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http://cultura-non-a-pagamento.blogspot.it/
Traduzione di Guido Russo
Prologo
I primi anni
Gli anni di scuola
Gli anni di università
Attività psichiatrica
Sigmund Freud
A confronto con l'inconscio
Genesi dell'opera
La torre
Viaggi
Visioni
La vita dopo la morte
Ultimi pensieri
Esame retrospettivo
Appendice
Lettere a Emma Jung dall'America
Lettere di Freud a Jung
Lettera alla moglie da Scusse, Tunisi
Richard Wilhelm
INTRODUZIONE
di Aniela Jaffé
Dicembre 1961
I.
Prologo
IV. Col passare degli anni sempre più spesso sia i miei
genitori che gli altri mi chiedevano che cosa volessi fare nella vita.
A questo riguardo le mie idee non erano chiare: i miei interessi
mi spingevano in varie direzioni. Ero fortemente attratto, da un
lato, dalle scienze, con le loro verità fondate sui fatti; dall'altro
ero affascinato da tutto quanto si riferiva alle religioni comparate.
Tra le scienze mi attiravano specialmente la zoologia, la
paleontologia, la geologia; nel campo degli studi umanistici
m'interessavano l'archeologia greco-romana, l'egiziana, e
preistorica. Allora, naturalmente, non mi rendevo conto di
quanto questa scelta delle più diverse discipline corrispondesse
alla natura della mia interna dicotomia. Delle scienze mi
attiravano la concretezza dei fatti e lo sfondo storico, delle
religioni i problemi spirituali, che interessavano anche la filosofia.
Delle prime mi sfuggiva il fattore significato, delle altre
l'elemento empirico. La scienza soddisfaceva, in gran misura, alle
esigenze della personalità n. 1, mentre le discipline umane o
storiche costituivano un benefico insegnamento per il n. 2.
Dibattuto fra queste due tendenze, fui per molto tempo
incapace di orientarmi. Mi accorsi che mio zio, il capo della
famiglia di mia madre, che era pastore della chiesa di S. Albano a
Basilea e che in famiglia era soprannominato «Isemànnii», mi
sollecitava con dolcezza verso la teologia, poiché non gli era
sfuggita l'insolita attenzione con la quale avevo seguito, a tavola,
una conversazione, una volta che egli discuteva di un argomento
religioso con uno dei suoi figli, tutti teologi. Io mi chiedevo se
potessero esservi teologi che, trovandosi prossimi alla vetta
dell'insegnamento universitario, ne sapessero più di mio padre.
Queste conversazioni non mi diedero mai l'impressione che
avessero a che fare con esperienze autentiche, e in ogni caso non
con esperienze simili alle mie, riguardavano solo disquisizioni
dottrinali sulla narrazione biblica, che, per le loro numerose e
poco credibili storie di miracoli mi davano un vero disagio.
Durante gli anni del ginnasio mi era stato permesso di
pranzare a casa di questo zio ogni giovedì. Gli ero grato, non solo
del pranzo, ma dell'incomparabile benefici) di sentire
occasionalmente alla sua tavola una intelligente conversazione di
intellettuali adulti. Era un'esperienza meravigliosa, una vera
scoperta, poiché nell'ambiente di casa non avevo mai sentito
nessuno discutere di argomenti culturali. Avevo tentato qualche
volta di parlare seriamente con mio padre, ma avevo incontrato
un'impazienza e un atteggiamento di preoccupante difesa, che mi
insospettiva: solo molti anni dopo capii che mio padre non osava
pensare, perché nell'intimo era tormentato dai dubbi. Cercava un
rifugio per sfuggire a se stesso, e perciò si sosteneva con una fede
cieca. Non sapeva accettare questa come un dono della grazia,
perché voleva «conquistarla con la lotta», e per riuscirvi compiva
sforzi penosi.
Mio zio e i miei cugini sapevano discutere pacatamente i
dogmi e le dottrine dei Padri della Chiesa, e le opinioni dei
teologi moderni. Sembravano stare al sicuro in un mondo dove
l'ordine era di per se stesso evidente, e nel quale il nome di
Nietzsche non ricorreva affatto, e Jakob Buckhardt riceveva
appena un complimento sommesso. Burckhardt era «liberale»,
«spirito un po' troppo libero», e con questo si voleva alludere alla
sua posizione in qualche modo discutibile di fronte all'eterno
ordine delle cose. Mio zio, ne ero convinto, non aveva alcun
sospetto di quanto fossi lontano dalla teologia, ed ero
profondamente spiacente di doverlo deludere. Non avrei mai
osato sottoporgli i miei problemi, perché sapevo fin troppo bene
quale disastro sarebbe stato per me il farlo. Non avevo nulla da
dire in mia difesa; al contrario, la personalità n. 1stava prendendo
il sopravvento, e le mie conoscenze scientifiche, sebbene ancora
scarse, erano tutte sature del materialismo scientifico del tempo,
a stento tenuta a freno dalle testimonianze della storia e
dalla Critica della Ragion Pura di Kant, che, evidentemente,
nessuno, nel mio ambiente, sembrava capire. Perché, sebbene
Kant fosse citato con lodi dallo zio teologo e dai cugini, i suoi
principi venivano solo applicati alle opinioni degli avversar! e mai
alle proprie. Anche qui io tacevo.
Di conseguenza, cominciai a sentirmi sempre più a disagio
nel mettermi a tavola con lo zio e la sua famiglia, e poiché di
solito sentivo di avere la coscienza sporca, questi giovedì
divennero un vero tormento. Mi sentivo sempre meno di casa in
un mondo di sicurezza sociale e spirituale, dove tutto era facile,
sebbene fossi avido di quei rari stimoli intellettuali che talvolta
me ne venivano. Mi sentivo disonesto e spregevole. Dovevo
ammettere, con me stesso: «Sì, sei un imbroglione; . menti e
inganni persone che sono animate da buoni sentimeli ti nei tuoi
riguardi. Non è colpa loro se vivono in un mondo di certezze
sociali e intellettuali, se non sanno nulla della miseria, se la loro
religione è anche la loro professione retribuita, se sono del tutto
inconsapevoli del fatto che Dio stesso può cacciare qualcuno
fuori dal suo ordinato mondo spirituale e condannarlo a
bestemmiare. Non ho modo di farglielo capire. Devo sostenere
sulle mie spalle questo fardello odioso e imparare a sopportarlo.»
Sfortunatamente, fino allora non avevo avuto successo in questo
tentativo,
Poiché la tensione di questo conflitto morale andava
crescendo, la personalità n. 2 mi divenne sempre più misteriosa e
sgradevole, e non potevo più a lungo nascondermela; cercai di
toglierla di mezzo, senza riuscirvi. Potevo dimenticarla quando
ero a scuola, e con amici, ed essa stessa scompariva quando
studiavo scienze naturali; ma non appena mi ritrovavo con me
stesso- a casa, o fuori, a contatto con la Natura - Schopenhauer e
Kant si ripresentavano trionfalmente, con loro la grandiosità del
«mondo di Dio». Anche le mie conoscenze scientifiche vi
trovavano posto e riempivano il grande quadro di figure dai colori
vivaci. Allora il n. 1, con le sue preoccupazoni circa la scelta di
una professione, svaniva: modesto episodio degli ultimi anni del
secolo XIX! Ma allorché, rientrando dalla mia esplorazione nei
secoli, ritornavo nel mondo, riportavo con me una specie di
incubo. Io (o piuttosto il mio n. 1) vivevo nel presente, e presto o
tardi avrei dovuto farmi un'idea precisa di quale professione
scegliere.
Più volte mio padre mi parlò con serietà: ero libero di
studiare quello che mi piaceva- diceva - ma, se volevo il suo
consiglio, che me ne stessi lontano dalla teologia! «Fa' quello che
vuoi, fuorché il teologo», mi disse con enfasi. A quel tempo c'era
fra noi un tacito accordo, per cui certe cose si potevano dire o
fare senza commento. Non mi avrebbe mai richiamato al dovere
perché il più spesso possibile evitavo di andare in chiesa, o perché
non prendevo più la comunione. Io mi sentivo meglio quanto più
stavo lontano dalla chiesa: le sole cose di cui sentissi la mancanza
erano l'organo e i cori, ma non certo la «comunità religiosa».
Questa espressione per me non significava nulla, perché quelli
che frequentavano la chiesa non mi sembravano una comunità,
ma piuttosto «gente di mondo». E questa poteva anche essere
meno virtuosa, ma almeno era costituita da gente più simpatica,
con sentimenti naturali, più socievole e allegra, più sincera e
cordiale.
Potei rassicurare mio padre che non avevo il minimo
desiderio di diventare teologo, e continuai a dividermi, con
indecisione, tra gli studi scientifici e gli studi umanistici: mi
attraevano entrambi moltissimo. Cominciavo a capire che il n. 2
non aveva un punto d'appoggio. Mi sollevava oltre il presente;
con lui mi sentivo come un unico occhio in un universo dai mille
occhi, ma incapace di smuovere anche solo un ciottolo per terra.
Il n. 1sì ribellava contro questa pasività; voleva riscuotersi e agire,
ma per il momento era prigioniero di un conflitto senza
soluzione. Evidentemente doveva attendere e stare a vedere che
sarebbe accaduto. Se qualcuno mi chiedeva che cosa volevo
diventare, ero solito rispondere: filologo, e con ciò segretamente
pensavo all'archeologia assira o egizia. In realtà, ad ogni modo,
continuavo a studiare scienze e filosofia nelle ore disponibili, e
specialmente durante le vacanze, che trascorrevo a casa, con mia
madre e mia sorella. Erano ormai lontani i giorni nei quali
correvo dai miei lamentandomi: «Mi annoio, non so che fare!» Le
vacanze rappresentavano ora il miglior periodo dell'anno, nel
quale potevo divertirmi da solo; inoltre, per lo meno durante
l'estate, non c'era mio padre, che di solito trascorreva le vacanze a
Sachsein.
Solo una volta si diede il caso che anch'io facessi un viaggio
durante le vacanze. Avevo quattordici anni, quando - per ordine
del medico -fui mandato per un periodo di cura a Entlebuch, con
la speranza che il mio scarso appetito e la mia salute, allora
incerta, migliorassero. Era la prima volta che mi trovavo solo in
mezzo a estranei. Abitavo nella casa del parroco cattolico, e ciò
per me costituiva un'avventura fantastica e affascinante al tempo
stesso. Solo di rado anciavo un'occhiata al prete in persona; la sua
governante poi non era affatto un tipo allarmante, benché avesse
certamente dei modi bruschi. Non capitò nulla di inquietante.
Ero sotto il controllo di un vecchio medico di campagna, che
dirigeva una specie di albergo-sanatorio, per convalescenti di
ogni genere; questi costituivano un gruppo assai eterogeneo:
gente di campagna, piccoli impiegati, commercianti, alcune
persone colte di Basilea, tra cui un dottore in filosofia e un
chimico. Anche mio padre era dottore in filosofia, ma filologo e
linguista. Questo chimico per me costituiva un'attraente novità:
ecco uno scienziato, forse uno di quelli che capivano i segreti
delle pietre! Era ancora giovane, e mi insegnò a giocare
a croquet, ma non lasciò trapelare nulla del suo presumibilmente
vasto sapere; e io ero troppo timido e impacciato, e troppo
ignorante, per fargli domande. Lo consideravo con rispetto,
giacché era la prima persona in carne e ossa, che avessi
incontrata, iniziata ai segreti della natura, o almeno ad alcuni di
essi; Sedeva al mio stesso tavolo, mangiava le stesse cose, e -
occasionalmente - scambiava persino qualche parola con me. Mi
sentivo trasportato nella più alta sfera dell'età, e ne ebbi conferma
allorché mi fu permesso di prendere parte alle gite organizzate
per i pensionanti. In una di queste gite visitammo una distilleria,
e fummo invitati a degustare qualche liquore. Adempiendo alla
lettera i versi:
Sigmund Freud
La torre
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1. Africa settentrionale
4. I ndia
5. Ravenna e Roma
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