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Romanello
Ing. Romanello, a 20 anni dalla tragedia di Chernobyl, qual è il livello di sicurezza delle
attuali centrali nucleari?
Intanto vorrei citare quali sono i reattori già disponibili sul mercato: cito l’AP-600 della
Westinghouse, l’ABWR della General Electric, l’EPR - reattore europeo frutto del consorzio
franco-tedesco, il PBMR della sudafricana ESKOM, solo per fare degli esempi; presentano
tutti caratteristiche di sistemi di sicurezza potenziati, basati soprattutto su sistemi di protezione
intrinseca e passiva (ossia la protezione dell’impianto si basa su fenomeni fisici che si
innescano spontaneamente per motivi fisici, al contrario rispetto al passato, quando la
sicurezza era per lo più affidata a mezzi attivi da operare in sala di controllo), grazie anche
all’esperienza operativa acquisita negli anni dagli operatori e dai progettisti, modularità nella
costruzione (ossia al contrario rispetto al passato vengono costruiti quasi interamente in
officina, riducendo al massimo le operazioni in cantiere, e quindi sensibilmente anche i tempi
ed i costi di realizzazione).
Ci sono due canali di sviluppo: il primo, a breve termine che porterà ai reattori cosiddetti
‘generation III+’ (quelli oggi disponibili sono della generation III), a partire dal 2010, ed uno,
a più lungo termine (dal 2030 in poi) che porterà ai reattori ‘generation IV’.
I maggiori sviluppi futuri si avranno appunto in questa filiera di reattori. Fra gli obiettivi
principali ci sono ulteriori avanzamenti nella sicurezza, resistenza alla proliferazione nucleare,
costi competitivi, minimizzazione della produzione di scorie ed ottimizzazione delle riserve
dei combustibili. I reattori di questo tipo oggi allo studio sono: i reattori veloci raffreddati a
gas (GCFR), i reattori veloci raffreddati al piombo (LMFBR), i reattori a sali fusi (MSR), i
reattori veloci raffreddati a sodio (LMFBR), i reattori nucleari ad acqua supercritici (SWCR), i
reattori nucleari ad alta temperatura (VHTR).
Fra gli impianti di IV generazione assumono un certo rilievo questi ultimi (nel cui studio
siamo coinvolti), che oltre ad essere economici, sicuri e rispettosi dell’ambiente, hanno la
potenzialità di bruciare le scorie nucleari producendo idrogeno per l’autotrazione.
A fronte di tale situazione vorrei ricordare che le fantasiose ‘energie alternative (le ‘fonti
energetiche ancora da scoprire’, come le ha definite il segretario all’energia USA Spencer
Abraham), se si esclude il contributo dell’energia idroelettrica (che non può essere sfruttata
ulteriormente) e geotermica, sono costate al nostro paese, nel periodo 1981-2002, ben 98 902
miliardi delle vecchie lire (escludendo i progetti di ricerca e sviluppo dell’ENEA), producendo
una quota del fabbisogno nazionale pari allo 0,09%! I motivi di questo fallimento sono ovvi
agli occhi di qualunque tecnico: una fonte di energia per essere sfruttabile con successo deve
essere concentrabile, indirizzabile, frazionabile, continua, e regolabile, requisiti difficilmente
ottenibili con l’energia eolica o solare.
Per converso vorrei qui ricordare che per produrre l’energia elettrica che un italiano consuma
in un anno occorrono 900 chilogrammi di carbone, o 500 di petrolio, oppure 10 grammi di
combustibile nucleare!
Un capitolo a parte poi è rappresentato dalla ricerca sulla fusione nucleare: abbiamo calcolato
che dal deuterio (l’isotopo dell’idrogeno) presente in un litro di acqua si può ricavare l’energia
di oltre 300 litri di benzina (o mezza tonnellata di carbone)! Le ricerche in tale settore sono
attive in tutto il mondo, ed anche nel nostro paese il centro ENEA di Frascati (che anche a suo
tempo ho visitato) è attivo sul settore. Peraltro a Cadarache (nel sud della Francia) verrà
costruito il reattore sperimentale a confinamento magnetico ITER (International
Thermonuclear Experimental Reactor – reattore tipo Tokamak), frutto del consorzio di Unione
Europea, Russia, Cina, Giappone, Stati Uniti, India e Corea del Sud, dal costo di 10 miliardi di
euro. Il fine è quello di produrre un’energia da 5 a 10 volte superiore a quella necessaria per
mantenere il plasma alle temperature di fusione nucleare, ma la potenza generata non potrà
essere utilizzata per la produzione elettrica (compito affidato a reattori futuri di concezione più
avanzata). I problemi tecnici ancora da affrontare sono comunque ancora molti, ed una stima
ragionevole indica che tale fonte di energia non sarà disponibile prima di 30-40 almeno.
Anche questa tipologia di reattori inoltre presentano un impatto ambientale non nullo: basti
pensare ai materiali di attivazione neutronica ed alla produzione del tritio (isotopo radioattivo
dell’idrogeno).
Dopo il referendum come è proseguita (se è proseguita) la ricerca in questo settore, in Italia?
Innanzitutto vorrei spendere due parole di chiarimento sul referendum, poiché sento spesso
molte inesattezze e teorie fantasiose in merito. Il referendum del 8-9 novembre 1987 non era
abrogativo, ovvero non poneva il quesito “nucleare si, nucleare no”, perché non poteva esserlo:
la nostra costituzione vieta infatti i referendum abrogativi in materia di fisco e norme
comunitarie, e trent’anni prima i capi di stato dei sei paesi della nascente Comunità Europea –
fra cui l’Italia – avevano istituto l’Euratom con gli atti di Roma e si erano impegnati
solennemente a sviluppare una ‘potente industria nucleare’. Riporto di seguito il testo dei
referendum:
1- Volete che venga abrogata la norma che consente al CIPE (Comitato Interministeriale per
la Programmazione Economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in
cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti?
2- Volete che venga abrogato il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a
carbone?
3- Volete che venga abrogata la norma che consente all’ENEL (Ente Nazionale Energia
Elettrica) di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di
centrali nucleari all'estero?
I quesiti sono talmente intricati che anche un ingegnere nucleare non riuscirebbe a rispondere
con tanta facilità: risulta evidente però che con essi il nucleare nel nostro paese in realtà non è
mai stato abolito (come si sente falsamente dire tanto spesso!). All' atto pratico, con le tre
domande si chiedeva di cancellare alcune disposizioni di legge concepite per rendere più facili e
rapidi gli insediamenti energetici (non necessariamente nucleari, ma anche a carbone!): la prima
era stata creata per evitare che il sindaco di un piccolo paese di duemila abitanti dove era
previsto l’insediamento di una centrale nucleare potesse opporsi ad oltranza, mentre la seconda
era la cosiddetta “monetizzazione del rischio” per i comuni che ospitavano impianti di
produzione di energia (fatto molto ingiusto a mio avviso, poiché è giusto invece che se un
comune accetta di ospitare sul proprio territorio un impianto di un certo tipo di cui beneficia
tutto il paese, è giusto che ne abbia un adeguato compenso!).
Si arrivò ad una moratoria di cinque anni, che per una interpretazione del tutto politica permane
fino ad oggi. In seguito lo stesso onorevole Andreotti ebbe a dire:”…se oggi andiamo a
rileggere gli atti delle polemiche parlamentari attorno a questo problema, c’è da arrossire
collettivamente non solo per la mancanza di senso scientifico di alcune posizioni di allora, ma
anche per la miopia delle decisioni prese”. Come ha ripetutamente ricordato l’Ing. Fornaciari
vale la pena di ricordare quanto scriveva 65 anni fa Paul Valery nel suo Saggio Sguardi sul
mondo attuale: ”La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò
che la riguarda. In un’epoca successiva si aggiunse l’arte di costringerla a decidere su ciò che
non capisce”.
E’ naturale che in seguito questo settore è entrato in crisi: molte delle aziende e degli enti che si
occupavano del nucleare hanno dovuto ridurre drasticamente il personale. E questo è stato il
danno più grave: molte delle persone competenti in materia ormai sono in pensione, ed il
permanere di questa situazione assolutamente paradossale per il nostro paese non ha consentito
un adeguato turnover generazionale. Certo potremo sempre ripartire acquistando gli impianti
‘chiavi in mano’, ma l’ente di controllo dovrà sempre essere ‘indigeno’ ed indipendente, quindi
saranno necessarie competenze specifiche in materia. Più tempo passa più questo diventa
complicato, e si corre il rischio di perdere un treno che potrebbe invece rivelarsi
importantissimo per il nostro futuro a medio e lungo termine. Tuttavia la ricerca, almeno in
ambito accademico è continuata e continua tuttora, anche se è affidata sempre più ad un
manipolo di persone sempre più esigue ed isolate, seppur molto preparate e motivate. Questo è
l’unico dato che mi incoraggia ancora: la classe nucleare italiana in questi anni, nonostante tutto,
ha continuato a lavorare con serietà ed in silenzio. Io stesso partecipo tuttora ad attività di
ricerca in questo settore (seppur part-time), ed i nostri articoli sono presentati in convegni
internazionali (l’ultimo l’anno scorso ad Oak Ridge, negli USA, a cui ho preso parte in qualità
di rappresentante delle Università di Pisa e Genova) sul bruciamento delle scorie nucleari
attraverso l’uso di cicli simbiotici con reattori nucleari ad alta temperatura. Per i dettagli delle
nostre attività consiglio di visitare il sito:
http://www.ing.unipi.it/~d0728/GCIR/gcir.htm.
Del resto quello che spesso non viene detto è che l’Italia ha rinunciato alla produzione di
energia elettronucleare, ma la consuma importandone il 18% del fabbisogno nazionale dalla
Francia, dalla Svizzera, e persino dalla centrale slovena di Krsko a 120 Km da Trieste! La nostra
fortuna è stata che i francesi hanno sovrastimato il loro fabbisogno energetico, costruendo 7
centrali nucleari in più che, di fatto, lavorano per noi. Il prezzo di produzione dell’energia nel
nostro paese infatti è talmente elevato che conviene di gran lunga importarla, anche comprando
l’energia francese dalla Svizzera, poiché gli elettrodotti sul confine con la Francia sono saturi. Il
motivo è ovvio: non si può avere un’energia a buon prezzo se per produrla si brucia il
combustibile più caro e prezioso in assoluto!
Il recente caso di Scanzano Ionico (indicato come sito nazionale di stoccaggio delle scorie),
dimostra quanto siano radicate in Italia le resistenze verso questa tecnologia, crede siano
superabili in futuro?
Un altro tema di attualità è legato all’utilizzo dell’idrogeno come combustibile; lei collabora
allo sviluppo di un interessante progetto di ricerca, di cosa si tratta?
Naturalmente è difficile dire cosa ci riserva il futuro, ma una cosa è certa: il nuovo millennio ci
propone delle sfide economiche, ambientali, e geopolitiche impegnative, da affrontare con
determinazione, con coraggio e soprattutto con lungimiranza. Il rapido aumento della
popolazione terrestre con il parallelo aumento degli standard di vita e quindi dei consumi ci
suggerisce di trovare quanto prima delle valide alternative ai combustibili fossili tradizionali, in
particolar modo al petrolio.
L’idrogeno, come ho già detto sarebbe un buon mezzo, ma non può sostituire i combustibili
fossili in quanto non è una fonte ma un vettore, come già spiegato. Questi enormi quantitativi di
energia bisognerà ricavarli da qualche parte, in maniera economica e rispettosa dell’ambiente.
Non è un problema facile.
Bisogna poi ricordare che un’economia all’idrogeno richiederà la costruzione di enormi
infrastrutture dedicate, non realizzabili in tempi brevi. Inoltre alcuni problemi tecnici sono
ancora in corso di studio: l’idrogeno è infatti difficilmente immagazzinabile. Presenta un
altissimo contenuto energetico in rapporto al peso, ma molto basso in rapporto al volume,
essendo un gas molto leggero (14 volte più dell’aria). Oggi le soluzioni più adottate riguardano
l’immagazzinamento in bombole ad altissima pressione, che però sono ingombranti e pesanti.
Sono allo studio quindi dei serbatoi realizzati con materiali compositi innovativi, assai più
leggeri. Altra via studiata sono i contenitori criogenici (dove si immagazzina l’idrogeno
liquido), dove però l’idrogeno non si può conservare indefinitamente, e sono allo studio anche
gli idruri metallici (ancora costosi, poco efficienti e pesanti, ma la ricerca sta facendo notevoli
passi avanti in questo senso – basti pensare alla tecnologia degli idruri di litio).
Un’altra interessante proposta è quella di produrre grandi quantità di alcol etilico dalle biomasse
(una tale soluzione è già stata applicata con successo in nazioni come il Brasile), da ‘bruciare’
poi in efficientissime batterie a combustibile, su cui sono in corso le ricerche.
In definitiva, la nostra salvezza energetica futura riguarderà sicuramente un mix oculato di
diverse fonti, che dovranno essere scelte in base a considerazioni di convenienza tecnico-
economica-ambientale: sarebbe un grave errore escludere il fattibile per arbitrarie motivazioni
ideologiche.
Del resto come ho già avuto modo di riprendere in un mio seminario sulle applicazioni non
elettriche degli HTR (High Temperature Reactors): “L’energia del futuro, quella a cui bisogna
giungere per garantire la sopravvivenza della civiltà umana nell’attuale prospettiva tecnologica,
deve essere non nociva, inesauribile o completamente rinnovabile, ma soprattutto disponibile
sempre e ovunque nel mondo, immune ai monopoli nazionali ed alle dispute politiche”.
Molto del futuro nostro e dei nostri figli dipenderà dalla saggezza e dalla lungimiranza delle
nostre decisioni attuali.