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Antonio Papaleo 7/11/16

Diabete
mellito di tipo 1

Il diabete di tipo 1 rende conto di


circa il 10% di tutte le forme di
diabete, mentre il tipo 2 predomina
con circa il 90%. Il tipo 1 può a sua
volta essere suddiviso in una forma
classica che insorge in età infantile e
una forma detta LADA (latent autoimmune diabetes in adults).

Epidemiologia
Esiste un’estrema variabilità
geografica e un dato ormai accertato è
che vi è un aumento costante
dell’incidenza in tutto il mondo, pari al
3% annuo, soprattutto nei soggetti con
età inferiore ai 20 anni, per fattori che
esamineremo più avanti. In Italia la
prevalenza è dello 0,5%, con
un’incidenza media di 12 nuovi casi
ogni 100.000 persone. La Sardegna
arriva però a 50, il che la rende un
modello ideale per lo studio della
patogenesi della malattia.
Il LADA risente a sua volta di una forte
variabilità geografica e ha una
prevalenza del 14%.

Il grafico sulla destra mostra le differenze sul territorio nazionale. Vediamo come Campania e Lombardia
abbiano un’incidenza pari a 6, la Liguria 11 e la Sardegna abbia dei valori 6 volte più alti.
Nel diabete di tipo 1 è bene distinguere due gruppi: un 1a, in cui l’eziologia autoimmune è
accertata sulla base della ricerca di autoanticorpi, e un 1b in cui la modalità d’esordio è
simile ma non è autoimmune.
• Il tipo 1a è più frequente nei giovani, è un tipico modello di patologia autoimmune con
infiltrati linfomonocitari e macrofagici nelle isole di Langerhans (si parla di insulite) e
linfociti T attivati. Sono presenti autoanticorpi in genere già all’esordio ed è una
condizione eterogenea con diversi gradi di autoaggressione: inizialmente il meccanismo
autoimmune è poco rappresentato mentre nelle fasi avanzate l’autoaggressione è più
evidente. Si è ormai certi dell’importanza della predisposizione genetica e dei fattori
ambientali: una combinazione che rende il sistema immunitario particolarmente reattivo
nei confronti delle betacellule pancreatiche. Oggi grazie al dosaggio degli anticorpi
possiamo vedere come esista un periodo di latenza di durata variabile a cui segue la
malattia conclamata. Infatti è necessario che l’80% delle betacellule venga distrutto
perché il diabete latente diventi manifesto. Raggiunta questa soglia, la secrezione
insulinica sarà insufficiente e nelle fasi post-prandiali si manifesterà l’iperglicemia. Nelle
fasi avanzate la secrezione di insulina è pari a 0: questo significa che il paziente avrà
una dipendenza insulinica totale.
• Il tipo 1b è una forma rara con insulinopenia che interessa asiatici e africani, ad eziologia
sconosciuta, con assenza di autoanticorpi. Quindi non è una forma autoimmune ma dal
punto di vista clinico è molto simile all’1a
perché la conseguenza è comunque una
perdita progressiva della riserva insulinica.

Il diabete di tipo 1 e di tipo 2 sono malattie


completamente diverse che hanno in comune
soltanto l’iperglicemia. Infatti il tipo 2 è diffuso
soprattutto nella popolazione tra i 45 e i 50
anni, mentre il picco del tipo 1 è tra i 9 e gli
11 anni. Tra i 30 e i 33 si ha invece il picco
del LADA. Paradossalmente l’ereditarietà ha
un’importanza maggiore nel diabete di tipo 2,
in cui ricordiamo non sono presenti segni di
autoimmunità e parliamo di insulino-
resistenza. La latenza è anche superiore a
quella del tipo 1 e segue tre fasi:
• aumento della secrezione di insulina
• normalizzazione dei valori
• riduzione non particolarmente marcata

Anche questi pazienti, nelle fasi avanzate, possono necessitare di insulina esogena, che
viene integrata nella terapia e l’obesità è una loro caratteristica (a differenza dei pazienti
con diabete di tipo 1, che sono in genere molto magri).

Patogenesi
Il tipo 1 è caratterizzato dall’insulinopenia con progressiva distruzione delle cellule beta del
pancreas. All’esame istologico quest’insulite si manifesta con la presenza di un infiltrato
linfocitario: quel che si vede è un raggruppamento di puntini neri che rappresentano
proprio i nuclei di queste cellule.
L’importanza della genetica è confermata dagli studi sui familiari: i fratelli di un diabetico
hanno un rischio relativo 15 volte superiore rispetto a quello della popolazione generale e
avere un qualunque parente di primo grado affetto rappresenta un fattore di rischio.
Sono state identificate più di 80 aree del genoma correlate al diabete di tipo 1: la più
importante è collocata nel braccio corto del cromosoma 6 ed è implicata nel sistema
maggiore di istocompatibilità HLA. In particolare gli alleli DR3, DR4, DR8. Abbiamo poi il
locus 12 del braccio corto del cromosoma 2 dove sono stati identificati 2 alleli (CTLA4 il
più importante) in rapporto ad alterazioni dei linfociti T regolatori, alla base della tolleranza
immunitaria. Nella maggior parte dei casi di diabete di tipo 1 sono implicati il DR3 e il DR4
e, quando sono espressi entrambi nello stesso soggetto, il rischio di sviluppare la malattia
diventa molto alto. Esistono anche alleli come il DR2 e il DR7 che potrebbero
rappresentare un fattore protettivo, dato che non sono mai stati associati a casi di diabete
(inizialmente nomina entrambi gli alleli, poi dice che il DR7 ‘in effetti non è riportato nelle
slide’). In ogni caso, nessun marcatore genetico è in grado di prevedere con certezza la
malattia: solo una parte (15%) dei soggetti predisposti la sviluppa. Quindi l’analisi
dell’aplotipo HLA risulta utile solo se viene combinata allo studio degli autoanticorpi e
all’anamnesi familiare; in caso contrario ha poco valore.

Uno studio del professor Cucca, grande studioso della malattia, ha dimostrato che nella
popolazione sarda prevale l’allele HLA DR3 (circa il 30% dei casi). Alla base di questa
caratteristica genetica vi è un basso numero di fondatori e quindi un pool genetico ristretto;
inoltre la popolazione è sempre stata stabile, con una scarsa commistione genetica anche
tra aree interne e costiere. Ricordiamo anche l’endogamia, un tempo molto comune.
Questo è ciò che rende l’isola un modello di studio e da questo punto di vista i lapponi e i
finlandesi somigliano molto ai sardi, con tassi di incidenza paragonabili.

Abbiamo poi fattori ambientali, di 3 tipi diversi: fattori infettivi, alimentari, chimici. La loro
importanza è dimostrata dal fatto che, tra fratelli, la concordanza per il diabete è del 20%,
con il 50% fra gemelli omozigoti, mentre in altre patologie autoimmuni si arriva anche al
70%. Inoltre, come detto prima, non tutti i soggetti geneticamente predisposti sviluppano il
diabete. Ciò significa che la genetica ‘non spiega tutto’.
Prendiamo in considerazione i fattori ambientali più importanti:
• virus (coxsackievirus, enterovirus, virus della varicella, parotite e rosolia) che possono
agire con un meccanismo diretto di infezione cellulare o indirettamente per cross-
reazione, a causa della presenza di antigeni self sulla superficie della cellula su cui
agiscono anticorpi rivolti verso antigeni virali. Ed in effetti l’infezione da coxsackievirus è
in grado di indurre il diabete in topi da laboratorio.
• antigeni alimentari come l’albumina bovina e il glutine. L’intestino è immaturo nei primi
mesi di vita e probabilmente matura immunologicamente nei primi 6 mesi, con
l’allattamento al seno. L’esposizione ad antigeni alimentari di questo tipo, in questa fase
della vita, predisporrebbe alle patologie autoimmuni. Esistono comunque numerose
controversie al riguardo, con gli ultimi studi randomizzati che vanno in senso opposto
rispetto ai precedenti.

Oggi si sente parlare spesso dell’ipotesi dell’igiene, secondo la quale la mancata


esposizione ad antigeni batterici e virali nell’età dello sviluppo può portare a patologie
autoimmuni e asma bronchiale. La scomparsa di malattie storiche come la tubercolosi e la
malaria potrebbe spiegare l’aumento di incidenza del diabete, sebbene non esistano prove
certe di ciò. Eppure é comunque vero che la loro scomparsa ha coinciso con il boom delle
patologie autoimmuni: tiroiditi, morbo di Crohn e altre patologie decisamente meno
conosciute fino a 60 anni fa. Un altro elemento a favore di questa ipotesi è che le aree del
mondo in cui si ha la diffusione maggiore di antibiotici e vaccini sono anche quelle in cui le
patologie di questo tipo sono più comuni.
Tornando alla Sardegna, sembra che non vi siano fattori dietetici determinanti
nell’incidenza: in uno studio del 2015 sono stati valutati la vitamina D, nitrati organici e
latte vaccino ma nessuno di questi è stato ritenuto correlabile al diabete. Stesso discorso
vale per inquinanti ambientali come zinco, piombo, manganese e rame. Recenti studi
hanno riportato in auge l’ipotesi della maggior presenza, in Sardegna, del mycobacterium
avium.

In cavie da laboratorio il diabete è prevenibile con l’asportazione del timo, organo di


maturazione dei linfociti T e sostanze che bloccano l’azione dei linfociti possono rallentare
l’insorgenza della patologia. Il linfocita T ha quindi un ruolo predominante nel diabete di
tipo 1, in particolare il Th1 che rappresenta l’effettore del danno. In genere quest’ultimo è
regolato dai Treg, che nel soggetto diabetico sono meno attivi, come accennato in
precedenza.
Quello che avviene è una maturazione alterata delle APC che presentano l’antigene ai
Th1, i quali a loro volta attivano le cellule NK, scatenando una reazione immunologica. Si
tratta di uno schema semplificato in cui non consideriamo le chemochine e i fattori
necrotizzanti che intervengono nel danno, come le interleuchine, i fattori di necrosi
tumorale, i fattori di crescita.
Oltre ai Th1, che attivano i T effettori responsabili della morte cellulare, abbiamo i Th2 che
attivano i linfociti B con produzione di IL3 e IL4 ed esercitano un effetto antibatterico e
infiammatorio.
A fianco delle T abbiamo le cellule B, che non determinano danno ma vengono attivate e
producono autoanticorpi diretti contro particolari antigeni insulari come l’insulina, l’antigene
GAD (glutammato-decarbossilasi), l’A2 e altri meno rilevanti. Il GAD ha una sequenza
amminoacidica molto simile a quella di un antigene del coxsackievirus, alla base
dell'ipotizzato fenomeno della cross-reattività. La presenza di anticorpi rivolti contro
antigeni self è un epifenomeno che fa da marker della patologia ma non è alla base del
danno (anche se la formazione di immunocomplessi può creare danno).

Clinica
Il diabete di tipo 1 si caratterizza per l’assente secrezione di insulina e quindi incapacità
dei tessuti insulino-dipendenti di utilizzare il glucosio come fonte di energia. A livello
epatico poi ci sarà un’incapacità di conservare il glucosio in forma di glicogeno.
In questi pazienti la malattia insorge acutamente, con una diagnosi fatta sulla base di
poliuria, polidipsia, polifagia con paradossale calo
ponderale, astenia, dolori addominali e disturbi
cognitivi fino al coma chetoacidosico. Tutti questi
sintomi derivano dall’iperglicemia e dai suoi effetti
a livello tissutale (il professore rimanda alla
lezione precedente per ulteriori chiarimenti su
questo punto).

A livello di esami generali troviamo l’alterazione


della glicemia: maggiore di 126 mg/dl in almeno
due determinazioni a digiuno o superiore a 200
dopo curva da carico orale di glucosio
(misurazione alla seconda ora), o ancora un valore di emoglobina glicata superiore al
6,5%.
Dato che il glucosio si concentra a livello ematico, le cellule insulino-dipendenti non
saranno in grado di utilizzarlo e la conseguenza sarà l’attivazione dei meccanismi
controregolatori: aumentano il glucagone, il cortisolo e il GH, si attiva la glicogenolisi e si
ha il catabolismo di tutti i substrati energetici con peggioramento della glicemia. I corpi
chetonici diventano un importante substrato energetico ma non sostituiscono
completamente il glucosio e si rendono responsabili del dimagrimento e dell’acidosi.
Questo circolo vizioso va interrotto per evitare il depauperamento dell’organismo,
l’iperglicemia e l’acidosi metabolica.
Interessante notare che questi soggetti, con l’inizio della terapia insulinica, hanno una
parziale remissione della malattia, spiegata dall’effetto tossico dell’iperglicemia. La
glucotossicità si associa al danno infiammatorio nel diminuire la secrezione insulinica;
quindi ridurre la glicemia spesso permette di avere una ripresa nella produzione insulinica.
Questo periodo di recupero, detto ‘luna di miele’, ha una durata limitata a pochi mesi,
trascorsi i quali si manifesta di nuovo il diabete conclamato.

Nel momento in cui compaiono i markers anticorpali si parla di ‘prediabete precoce’, in


cui si ha una glicemia normale. A distanza di mesi, quando la percentuale di cellule beta si
riduce al 50%, segue un ‘prediabete tardivo’; questa è la fase di ridotta tolleranza ai
carboidrati e glicemia alterata a digiuno. Solo a distanza di circa 2 anni si manifesta il
diabete (come abbiamo detto prima, la percentuale di cellule beta attive deve arrivare al di
sotto del 20%).
La diagnosi non può prescindere dalla valutazione
della glicemia del paziente ma oltre a questo
dobbiamo valutare la predisposizione del paziente,
la presenza di sintomi e segni di patologie
autoimmuni associate, la presenza di eventuali
danni e quindi di glicosuria e di livelli elevati di corpi
chetonici. In particolare, si manifestano
frequentemente patologie come tiroiditi autoimmuni
e celiachia, per le quali i pazienti diabetici sono
predisposti.
Per quanto riguarda gli autoanticorpi antiGAD,
antiA2* e anti-insulina, hanno valore predittivo se
sono presenti almeno 2 tipi: un solo tipo anticorpale
tra questi 3 rappresenta un fattore di rischio
minimo. A distanza di 3/4 anni dalla diagnosi, gli
antiA2 e gli antiinsulinici in genere scompaiono mentre gli antiGAD sono più duraturi e
possono essere dosati anche a distanza di 10 anni.
Da un recente studio sardo effettuato su 8000 bambini diabetici, è emerso che circa il 90%
di questi non ha alcun parente diabetico. Sono considerati dei nuovi casi di diabete, nei
quali la genetica conta ben poco.

*anti-tirosin-chinasi

Il LADA, che insorge in età adulta, ha un esordio molto lento e per arrivare allo stadio
conclamato occorrono anni. Come suggerisce il nome stesso, si tratta di una forma
autoimmune. Spesso i pazienti che soffrono di LADA vengono inzialmente ritenuti diabetici
di tipo 2 ma non ne hanno le caratteristiche fenotipiche, dato che non sono obesi (BMI
<25) e non hanno un’età superiore ai 40 anni. Spesso presentano già altre malattie
autoimmuni.
Per i primi 6 mesi non richiedono terapia insulinica ma negli anni successivi possono
manifestare insulino-dipendenza. Questo si spiega sulla base della bassa penetranza
dell’autoimmunità (ovvero il lento esordio).

Terapia
Come abbiamo già detto, la terapia per un paziente diabetico di tipo 1 è la
somministrazione di insulina per:
• bloccare i meccanismi controregolatori che si attivano inevitabilmente in assenza di
glucosio.
• risolvere i sintomi elencati in precedenza (poliuria, polidipsia, calo ponderale, etc).
Allo stesso tempo trattiamo le complicanze croniche della malattia, ovvero i fenomeni
ischemici che riducono fortemente l’aspettativa di vita del paziente.

La terapia deve essere dosata attentamente perché anche un eccesso di insulina è


dannoso: il rischio è l’ipoglicemia (<40 mg/dl) con coma ipoglicemico, che può derivare o
da una dose eccessiva o dalla somministrazione senza aver prima consumato un pasto.
Per questo motivo bisogna informare bene i genitori di bambini diabetici sulla modalità
d’uso dell’insulina. Se usata bene permette il ripristino dell’omeostasi glucidica e perché
questo avvenga bisogna seguire il ritmo circadiano: l’insulina viene rilasciata in maggiori
quantità proprio nella fase post-prandiale e in corrispondenza di questa deve avvenire la
somministrazione esogena. Abbiamo poi la dose basale, cioè il 50% della dose
giornaliera, che deve garantire dei livelli costanti di insulina durante l’arco della giornata,
anche di notte. Il restante 50% viene somministrato in forma di boli post-pasto (colazione,
pranzo e cena). Sono però diverse le insuline che si usano nei 2 tipi di soministrazione:
abbiamo insuline a lento rilascio con effetto duraturo e insuline ad effetto immediato.
A queste si aggiungono gli analoghi dell’insulina con un effetto pressoché immediato e
al contempo duraturo (circa un’ora). Sono delle insuline prodotte a partire da alcune
sequenze amminoacidiche della molecola di insulina; oggi sono molto usate negli ospedali
e hanno soppiantato le forme regolari e ‘pronte’. Sono l’insulina aspart, la lispro e la
glargina.
Le insuline umane ‘pronte’ hanno una durata di 3 ore, le intermedie di 6 ore, le lente di 12
ore e le ultralente di 24 ore. Le premiscelate non sono più usate: contengono una
percentuale di rapida mista a una di lenta.
Sono tutte valide ed efficaci anche se non riproducono perfettamente il ciclo fisiologico di
rilascio dell’insulina visto che raggiungono dei picchi di concentrazione non sovrapponibili
a quelli naturali. La glargina è quella che più si avvicina al ritmo fisiologico di rilascio
dell’insulina: non ha picco e ha una durata di circa 20 ore.

Il trattamento può essere di due tipi: intensivo e non. L’intensivo è riservato ai soggetti
giovani in cui si vuole ottenere un perfetto controllo della glicemia, ovvero un valore medio
al di sotto dei 120 mg/dl e al di sotto del 7% per quanto riguarda la glicata. Questo
permette di prevenire le complicanze.
Il trattamento non intensivo è quello che mantiene una glicemia compresa tra i 140 e i 180
e una glicata non superiore all’8%, in modo da prevenire gravi stati catabolici, gravi stati
ipoglicemici e iperglicemici. Lo si riserva ai pazienti che presentano controindicazioni al
trattamento intensivo, come infarto pregresso o ictus. Perché questo? Perché una terapia
intensiva presenta un rischio maggiore di determinare uno stato ipoglicemico che risulta
lesivo soprattutto in questi pazienti.

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