 121 e ss. CPA hanno attribuito al G.A. la giurisdizione sulla sorte del contratto in esito all’annullamento
dell’aggiudicazione.
La privazione di effetti del contratto è possibile in relazione ad ogni tipo di vizio dell’aggiudicazione. Gli effetti
dell’annullamento dell’aggiudicazione sono rimessi alla scelta del giudice e i suoi presupposti variano in funzione della
tipologia e della gravità del vizio dell’aggiudicazione.
I casi contemplati dall’art. 121 CPA: a) affidamento diretto di un appalto senza previa pubblicazione del bando; b)
violazione dei termini sospensivi per la stipula del contratto che abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi
di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto, e abbia influito sulle opportunità del ricorrente di ottenere
l’affidamento. In tali casi la regola è l’inefficacia del contratto con decorrenza ex tunc / ex nunc: la decorrenza è decisa
dal giudice sulla base di una valutazione di opportunità.
Eccezione è contenuta all’art. 121 comma 2: il contratto resta efficace, anche in presenza delle gravi violazioni,
qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale imponga che i suoi
effetti siano mantenuti.
Dall’art. 121 quindi si desume in primo luogo che la declaratoria di inefficacia del contratto presuppone
l’annullamento dell’aggiudicazione: si introduce un rapporto di pregiudizialità necessaria.
- Il G.A. può rigettare la domanda di inefficacia del contratto, in presenza delle gravi violazioni, solo in
presenza di esigenze imperative connesse a un interesse generale (di cui la norma non dettaglia i contenuti).
Questo aumenta considerevolmente la discrezionalità del giudice, che è onerato di motivare rigorosamente
la decisione circa la sussistenza di circostanze tali da rendere evidente che le obbligazioni contrattuali
possono essere rispettate solo dall’esecutore originariamente e illegittimamente dichiarato aggiudicatario.
- Nei casi di annullamento per violazioni non gravi (art. 122), la discrezionalità del giudice è ancora maggiore e
va esercitata tenendo conto degli interessi delle parti. Occorre quindi condurre tale valutazione nel pieno
rispetto del giusto processo e della parità della parti.

Sanzioni alternative alla dichiarazione di inefficacia del contratto:


Art. 123 dispone che il giudice applica le sanzioni alternative in modo da assicurare il contraddittorio. Il potere di
applicazione delle sanzioni alternative è un potere officioso, prescindendo da una domanda di parte. Queste sanzioni
non hanno natura risarcitoria (tant’è vero che l’eventuale condanna si cumula alle stesse), ma afflittiva. Esse sono di
due tipi:
- di natura pecuniaria: di importo dallo 0,5% al 5% del valore del contratto (inteso come prezzo di
aggiudicazione);
- di natura reale: consistente nella riduzione della durata del contratto da un minimo del 10% a un massimo
del 50% della durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo.
Il giudice deve assicurare il contraddittorio e determinare la misura delle sanzioni in modo che esse siano effettive,
dissuasive, proporzionate al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera
svolta da essa per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.

Tutela in forma specifica e per equivalente:


Ai sensi dell’art. 124, la tutela reintegratoria è subordinata a due esplicite domande di parte:
1) quella volta a conseguire l’aggiudicazione;
2) quella volta ad ottenere la stipula del contratto. -> azione di condanna a un facere specifico
dell’amministrazione.
Questo esclude che il contratto già stipulato, e del quale si richiede la dichiarazione di inefficacia, vada impugnato alla
stessa stregua di quanto avviene per la tradizionale impugnazione del provvedimento conclusivo della procedura di
gara.
In caso di rigetto della domanda dei declaratoria di inefficacia, il risarcimento per equivalente è espressamente
subordinato alla prova del danno subito.

IL GIUDICATO
Per quanto riguarda la natura delle questioni con esse decise, le sentenze possono tradizionalmente
distinguersi in:

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Avendo riguardo all’efficacia propria delle sentenze, si distingue in:
- EFFICACIA ENDOPROCESSUALE: effetto o insieme di effetti che si esauriscono nell’ambito del processo nel
quale una sentenza viene pronunciata. -> è propria delle sentenze di rito.
- EFFICACIA EXTRAPROCESSUALE, effetto o insieme di effetti che si producono al di fuori del processo e
specificatamente nella realtà materiale. -> è propria delle sentenze di merito.

L’efficacia dipende dall’oggetto dell’accertamento trasfuso in sentenza.


Le sentenze interlocutorie, in quanto provvedono solo sul processo, hanno efficacia
endoprocessuale. Qualora il processo si estingua, le pronunce divengono inefficaci (art. 310 c.p.c.).
Le sentenze non definitive, avranno efficacia extra o endo processuale, a seconda dell’oggetto
dell’accertamento in esse trasfuso (quindi della loro natura di sentenze di merito o di rito).
- Una sentenza non definitiva che decide nel merito una di più domande cumulate, o che
decide parzialmente nel merito la domanda, non si differenzia in nulla dalla sentenza che
definisca nel merito il processo del quale quella domanda costituisca l’unico oggetto.
Per quanto riguarda una sentenza non definitiva che decide, respingendola, un’eccezione
della parte resistente, bisogna considerare la natura dell’eccezione e quindi l’oggetto
dell’accertamento giudiziale espresso dalla sentenza che la respinge:
a) sentenza non definitiva di rigetto di un’eccezione: potrà produrre effetti
extraprocessuali ove importi la risoluzione di questioni che attengono al diritto
sostanziale;
b) sentenza non definitiva di rigetto di un’eccezione meramente processuale (es.
tardività del ricorso di impugnazione): l’accertamento della sua infondatezza
produce solo effetti endoprocessuali.
- Sentenze definitive: secondo un’opinione dottrinale possono avere efficacia
extraprocessuale solo le sentenze di merito e non quelle di rito. Sono sentenze di merito
quelle che accertano, con efficacia di giudicato, la volontà di legge sostanziale, sono sentenze di rito
quelle che si limitano all’accertamento di una volontà di legge processuale.

- Parte della dottrina riconosce EFFICACIA PANPROCESSUALE alle pronunce della Corte di Cassazione, sulle
questioni di competenza e giurisdizione → hanno efficacia vincolante nei successivi processi nei quali sia
riproposta la stessa domanda e sopravvivono all’estinzione del processo nel quale sono state pronunciate
(art. 310 c.p.c.).

L’efficacia extraprocessuale delle sentenze del G.A. che si pronunciano su domande costitutive viene
ripartita in:
1) effetto costitutivo: eliminazione dell’atto impugnato;
2) effetto ripristinatorio: collegato all’efficacia normalmente retroattiva dell’annullamento
giurisdizionale, dal quale deriva l’obbligo dell’amministrazione soccombente di ripristinare, in
favore del ricorrente vittorioso, la situazione di fatto e di diritto nella quale questo si trovava prima
dell’emanazione dell’atto illegittimo;

148
3) effetto conformativo: collegato alla persistenza, in capo all’amministrazione soccombente, del
potere (o dovere) di intervenire nuovamente sulla fattispecie dopo la sentenza di annullamento di
un suo atto, e che si risolve nell’obbligo per l’amministrazione di tener conto nella sua azione dei
limiti che siano recati dalla sentenza costitutiva, ovvero siano da questa ricavabili.
Quindi: mentre l’effetto costitutivo è presente in tutte le sentenze di annullamento, quello ripristinatorio e
quello conformativo sono solo eventuali. Le sentenze che non esplicano né un effetto ripristinatorio né
conformativo sono sentenze cd. auto-esecutive.

La SENTENZA COSTITUTIVA O DI ANNULLAMENTO è resa sull’impugnazione di un provvedimento che il


giudice statuisce essere illegittimo. Determina l’annullamento ex tunc del provvedimento impugnato.
E’ possibile:
o nel campo della giurisdizione generale di legittimità;
o nel campo della giurisdizione esclusiva;
o nel campo della giurisdizione di merito.
Secondo la dottrina tradizionale la sentenza opera una modificazione della realtà giuridica. E’ come se il
provvedimento annullato non fosse mai esistito.
Esiste però un altro aspetto diverso dall’annullamento: la sentenza accerta anche il fatto che
l’amministrazione ha agito non legittimamente, violando norme giuridiche poste a tutela di determinati
interessi legittimi, meritevoli di tutela.
L’atto è annullato perché:
- lesivo di una posizione giuridica (fornisce la legittimazione al ricorso);
- queste posizioni individuali sono emerse nel processo come legalmente meritevoli di tutela. L’interesse
legittimo è una posizione cui è stata riconosciuta la spettanza di tutela giuridica.
Se il ricorso viene accolto, il giudice annulla l’atto e rimette l’affare all’autorità competente. L’annullamento è
pronunciato salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.
Si parla di inesauribilità del potere dell’amministrazione, in quanto l’amministrazione mantiene il potere di
provvedere anche dopo l’annullamento del provvedimento.
Quando l’amministrazione esercita di nuovo il potere con un altro provvedimento dovrà ricordarsi della
precedente sentenza che riconosce la spettanza di tutela giuridica agli interessi legittimi.

Effetti della sentenza costitutiva (di annullamento):


a. COSTITUTIVO, CADUCATORIO, ELIMINATORIO.
Si attua una eliminazione dal mondo giuridico del provvedimento e di tutti i suoi effetti. Tale eliminazione
discende dall’accertamento dell’illegittimità del provvedimento.
L’annullamento non determina solo l’eliminazione dell’atto impugnato, ma anche la caducazione degli
ulteriori atti consequenziali a quello illegittimo impugnato.
Esempio: L’atto di nomina dell’impiegato assunto al posto dell’impiegato illegittimamente destituito. L’effetto
costitutivo consiste nel ristabilimento del rapporto di servizio e l’effetto caducatorio nella caducazione, appunto,
dell’atto di nomina del successore.

b. RIPRISTINATORIO.
Eliminato il provvedimento devono essere cancellate tutte le conseguenze da esso prodotte finchè operante.
L’amministrazione deve cioè intervenire sulla realtà pratica, riportandola a come avrebbe dovuto configurarsi
se il provvedimento non fosse mai esistito. Si tratta di un dovere giuridico dell’amministrazione di attivarsi.
Esempi: 1. Caso di espropriazione. Il ricorrente torna proprietario, ma nel frattempo ha subito la spogliazione del
bene. L’amministrazione deve restituire il bene e far ottenere ai soggetti i frutti dello stesso.
2. Caso di dipendente illegittimamente destituito: deve conseguire anche tutti gli stipendi arretrati.
Esistono situazioni in cui però le cose non possono essere portate indietro. Nel caso di difficoltà giuridiche e pratiche
a ricostituire la situazione preesistente, al soggetto dovrà essere assicurato quanto meno l’equivalente economico
del pregiudizio: ripristino per equivalente.

c. CONFORMATIVO.
Viene in luce nel momento in cui l’amministrazione torni ad esercitare il potere e quindi rinnovi il
procedimento. Questo può avvenire su iniziativa della stessa amministrazione o su istanza di terzi.
La statuizione contenuta nella sentenza non può essere trascurata dall’amministrazione quando riprovvede,
poiché ha l’obbligo di rispettare il giudicato. La subordinazione dell’amministrazione alla legge si traduce in
subordinazione alle statuizioni del giudicato.
Si può invocare l’art. 4, comma 2 della legge 1865, in cui emerge questo principio. Se il giudice ha annullato il
provvedimento, lo ha fatto perché ha stabilito che esercitando il potere in quel modo, l’amministrazione è
incorsa in un vizio di legittimità. Dalla sentenza emerge una regola di comportamento per l’amministrazione,

149
in quanto stabilisce che il provvedimento deve essere assunto con modalità diverse e non si deve quindi
riprodurre il provvedimento con gli stessi vizi che hanno portato all’annullamento.
Il giudicato vincola la successiva attività amministrativa.

GIUDICATO SOSTANZIALE – GIUDICATO FORMALE


Tradizionalmente si distinguono:
 GIUDICATO FORMALE: riferito alle pronunce giudiziali nei confronti delle quali non sono più
esperibili i mezzi di impugnazione ordinari (ricorso d’appello al Consiglio di Stato per le sentenze dei
TAR, ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, ricorso per revocazione ordinaria
per le decisioni del Consiglio di Stato) – delineato all’art. 324 c.p.c. ‘Si intende passata in giudicato la
sentenza che non è più soggetta né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione ordinaria ex art.
395 nn. 4-5, né a regolamento di competenza.’
Indica l’intangibilità che la pronuncia giudiziale acquisita in conseguenza della decadenza nella
parte nei cui confronti è pronunciata dal potere di proporre l’impugnazione ordinaria idonea a
modificarla: intangibilità significa che a qualsiasi giudice è precluso di disapplicare una precedente
sentenza passata in cosa giudicata formale, anche se illegale. Il giudicato formale si risolve quindi
nel concetto di irripetibilità della controversia.
Questo momento non è fisso nel tempo, e si forma quando le impugnazione di cui all’art. 324 C.P.C. sono già
state proposte o improponibili, poiché precluse per decorso dei termini. Il termine previsto per le impugnazioni
ordinarie varia a seconda che vi sia richiesta della notificazione della sentenza alla controparte (termine di 30
giorni dalla richiesta di notificazione) o che questa manchi (termine di 6 mesi dalla pubblicazione della
sentenza).
Suscettibili di giudicato formale sono, nel sistema processuale amministrativo: sentenze, decreti,
ordinanze che definiscono il giudizio pronunciandone l’estinzione o improcedibilità, ordinanze che
decidono sulla competenza ex art. 16 comma 3 o sulla domanda cautelare.

 GIUDICATO SOSTANZIALE: pronunce che producono effetti nella realtà materiale, conformandola –
delineato all’art. 2909 c.c.
Presuppone il giudicato formale, ma non si confonde con esso. Se tutte le pronunce giudiziali sono
suscettibili di giudicato formale, il giudicato sostanziale è riferibile solo alle sentenze, passate in
cosa giudicata formale, che producono effetti sul terreno del diritto sostanziale, tali da rendere
incontrovertibile l’accertamento contenuto nella sentenza.
Il giudicato sostanziale non riguarda le sentenze di rito: non hanno contenuto idoneo alla
conformazione della realtà sostanziale perché non esprimono un accertamento di una concreta
volontà della legge sostanziale, ma si limitano all’accertamento di cause impeditive di un
accertamento.

Con riferimento alle sentenze del G.A. che pronunciano su diritti soggettivi: valgono conclusioni della dottrina sopra
esposte.
Con riguardo alle sentenze costitutive del G.A. pronunciate in sede di giurisdizione generale di legittimità: una parte
della dottrina dubita della riferibilità del concetto di giudicato sostanziale. Questo perché la sentenza del G.A.,
pronunciata sul ricorso di impugnazione di un provvedimento, non ha ad oggetto rapporti sostanziali tra parti in
posizione paritetica e non detta, nella generalità dei casi, la compiuta disciplina del rapporto che tra esse deve
intercorrere. Altri affermano che queste sentenze non esprimano affatto un accertamento, proprio perché avanti
natura costitutiva (sub specie di eliminazione di un atto giuridico). Queste posizioni tuttavia non sono da accogliere
(Scoca).
(!) Non vi è alcun argomento che valga a suffragare tanto la tesi che il giudicato sostanziale sia riferibile solo
alle sentenze che risolvono contestazioni tra parti in posizione paritetica sul piano sostanziale, quanto la tesi
che il giudicato sostanziale ricorra solo allorchè la sentenza conformi compiutamente il rapporto tra le parti.
(!) Sin da quanto è stata elaborata la categoria delle sentenze costitutive si è sempre riconosciuto che in esse
è presente un accertamento – delle condizioni volute dalla legge per la produzione dell’effetto giuridico che la
parte richiede.

Per lungo tempo si è ritenuto che il giudicato materiale cada solo su questo accertamento è che la modificazione
giuridica si produce in virtù di legge. Successivamente si è rilevato che in questo modo ci si pone in contrasto con l’art.
2908 c.p.c., secondo il quale è direttamente la sentenza che produce l’effetto giuridico, negando il proprium della
sentenza costitutiva!

150
Da qui ha preso avvio un orientamento dottrinale che attribuisce rilievo esclusivo, nella sentenza costitutiva,
all’eliminazione giuridica (sulla quale solo cadrebbe la forza del giudicato), mentre l’accertamento delle condizioni
volute dalla legge viene relegato a oggetto di mera cognizione (non accertamento) da parte del giudice. Così però ci si
pone in contrasto con l’art. 2909 c.c. che attribuisce all’accertamento ruolo centrale!
È preferibile ritenere che nelle sentenze costitutive vi sia accertamento (e non mera cognizione) sulle condizioni volute
dalla legge per la produzione di effetti giuridici, a tale accertamento si affianca poi la produzione di tali effetti, il
giudicato materiale cade su entrambi questi elementi.
Questo viene però ritenuto, da più parti, insufficiente a garantire un’efficace (e definitiva) protezione della SGS della
parte stessa per due motivi: 1) un accertamento così circoscritto non comporta necessariamente l’accertamento in via
definitiva della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente vittorioso (intesa come pretesa all’acquisizione o
conservazione del bene o utilità cui si correla l’interesse legittimo di cui è titolare); 2) il ricorrente vittorioso risulta
esposto a un nuovo esercizio del potere amministrativo in senso per sé pregiudizievole, con effetti idonei a vanificare
la tutela giurisdizionale già conseguita.
Di qui il tentativo di parte della dottrina di risolvere questi problemi: il giudizio di impugnazione, onde garantire una
protezione piena ed efficace della SGS azionata, deve risolvere la questione della spettanza del bene della vita preteso
dalla parte vittoriosa. Questo ha condotto a costruire l’azione costitutiva, e il giudicato cui essa conduce, come volta
alla produzione di un assetto sostanziale stabile e definitivo del rapporto tra le parti.
Critiche: la decisione di una domanda costitutiva, ove non cumulata con domanda di condanna (ex art. 34 comma 1
lett. c) o con domanda di fissazione delle misure idonee ad assicurare l’attuazione immediata della sentenza (ex art. 34
comma 1 lett e), è di per sé insufficiente a conformare compiutamente il rapporto sostanziale tra le parti. Questa
risulta anche preclusa al giudice laddove postuli l’esercizio di poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34
comma 2 CPA). È quindi da escludere che l’accoglimento di una domanda puramente costitutiva possa di per sé
importare l’attribuzione, al ricorrente vittorioso, dell’utilità sostanziale finale cui aspiri. Ed è quindi da escludere che il
giudicato materiale possa cadere sull’accertamento della relativa spettanza.
Questi ostacoli derivano dal diritto positivo: dal modo in cui la legge processuale disciplina i limiti e l’operatività delle
sentenze costitutive del G.A., e così, in via derivativa, il rapporto tra esse e il potere dell’amministrazione. Soluzione:
formulazione di domande ulteriori rispetto a quella puramente costitutiva (condanna, fissazione di misure idonee
all’attuazione immediata…); assolvimento dell’onere della prova che l’art. 63 CPA delinea a carico di ciascuna delle
parti del processo.
Si potrebbe ipotizzare che il mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova determini preclusioni ad
allegazioni future. Il tentativo di dare stabilità in questo senso al giudicato su azione costitutiva è stato compiuto dalla
dottrina con l’elaborazione della teorica degli oneri procedimentali dell’amministrazione: essa sarebbe gravata, nel
corso del procedimento, dell’onere di allegare e addurre tutti gli elementi, in fatto e diritto, idonei a dare risposta alla
questione di spettanza di un determinato bene della vita. Sarebbe in forza dell’assolvimento di questo onere che
sarebbe possibile un compiuto e stabile accertamento giudiziale di spettanza (questo però non trova riscontro nella
legge sostanziale…).
Rimane comunque insuperabile il dato normativo secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciarsi con
riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” (art. 34 comma 2 CPA). Il giudice quindi non può conformare
compiutamente un rapporto di diritto sostanziale per la cui conformazione sia necessario l’esercizio di un potere
amministrativo non ancora esercitato (relativamente al quale l’amministrazione debba ancora esercitare il potere che
la legge sostanziale le conferisce).
La conclusione è che il giudicato, su sentenza di annullamento di un provvedimento amministrativo, cade
sull’accertamento dell’illegittimità dell’atto di esercizio del potere amministrativo, in funzione di tutela dell’interesse
legittimo della parte che agisce in giudizio, e sempre nei limiti della domanda giudiziale.
Rimane quindi la possibilità di riesercizio del potere amministrativo, in funzione di disciplina del rapporto tra le parti,
pur dopo il giudicato di annullamento di un provvedimento. Questa possibilità non è in alcun modo idonea a incidere
sulla funzione del giudicato materiale, e specificamente sulla sua idoneità a garantire una protezione effettiva ed
efficace alla SG di interesse legittimo azionata dal ricorrente vittorioso.

GIUDICATO PARZIALE:
E’ il caso in cui una volta resa la sentenza di primo grado, una delle parti in causa decida di appellarsi al
Consiglio di Stato limitatamente ad una soltanto delle statuizioni trasfuse in capi di sentenza, determinando
il passaggio in giudicato del capo non impugnato.
Questa preclusione, c.d. pro judicato, trova la sua spiegazione nell’art. 329 comma 2 CPC (“l’impugnazione
parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”).

GIUDICATO INTERNO:

151
Si verifica allorché nell’ambito di un grado di giudizio intervengano sentenze non definitive su questioni di
rito o di merito, precludendo così che sulla relativa questione si possa riaprire la discussione nell’ulteriore
corso del processo.
Il giudicato interno ha efficacia endoprocessuale, espressamente riconosciuta all’art. 103 CPA (per evitare
che si formi occorre proporre immediato appello OPPURE riserva facoltativa d’appello).

GIUDICATO ESTERNO:
Ha riguardo alla forza vincolante di una decisione al di fuori del processo nel quale è stata pronunciata.
Poiché questa forza vincolante è propria del giudicato materiale, la portata del cd. giudicato interno è
maggiore rispetto a quella del giudicato esterno.

GIUDICATO IMPLICITO:
Giudicato che cade, in assenza di tempestivo appello, su tutte le questioni, ivi comprese quelle sui
presupposti processuali, che pur non essendo trasfuse in statuizioni espresse, si atteggiano però a questioni
logicamente pregiudiziali rispetto a quelle espressamente decise e si reputano perciò implicitamente decise
in forza della statuizione espressa sulla questione pregiudicata.
Il riconoscimento della figura del giudicato implicito non è stato immediato: si è dovuto prima partire dalla
figura della decisione implicita.

L’AP 4/2005 rilevava che mentre la preclusione da giudicato è configurabile solo sulle questioni che siano
oggetto di espressa statuizione in primo grado non investita dall’appello, invece una questione che risulti
decisa implicitamente potrebbe – ove si tratti di questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del
processo – essere sollevata dal giudice in appello, ovvero in appello essere proposta per la prima volta dalle
parti resistenti in primo grado.

La figura del giudicato implicito è stata di recente riconosciuta dalla Cassazione SS.UU. con due sentenze del
2008: secondo cui esso cade, in assenza di tempestivo appello, sulla questione di giurisdizione, che pur non
costituisca oggetto di autonoma statuizione, a fronte di una decisione, e di correlata statuizione espressa, su
questioni di merito o su altre questioni che presuppongano risolta la questione della spettanza della
giurisdizione in capo al giudice che l’ha pronunciata. Tale soluzione si impone in forza della
costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo.
La norma codicistica che consente di giungere al riconoscimento della figura del giudicato implicito viene
individuata nell’art. 276 comma 2 c.p.c., interpretata come norma che eleva l’ordine logico di trattazione e
decisione delle questioni in ordine legale che il giudice ha l’obbligo di seguire. Poiché il giudice è vincolato a
questo ordine logico, la decisione di una questione che è pregiudicata da altra presuppone anteriormente
decisa (anche implicitamente) la questione pregiudiziale: anche sulla decisione della quale, in assenza di
tempestivo appello cade così il giudicato.
Da qui discende la riduzione dell’ambito di operatività dell’art. 37 c.p.c. – la questione di giurisdizione è
rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Una volta che si riconosca che sulla questione, in
assenza di appello, cade il giudicato implicito, si deve concludere che la questione non è rilevabile d’ufficio dal
giudice d’appello per preclusione da giudicato implicito.
In virtù del rinvio esterno del CPA al c.p.c., si deve ritenere che l’ordine di trattazione delle questioni di cui
all’art. 276 comma 2 c.p.c. si imponga anche al G.A.
Le SS.UU. hanno ridotto i contorni della figura del giudicato implicito, escludendo che esso possa coprire le
decisioni implicite di questioni che attengono alla nullità di provvedimenti giudiziali discendenti dal difetto dei
presupposti o delle condizioni del giudizio (legittimazione ad agire, decadenza dall’azione, litispendenza).
Secondo questo orientamento, il giudicato implicito non può cadere sulle decisioni implicite di questioni la cui
rilevazione assurge a causa preclusiva assoluta, per qualsiasi giudice, di emettere una pronuncia diversa
dall’accertamento dell’impossibilità di decidere nel merito. Conseguenza: le relative questioni sono sempre
rilevabili d’ufficio e in ogni stato e grado del giudizio.

La figura del giudicato implicito trova formale riconoscimento, nella disciplina del processo amministrativo,
quanto alla decisione implicita su questione di giurisdizione e quanto alla decisione implicita su questione di
competenza.
- L’art. 9 CPA dispone che “il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio” e che “nel
giudizio di appello è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata
che, in modo esplicito o implicito, ha statuito sulla giurisdizione”.

152
assoluto di giurisdizione, che rimarrebbe escluso dalla rilevabilità officiosa oltre il primo grado. Questo
però non concorda con le conclusioni cui è possibile pervenire al riguardo sulla base del discrimen
tracciato dalle SS.UU. (giudicato implicito può cadere solo sul le questioni di difetto relativo di
giurisdizione, posto che quelle di difetto assoluto altro non sono che questioni attinenti alla sussistenza
di un presupposto necessario affinché la pronuncia di merito sia data utiliter).
- In senso analogo l’art. 15 comma 1 CPA per il difetto di competenza.
- L’art. 92 comma 5 CPA esclude però che integrino decisione implicita sulla competenza le ordinanze
istruttorie o interlocutorie, nonché quelle che disattendono l’istanza cautelare senza riferimento
espresso alla questione di competenza.

- L’art. 101 comma 2 CPA ha introdotto una nuova preclusione, non riconducibile al giudicato implicito: si
intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di
primo grado che non siano espressamente riproposte in appello con il ricorso o, per le parti diverse
dall’appellante, con la prima memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la
costituzione nel secondo grado.
(!) Mentre la figura del giudicato implicito presuppone un rapporto di pregiudizialità logica tra la
questione che ne è oggetto e la questione decisa, la disposizione dell’art. 101 comma 2 è applicabile in
ogni ipotesi di assorbimento o mancata pronuncia in primo grado su domanda o eccezione, di rito o di
merito: anche nelle ipotesi in cui non sussiste rapporto di pregiudizialità tra la questione dichiarata
assorbita o non esaminata e la questione espressamente e esplicitamente decisa.

Limiti oggettivi e soggettivi del giudicato nel processo amministrativo:


- AMBITO OGGETTIVO: con riferimento al processo di impugnazione, la dottrina ritiene che esso sia
segnato dalle pronunce sulla fondatezza della domanda di annullamento – solo queste
integrerebbero la species delle sentenze di merito, idonee al giudicato sostanziale.
Un accertamento idoneo a conformare i rapporti tra le parti può discendere anche da pronunce
che accertino che il ricorrente non è titolare della SG per la cui protezione agisce in giudizio, ovvero
che accertino l’insussistenza di qualsiasi SG in capo al ricorrente stesso. -> La distinzione tra
sentenze di merito e di rito, quali possibili oggetto di giudicato sostanziale, dovrebbe essere
tracciata sulla base dell’accertamento che rispettivamente esprimono.

- AMBITO SOGGETTIVO: delineato dall’art. 2909 c.c.. Con riferimento al processo amministrativo di
impugnazione per motivo di legittimità, tuttavia, è diffusa l’opinione che la sfera di efficacia
soggettiva della sentenza si estenda ultra partes allorché si tratti di sentenza che annulla un atto a
contenuto generale o comunque produttivo di effetti nei confronti di una pluralità di soggetti. [Un
atto amministrativo inesistente (atto annullato da G.A.) non può produrre effetti nei confronti di
nessuno].
Con il problema dell’efficacia soggettiva del giudicato di annullamento non può essere confuso il
problema che consiste nell’individuare in quale accezione il concetto di parti del giudizio sia
assunto dall’art. 2909 c.c.
La dottrina ha sottolineato che la locuzione “parti del processo” è polisensa, perché la legge,
nell’utilizzarla, si riferisce talora alle parti in senso sostanziale (soggetti del rapporto sostanziale
oggetto del giudizio) e talora alle parti in senso formale (soggetti del rapporto processuale preso in
considerazione dalla singola disposizione di legge). Questa polisemia si ritrova anche nel CPA:
mentre l’art. 71 (che individua l’onere delle parti di presentare istanza di fissazione dell’udienza di
discussione) si riferisce alle parti in senso formale; l’art. 28 (che ammette tutte le parti nei cui
confronti la sentenza deve essere pronunciata all’intervento nel giudizio nel quale non sono parti
formali) si riferisce alle parti in senso sostanziale.
Poiché l’art. 2909 c.c., che disegna la sfera di efficacia soggettiva del giudicato, si riferisce alle parti
senza specificare in quale accezione la locuzione “parti” deve essere assunta, sarebbe necessario
indagare la possibilità di assumerla come conferita alle parti in senso sostanziale. Ove l’indagine
sortisse effetto positivo, ne deriverebbe che ance le parti in senso sostanziale, che pur non abbiano
assunto la qualità di parti in senso formale, sarebbero toccate dal giudicato materiale.

153
IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
Il Titolo I del Libro IV del CPA, dedicato al giudizio di ottemperanza, si apre con l’importante affermazione,
contenuta nell’art. 112, per cui i provvedimenti del GA devono essere eseguiti (spontaneamente) dalla PA e
dalle altre parti del giudizio.
In realtà, la norma ha una portata generale: riguarda l’esecuzione di ogni pronuncia giurisdizionale (anche
diversa dalla sentenza vera e propria) che statuisce in ordine a una controversia tra una PA e un privato.
Non sempre però accade che il soggetto obbligato all’attuazione di una decisione adempia
spontaneamente a quanto dovuto, con l’inevitabile conseguenza che viene a ricadere sulla parte vittoriosa
in giudizio l’onere di attivarsi per veder soddisfatta una propria, riconosciuta, pretesa.
In quest’ottica il legislatore ha previsto il GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA, ossia la possibilità di adire l’autorità
giurisdizionale amministrativa con un ricorso diretto a ottenere l’esecuzione, da parte della PA, delle
sentenze non spontaneamente eseguite.
In questa prospettiva si comprende perché la dottrina qualifichi il giudizio di ottemperanza come “lo
strumento attraverso il quale si esercita l’azione di esecuzione”.

L’affermazione del giudizio di ottemperanza come rimedio per ottenere l’esecuzione delle decisioni del GA è stata la
risultante di un lungo processo normativo, sostenuto e incentivato dalla giurisprudenza.
Infatti, inizialmente il legislatore aveva predisposto un sistema delle tutele che ammetteva l’esperibilità del giudizio di
ottemperanza (dinanzi alla IV Sezione del CdS) solo per le decisioni del GO, rimettendo invece alla discrezionalità della
stessa PA l’individuazione delle modalità concrete per conformare la propria azione al dictum del GA.
Sulla scorta di una lenta ma costante opera di innovamento del sistema realizzato dalla giurisprudenza del CdS, si
affermò l’idea per cui anche le sentenze del GA avrebbero dovuto godere della garanzia di adempimento dell’obbligo
di conformazione gravante sull’amministrazione, mediante l’utilizzo dell’apposito ricorso consentito per l’esecuzione
delle sentenze del GO.
Tale orientamento fu poi sancito a livello legislativo dalla l. 1034/1971: inizialmente con riferimento alle sole sentenze
del GA passate in giudicato e successivamente, con la novella della l. 205/2000 anche alle sentenze di primo grado
esecutive e alle ordinanze adottate in sede cautelare.

AMBITO DI APPLICAZIONE del giudizio di ottemperanza


E’ individuato dal secondo comma dell’art. 112 per cui il giudizio di ottemperanza è finalizzato
all’attuazione di:
a) sentenze del G.A. passate in giudicato
b) sentenze esecutive e altri provvedimenti esecutivi del G.A. (sentenze non passate in giudicato ma
esecutive ex art. 33 comma 2, ordinanze cautelari ex art. 55)
c) sentenze passate in giudicato e altri provvedimenti ad esse equiparati del G.O. (es. decreti
ingiuntivi non opposti nell’ambito del procedimento monitorio), al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligo della PA di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato
d) sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati, di quei giudici
davanti ai quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligo della PA di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato
e) lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della
PA di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato (lodi arbitrali pronunciati all’esito
di procedimenti arbitrali rituali di diritto ex art. 806 e ss. c.p.c., vertenti su diritti soggettivi)

A fronte di sentenze del G.O. o di giudici speciali, ovvero a fronte di lodi arbitrali, condizione per la
proponibilità del ricorso in ottemperanza è che del giudizio sia stata parte una PA o un soggetto ad essa
equiparato.
A differenza delle sentenze del G.A., quelle del G.O. e dei giudici speciali non consentono il rimedio
dell’ottemperanza se non dopo il loro passaggio in giudicato.

154
Nell’attuale quadro normativo, il giudizio di ottemperanza si caratterizza quale strumento idoneo a rendere
concrete le statuizioni contenute nel provvedimento giurisdizionale esecutivo, e quindi a garantire
l’effettività della tutela giurisdizionale. Questa è realizzabile, attraverso il giudizio di ottemperanza:
- relativamente ai provvedimenti del G.A. → sentenze passate in giudicato, sentenze non passate in
giudicato ma esecutive ex art. 33 comma 2 CPA, ordinanze cautelari ex art. 55 CPA;
- relativamente ai provvedimenti del G.O. → sentenze passate in giudicato e pronunce equiparate,
ad es. decreti ingiuntivi non opposti nell’ambito del procedimento monitorio;
- relativamente ai provvedimenti dei giudici speciali, laddove non sia normativamente dato un
diverso rimedio esecutivo → decisioni del tribunale superiore delle acque pubbliche;
- relativamente ai lodi arbitrali pronunciati all’esito di procedimenti arbitrali rituali di diritto vertenti
su diritti soggettivi (art. 12 CPA).

I presupposti essenziali dell’azione di ottemperanza sono quindi:


a) un giudicato o una pronuncia esecutiva ovvero un lodo arbitrale esecutivo divenuti innopugnabili.
In particolare, per l’esecuzione delle sentenze del GO, o del giudice speciale e dei lodi arbitrali
esecutivi è necessario che una PA o un soggetto ad essa equiparato sia stata parte del giudizio;
b) la necessità di un provvedimento della PA successivo alla pronuncia: allorché per l’esecuzione del
provvedimento giurisdizionale non occorre alcun atto della PA, il ricorso stesso non ha ragion
d’essere (cd. sentenze autoesecutive);
c) l’inottemperanza della PA successiva alla decisione non eseguita; non è dunque ammissibile il
giudizio di ottemperanza ove l’esecuzione sia già avvenuta.

CAUSA PETENDI:
= è la stessa SGS che risulta azionata nel processo terminato con il provvedimento ineseguito. Solitamente
si tratta dell’interesse legittimo, ma in ambito di giurisdizione esclusiva possono venire in rilievo anche
diritti soggettivi.

PETITUM:
Il giudizio di esecuzione di matrice civile risponde all’esigenza di operare una trasformazione della realtà di
fatto in corrispondenza alla statuizione contenuta in sentenza.
Il giudizio di ottemperanza, invece, si prefigge l’identificazione di una nuova volontà di legge non ancora
emersa. L’oggetto del giudizio di ottemperanza investe:
a) l’accertamento dell’inadempimento e la determinazione dell’attività che l’amministrazione avrebbe
dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti scaturenti dal provvedimento da eseguire
à di COGNIZIONE;
b) l’individuazione di quanto è necessario ai fini del pieno dispiegamento dell’effetto demolitorio e del
ripristino della situazione di fatto antecedente al richiamato provvedimento à di
ESECUZIONE;
c) la realizzazione, in via sostitutiva, del comando contenuto in sentenza (effetto CONFORMATIVO),
attraverso l’emanazione di nuovi provvedimenti amministrativi attuativi del provvedimento
giurisdizionale originario à di OTTEMPERANZA.

Sequenza sentenza di cognizione -> sentenza di ottemperanza : giudicato a formazione progressiva.

L’attività di cognizione rende preferibile riferire al processo di ottemperanza uno scopo di “attuazione” del
provvedimento giurisdizionale amministrativo anziché di sua semplice “esecuzione”.
Questo non impedisce tuttavia che la pronuncia del G.A. sia suscettibile di esecuzione in senso stretto.
Inerenti all’esecuzione sono l’effetto demolitorio e quello ripristinatorio del provvedimento (vi esulano gli
effetti ulteriori, cioè quelli legati allo sviluppo successivo dell’azione amministrativa).
Quando l’esecuzione verte sulle sentenze o pronunce equiparate del collegio arbitrale, del G.O. o di giudici
speciali: il G.A., investito dell’esecuzione, deve limitarsi a esercitare i poteri di “stretta esecuzione”, in
quanto eventuali statuizioni che modificassero la pronuncia ineseguita sarebbero viziate per difetto di
giurisdizione.

155
L’art. 112 CPA individua ai commi 3 e 4 alcuni casi di cumulo dell’azione di ottemperanza con l’azione di
condanna:
a) azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione monetaria e interessi maturati
dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
b) azione di condanna al risarcimento allorché siano derivati danni dalla mancata esecuzione,
violazione o elusione del giudicato;
c) azione di condanna al risarcimento ai sensi dell’art. 30 comma 5, diretta al risarcimento del danno
derivante dall’emanazione o esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo.

Le sentenze del G.A. suscettibili di ottemperanza (art. 112 comma 2 CPA):


L’art. 112 comma 2 CPA, nel richiamare le sentenze del GA suscettibili di ottemperanza, non ne menziona le
tipologie in relazione alle diverse azioni esperibili nel processo amministrativo.
Muovendo dal presupposto che le sentenze eseguibili sono solo quelle che hanno attitudine al giudicato
sostanziale, il rito disciplinato dal Titolo I del Libro IV sembra esperibile per far valere le sentenze che
accolgano:
1) ricorso per annullamento (art. 29 CPA): in quanto per pacifica giurisprudenza alla statuizione
demolitoria della sentenza si accompagna un effetto conformativo, volto a indirizzare il successivo
sviluppo dell’azione amministrativa;
2) ricorso per nullità (art. 31 comma 4 CPA): per le stesse ragioni;
3) ricorso avverso il silenzio (art. 31 CPA): la relativa sentenza reca l’ordine all’amministrazione
rimasta inerte di adottare entro un certo termine il provvedimento amministrativo conclusivo del
procedimento;
4) ricorso per condanna (art. 30 CPA): in quanto con esso possono essere richiesti il pagamento di
somme di denaro dovute dall’amministrazione, l’adozione di misure idonee a tutelare la SGS
dedotta in giudizio o l’ordine di risarcire il danno ingiusto derivante dalla lesione di diritti soggettivi
o interessi legittimi anche mediante misure di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. (art.
34 comma 1 lett. c) CPA).

Art. 34 comma 4 – condanna pecuniaria: il giudice, in mancanza di opposizione delle parti, può limitarsi a
stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma
entro un congruo termine. Se le parti non giungono a un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi
derivanti dall’accordo concluso, l’interessato può con il ricorso per ottemperanza chiedere la
determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti.
Qui il giudice non è chiamato a determinare un assetto di interessi in un contesto che contrappone interesse
pubblico e privato, ma unicamente a regolare i rapporto economici tra le parti, definendo la stessa domanda
che era stata originariamente proposta in sede cognitoria.

Altra questione attiene alla proponibilità del giudizio di ottemperanza a fronte della violazione, da parte
della PA, della sentenza applicativa dell’art. 21 octies comma 2 l. 241/1990, che fissa il cd. principio di
conservazione dei provvedimenti amministrativi.
Qui il giudice accerta che il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Sembra quindi che non ci siano difficoltà ad ammettere che tale accertamento passi in
giudicato sostanziale. Ne consegue che, ove l’amministrazione agisse in via di autotutela rimuovendo l’atto,
violerebbe il giudicato abilitando i soggetti aventi interesse ad esperire l’ottemperanza.

Le sentenze del G.A. insuscettibili di ottemperanza:


- sentenze autoapplicative (o autosatisfattive, autoesecutive): la loro capacità esecutiva si esaurisce
nell’effetto demolitorio. La sentenza è di per sé idonea a soddisfare compiutamente l’interesse del
ricorrente.
- pronunce che annullano i provvedimenti negativi di controllo restituendo piena efficacia all’atto
controllato, senza che occorra da parte dell’amministrazione una specifica attività di adeguamento;
- sentenze che annullano alcuni atti sanzionatori (es. ammonimento) quando non abbiano prodotto
ulteriori conseguenze;

156
- sentenze che annullano provvedimenti postulanti una successiva attività materiale (es. decreti
espropriativi), qualora tale attività non sia iniziata.
- sentenze che, annullando provvedimenti ammnistrativi di autotutela demolitoria (revoche,
annullamento d’ufficio), ripristinano gli effetti dell’atto che aveva formato oggetto del procedimento di
secondo grado.

- decisioni aventi carattere meramente processuale e prive di statuizioni di merito;

- sentenza dichiarativa della cessata materia del contendere: inserita tra le sentenze di merito, è
pronunciata dal giudice qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente
soddisfatta. Questa sentenza ingloba un accertamento giurisdizionale sul rapporto tra
amministrazione e ricorrente che non può fare stato tra le parti.
Conseguenza: laddove, a seguito della sentenza, l’amministrazione agisse come se quell’accertamento non
esistesse determinerebbe una violazione della sentenza resa inter partes, frustrata nella sua efficacia
preclusiva. In questo quadro, sembra ragionevole elevare il giudizio di ottemperanza a sede idonea per
appurare la violazione intervenuta e assicurare la conformità dell’azione amministrativa alla statuizione già
resa in sede cognitoria.

- sentenze di rigetto: tradizionalmente si è ritenuta inammissibile l’ottemperanza promossa avverso


sentenze di rigetto, perché destinate a lasciare immutato il preesistente assetto giuridico dei
rapporti così come delineato dagli atti e provvedimenti anteriori. Tuttavia quest’opinione non è
pacifica: anche nella sentenza di rigetto si potrebbe identificare un contenuto ordinativo
sufficiente per la proposizione del giudizio di ottemperanza da parte dei controinteressati. Ne
consegue che il corrispondente ricorso introduttivo dovrebbe rimanere precluso (inammissibile),
nel solo caso in cui la sentenza o la misura cautelare ineseguita, di accoglimento o di rigetto,
risultino prive di prescrizioni sostanziali.

Il presupposto dell’inesecuzione
L’obbligo di esecuzione dei provvedimenti esecutivi del G.A. è posto dall’art. 112 comma 1 CPA non solo a
carico dell’amministrazione ma anche delle altre parti del giudizio. Il giudizio di ottemperanza è esperibile
anche nei confronti delle parti private, in connessione all’ampliamento della giurisdizione amministrativa
(es. in esecuzione della sentenza di condanna al risarcimento del danno).
Argomento a contrario: l’art. 112 CPA fa espresso richiamo alla finalità di ottenere l’adempimento dell’obbligo della
PA di conformarsi al giudicato solo nelle lettere c), d), e) (concernenti le pronunce del giudici diversi dal G.A. e degli
arbitri). Questa prescrizione non compare nelle lettere a) e b), inerenti ai vari tipi di provvedimenti esecutivi del G.A.,
lasciando supporre una possibile legittimazione di soggetti privati.

Quando il provvedimento giurisdizionale deve essere eseguito dalla PA, si possono verificare queste
situazioni:
a) inerzia: mancata osservanza del comando impartito dal G.A.;
b) potrebbe dichiarare esplicitamente di non voler dare esecuzione al dictum giudiziale.

Dai casi di inesecuzione in senso stretto vanno tenute distinte le fattispecie di cd. inesecuzione giustificata:
sia l’amministrazione che il giudice (dell’ottemperanza) devono tener conto delle sopravvenienze di
fatto e di diritto intervenute durante l’esplicarsi del ricorso originario e fino alla notifica della
sentenza da eseguire.
In questo caso il ricorrente non potrà pretendere una piena esecuzione del provvedimento
giurisdizionale, ma avrà titolo a vedersi ristorati gli eventuali danni subiti per effetto dell’illegittimo
comportamento dell’amministrazione.

La nullità dell’atto violativo o elusivo del giudicato:


Presupposto dell’inesecuzione può ravvisarsi anche nel caso in cui l’amministrazione adotti un
provvedimento:

157
- in diretto contrasto con le statuizioni contenute nella sentenza (→ violazione del giudicato),
- ovvero incorporante un adempimento solo apparente e fittizio al giudicato stesso, ma in realtà
finalizzato a rinviare la definizione dell’assetto di interessi o ad aggirare la portata precettiva della
sentenza (→ elusione di giudicato).

Art. 21 septies l. 241/1990 comprende tra le diverse ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo:
violazione o elusione del giudicato. Il comma 2 prevedeva che le questioni inerenti la nullità di
provvedimenti emanati in violazione o elusione del giudicato fossero attribuite alla giurisdizione esclusiva
del G.A. -> previsione abrogata dal CPA.
Allo stato l’art. 114 comma 4 lett. b) del CPA dispone che il giudice dell’ottemperanza, nel caso di
accoglimento del ricorso, dichiari nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato. → La
controversia attinente alla nullità in questione non solo ricade nella giurisdizione amministrativa eslcusiva
(art. 133 comma 1 lett. a) num. 5) CPA), ma segue anche le regole dell’ottemperanza (termine di
proponibilità decennale). L’art. 31 comma 4 CPA precisa che l’azione generale di nullità da proporre entro il
termine di decadenza di 180 gg non trova applicazione in ordine a queste nullità.
 Tali previsioni comportano una profonda divaricazione tra il regime processuale della nullità per
violazione o elusione del giudicato e quello concernente le altre ipotesi di nullità di cui all’art. 21 septies
l. 241/1990.

Contenuto della pronuncia di accoglimento del ricorso:


- Accertamento della ricorrenza delle cause di nullità. È però possibile che il contrasto o l’elusione
insorga rispetto a un altro provvedimento giurisdizionale esecutivo (es. sentenza non passata in
giudicato, ordinanza cautelare): in questo caso si ravvisa un’inefficacia dell’atto.
- Prendendo le mosse dal provvedimento eluso o violato dispone quanto necessario per fissare il
parametri dell’azione amministrativa al fine di perseguire l’effettiva attuazione del comando in
esso contenuto – contenuto cognitorio.

COMPETENZA:
Dall’art. 113 CPA si ricava che:
- nei casi di cui all’art. 112 comma 2 lett. a) (esecuzione delle sentenze del G.A. passate in giudicato)
e lett. b) (esecuzione delle sentenze esecutive e degli altri provvedimento esecutivi del G.A.), il
ricorso va proposto al giudice che ha emesso il provvedimento della cui esecuzione si tratta. La
competenza è del TAR anche quanto l’esecuzione investa suoi provvedimenti confermati in appello
con motivazione avente lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo
grado.
- nei casi di cui all’art. 123 comma 2 lett. c) (esecuzione delle sentenze passate in giudicato e degli
altri provvedimenti ad esse equiparati, del G.O.), lett. d) (esecuzione delle sentenze passate in
giudicato, e degli altri provvedimenti ad esse equiparati, dei giudici davanti ai quali non sia previsto
il rimedio dell’esecuzione) e lett. e) (esecuzione del lodo arbitrale inoppugnabile), il ricorso si
propone al TAR nella cui circoscrizione ha sede il giudice (o collegio arbitrale) che ha emesso il
provvedimento di cui è chiesta l’esecuzione.

→ Qualora il ricorso venga proposto innanzi a giudice incompetente: trova applicazione il regime della
competenza inderogabile ex art. 16 CPA.

PROCEDURA:
- Interesse a ricorrere in sede di ottemperanza: soggetti su cui il provvedimento esecutivo spiega i
suoi effetti immediati – normalmente coloro che hanno partecipato al giudizio terminato con il
provvedimento, o ciascuno dei soggetti interessati (se la pronuncia è efficace ultra partes).
- Termine: opera la prescrizione di 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza.
La domanda di accertamento della nullità del provvedimento amministrativo in violazione o
elusione del giudicato non è assoggettata ad alcun termine dal CPA (termine di 180 gg – ex art. 31

158
comma 4 - è solo per le altre ipotesi di nullità). Si deve però ritenere che essa sia attratta nel
termine di 10 anni di cui sopra.
Il ricorrente, qualora intenda proporre domanda di risarcimento del danno, dovrà attenersi al
termine di 120 gg dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 30 comma 5 CPA).

- Nella disciplina antecedente al CPA, prima della proposizione del ricorso in ottemperanza
l’interessato aveva l’obbligo di notificare all’organo dell’amministrazione tenuto all’adempimento,
a pena di inammissibilità del ricorso, una diffida ad adempiere al giudicato, entro un termine non
inferiore a 30 gg.
Oggi l’art. 114 comma 1 CPA afferma che l’azione si propone “anche senza previa diffida” →
facoltatività della diffida.

- Garanzia del contraddittorio: il regolamento 642/1907 prevedeva che il ricorso di ottemperanza


fosse soggetto a deposito presso l’organo giurisdizionale competente, comunicato alla sola PA
interessata, la quale entro i 20 gg successivi poteva trasmettere le proprie osservazioni alla
segreteria del giudice. La giurisprudenza in seguito comincia a imporre al ricorrente l’obbligo della
notificazione dell’atto introduttivo sia all’amministrazione inottemperante che ai controinteressati
(= soggetti che in dipendenza dell’attuazione del giudicato potessero ricevere pregiudizio nella
propria sfera giuridica).
→ il regime dell’incardinamento del ricorso viene quindi reso armonico con il modello del CPA
contenuto al Libro II.

- Il processo di ottemperanza sfocia nella celebrazione di una camera di consiglio, o adunanza


camerale (art. 87 comma 2 lett. d) CPA). Valgono quindi le regole dei riti camerali.
Trova applicazione, in questo rito, l’art. 45 comma 2 CPA, che ammette il deposito del ricorso,
anche se non ancora pervenuto al destinatario, sin dal momento in cui la notifica del ricorso si
perfeziona per il notificante.
Nel precedente regime era consentita la trattazione del ricorso in pubblica udienza; oggi tale
facoltà non è più prevista. Tuttavia, ai sensi dell’art. 112 comma 4 CPA, la trattazione in pubblica
udienza sembra ineludibile nel caso di cumulo dell’azione esecutiva con l’azione risarcitoria ex art.
30 comma 5 CPA, dato l’obbligo di osservare le forme del rito ordinario.

L’art. 112 CPA individua nel comma 3 (riformato nel 2011) alcuni casi di cumulo dell’azione di
ottemperanza con l’azione di condanna:
a) azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione di interessi maturati dopo il
passaggio in giudicato della sentenza;
→ le domande rivolte al giudice hanno ad oggetto statuizioni che derivano proprio dalla mancata esecuzione
della precedente sentenza, laddove impositiva di obblighi pecuniari in capo alla PA nel contesto di un
rapporto di tipo obbligatorio (es. controversie in materia di pubblico impiego non contrattualizzato)
b) azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma
specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione.
→ consente una domanda risarcitoria connessa ad un’esigenza strettamente esecutiva, afferente ai capi di
sentenza rimasta ineseguita. Ma la previsione ammette anche, nella prospettiva della concentrazione delle
azioni, che il ricorrente rivendichi i danni originati dalla difformità dell’operato dell’amministrazione rispetto
al giudicato medesimo (con potenziale rinuncia a un grado di giudizio, nel caso di competenza del Consiglio di
Stato ai sensi dell’art. 113 comma 1 CPA!)

L’estinzione del giudizio di ottemperanza e la sentenza:


L’estinzione del giudizio di ottemperanza ha luogo, di regola, solo a seguito di sopravvenuta integrale
esecuzione del provvedimento giurisdizionale che ne costituisce presupposto.
Secondo l’orientamento prevalente formatosi in materia, la proposizione del giudizio, e persino l’intervenuta
nomina del commissario ad acta, non spogliano l’amministrazione del potere di porre in essere atti che
costituiscano l’effettivo adempimento dell’obbligo di conformarsi al comando giudiziale.

159
Sul versante processuale, la permanenza del potere in capo all’amministrazione comporta che l’adozione di
atti adempitivi del provvedimento giurisdizionale esecutivo, indipendentemente dalla soddisfazione
dell’interesse del ricorrente, provochi l’improcedibilità del giudizio di ottemperanza per sopravvenuta
carenza di interesse (art. 35 comma 1 lett. c).
Si ha invece improcedibilità per cessazione della materia del contendere (art. 34 comma 5) quando gli atti
adempitivi producano la piena soddisfazione dell’interesse del ricorrente.

L’art. 114 comma 3 CPA dispone che il giudice dell’esecuzione decide con sentenza in forma semplificata.
Se è richiesta l’esecuzione di un’ordinanza cautelare, l’art. 114 comma 5 dispone che il giudice provveda
con ordinanza.

L’art. 115 comma 1 CPA prevede che le pronunce del G.A. che costituiscono titolo esecutivo sono spedite in
forma esecutiva se una o più delle parti ne facciano richiesta. Comma 2: i provvedimenti del G.A. che
dispongano il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo anche per l’esecuzione nelle forme
disciplinate dal Libro III c.p.c. e per l’iscrizione di ipoteca ex art. 2818 c.c.

giudizio di ottemperanza, ma unicamente per i provvedimenti che dispongano il pagamento di


somme di denaro (per gli obblighi di facere è obbligatoria l’ottemperanza).

I CONTENUTI della sentenza corrispondono alla natura mista del giudizio di ottemperanza, che tende
all’attuazione (e non alla semplice esecuzione) del comando giudiziale.
Nella sentenza possono pertanto possono coesistere:
- elementi di cognizione (accertamento dell’inadempimento imputabile all’amministrazione e
all’attività determinativa del giudice);
- elementi dell’esecuzione (attività di realizzazione del precedente comando giudiziale sotto
l’aspetto strettamente esecutivo);
- ad essi si aggiungono i caratteri propri della giurisdizione di merito, essendo il giudice autorizzato
alla produzione di nuovi effetti giuridici anche in via sostitutiva rispetto alla PA inadempiente.

In caso di accoglimento del ricorso in ottemperanza, il CPA prescrive che il giudice:


- ordini l’ottemperanza del provvedimento giurisdizionale originario, prescrivendone le relative
modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o
l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione (art. 114 comma 4 lett. a);
- nomini, ove occorra, un commissario ad acta (art. 114 comma 4 lett. d);
- salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e non sussistano altre ragioni ostative, fissi, su richiesta di
parte, la somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato
titolo esecutivo (art. 114 comma 4 lett.e).

Il giudice, al fine di rendere effettiva la tutela del ricorrente, può giungere fino all’adozione di atti
amministrativi che comportino uso di discrezionalità amministrativa. Art. 34 comma 1 lett d): il GA, nei
casi di giurisdizione di merito, adotta un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato.
I modi di esercizio dei poteri sostitutivi sono liberamente stabiliti dal giudice dell’ottemperanza.
Questo potrebbe anche spingersi ad adottare direttamente i provvedimenti necessari al fine della
completa attuazione del provvedimento giurisdizionale ineseguito.
In base all’art. 112 comma 5 CPA: il ricorso può essere proposto anche al solo fine di ottenere
chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza. In questo ambito, quindi, prevale la componente
cognitoria, mentre scompaiono le componenti dell’esecuzione e dell’ottemperanza.

LE IMPUGNAZIONI avverso le pronunce del giudice dell’ottemperanza:


Art. 114 comma 8 si limita a stabilire che le disposizioni del Titolo I del Libro IV si applicano anche alle
impugnazioni avverso i provvedimento giurisdizionali adottati dal giudice dell’ottemperanza. Comma 9: i
termini per la proposizione delle impugnazioni sono quelli previsti nel Libro III del codice.

160
Ne consegue:
- fatti salvi i termini di ciascuno specifico mezzo di impugnazione, le regole del processo esecutivo si
estendono in toto al giudizio di impugnazione;
- in caso di assorbimento del rito esecutivo nel rito ordinario ai sensi dell’art. 112 comma 4 CPA, il
relativo regime processuale opera anche nel giudizio di impugnazione.

Il CPA non prevede limiti all’appellabilità delle sentenze emesse dai TAR in sede di ottemperanza.
Secondo il monolitico indirizzo affermatosi in precedenza, per la sentenza di ottemperanza non avente
carattere meramente preparatorio o istruttorio e non contenente statuizioni puramente esecutive, valeva la
regola generale dell’appellabilità, anche in ossequio al principio costituzionale del doppio grado di giudizio.
Oggi il silenzio del CPA potrebbe far pensare a un ripensamento di questo approccio in funzione della
semplificazione dei compiti del giudice d’appello. Del resto, se l’art. 114 comma 8 CPA implicitamente
ammette l’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell’ottemperanza, è difficile
negare l’impugnazione anche relativamente alle statuizioni meramente attuative della precedente sentenza.

Avverso la sentenza pronunciata in sede di esecuzione si deve ritenere ammissibile senza limiti
l’opposizione di terzo
= titolare di una posizione autonoma e incompatibile che, per via della sentenza, abbia subito un pregiudizio
in una propria SGS;
= aventi causa e creditori di una delle parti, quando la decisione sia effetto di dolo o collusione a loro danno.

Le sentenze del Consiglio di Stato in sede di ottemperanza sono soggette a ricorso per Cassazione per
motivi inerenti alla giurisdizione.
(!) Appare arduo ravvisare una violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa in un contesto di
giurisdizione di merito.
Legittimati: privato, amministrazione soccombente (anche se diversa da quella competente a emettere l’atto
dovuto in esecuzione del giudicato).

Il commissario ad acta:
= Figura di stretta costruzione giurisprudenziale, abilitata a provvedere in luogo dell’amministrazione dopo
il decorso del termine.
Esso viene nominato solo “ove occorra”: la nomina è una semplice facoltà del giudice, cui fare ricorso in
vicende complesse e riguardanti atti ampiamente discrezionali, oppure potrebbe costituire un modo per
incrementare l’effettività della tutela inducendo l’amministrazione prestando osservanza spontanea al
provvedimento esecutivo.
È un rimedio concepito sulla falsariga delle astreintes del diritto francese al fine di debellare i
tentennamenti delle amministrazioni (che spesso preferiscono attendere la nomina del commissario per
non assumersi la responsabilità di decisioni scomode), punta a incrementare il livello di effettività della
tutela e indurre l’amministrazione a prestare osservanza “spontanea” al provvedimento esecutivo.

La giurisprudenza ha posto in evidenza i caratteri fondamentali del rimedio:


a) si tratta di una misura sanzionatoria, estranea alla logica risarcitoria, che non si prefigge la
riparazione del pregiudizio cagionato dalla mancata o non corretta esecuzione della sentenza, bensì
lo stimolo del debitore all’adempimento mediante l’irrogazione di una “pena”;
b) l’istituto ha un ambito applicativo più esteso che nel processo civile, in quanto non è limitato al solo
caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un fare o non fare infungibile. La norma del
CPA non intende porre rimedio alla non diretta coercibilità degli obblighi di condotta sanciti dal
giudice, come nel sistema del processo civile, ma punta a far cessare il comportamento
inottemperante del debitore.
Il legislatore rimette al giudice dell’ottemperanza un ampio spazio valutativo nell’individuare la persona più
idonea a ricoprire l’incarico (ciò distingue questa figura da quella del verificatore e del consulente tecnico
che, ex art. 20 comma 1, vengono scelti in specifiche categorie di soggetti dotati di competenza tecnica).

161
Es. dipendenti pubblici competenti nella materia, dirigenti dello stesso ufficio amministrativo adito, magistrati
amministrativi a riposo… Frequente è stata in passato anche la nomina di un soggetto facente parte della stessa
amministrazione inadempiente.
Compito: adozione di quei provvedimenti amministrativi che si rendano necessari o per riempire il vuoto
conseguente all’inerzia dell’amministrazione o per sostituire l’attività posta in essere da quest’ultima
quando non corrispondente alla realizzazione del provvedimento giurisdizionale ineseguito.
Il Commissario segue le direttive del giudice dell’esecuzione: alla sua attività si riconosce la funzione di
adeguamento della realtà materiale e giuridica alle statuizioni contenute nel provvedimento esecutivo (è
la stessa attività che il giudice dell’esecuzione, in via di sostituzione all’amministrazione, avrebbe avuto il
potere di porre in essere direttamente!).

Egli è ausiliario del giudice: è il giudice che nomina il Commissario, dal giudice questo deriva i propri poteri
di sostituzione, è il giudice a indirizzare e orientare la sua attività.

Il ricorrente, se intende impugnare atti commissariali, può fare ricorso (reclamo) al giudice
dell’ottemperanza (art. 114 comma 6: Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta
ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario). Il reclamo va notificato ai
controinteressati e depositato nella Segreteria del giudice dell’ottemperanza nel termine di 60 gg.
Rimane però dubbio il regime applicabile in presenza di atti dell’amministrazione o del Commissario i cui vizi non si
identifichino con profili di contrasto rispetto alle statuizioni giurisdizionali. L’art. 114 comma 6 non esclude che queste
censure possano proporsi, ad opera delle parti in causa, in sede di impugnazione, con l’instaurazione di un ordinario
giudizio di legittimità.

Il CPA ha privilegiato la soluzione del ricorso in sede di cognizione ordinaria da parte del terzo pregiudicato
dagli atti commissariali. Art. 114 comma 6 (come modificato nel 2011): gli atti emanati dal giudice
dell’ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato, ai sensi dell’art. 29,
con rito ordinario.
→ (!) La disposizione spezza l’originario nesso di ausiliarietà, potrebbe giustificare una dispersione tra i vari
TAR delle impugnative dei diversi atti commissariali, ove aventi efficacia territoriale distinta!

L’esecuzione delle ordinanze cautelari:


Art. 59: qualora i provvedimenti cautelari non siano eseguiti, in tutto o in parte, l’interessato, con istanza
motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al TAR le opportune misure attuative. Il TAR esercita i
poteri inerenti al giudizio di esecuzione di cui al Titolo I del Libro IV e provvede sulle spese.
→ i provvedimenti cautelari rientrano perciò tra le pronunce esecutive del G.A. in relazione alle quali il CPA
consente l’esperimento dell’azione di ottemperanza.

Non è però stato chiarito dal CPA per quali tipologie di provvedimento cautelare tale azione sia esperibile.
- Tradizionalmente è riconosciuta l’azionabilità del rimedio esecutivo a fronte delle misure cautelari
collegiali (cioè le ordinanze cautelari adottate incidentalmente dal collegio in corso di giudizio ex
art. 55).
- Stante la genericità dell’art. 59 che parla di “provvedimenti cautelari”, si pone il dubbio se il
giudizio di ottemperanza possa impiegarsi anche per conseguire l’esecuzione delle misure
cautelari monocratiche in causa ex art. 56 e delle misure cautelari monocratiche ante causam ex
art. 61.
 Decreto monocratico pronunciato è efficace fino alla camera di consiglio che in esso è
espressamente indicata: in quella sede il collegio conferma, revoca o modifica il decreto.
 Decreto monocratico ante causam: perde effetto con il decorso di 60 gg dalla sua
emissione, dopodiché restano efficaci le sole misure cautelari che siano disposte in corso di
causa (art. 61).
Non ravvisandosi l’incidentalità del giudizio cautelare emesso, la tesi negativa non può dirsi del tutto
scontata, anche considerando che l’arco di tempo di efficacia del provvedimento ante causam è
sufficiente affinché l’interessato si attivi utilmente per portare ad esecuzione la misura concessagli
mediante il ricorso ex art. 112 comma 2, senza alcuna necessità di introdurre il giudizio di merito.

162
Procedura: è quella generale del giudizio di esecuzione.
Giudice competente: valgono le regole dell’art. 113 CPA.
Secondo la formulazione dell’art. 59 CPA, il ricorrente ha facoltà di chiedere al TAR le opportune misure
attuative: il giudice adito potrà pertanto disporre l’esecuzione dell’ordinanza cautelare mediante
l’indicazione delle relative modalità e potrà operare in via sostitutiva rispetto all’amministrazione
inadempiente, se del caso facendo luogo alla nomina di un commissario ad acta.

L’esecuzione delle sentenze non passate in giudicato:


L’art. 112 comma 2 lett. b) CPA riconduce alle forme generali del giudizio di ottemperanza anche l’ipotesi
della mancata attuazione, da parte della PA, delle sentenze esecutive del G.A. non ancora passate in
giudicato (siano esse di primo grado ovvero emesse a seguito di impugnazione).
- pronunce non (ancora) impugnate;
- pronunce impugnate ma delle quali non sia stata chiesta, o ancora ottenuta, la sospensione
cautelare;
- pronunce impugnate ma la cui sospensione è stata negata dal giudice competente.

Presupposto: la sentenza da eseguire deve essere realmente esecutiva al momento della proposizione del
ricorso (l’esecuzione non deve essere stata sospesa a seguito di impugnazione).

L’esecuzione viene richiesta, all’evidenza, in relazione a sentenze che possono ancora essere ribaltate in
caso di loro sospensione cautelare e/o di accoglimento dell’impugnazione nel merito. Ciò ha effetti
importanti sul giudizio di ottemperanza: l’assetto di interessi determinato dalla sentenza che ne costituisce
l’esito non potrà non assumere il carattere della precarietà.
Art. 114 comma 4 lett. c) CPA si limita a demandare al giudice dell’ottemperanza, a fronte di sentenze non
passate in giudicato, la determinazione delle relative modalità esecutive. Il giudice, come per l’esecuzione
delle ordinanze cautelari, deve farsi carico di dettare le opportune misure attuative, tenendo conto della
necessità di non pregiudicare una possibile diversa configurazione degli interessi in gioco.

→ Differenza tra giudizio di esecuzione delle sentenze esecutive e giudizio di esecuzione vertente sul
giudicato: solo nel secondo caso il regolamento del rapporto cristallizzato nella sentenza divenuta
incontrovertibile ha carattere di stabilità e incontrovertibilità, rappresentando un punto fermo per il giudice
dell’esecuzione. A fronte della non definitività della sentenza, dovrà realizzarsi un grado minore di
soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, posta l’esigenza di contemperare l’esigenza di tutela
nascente dall’esecutività con la preservazione dei poteri di intervento del giudice dell’impugnazione.

I RICORSI AMMINISTRATIVI
Nell’ambito della giustizia amministrativa, accanto ai rimedi giurisdizionali, si collocano i ricorsi
amministrativi.
Il ricorso amministrativo consiste in un’istanza, rivolta alla p.a. e diretta a conseguire la tutela di una SGS
che si suppone lesa da un atto amministrativo o da un comportamento dell’amministrazione. → A
differenza dei rimedi giurisdizionali, essi vengono proposti davanti a un’autorità amministrativa e sono
decisi con un atto che per i caratteri, la forma e l’efficacia, ha natura di vero e proprio atto amministrativo –
convenzionalmente incluso nella categoria delle decisioni amministrative – e soggetto al regime propria
degli atti amministrativi.
La funzione esercitata dall’amministrazione attraverso l’esame e la decisione di un ricorso amministrativo
non è funzione giurisdizionale né attività di controllo, ma attività amministrativa tradizionalmente
considerata di secondo grado. Essa si colloca su un piano diverso dall’amministrazione attiva.
Mediante i ricorsi amministrativi la PA è chiamata a decidere, in contraddittorio con le parti interessate,
una controversia, concreta e attuale, occasionata da un proprio antecedente atto amministrativo, a
svolgere quindi una funzione amministrativa giustiziale (= attività di riesame della legittimità e opportunità
di un provvedimento da parte di un organo dell’amministrazione stessa, su domanda dell’interessato).
Conseguenze:

163
- è legittimato solo chi debba far valere un proprio diritto soggettivo o interesse legittimo, che si
assume leso dall’atto (sono esclusi da tale forma di tutela i cd. interessi di fatto e gli interessi
semplici);
- a differenza che nei procedimenti di primo grado, il procedimento è solo su iniziativa di parte e
l’autorità adita ha una discrezionalità molto limitata, non potendosi pronunciare al di fuori dei
motivi dedotti avverso l’atto impugnato con il ricorso stesso.

I vantaggi concreti che offrono tali ricorsi sono: la possibilità di ottenere una pronuncia da parte dell’amministrazione,
la teorica rapidità della controversia e la spesa contenuta da sostenere.

I ricorsi amministrativi intesi come rimedi giustiziali non vanno confusi con altri atti (esposti o reclami) che il cittadino
può rivolgere alla pubblica Amministrazione per sollecitarla ad esercitare un suo potere. In questi casi
l’amministrazione ha il dovere di esaminare la denuncia, ma non ha l’obbligo di iniziare il procedimento né il dovere di
formale pronuncia. Ciò avviene nei casi di vero e proprio ricorso amministrativo, che alla fine altro non è che un atto di
iniziativa privata del procedimento giudiziale (il quale fa sorgere il dovere di pronuncia dell’organo adito).

- Parte della dottrina e la giurisprudenza amministrativa inquadrano il fenomeno della tutela amministrativa
nell’ambito dell’autotutela, atteso che attraverso questa attività la p.a. consegue il vantaggio di risolvere
controversie coinvolgenti i propri interessi, senza l’intervento del giudice e in tempi più rapidi, potendo altresì
riesaminare la questione e, eventualmente correggere in via interna eventuali errori.
- Altra dottrina preferisce parlare di autodichia, in quanto le decisioni che la p.a. adotta, in seguito a ricorso
dell’interessato, sarebbero piuttosto espressione del potere di decidere da sé una controversia insorta con
terzi in veste imparziale.

Differenze tra autotutela e tutela amministrativa:


L’autotutela amministrativa si attua:
- d’iniziativa della stessa p.a.
- con procedimento interno alla p.a.
- la p.a. agisce nel proprio esclusivo interesse, e non in posizione di terzietà e imparzialità
- l’atto di ritiro è di regola discrezionale in quanto è rimessa alla stessa p.a. la valutazione dell’effettivo e
attuale interesse pubblico alla caducazione dell’atto benché illegittimo o inopportuno
- l’autorità che emana il provvedimento di ritiro conserva il potere di decisione in merito all’oggetto del
provvedimento.
La tutela amministrativa su ricorso dà invece luogo:
- a un procedimento d’iniziativa del ricorrente
- a un procedimento esterno
- contenzioso (cioè in contraddittorio con gli interessati)
- la p.a. investita del ricorso ha l’obbligo di porsi in posizione di terzietà in ordine alla controversia
- la decisione circa la sussistenza di vizi del provvedimento è vincolata ai motivi addotti dal ricorrente
- l’autorità che decide il ricorso una volta emanato il provvedimento decisorio “consuma” il suo potere in
quanto functus est munere suo.

I ricorsi amministrativi sono attualmente disciplinati da:


- d.p.r. 1199/1971 e l. 1034/1971 (istitutiva dei TAR)
in unica istanza del ricorso gerarchico, del principio della facoltatività tra ricorsi ordinari e ricorso
giurisdizionale, previsione e disciplina dei ricorsi gerarchici impropri.
- CPA;
- ad essi si applicano anche le disposizioni di cui alla l. 241/1990 sul procedimento amministrativo
(così come novellata nel 2005 e 2009).
I ricorsi amministrativi, a differenza dei ricorsi giurisdizionali, non godono di garanzia costituzionale
espressa (tranne il ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana, essendo previsto e disciplinato
dallo Statuto siciliano approvato con l. cost. nel 1948). La Cost. tuttavia contiene anche norme sulla giustizia
amministrativa, sull’organizzazione e sull’azione amministrativa: i principi qui contenuti hanno riflessi
diretti e indiretti sulla funzione amministrativa giustiziale.
→ Obiettivo: assicurare ai cittadini nei confronti della PA una tutela in tempi brevi e poco costosa, ma
soprattutto estesa al merito, essendo solitamente l’organo adito con un ricorso amministrativo in possesso

164
di quella capacità di giudizio sull’opportunità dell’azione amministrativa che difetta, in via di principio, in
capo all’organo giurisdizionale.

Il D.P.R. 1199/1972 ha mantenuto tutti e quattro i ricorsi già previsti e disciplinati dalla precedente
legislazione:
1) RICORSO GERARCHICO PROPRIO; Carattere generale (per la loro esperibilità non serve
2) RICORSO GERARCHICO IMPROPRIO; una legge che li preveda)
3) RICORSO IN OPPOSIZIONE; Carattere eccezionale (ammessi
4) RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO. nelle ipotesi tassativamente indicate)

La dottrina tradizionalmente distingue i ricorsi in relazione ai caratteri e alla disciplina:


- RICORSI ORDINARI: ammessi nei confronti di atti non definitivi. Essi, portando il provvedimento
contestato all’esame della massima autorità amministrativa competente in quel settore,
determinano la “pronuncia della parola ultima e definitiva da parte dell’autorità amministrativa”.
o ricorso gerarchico
o ricorso in opposizione
- RICORSI STRAORDINARI: esperibili solo nei confronti di un atto definitivo. Esso realizza una tutela
ab extra, cioè al di fuori di una tutela settoriale, concerne solo la legittimità e non il merito dell’atto
e si pone come rimedio alternativo a quello giurisdizionale amministrativo.
o ricorso al Capo dello Stato

- RIMEDI RINNOVATORI: comportano la devoluzione della questione all’autorità che deve decidere
il ricorso, la quale sostituendosi all’autorità emanante oltre che annullare potrà, ma solo su istanza
del ricorrente, modificare o sostituire l’atto impugnato.
o ricorso gerarchico proprio (improprio in casi eccezionali)
o ricorso in opposizione
- RIMEDI ELIMINATORI: in caso di esito positivo comportano l’annullamento dell’atto impugnato
con divieto, per l’amministrazione adita, di riesaminare la pratica al fine di riformare l’atto
impugnato. In questi casi è tuttavia fatta salva la rimessione della pratica all’organo che ha
emanato l’atto annullato ai fini della rinnovazione del relativo procedimento.
o ricorso straordinario
o ricorso gerarchico improprio

- RICORSI IMPUGNATORI: hanno ad oggetto un provvedimento del quale si chiede l’eliminazione o


la riforma, poiché ritenuto lesivo. Essi presuppongono una manifestazione di volontà della p.a.
contenuta in un atto amministrativo e sono rimedi di carattere generale.
RICORSI NON IMPUGNATORI: hanno carattere eccezionale e atipico, a differenza dei precedenti,
hanno ad oggetto un mero comportamento della p.a. o la costituzione o la modifica di un rapporto
giuridico. Questo caso si ha quando l’autorità amministrava, in posizione di terzietà, è chiamata a
risolvere una controversia tra privati o tra privati e pubblici, in settori in cui è coinvolta la PA.
Es. ricorsi alle commissioni di vigilanza per l’edilizia economica e popolare; ricorsi ai consigli
comunali, provinciali e regionali, diretti a far dichiarare la decadenza di componenti in regime di in
eleggibilità o incompatibilità.

- RICORSI AMMESSI SOLO PER VIZI DI LEGITTIMITÀ:


o ricorso straordinario
- RICORSI AMMESSI ANCHE PER VIZI DI MERITO: si caratterizzano per l’ampiezza dei poteri di
cognizione dell’autorità decidente che deve apprezzarne opportunità, adeguatezza, convenienza,
equità dell’atto impugnato.
o ricorso gerarchico proprio
o ricorso in opposizione

Non rappresenta un elemento di differenziazione la SGS fatta valere dal ricorrente, sia essa un diritto
soggettivo o un interesse legittimo: infatti la ragione dei ricorsi amministrativi non è la tutela di una
165
particolare SG ma la garanzia del cittadino che assume di essere stato leso da un illegittimo provvedimento
della p.a. e che ne chiede, perciò, la rimozione.

Definitività e non definitività dell’atto:


Per stabilire se sia o meno esperibile un ricorso amministrativo ordinario avverso un atto della p.a. va
preliminarmente verificata la DEFINITIVITA’ di quest’ultimo: ove l’atto sia definitivo non sarà possibile
esperire altro che ricorso straordinario al Presidente della Repubblica o ricorso giurisdizionale.
La definitività si acquisisce:
- mediante la decisione sul ricorso gerarchico proprio o improprio o decorsi 90 giorni dalla
proposizione del ricorso, pur in caso di mancata decisione dell’autorità.
- per decorso dei termini per ricorrere, oltre che per natura (es. atto emanato da un organo che non
ha superiori gerarchici come i Ministri o dirigenti preposti al vertice dell’amministrazione, o gli atti
di organi collegiali), o per legge (es. i provvedimento prefettizi in materia di requisizione e
occupazione di urgenza).

Ai fini applicativi questa distinzione è venuta scemando. Si può affermare che:


a) contro gli atti amministrativi definitivi è ammissibile:
- ricorso amministrativo straordinario al Presidente della Repubblica
- ricorso giurisdizionale al TAR
- eccezionalmente, e nei casi tassativi di legge, un ricorso gerarchico improprio in presenza di cause
di definitività per natura dell’atto.
b) contro gli atti amministrativi non definitivi è ammissibile:
- ricorso amministrativo gerarchico
- ricorso giurisdizionale al TAR

Elementi del ricorso amministrativo:


1) SOGGETTI: possono presentare ricorso tutti i soggetti, siano essi persone fisiche, giuridiche o anche
associazioni prive di personalità giuridica.
o persone fisiche: tutti i cittadini che hanno la capacità d’agire;
o persone giuridiche (pubbliche o private): il ricorso è presentato dall’organo che ha la
rappresentanza esterna dell’ente a seguito di una procedura interna che si attua attraverso
le fasi della deliberazione a ricorrere e della presentazione del ricorso.
2) INTERESSE: il ricorso amministrativo non può essere proposto se non da chi, ritenendosi
danneggiato dall’atto della p.a., abbia interesse all’annullamento di esso.
Bisogna distinguere:
o interesse protetto (o materiale): quale interesse sostanziale protetto direttamente o
indirettamente dalla norma, dà luogo alla legittimazione a ricorrere. Esso è costituito da un
diritto soggettivo o da un interesse legittimo e può avere contenuto economico, economico
e morale, o meramente morale.
o Interesse al ricorso (o formale): ha natura processuale e si identifica nella possibilità di
conseguire un risultato utile per effetto dell’accoglimento del ricorso.

L’interesse deve essere:


o personale: cioè deve riferirsi al soggetto che propone il ricorso;
o diretto: non è legittimato a ricorrere il soggetto che non è titolare di un interesse
direttamente coinvolto nella fattispecie oggetto del ricorso;
o attuale: il ricorrente deve aver subito una lesione o menomazione concreta e immediata in
conseguenza dell’atto amministrativo oggetto del ricorso.

3) TERMINI: il ricorso deve essere presentato all’autorità competente nel perentorio termine di 30 gg.
per il ricorso gerarchico (o in opposizione) e di 120 gg. per il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica. Esso decorre, per le persone direttamente interessate, dalla notifica del
provvedimento; per gli interessati non contemplati nel provvedimento, invece, dalla data di
pubblicazione, se questa è prevista, ovvero dalla piena conoscenza dell’atto. Tale piena conoscenza
di attua nel momento in cui sono noti gli elementi essenziali dell’atto.
166
4) ESTINZIONE DEL DIRITTO AL RICORSO: il diritto al ricorso si estingue, oltre che con la rinuncia
dell’interessato, anche a seguito di acquiescenza e di decadenza per decorso del termine. Ù

5) FORMA: il ricorso deve essere redatto per iscritto su carta da bollo, salvo quando la legge lo
escluda. Deve indicare: 1) autorità cui sono diretti, 2) generalità del ricorrente, 3) provvedimento
impugnato, 4) motivi di impugnazione, 5) petitum, 6) data, 7) sottoscrizione del ricorrente o di un
suo procuratore speciale.

6) OGGETTO DEL RICORSO: può essere un atto amministrativo in senso soggettivo e oggettivo, oppure
un comportamento della p.a. o un rapporto insorto tra p.a. e un terzo oppure tra soggetti estranei
all’amministrazione. Nel primo caso, deve trattarsi di un atto emanato da un’autorità non
amministrativa nell’esercizio di una funzione amministrativa.

Istruttoria:
I momenti essenziali attraverso i quali si articola la fase dell’istruttoria sono i seguenti:
a) Contraddittorio: il ricorso deve essere portato a conoscenza di tutti i controinteressati, affinché
siano messi in grado di presentare le loro deduzioni.
Controinteressati sono tutti coloro che potrebbero essere lesi in un loro interesse dall’eventuale
accoglimento del ricorso e che sono individuabili sulla base dell’atto impugnato.
L’onere delle comunicazioni ai controinteressati incombe sull’amministrazione, in caso di
opposizione e ricorso gerarchico, quando non vi abbia già provveduto il ricorrente, o sullo stesso
ricorrente, nel caso di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
b) Raccolta delle prove: è fatta d’ufficio dall’autorità procedente, che è libera di effettuare tutti gli
accertamenti che ritiene opportuni.
c) Conclusione dell’istruzione: deve avvenire entro 90 gg. dalla presentazione, in caso di ricorso
gerarchico o entro 120 gg dalla data fissata ai controinteressati per le loro deduzioni, in caso di
ricorso straordinario.

Decisione del ricorso:


Il ricorso è normalmente deciso con decreto, che ha natura di provvedimento amministrativo. Alcuni autori
ritengono invece che esso abbia natura di mero atto amministrativo, in quanto manca di quel carattere di
autoritarietà che nasce dalla discrezionalità amministrativa.
Esso deve contenere: indicazione dell’autorità decidente, motivazione, dispositivo, sottoscrizione e data.

Contenuto della decisione:


Riguardo al contenuto della decisione occorre distinguere:
a) decisione di rito: risolve il ricorso in base a una questione pregiudiziale, che può essere
- di irricevibilità del ricorso: se presentato fuori termine;
- di inammissibilità del ricorso: se presentato a autorità diversa da quella indicata nell’atto e
perciò incompetente, o contro atto non impugnabile, o da soggetto carente di interesse;
- di nullità del ricorso: se manca di elementi essenziali (es. motivi).
b) decisione di merito: deve contenere il giudizio sulla fondatezza o meno dei motivi addotti nel
ricorso, accogliendolo o respingendolo
- rigetto del ricorso: se i motivi sono ritenuti infondati
- accoglimento del ricorso: se è ritenuto fondato per motivi di legittimità -> autorità adita
annulla l’atto (salva la facoltà dell’amministrazione interessata di emanare un nuovo
provvedimento immune dal vizio). Nel caso di incompetenza l’annullamento deve essere
accompagnato dall’indicazione dell’autorità competente. Se il ricorso è accolto per motivi
di merito -> l’autorità adita revoca l’atto o lo riforma, cioè lo sostituisce con un
provvedimento più aderente all’interesse pubblico.

167
La decisione del ricorso deve essere comunicata sia all’autorità che ha emanato il provvedimento
impugnato, che al ricorrente e ai controinteressati, mediante notificazione del provvedimento stesso e
comunicazione a mezzo di lettera raccomandata. Se con la decisione è stato annullato un regolamento, la
decisione deve essere pubblicata.

Effetti e estensione della decisione:


- nei confronti delle parti: essa permette alle stesse di adire gli altri mezzi di impugnazione ammessi,
sia per il ricorrente, in caso di rigetto, sia per i controinteressati, in caso di accoglimento;
- nei confronti della p.a.: l’accoglimento del ricorso costituisce ostacolo all’emanazione di un
provvedimento identico a quello annullato o riformato e relativo alle stesse persone, ma non
impedisce alla p.a. di provvedere in qualunque altro modo in ordine alla situazione.

IL RICORSO GERARCHICO:
Già presente nei sistemi anteriori alla formazione degli Stati costituzionali, con la legge del 1865, abolitiva
dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo, è stato espressamente previsto nell’ordinamento del
nuovo Stato unitario.
(motivati) delle autorità
amministrative, con i quali esse avrebbero dovuto provvedere sulle controversie diverse da quelle devolute
alla giurisdizione ordinaria.
Il legislatore del 1865 aveva quindi tracciato un sistema di tutela articolato su due livelli: 1) un primo livello in
cui il cittadino poteva trovare soddisfazione davanti all’autorità amministrativa (la stessa che aveva emanato
l’atto contestato); 2) un secondo livello in cui, avverso i decreti motivati con i quali l’organo adito si
pronunciata, era ammesso ricorso in via gerarchica.
Il quadro era poi completato dall’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato sul ricorso al Re nei confronti
dei provvedimenti definitivi ritenuti illegittimi. Prevedeva poi una previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri in caso di decisione sul ricorso difforme dal parere.
Tuttavia il disegno del legislatore fallì anche per l’applicazione distorta che dei ricorsi gerarchici fece
l’amministrazione: concepiti dal legislatore come uno strumento fondamentale di tutela del cittadino nei
confronti dei provvedimenti amministrativi, vennero ben presto considerati in funzione esclusiva delle ragioni
dell’amministrazione stessa.

Le disposizioni sul ricorso gerarchico, dopo il testo del 1865, sono scarse e sporadiche. Attualmente il
ricorso gerarchico è disciplinato, in tutti i suoi aspetti, dal Capo I del D.P.R. 1199/1971 e, per alcuni profili,
dalla l. 1034 sui TAR.
→ Art. 1 del d.p.r. 1199 dispone che contro gli atti amministrativi non definitivi è ammesso ricorso in unica
istanza all’organo sovraordinato, per motivi di legittimità e di merito, da parte di chi vi abbia interesse, a
tutela di diritti soggettivi e di interessi legittimi.

Il ricorso gerarchico proprio presuppone, per la sua esperibilità:


a) un rapporto di gerarchia esterna, salvo casi eccezionali (ricorso gerarchico improprio);
b) la non definitività dell’atto impugnato;
c) l’interesse a ricorrere da parte di chi lo propone.

Questo strumento è l’unico che consente al cittadino in via generale di impugnare un


provvedimento anche per vizi di merito! -> campo dell’opportunità è sottratto, tranne rarissime
eccezioni, a qualsiasi intervento del giudice.

Si distinguono due tipi di ricorso gerarchico:


a) Ricorso gerarchico PROPRIO: è un rimedio di ordine generale, e presuppone un rapporto di
gerarchia in senso tecnico tra l’organo che ha emanato l’atto impugnato e l’organo a cui si ricorre.
o intercorre solo tra organi individuali: non può esservi gerarchia tra organi collegiali, o tra
organi individuali e collegiali;
o è solo esterno: con riguardo alla gerarchia tra organi e non a quella che attiene a rapporti di
grado e di qualifica tra funzionari, detta anche gerarchia interna o personale;

168
o intercorre solo tra organi appartenenti allo stesso ramo di amministrazione: non può
esservi gerarchia tra organi appartenenti a rami diversi.

b) Ricorso gerarchico IMPROPRIO: è un rimedio di carattere eccezionale previsto in alcuni casi in cui
non esiste alcun rapporto di gerarchia. Si tratta di un ricorso ordinario impugnatorio proposto a:
o organi individuali avverso deliberazioni di organi collegiali e viceversa;
o organi collegiali avverso deliberazioni di altri organi collegiali;
o organi statali avverso provvedimenti di altro ente pubblico;
o organo statali avverso provvedimenti di organi di vertice (es. Ministri).

Sono ricorsi, previsti da norme speciali, nei quali non rileva la definitività esplicita o implicita
dell'atto, non esiste un rapporto di gerarchia tra l’autorità che ha emanato l’atto e l’autorità
chiamata a decidere il ricorso, ma solo l’occasionale rapporto funzionale che si estrinseca nella
potestà di decisione del gravame. Di solito sono ricorsi avverso atti amministrativi di Ministri, enti
pubblici o organi collegiali: sono atti definitivi ab origine, che si sottraggono a qualsiasi rapporto
gerarchico e riguardanti materie particolari (es. commercio, impiego scolastico…).

Il ricorso gerarchico è ammesso in unica istanza. Anche in caso di più gradi di gerarchia, il ricorso va
proposto una sola volta: il provvedimento emesso in seguito al primo ricorso è definitivo.
Il D.p.r. 1199/1971 ha dettato una disciplina particolareggiata del procedimento per la decisione del ricorso
gerarchico:

FASI DEL PROCEDIMENTO:


Con il ricorso gerarchico si attiva un procedimento di secondo grado soggetto, per quanto non disposto dal
d.p.r. 1199/1971, alla l. 241/1990.
Termini per ricorrere: Il ricorso deve essere presentato entro un termine perentorio di 30 giorni dalla
notifica o conoscenza legale dell’atto all'autorità competente (o all’autorità che
ha emanato l’atto, la quale ne curerà l’inoltro all’organo sovraordinato).
Modo di presentazione: La presentazione del ricorso può essere fatta:
- mediante consegna a mano all’ufficio competente
- mediante notificazione
- mediante lettera raccomandata a/r.
Non occorre il patrocinio di un avvocato.
Presentazione ad Se il ricorso è stato presentato, nei termini, a un organo diverso da quello
autorità incompetente: competente, ma appartenente alla stessa amministrazione, il ricorso stesso
non è dichiarato irricevibile ma viene trasmesso, d’ufficio, dall’organo cui è
stato presentato all’organo competente.
Se invece l’organo a cui è stato presentato il ricorso non appartiene alla stessa
amministrazione di quello competente, il soggetto, ove ne ricorrano i
presupposto, potrà invocare la sospensione del termine per errore scusabile.
Contraddittorio: Il contraddittorio è a carico dell’amministrazione decidente. Questa infatti,
qualora non vi abbia provveduto il ricorrente, ha il dovere, una volta ricevuto il
ricorso, di comunicarlo entro 70 gg, ai controinteressati individuabili sulla base
dell’atto impugnato – affinché presentino nei successivi 20 gg deduzioni e
documenti. Per il ricorrente la comunicazione del ricorso ai controinteressati
costituisce una mera facoltà.
Il ricorso non va notificato né ai controinteressati né all’amministrazione che
ha emanato l’atto, ritenendosi quest’ultima tutelata dal fatto che il ricorso
viene comunque deciso da un’autorità ad essa sovraordinata.
La legge non prevede alcun obbligo per l’amministrazione di comunicare al
ricorrente l’avvenuto deposito delle memorie difensive. Tuttavia il ricorrente,
come le altre parti, ha diritto di prendere visione degli atti del procedimento e

169
quindi anche degli atti difensivi, e di averne copia.
Istruttoria: La disciplina dell’istruttoria è scarna: all’amministrazione spetta la veridica dei
fatti segnalati dalle parti, sulle quali non grava nessun onere della prova.
L’organo decidente può disporre tutti gli accertamenti istruttori ritenuti utili ai
fini della decisione. Non sono ammessi mezzi di prova suscettibili di incidere su
diritti costituzionalmente garantiti, nonché il giuramento o l’interrogatorio
formale.
È prevalente in dottrina l’opinione che ritiene che l’amministrazione non possa
introdurre fatti diversi da quelli acquisiti nel procedimento di primo grado o
introdotti dalle parti (per evitare la confusione che si verrebbe a determinare
tra procedimenti in funzione giustiziale e quindi soggetti al principio della
domanda, e procedimenti di amministrazione attiva preordinati alla cura di un
interesse pubblico).
Sospensione del L’impugnazione dell’atto non ne sospende l’efficacia. Per gravi motivi,
provvedimento espressamente indicati dal ricorrente, l’amministrazione competente a
impugnato: decidere può sospenderne, con provvedimento motivato, l’esecuzione. La
sospensione d’ufficio, oltre che nell’interesse del ricorrente, può essere
disposta anche nell’interesse dell’amministrazione, allorché dall’esecuzione
dell’atto possono derivare danni per la stessa, i termini di responsabilità,
obblighi risarcitori… La sospensione ha efficacia interinale, fino alla decisione
sul ricorso.
Ricorso incidentale e È consentito ai controinteressati proporre, nel termine di 20 gg previsti per la
intervento: presentazione delle memorie e deduzioni, ricorso incidentale, e al ricorrente di
presentare motivi aggiunti, allorché nuovi vizi del provvedimento impugnato
emergano da atti e documenti dei quali il ricorrente viene a conoscenza solo
dopo la presentazione del ricorso stesso.
Si ritiene ammissibile anche l’intervento, sia ad opponendum che ad
adiuvandum.
Decisione: L'autorità amministrativa ha il dovere di pronunciarsi sulla legittimità (o
opportunità) dell'atto impugnato e adottare, se richiesti, provvedimenti
rinnovatori. La decisione sul ricorso deve essere motivata e redatta per iscritto
(a pena di nullità).
Anche qui si distingue tra decisioni di rito e di merito. Sono poi possibili
decisioni oltre che di annullamento o di rigetto, anche di riforma, su richiesta
del ricorrente e in presenza di un potere di provvedere in materia dell’organo
adito.
Il contenuto della decisione può essere determinato solo dalla valutazione dei
motivi dedotti con il ricorso e non da altre valutazioni (altrimenti si
determinerebbe una commistione tra poteri di amministrazione attiva e poteri
di risoluzione di un conflitto, nell’ambito della funzione amministrativa
giustiziale, dell’organo adito con il ricorso).
La decisione sul ricorso gerarchico, dopo l'unificazione in unica istanza, è atto
definitivo, suscettibile di impugnazione in via giurisdizionale o con ricorso
straordinario al Capo dello Stato.
L’autorità decidente deve esaminare prima le censure di rito, poi di merito, e
deve pronunciarsi su tutti i motivi del ricorso (pena l’illegittimità della
decisione), salvo principio dell'assorbimento.
La decisione deve, poi, essere comunicata all’autorità che ha emanato l’atto
impugnato, al ricorrente e agli altri interessati, ai quali sia stato comunicato il
ricorso.

IL SILENZIO-RIGETTO:

170
La p.a. ha l’obbligo giuridico di decidere sul ricorso gerarchico che le viene presentato. Tuttavia il legislatore
ha prospettato anche leventualità che la p.a. non sia in grado di adempiere a tale obbligo per mancanza di
personale, tempo, o altri motivi.
L’art. 6 del d.p.r. 1199/1971 stabilisce che, decorsi 90 gg dalla presentazione del ricorso senza che la P.A.
abbia comunicato all’interessato la decisione dello stesso,il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti e
l’interessato può proporre ricorso giurisdizionale davanti al G.A. competente o ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica, direttamente avverso l’atto impugnato in sede gerarchica.

La giurisprudenza amministrativa, risalente alle decisioni dell’AP n. 16 e 17 del 1989, afferma costantemente
che il decorso del termine per la formazione del silenzio ha effetti meramente processuali: con la
conseguenza che il ricorrente in sede gerarchica ha la facoltà di agire immediatamente in sede giurisdizionale,
restando integra la possibilità di impugnare il provvedimento originario unitamente all’eventuale decisione
tardiva sul proposto ricorso gerarchico.

Una volta che l’autorità si è pronunciata sul ricorso, la decisione, se riguardante posizioni di interesse
legittimo, è impugnabile con ricorso giurisdizionale al TAR o, alternativamente, con ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica.

Se il decorso del termine, con conseguente formazione del silenzio-rigetto, non priva l’amministrazione investita del
ricorso del potere-dovere di provvedere anche alla scadenza del termine, la decisione tardiva non solo è legittima ma
è anche doverosa.
- se di accoglimento: determinerà la cessazione della materia del contendere, anche se potrà essere
impugnata dai controinteressati lesi;
- se di rigetto: non porrò alcun onere di impugnativa.
Il passaggio in giudicato della sentenza rende inefficace la decisione tardiva successivamente intervenuta, in
considerazione della prevalenza della sentenza sulla decisione amministrativa.

Rapporto del ricorso gerarchico con il ricorso giurisdizionale:


Prima della riforma del 1971, a partire dalla legge del 1889 istitutiva della IV Sez. Consiglio di Stato, in
presenza di un atto non definitivo il ricorso gerarchico doveva precedere necessariamente il ricorso
giurisdizionale, che era ammesso solo contro atti amministrativi definitivi.

Con la riforma si sono invece affermati:


- il principio della facoltatività con il ricorso giurisdizionale: la definitività del provvedimento
impugnato non costituisce più presupposto necessario e indispensabile per adire il G.A.
- il principio della prevalenza, per la tutela sicuramente più forte che garantisce ai cittadini, del
ricorso giurisdizionale sul ricorso gerarchico (escludendosi pertanto la contemporanea pendenza
sullo stesso atto di ambedue i ricorsi).
→ In questa prospettiva la giurisprudenza considera inammissibile il ricorso gerarchico proposto
avverso lo stesso atto dal medesimo soggetto dopo la presentazione del ricorso giurisdizionale; e
improcedibile a fronte della presentazione, purchè non siano ancora scaduti i termini per
impugnare, di un successivo ricorso giurisdizionale.
La regola della prevalenza del ricorso giurisdizionale su quello amministrativo può tuttavia risultare
particolarmente svantaggiosa per i cittadini nel caso in cui i due ricorsi abbiano contenuti diversi – e
specialmente quando il ricorso gerarchico sia stato presentato anche (o solo) per motivi di merito, essendo
infatti la giurisdizione sul merito limitata a casi eccezionali. C’è chi ritiene, pertanto, che su tali vizi l’autorità
dinanzi alla quale pende il ricorso gerarchico è tenuta a pronunciarsi anche quando, per la prevalenza del
ricorso giurisdizionale, gli sia inibita la pronuncia sui vizi di legittimità.

NON sono impugnabili con ricorso gerarchico:


- atti e provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice dell’amministrazione e dai dirigenti di
altri uffici dirigenziali generali (Gli atti non definitivi dei dirigenti statali sono impugnabili con
ricorso gerarchico innanzi ai dirigenti generali);
- atti normativi di autorità amministrative, se non congiuntamente al provvedimento che ne
costituisce applicazione;

171
- atti riconducibili alla fase preparatoria o a quella integrativa dell’efficacia di un provvedimento;
- atti meramente confermativi e esecutivi di atti precedenti non impugnati (per evitare l’elusione del
regime di impugnazione nel termine di decadenza).

IL RICORSO IN OPPOSIZIONE
È previsto dall’art. 7 d.p.r. 1199/1971, che non detta alcuna disciplina particolare, rinviando, per quanto
possibile, alle norme generali sul ricorso amministrativo gerarchico.
È un ricorso amministrativo atipico, rivolto alla stessa autorità che ha emanato l'atto impugnato. Non è un
rimedio di carattere generale ma è eccezionale, utilizzabile solo nei casi tassativi in cui la legge lo ammette.
Ciò perché l’autorità che ha emanato il provvedimento non è, di regola, la più idonea a giudicare il proprio
antecedente operato: lo scarso sviluppo di questo modello di ricorso si ricollega, infatti, alla diffidenza
verso la capacità dell’autorità che abbia emanato l’atto impugnato di valutare in modo imparziale il ricorso
diretto contro il proprio atto.
I ricorsi in opposizione avviano un procedimento amministrativo di secondo grado, in cui l’amministrazione
è chiamata a svolgere funzioni amministrative giustiziali – diverse da quelle di amministrazione attiva
esercitate al momento dell’emanazione del provvedimento impugnato.

Anche il ricorso in opposizione può essere proposto per vizi sia di legittimità che di merito, a tutela di
interessi legittimi o semplici, oltre che di diritti soggettivi, contro provvedimenti non definitivi.
La decisione sul ricorso ha carattere definitivo: contro di essa potrà esperirsi sia il ricorso giurisdizionale, o
in alternativa, il ricorso straordinario.

Il termine per la sua proposizione è quello generale di 30 gg, dalla notifica o emanazione dell’atto
impugnato, ma la legge può prevedere, nei singoli casi, termini diversi.

IL RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO


Residuo del potere riconosciuto nelle monarchie assolute al Sovrano di svolgere una funzione di giustizia,
con possibilità di intervenire, quale ultima istanza, sia sui provvedimenti che sulle sentenze.
E’ anch’esso disciplinato dal d.p.r. n. 1199, 24 novembre 1971 (artt. 8 e ss.) sebbene nel rinnovato quadro
normativo offerto dalla L.69/2009 (art. 69) e dal CPA.

Il ricorso straordinario è un rimedio amministrativo di carattere generale consistente nell’impugnativa di


un atto amministrativo definitivo, proposta dal soggetto interessato direttamente al Capo dello Stato.
Esso è ammesso solo per motivi di legittimità, mai per vizi di merito, e può essere proposto per la tutela sia
di interessi legittimi che di diritti soggettivi.

L’art. 7 comma 8 CPA ha circoscritto l’ammissibilità del ricorso alle sole controversie devolute alla
giurisdizione amministrativa.
L’art. 128 ha inoltre disposto l’inammissibilità del ricorso straordinario in materia elettorale, mentre l’art. 120
ha riservato le controversie relative alle procedure di affidamento di appalti pubblici alla tutela
giurisdizionale, non consentendo più anche una tutela in sede amministrativa.

Si tratta di un rimedio incluso da sempre, da dottrina e giurisprudenza, tra i ricorsi amministrativi, pur
riconoscendone la natura di rimedio anomalo, e pur rilevandone le notevoli analogie con il ricorso
giurisdizionale (quanto all’interesse, alla legittimazione a ricorrere, alla decorrenza del termine,
all’istruzione probatoria, al ricorso incidentale, alla revocazione).
Proprio in considerazione della sua qualificazione di rimedio amministrativo, la giurisprudenza ha
tradizionalmente escluso la proponibilità in sede di ricorso straordinario della questione di pregiudizialità
comunitaria e di legittimità costituzionale, e ha negato il rimedio del giudizio di ottemperanza per
l’esecuzione della decisione sul ricorso.

172
Questo quadro è stato rimesso in discussione da una sentenza della CGCE del 1997 che ha affermato che il
Consiglio di Stato costituisce pur sempre una giurisdizione ai sensi del Trattato, con la conseguenza che
legittimamente può in quella sede sollevare questioni di pregiudizialità comunitaria.
In seguito a questa affermazione il Consiglio di Stato ha mutato il proprio orientamento con riferimento alla
possibilità che in sede di ricorso straordinario venga sollevata questione di legittimità costituzionale; al valore
di cosa giudicata della decisione, con conseguente possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza; ai motivi
aggiunti.

Gli atti di diritto privato dell’amministrazione sono stati tradizionalmente esclusi dall’ambito di operatività
del ricorso straordinario, perché non riconducibili a una potestà amministrativa (fatta eccezione per la
rescissione del contratto di appalto, considerato il carattere autoritativo dello stesso).
Per quanto concerne gli atti delle amministrazioni indipendenti, la giurisprudenza ha concluso per
l’impugnabilità degli atti adottati da tali soggetti, senza alcuna distinzione.

Come gli altri rimedi, il ricorso straordinario ha carattere impugnatorio, sicchè di principio possono
impugnarsi solo provvedimenti amministrativi. La giurisprudenza tuttavia lo ammette anche contro il
silenzio-inadempimento o silenzio-rifiuto, e quindi avverso un mero comportamento dell’amministrazione,
previa:
- attivazione, da parte del privato, del procedimento per la formazione del silenzio-rifiuto,
- esperimento del ricorso gerarchico avverso il silenzio-rifiuto dell’autorità subordinata.

Il ricorso NON è proponibile:


- nei casi in cui la giurisdizione su un atto amministrativo sia stata attribuita ad un giudice speciale
(Corte dei Conti, Commissioni tributarie con l’eccezione degli atti comunali istitutivi di tributi,
Tribunale delle acque);
- quando la giurisdizione sia stata – con norma processuale di carattere speciale – riservata al G.O.,
o al G.A. (es. ingiunzione di pagamento, sanzioni accessorie conseguenti alla violazione di norme
sulla circolazione stradale, accesso ai documenti amministrativi…);
- quando la giurisdizione sia riservata alla Sezione di Bolzano del TRGA;
- per le questioni devolute a un collegio arbitrale, per la natura di lodo arbitrale della relativa
decisione;
- per i conflitti di attribuzione di competenza esclusiva della Corte Cost.
- in materia elettorale (art. 128 CPA) – inammissibilità discende dall’essere il ricorso in questa
materia autonomamente regolato da un procedimento giurisdizionale speciale, caratterizzato da
termini accelerati e da possibile decisione di merito, rimesso alla giurisdizione esclusiva del G.A.

Rapporti con il ricorso al TAR:


a) Principio di alternatività:
il ricorso straordinario è alternativo a quello giurisdizionale amministrativo. Pertanto:
- se l’atto è stato impugnato con ricorso giurisdizionale al TAR è inammissibile il ricorso straordinario
avverso lo stesso atto;
- se l’atto è stato impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, non è più
impugnabile con ricorso al TAR.

La regola dell’alternatività ha la funzione di evitare che sullo stesso atto amministrativo


intervengano due pronunce diverse (divieto del ne bis in idem) e che il Consiglio di Stato si
pronunci due volte sullo stesso atto; inoltre serve a salvaguardare il prestigio del PdR che sarebbe
sminuito ove si ammettesse un sindacato giurisdizionale sul decreto presidenziale.
Tale preclusione non lede i diritti costituzionali del ricorrente, in quanto è riconducibile a una sua
scelta, quella di agire in via straordinaria.

b) Trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale:


è un istituto previsto a tutela dei controinteressati intimati (ai quali sia stato cioè notificato il
ricorso). La ratio della previsione è rinvenibile nella circostanza che, poiché il ricorso giurisdizionale

173
offre maggiori garanzie rispetto a quello straordinario, deve essere consentita la scelta tra le due
forme di tutela non solo al ricorrente, ma anche al controinteressato, che (in quanto soggetto chi
l’atto si riferisce direttamente, costituendo a suo favore una posizione giuridicamente qualificata
alla conservazione dell’atto stesso e che, perciò sarebbe danneggiato dall’accoglimento del ricorso)
non può subire passivamente una scelta altrui. È il controinteressato legittimato infatti a chiedere
che il ricorso sia trasposto in sede giurisdizionale.
Pertanto, impugnato l’atto con ricorso straordinario, il ricorrente, avendo fatta la sua scelta, non
può più ricorrere in sede giurisdizionale; invece i controinteressati al ricorso possono ancora
scegliere: aderire alla via scelta dal primo ricorrente, oppure chiedere – con opposizione proposta
entro 60 gg dalla notifica del ricorso straordinario – che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale.

c) Giudizio conseguente alla trasposizione del ricorso straordinario:


Il CPA all’art. 48 esamina l’ipotesi in cui il controinteressato proponga opposizione al ricorso
straordinario, incardinando, in tal modo, un giudizio che segue innanzi al TAR.
A tal fine, il ricorrente, nel termine perentorio di 60 gg dal ricevimento dell’atto di opposizione deve
depositare, nella segreteria del TAR competente, l’atto di costituzione in giudizio, dandone avviso
mediante notificazione alle altre parti. In caso di inammissibilità dell’opposizione, il giudice adito
dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria.
Nel caso in cui siano state rese misure cautelari in sede straordinaria, le stesse perdono efficacia
alla scadenza del 60mo giorno successivo alla data di deposito dell’atto di costituzione nel giudizio
di opposizione. In ogni caso, il ricorrente può riproporre l’istanza cautelare innanzi al TAR investito
del giudizio di opposizione.

PROCEDIMENTO:
Termine per ricorrere: Il ricorso straordinario deve essere proposto – con atto scritto – entro il
termine perentorio di 120 gg decorrente alternativamente dalla notificazione /
comunicazione / piena conoscenza / pubblicazione del provvedimento
impugnato, o dalla formazione del silenzio-rigetto sul ricorso gerarchico. Il
termine non opera allorché il ricorso viene proposto a tutela di diritti
soggettivi, trovando applicazione in questo caso il termine di prescrizione.
Notifica e deposito: Entro il termine di 120 gg il ricorso deve essere:
a) notificato, a pena di inammissibilità, a: almeno uno dei
controinteressati indicati nel provvedimento, o facilmente individuabili
in base ad esso; all’autorità che ha emanato l’atto impugnato, quando
si tratta di organo di un’amministrazione diversa dallo Stato;
b) presentato, con la prova dell’avvenuta notificazione, a pena di
irricevibilità, direttamente all’organo che ha emanato l’atto impugnato
(il quale dovrà farlo pervenire al ministero) o al Ministro competente, o
alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Nel caso in cui si configuri un errore scusabile, il ricorrente può essere rimesso
in termini per presentare il ricorso gerarchico.
Il deposito può essere eseguito mediante consegna diretta, o notifica o lettera
raccomandata a/r. Insieme al ricorso vanno depositati i documenti posti a
fondamento del ricorso stesso, nonché la ricevuta dell’avvenuto pagamento
dell’imposta di bollo.
Contraddittorio: La garanzia del contraddittorio opera sia nei confronti dei controinteressati
(coloro che ricevono dal provvedimento impugnato un vantaggio) sia nei
confronti dell’autorità che ha emanato l’atto (allorché inerisca a un ente
pubblico diverso dallo Stato). Tale garanzia non opera invece nei confronti
dell’autorità statale che ha emanato il provvedimento impugnato (il ricorso
viene comunque deciso da un organo statale, sia esso il Ministro competente o
il Consiglio dei Ministri).
Il contraddittorio è a carico del ricorrente, cui spetta, su disposizione del

174
Ministro competente, anche la relativa integrazione, con le modalità e entro i
termini indicati.
Entro 60 gg (non perentori) dalla notificazione del ricorso, i controinteressati e
l’autorità non statale che ha emanato l’atto, possono presentare al Ministro
competente per l‘istruttoria memorie e documenti, dei quali il ricorrente potrà
prendere visione.
I controinteressati possono, entro lo stesso termine (perentorio), presentare
ricorso incidentale, con il quale chiedere l’annullamento dell’atto impugnato in
una parte diversa o per motivi diversi da quelli per i quali è stato chiesto
l’annullamento con ricorso principale.
Dottrina e giurisprudenza ammettono l’intervento, sia ad opponendum che ad
adiuvandum, nonché la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti (ma
solo fino al momento della trasmissione al competente ministero del parere del
Consiglio di Stato).
Sospensione: Con la proposizione del ricorso, il ricorrente può chiedere la sospensione degli
effetti del provvedimento impugnato, nel caso in cui dallo stesso derivino danni
gravi e irreparabili.
Istruttoria: L’istruttoria del ricorso è compiuta dal Ministero competente, cioè dal
Ministero che sovrintende alla materia alla quale è da ricondurre l’atto
impugnato. Secondo l’ultimo comma dell’art. 11 d.p.r. 1199/1971, i ricorsi con i
quali di impugnano atti di enti pubblici in materie per le quali manchi uno
specifico collegamento con le competenze di un determinato Ministero devono
essere presentati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che ne cura la
relativa istruttoria. Si è, in tal modo, stabilita una competenza suppletiva a
carattere generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per tutte quelle
materie per le quali sia difficile determinare un collegamento con un preciso
ministero.
La legge ha fissato anche un termine per la chiusura dell’istruzione: 120 gg dalla
scadenza del termine assegnato ai controinteressati per la presentazione delle
loro deduzioni. Trascorso tale termine, il ricorrente può richiedere, con atto
notificato al Ministero competente, se il ricorso è stato trasmesso per il parere
al Consiglio di Stato e, in caso di risposta negativa o di mancata risposta entro
30 gg, può depositare direttamente copia del ricorso presso quest’ultimo.
Parere del Consiglio di Istruito il ricorso, il Ministero lo trasmette al Consiglio di Stato per il relativo
Stato: parere. Quest’ultimo in quanto deve necessariamente precedere la decisione
del ricorso, è obbligatorio. Esso ha inoltre natura vincolante, poiché il ricorso è
deciso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro
competente, conforme al parere del Consiglio di Stato.
Il Presidente del Consiglio di Stato assegna il ricorso ad una delle sezioni o a
una commissione speciale. Tuttavia, per assicurare l’unità di indirizzo, se tale
sezione o la commissione rileva che il punto di diritto ad essa sottoposto ha
dato luogo o può dar luogo a contrasti giurisprudenziali, può rimettere il
ricorso all’Adunanza generale.
L’organo del Consiglio di Stato cui è affidato il ricorso, se riconosce che
l’istruttoria è incompleta o che i fatti affermati nell’atto impugnato in contrasto
con i documenti esibiti, può chiedere al Ministro nuovi chiarimenti o documenti
o ordinare che vengano disposte nuove verifiche. Esso può anche ordinare
l’integrazione del contraddittorio, se il ricorso non è stato notificato a tutti gli
interessati.
Quando il Consiglio di Stato ritiene che il ricorso non può essere deciso
indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità
costituzionale, sospende l’espressione del parere e ordina alla segreteria
l’immediata rimessione degli atti alla Corte Cost. e la notifica del
provvedimento ai soggetti interessati.

175
La decisione:
La decisione, formulata come proposta di decreto al Presidente della repubblica, è assunta dal competente
Ministro sulla base del parere vincolante del Consiglio di Stato.
Il parere del Consiglio di Stato, che può riguardare sia profili di rito che aspetti di merito, prima della
modifica operata dalla l. 69/2009 era parzialmente vincolante, nel senso che se il Ministro intendeva
proporre al Capo dello Stato una decisione difforme dal parere, doveva preventivamente sottoporre la
questione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri; altrimenti la decisione doveva essere conforme al
parere stesso. A partire dal 2009 la decisione del Consiglio di Stato ha natura pienamente vincolante.
La decisione sul ricorso straordinario è assunta con decreto motivato del Capo dello Stato, il quale si limita
a esternare il decisum del Consiglio di Stato, e di cui il Ministro proponente assume, con la controfirma, la
responsabilità politica e giuridica.
Tale decreto deve essere comunicato alle parti, unitamente al parere del Consiglio di Stato, che ne
costituisce parte integrante, e pubblicato per estratto sulla GU.
La decisione di accoglimento del ricorso ha come effetto l’annullamento del provvedimento impugnato.
per i regolamenti e gli atti indivisibili esplica efficacia erga omnes. In questo caso, della decisione deve
essere data notizia a cura dell’amministrazione interessata, o dell’interessato, ma a spese
dell’amministrazione inadempimente, entro 30 gg, nelle stesse forme previste per la pubblicità degli atti di
cui si tratta.

Il ricorso per l’ottemperanza:


Il problema dell’esecuzione del decreto decisorio è strettamente connesso a quello della sua natura
giuridica:
- Per la dottrina: la possibilità di assoggettare a un giudizio di ottemperanza la decisione del ricorso
straordinario è sostanzialmente esclusa dalla natura non giurisdizionale del decreto del Presidente
della Repubblica (non trattandosi di sentenza, è insuscettibile di passare in giudicato). Per
l’esecuzione della decisione è pertanto necessario diffidare la p.a. ad adempiere, e in caso di
inerzia ricorrere avverso il silenzio.
- La giurisprudenza è divisa:
a) l’orientamento tradizionale ritiene inammissibile l’esecuzione coattiva della decisione del
ricorso straordinario mediante il giudizio di ottemperanza, atteso che il decreto decisorio de
quo, pur ponendosi su un piano alternativo rispetto alla tutela giurisdizionale, ha pur sempre
natura amministrativa e non può essere qualificato come sentenza, non essendo il Capo dello
Stato un organo giurisdizionale. Ferma restando tale preclusione, si ritiene che la decisione sul
ricorso straordinario ha comunque carattere cogente e, pertanto, determina in capo all’autorità
amministrativa l’obbligo di eseguirla.
b) A fronte di questo indirizzo, dagli ultimi orientamenti giurisprudenziali emerge una maggiore
apertura verso una tale possibilità di esecuzione, che in alcune decisioni diviene un vero e
proprio riconoscimento.
In senso opposto a quanto sostenuto dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato, il Consiglio di
Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, con alcune sentenze ha ammesso il ricorso per
l’ottemperanza della decisione sul ricorso straordinario al Presidente della Regione.
A questa decisione hanno fatto seguito delle altre che, sulla scorta del recente procedimento di
giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, lo hanno qualificato come un rimedio
tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, anche se formalmente amministrativo, in
considerazione della possibilità di sollevare una questione di legittimità cost. nel corso del
procedimento e della natura vincolante del parere. Logica conseguenza di tale impostazione
dovrebbe essere il riconoscimento della tutela del decreto decisorio mediante il giudizio di
ottemperanza.

Il problema è stato risolto dal CPA il quale, all’art. 112 comma 2 lett. d), ha ammesso l’azione di
ottemperanza oltre che per le sentenze passate in giudicato, anche per gli altri provvedimenti ad esse
equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza – al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligo della PA di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.

176
Le questioni di pregiudizialità comunitaria e di legittimità costituzionale:
- Il Consiglio di Stato, in sede di parere per la definizione del ricorso straordinario, è legittimato a
chiedere alla CGCE una pronuncia interpretativa di una norma comunitaria necessaria per la
soluzione della controversia oggetto del ricorso stesso.
Secondo la CGCE, il Consiglio di Stato, anche quando emette un parere nell’ambito di un ricorso
straordinario, costituisce una giurisdizione ai sensi dell’art. 234 del Trattato, con la conseguenza che
legittimamente può prospettare alla CGCE questioni pregiudiziali.
Muovendosi lungo le linee tracciate dalla CGCE, il Consiglio di Stato aveva ammesso la
proponibilità di questioni di legittimità costituzionale nell’ambito della procedura di adozione del
parere sul ricorso straordinario, per la natura sostanzialmente giurisdizionale dell’attività svolta in
quella sede (in contrasto con la giurisprudenza precedente).

- La Corte Cost., sul presupposto della natura amministrativa e non giurisdizionale del ricorso
straordinario, e sulla possibilità dell’amministrazione di discostarsi dal parere, aveva escluso la
legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare l’incidente di costituzionalità.
Con l’art. 69 comma 1 l. 69/2009 è stato novellato l’art. 13 del d.p.r. 1199 ed è stata
espressamente prevista la possibilità di sospendere il parere, ove si ritenga che il ricorso non possa
essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale
che non risulti manifestamente infondata, al fine di trasmettere gli atti alla Corte Cost.
Questa disposizione è legata all’altra contenuta nell’art. 69 comma 2, che, rendendo vincolante il parere, ha
indebolito la posizione della Corte che aveva fondato il suo diniego di qualificazione del Consiglio di Stato in
sede consultiva quale giudice a quo proprio sull’instabilità dello stesso.

I rimedi contro la decisione:


Avverso il decreto presidenziale che decide il ricorso, ove la decisione riguardi una questione di competenza
del G.A., sono ammessi due mezzi di impugnazione:
1) Revocazione
La decisione del ricorso straordinario è impugnabile per revocazione nei casi previsti dall’art. 395
c.p.c., con ricorso da proporsi al Capo dello Stato nelle stesse forme del ricorso straordinario. (→
Ratio: tali provvedimenti sono sottratti a ogni forma di autotutela amministrativa, così da risultare
intangibili).
Il ricorso per revocazione deve essere:
o notificato all’amministrazione, se non è statale, che ha emanato l’atto impugnato e ad
almeno uno dei controinteressati;
o presentato al Ministro competente nel termine di 60 gg - decorrenti dalla
notificazione/comunicazione/pubblicazione del decreto presidenziale impugnato o dal
giorno della scoperta/accertamento del dolo/falsità o del recupero dei documenti negli altri
casi.
Sul ricorso per revocazione è richiesto, inoltre, il parere del Consiglio di Stato.

La giurisprudenza ritiene inammissibile sia l’impugnativa per revocazione della decisione di un


precedente ricorso straordinario per revocazione, sia la revocazione ex art. 395 c.p.c., per motivi
attinenti all’interpretazione di norme.

La revocazione va proposta contro il decreto del Presidente della Repubblica, anche se i vizi che
legittimano l’impugnazione possono riguardare il parere o l’eventuale deliberazione del Consiglio
dei Ministri.

2) Impugnazione innanzi al G.A.


La decisione sul ricorso straordinario può essere impugnata anche in sede giurisdizionale, ma con
alcuni limiti:

177
- solo per vizi di forma o di procedimento (errores in procedendo) concernenti esclusivamente
momenti del procedimenti successivi all’emanazione del parere da parte del Consiglio di Stato.
Questo perché il principio dell’alternatività verrebbe vanificato ove si consentisse alle parti che non
hanno esercitato l’opposizinoe di rimettere in discussione la decisione sotto il profilo sostanziale.
La limitazione del diritto di azione si ricollega alla libertà di scelta che hanno:
- il ricorrente: di presentare ricorso straordinario, prima, e di non proporre ricorso in
sede giurisdizionale dopo la notifica dell’opposizione;
- i controinteressati e l’autorità che ha emanato l’atto se diversa dallo Stato: di chiedere
che venga deciso in sede giurisdizionale il ricorso proposto in sede amministrativa.

- Diversamente, al controinteressato a cui non è stato notificato il ricorso straordinario è


consentita l’impugnazione anche per errores in iudicando – cioè per censure concernenti la
legittimità della decisione.
- Poiché il principio dell’alternatività non opera nei confronti del ricorso innanzi al G.O., e atteso
che la decisione del ricorso straordinario formalmente è considerata un atto amministrativo, la
stessa potrà essere impugnata davanti al G.O. il quale la potrà anche disapplicare.

GLI STRUMENTI DI GIUSTIZIA ALTERNATIVA


Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito a una significativa diffusione, nell’ambito dei sistemi nazionali,
degli strumenti di soluzione delle controversie alternativi alla via giurisdizionale, con conseguente
ampliamento del sistema delle tutele. La previsione di formule “alternative” ad esso rappresenta, per certi
versi, un elemento di rottura rispetto all’assetto tradizionale fondato sulla separazione dei poteri, con la
conseguente necessità di prevedere e garantire un assetto normativo che da un lato assicuri il
mantenimento di quel sistema di valori che la stessa via giurisdizionale rappresenta e dall’altro consenta al
singolo di accedere ad essa (garanzia del diritto di azione, principio del giusto processo, principio della
tutela giurisdizionale effettiva,…).
In tale prospettiva, la via stragiudiziale, benché obbligatoria, non si pone in contrasto con questi principi, a condizione
che tale procedura:
- non conduca a una decisione vincolante per le parti;
- non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale;
- sospenda la prescrizione dei diritti in questione;
- non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti;

Gli strumenti di ADR in Europa:


La prima opzione per uno strumento di ADR è senza dubbio rappresentata dall’istituzione del Mediatore
europeo nel 1992. Il suo ambito di intervento è rappresentato dai casi di cattiva amministrazione delle
istituzioni o degli organismi comunitari (fatta eccezione per la CGCE e per il Tribunale di primo grado
nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali).
Lo strumento delle ADR occupa nell’ordinamento comunitario un posto centrale: emblematico è il diritto
del lavoro nel quale viene sottolineata l’importanza degli strumenti di ADR nella soluzione e prevenzione
dei conflitti sociali; significativo è poi il diritto dei consumatori rispetto al quale è stata confermata la
necessità di un’azione comunitaria tesa a incrementare l’uso di strumenti stragiudiziali di soluzione delle
controversie, anche allo scopo di incentivare il commercio transfrontaliero.

Strumenti precontenziosi e poteri delle parti e del terzo


Un ruolo di primaria importanza nella caratterizzazione degli strumenti di soluzione alternativa delle
controversie va riconosciuto al Libro Verde della Commissione del 2002: da un lato delinea l’ambito
oggettivo delle ADR, escludendone l’arbitrato; dall’altro ne promuove l’adozione, sottolineandone la
neccessarietà e l’esigenza di garantire il miglior contesto per il loro sviluppo nell’UE.
In esso si distinguono:

178
a) ADR che si svolgono nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali: cioè condotte da un giudice o
che vengono affidate dal giudice a un soggetto terzo;
b) ADR cd. convenzionali: si svolgono al di fuori di qualsiasi procedura giurisdizionale, e i cui esiti
possono essere o meno vincolanti per le parti alle quali, addirittura in alcuni casi, non viene offerta
dal terzo alcuna soluzione.

Gli strumenti di giustizia alternativa nell’ordinamento italiano


Alcuni strumenti di soluzione stragiudiziale delle controversie presenti nel nostro ordinamento hanno
origini lontane: es. transazione, conciliazione…

- Nel nostro sistema un ruolo centrale nel percorso di diffusione di una cultura delle ADR va
riconosciuto alla l. 580/1993 con la quale sono state attribuite delle competenze fondamentali alle
Camere di commercio - alle quali è riconosciuta la possibilità di promuovere la costituzione di
commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e consumatori
e utenti.
conciliazione amministrata, gestita cioè da un ente esterno, sulla
base di un contratto di amministrazione di conciliazione che si conclude nel momento in cui la
parte chiamata in conciliazione deposita l’atto di accettazione della procedura.

- Codice del consumo: contempla la possibilità per le associazioni di consumatori di esperire un


procedura conciliativa davanti alle Camere di commercio, nonché agli altri organi di composizione
stragiudiziale delle controversie in materia di consumo.
Conciliazioni paritetiche: disciplinate da protocolli di intesa sottoscritti dalle associazioni dei
consumatori e utenti e da alcune aziente (Poste italiane, Enel, Telecom) in merito alle controversie
aventi ad oggetto l’erogazione di servizi, che si concludono con un accordo transattivo.

- Riforma del c.p.c. operata con l. 69/2009: tende a modificare l’approccio delle parti in giudizio allo
strumento conciliativo facendo leva sugli aspetti economici. È previsto che qualora nel corso del
processo venga formulata una proposta conciliativa, il giudice può condannare la parte che non ha
accettato la proposta al pagamento delle spese processuali maturate successivamente alla
formulazione della proposta conciliativa qualora egli in sentenza abbia accolto la domanda in
misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa.
- D.lgs. 28/2010: individua la mediazione, da concludersi entro 4 mesi, come condizione di
procedibilità, rilevabile anche d’ufficio, per le controversie in materia di condominio, diritti reali,
successioni ereditarie, locazione, comodato, affitto, ecc…

Giustizia alternativa e PA:


Nel diritto amministrativo, parlare in generale di vie alternative a quella giurisdizionale significa riferirsi
almeno a quattro ambiti:
1) attività che la PA svolge al proprio interno ricadenti nell’ambito dell’attività esecutiva, sia pure
contenziosa, tese a trovare una soluzione al problema amministrativo oggetto della decisione;
2) rimedi contenziosi amministrativi (ricorsi) devoluti alla stessa amministrazione;
3) ipotesi in cui la soluzione dei conflitti, di cui la PA è parte, viene demandata a un soggetto terzo che
può alternativamente essere o meno un’amministrazione;
4) ipotesi in cui il compito di ricercare una soluzione stragiudiziale di una controversia insorta tra
privati viene affidato a una PA (es. conciliazioni amministrate delle Camere di commercio).

Il principale ostacolo alla diffusione degli strumenti di giustizia alternativa, e in particolare dell’arbitrato, è
stato sempre individuato nella disponibilità delle SGS: nella ritenuta generale indisponibilità degli interessi
legittimi e del potere.
Gli altri ostacoli teorici individuati in relazione all’utilizzabilità degli strumenti stragiudiziali in quelle
controversie di cui l’amministrazione sia parte, sono riconducibili al fatto che l’alternatività è stata
ricondotta solo nell’ambito della giurisdizione ordinaria (rimanendo estranea quella del G.A.), e al fatto che

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verrebbe a crearsi una contraddittorietà con la regola del riparto di giurisdizione in ipotesi quali ad es.
l’impugnativa del lodo (regolata dal c.p.c.).

→ Art. 12 CPA: le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del G.A. possono
essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto.
- espresso richiamo ai diritti soggettivi sembra confermare la disponibilità dei rapporti di diritto
amministrativo aventi ad oggetto posizioni giuridiche connesse all’esercizio di pubbliche potestà, e
quindi l’impossibilità di devolvere ad arbitri le controversie aventi ad oggetto quei rapporti;
- superamento dell’impostazione che circoscrive l’ambito della alternatività alla giurisdizione
ordinaria. La Cassazione ha inteso la tutela stragiudiziale come “un atto di autonomia privata, i cui
effetti di accertamento conseguono a un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere ripete la
fonte dell’investitura conferitagli dalle parti”. In questo quadro, il ricorso all’arbitrato è possibile in
quelle ipotesi ricadenti nella giurisdizione esclusiva, o di merito, in cui si controverta su diritti
soggettivi.

Le controversie in materia di lavoro:


Per le controversie in materia di lavoro, tanto per il lavoro privato quanto per il pubblico impiego
privatizzato, il legislatore ha previsto forme di arbitrato e conciliazione. Inizialmente essa era stata
configurata come obbligatoria, quindi come condizione di procedibilità del giudizio.
- Pubblico impiego privatizzato: agli inizi degli anni ’90 era stata introdotta un’ipotesi di
conciliazione obbligatoria amministrata dalla Direzione provinciale del lavoro, da svolgersi dinanzi
a una commissione composta da un rappresentante del lavoratore, da un rappresentante
dell’amministrazione e dal Direttore della Direzione provinciale del lavoro o da un suo delegato.
Il tentativo doveva essere effettuato nel termine perentorio di 90 gg dall’indizione dello stesso. Il suo
mancato esperimento comportava la sospensione del giudizio e la fissazione da parte del giudice di un
termine perentorio per il promovimento del tentativo di conciliazione, decorso il quale il processo poteva
essere riassunto nel termine di 180 gg, pena l’estinzione dello stesso. Le parti potevano anche non accettare
la proposta fatta dal conciliatore, il quale proponeva una proposta bonaria per la soluzione della
controversia.
- L. 183/2010 opera una riscrittura delle norme in materia di conciliazione e arbitrato, tanto nel
settore del lavoro privato quanto in quello pubblico, che vedono applicato lo stesso regime.
→ Arbitrato irrituale, che su richiesta della parte può essere deciso anche secondo equità, nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi comunitari.
Si elimina innanzitutto l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (che cessa di essere una
condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale). La disciplina contempla diverse modalità di
esperimento, tanto della via conciliativa quanto di quella arbitrale. È infatti previsto che la
conciliazione possa essere esperita:
a) davanti alle Commissioni provinciali del lavoro (su richiesta della parte interessata);
b) nelle sedi sindacali, nel qual caso non si applicano le disposizioni dell’art. 410 c.p.c.:
c) secondo altre forme, come previsto dall’art. 412 quater c.p.c.
La richiesta di tentativo di conciliazione non vincola la controparte che può sempre decidere di
adire le sedi giurisdizionali competenti.
Il mancato raggiungimento dell’accordo non rappresenta il termine della procedura in quanto la
commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria conciliazione della
controversia.
Art. 412 c.p.c.: prevede che in qualunque fase del procedimento conciliativo, o nell’ipotesi del
fallimento dello stesso, le parti possono affidare alla commissione di conciliazione il mandato per la
decisione della controversia in sede arbitrale. Nell’atto di conferimento del mandato arbitrale le
parti devono poi indicare il termine per l’emanazione del lodo, non superiore a 60 gg, decorso il
quale l’incarico si intende revocato. Al lodo, vista l’irritualità dell’arbitrato, è riconosciuta la stessa
efficacia del contratto, e assume il valore di titolo esecutivo con il deposito presso la cancelleria del
Tribunale.
Nel nuovo testo gli artt. 412 ter e quater c.p.c. prevedono che la conciliazione e l’arbitrato vengano
svolti presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni

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sindacali maggiormente rappresentative, o facendo ricorso a un collegio di conciliazione e arbitrato
composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro in funzione di
presidente (nominato di comune accordo tra le parti).

Le controversie in materia di contratti pubblici:


E’ l’ipotesi più risalente di utilizzo di uno strumento di giustizia alternativa in una controversia di cui sia
parte l’amministrazione.
- L. 2248/1865: prevedeva la possibilità di deferire ad arbitri la soluzione delle questioni tra
l’amministrazione e gli appaltatori.
- Legge Merloni 109/1994 e Merloni bis 216/1995: è stato introdotto il tentativo obbligatorio di
conciliazione per le riserve delle imprese e l’arbitrato da esperirsi ai sensi della disciplina contenuta
nel c.p.c.
Legge Merloni ter 415/1998: introduce nuovamente la facoltatività dell’arbitrato, muta il rito in
favore di una procedura interamente affidata alla Camera arbitrale presso l’Autorità garante per i
lavori pubblici.
- Codice dei contratti (d.lgs. 163/2006) si è operata una sistemazione dei rimedi stragiudiziali di
risoluzione delle controversie.
- Codice degli appalti: contempla
1) Transazione: il ricorso ad essa è consentito per tutte le controversie relative all’esecuzione
dei contratti aventi ad oggetto appalti pubblici, indipendentemente dal valore degli stessi,
previa esplicita deliberazione dell’amministrazione nella quale siano indicate le ragioni di
fatto e di diritto a sostegno della scelta transattivi. La conclusione dell’accordo transattivi
deve poi essere preceduta dall’acquisizione di un parere, obbligatorio ma non vincolante,
da parte dell’avvocatura che difende il soggetto o del funzionario più elevato in grado
competente per il contenzioso.
2) Accordo bonario: pur configurandosi come una condizione di procedibilità della domanda
giudiziale, non ostacola lo svolgimento dell’arbitrato, decorso il termine di 90 gg entro il
quale l’amministrazione è tenuta a formulare la relativa proposta.
Nel testo novellato è prevista l’interazione di due soggetti: il direttore dei lavori e il
responsabile del procedimento, o una commissione formata da tre componenti aventi
competenza specifica in relazione all’oggetto del contratto.
Il responsabile del procedimento, o la commissione, è chiamato a redigere, sulla base della
relazione riservata formulata dal direttore dei lavori, una proposta di accordo bonario sulla
quale si pronunciano il soggetto che ha presentato le riserve e le PA. In caso di fallimento
del tentativo di accordo bonario, è possibile fare ricorso al giudice.
Ove sia stata rifiutata una proposta di accordo bonario, e la stessa sia sostanzialmente
confermata in sede di giudizio, arbitrale o ordinario, la parte può essere condannata al
pagamento delle spese.
3) Per le controversie su diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, è prevista la
possibilità di deferire la soluzione ad arbitri, ove nel contratto sia prevista una clausola
compromissoria.
La controversia è affidata a un collegio arbitrale composto da tre membri scelti dalle parti
tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si
riferisce, i quali si pronunciano in applicazione delle disposizioni del c.p.c.

Gli strumenti di soluzione precontenziosa amministrati (da un soggetto pubblico):


In costante aumento sono le ipotesi di soluzione precontenziosa delle controversie affidate a una PA:
- conciliazione svolta dalle Camere di commercio;
- conciliazione obbligatoria in materia di telecomunicazioni svolta dai Corecom, facenti capo
all’AGCOM;

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- procedure di conciliazione e arbitrato che vengono svolte dinanzi all’Autorità per l’energia elettrica
e il gas in relazione a controversie tra investitori e intermediari per la violazione degli obblighi di
correttezza, informazione e trasparenza nei rapporti con gli investitori;
- attività stragiudiziale svolta dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali, conseguente
a reclami, segnalazioni e ricorsi che si concludono con l’emanazione di decisioni vincolanti dotate
di effetti sanzionatori;
- attività stragiudiziale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato…

Le controversie in materia di telecomunicazioni:


L. 241/1997: Autorità di garanzia disciplina con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non
giurisdizionale delle controversie insorte tra utenti e soggetti autorizzati o destinatari di licenze, o tra questi
ultimi.
Il tentativo di conciliazione è obbligatorio, cioè è condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale, e ha
efficacia sospensiva dei termini per l’azione giurisdizionale, fino alla scadenza del termine per la conclusione
del procedimento di conciliazione.
Un ruolo centrale è riconosciuto ai Comitati regionali per le comunicazioni, considerati funzionalmente
organi dell’Autorità, ai quali sono state delegate le attività conciliative. È previsto inoltre che il verbale di
conciliazione abbia valore di titolo esecutivo.
La procedura conciliativa deve svolgersi nel termine di 30 gg dalla proposizione dell’istanza, decorsi i quali è
possibile adire le sedi giurisdizionali.
Nell’ipotesi in cui il tentativo di conciliazione fallisca, le parti hanno la possibilità di adire la via
giurisdizionale, oppure di chiedere all’Autorità di garanzia di definire la controversia entro il termine di 150
gg, attraverso la presentazione di un ricorso amministrativo alla stessa nel termine di 6 mesi dal fallimento
del tentativo di conciliazione. Tale procedura si chiude con l’emanazione di un provvedimento decisorio che
può essere impugnato davanti al TAR Lazio, al quale spetta la competenza funzionale.

L’arbitrato in materia sportiva:


D.l. 220/2003: in relazione alla giurisdizione amministrativa introduce la cd. pregiudiziale sportiva, cioè la
necessità di esaurire, prima del ricorso al G.A., i gradi della giustizia sportiva. Contempla poi la possibilità
che gli statuti e i regolamenti del CONI e delle Federazioni sportive contengano clausole compromissorie
che escludano la giurisdizione del GA.
Il sistema delineato dallo Statuto del CONI è costituito da:
- Alta corte di giustizia sportiva;
- Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport (TNAS).
La competenza del TNAS in materia arbitrale è condizionata a:
a) presenza di una clausola compromissoria nello statuto o nel regolamento della federazione
nazionale o in accordi specifici stipulati anche da soggetti non appartenenti
all’ordinamento sportivo;
b) esaurimento dei ricorsi interni alla federazione, e comunque per quelle decisioni non
soggette a impugnazione nell’ambito della giustizia federale;
c) limite per valore e per materia: il TNAS non è competente per quelle controversie che
hanno comportato l’irrogazione di sanzioni inferiori a 120 gg, a 10.000 euro di multa o
ammenda, controversie in materia di doping.
Il TNAS non ha potestà decisoria, potendo limitarsi solo all’amministrazione degli arbitrati. I suoi
compiti consistono essenzialmente nella nomina degli arbitri da scegliersi all’interno di un apposito
albo.
Il procedimento arbitrale comprende una prima fase conciliativa, che si pone quale presupposto
per lo svolgimento dell’udienza arbitrale.
L’arbitrato si configura come arbitrato rituale ed è deciso secondo diritto.

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