Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Diabete
mellito di tipo 1
Epidemiologia
Esiste un’estrema variabilità
geografica e un dato ormai accertato è
che vi è un aumento costante
dell’incidenza in tutto il mondo, pari al
3% annuo, soprattutto nei soggetti con
età inferiore ai 20 anni, per fattori che
esamineremo più avanti. In Italia la
prevalenza è dello 0,5%, con
un’incidenza media di 12 nuovi casi
ogni 100.000 persone. La Sardegna
arriva però a 50, il che la rende un
modello ideale per lo studio della
patogenesi della malattia.
Il LADA risente a sua volta di una forte
variabilità geografica e ha una
prevalenza del 14%.
Il grafico sulla destra mostra le differenze sul territorio nazionale. Vediamo come Campania e Lombardia
abbiano un’incidenza pari a 6, la Liguria 11 e la Sardegna abbia dei valori 6 volte più alti.
Nel diabete di tipo 1 è bene distinguere due gruppi: un 1a, in cui l’eziologia autoimmune è
accertata sulla base della ricerca di autoanticorpi, e un 1b in cui la modalità d’esordio è
simile ma non è autoimmune.
• Il tipo 1a è più frequente nei giovani, è un tipico modello di patologia autoimmune con
infiltrati linfomonocitari e macrofagici nelle isole di Langerhans (si parla di insulite) e
linfociti T attivati. Sono presenti autoanticorpi in genere già all’esordio ed è una
condizione eterogenea con diversi gradi di autoaggressione: inizialmente il meccanismo
autoimmune è poco rappresentato mentre nelle fasi avanzate l’autoaggressione è più
evidente. Si è ormai certi dell’importanza della predisposizione genetica e dei fattori
ambientali: una combinazione che rende il sistema immunitario particolarmente reattivo
nei confronti delle betacellule pancreatiche. Oggi grazie al dosaggio degli anticorpi
possiamo vedere come esista un periodo di latenza di durata variabile a cui segue la
malattia conclamata. Infatti è necessario che l’80% delle betacellule venga distrutto
perché il diabete latente diventi manifesto. Raggiunta questa soglia, la secrezione
insulinica sarà insufficiente e nelle fasi post-prandiali si manifesterà l’iperglicemia. Nelle
fasi avanzate la secrezione di insulina è pari a 0: questo significa che il paziente avrà
una dipendenza insulinica totale.
• Il tipo 1b è una forma rara con insulinopenia che interessa asiatici e africani, ad eziologia
sconosciuta, con assenza di autoanticorpi. Quindi non è una forma autoimmune ma dal
punto di vista clinico è molto simile all’1a
perché la conseguenza è comunque una
perdita progressiva della riserva insulinica.
Anche questi pazienti, nelle fasi avanzate, possono necessitare di insulina esogena, che
viene integrata nella terapia e l’obesità è una loro caratteristica (a differenza dei pazienti
con diabete di tipo 1, che sono in genere molto magri).
Patogenesi
Il tipo 1 è caratterizzato dall’insulinopenia con progressiva distruzione delle cellule beta del
pancreas. All’esame istologico quest’insulite si manifesta con la presenza di un infiltrato
linfocitario: quel che si vede è un raggruppamento di puntini neri che rappresentano
proprio i nuclei di queste cellule.
L’importanza della genetica è confermata dagli studi sui familiari: i fratelli di un diabetico
hanno un rischio relativo 15 volte superiore rispetto a quello della popolazione generale e
avere un qualunque parente di primo grado affetto rappresenta un fattore di rischio.
Sono state identificate più di 80 aree del genoma correlate al diabete di tipo 1: la più
importante è collocata nel braccio corto del cromosoma 6 ed è implicata nel sistema
maggiore di istocompatibilità HLA. In particolare gli alleli DR3, DR4, DR8. Abbiamo poi il
locus 12 del braccio corto del cromosoma 2 dove sono stati identificati 2 alleli (CTLA4 il
più importante) in rapporto ad alterazioni dei linfociti T regolatori, alla base della tolleranza
immunitaria. Nella maggior parte dei casi di diabete di tipo 1 sono implicati il DR3 e il DR4
e, quando sono espressi entrambi nello stesso soggetto, il rischio di sviluppare la malattia
diventa molto alto. Esistono anche alleli come il DR2 e il DR7 che potrebbero
rappresentare un fattore protettivo, dato che non sono mai stati associati a casi di diabete
(inizialmente nomina entrambi gli alleli, poi dice che il DR7 ‘in effetti non è riportato nelle
slide’). In ogni caso, nessun marcatore genetico è in grado di prevedere con certezza la
malattia: solo una parte (15%) dei soggetti predisposti la sviluppa. Quindi l’analisi
dell’aplotipo HLA risulta utile solo se viene combinata allo studio degli autoanticorpi e
all’anamnesi familiare; in caso contrario ha poco valore.
Uno studio del professor Cucca, grande studioso della malattia, ha dimostrato che nella
popolazione sarda prevale l’allele HLA DR3 (circa il 30% dei casi). Alla base di questa
caratteristica genetica vi è un basso numero di fondatori e quindi un pool genetico ristretto;
inoltre la popolazione è sempre stata stabile, con una scarsa commistione genetica anche
tra aree interne e costiere. Ricordiamo anche l’endogamia, un tempo molto comune.
Questo è ciò che rende l’isola un modello di studio e da questo punto di vista i lapponi e i
finlandesi somigliano molto ai sardi, con tassi di incidenza paragonabili.
Abbiamo poi fattori ambientali, di 3 tipi diversi: fattori infettivi, alimentari, chimici. La loro
importanza è dimostrata dal fatto che, tra fratelli, la concordanza per il diabete è del 20%,
con il 50% fra gemelli omozigoti, mentre in altre patologie autoimmuni si arriva anche al
70%. Inoltre, come detto prima, non tutti i soggetti geneticamente predisposti sviluppano il
diabete. Ciò significa che la genetica ‘non spiega tutto’.
Prendiamo in considerazione i fattori ambientali più importanti:
• virus (coxsackievirus, enterovirus, virus della varicella, parotite e rosolia) che possono
agire con un meccanismo diretto di infezione cellulare o indirettamente per cross-
reazione, a causa della presenza di antigeni self sulla superficie della cellula su cui
agiscono anticorpi rivolti verso antigeni virali. Ed in effetti l’infezione da coxsackievirus è
in grado di indurre il diabete in topi da laboratorio.
• antigeni alimentari come l’albumina bovina e il glutine. L’intestino è immaturo nei primi
mesi di vita e probabilmente matura immunologicamente nei primi 6 mesi, con
l’allattamento al seno. L’esposizione ad antigeni alimentari di questo tipo, in questa fase
della vita, predisporrebbe alle patologie autoimmuni. Esistono comunque numerose
controversie al riguardo, con gli ultimi studi randomizzati che vanno in senso opposto
rispetto ai precedenti.
Clinica
Il diabete di tipo 1 si caratterizza per l’assente secrezione di insulina e quindi incapacità
dei tessuti insulino-dipendenti di utilizzare il glucosio come fonte di energia. A livello
epatico poi ci sarà un’incapacità di conservare il glucosio in forma di glicogeno.
In questi pazienti la malattia insorge acutamente, con una diagnosi fatta sulla base di
poliuria, polidipsia, polifagia con paradossale calo
ponderale, astenia, dolori addominali e disturbi
cognitivi fino al coma chetoacidosico. Tutti questi
sintomi derivano dall’iperglicemia e dai suoi effetti
a livello tissutale (il professore rimanda alla
lezione precedente per ulteriori chiarimenti su
questo punto).
*anti-tirosin-chinasi
Il LADA, che insorge in età adulta, ha un esordio molto lento e per arrivare allo stadio
conclamato occorrono anni. Come suggerisce il nome stesso, si tratta di una forma
autoimmune. Spesso i pazienti che soffrono di LADA vengono inzialmente ritenuti diabetici
di tipo 2 ma non ne hanno le caratteristiche fenotipiche, dato che non sono obesi (BMI
<25) e non hanno un’età superiore ai 40 anni. Spesso presentano già altre malattie
autoimmuni.
Per i primi 6 mesi non richiedono terapia insulinica ma negli anni successivi possono
manifestare insulino-dipendenza. Questo si spiega sulla base della bassa penetranza
dell’autoimmunità (ovvero il lento esordio).
Terapia
Come abbiamo già detto, la terapia per un paziente diabetico di tipo 1 è la
somministrazione di insulina per:
• bloccare i meccanismi controregolatori che si attivano inevitabilmente in assenza di
glucosio.
• risolvere i sintomi elencati in precedenza (poliuria, polidipsia, calo ponderale, etc).
Allo stesso tempo trattiamo le complicanze croniche della malattia, ovvero i fenomeni
ischemici che riducono fortemente l’aspettativa di vita del paziente.
Il trattamento può essere di due tipi: intensivo e non. L’intensivo è riservato ai soggetti
giovani in cui si vuole ottenere un perfetto controllo della glicemia, ovvero un valore medio
al di sotto dei 120 mg/dl e al di sotto del 7% per quanto riguarda la glicata. Questo
permette di prevenire le complicanze.
Il trattamento non intensivo è quello che mantiene una glicemia compresa tra i 140 e i 180
e una glicata non superiore all’8%, in modo da prevenire gravi stati catabolici, gravi stati
ipoglicemici e iperglicemici. Lo si riserva ai pazienti che presentano controindicazioni al
trattamento intensivo, come infarto pregresso o ictus. Perché questo? Perché una terapia
intensiva presenta un rischio maggiore di determinare uno stato ipoglicemico che risulta
lesivo soprattutto in questi pazienti.