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Sezione I: Il nuovo assetto europeo e coloniale

Capitolo 1: Modelli di Stato territoriale: Francia e Inghilterra


Svanito il sogno imperiale con la guerra dei Trent’Anni, prevale un’Europa più limitata ma più stabile e politicamente
meglio definita. Anche la figura del sovrano cambia: può essere assoluto (monarchia assoluta), o può avere un ruolo
specifico e revocabile (monarchia parlamentare).
La Francia continua il percorso di rafforzamento del ruolo monarchico con Luigi XIV, che inaugura una profonda
trasformazione nell’esercizio del potere, connessa ad un ridimensionamento dei poteri, come quelli della Chiesa, della
nobiltà, delle autonomie locali.
1. Le Chiesa cattolica riconosce il suo centro di potere a Roma. Luigi non può tollerare questa concentrazione di poteri
fuori dal suo controllo: occorre che la Chiesa sia una Chiesa francese e che assecondi il progetto assolutistico del re. Così
attacca ogni istituzione e gruppo religioso autonomo: in particolare gli ugonotti, i gesuiti e i giansenisti.
2. Luigi crea la nobiltà attraverso il conferimento di cariche pubbliche. La condizione nobiliare quindi diventa dipendente
dalla volontà del sovrano.
La grande nobiltà è costretta ad abbandonare le proprie terre e i propri castelli per essere accolta nelle sale della reggia di
Versailles.
3. Ridimensionamento numerose autonomie locali all’interno del paese: gli Stati generali non vengono più convocati, i
parlamenti e le strutture giuridiche limitate. Luigi XIV sottrae loro il diritto di rimostranza, cioè la possibilità di rifiutarsi di
registrare gli editti da lui emanati.
Importante è il mecenatismo: Luigi sostiene la produzione letteraria, teatrale, musicale e pittorica.
-- Contestualmente a tutto ciò, si costruisce e si legittima una nuova figura costituzionale del monarca, con una fortissima
simbolizzazione del ruolo del re. Si esalta la sovranità con feste, fuochi d’artificio, giardini, edifici sontuosi e la corte.
Non c’è separazione fra la titolarità del potere, assegnata al sovrano, e la sua gestione nelle mani di ministri potenti; ci si
ritrova in una macchina statale i cui vertici sono occupati da una serie di figure meno potenti, più specializzati e
direttamente dipendenti dal sovrano.
In due settori, la politica mercantilistica e la politica di potenza, si delinea il disegno assolutistico di Luigi XIV.
Obiettivo primario delle politiche mercantilistiche è la ricchezza dello Stato in termini di oro e di popolazione.
È in questo periodo che interviene Colbert, controllore delle Finanze e segretario della Marina, artefice di una serie di
provvedimenti il cui principale obiettivo è il raggiungimento dell’autosufficienza economica della Francia infatti promuove
l’adozione di una serie di tariffe doganali, i dazi. Si dedica così alla promozione dello sviluppo del settore navale, per
dotare il paese di una flotta mercantile e di una marina da guerra in grado di competere con quella olandese e inglese.
Uno dei maggiori meriti è l’opera di risanamento delle finanze della corona francese attraverso l’istituzione della Cassa dei
prestiti, che garantisce a Luigi XIV grandi somme per finanziare le sue guerre.
Luigi XIV vuole essere il sovrano di uno Stato con una posizione egemone per assicurare la realizzazione del suo disegno;
le reazioni delle altre potenze non si faranno attendere e saranno decise. La conseguenza è la guerra.
L’ultima delle sue guerre, quella di Successione spagnola, rischia di compromettere gli equilibri generali europei ed è
anche la guerra più difficile di Luigi. Alla fine riesce nel suo intento, poiché sul trono di Spagna siederanno stabilmente suo
nipote Filippo ed i suoi discendenti. La Francia esce dal suo Grand Siècle alla morte di Luigi XIV esausta ed impoverita.
L’Inghilterra invece vede un nuovo modo di interpretare lo Stato territoriale e la sovranità.
Dopo la rivoluzione di Cromwell e la fine della Repubblica, torna la monarchia con il nuovo legittimo sovrano Carlo II.
Il Parlamento recupera le sue funzioni tradizionali e diventa il luogo di elaborazione di nuove misure di salvaguardia
contro l’arbitrio del sovrano.
In questo clima Giacomo II, successore di Carlo II, cerca di attaccare il Parlamento e di riaprire la questione religiosa.
Segue così una nuova rivoluzione, questa volta pacifica (chiamata Gloriosa Rivoluzione): il Parlamento decide di chiedere
aiuto all’olandese Guglielmo III d’Orange, a cui viene offerto dal Parlamento il trono inglese una volta messo in fuga
Giacomo II. Guglielmo accetta e viene riconosciuto il “Bill of Rights”, l’atto parlamentare che esclude il sovrano
dall’amministrazione della giustizia e delle finanze, privandolo del diritto di veto sulle proposte di legge del Parlamento.
E’ la fase di fondazione del costituzionalismo inglese: da un lato vi è una monarchia rispettata ma con potere limitato;
dall’altro un Parlamento composto dalla Camera dei Lords nominati dal re e da una Camera dei Comuni, i cui membri
vengono eletti dei ceti emergenti della società. Economia:
- L’Inghilterra si dà anche un ruolo di garante dell’equilibrio continentale, facendosi spazio per l’espansione sui mari.
Il mercantilismo inglese si presenta molto più efficace e lo Stato adotta misure di protezione ed incentivazione del
commercio inglese.
- In campo manifatturiero l’Inghilterra persegue la protezione della produzione di tessuti di lana mediante dazi sulle
importazioni tessili e divieti di esportazione.
- Diversa è invece la politica seguita in campo agricolo: le importazioni sono scoraggiate con l’aumento dei dazi e le
esportazioni incentivate. I mercanti inglesi interessati al commercio asiatico si riuniscono in una Compagnia, che inaugura
un’intensa attività di esportazione verso l’Europa; Londra diventa così un grande porto di transito dal quale pepe e altre
spezie, coloranti, cotone, zucchero, caffè, tè e porcellane cominciano a diffondersi sui mercati europee.
Capitolo 2: Il gioco delle potenze
Nel corso del Settecento importante è il concetto di frontiera: essa non solo distingue l’interno dall’esterno, ma individua
gli amici e crea i nemici. Emergono regole attorno alle quali si organizzano le potenze.
Gli Stati territoriali non esitano a ricorrere al principio dinastico per giustificare iniziative belliche, realizzare alleanze,
ridurre tensioni. Quelli settecenteschi sono conflitti diversi dal passato, sono guerre “limitate” che non hanno l’obiettivo
di annientare il nemico; un tipo di guerra che viene combattuto da eserciti meglio organizzati, più moderni e disciplinati;
la guerra non è più l’unica risorsa per dirimere controversie e sciogliere tensioni fra gli Stati. Altrettanto importante
diventa la diplomazia, che ruota attorno al principio dell’equilibrio valido sia per garantire la pace che per legittimare la
guerra.
Nell’Europa centro-occidentale un gruppo di Stati minori si collocano in un rango subalterno: fra questi troviamo lo Stato
pontificio e la Repubblica di Venezia, che avevano occupato posizioni di rilievo fino al Seicento. Una sorte simile tocca
l’Olanda o la Spagna, che hanno perso la forza e il prestigio di un tempo. Una posizione di primo piano spetta invece a
Francia e Inghilterra. L’Austria è emersa dalla guerra dei Trent’anni ridimensionata.
In una condizione opposta si trova la Polonia, che dispone di un vasto territorio ma è debole.
La Svezia invece vive un clima di instabilità politica dovuta al difficile rapporto fra monarchia e ceti nobiliari, e alla
conflittualità secolare con la Danimarca. La Russia degli zar si presentava all’inizio dell’età moderna come un paese
estraneo al panorama europeo. A partire dal Cinquecento, lo zar Ivan il Terribile, aveva avviato un tentativo di
accentramento del potere, con fortissime resistenze da parte dei ceti nobiliari, generando conflitti.
Questo clima continua a caratterizzare la Russia anche dopo Ivan, con i primi Romanov; le cose prendono una direzione
nuova con l’avvento di Pietro il Grande.
La minaccia turca ha un ruolo decisivo, diretto o indiretto; dagli anni Sessanta del Seicento l’Impero ottomano torna ad
avvicinarsi ai confini europei. Le armate turche arrivano ad assediare Vienna, ma vengono respinte da austriaci, polacchi e
veneziani.
Alla fine di una serie di conflitti contro i turchi, al margine orientale dell’Europa ci sono ampi spazi caratterizzati da
istituzioni politiche e militari deboli, e tre presenze nettamente superiori alle altre: l’Austria che si sposta verso Oriente; la
Russia, ormai proiettata verso Occidente, la Prussia, che ha eliminato i rivali baltici restando sola. Assieme a Francia ed
Inghilterra, saranno loro le protagoniste delle nuove guerre limitate in ambito europeo.
La Polonia finisce per diventare una delle poste in gioco dei rapporti internazionali e andrà verso problemi sempre più
pesanti delle altre potenze europee nei propri affari interni che porterà alla sua totale scomparsa dalla carta geopolitica
del continente.
In Italia si chiude il lungo capitolo dei vice-regni meridionali (prima spagnolo e poi austriaco) e si forma un regno
autonomo, con un suo re, una sua corte e una sua capitale. Si tratta comunque di una situazione instabile.
In Austria il legittimo sovrano, Carlo VI d’Asburgo, muore senza eredi: il rischio è quello di perdere la continuità dinastica.
Le disposizioni lasciate dal defunto sovrano non si traducono nell’investitura di un successore, ma in guerra.
Nella guerra dei Sette anni (1756 - 1763) Vecchio e Nuovo continente, interessi dinastici e coloniali, politici e commerciali
si mescolano dando luogo a schieramenti nuovi.
In Europa Maria Teresa d’Austria avvia un’intensa attività diplomatica per reclutare alleati con i quali opporsi alla potenza
prussiana: alleati sanno Francia e Russia. La posta in gioco Oltreoceano provoca invece lo scontro tra Francia e Inghilterra.
La Prussia, che stipula un accordo con l’Inghilterra, nemica della Francia, sottoscrive a sua volta un trattato difensivo con
l’Austria. A tutto ciò seguono una serie di conflitti che si risolvono con la Pace di Parigi; con questa pace la Francia cede
all’Inghilterra il Canada, la Louisiana e alcune isole delle Antille. Con la successiva pace di Hubertusburg, la Prussia deve
rinunciare alla Sassonia.

Capitolo 3: Nuove gerarchie nel sistema mondiale degli scambi


Durante gli ultimi decenni del Seicento e per tutto il Settecento altre due nuove potenze, Inghilterra e Francia, si
presentano sullo scenario dei traffici con altre aree: l’Asia, l’Africa e l’America. Le rotte dei commerci vedono sorgere una
concorrenza sempre più agguerrita. Resta tuttavia da ridurre il potere del monopolio del Portogallo e Spagna negli scambi
con i rispettivi imperi coloniali. Le vicende politiche successive al distacco della corona portoghese dall’unione con la
Spagna favoriscono la conclusione di un’alleanza politica ed economica in Inghilterra.
La perdita di un ruolo di rilievo nello scenario asiatico è compensata in parte dai successi riportati dai portoghesi
nell’Oceano Atlantico. Essi riescono infatti a riprendere il controllo del Brasile, che diventa la nuova frontiera
dell’espansione coloniale portoghese: la produzione dello zucchero è la principale attività. Per lavorare nelle piantagioni
nel Nord del Brasile non sono però sufficienti gli indigeni, si ricorre quindi all’importazione di schiavi dall’Africa.
Diverso è il caso della Spagna. Il regno iberico mantiene formalmente il monopolio dei traffici con le sue colonie
americane, ma non riesce a esercitarlo effettivamente. Non essendo in grado di produrre le merci richieste dalle società
coloniali, la Spagna è costretta ad acquistarle negli altri paesi europei, pagandole con l’argento americano. Si sviluppa
un'intensa attività di contrabbando condotta con l’America spagnola dai mercanti olandesi, francesi e soprattutto inglesi.
Poco a poco l’America spagnola così come quella portoghese, diventa una vera e propria colonia commerciale inglese.
Nel corso del Settecento l’Inghilterra diventa la prima potenza commerciale del globo; alla fine del secolo la Gran
Bretagna esercita il monopolio mondiale dei servizi marittimi. La città di Londra subentra quindi ad Amsterdam come
principale piazza finanziaria europea, pur trattandosi di un processo graduale.
Il principale mercato di sbocco per le merci europee, dopo l’Europa e l’area mediterranea, diventa il continente
americano. Qui si verifica una notevole crescita della popolazione dovuta non solo all’aumento della natalità, ma anche
all’arrivo di emigrati dall’Europa e di schiavi dall’Africa. A partire dal 1750 la Gran Bretagna conosce un vero e proprio
boom delle esportazioni. I traffici con l’America s’inseriscono in una vasta rete di commerci fra le varie parti del mondo
che le compagnie commerciali britanniche organizzano nella prima metà del Settecento.
Il principio ispiratore è molto semplice: pagare le merci acquistate con altre merci, attraverso un sistema di scambi
multilaterali che coinvolge ben quattro continenti.
Dalla Gran Bretagna partono armi, utensili metallici, alcol e manufatti indiani alla volta dell’Africa occidentale; qui le
mercanzie sono scambiati con gli schiavi, che vengono trasportati in America e ceduti in cambio di zucchero, legnami,
tabacco e cotone. Questi prodotti vengono trasportati in Gran Bretagna e di lì in parte riesportati sui mercati europei.
Anche la Francia conosce una notevole crescita dei traffici, anche se costretta a subire la supremazia navale e
commerciale inglese.
Pian piano però, i rapporti economici tra le compagnie commerciali europee e i mercati asiatici conoscono alcuni
significativi cambiamenti. Aumenta il valore dei manufatti, soprattutto tessili, e del tè favorendo lo spostamento del
centro dell’attività della Compagnia inglese dalla costa orientale dell’India: Bombay diventa la sua sede principale.
A più riprese, Francia e Inghilterra si scontrano in India. Gli inglesi riescono ad eliminare la concorrenza francese,
assumendo il controllo e il governo del Bengala; nasce così il sistema coloniale britannico in India.
Nel corso del Settecento il Mediterraneo cessa di essere l’area degli scambi commerciali più intensi e profittevoli. I traffici
dell’Atlantico diventano i più importanti in valore e in volume, con rotte che collegano i quattro continenti: Europa, Asia,
America e Africa.

Capitolo 4: “Rivoluzione agraria” e agricoltura in Europa


Gli anni intorno alla metà del Seicento rappresentano un periodo di svolta per la storia delle campagne e dell’economia
europea. Da quel momento, le diverse realtà produttive e demografiche cominciano a evolversi in maniera sempre più
differenziata. Alcuni elementi restano però comuni: le condizioni di vita delle popolazioni contadine non migliorano,
poiché i salari aumentano di poco.
Un caso a parte è quello costituito dai Paesi Bassi meridionali e dall’Inghilterra, all’avanguardia nel settore agricolo.
Alla fine del secolo in Olanda si registrano i prezzi del grano più bassi d’Europa. A causare tale fenomeno giocano due
importanti fattori: l’incremento dell’offerta dei cereali e la notevole facilità con cui questi sono importati dall’estero.
Questo consente ai contadini olandesi di liberarsi della produzione del grano e di dedicarsi a coltivazioni maggiormente
redditizie, introducendo nuovi metodi di coltivazione, con una maggiore integrazione fra allevamento e agricoltura.
Inoltre è importante sottolineare l’utilizzo di tecnologie sempre più raffinate, che permettono la creazione di ampie aree
da destinare alla coltivazione.
La connessione fra l’agricoltura e l’allevamento consente di raggiungere molti benefici: i terreni più fertili e il bestiame,
allevato in maniera razionale che fornisce concime per i campi e latte per produrre latticini da destinare all’esportazione.
Tuttavia, le campagne olandesi non raggiungono il tasso di sviluppo che invece segnerà l’Inghilterra.
L’Inghilterra fa tesoro dei successi dell’agricoltura olandese mutando le nuove tecniche. I proprietari terrieri inglesi
cominciano a puntare sul miglioramento dell’allevamento bovino e alle tecniche agricole di rotazione continua.
Si diffonde il cosiddetto “sistema di Norfolk” che prevede la divisione dei terreni in quattro parti, in cui si alterna la
coltivazione di grano, rape, orzo e trifoglio. In questo modo aumenta la superficie coltivabile, viene ricostituita la fertilità
dei campi che forniscono un buon nutrimento per il bestiame.
Agricoltura e allevamento non sono più incompatibili e l’ampliamento delle terre coltivabili non avviene a scapito di
quelle destinate al pascolo e viceversa. Si apre così quella che alcuni studiosi hanno definito “rivoluzione agricola”.
Nell’Europa dell’antico regime i campi sono “aperti”, cioè non possiedono forme di separazione e il singolo appezzamento
è spesso di proprietà molti. Nel corso del Settecento, invece, il sistema dei campi aperti viene ridimensionato in
Inghilterra e dal punto di vista economico, la principale conseguenza è la creazione delle condizioni ottimali per la
formazione di aziende agricole di ampie dimensioni, dedite ad una produzione finalizzata alla vendita sul mercato grazie
all’impiego delle nuove tecniche agricole.
Invece, nell’Europa meridionale, dove la cerealicoltura ha raggiunto livelli eccezionali, le esportazioni agricole sono rese
possibili dall’estensione delle terre coltivate e dalla ridotta domanda interna legata alla stagnazione demografica.
Nella seconda metà del Settecento emerge un’altra questione fondamentale: la popolazione comincia ad aumentare ma
non ovunque allo stesso modo.
Per sfamare una popolazione in aumento occorre però disporre di prodotti agricoli. Con una crescita della produttività, si
hanno anche i tassi maggiori di crescita demografica.
Primo effetto dell’aumento della popolazione è la crescita della domanda quindi l’incremento dei prezzi dei prodotti
agricoli in tutta Europa.
Di fronte a questa situazione, due sono le risposte: l’incremento della superficie coltivata (tramite bonifiche e
disboscamenti) e l’adozione di metodi intensivi nello sfruttamento della terra.
La prima viene prevalentemente seguita in Germania, Francia e in misura minore in Italia; la seconda via è invece seguita
da Olanda e Inghilterra. Tuttavia, la prima scelta si rivela perdente: spesso si cerca di coltivare terreni poco adatti
all’agricoltura, e segue così il calo della produzione.
L’abbandono della cerealicoltura estensiva avviene in alcune regioni europee a vantaggio dell’introduzione di nuove
colture provenienti dall’America (come mais, patate, peperoni, zucchine e fagioli). Il successo e il rendimento sono
notevoli, perché questi prodotti costano meno del grano e diventano essenziali per l’alimentazione dei contadini.

Capitolo 5: Il mondo dei Lumi


Nei decenni centrali del Settecento gruppi di intellettuali cercano di capire come poter difendere gli interessi del regno e
delle autonomie, individuali e collettivi, e come evitare il dispotismo. Questo fenomeno cosmopolita che ha l’obiettivo di
una imponente circolazione delle idee, ha in tutte le lingue europee denominazioni fondate sulla parola “lumi”, che si
riferisce alla volontà di proiettare la luce della ragione su tutti gli ambiti pervasi dal buio dei pregiudizi e delle
consuetudini. Nasce così il movimento conosciuto come Illuminismo.
Gli intellettuali dei Lumi costruiscono l’immagine della centralità politica del ceto intellettuale, con la capacità di produrre
idee rilevanti per l’intera società. Uno dei temi maggiormente dibattuti dagli intellettuali di questo periodo è la questione
del rispetto delle autorità tradizionali.
Pongono l’accento sul valore e le potenzialità della ragione umana; non esiste ambito che non debba essere sottoposto
alla ragione, al fine di emancipare l’umanità dai pregiudizi, dalle superstizioni, dall’ignoranza. Nella riflessione illuminista
sono infatti centrali i concetti di progresso e civilizzazione.
Il filosofo - come l’uomo illuminista ama essere definito - è in rapporto con un pubblico sempre più ampio ed elevato, che
legge il periodico, frequenta i salotti, i caffè, le accademie, le biblioteche: i luoghi di sociabilità si trasformano e si
moltiplicano.
I saperi “utili” e molteplici che sempre più circolano e si diffondono e si raccolgono nell’Enciclopedia di Diderot. Il
successo dell’Enciclopedia è enorme. L’Illuminismo europeo trova nell’Enciclopedia un luogo di raccolta dei suoi saperi.
L’uomo dei Lumi, inoltre, non si limita a contemplare la ragione utile e a cantarne le lodi; egli cerca di applicarla e di farla
agire nel corpo sociale.
Questa massa enorme di materiali di ogni forma e qualità si può ricondurre essenzialmente a tre nuclei tematici: i costumi
sociali, gli ordinamenti pubblici e le concrete misure di intervento spettanti ai governi.
La società olandese e quella inglese vengono indicate come modelli di un’etica nuova, nella quale si mescolano attivismo
mercantile, laicismo e tolleranza.
Per alcuni illuministi l’incivilimento coincide con l’emergere di questi soggetti nuovi nella sfera dell’economia.
Il francese Quesnay, esponente della fisiocrazia (che afferma che la società e il mondo sono governati da un insieme di
leggi che costituiscono il diritto naturale, che sono eterne e assicurano la massima felicità), fornisce un’immagine chiara
del funzionamento di un circuito economico.
Per Quesnay la massima felicità è rappresentata dalla possibilità di disporre di maggiori mezzi di sussistenza. L’agricoltura
per lui è l’unica attività in grado di generare ricchezza.
Un altro intellettuale è Montesquieu che scrive lo “Spirito delle Leggi” in cui afferma che la monarchia parlamentare
inglese rappresenta il miglior compromesso fra l’esigenza di limitare le libertà degli uomini a fini sociali e di bloccare il
cammino verso il dispotismo. Montesquieu riconosce al modello inglese un pregio essenziale: la divisione dei poteri in
sfere di competenze autonome, ciascuna governata da un’istituzione indipendente dalle altre. Nel dibattito settecentesco
non mancano tuttavia le critiche all’opera di Montesquieu.
Rousseau, invece, ribalta l’idea illuministica che l’uomo possa progredire dalla brutalità primitiva grazie alla vita sociale e
politica, e propone invece una concezione dell’uomo come essere naturalmente buono che viene corrotto dai saperi e
dalla civiltà. Egli individua il miglior governo possibile nelle istituzioni democratiche, capaci di dare la parola ai governati,
di interpretarne la volontà e di tradurla in decisione politica, evitando le mediazioni dei sapienti, dei potenti e dei ricchi.
Questi temi riecheggeranno con forza nelle piazze e nelle assemblee. Molti fra gli uomini dei Lumi si spingono fino a
superare la linea di confine fra cultura e politica e a farsi concretamente riformatori.

Capitolo 6: l’Europa del dispotismo illuminato


In tutta Europa, a partire dalla fine della guerra dei Sette anni, dall’incontro fra le proposte riformatrici della cultura
illuministica e le esigenze dei sovrani di riorganizzazione politica, amministrativa e finanziaria dei rispettivi territori,
prendono forma quelle molteplici esperienze che sono note come riformismo illuminato.
L’azione dei sovrani e dei ministri riformatori punta, da un lato, a modernizzare le strutture economiche favorendo
l’iniziativa privata e dall’altro, cerca di razionalizzare i sistemi d’imposizione fiscale e di ampliare il numero di coloro che
sono sottoposti al pagamento delle imposte, combattendo le esenzioni fiscali della nobiltà e del clero. Tuttavia, i tentativi
di ridurre i privilegi del clero e della nobiltà incontrano notevoli ostacoli all’interno delle società europee.
Solo con la Rivoluzione francese molte delle tradizionali impalcature giuridiche, come la feudalità, verranno a cadere
definitivamente.
L’Italia settecentesca vede all’opera un gruppo di riformatori, di vario profilo e diversa incisività. Le situazioni economiche
e sociali con cui essi devono misurarsi sono profondamente differenti.
Non mancano tuttavia resistenze, contraddizioni e compromessi.
Nello Stato pontificio Benedetto XIV dà vita ad un’importante stagione di riforme in campo amministrativo, economico,
agricolo; assai meno aperti all’innovazione saranno i suoi successori.
Nella Repubblica di Venezia mancano le misure necessarie, mentre nella Repubblica di Genova il patriziato impedisce
l’attuazione di un programma riformatore organico.
Nel Mezzogiorno Carlo II di Borbone, avvia un programma di riforme. Ma la carestia getta dubbi sulla capacità di farvi
fronte attraverso l’alleanza fra apparati pubblici e ragione.
In Portogallo il re Giuseppe I è affiancato dal marchese di Pombal; la corona gode di scarso prestigio e gli apparati statali
sono pervasi dalla corruzione. Il re avvia un serio processo riformatore, pur in una situazione economica e sociale assai
pesante: ma alla sua morte il tentativo viene interrotto dal paese, scontento del suo operato.
Quello di Giuseppe II è invece un progetto di secolarizzazione della società più organico e radicale nel contesto europeo.
Giuseppe sopprime conventi e ordini religiosi contemplativi, concentra nelle sue mani il controllo del clero locale e ne
cura la formazione con l’istituzione di seminari statali; per la prima volta in un paese cattolico, con la patente di tolleranza
riconosce pari valore a tutte le confessioni religiose; abolisce la tortura e i vincoli di servitù personale, e introduce il
matrimonio civile e la libertà di stampa.
La stagione delle riforme in Prussia, si identifica con Federico II il Grande, figura emblematica di despota illuminato; è con
il lungo regno di Federico II che la Prussia conosce uno dei momenti più alti della sua storia.
Federico si mostra intollerante nei confronti degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del suo progetto di
accentramento ed efficienza statale. Esso ruota attorno al concetto di servizio dello Stato, al quale tutti coloro che sono
soggetti dell’autorità pubblica devono rispondere in relazione alla condizione e al rango che ricoprono. Il primato sociale
dipende ora dalla qualità del servizio pubblico reso e dagli onori che vi sono connessi.
Nel suo complesso la società si militarizza. A questo si contrappone una sfera di diritto privato, nella quale autonomie e le
prerogative nobiliari non vengono intaccate. Norme speciali continuano a regolare la successione nobiliare, molti privilegi
vengono infatti mantenuti. Il paese finisce così per presentare una faccia cupamente feudale e insieme una faccia
efficiente e moderna, in un equilibrio ambiguo.
I problemi posti dalla coesistenza di uno Stato forte e di un mondo rurale di stampo feudale, in qualche modo tenuti sotto
controllo in Prussia, segnano invece l’epoca delle riforme in Russia. Qui c’è un’eredità da gestire, quella dello zar
Pietro il Grande: il suo progetto di Stato mescolava dispotismo e modernizzazione nel tentativo di ricollocare la Russia nei
giochi geopolitici europei. La sua politica era rappresentata dal rapporto fra il despota e la nobiltà: egli, infatti, aveva
perseguito la subordinazione della nobiltà agli interessi dello Stato con diverse riforme; ma il suo disegno alla fine
risulterà illusorio. È con queste contraddizioni che deve misurarsi la zarina Caterina II che reinterpreta la linea politica
inaugurata da Pietro I. La zarina confisca le proprietà della Chiesa ortodossa, sopprime quasi la metà dei conventi e
subordina il clero all’autorità politica; attua inoltre una riforma amministrativa, suddividendo il paese in cinquanta
governatorati. Il malessere si accumula e trova occasioni per esplodere in una rivolta che viene soffocata nel sangue.
L’Inghilterra, invece, sembra realizzare il processo di modernizzazione senza l’ausilio delle riforme. L’elemento di grande
novità della monarchia parlamentare inglese è la costruzione di istituti formali e informali di autogoverno della società;
si tratta di istituzioni da mettere ancora alla prova in una società in rapida trasformazione.
Con l’ascesa al trono nel 1714 di Giorgio I Hannover, un re straniero, il governo tende a emanciparsi dal sovrano che lo
nomina, e finisce per manipolare il Parlamento e sottrarsi al suo controllo. Protagonisti della vita parlamentare sono i due
schieramenti dei Whigs e dei Tories: non si tratta di veri partiti politici, ma di gruppi di interesse. I Whigs sono esponenti
del mondo commerciale e affaristico, con idee religiose tolleranti e con l’obiettivo di limitare il potere regio; i Tories
appartengono al ceto dei possidenti agrari, sono anglicani e sostengono la centralità del sovrano.
Ma la debolezza degli Hannover lascia che Robert Walpole, primo ministro inglese per più di vent’anni, rappresenti nei
vertici dello Stato le volontà dei nuovi gruppi che stanno travolgendo la vecchia Inghilterra rurale.
Anche in Francia la situazione si presenta ambigua: non riesce a farsi protagonista di un organico progetto di riforme. Non
che gli intellettuali francesi non avessero provato per tempo a tradurre i Lumi in riforme utili al loro paese; spesso, però,
queste si erano perse tra i poteri e istituzioni che ancora disarticolavano lo Stato francese.
Alla morte di Luigi XIV, la corona passa al suo pronipote Luigi XV, di appena cinque anni.
La reggenza viene affidata a Filippo d’Orléans; una volta salito al trono, Luigi XV affida il governo al cardinale de Fleury, il
quale cercherà un compromesso fra accentramento politico e consenso dei corpi dei ceti privilegiati.
Dopo la morte di Luigi XV, a succedergli è Luigi XVI con Turgot al controllo delle finanze, un uomo di punta
dell’Illuminismo, fautore di un ambizioso programma di risanamento delle finanze basato sull’attacco ai privilegi fiscali e
alle speculazioni degli appaltatori delle imposte; tuttavia incontra l’ostilità dei parlamenti, della corte e del clero.
Quando Turgot si dimette viene segnata la fine dell’età delle riforme in Francia.
Capitolo 7: le rivoluzioni americana e francese
A fine Settecento le cose cambiano: si scardina il rapporto di subordinazione fra sudditi e sovrani.
A scatenare questa enorme modificazione sono eventi imprevedibili ed autonomi: la Rivoluzione Americana e la
Rivoluzione Francese.
-La Rivoluzione americana non si fonda su un progetto coerente e razionale; è piuttosto il risultato di volontà spesso
divergenti maturati fra popoli, culture ed economie diverse.
Le tredici colonie britanniche protagoniste della guerra di Indipendenza costituiscono realtà molto diverse: questa
diversità di economie, paesaggi agrari e contesti sociali produce un quadro complessivo singolare e per certi versi
contraddittorio.
Altrettanto contraddittorio è l’atteggiamento dei coloni verso la madrepatria inglese: l’Inghilterra suscita al tempo stesso
sentimenti di attaccamento e rispetto da un lato, di insofferenza crescente dall’altro. In realtà, fino al Settecento inoltrato
il controllo inglese sui territori d’oltremare era stato essenzialmente di carattere economico, inquadrato nelle politiche
mercantilistiche: riguardava cioè il controllo delle materie prime, dell’intermediazione mercantile e della navigazione.
Il peso economico che la madrepatria fa gravare sulle colonie americane diventa intollerabile alla fine della guerra dei
Sette Anni. L’Inghilterra, spinta dalla necessità di sanare le finanze di uno Stato indebitato, compie una svolta autoritaria
nella politica coloniale, inasprendo l’esazione fiscale e applicando un maggiore controllo sul piano politico.
Il governo britannico deve però confrontarsi con un malessere comune che echeggia da una costa all’altra dell’Oceano
Atlantico. In America la crescente insofferenza fa passare momentaneamente in secondo piano le differenze strutturali e
le divergenze di interessi tra le colonie, e coagula le loro forze attorno a obiettivi comuni.
Il primo risultato è la revoca della legge sul bollo.
L’opposizione americana continua a crescere, esprimendosi tanto nei dibattiti e nelle petizioni, quanto in atti violenti
puntualmente repressi. Fra gli episodi dimostrativi, uno assume valore di svolta. Nel 1773 viene votato il Tea Act, legge
con la quale l’Inghilterra affida alla Compagnia delle Indie orientali il monopolio del commercio del tè con le colonie
nordamericane, danneggiando i commercianti locali. Dei gruppi radicali bostoniani rovesciano in mare il carico di una
nave della Compagnia attraccata al porto; questo evento, chiamato “Boston Tea Party”, si carica di valore simbolico e
diventa nell’immaginario dei protagonisti e nella memoria nazionale l’avvio della Rivoluzione.
L’atteggiamento ostile del sovrano inglese Giorgio III Hannover chiude ogni possibilità di dialogo e apre la fase armata
delle rivendicazioni. Nei primi mesi si verificano ripetuti scontri fra le truppe britanniche e le milizie delle colonie; viene
costituito un esercito comune al comando di George Washington, che il 4 luglio 1776 emana la Dichiarazione
d’Indipendenza stilata da Thomas Jefferson.
Vengono anche approvati gli Articoli di Confederazione, prima forma di raccordo istituzionale fra le tredici colonie.
Qualche mese dopo l’esercito di George Washington batte gli inglesi a Yorktown. Iniziano i negoziati di pace, che si
concludono con il trattato di Versailles, in cui l’Inghilterra riconosce l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Nasce il dibattito sulla forma istituzionale da attribuire alla nuova entità sovrana. Sarà la proposta federalista a prevalere:
il potere esecutivo è affidato un presidente di Repubblica, eletto dal popolo ogni quattro anni.
-La Rivoluzione francese si presenta subito come un evento dalla portata enorme.
Negli anni Settanta del Settecento si susseguono una serie di cattive annate agricole, una serie di crisi produttive e di
mercato, a cui si aggiunge un continuo indebitamento statale dovuto agli sforzi bellici; il fallimento dei tentativi di
risolvere i problemi contribuiscono a far precipitare la situazione.
Luigi XVI convoca gli Stati generali, ai quali affidare il difficile compito di reperire risorse fiscali.
In tutta la Francia si formano assemblee per la raccolta di richieste da parte del popolo: ma nella situazione di malessere
generale queste assemblee si trasformano in veri e propri laboratori di discussione politica, e producendo un’imponente
mole di lamentele, richieste e proposte.
Il meccanismo costituzionale degli Stati impone la divisione per Stati: il Primo Stato quello del clero, il Secondo Stato
quello della nobiltà e il Terzo Stato formato da quanti non rientrano nei primi due che costituisce circa il 98% del popolo
francese, ma non ha rilevanza politica. I rappresentanti del Terzo Stato avanzano la richiesta di equiparare il numero dei
loro deputati alla somma di quelli del clero e della nobiltà; la richiesta viene rifiutata, così decidono di staccarsi e
proclamare l’Assemblea Nazionale. Si tratta del fallimento degli Stati generali e la nascita dell’Assemblea Nazionale
Costituente, che il re dovrà riconoscere il 9 luglio del 1789.
Luigi XVI non intende restare spettatore passivo del rovesciamento delle basi politico-istituzionali del suo regno: richiama
a Parigi contingenti militari.
In un clima teso, cominciano a circolare voci di deputati del Terzo Stato imprigionati nella fortezza della Bastiglia, di
eserciti in marcia verso Versailles, e le folle vengono incitate ad armarsi contro il pericolo.
La mattina del 14 luglio la folla penetra piuttosto facilmente nella Bastiglia, impadronendosi di circa 32mila fucili e
rifornendosi di polvere da sparo e munizioni. Nonostante la resistenza dell’esercito, la folla riesce a raderla al suolo.
In questa giornata il popolo ha distrutto un simbolo dell’antico regime e infatti diventerà la festa nazionale dei francesi.
Nella capitale viene istituito un contingente militare popolare, la Guardia nazionale, il cui comando viene affidato al
marchese de La Fayette.
Molte città seguono l’esempio della capitale, insorgono e istituiscono a loro volta una Guardia nazionale e una nuova
municipalità. Ma la reazione più significativa si avrà con la rivolta delle campagne, l’assalto ai palazzi e alle abbazie, dove
vengono distrutti gli archivi che custodiscono gli atti di proprietà dei feudatari.
Da Parigi alle città di provincia alle campagne: la Rivoluzione si allarga e subisce una forte accelerazione. La risposta
dell’Assemblea costituente non si fa attendere e con un atto costituzionale abolisce quello che le popolazioni delle
campagne stanno cercando di cancellare col fuoco: viene abolito il regime feudale.
In una notte crollano le basi dell’antico regime. Questo percorso culminerà con l’approvazione della Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadini, un documento cardine della storia e del pensiero politico europeo.
Una folle enorme marcia sulla reggia di Versailles, e il re chiede il trasferimento della corte a Parigi. A Luigi XVI non resta
scelta: è costretto a tornare nella capitale.
La gran parte dei nobili francesi decide di emigrare alla volta di paesi e contesti in cui trovare i familiari punti di
riferimento. A sua volta il sovrano comprende di non essere in grado di controllare l’orientamento che il paese sta
prendendo e interferire con esso. Tenta perciò la fuga da Parigi, dirigendosi in Austria, da dove spera di poter organizzare
la controrivoluzione. Ma nella notte fra il 20 e il 21 giugno 1791 Luigi XVI viene riconosciuto e bloccato sulla strada,
ricondotto nella capitale e accolto da una folla che non lo riconosce più come re. Luigi XVI è costretto a giurare di
rispettare la Costituzione, i membri dell’Assemblea si sciolgono e indicono nuove elezioni, secondo un sistema a suffragio
ristretto: sono ammessi al voto solo gli uomini con età superiore ai 25 anni che abbiano pagata un’imposta annua.
I nuovi deputati formeranno l’Assemblea Legislativa; fra questi si trova Brissot, capo del gruppo dei girondini.
Fuori dalla Francia si rafforza il movimento controrivoluzionario, animato dai nobili fuggiti dal paese.
La paura del “contagio rivoluzionario” preoccupa le potenze europee.
Contro Maximilien de Robespierre, leader dei giacobini, che teme una sconfitta disastrosa, Brissot sostiene con forza la
necessità della guerra, unico mezzo per far trionfare la Rivoluzione e cementare l’unità nazionale.
Il governo girondino, capeggiato da Brissot, dichiara guerra a Francesco II d’Austria; poco dopo anche la Prussia entra nel
conflitto, in Francia viene proclamata la “patria in pericolo” e migliaia di volontari si arruolano nell’esercito.
La “patria in pericolo” e l’ambiguità dell’atteggiamento dell’Assemblea Legislativa nei confronti del re sfociano nella
grande “giornata rivoluzionaria” del 10 agosto 1792.
I sanculotti parigini (gente del popolo) prendono d’assalto il palazzo reale e costringono l’Assemblea a deporre e far
arrestare il sovrano, a sospendere la Costituzione, a convocare nuove elezioni a suffragio universale e quindi sciogliersi.
Si chiude con il 10 agosto la fase monarchico-costituzionale della Grande Rivoluzione.
A questo punto l’esercito prussiano avanza verso Parigi; i francesi riescono a fermare l’avanzata prussiana. Nei mesi
successivi entrano in guerra anche l’Inghilterra, l’Olanda, la Spagna e numerosi Stati italiani e tedeschi. Lo schierarsi di
tutte le potenze europee contro la Francia repubblicana si accompagnano all’insorgere di movimenti di opposizione
controrivoluzionaria dentro i confini “naturali” del Paese.
Scoppia nella Loira persino una violenta rivolta contadina, scatenata dal rifiuto dell’arruolamento obbligatorio
nell’esercito; si arriva così a formare un vero e proprio esercito controrivoluzionario, di ispirazione monarchica e cattolica.
Il governo girondino viene travolto dall’opposizione giacobina. I giacobini diventano il partito egemone, guidati da
Robespierre, e il clima rimane estremamente teso. I giacobini si ritrovano a fronteggiare molteplici insurrezioni
organizzate dalla borghesia commerciale.
Con i giacobini è l’inizio del Terrore.
Il governo giacobino introduce la leva obbligatoria di massa; proclama la legge dei sospetti che conferisce al Tribunale
rivoluzionario ampie facoltà di colpire, in assenza di prove concrete, quanti sono anche solo sospetti di comportamenti
controrivoluzionari.
Il regime suscita ovviamente opposizioni e resistenze. L’emergenza della “patria in pericolo” diventa giustificazione per
moltiplicare la ferocia, l’eliminazione attraverso la ghigliottina, lo spregio di ogni regola costituzionale.
Ma le contraddizioni interne e il bagno di sangue che segnano il regime giacobino continuano ad alimentare complotti e
manovre degli oppositori.
Gruppi interni cercano di organizzare un colpo di mano, che avrà successo. Robespierre viene dichiarato fuori legge e
quella stessa notte arrestato: il giorno dopo sale sulla ghigliottina insieme ai suoi fedelissimi.
Finita la fase del Terrore, inizia la reazione moderata del Termidoro. All’eliminazione fisica dei leader giacobini si
accompagna lo smantellamento delle strutture istituzionali del Terrore: viene soppresso il Tribunale rivoluzionario, abolito
il maximum dei prezzi, limitati i poteri del Comitato di salute pubblica, chiusi i club giacobini e reintegrati i girondini.

Capitolo 8: Napoleone
Chiusa la parentesi del giacobinismo, il ritorno all’antico regime non è più possibile: si tratta di un periodo di difficile
passaggio, in cui il bisogno di stabilità si collega alla volontà di tenere salde le principali acquisizioni rivoluzionarie. E in
questo contesto che emerge la figura di Napoleone Bonaparte.
La Rivoluzione diventa moderata, ma strutturalmente aggressiva e trova in un giovane ufficiale, Napoleone Bonaparte,
uno strumento strategico e militare di straordinaria efficacia.
La comparsa di Napoleone come protagonista delle guerre sconvolge le strategie belliche; la Francia ottiene un
riconoscimento ufficiale sul piano internazionale con i trattati di pace siglati da Prussia, Olanda e Spagna.
Questo le permette di ridurre la dimensione del fronte nemico, composto da Inghilterra, Austria, Regno di Sardegna e di
Napoli, e di tentare l’aggressione diretta all’Austria.
Napoleone si dimostra uno straordinario condottiero: in un mese sconfigge gli eserciti nemici austro-piemontesi e presto
riesce a conquistare gran parte dell’Italia settentrionale.
Sui vasti spazi conquistati dagli eserciti francesi, Napoleone decide di costruirvi quelle che verranno chiamate
Repubbliche sorelle. Le prime saranno la Repubblica transpadana in Lombardia e la Repubblica cispadana in Emilia,
confluite poi nella Repubblica cisalpina che l’Austria riconosce in cambio dell’annessione di Venezia, ceduta da Bonaparte
agli Asburgo col trattato di Campoformio. Seguiranno la Repubblica ligure, la Repubblica romana, la Repubblica elvetica
(territori svizzeri), la Repubblica partenopea. Gran parte della penisola italiana sarà controllata dalla Francia, dando vita
ad un nuovo fenomeno geopolitico.
Le Costituzioni repubblicane attive nei territori controllati aboliscono i diritti feudali e i titoli nobiliari, sopprimono gli enti
religiosi, incamerano i beni ecclesiastici e riformano il sistema giudiziario.
Queste novità non riservano però alcuna attenzione ai contesti specifici, e spesso non trovano consensi al di là di
circoscritti gruppi intellettuali e politici. Esse realizzano una rivoluzione passiva: i francesi non possono conquistarsi una
legittimità che vada oltre la forza dei loro eserciti; quando gli eserciti si allontanano, nelle repubbliche scoppiano rivolte
popolari intense.
In questo contesto la mossa più brillante dei generali del Direttorio è quella di sfidare l’Inghilterra su un campo lontano,
Napoleone decide di affrontarla attraverso una spedizione militare contro l’Egitto, al fine di assumere il controllo delle
rotte orientali del Mediterraneo, rovinando il traffico inglese con l’India. Ma la flotta di Bonaparte viene velocemente
distrutta da quella inglese. Incoraggiata da questa sconfitta, l’Austria dichiara guerra alla Francia e compone una seconda
coalizione antifrancese, a cui aderiscono l’Inghilterra, la Russia, la Turchia e i Borbone di Napoli. I francesi vengono
ricacciati dentro i loro confini e l’ordine europeo è ripristinato.
Le disfatte militari francesi travolgono il Direttorio da una grave crisi economica ormai segnato dalla corruzione e dai
complotti che si agitano al suo interno; con un colpo di Stato, il Direttorio viene sciolto e la Francia ha un nuovo esecutivo.
Appena dopo entra in vigore la Costituzione dell’anno VIII che sancisce una riduzione dell’elettorato e una forte
concentrazione di potere nell’esecutivo, affidato ad un Consolato composto da tre uomini, fra cui Napoleone Bonaparte
proclamato primo console; egli gestisce il potere esecutivo e gode del diritto di proporre leggi, mentre gli altri due consoli
svolgono una funzione consultiva.
L’esercito è uno degli strumenti principali del successo napoleonico: addestrato a una guerra di movimento rapidissima
che giochi sull’effetto a sorpresa, è composto da uomini reclutati attraverso la coscrizione obbligatoria e la leva di massa.
Napoleone ricava un prestigio e un peso simbolico che riversa sulla propria figura e sulla patria francese nata dalla
Rivoluzione.
Sotto la spinta di Napoleone e sotto il suo diretto comando, gli eserciti francesi tornano ad attraversare le Alpi. Sconfitti gli
austriaci, Bonaparte assume nuovamente il controllo dell’Italia centro-settentrionale e costringe l’Austria a ribadire con
un trattato i termini di Campoformio; restaura la Repubblica cisalpina che chiama Repubblica italiana e che cinque anni
più tardi diventerà Regno d’Italia.
La Francia restituisce l’Egitto all’impero turco-ottomano mentre l’Inghilterra riconosce le conquiste francesi in Europa ma
deve restituire Malta.
Sulla scia di questi eventi, Bonaparte si fa nominare primo console e, con la Costituzione dell’anno X, primo console a vita,
controllando così in forma assoluta il potere politico in Francia.
Il 2 dicembre 1804, al cospetto di Papa Pio VII, Napoleone si incorona imperatore dei francesi nella cattedrale di Notre-
Dame, giurando di rispettare le grandi conquiste della Rivoluzione e i principi di libertà e uguaglianza.
Autoritario e plebiscitario al tempo stesso, il regime napoleonico tende a un controllo via via più marcato della società e
alla creazione del consenso organizzata dai vertici dello Stato. Napoleone arriva praticamente ad abolire la libertà di
stampa: il suo potere personale si allarga a dismisura.
Napoleone riorganizza il paese attraverso una fitta e ben strutturata rete burocratica direttamente dipendente dal
governo centrale; sana le finanze pubbliche, impone il ritorno della moneta metallica, fonda la Banca di Francia; introduce
importanti innovazioni nel campo dell’istruzione, istituendo i licei e politecnici. Asseconda la crescita e l’affermazione dei
ceti borghesi e lo sviluppo dell’economia, istituendo elevate tariffe doganali. Permette ai cattolici di riconciliarsi con il
regime, firmando il Concordato con la Santa Sede.
Realizza un’imponente opera di uniformazione legislativa attraverso il Codice civile, con cui salvaguarda l’abolizione dei
diritti feudali e la tutela della libertà civili; vengono sanciti la libertà di iniziativa economica, di lavoro, l’uguaglianza
giuridica e la laicità dello Stato.
L’insieme delle norme napoleoniche costruisce un modello forte e incisivo sul rapporto fra Stato e società. Esso è fondato
su una macchina burocratica centralistica che ha il monopolio assoluto della legge e della forza necessaria per garantire il
rispetto della legge stessa.
Il consolidarsi del regime napoleonico costituisce comunque agli occhi delle altre potenze europee un elemento di
squilibrio che non può passare inosservato.
Nel 1803 l’Inghilterra infligge a Napoleone una dura sconfitta, formando subito dopo la terza coalizione antifrancese con
Austria, Russia, Svezia e Regno di Napoli. La risposta di Napoleone è di concentrare la sua Grande Armata in Germania.
L’Austria è costretta a uscire dalla coalizione e a rinunciare ai territori annessi con il trattato di Campoformio; nel 1806
Napoleone conquista anche il Regno di Napoli. Nello stesso anno in Germania mette fine al Sacro Romano Impero e
istituisce la Confederazione del Reno. Napoleone gioca con l’Europa, montandone e smontandone pezzi, e provocando
ripetutamente la reazione ripetutamente le reazioni.
La Prussia invece, viene sconfitta duramente; Napoleone fa il suo ingresso trionfale a Berlino e lo Stato prussiano viene
smembrato. La sola potenza che sembra forte abbastanza da resistere ai francesi è la Russia, che però una volta sconfitta
decide di allearsi con Napoleone.
Ancora una volta resta l’Inghilterra da neutralizzare. Alla forza delle armi Napoleone decide di sostituire una strategia
economica: decreta il blocco continentale, con cui vieta ai sudditi del suo Impero ogni commercio con l’Inghilterra.
L’Inghilterra, dal canto suo, risponde alle provocazioni della Francia con un blocco navale.
Il protrarsi dei rispettivi “blocchi” comincia a pesare drammaticamente sulle economie dei paesi coinvolti. La stessa
Inghilterra ne risente molto, ma ciò che Napoleone spera (ovvero il tracollo della sua rivale) non avverrà mai.
Uno dei punti deboli della strategia napoleonica del “blocco” è il Portogallo, che continua ad avere rapporti commerciali
con l’Inghilterra. Alla fine del 1807 la Francia attraversa la Spagna, sua amica, per entrare a Lisbona; ma qualche mese
dopo sarà la stessa Spagna a preoccupare Napoleone.
Infatti nello Stato scoppia una vera e propria guerra di Indipendenza, alimentata dagli inglesi: l’imperatore accorre in
Spagna e vi insedia il fratello Giuseppe; ma gli spagnoli non si piegano e trovano nuove ragioni per la propria lotta nella
decisione di Napoleone di occupare lo Stato Pontificio, facendo prigioniero Papa Pio VII.
Il sentimento antifrancese, nutrito dalle prepotenze commesse, si diffonde e si rafforza.
La percezione di un indebolimento della potenza francese, induce Austria e Inghilterra ad unirsi nella quinta coalizione.
Ma dopo aver subito una grossa sconfitta, l’Austria reputa più proficuo fare di Napoleone un alleato: così diventa uno
Stato satellite della Francia. Si tratta del momento della massima potenza napoleonica.
Delle due rivali, Napoleone è meno preoccupato della Russia, contro la quale decide di sferrare un attacco che prevede
rapido e risolutivo: intraprende allora la campagna di Russia nel giugno del 1812. Le truppe russe, piuttosto che
fronteggiarlo, si ritirano facendo terra bruciata dietro di loro in modo da togliere ogni possibile rifornimento all’Armata
francese; a settembre Napoleone entra a Mosca, trovando una città desolata, data alle fiamme e abbandonata. Ad
ottobre non gli resta che ordinare una ritirata che si rivelerà disastrosa: i francesi devono attraversare in inverno
l’immenso territorio russo, fronteggiando il gelo, la mancanza di viveri, gli improvvisi attacchi dei russi e delle armate
popolari.
Napoleone rientra in Francia con un decimo delle truppe con cui era partito, e al suo ritorno vi trova una situazione
drammatica, con un colpo di Stato appena sventato.
Nel 1813 la Spagna riesce a cacciare i francesi. Inghilterra, Russia, Prussia, Austria e Svezia danno vita alla sesta coalizione.
Napoleone reagisce al nuovo fronte antifrancese e riesce a mettere in piedi un potente esercito; tuttavia verrà duramente
sconfitto a Lipsia. Rendendosi conto di non poter più reagire, l’imperatore abdica il 6 aprile 1814 e sul trono di Francia
sale Luigi XVII, fratello di Luigi XVI. Napoleone viene confinato nell’isola d’Elba.
Dopo qualche mese, però, Bonaparte ritenta disperatamente la sorte: sbarca in Francia provocando la fuga di Luigi XVIII e
della sua corte. E’ un breve ritorno alla gloria, conclusosi dopo cento giorno con la battaglia di Waterloo, durante la quale
le truppe inglesi infliggono a Napoleone e al suo esercito la sconfitta definitiva.
Confinata nella sperduta isola di Sant’Elena sotto sorveglianza inglese, Napoleone muore il 5 maggio 1821.
Intanto, le potenze vincitrici (Russia, Inghilterra, Austria e Prussia) cercano di risolvere i problemi lasciati da Napoleone.
Durante il Congresso di Vienna si rimodella la carta geopolitica dell’Europa; in base al principio di legittimità, sul trono di
ciascun regno europeo torna la dinastia che vi regnava prima dell’inizio delle Rivoluzione (1789).
Olanda e Belgio vengono riuniti nel Regno dei Paesi Bassi; gli Stati tedeschi compongono la Confederazione germanica;
Prussia, Austria e Russia ampliano i relativi domini; la penisola italiana ritorna ad essere frammentata; l’Inghilterra
aumenta i propri possedimenti coloniali.
Per garantire la stabilità dell’equilibrio costruito a Vienna, Prussia, Austria e Russia danno vita alla Santa Alleanza,
un’organizzazione sovranazionale cui partecipano anche altre potenze europee, ad eccezione dell’Inghilterra.

Sezione IV: Industrializzazione e classi sociali


Capitolo 9: La grande trasformazione; la “Prima Rivoluzione Industriale”
Con l’espressione rivoluzione industriale si definisce la trasformazione epocale e irreversibile subita dalle strutture
produttive europee, a partire dalla seconda metà del Settecento. La causa fondamentale sta nel decollo e
nell’affermazione dell’industria quale principale motore dell’economia europea, fino ad allora basata essenzialmente
sull’agricoltura. Essa non è un evento improvviso, ma è un processo più complesso e di più lunga durata, che comprende
altre “rivoluzioni” come quella demografica, agricola e commerciale.
Il paese europeo in cui prende avvio la rivoluzione industriale è l’Inghilterra.
L’introduzione di nuove tecniche produttive, che consentono l’aumento della produzione, viene stimolata dai mutamenti
demografici ed economici che vive l’Inghilterra del primo Settecento. A creare le condizioni per lo sviluppo sono da un
lato l’aumento della popolazione, dall’altro il ruolo centrale che l’Inghilterra va assumendo nell’ambito del commercio
internazionale. L’Inghilterra si afferma come indiscussa potenza marittima e commerciale, in grado di controllare una rete
capillare di traffici estesa ormai in tutto il mondo.
La crescente mercantilizzazione dell’economia inglese va di pari passo con lo sviluppo dell’agricoltura. Viene incrementata
la produzione mediante innovazioni tecnologiche volte a migliorare la fertilità e la produttività dei suoli; viene favorito
l’allevamento, integrandolo all’agricoltura intensiva, accelerando inoltre il processo delle recinzioni.
Tuttavia, molti contadini s’impoveriscono e sono costretti a vendere i loro terreni, trasformandosi in braccianti.
Il fenomeno della proletarizzazione dei contadini esercita potenti stimoli sullo sviluppo dell’agricoltura e dell’economia
nel loro complesso. Esso consente ai proprietari terrieri di procedere alle innovazioni tecniche e gestionali che
trasformano le aziende rurali in imprese economicamente efficienti, molto più produttive di quelle del passato.
La rivoluzione industriale inglese parte dal settore tessile, per estendersi a molti altri settori produttivi.
I tessuti in cotone sono infatti sempre più richiesti sia in patria che all’estero.
L’esigenza di incrementare la produzione di manufatti di cotone comporta la ricerca e l’adozione di tecniche in grado di
accelerare le diverse fasi di lavorazione per giungere al prodotto finito, riducendo contemporaneamente i costi e che
correggano lo squilibrio e rendano più omogenei i ritmi di produzione nel loro complesso.
Nonostante ciò, l’industria cotoniera non è l’elemento trainante dell’industria inglese; a svolgere un simile ruolo è
piuttosto il settore siderurgico. Qui le innovazioni s’impongono con maggiore lentezza, ma costituiscono la base più solida
per una radicale trasformazione dell’assetto industriale del paese. La nuova siderurgia prende avvio con la scoperta
casuale della giusta miscela di minerale ferroso e di carbone fossile opportunamente trattato da utilizzare come
combustibile per ottenere la ghisa. L’aumento della richiesta di carbone comporta uno sfruttamento sempre più in
profondità dei giacimenti carboniferi; a tale scopo si sfrutta l’energia del vapore.
In seguito, dalla combinazione tra meccanizzazione, ferro, vapore e lavoro nelle miniere, dove i carichi di carbone
vengono trasportati mediante carrelli che scivolano su rotaie, nasce l’innovazione della locomozione ferroviaria.
L’impiego del vapore quale principale fonte di energia, l’adozione delle innovazioni tecniche nella produzione tessile e la
necessità della concentrazione di macchine e lavoratori nelle fabbriche cambiano profondamente il paesaggio e la società
inglesi.
La prima locomotiva a vapore viene costruita da Stephenson nel 1814. Ben presto, oltre a trasportare beni di consumo, i
convogli fungono da mezzi di trasporto per le persone.
Oltre che alla nascita della prima rete ferroviaria del mondo, il sistema di comunicazioni inglese si giova anche di una
fiorente navigazione costiera e di una rete di canali che collegano i diversi fiumi navigabili da cui l’isola è percorsa, vi è la
presenza del primo battello a vapore.
Lo sviluppo delle industrie e delle ferrovie determina un importante cambiamento nel paesaggio e nelle gerarchie urbane:
si tratta dell’aumento del numero e delle dimensioni dei centri urbani.
La popolazione urbana supera per numero quella residente nelle campagne; Londra, che all’inizio del Settecento conta
cinquecentomila abitanti, tocca il milione un secolo dopo, arrivando quasi a cinque milioni.
Non tardano tuttavia a manifestarsi contraddizioni.
Le periferie sono sporche e annerite dal fumo che fuoriesce dalle ciminiere, con case fatiscenti, dove si ammassano le
famiglie operaie. I quartieri centrali, al contrario, vivono un momento di rinnovamento.
L’aspetto più importante è quello della diffusione del lavoro salariato. I moderni lavoratori salariati lavorano ogni giorno
con la forza delle loro braccia per un compenso. Il lavoro salariato è la norma anche nelle moderne industrie.
L’introduzione delle macchine determina una divisione delle mansioni lavorative e un sempre più preciso coordinamento
fra le stesse: l’operaio di fabbrica deve ripetere monotonamente la stessa operazione, ed è costretto ad obbedire ai ritmi
di lavoro imposti dalla macchina e al tempo di lavoro scandito dal turno. L’entrata, l’uscita, le pause sono regolate da orari
fissi, a ciascuno è assegnato un posto e un compito, da svolgere regolarmente e senza sosta sotto la sorveglianza dei capi-
officina e la minaccia di provvedimenti disciplinari.
Invece, figure professionali tradizionali, come gli artigiani e i lavoratori a domicilio, sono tutt’altro che scomparsi.
Gli artigiani che lavorano nelle botteghe devono lavorare più duramente per far fronte alla concorrenza dei prodotti
industriali, meno costosi.
Le condizioni di lavoro all’interno della fabbrica non sono però uguali per tutti, e rispondono ad una complessa
stratificazione sociale: sul gradino più basso ci sono donne e bambini, che lavorano da 12 a 16 ore al giorno per salari
insufficienti; seguono gli operai non qualificati e infine gli operai qualificati.
Per gli operai la fabbrica diventa la loro vita, dato che vi passano 15-16 ore al giorno, con conseguenze drammatiche: sono
frequenti gli infortuni e il diffondersi di malattie.
Le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori subiscono un peggioramento: il loro regime alimentare peggiora, diminuisce
il consumo di carne e di pane, che viene sostituito dalla meno costosa patata; anche le condizioni abitative sono
drammatiche: le case sono fredde ed umide, prive di acqua corrente, illuminazione e scarichi fognari.
In Inghilterra i profondi mutamenti generati dall’avvento dell’industrializzazione sono accompagnati da un analogo
rinnovamento nell’ambito della riflessione teorica sulla natura dell’attività economica.
La nascita della scienza economica s’intreccia quindi con i dibattiti intorno alle maggiori questioni che l’industrializzazione
va ponendo.
La condizione essenziale per lo sviluppo economico è data dalla rinuncia al consumo immediato dal reddito per
destinarne una parte all’accumulazione.

Capitolo 10: Le vie dell’industrializzazione


Per buona parte dell’Ottocento la Gran Bretagna mantiene un’incontrastata posizione di egemonia nella vita economica
internazionale, grazie al suo precoce sviluppo industriale. Il divario con l’Europa e gli Stati Uniti comincia però a ridursi
gradualmente nel corso del secolo.
L’industrializzazione prende avvio in modi e tempi differenti, a seconda delle risorse disponibili in ogni singolo paese e
delle sue condizioni politiche, economiche e sociali.
Alla “prima generazione” dei paesi industrializzati appartiene la Gran Bretagna; alla “seconda” appartengono il Belgio, la
Svizzera e Francia; alla “terza” appartengono la Germania e Stati Uniti; alla “quarta” Russia, Italia e Giappone.
- Per tutti la Gran Bretagna è il modello da emulare.
-Il Belgio dispone di giacimenti di ferro, carbone, piombo e zinco.
-La Svizzera, malgrado i problemi posti dalla sua sfavorevole posizione geografica, conosce un intenso sviluppo della
lavorazione di cotone e seta. Importante è la vocazione all'orologeria e alla meccanica di precisione, che non necessitano
di abbondanza di materie prime.
-Più lenta e difficoltosa è l'industrializzazione in Francia. La maggiore risorsa del paese risiede nella sua popolazione
numerosa, circa 28 milioni di persone. La produzione di beni di consumo soprattutto tessili è affidata a stabilimenti rurali,
dove si sperimentano forme di organizzazione di lavoro di tipo duale: una parte del lavoro viene svolta in fabbrica, la
restante nelle campagne circostanti.
-La crescita economica di tutti i paesi europei durante il XIX secolo è strettamente connessa allo sviluppo delle reti
ferroviarie. Nelle aree più arretrate d'Europa le prime reti ferroviarie nascono senza che ce ne sia un effettivo bisogno
commerciale, ma sono il simbolo della volontà di modernizzazione dei governi, che vedono in esse una possibilità di
sviluppo economico.
Ben presto prende avvio un processo di crescita: la riduzione dei costi di trasporto garantito dalle ferrovie stimola la
produzione industriale la quale fornisce a sua volta un incentivo alla costruzione di nuove vie di comunicazione.
Le ferrovie e lo sviluppo a esse connesso dell'industria pesante determinano un cambiamento irreversibile nella struttura
economica della Germania. Il suo sviluppo industriale, alla fine del secolo, sarà tale da permetterle di rivaleggiare
direttamente con la stessa Gran Bretagna.
-La Germania è politicamente divisa in vari Stati e i ceti elevati dimostrano scarse o nulle aspirazioni imprenditoriali.
Vengono gettate le basi per lo sviluppo industriale: si intensificano i traffici commerciali fra i componenti della federazione
tedesca, con un processo che culmina nell'unione doganale degli Stati tedeschi, che si conferma come importante
elemento di sviluppo che facilita l’ industrializzazione sulla base della domanda di prodotti industriali necessari alla
costruzione delle ferrovie; contribuisce alla formazione di un mercato interno unico e rende possibile la libera circolazione
delle merci; favorisce la fine di particolarismi e il consolidamento di interessi economici comuni, elemento importante per
la costruzione di quel processo unitario che porterà all'unificazione della Germania.
I territori di tedeschi possono contare sulla presenza di abbondante manodopera istruita e quindi più facilmente
addestrabile all'utilizzo di nuovi macchinari. Al buon livello qualitativo delle risorse umane (altamente scolarizzate)
corrisponde la massiccia presenza di materie prime: la Germania può contare su ricchi giacimenti di carbone, che alimenta
l'espansione industriale. Il decollo economico tedesco, soprattutto dopo l'unificazione del 1871, si rifletterà nel notevole
aumento degli occupati nel settore industriale.
-Gli Stati Uniti intraprendono a loro volta la via dello sviluppo industriale; essi dipendono non solo dalle importazioni di
manufatti dalla Gran Bretagna, ma anche dalla sua tecnologia e manodopera.
L'industrializzazione statunitense ha un forte legame con l'iniziativa e l'intraprendenza individuali.
Da un lato vi è una forte carenza di manodopera; dall'altro, lo stesso aumento della popolazione e il processo di conquista
e colonizzazione contribuiscono a creare un mercato interno di enormi dimensioni, affamato di prodotti industriali.
Il paese è inoltre ricco di materie prime, di risorse naturali ed energetiche, e ha un'agricoltura fiorente.
Il vero e proprio boom si colloca però nel decennio 1850 - 1860, quando le industrie conoscono tassi di crescita
spettacolari. Il governo federale s'inserisce nella vita economica nazionale: sono istituiti dazi doganali per proteggere la
produzione industriale nazionale dalla concorrenza europea.
Il processo di industrializzazione ha effetti profondi non solo sull’economia dei singoli paesi, ma anche sul sistema
economico internazionale; stimola gli scambi commerciali, perché accresce la richiesta di materie prime per le produzioni
industriali, le quali vengono poi esportate per consentire ulteriori acquisti o semplicemente per realizzare un profitto.
Nonostante i progressi compiuti dagli altri Stati, l’Inghilterra resta in posizione dominante per quanto riguarda sia la
produzione industriale sia il commercio estero.
Poiché la ricchezza inglese dipende sempre più dai traffici internazionali, bisogna incoraggiare sempre più gli scambi fra i
diversi paesi, smantellando tutte le restrizioni al commercio estero imposte per secoli dagli Stati sulla base della dottrina
mercantilistica. L’attacco è al protezionismo doganale, che rende le importazioni più care e le esportazioni più difficili. La
Gran Bretagna stipula con alcuni paesi trattati commerciali che abbassano reciprocamente i dazi doganali, o assicurano un
trattamento preferenziale ai prodotti e alle navi inglesi. Ogni tipo di barriera viene abbattuta all’insegna del motto
laissez faire, laissez passer.
Oltre ai dazi di importazione, si chiede di abolire tutto ciò che ostacola il libero scambio delle merci, come i dazi di
esportazione, i monopoli del commercio marittimo e simili.
Il percorso così tracciato, seguito anche da altri Stati europei, che abbassano le tariffe doganali e aboliscono i divieti di
esportazione, culmina con il trattato commerciale franco-britannico del 1860; che crea una sorta di effetto a catena che
porta un ribasso generale delle tariffe e configura il continente europeo come una grande area di libero scambio.
A facilitare ulteriormente il commercio internazionale interviene un’altra innovazione: nel 1821 l’Inghilterra istituisce il
“gold standard” (regime aureo) che prevede la convertibilità diretta della sterlina in oro. La sterlina diventa il mezzo
ideale per regolare i pagamenti e incoraggiare gli scambi sul mercato mondiale; con il libero scambio e il regime aureo,
l’Inghilterra consolida il suo primato economico.

Capitolo 11: Conflitti e ideologie del mondo del lavoro


L’industrializzazione rappresenta un cambiamento epocale per la società europea dell’Ottocento. Durante quest’epoca la
popolazione aumenta in maniera mai vista in passato; si affermano nuovi gruppi e realtà sociali che lottano per il proprio
ruolo attraverso l’elaborazione di nuove visioni della società e dei suoi compiti.
L’età rivoluzionaria e napoleonica e l’avvento dell’industrializzazione rappresentano, per lo strato intermedio della società
europea, l’occasione giusta per rendersi conto del proprio ruolo e della propria importanza. Nasce e si radica
nell’Ottocento il concetto di borghesia, un termine che riunisce in una sola categoria realtà, gruppi sociali, mentalità e
comportamenti diversi fra loro. Il gruppo che per lungo termine è stato definito borghesia è quello degli imprenditori e
dei capitani d’industria, cioè uomini che hanno raggiunto ricchezza e prestigio sociale grazie alle loro capacità.
Intraprendenza, ottimismo, fiducia nelle proprie capacità, ricerca della ricchezza e del benessere sono altre caratteristiche
della condizione borghese. Nell’Europa ottocentesca si diffonde e consolida il mito del “self-made man”, l’uomo che si
realizza da solo e che raggiunge un’elevata posizione sociale grazie alle proprie doti personali.
Parte essenziale e quasi costitutiva dell’universo borghese è la famiglia; i figli devono essere educati sin da piccoli agli
ideali della laboriosità, del risparmio, della moderazione, del merito giustamente retribuito.
Cambia anche il ruolo della donna: queste viene sottratta al mondo del lavoro e relegata in casa, per le funzioni familiari e
per offrire alla società un’immagine di decoro, delicatezza e mansuetudine.
L’innovazione tecnologica produce forti tensioni, specie nelle fasce sociali che vengono messe ai margini del mondo del
lavoro a causa dell’impiego di nuovi sistemi produttivi che rappresentano l’origine della rottura del suo equilibrio, utilizzati
in nome di un progresso ma che provocano soltanto sfruttamento, peggioramento delle condizioni di vita e perdita di ogni
controllo sulla produzione da parte del lavoratore.
Sono gli artigiani e gli operai ad avere più percezione dei cambiamenti presenti e timore di quelli futuri. E questo consente
loro di dar vita a forme di protesta, infatti, si riuniscono in associazioni: nascono le associazioni di mestiere, che
raccolgono lavoratori della stessa categoria con l’obiettivo di difendere i propri membri in ambito lavorativo.
Dalla metà del 1700 iniziano i primi scioperi: i governanti inglesi usano la forza per contrastarli infatti viene mobilitato
l’esercito, vengono effettuati arresti e processi di massa, che si concludono con numerose condanne a morte.
Gli sforzi dei lavoratori per contrastare l’affermarsi dell’industrializzazione sono vani e le nuove generazioni di operai
hanno ormai accettato la nuova realtà industriale. Diventa invece urgente individuare gli strumenti organizzativi per far
fronte ai problemi causati dall’aumento dell’offerta di manodopera, in primo luogo la caduta dei salari e la precarietà
dell’occupazione.
Il governo inglese riconosce la legalità delle associazioni di mestiere, che ora assumono una dimensione distrettuale e poi
nazionale, trasformandosi nelle moderne Trade Unions, che raccolgono migliaia di lavoratori qualificati.
Gli obiettivi sono: la difesa dei salari, la riduzione dell’orario lavorativo e il controllo sul reclutamento della manodopera,
ottenuto imponendo ai datori di lavoro l’obbligo di assumere soltanto membri dell’associazione che vengono così salvati
dalla disoccupazione.
Iniziano a diffondersi fra le classi lavoratrici le idee democratiche, che hanno come fondamento il concetto della sovranità
popolare attraverso il suffragio universale e la scelta dei propri rappresentanti istituzionali.
Nasce così la Società londinese di corrispondenza, i cui affiliati chiedono l’uguaglianza dei diritti civili, la cessazione dello
sfruttamento dei lavoratori, gli aumenti salariali e una vita dignitosa per gli operai.
La democrazia invece, ha invece come obiettivo lo sbarazzarsi dei re, dei nobili, dei parassiti e degli sfruttatori, creando
una repubblica costituita da piccoli produttori indipendenti; il potere politico deve essere esercitato dai cittadini a
beneficio di tutti. Il diffondersi del processo di industrializzazione in tutta Europa, la crescita del proletariato di fabbrica e
l'acuirsi del disagio sociale sono alla base della diffusione di quel filone di pensiero che in seguito è stato definito del
"socialismo utopistico".
I socialisti utopisti fanno del momento "sociale" il centro della loro osservazione e della loro attività. Essi propongono
l'umanizzazione e l'armonizzazione dei rapporti sociali.
Il primo esponente di quest'area molto composita del socialismo è l'inglese Robert Owen: egli osserva la miseria e il
degrado degli operai, attribuendone la responsabilità al sistema di fabbrica vigente. Incoraggiate dalla propaganda e dalle
ideologie socialiste, le masse operaie cominciano a rivendicare il proprio ruolo di protagonisti nelle vicende politiche.
Anche in Francia riprendono le lotte dei lavoratori ma vengono fermate con interventi di polizia ed esercito.
In Inghilterra l’eco dei fatti francesi dà slancio alle associazioni sindacali: falliti i tentativi insurrezionali, i lavoratori inglesi
imboccano la via della protesta pacifica.
Nel 1838 è redatta una Carta del popolo, nella quale si chiede l’istituzione del suffragio universale maschile, la segretezza
del voto, il rinnovo annuale del Parlamento. Di fronte al rifiuto opposto dal governo, il movimento che rivendica la Carta
(il cartismo) assume toni più radicali. Ma perde l’iniziale appoggio della borghesia democratica, togliendo così forza alla
protesta. Al fallimento del cartismo contribuisce il governo britannico, che avvia una serie di riforme per migliorare le
condizioni delle classi lavoratrici.
Le rivoluzioni che scoppiano in quasi tutti i paesi europei nel corso del 1848 vedono scendere in campo anche le masse
operaie, intenzionate a ottenere anche provvedimenti economici e sociali che portino a un reale miglioramento delle loro
condizioni di vita e comincino a realizzare gli obiettivi di cambiamento radicale indicati dal socialismo.
Però in seguito alle varie sconfitte, le lotte operaie si fermeranno per almeno vent’anni.
L’esperienza e la memoria delle lotte, però, non vanno perse del tutto, anche per gli insegnamenti che vengono tratti dalla
sconfitta.
Si è dimostrata in pieno l’inadeguatezza dei socialisti utopisti: bisogna, dunque, porsi nuovi obiettivi e strategie.
La critica più radicale al sistema capitalistico è mossa dal filosofo tedesco Marx, il quale sviluppa una teoria
dell’evoluzione storica e del socialismo, fondamentale nella storia europea e mondiale.
L’idea centrale della sua teoria, espressa in scritti come “Il Manifesto del Partito Comunista” e “Il Capitale”, è
l’interpretazione della storia come conflitto fra le classi sociali, come lotta di classe. Secondo Marx, alla base dello
sviluppo della società c’è la contraddizione fra l’attività produttiva, il lavoro, e i rapporti di produzione, cioè le relazioni
che si stabiliscono tra gli uomini per organizzare il processo lavorativo. La storia diventa così teatro dello scontro tra classi
sfruttatrici e classi sfruttate, che culmina nel capitalismo. Marx distingue fra la classe capitalistica e la classe operaia, e
dimostra che il capitalista sfrutta l’operaio. La differenza fra lavoro prestato e lavoro pagato rappresenta il plusvalore di
cui l’imprenditore-capitalista si appropria a danno dei lavoratori salariati, i proletari.
E’ necessario che i lavoratori salariati acquisiscano la coscienza di classe, cioè si riconoscano come membri di una classe -
il proletariato - e si costituiscano in un partito su scala internazionale, che dovrà organizzare i lavoratori in vista della
rivoluzione proletaria che avrà come obiettivo iniziale il socialismo (la socializzazione dei mezzi di produzione) e come
meta finale il comunismo (abolizione di ogni forma di organizzazione statale e la costruzione di una società senza classi e
senza privilegi in cui tutte le potenzialità produttive sono messe al servizio dell’intera collettività).

Sezione V: Il secolo delle nazioni


Capitolo 12: l’Europa liberale e gli Stati Uniti d’America
La Restaurazione, decisa con il Congresso di Vienna, cerca di attenuare gli effetti dei mutamenti delle strutture politiche,
economiche e sociali, affidando la gestione del potere politico alle vecchie dinastie regnanti e all’aristocrazia, ma
riconoscendo alla borghesia parte delle conquiste acquisite durante il periodo rivoluzionario e l’età napoleonica.
La Restaurazione non è altro che un ritorno al passato, poiché afferma il principio di legittimità, secondo cui non possono
essere cancellati i privilegi di re, nobili ed enti religiosi, in quanto legittimi per diritti dinastici.
Tuttavia, un semplice ritorno al passato non è possibile, poiché riproporrebbe la stessa situazione che aveva causato
problemi. Invece è necessario costruire un sistema politico europeo capace di garantire pace fra gli Stati, stabilità
all’economia e un benessere alle popolazioni, per evitare ogni possibile disordine e il pericolo di una nuova rivoluzione.
L’Europa della Restaurazione è un sistema di stati dinastici di antica formazione ma rinnovati ( restaurati) e in essi re ed
aristocrazia hanno ripreso il potere, ma non governano più con i metodi del passato, bensì attraverso norme contenute
nei codici legislativi e nei regolamenti amministrativi.
Il sistema politico-istituzionale messo in piedi con la Restaurazione si rivela particolarmente efficace nei paesi europei
caratterizzati da situazioni economiche e sociali arretrate, come l’Impero russo e quello austriaco, o come in alcuni Stati
della Confederazione germanica e della penisola italiana.
Diversa è la situazione nei paesi, come Francia e Inghilterra, i maggiori progressi si registrano grazie all’industrializzazione
e all’economia e dove classi borghesi chiedono di partecipare attivamente alla vita politica del paese. In questi paesi, le
scelte di governo sono ancora condizionate dagli aristocratici.
In tali contesti i meccanismi dalla Restaurazione si rivelano insufficienti. Serve piuttosto un sistema di governo capace di
recepire ed integrare le spinte delle nuove classi sociali, senza compiere salti nel buio che possano portare al disordine e
alla rivoluzione. A queste esigenze darà una risposta vincente il liberalismo ottocentesco che fa proprie le idee di libertà
individuale dai soprusi dell’autorità, di tolleranza religiosa, eguaglianza giuridica dei cittadini, rappresentanza politica,
divisione dei poteri, e le adatta alla nuova situazione politico-sociale.
Uno degli interpreti più lucidi del liberalismo ottocentesco è il francese Benjamin Constant, secondo cui la vera libertà
deve difendere e sviluppare le libertà individuali ma anche delegare l’esercizio del potere a rappresentanti politici e
mentre i diritti civili sono universali, i diritti politici devono essere riservati a pochi.
Il liberalismo ottocentesco si delinea esplicitamente come ideologia politica delle classi borghesi.
Al momento della Restaurazione, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda possiede il sistema politico e istituzionale più
avanzato d’Europa: la monarchia parlamentare inglese.
Questo sistema garantisce il predominio politico di un’élite, divisa in due schieramenti: i Tories e i Whigs.
Questi garantiscono uno sviluppo pacifico del sistema inglese alternandosi al governo.
1.Il governo “Tory” negli anni Venti guida un’evoluzione liberale: allenta i vincoli internazionali sanciti dal Congresso di
Vienna, abroga alcuni dazi, abolisce il divieto di associazione per i lavoratori e adotta misure che permettono ai cattolici di
essere ammessi alle cariche pubbliche.
2. Il successivo governo “Whig” appoggia i movimenti liberali in tutta Europa, avvia una campagna mondiale per
l’abolizione della schiavitù e vara leggi sul lavoro nelle fabbriche e sui poveri.
3. Negli anni Quaranta un governo di “Tory” riforma il sistema fiscale e liberalizza il commercio inglese; ciò determina la
caduta del governo e il ritorno al potere dei “Whigs”, la cui egemonia durerà vent’anni.
Il governo liberale trova un punto di forza nella figura della regina-imperatrice Vittoria, che durante il suo lungo regno
recupererà appieno la carica simbolica della figura del sovrano. La corona inglese diventa il simbolo dell’identità nazionale
e l’incarnazione delle conquiste britanniche.
I due schieramenti Whig e Tory si trasformano in partiti: partito liberale e partito conservatore (i conservatori più
prudenti in politica interna e più aggressivi in politica estera rispetto ai loro avversari liberali).
Dopo l’Inghilterra, è la Francia il secondo grande paese europeo dove prende piede il liberalismo. Tuttavia, rispetto al
regime inglese, in Francia il suo cammino politico è molto contrastato. La Rivoluzione Francese e il periodo napoleonico
hanno ampliato l’attrito tra le classi sociali.
Luigi XVIII di Borbone concede nel 1814 una Carta costituzionale, che disegna su nuove basi il rapporto di fedeltà tra
francesi e la dinastia. La Costituzione del ‘14 assegna al sovrano il potere legislativo, concedendo a un Parlamento
composto da due Camera il solo potere di approvare le leggi proposte dal re.
Sono riconosciute l’uguaglianza di tutti i francesi davanti alla legge e le libertà fondamentali, come quella di opinione,
stampa e di confessione religiosa. Nonostante i limiti imposti, i liberali accettano la nuova politica.
La situazione però si surriscalda dopo la morte di Luigi XVIII e l’ascesa al trono di re Carlo X, più sensibile alle pressioni
dell’aristocrazia reazionaria. Il fronte di opposizione intenzionato a imporre al sovrano una nuova Costituzione che riduca
ampiamente i suoi poteri, chiama il popolo all’insurrezione: le strade di Parigi si riempiono di barricate, e dopo soli tre
giorni il re è costretto alla fuga. Immediata è la decisione di offrire la corona di Francia a un principe con forti simpatie
liberali, Luigi Filippo di Borbone-Orléans.
La carta costituzionale viene modificata limitando il potere decisionale del sovrano, mentre il diritto di voto è ampliato.
Alla monarchia costituzionale limitata subentra una monarchia parlamentare, con a capo un “re borghese” che “regna ma
non governa”.
La situazione precipita nel 1848, in seguito a cattive annate agricole che hanno ridotto la produzione del grano e fatto
aumentare il prezzo del pane. S’innesca così l’ennesima rivoluzione del popolo.
Luigi Filippo è costretto a fuggire e viene proclamata la Seconda Repubblica della storia francese: si insedia un nuovo
governo provvisorio che va incontro alle richieste dei lavoratori, riducendo la durata della giornata lavorativa.
I democratici ottengono il suffragio universale maschile.
Una volta ristabilito l’ordine, si approva la nuova Costituzione: essa assegna il potere legislativo a un Parlamento
monocamerale e quello esecutivo a un presidente della Repubblica.
Alle prime elezioni la maggioranza dei francesi vota per i moderati e i conservatori ed elegge come presidente
Luigi Napoleone Bonaparte, nipote (di zio) di Napoleone.
Luigi Napoleone opererà per imporre il suo potere personale: dopo essersi guadagnato la fiducia della Chiesa cattolica, si
allea con i clericali e i conservatori per smantellare le organizzazioni democratiche che si oppongono al suo progetto
politico. Con l’appoggio dell’esercito e della polizia, Luigi Bonaparte mette in atto un colpo di Stato: il Parlamento viene
sciolto e si convoca un plebiscito popolare che approvi il suo operato. Bonaparte vara una nuova Costituzione che
concede al presidente anche il potere legislativo, mentre al Parlamento bicamerale solo l’approvazione delle leggi.
Le continue agitazioni repubblicane convincono il presidente ad instaurare una vera e propria dittatura: infatti, assumerà
la corona con il nome di Napoleone III, inizia così il regime bonapartista, in cui il potere politico è in mano all’imperatore.
In campo economico, Napoleone III garantisce la libera iniziativa imprenditoriale, ma mobilita le risorse dello Stato a
favore dello sviluppo economico; l’intreccio tra finanza pubblica e banca privata favorisce grandi investimenti nel settore
ferroviario e in opere pubbliche di portata gigantesca.
L’imponente crescita del capitalismo francese contribuisce a rafforzare il nuovo asse tra Francia e Inghilterra, che
Napoleone stabilisce alternativamente contro Russia e Austria. L’indebolimento di queste ultime lascia però spazio
all’avanzata della potenza prussiana in Europa, minacciando la costruzione di un grande stato tedesco che insidierebbe
seriamente le posizioni della Francia. Scoppia così la guerra fra Francia e Prussia: il Secondo Impero francese crolla,
lasciando posto alla Terza Repubblica. Le masse popolari parigine assumono il controllo del municipio della capitale; si
scatena una guerra civile. La Terza Repubblica emerge vincitrice dallo scontro con il proletariato parigini, ma non godrà
mai di un solido sostegno popolare.
Nella prima metà dell’Ottocento gli Stati Uniti intraprendono una politica di espansione territoriale in direzione del Sud e
dell’Ovest. L’espansione verso Sud avviene mediante l’acquisto di colonie europee e la vittoria della guerra contro il
Messico. L’espansione verso Ovest è dovuta invece all’iniziativa dei pionieri, pur sempre sostenuti dal governo centrale.
Il carattere mobile della “frontiera” influenza profondamente la mentalità dell’uomo americano, favorendo lo sviluppo di
uno spirito democratico, individualista ed egualitario.
Fino agli anni Venti dell’Ottocento la scena politica americana è dominata dal contrasto fra il partito federalista,
favorevole a una politica protezionistica, e il partito repubblicano, favorevole a una politica liberista.
Sotto la presidenza Jackson si configura il moderno sistema bipartitico, con la scissione del partito repubblicano e la
formazione degli attuali partiti democratico e repubblicano.

Capitolo 13: il Romanticismo e l’idea di nazione (dalle sintesi)


Nell’Ottocento matura in Europa la tendenza dei popoli ad aggregarsi, riconoscersi e identificarsi in Stati nazionali, cioè in
formazioni statali che riuniscano entro gli spazi segnati dai loro confini naturali tutti i membri di quelle comunità
culturalmente e linguisticamente omogenee che prendono il nome di nazioni.
Divisione territoriale e dominazione straniera frustrano le aspirazioni nazionali di tedeschi, italiani, greci, belgi, polacchi,
ungheresi, cechi. Essi, pertanto, danno vita a movimenti che lottano per l’affermazione del principio di nazionalità,
secondo il quale ogni popolo dotato di una propria individualità nazionale ha diritto a formare uno Stato indipendente.
Per questo l’Ottocento viene definito il secolo delle nazioni e degli Stati nazionali.
La coincidenza fra Stato territoriale e gruppi culturali omogenei che dà vita all’idea di Stato nazionale è un fatto nuovo
nella storia europeo. Nell’Impero, nella città-Stato, nello Stato-feudale, infatti, questo fenomeno non si era potuto
verificare. Con lo Stato assoluto i sudditi cominciano a identificarsi con il proprio re mentre aumenta fra loro la solidarietà.
Con la Rivoluzione francese s’introduce il principio della sovranità popolare, che vede nel popolo l’unico depositario
dell’identità nazionale. La costruzione del sentimento nazionale implica la riscoperta delle radici storiche o naturali dei
popoli che, ad opera di intellettuali e scrittori, assume accenti diversi da paese a paese. Questo processo riguarda
soprattutto i popoli europei compresi nei tre grandi imperi multinazionali (l’Impero ottomano, l’Impero russo e l’Impero
austriaco), ma anche gli irlandesi soggetti all’Inghilterra, i belgi soggetti all’Olanda. Per tutti questi popoli la nascita di un
sentimento nazionale è facilitata dalla possibilità di riconoscersi in opposizione ad un altro popolo che li opprime, ma è
resa assai difficile dalla mancanza di un sostrato di esperienze politiche comuni. Nel 1829 la Grecia, dopo una lunga
guerra, si libera dalla dominazione turca e si costituisce in regno costituzionale, grazie all’appoggio di Inghilterra e Russia;
nel 1830 il Belgio cattolico si separa dal regno dei Paesi Bassi a prevalenza olandese e protestante, creando a sua volta un
regno costituzionale.
All’inizio del 19esimo secolo nelle colonie dell’America Latina il problema della liberazione dalla dominazione della
madrepatria si pone all’attenzione della borghesia creola che aspira a creare degli Stati costituzionali indipendenti. I primi
Stati a proclamare la propria indipendenza dalla Spagna sono il Paraguay e il Venezuela nel 1811. A partire dal 1817,
l’America Latina si libera dalla dominazione spagnola e diventa una terra di Stati indipendenti, quasi tutti retti da un
regime repubblicano. Queste nuove realtà statali, tuttavia, sono travagliate sin dalla loro nascita da conflitti e contrasti
economici e sociali, che in molti casi sfoceranno in vere e proprie guerre civili.

Capitolo 14: Le nazioni europee: idee e conflitti (1815-1849)


Con il Congresso di Vienna l'Austria è riuscita ad imporre la sua egemonia su gran parte dei popoli europei. In Europa
centrale, il Sacro Romano Impero e gli Stati che lo componevano sono scomparsi lasciando il posto ai 39 Stati che
aderiscono alla Confederazione germanica: essi si riuniscono in un'assemblea presieduta dall'imperatore austriaco
Francesco I d'Asburgo.
Nel caso italiano si formano sette Stati: il regno di Sardegna, il regno Lombardo-Veneto, il Ducato di Parma e Piacenza, il
Ducato di Modena e Reggio Emilia, il Granducato di Toscana, lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie.
Gli Asburgo d’Austria controllano quasi tutto il territorio italiano, l’unico stato rimasto fuori è il Regno di Sardegna.
Qui il sovrano piemontese Vittorio Emanuele I di Savoia applica i principi della Restaurazione: il suo regno di caratterizza
per una forte spinta conservatrice.
Anche se Vienna non accetta di concedere al Regno Lombardo-Veneto lo statuto di regno autonomo, i suoi ordinamenti
non vengono rispettati. Il nuovo regno viene così diviso in Governo milanese e Governo veneziano; ogni governo è diviso
in province, le province in distretti e i distretti in comuni.
Il governo promuove una politica di protezione doganale e l'introduzione di riforme quali l'istruzione elementare
pubblica. A Milano, città fiorente di traffici e cultura, ben presto il governo austriaco inasprirà i controlli e il regime
poliziesco poiché spaventato dalle spinte liberali che agitano la città.
Sembra che l’Austria abbia stabilito un’egemonia in gran parte dell’Europa, ma vi è un certo scontento: i democratici
vedono il popolo oppresso dalla tirannia; la borghesia liberale è esclusa dal governo delle istituzioni politiche; alcuni
sovrani sentono umiliata la potenza dei loro Stati.
I primi concreti fermenti si hanno in Germania. In seguito all’uccisione di uno scrittore tedesco da parte di uno studente
nel 1819, viene convocata una riunione di principi tedeschi, che adotteranno una linea repressiva.
Negli anni Quaranta si delineano tre linee di tendenza del movimento nazionale tedesco: quella democratica, quella
dinastico-moderata e quella liberale. In questo periodo, l’Austria riesce ancora a esercitare un forte potere di controllo e
repressione. Oltre alla Germania, entrano in fermento anche i popoli slavi dell’Europa orientale. Ma in Polonia, Ungheria,
Boemia e Serbia i movimenti indipendentistici vengono sconfitti: i contrasti fra le classi, tipici delle società arretrate,
prendono il sopravvento sui sentimenti di unità del popolo.
L’avvio del Risorgimento italiano, cioè il processo di costruzione di uno Stato indipendente che comprende nei suoi confini
tutti i popoli che abitano la penisola, risale agli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione francese.
Risulta prioritario ottenere una Costituzione che apra le porte dei governi dei singoli Stati ai nuovi interessi che si sono
affermati soprattutto a livello locale. Si sviluppano in clandestinità società segrete di origine illuministica; la più
importante di queste sette è la Carboneria che prende il nome dall’uso del gergo dei carbonai da parte dei suoi
cospiratori e ha come obiettivo la creazione di una monarchia costituzionale orientata in senso liberal-democratico.
In Spagna scoppia un’insurrezione volta al ripristino della Costituzione: questa innesca la scintilla dei moti costituzionali
nel Regno delle Due Sicilie (luglio 1820) e in Piemonte (marzo 1821).
Tuttavia queste aspirazioni naufragano dopo poco: i capi rivoltosi vengono condannati a morte, mentre tutti gli altri a anni
di carcere duro.
Le sconfitte dei moti degli anni 1820-1821 e poi del 1831 spingono a una riflessione approfondita da parte dei membri
delle sette repubbliche che li hanno animati: l’obiettivo costituzionale della Carboneria è oramai insufficiente; bisogna
quindi elaborare un nuovo programma.
Giuseppe Mazzini individua come cause fallimentari la mancanza di un valido coordinamento fra i gruppi regionali e
l’eccessiva fiducia nei confronti dei sovrani e dei francesi; Mazzini ritiene che si debba smuovere il popolo svolgendo una
propaganda diretta ed esplicita. Bisogna mirare ad una repubblica democratica a livello nazionale.
Per raggiungere il triplice obiettivo della repubblica, dell’unità e dell’indipendenza, Mazzini fonda “La Giovine Italia”,
un’associazione che ha il compito di propagandare i nuovi ideali e preparare l’insurrezione popolare.
Le idee di Mazzini si diffondono soprattutto fra la media borghesia intellettuale e artigiana, e fra i piccoli operai; le masse
analfabete però non vengono toccate, mentre i proprietari borghesi liberali guardano con sospetto all’appello di Mazzini.
Tutto ciò spiega il fallimento delle continue insurrezioni organizzate da Mazzini e dai suoi seguaci.
Nello stesso fronte democratico prendono piede opinioni dissonanti da quelle di Mazzini: Ferrari e Cattaneo, entrambi
intellettuali, ritengono gli italiani ancora immaturi per l’obiettivo unitario, in alternativa al quale propongono l’istituzione
di una repubblica federale.
La crisi della Giovine Italia apre la strada alla riscossa dei liberali, da sempre contrari ai metodi rivoluzionari e favorevoli
piuttosto all’accordo con i sovrani. Il moderatismo negli anni Quaranta è diverso da quello degli anni Venti, anche perché i
liberali si sono resi conto che nessun programma moderato potrà avere successo senza l’ideale di unità nazionale.
Anche in Italia sono presenti diverse ipotesi di soluzione alla questione nazionale.
Alla fine degli anni Quaranta il programma moderato riceve nuovo slancio dalle riforme di papa Pio IX che dallo Stato
pontificio arrivano in Toscana e nel Regno di Sardegna.
Nel frattempo, nel Regno delle Due Sicilie Ferdinando II è costretto nel gennaio del ‘48 a concedere una Costituzione; il
suo esempio sarà seguito da Carlo Alberto con il suo Statuto Albertino, dal granduca di Toscana e da Pio IX.
L’evoluzione della riforma libera viene bloccata dagli sviluppi che proprio gli eventi italiani innescano in Europa.
Ferdinando I abdica a favore di Francesco Giuseppe: il cambio di governo in Austria ha un effetto decisivo sullo sviluppo
della situazione in Italia e in Germania.
A dare il via alla nuova fase del processo risorgimentale è Milano: combattendo nelle famose “cinque giornate” (18-22
marzo 1848) i patrioti milanesi riescono a cacciare dalla città gli austriaci. A Venezia, i democratici proclamano la rinascita
della Repubblica di San Marco.
A questo punto Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria il 24 marzo 1848, dando inizio alla Prima guerra di Indipendenza.
L’esercito sabaudo, insieme ai volontari e alle truppe regolari provenienti da tutti gli Stati italiani, costringe inizialmente il
nemico a ripiegare. Nel frattempo, gli austriaci si riorganizzano; ad indebolire la posizione dei piemontesi è il ritiro delle
truppe pontificie. Carlo Alberto è costretto a chiedere l’armistizio. La direzione del movimento passa quindi nelle mani dei
democratici repubblicani, che chiedono l’unità della nazione per mano del popolo. A seguito di agitazioni democratiche si
instaurano la Repubblica romana e la Repubblica toscana.
Carlo Alberto allora decide di nominare a capo del governo Gioberti, e riprende la guerra contro l’Austria il 2 marzo del
1849; viene nuovamente sconfitto e chiede un nuovo armistizio, che gli viene concesso a condizioni dure: il Regno di
Sardegna deve rinunciare alla Lombardia e rimborsare le spese di guerra agli austriaci.
Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che firma l’armistizio con l’Austria.
La rivoluzione nazionale è sconfitta, i vecchi sovrani, compreso il papa, tornano sui loro troni; i patrioti vengono
condannati a morte, esiliati o rinchiusi in prigione, mentre le costituzioni vengono ritirate.
Esito altrettanto fallimentare ha il moto nazionale che nel 1848 tocca la Germania. Patrioti democratici e liberali danno
vita a un’Assemblea Costituente sita a Francoforte, che ha come obiettivo la creazione di uno Stato tedesco. Il governo
austriaco si dichiara contrario al progetto di fusione fra Impero asburgico e Impero tedesco. Prende così piede
nell’Assemblea l’ipotesi “piccolo-tedesca”, che prevede la creazione di un Impero federale sotto la dinastia prussiana che
comprenda i territori della Confederazione germanica, ma escluda quelli tedeschi dell’Impero asburgico.
Il re di Prussia rifiuta in modo sprezzante e segue in breve tempo la dissoluzione dell’Assemblea.

Capitolo 15: l’Unificazione degli Stati nazionali: Europa e America


Verso la fine del 1849 prende piede una seconda Restaurazione.
Nonostante la preponderanza militare degli austriaci e dei russi, tedeschi e italiani, rispetto agli altri sconfitti, si ritrovano
in possesso di una carta decisiva, cioè la presenza di due Stati regionali: il Regno di Sardegna e quello di Prussia, che
dispongono di una certa forza militare, in grado di guidare gli altri Stati del territorio nazionale.
Mentre su quasi tutta la penisola italiana soffia il vento della reazione, il Piemonte è alle prese con il consolidamento del
regime liberale: Vittorio Emanuele II affida il governo a Massimo D’Azeglio, che vara una serie di leggi utili a modernizzare
il Regno dal punto di vista economico e amministrativo, sostenute e promosse anche da nobili come Camillo Benso conte
di Cavour, che diventerà presidente del Consiglio nel 1852.
Egli vuole trasformare la monarchia costituzionale in una monarchia parlamentare e parallelamente, prosegue una
politica estera di avvicinamento all’Inghilterra e soprattutto alla Francia ma che in realtà è indirizzata a spianare la strada
a una nuova guerra contro l’Austria. Per i liberali e i democratici moderati Vittorio Emanuele e Cavour si pongono, oramai,
come i leader naturali della causa italiana. Il Piemonte è l’unico Stato italiano dotato di un esercito in grado di affrontare
l’Austria; così, Giuseppe Garibaldi rompe i legami con Mazzini e si converte alla causa monarchica, purché si miri all’unità
di tutta l’Italia.
Nel 1859 Vittorio Emanuele II dichiara guerra all’Austria; le truppe franco-piemontesi sconfiggono gli austriaci a Magenta.
A questo punto, però, il re di Prussia minaccia l’intervento a fianco dell’Austria, spingendo Napoleone III a ritirarsi dal
conflitto e a concordare all’Austria una pace separata.
Con l’armistizio di Villafranca, il Piemonte ottiene la Lombardia. Cavour si dimette per protesta e i patrioti italiani sono
indignati per il tradimento francese; tuttavia Cavour riesce a tornare al governo e prende accordi con Napoleone III
cedendo alcuni territori ma ottenendo l’unificazione del Piemonte col Granducato di Toscana, con i Ducati di Modena e
Parma e con le legazioni pontificie.
Rinunciando ai suoi domini d’Oltralpe, lo Stato sabaudo si accinge a diventare Stato nazionale.
Facendo leva sulle ambizioni di Vittorio Emanuele II, Garibaldi ottiene l’appoggio del sovrano piemontese per organizzare
una spedizione di volontari in Sicilia: obiettivo finale è quello di abbattere il regno delle Due Sicilie e risalire la penisola
fino a ricongiungersi con i possedimenti sabaudi in Toscana.
Nonostante l’ostilità di Cavour, circa mille volontari male armati e vestiti con giubbe rosse partono dalla Liguria nel
maggio del 1860 per sbarcare in Sicilia, dove Garibaldi si proclama dittatore in nome del re: l’esercito borbonico di Sicilia
viene sbaragliato dai Mille.
Ad agosto la Sicilia è stata liberata, i garibaldini sbarcano in Calabria e si dirigono verso Napoli. Re Francesco II di Borbone
non riesce ad opporre resistenza alle truppe in camicia rossa; il 7 settembre Garibaldi entra trionfante a Napoli.
Contemporaneamente Cavour organizza una spedizione per liberare le Marche e l’Umbria.
Il 26 ottobre, nello storico incontro di Teano, Garibaldi consegna a Vittorio Emanuele II il governo delle province liberate.
Dopo qualche mese si svolgono in tutta Italia le elezioni per il Parlamento del Regno d’Italia, che il 17 marzo 1861 si
riunisce a Torino, divenuta capitale, e proclama ufficialmente Vittorio Emanuele II re d’Italia.
Cinque sono i pilastri su cui i governi postunitari intendono edificare e consolidare lo Stato unitario: la monarchia, lo
Statuto albertino, il primato del Parlamento eletto a suffragio ristretto, l’elettività delle amministrazioni locali e il
liberismo economico.
Il governo italiano trasferisce la capitale da Torino a Firenze; molti gridano al tradimento, perché si ritiene che Roma sia
“naturalmente” destinata a diventare la capitale del regno unitario, in quanto luogo-simbolo della storia e dell’identità
della nazione italiana.
L’Italia e la Germania (Prussia) decidono di allearsi nel 1866 contro Austria e Francia: per i prussiani si tratta in primo
luogo di eliminare una volta per sempre l’influenza austriaca dal suolo tedesco; per gli italiani di annettere il Veneto e gli
altri territori italiani sotto gli Asburgo.
Inizia così la Terza guerra di Indipendenza.
Con la pace di Vienna l’Italia ottiene solo il Veneto, mentre deve rinunciare al Trentino e alla Venezia-Giulia.
L’esito deludente del conflitto con l’Austria dà nuovo slancio a Garibaldi che progetta una nuova spedizione per liberare
Roma, entrando in conflitto però con le truppe francesi: la crisi verrà risolta grazie alla Prussia, che sconfigge Napoleone
III, l’esercito invade lo Stato pontificio e giunge a Roma senza opposizione: la città cade il 20 settembre con la “breccia di
Porta Pia”.
Allo Stato italiano resta ora da risolvere i rapporti con la Santa Sede: con una legge vengono garantite al papa tutte le
condizioni per il pieno svolgimento del suo magistero spirituale, la facoltà di disporre di un corpo di guardie armate, il
diritto di rappresentanza diplomatica e l’immunità dei luoghi in cui risiede.
Ma Papa Pio IX non accetta la perdita del potere temporale: decide quindi di scomunicare il re e proibisce ai cattolici di
prendere parte alla vita politica dello Stato italiano.
Intanto il Lazio viene annesso al Regno d’Italia, di cui Roma diventa capitale nel gennaio del 1871. Si è così realizzata
l’antica aspirazione dei patrioti italiani e nello stesso anno si compie anche il processo di unificazione della Germania.
Il conflitto permanente fra governo e Parlamento, fra Stato autoritario e società civile, blocca la politica prussiana per una
decina d’anni, fino a quando nel 1862 diventa cancelliere e ministro degli Esteri Bismarck, un aristocratico conservatore
sul piano interno e rivoluzionario su quello internazionale che mira a realizzare l’unità nazionale sotto l’egemonia
prussiana. Egli si adopera per costruire uno Stato forte che sappia realizzare il mito dell’Impero germanico.
Bismarck inoltre realizza una riforma dell’esercito e decide l’aumento delle spese militari.
Dopo essersi assicurato la neutralità francese, Bismarck stringe con l’Italia un patto di alleanza anti-austrico, quindi
dichiara guerra all’Austria nel giugno del 1866. I prussiani sconfiggono il nemico, costringendo l’imperatore Francesco
Giuseppe a chiedere l’armistizio. La pace di Praga sancisce la fine della Confederazione germanica e la creazione della
Confederazione della Germania del Nord.
Eliminata l’Austria, alla Prussia non resta ora che abbattere l’ultimo ostacolo all’unità tedesca: la Francia di Napoleone III.
Bismarck sceglie di esasperare la tensione fra i due Stati e Napoleone III risponde alla provocazione dichiarando guerra
alla Prussia nel luglio del 1870. I prussiani possono mettere in moto la loro efficientissima macchina bellica; la campagna
militare culmina con la loro vittoria che costringe l’imperatore francese alla resa.
Così, mentre ha fine l’Impero francese, nasce il Secondo Impero tedesco dopo il Sacro Romano Impero: il re di Prussia
Guglielmo I viene proclamato imperatore, capo supremo della Germania.
A conclusione di un percorso durato più di cinquant’anni, tedeschi e italiani hanno costruito i loro rispettivi Stati nazionali.
Pur con delle analogie, il carattere delle due nuove formazioni statali è diverso.
L’Impero tedesco scuote le relazioni fra gli Stati nazionali sfidando l’egemonia franco-britannico europea: da questo
momento l’idea di nazione sposa l’obiettivo della potenza egemone.
Anche negli Stati Uniti viene portato a compimento il processo di costruzione dello Stato-nazione.
Il paese è caratterizzato da tre differenze economiche e sociali: gli Stati del sud presentano una struttura sociale e agricola
tradizionalista, e prosperano grazie alla vendita del cotone prodotto dagli schiavi; gli Stati del nord sono invece contrari
alla schiavitù e basano la propria economia sullo sviluppo industriale; gli Stati dell’Ovest hanno un’economia che poggia
sull’allevamento e sulla libera agricoltura.
Lo scontro fra Nord e Sud aumenta ulteriormente attorno al problema dell’eventuale estensione del regime delle
piantagioni nei nuovi Stati dell’ovest. La situazione precipita nel 1860, quando viene eletto Presidente della Repubblica un
antischiavista convinto, Lincoln. Gli Stati del Sud si costituiscono nel 1861 in una Confederazione indipendente che
dichiara poi la secessione dall’Unione. La guerra è quindi inevitabile, perché il Nord sa di non poter fare a meno delle
risorse del Sud e di dovergli contendere il controllo dei nuovi Stati. La guerra civile americana scoppia nell’aprile del 1861
e si concluse nel 1865. La vittoria è del Nord, dotato di una maggiore forza economica e di un esercito più efficiente. A
guerra di secessione finita, termina anche la storia dello schiavismo in America.

Capitolo 16: La “Seconda Rivoluzione Industriale”


Al periodo compreso fra il 1850 e il 1870 si fa generalmente risalire l’inizio di una nuova fase dello sviluppo economico
europeo, denominata Seconda rivoluzione industriale. Tale definizione è legata alla sempre maggiore integrazione fra
ricerca scientifica e innovazione tecnologica, dalla quale scaturiscono una serie di straordinarie invenzioni e applicazioni.
La scienza diventa un settore essenziale per lo sviluppo tecnologico e la crescita economica di un paese industrializzato.
Nascono nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi settori produttivi: le fabbriche e le aziende si ingrandiscono; le fabbriche
e le aziende si ingrandiscono; il lavoro operaio viene intensificato e scandito dall’introduzione della catena di montaggio;
vengono perfezionati i mezzi di trasporto e di comunicazione.
Tutti i progressi nei trasporti e nelle comunicazioni hanno un duplice effetto positivo sull’economia. Da un lato cresce la
richiesta di materiali e macchinari per costruzione, dall’altro si verifica un incremento del commercio internazionale:
crescono l’offerta di prodotti e la concorrenza fra produttori. Il maggior protagonista della seconda rivoluzione industriale
è l’acciaio, frutto della lavorazione del ferro, resistente e facile da lavorare.
Nel settore chimico le scoperte che hanno il maggior impatto economico riguardano i coloranti artificiali, molto
importanti per il settore tessile.
I nuovi macchinare e l’accelerazione della produzione richiedono quantità sempre maggiori di energia motrice.
Nel 1884 Parsons realizza una turbina, una macchina che trasforma in lavoro l’energia cinetica del vapore, ossia la sua
capacità di produrre moto. Si tratta di una macchina che rende possibile la nascita e lo sviluppo dell’industria elettrica.
Tratto caratterizzante della seconda rivoluzione industriale è l’affermazione dell’economia di scala, cioè la crescita degli
impianti industriali e dei beni prodotti per tenere sotto controllo l’aumento dei costi di produzione.

Per costruire una fabbrica moderna occorrono ingenti capitali, che vengono forniti dalle banche oppure messi insieme da
più persone riunite in società per azioni o in società collettive di altro tipo. In tal modo la proprietà passa nelle mani di un
capitalista che affida la proprietà a manager aziendali e direttori di stabilimento.
Il processo di sviluppo non è per niente lineare: vi sono frequenti crisi e si susseguono fasi favorevoli a fasi negative come:
un eccessivo ribasso dei prezzi, che porta al fallimento di imprese industriali e degli istituti bancari ad esse collegati.
Il miglioramento è evidente soprattutto nelle grandi città che, mentre crescendo diventando delle vere metropoli, si
dotano di moderni servizi e infrastrutture, come l’illuminazione elettrica e l’elettricità domestica, le condutture idriche e
fognanti, i tram, le ferrovie sotterranee.
Nonostante l’ottimismo generalizzato e gli indubbi risultati raggiunti, lo sviluppo economico e tecnologico manifesta dei
limiti; ma soprattutto provoca nella società una serie di squilibri: settoriali, territoriali, sociali che sono fonte instabilità
economica, di conflitti di classe e di accese questioni politiche.
Nel corso del XIX secolo la popolazione cresce in maniera costante, senza l’alternarsi di periodi di ascesa e di declino. Ciò è
dovuto al progressivo declino dei tassi di mortalità e alla presenza di alti livelli di natalità.
Nonostante l’incremento della popolazione urbana, l’Europa resta un continente rurale.
Comincia a diminuire il peso della ricchezza prodotta dall’agricoltura rispetto a quella degli altri settori produttivi: tuttavia
la meccanizzazione dell’agricoltura consente un vertiginoso aumento della produzione del grano.
Ma a causa della sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, cresce la disoccupazione o sottoccupazione
agricola: molti contadini sono costretti ad abbandonare le campagne per cercare lavoro altrove. Una parte dei contadini si
sposta in città, mentre un’altra parte decide di emigrare verso l’America, l’Australia o la Nuova Zelanda.
Questi fenomeni portano allo spopolamento delle campagne: ciò aggrava ulteriormente la situazione dei proprietari
rimasti. Così, mentre i proprietari chiedono la protezione delle loro produzioni, i braccianti si organizzano in sindacati e
lottano per ottenere un salario maggiore. Di conseguenza, nelle città industrializzate la popolazione aumenta.
Gli operai, riconoscendosi come “corpo comune”, possono rivendicare i propri diritti.
Forti dell’appoggio dei sindacati, i lavoratori organizzano con sempre maggior frequenza scioperi e dimostrazioni: i
conflitti si inaspriscono e si concludono spesso in tragedia. Ciò accade a Chicago il 1° maggio 1886, quando molti operai
innocenti verranno condannati a morte dopo una giornata di scontri; dal 1890 il 1° maggio sarà scelto come giorno di
commemorazione e festa per tutti i lavoratori del mondo. Ben presto però ci si accorge che il mercato e la libera
concorrenza, lasciati a se stessi, non determinano progresso e sviluppo.
Nel 1837 una crisi finanziaria scoppiata alla Borsa di Vienna si propaga a tutte le maggiori piazze europee e statunitensi,
invertendo bruscamente la tendenza alla crescita dell’economia internazionale. Ha inizio un periodo di recessione
economica definito “Grande Depressione” che durerà fino al 1896 e sarà caratterizzato da un generale calo dei prezzi,
soprattutto dei prodotti agricoli.
La crisi e la ricerca di misure per arginarla accendono il confronto fra liberisti, sostenitori del libero scambio, e
protezionisti, coloro cioè che teorizzano la necessità per gli Stati di difendere le nascenti industrie dagli effetti della
concorrenza estera.
Il ruolo dello Stato nella promozione dello sviluppo industriale è fondamentale in Russia e Italia, paesi che intraprendono
il processo di industrializzazione negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e nei primi del ventesimo. Nonostante le
notevoli diversità delle rispettive strutture economiche, in Russia e in Italia l’intervento statale è reso necessario dalla
limitata disponibilità di capitali privati e dal fatto che entrambi i paesi cominciano a dotarsi di strutture di tipo industriale
negli anni della Grande Depressione.
In Russia, lo zar Alessandro II decreta l’abolizione della servitù della gleba e vara una riforma agraria che prevede la
distribuzione di terre ai contadini liberati, che non dà i risultati auspicati. Ai contadini vengono dati territori in condizioni
disastrose, ridotti alla fame e sono costretti ad abbandonare le campagne per lavorare nelle fabbriche in città.
Al momento dell’unificazione nazionale nel 1861, l’Italia presenta un apparato produttivo arretrato. La Destra storica
mette in atto politiche di tipo liberistico: vengono perciò estese a tutto il territorio nazionale le tariffe doganali. 7
Tale misura favorisce le esportazioni di agricole, ma mette in gravissime difficoltà tutto il sistema industriale.
Tra 1873 e 1888 ha luogo la prima fase dell’industrializzazione italiana: il processo concerne in primo luogo il settore
tessile. Mentre l’industria metallurgica e siderurgica comincia a concentrarsi fra Milano, Torino e Genova.
Dopo alcuni anni di crisi, l’industria italiana riesce approfitta dell’espansione economica internazionale che si apre grazie
all’afflusso di investimenti tedeschi e allo sfruttamento delle risorse idrogeologiche delle Alpi.
Mentre il Nord si arricchisce, il Sud si impoverisce: è in questi anni che si definisce la questione meridionale, che assume
le dimensioni di un problema politico nazionale e arriva ad indebolire la coesione fra gli italiani delle diverse regioni.

Capitolo 17: l’Età dell’Imperialismo


Lo sviluppo economico e la conseguente crescita del volume dei commerci a livello internazionale comportano un lento,
ma progressivo ampliamento della presenza europea del globo. Nei decenni che precedono lo scoppio della Prima guerra
mondiale l’investimento dei capitali all’estero raggiunge dimensioni prima sconosciute.
A partire dal 1880 si verifica una nuova onda di conquiste coloniali, al termine delle quali la maggior parte dei territori
extraeuropei si trova sotto il controllo diretto o indiretto di alcuni Stati.
La nuova fase di espansione coloniale coinvolge principalmente l’Asia e l’Africa. L’Africa è il teatro di una vera e propria
corsa all’occupazione da parte degli Stati europei, soprattutto da parte di Francia e Inghilterra. Nella Conferenza di
Berlino del 1884 si sancisce la separazione dell’Africa in zone di influenza europee: sulla scena entrano potenze
imperialistiche come Belgio, Italia e Germania.
L’Italia si è legata dal 1882 alla Germania e all’Austria con la Triplice Alleanza, un patto militare difensivo.
I successi coloniali (Eritrea) creano un clima di esaltazione nella penisola. Tuttavia, sul fronte coloniale si registrano ben
presto tensioni e difficoltà; Francia e Gran Bretagna arrivano sull’orlo della guerra per il controllo del Sudan e per
l’egemonia sull’intera Africa nord-orientale.
AFRICA = Nel 1914 l’Africa è quasi completamente spartita fra le potenze europee e due soli territori sono indipendenti, la
Liberia e l’Etiopia. L’economia delle colonie africane viene organizzata a seconda delle esigenze del paese occupante:
vengono investiti notevoli capitali nella produzione agricola e nel settore minerario (col. di popolamento); (col. di
sfruttamento) le grandi società commerciali private monopolizzano gli scambi di importazione e di esportazione.
ASIA= L’Estremo Oriente e l’Oceano Pacifico sono l’altro teatro della nuova fase dell’espansione europea. L’Inghilterra
continua a esercitare l’egemonia dei traffici fra l’Europa e queste aree; essa rafforza il suo controllo sull’India, il maggior
fornitore per le industrie britanniche.
- CINA  Il cambiamento delle forme di organizzazione in Asia è evidente in Cina. Gli scambi commerciali con questo
paese sono aumentati; l’unica merce che i commercianti britannici possono scambiare in Cina è una droga, l’oppio,
prodotta in India. Prende vita un fiorente contrabbando e quando la Cina cerca di stroncare i traffici illegali, interviene la
madrepatria nelle cosiddette “guerre dell’oppio”. In seguito alla sconfitta, l’Impero cinese è costretto a cedere l’isola di
Hong Kong e ad aprire alcuni porti al commercio europeo. Nei decenni successivi Francia, Russia, Stati Uniti e Germania
approfittano della debolezza cinese assicurandosi il controllo di porti e dunque una certa influenza economica.
Per iniziativa degli Stati Uniti, viene sancito il principio delle porte aperte: qualsiasi concessione ottenuta da una nazione
straniera in Cina viene estesa automaticamente a tutte le altre. La reazione cinese si traduce con la reazione dei boxer,
membri di società segrete: vengono colpiti prima i cristiani, poi gli stranieri colonialisti. Ciò provoca l’intervento militare di
tutte le potenze interessate al commercio della Cina che sancisce il definitivo tracollo dell’Impero cinese, al quale è
imposto il pagamento di enormi risarcimenti per i danni di guerra. Il paese è teoricamente è autonomo, ma subisce il
controllo economico da parte dei governi europei e statunitense (= sfruttamento delle sue risorse e del suo mercato).
- GIAPPONE  Una sorte diversa tocca il Giappone. Dopo essersi chiuso al commercio e a qualunque contatto con gli
europei il paese ha continuato a vivere fino alla età del XIX secolo, retto da un regime feudale basato su una divisione
della società in caste che non ammette alcuna forma di mobilità sociale. Vi è un potere statale forte che concede spazio
all’aristocrazia e questa combinazione pone il paese in una situazione di vantaggio rispetto alla Cina.
Gli Stati uniti obbligano il Giappone a stringere accordi sotto minaccia come anche anche altri paesi, come Inghilterra,
Francia e Russia che gli impediscono di istituire tariffe doganali superiori al 5% sul valore delle merci straniere.
L’unico modo perché il paese non diventi una semi-colonia come la Cina è intraprendere la strada della modernizzazione
economica e sociale, imitando i paesi occidentali. Ha così inizio l’epoca del “Governo illuminato”, una fase cambiamenti
decisi e imposti alla popolazione dall’imperatore e dai suoi ministri.
Lo Stato è il protagonista della rivoluzione industriale giapponese: non solo realizza le grandi infrastrutture, ma assume
anche il ruolo di diffondere conoscenze tecniche e scientifiche ed importa macchinari e tecnologie industriali.
Il Giappone si trasforma in una potenza industriale, anche se l’ industria pesante crescita più lenta rispetto alla leggera.
Il settore chiave nella modernizzazione del Giappone è quello degli armamenti: lo sviluppo industriale acquista sempre
più un indirizzo militaristico, e la politica estera imbocca ben presto la strada dell’imperialismo.
Nella complessa vicenda cinese gli Stati Uniti giocano il loro ruolo alla pari con le maggiori potenze europee. L’intenso
sviluppo economico e l’enorme crescita del commercio cinese con l’estero mettono di fatto gli Stati Uniti in diretta
concorrenza con i maggiori paesi europei.
Due sono le direttrici dell’espansionismo statunitense: l’America centrale e meridionale, e l’Estremo Oriente. Grazie
all’investimento di denaro da parte di società statunitensi in America Centrale e nei Caraibi, il governo nordamericano si
assicura il controllo delle economie e degli Stati di quest’area. Falliscono invece i tentativi di penetrazione nei mercati
dell’America meridionale, dove gli Stati Uniti non riescono a vincere la concorrenza di Inghilterra e Germania.

Capitolo 18: l’Europa delle grandi potenze e la nazionalizzazione delle masse


Sotto la spinta delle crisi causate dalla Grande Depressione non solo gli operai, ma anche i contadini e proprietari terrieri
in difficoltà, gli esponenti dei ceti medi e le grandi imprese si riuniscono in associazioni capaci spingere i governi a
orientare la politica statale in loro favore.
Gli strumenti principali per conseguire questo obiettivo sono da un lato l’ampliamento del diritto di voto, fino al
conseguimento del suffragio universale; dall’altro la fondazione dei partiti. Si assiste infatti alla nascita dei partiti politici
moderni. Con la nascita dei partiti socialisti e sotto un’industrializzazione mondiale, negli anni Ottanta si pone la necessità
di un coordinamento nazionale di queste organizzazioni. Nel 1889 viene fondata la Seconda Internazionale, cioè
un’associazione di partiti. I successi elettorali ottenuti da questi nuovi partiti obbligano a cambiare anche le forze che fino
a quel momento hanno detenuto il monopolio del governo. Fanno eccezione la Francia e l’Italia, nazioni nelle quali le élite
borghesi al potere preferiscono restare unite e non dividersi in partiti per difendere uno Stato debole. Le forze tradizionali
devono anche dare delle risposte concrete alle esigenze dei diversi gruppi sociali, al fine di sottrarli dall’opposizione.
Verso la fine degli anni Settanta, in molti paesi si inizia a capire che le tensioni politico-sociali vanno risolte con nuove
soluzioni di governo e misure innovative al fine di creare maggior benessere e allargare i consensi.
I governanti di molti paesi si convincono che il destino della nazione ora dipende dalla sua capacità di sviluppare una
potenza economica e politica autonoma da condizionamenti esterni. Tuttavia, è comunque indispensabile restare
collegati ai mercati mondiali, senza rinunciare alla propria autonomia: l’isolamento economico non è possibile.
La soluzione escogitata per risolvere questo è la conquista di colonie extraeuropee e costruzioni di imperi coloniali.
Favorita dai vari sviluppi (istruzione pubblica, stampa, trasporti) e incoraggiata dai governi (costruzione di monumenti,
istituzione di feste, celebrazioni di manifestazioni patriottiche), prende corpo quella che gli storici hanno definito la
nazionalizzazione delle masse. Si diffonde la consapevolezza di appartenere a una comunità nazionale che trova la sua
massima espressione nello Stato, che ora viene percepito come garante del benessere comune.
Ma il cammino verso l’affermazione del nuovo senso di lealtà nei confronti dello Stato e il superamento dei conflitti sociali
e politici in nome dell’Unità si rivela molto più problematico di quanto ipotizzato.
I governi faticano a contenere la protesta delle classi popolari, dei ceti medi e dei piccoli produttori colpiti dalle tasse per
le spese di guerra. Questa situazione spinge alcuni politici della destra reazionaria e ultraconservatrice ad invocare
l’instaurazione dei regimi autoritari che schiaccino le opposizioni e restituiscano forza allo Stato, ma questo rende ancora
più drammatico lo scontro.
Nonostante ciò inizia una fase di grande sviluppo economico, che contribuisce a stemperare la crisi e a mettere a
disposizione nuove risorse da ridistribuire fra i gruppi sociali in conflitto.
A tutto questo si aggiunge la svolta all’interno del mondo cattolico all’indomani dell’enciclica Rerum Novarum di papa
Leone XIII, che spinge i cattolici ad accettare i benefici della società moderna e a impegnarsi per il miglioramento delle
condizioni di vita delle classi svantaggiate; essa rappresenterà un forte.
Un significativo tentativo di apertura liberale alle forze popolari viene compiuto in Italia dal Presidente del Consiglio
Giolitti. Egli apre ai socialisti e alle organizzazioni operaie, purché questi rinuncino alle proteste violente,
Giolitti, appoggiato dalla Sinistra, apre una fase di importanti riforme sociali; viene alzata a dieci anni l’età minima per il
lavoro infantile, viene introdotta l’assicurazione sugli infortuni sul lavoro, viene riconosciuto il diritto di sciopero.
Nonostante ciò, le condizioni delle classi lavoratrici (come il proletariato urbano e i contadini) restano assai disagiate,
perché lo sviluppo si concentra sempre più nel Nord-Ovest del Paese; vengono quindi proclamati degli scioperi generali
che spesso sfociano in manifestazioni violente, duramente represse dalle forze dell’ordine.
Alle elezioni del 1913, le prime a suffragio universale maschile, Giolitti si allea con le forze politiche più moderate.
Contemporaneamente, per guadagnarsi il consenso del ceto medio e del popolo, il governo prepara piani di espansione
nel Mediterraneo e nei Balcani: così facendo si allenta l’alleanza con Germania e Austria, e l’Italia si avvicina a Francia,
Inghilterra e Russia.

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