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Luca Riccardi

Francesco Salata e la politica estera dell’Italia liberale (1914-1922)

Francesco Salata, un irredento.


Francesco Salata fu un importante esponente dell’irredentismo italiano nella Venezia Giulia.
Il suo contributo fu particolarmente importante nei campi del giornalismo, degli studi storici e
dell’amministrazione 1. Nato a Ossero, sull’isola di Cherso 2, il 17 settembre 1876, sin dalla più
giovane età fu inserito, per ragioni familiari, negli ambienti irredentisti. Egli, infatti apparteneva a
quel ceto sociale urbano di lingua italiana che, nel Litorale austriaco, rappresentava l’ambiente dove
i sentimenti e l’azione separatista avevano maggiore presa. Il padre, Giacomo, fu sindaco della
piccola città per oltre vent’anni e da questi, indubbiamente, ereditò la passione per la politica, ma
anche per la difesa dell’italianità della sua terra 3. Dopo una breve esperienza di studi all’Università
di Vienna, fece ritorno in Istria, la cui multietnicità –che peraltro caratterizzava molte altre regioni
dell’Impero d’Austria- era la ragione di una crescente tensione politica tra italiani e slavi. La lotta
politica si svolgeva soprattutto all’interno della Dieta provinciale di Parenzo. L’istituzione elettiva
locale nel Litorale austriaco era divenuta lo specchio di un confronto politico-etnico-sociale che
caratterizzava la società istriana dal 1848 4 e ulteriormente acuitosi a partire dagli anni Ottanta 5.
Sin da giovane si trovò inserito, anche per motivi professionali, nell’ambiente irredentista.
All’età di 21 anni, infatti, cominciò a collaborare attivamente al giornale di Pola Il Popolo Istriano.
Nelle pagine di questo nuovo, e ambizioso, organo di stampa di lingua italiana riversò un’altra delle
sue passioni che, in realtà, si era formata negli anni degli studi liceali: la ricerca storica sulle fonti
dell’italianità dell’Istria. Così avrebbe descritto questa sua attitudine:

1
Sul personaggio v. L. Riccardi, Francesco Salata tra storia, politica e diplomazia, Del Bianco, Udine 2001; E.
Capuzzo, Un commis d’etat tra guerra e dopoguerra: Francesco Salata nella carte di Agostino D’Adamo, «Clio»,
2/1995, pp. 245-279; Ead., Dal nesso asburgico alla sovranità italiana. Legislazione e amministrazione a Trento e
Trieste (1918-1928), Giuffrè, Milano 1992, pp. 78-81; Ead., Alla periferia dell’Impero: terre italiane degli Asburgo tra
storia e storiografia (XVIII-XX secolo), ESI, Napoli 2009; Ead., In margine a una biografia di Francesco Salata,
«Clio», 3/2003, pp. 493-511; Ead., Salata tra guerra e dopoguerra in Francesco Salata e le Nuove Provincie, pp. 15-
21, Unione degli Istriani, Trieste 2012; M.A. Frabotta, G. Salotti, Propaganda e irredentismo nel primo Novecento. Gli
opuscoli del fondo bibliografico del Senatore Francesco Salata nell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero Affari
Esteri 1848-1946, Olschki, Firenze 1990. A questi lavori si rinvia per il complesso della bibliografia.
2
Cfr. L. Pozzo-Balbi, L’isola di Cherso, Anonima Romana Editoriale, Roma 1934.
3
F. Salata, Una mia passione: gli archivi, manoscritto, in Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE),
Carte Salata (CS), b. 139, f.837.
4
Su questo, v. C. Schiffer, Italiani e slavi nella Venezia Giulia dal Medioevo a oggi in AA.VV., Il Confine orientale
d’Italia, Editrice Italiana Arti Grafiche, Roma 1946, p. 61; Id. la questione etnica ai confini orientali d’Italia.
Antologia, a cura di F. Verani, Ed. Italo Svevo, Trieste 1990, pp. 19-87.
5
A. Ara, Gli italiani nella monarchia asburgica (1850-1918) in Id., Fra nazione e impero. Trieste, gli Asburgo, la
Mitteleuropa, Garzanti, Milano 2009, pp. 251-267, in particolare p. 260. V. anche A. Di Michele, Tra due divise. La
Grande Guerra degli italiani d’Austria, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 25-26.

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Nei lunghi anni della Vigilia, gli archivi sono stati per noi veramente degli arsenali a cui attingevamo
armi per la nostra battaglia. Contro le denegazioni di Governi e di avversari nazionali e politici, più contro le
insidie e le offese della loro opera, il documento della nostra romanità e italianità, indigena e autogena,
precedente e indipendente dal dominio veneto sorreggeva il nostro diritto, alimentava la nostra fede. Questo
spiega come i maggiori nostri patrioti, più operosi nella politica e nell’amministrazione fossero quasi tutti, se
non storici di professione, cultori di studi storici 6.

Questo indica il modello di giornalismo verso cui questo «giovane d’anni ma di senno
maturo» 7, si indirizzò. Egli scelse sempre trattazioni di natura politico-generale con solidi agganci
con la vicenda storica della sua terra natale; evitando «insulse corrispondenze da paeselli, riprese di
pettegolezzi locali» 8. Questo atteggiamento funse da trampolino di lancio verso mete più
importanti. Nel 1899 si rivolse all’esponente liberal-nazionale Teodoro Mayer, fondatore e direttore
de Il Piccolo di Trieste 9, per essere inserito tra i collaboratori del quotidiano. Questi, il cui giornale
stava conoscendo un importante successo di pubblico in quella stagione di profonde
trasformazioni 10, decise di aggregarlo a una redazione cui prendevano parte anche altri giovani
giornalisti di valore. Al fondo dell’aspirazione di Salata a lavorare in quel quotidiano vi era sì una
più che naturale ambizione professionale; ma anche una sostanziale coincidenza con le idee
politiche che animavano quella pubblicazione, il liberal-nazionalismo 11.
Mayer, intuendo il talento del suo giovane collaboratore, delimitò il campo in cui si sarebbe
dovuta esprimere la sua «graditissima» attività giornalistica: la conoscenza storica messa a servizio
dell’interpretazione dell’attualità 12. Da quel momento, auspice lo stesso Mayer, Salata divenne un
perno fondamentale dell’attività editoriale del giornale triestino. A soli ventisei anni, nel 1902,
divenuto capo redattore, esperto di politica e amministrazione, era già considerato un nome
importante nel giornalismo italiano in terra asburgica 13. All’attività giornalistica si accompagnò
l’impegno politico nella sua terra natale, l’Istria. Nel quadro dell’azione della Società politica
istriana, organizzazione fondata a Pisino da elementi del liberalismo nazionale locale 14. Qui si fece
promotore di nuove forme di organizzazione della partecipazione politica dell’elemento italiano alla
luce della riforma elettorale del 1897 che aveva prodotto un ulteriore allargamento del diritto di

6
Salata, Una mia passione, cit.
7
Levesini a Salata, 5 dicembre 1897, ASMAE, CS, b. 282, f. 1983.
8
Ibidem.
9
Sulla nascita e i primi anni de Il Piccolo v. E. Lipott, Il Piccolo ieri 1881-1899. Origini e diffusione di un quotidiano
popolare di fine Ottocento, Ed. Italo Svevo, Trieste 1981; di sapore più memorialistico S. Benco (a cura di), “Il
Piccolo di Trieste. Mezzo secolo di giornalismo, Treves, Roma 1931.
10
E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari, pp. 66-67; v. anche Di Michele, Tra due divise, cit., pp. 28-30.
11
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 87.
12
Mayer a Salata, 23 gennaio 1900, ASMAE, CS, b. 282, f. 1985.
13
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 92. V. anche Benco, Mezzo secolo, cit., p. 149.
14
E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Ed. Italiane, Roma 1947, p. 92.

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voto dei cittadini dell’impero 15. Sullo sfondo vi era l’inesausta lotta tra italiani e slavi per la
predominanza politico-sociale nel Litorale austriaco. L’affermazione progressiva del sentimento
nazionale di questi ultimi cominciava a mettere in discussione la prevalenza socio-economica, e
dunque politica, della componente italiana. La battaglia politica degli italiani, però, si distingueva
per la sua adesione a un modello politico liberale e pluralista. In esso, però, rimaneva centrale
l’affermazione della propria identità senza indulgere a tentazioni xenofobe o pregiudizialmente anti-
slave 16.
In questo contesto Salata si rese protagonista di una serie di proposte che spingevano per un
allargamento della proposta politica dei liberal-nazionali istriani inserendovi tematiche di natura
economica e amministrativa. L’obiettivo era di avvicinare nuove classi di elettori attraendoli
nell’orbita dell’italianità d’Istria non solo per ragioni di appartenenza nazionale. E’ stato
giustamente scritto che il giovane giornalista aveva preso atto della «democratizzazione della
società» 17. Salata cercò di trovare nuove strade con cui reinterpretare il ruolo che avrebbero dovuto
avere gli istroitaliani all’interno dei mutamenti che attraversarono l’impero asburgico tra i due
secoli e dar loro un posto di rilievo. Essi avrebbero dovuto avere sempre più parte nei «modelli più
flessibili di condivisione del potere» 18 che sembrarono affermarsi nei primi anni del nuovo secolo in
Austria.
Il giornalismo, dunque, andava messo a servizio della politica. O meglio della formazione di
una classe dirigente di amministratori italiani che potesse mostrare le sue capacità di governo. In
questo quadro si inserì la fondazione del mensile Vita autonoma 19 di cui Salata fu animatore e
«Spiritus rector» 20 che prolungò la sua esistenza fino al 1912. Il periodico avrebbe dovuto
contribuire alla crescita economica, politica e culturale delle autonomie italiane dell’Istria, specie
quelle comunali 21. Il passo verso l’impegno politico diretto fu breve. Nel 1908 fu eletto alla Dieta
provinciale dell’Istria. «La politica –dunque- finì per portarlo via del tutto dal giornalismo» 22. Fu
nominato assessore provinciale nel 1909. Da quel momento parte importante della sua attività fu il

15
Cfr. C.A. MacCartney, L’impero degli Asburgo, 1790-1918, Garzanti, Milano 1981, p. 749; su questo, per ciò che
riguarda l’Istria, v. Ara, Gli italiani, cit., p. 263.
16
Su questo v. L. Monzali, Tra irredentismo e fascismo. Attilio Tamaro storico e politico, «Clio», 2/1997, p. 272.
17
P. Ziller, Aspetti della questione nazionale: Francesco Salata, la «Vita Autonoma» ed il liberalismo nazionale
istriano (1904-1912) in Id., Giuliani, istriani e trentini dall’impero asburgico al Regno d’Italia. Società, istituzioni e
rapporti etnici, Del Bianco, Udine 1997, p. 59.
18
P. M. Judson, L’impero asburgico. Una nuova storia, Keller, Rovereto 2021, p. 434.
19
Ziller, Aspetti della questione nazionale, cit.
20
F. Wiggermann, Finis Histriae nella Dieta provinciale dell’Istria? Lodovico Rizzi (1859-1945) e il conflitto nazionale
italo-slavo (1894-1916) in Atti, CRS, vol. XLVII, 2017, pp. 341-388, in particolare p. 349.
21
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 95.
22
S. Benco, Francesco Salata, «Il Resto del Carlino», 5 settembre 1931.

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“governo” del territorio imperniato soprattutto nella modernizzazione delle reti di comunicazione
della provincia 23.
Lo scontro tra italiani e slavi, però, con il nuovo decennio, si accese ulteriormente
compromettendo il funzionamento della Dieta. L’amministrazione asburgica si mosse per arrivare
all’elaborazione di un «compromesso nazionale» in Istria 24. In questo quadro di grande movimento
politico, Salata esercitò un ruolo di un certo rilievo. Fu incaricato di redigere un piano per la
costruzione di scuole pubbliche che soddisfacesse le richieste slave di un più esteso riconoscimento
della loro identità sul piano scolastico 25. In questa fase, proprio per l’importanza del compito che gli
era stato assegnato, l’ex giornalista de Il Piccolo divenne la «personalità dominante» della
delegazione italiana incaricata di negoziare, con il Luogotenente imperiale, Hohenlohe, il
compromesso con l’elemento slavo 26. La trattativa si protrasse fino al 1914, senza esito. «Il
tentativo naufrag[ò] però definitivamente […] soprattutto a causa della resistenza italiana alla piena
parificazione delle tre lingue provinciali» 27.
Alla vigilia dello scoppio del conflitto, dunque, anche grazie alla sua rielezione in occasione
della tornata elettorale del 1914, Salata era ormai tra le personalità più in evidenza dell’irredentismo
istriano 28.

Neutralità e Diritto d’Italia


Il conflitto che scoppiò nell’estate del 1914, e le scelte politiche che ne derivarono, mutarono
profondamente la vita degli irredentisti giuliani. Ciò che è stato scritto per l’italianità dalmata può
essere esteso anche a quella della Venezia Giulia. Essa
era ormai non più solamente un’entità linguistica e culturale, ma era diventata una precisa identità
politica, collegata a una crescente immedesimazione con l’Italia, uno Stato che, dopo la conquista della Libia
appariva sempre più una grande potenza europea, una nazione in crescita e sviluppo economico, culturale e
politico 29.

Al di là delle diverse correnti politiche, dunque, il Regno d’Italia, con la sua crescente
presenza sul piano europeo e la sua maggiore attrattività economica era divenuto l’ineludibile punto

23
Relazione della Giunta provinciale sul disegno di legge con cui si modificano alcune norme e la manutenzione delle
strade pubbliche, s.d. (ma presumibilmente del 1910), ASMAE, CS, b. 196, f. 1098.
24
Su questo v. A. Ara, Le trattative per un compromesso nazionale in Istria (1900-1914) in Id. Ricerche sugli austro-
italiani e l’ultima Austria, Elia, Roma 1974, pp. 247-328;
25
Ivi, p. 310.
26
Ivi, p. 316, n. 212.
27
Ara, Gli italiani, cit., p. 264.
28
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 121-122.
29
L. Monzali, Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Marsilio, Venezia 2015, p. 84; sulla
guerra di Libia v., per tutti, L’Italia e la guerra di Libia cent’anni dopo, a cura di L. Micheletta e A. Ungari, Studium,
Roma 2013.

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di riferimento degli italiani d’Istria. Con le dovute eccezioni internazionaliste nel campo socialista
triestino 30, era questo ormai l’orizzonte dei liberal-nazionali italiani del Litorale austriaco. Gli
avvenimenti dell’estate del 1914, però, cambiarono la prospettiva politica.
La tragedia di Sarajevo e l’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia avevano trovato gli irredenti
adriatici sgomenti più che mai del loro avvenire 31.

I timori riguardavano, naturalmente, le decisioni che il governo Salandra avrebbe preso in


merito all’applicazione della Triplice Alleanza. Il problema era rappresentato da una possibile
decisione di schierarsi dalla parte di Vienna, come alcuni autorevoli uomini politici italiani, sebbene
isolatamente, sostenevano 32. La dichiarazione di neutralità pronunciata dal governo di Roma, il 3
agosto 1914 33, fu il prodotto della convergente volontà politica del presidente del Consiglio,
Salandra, e del ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano 34; essa liberò gli italiani del Litorale
austriaco da un’ «angoscia assillante» 35. La prospettiva di scendere in guerra a fianco dell’Austria,
infatti, se era tutt’altro che popolare nel Regno 36, a Trieste e nell’Istria era considerata un vero e
proprio «incubo» 37.
Da quel momento gli irredenti del Litorale si mossero per cercare di influenzare le scelte del
governo di Roma in senso anti-asburgico tramite missioni nella capitale italiana. Protagonista della
più importante di queste azioni di lobbying fu Teodoro Mayer. Questi, nel settembre-ottobre 1914,
ebbe l’opportunità di incontrare i vertici del governo, oltre che Sidney Sonnino, nume tutelare
politico del presidente del Consiglio 38. Il direttore de Il Piccolo, nei suoi colloqui, toccò temi
squisitamente politico-diplomatici. Non esitò, infatti, a fare pressioni per spingere l’Italia
all’intervento a fianco dell’Intesa presentando un piano per la preparazione diplomatica di questo
passo 39. Anche Salata venne a Roma, nell’autunno del 1914, su incarico del capitano provinciale

30
A. Vivante, Irredentismo adriatico, Parenti, Firenze 1954 [1° ed. 1912]; M. Cattaruzza, Socialismo adriatico. La
socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica 1888-1915, Lacaita, Manduria
1998.
31
G. Pitacco, La passione adriatica nei ricordi di un irredento, Cappelli, Bologna 1934, p. 11.
32
Cfr. Sonnino a Bergamini, 29 luglio 1914 e Sonnino a Salandra 1° agosto 1914, S. Sonnino, Carteggio 1914-1916,
Laterza, Roma-Bari 1974 (Carteggio 14-16), dd. 4 e 5.
33
San Giuliano a tutte le ambasciate e legazioni, 3 agosto 1914, Documenti Diplomatici Italiani (DDI), serie V, vol. I,
d. 30; San Giuliano a Merey, 2 agosto 1914, ivi, d. 1.
34
Su questo v., per tutti, A. Salandra, La Neutralità italiana [1914], Mondadori, Verona 1928; GianPaolo Ferraioli,
politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Rubbettino, Soveria
Mannelli 2007, pp. 843-857.
35
Pitacco, Passione adriatica, cit., p. 12.
36
San Giuliano ad Avarna, 2 agosto 1914, DDI, serie V, vol. I, d. 2.
37
Pitacco, Passione adriatica, cit., p. 12.
38
Sulla missione di Mayer v. Salandra a Sonnino, 6 settembre 1914 in Carteggio 14-16, cit., d.20; F. Martini, Diario
1914-1918, a cura di G. De Rosa, Mondadori, Milano 1966, pp. 165-166; Benco, Il Piccolo, cit., p. 213-216.
39
Martini, ivi, p. 166.

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Lodovico Rizzi 40 con l’obiettivo di aprire un canale di importazione di beni alimentari per la
popolazione istriana 41. La missione, però, che aveva senz’altro il doppio fine di prendere contatti
con le autorità italiane anche su questioni di natura più politica, fallì.
Nondimeno, nel gennaio del 1915, appoggiato dallo stesso Rizzi 42 e, probabilmente, su
indicazione dello stesso Mayer 43, decise di espatriare nel Regno adducendo, ancora una volta, una
pretestuosa missione ufficiale. Così si inserì nell’ambiente degli irredentisti adriatici che già
avevano abbandonato l’Impero. Ma anche si avvicinò ai circoli interventisti le cui idee, in quei
momenti, erano particolarmente vicine a quelle dei liberal-nazionali italiani della Venezia Giulia.
Proprio nei mesi della neutralità, Salata dette il suo primo importante contributo intellettuale alla
battaglia degli irredentisti interventisti: la redazione del ponderoso volume documentario, che vide
la luce il 5 maggio 1915, su Il Diritto d’Italia su Trieste e l’Istria 44.
Il lavoro, che fu sollecitato dallo stesso Mayer, richiese la collaborazione anche di altri
esponenti dell’irredentismo come Giovanni Giuriati 45 e Camillo Ara, già leader rinnovatore dei
liberal-nazionali di Trieste, anch’egli espatriato in Italia. Esso aveva come obiettivo di mostrare ai
lettori, attraverso la documentazione d’archivio attinente al periodo che andava dal Trattato di
Campoformio alla Triplice Alleanza, il fondamento storico dell’italianità di quelle terre. Era una
ricerca storica accurata, secondo un metodo appreso da Salata sin dagli anni dei primi studi. Il
risultato era la premessa a un disegno politico:
[…] riluce dai documenti raccolti la permanente coscienza[…] della necessità e dell’interesse che il
dominio, se non esclusivo almeno prevalente, dell’Adriatico a cui natura e storia chiamano l’Italia, sia
assicurato da quel possesso della costa orientale, senza del quale non può essere per la nostra nazione che
debolezza e schiavitù 46.

E’ evidente che, al di là del rigore storiografico, il volume si riprometteva di esercitare


un’influenza sulle scelte di politica estera del governo italiano. Secondo lo stesso autore, infatti,
esso «non fu estraneo, se non alle supreme determinazioni, alla loro più precisa documentazione e
illustrazione anche internazionale». E fu anche definito «il libro verde dell’irredentismo
adriatico» 47. Da ciò si può comprendere come fosse prioritariamente uno strumento di propaganda
politica. Ma il suo profilo storiografico appare ancora oggi così rigoroso da far percepire con

40
Sul rapporto tra Rizzi e Salata v. Wiggermann, Finis Histriae, cit.
41
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 124.
42
F. Semi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, vol. I, Istria e Fiume, Del Bianco, Udine 1992, p. 310.
43
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 126.
44
[F. Salata], Il Diritto d’Italia su Trieste e l’Istria. Documenti, Bocca, Roma 1915.
45
Su Giuriati v. Id., La Vigilia (gennaio 1913-maggio 1915), Mondadori, Milano 1930.
46
Prefazione a Il Diritto d’Italia, cit., p. VIII.
47
Salata, Una mia passione, cit.

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chiarezza le capacità metodologiche dell’autore 48. Non è un caso che esso non si differenzi –anzi in
una certa misura faccia da anticipatore- dal metodo che dal decennio successivo, all’indomani della
prima guerra mondiale, avrebbe seguito la gran parte delle raccolte nazionali di documenti
diplomatici delle potenze europee. Esse, mutatis mutandis, condividevano con il Diritto d’Italia lo
scopo «politico, di dimostrare qualcosa intorno ad origini, cause, responsabilità» di importanti
passaggi della vicenda politico-diplomatica; ma anche di rappresentare una «documentazione
storica o tecnica di precedenti storici» 49.
Le spese per la pubblicazione e la diffusione gratuita –e questo ci fa capire come fosse
considerato un importante strumento di propaganda- furono sostenute in toto da Teodoro Mayer 50.
Questi era considerato, anche dal governo di Roma, come il «ministro del Tesoro» dell’irredentismo
adriatico in Italia 51. L’esponente triestino riteneva, con ogni probabilità, di dover collegare l’azione
politica degli italiani della Venezia Giulia con il movimento irredentista del Regno. Per questo era
necessaria una documentazione ineccepibile che mostrasse che i fuoriusciti giuliani non erano
«agitatori molesti» 52, ma epigoni di una lunga tradizione di separatismo dall’impero asburgico. La
dimostrazione storicamente fondata che Trieste e l’Istria appartenevano all’Italia avrebbe voluto
essere anche un contributo alla lotta contro le posizioni neutraliste e trattativiste di Giolitti. Il
Parecchio giolittiano non avrebbe garantito i confini nazionali poiché in esso non vi era compresa
la costa orientale dell’Adriatico: l’accettazione di qualsiasi posizione riduttiva delle aspirazioni
irredentistiche avrebbe tolto ogni speranza di «redenzione» poiché il governo di Roma sarebbe
rimasto inevitabilmente legato agli Imperi centrali 53.
Evidentemente, nonostante il rigore storiografico, la ricostruzione documentaria di Salata non
piacque a tutto il mondo irredentista. Alcuni criticarono Il Diritto d’Italia a proposito delle sue
affermazioni sull’italianità della Dalmazia. Tra questi vi fu Gaetano Salvemini che contestava la

48
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 127.
49
P. Pastorelli, La pubblicazione dei documenti diplomatici, «Clio», 4/1994, pp. 745-755, le citt. sono a p. 747.
50
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 128.
51
Sonnino a Salandra, 23 aprile 1915, Carteggio 14-16, d. 284.
52
Prefazione a Il Diritto d’Italia, cit., p. VIII.
53
Cfr. Lustig a Salata, 18 maggio 1915, ASMAE, CS, b. 287, f. 2033. Per una ricostruzione dell’ambiente politico
italiano precedente l’intervento contro l’Austria v., tra l’altro, B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Vallecchi, Firenze
1969; Id., L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale, vol. I, L’Italia neutrale, Ricciardi, Milano.Napoli 1966; G.
Astuto, La decisione di guerra. Dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 217 e ss.;
G. Petracchi, 1915. L’Italia entra in guerra, Della Porta, Pisa 2015; A. Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in
guerra, il Mulino, Bologna 2015; A. Ungari, La guerra del re. Monarchia, Sistema politico e Forze armate nella
Grande Guerra, Luni, Milano 2018, pp. 49-86; i classici R. A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio sul
prefascismo 1908-1915, Einaudi, Torino 1974 e A. Monticone, La Germania e la neutralità italiana 1914-1915, il
Mulino, Bologna 1971; M. De Nicolò, L’ultimo anno di una pace incerta. Roma 1914-1915, Le Monnier, Firenze 2016;
L’Italia neutrale 1914-1915, a cura di G. Orsina e A. Ungari, Rodorigo, Roma 2016 e più sommessamente L. Riccardi,
La politica estera dell’Italia nei mesi della neutralità in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della
Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 105-114; Salandra, La Neutralità, cit.

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veridicità dell’attribuzione a Cavour dell’intenzione, in sede di negoziato con la Francia, nel 1858,
di richiedere l’annessione della costa dalmata 54. Egli, in aggiunta, riteneva che anche il precedente
lavoro che Salata aveva svolto a inizio secolo per mettere in discussione il sistema di censimento
austriaco 55 non fosse interamente condivisibile «e si trattava sempre di ipotesi, che non avevano
nessuna sicura attendibilità» 56.
La posizione salveminiana va inserita nel più largo spettro dell’azione politica
dell’interventismo democratico di cui lo storico e politico di Molfetta era tra i più autorevoli
esponenti:
lo scrittore pugliese riconosceva come giusta l’esigenza di un confine non etnico, vantaggioso
strategicamente per l’Italia in Venezia Giulia e nel Mare Adriatico: ma a tale fine era sufficiente assicurarsi il
controllo delle Alpi Giulie, di Pola e di alcune isole dalmate 57.

Da ciò si può comprendere la divaricazione che si stava aprendo nel mondo irredentista che
poi avrebbe preso corpo definitivamente negli anni della guerra. Salvemini, e tutto l’irredentismo
democratico, avrebbe preso le mosse da queste idee per perorare una «politica delle nazionalità» 58
anche da parte del governo italiano.

La prima guerra mondiale


Il fuoruscitismo irredentista 59, sia adriatico che trentino, si inserì progressivamente nella
gestione politica della preparazione della guerra italiana. Nel marzo 1915, l’inesausta azione di
lobbying condotta da Teodoro Mayer presso il governo italiano cominciò a dare qualche frutto. Il
ministro degli Esteri Sonnino, mentre iniziava il negoziato per il Patto di Londra 60, chiese
all’esponente irredentista una memoria scritta con la quale giustificare -nel caso avesse avuto

54
Un progetto di ricostituzione nazionale dell’Italia, presentato per incarico di Cavour a Napoleone III, porta il Regno
sabaudo sino alle coste della Dalmazia in Il Diritto d’Italia, cit., d. 275. In realtà la ricostruzione era tratta da N.
Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, dall’anno 1814 all’anno 1861, vol. VIII, Unione
Tipografico-editrice, Torino 1872, pp. 14-15. Salvemini contestava a Salata la ricostruzione sulle effettive intenzioni di
Cavour che, a sua detta, Bianchi non riferiva, G. Salvemini, La questione dell’Adriatico in Id., dalla guerra mondiale
alla dittatura (1916-1925), a cura di C. Pischedda, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 283-473, in particolare pp. 353-354.
55
F. Salata, Le nazionalità in Austria-Ungheria, «Nuova Antologia», XXXVIII, 16, 1903, pp. 3-19; su questo saggio v.
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 22.
56
Salvemini, La questione dell’Adriatico, cit., p. 339.
57
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 102.
58
Cfr. L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Il Saggiatore, Milano 1985 [1° ed. 1966], pp. 121-166.
59
Una visione d’insieme in R. Monteleone, La politica dei fuoriusciti irredenti nella Guerra Mondiale, Del Bianco,
Udine 1972.
60
M. Toscano, Il Patto di Londra. Storia diplomatica dell’intervento italiano (1914-1915), Zanichelli, Bologna 1934,
pp. 75-150; P. Pastorelli, La politica estera italiana 1915-1925 in Id., Dalla prima alla seconda guerra mondiale, LED,
Milano 1997, pp. 67-92, in particolare pp. 70-71; L. Riccardi, San Giuliano, Sonnino e Salandra tra neutralità e
intervento in Id., La «grandezza» di una Media Potenza. Personaggi e problemi della politica estera italiana del
Novecento, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2017, pp. 65-100, in particolare p. 88.

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9

«bisogno di trattare su questo argomento» 61- l’annessione di Trieste e del Litorale adriatico
all’Italia. Di tale compito fu incaricato Camillo Ara. Ma alla stesura finale del lavoro, che durò circa
due giorni, contribuì anche Salata, in quel momento fresco di redazione del Diritto d’Italia 62. In
esso ritroviamo gli obiettivi tradizionali dell’azione liberal-nazionale che si fondavano nella stretta
connessione tra diritto storico e convenienza strategica dell’annessione all’Italia delle terre
irredente 63. Dunque
l’Italia [avrebbe dovuto] proporsi l’argomento della necessità di raggiungere quei confini, naturali o
geografici, che soltanto [avrebbero potuto] costituire sicuro baluardo allo Stato e diminuire sensibilmente
l’onere e il rischio della difesa 64.

Dunque insieme alla natura andavano considerate anche la storia e la strategia. Per questo
Fiume andava associata alla regione giuliana perchè tradizionalmente separata dalla regione
balcanica dal vallo romano. E anche la definizione della frontiera settentrionale avrebbe dovuto
tenere conto di queste diverse esigenze:
in linea etnografica e nazionale la stretta di Salorno non [era] confine […]. [Avrebbe potuto] valere
per confine solo nel senso che dietro questa controvallazione (dopo scavalcate le Alpi Retiche dagli
Alemanni) da quindici secoli i Trentini difendono l’Italia 65.

In buona sostanza anche sul versante tradizionale la storia, insieme alla natura, spingevano per
una soluzione che tenesse conto soprattutto dell’elemento strategico, cioè la necessità che insieme
all’indipendenza, per la prima volta nella sua storia, il Regno d’Italia ottenesse anche la sicurezza
dei propri confini 66. Allo stesso criterio si sarebbero dovute ispirare le rivendicazioni sulla
Dalmazia; ma ciò sarebbe dipeso soprattutto dall’evoluzione della vicenda della statualità
indipendente dei popoli slavi del sud 67. Balza agli occhi la conformità dei disegni irredentisti con gli
intendimenti del governo italiano. L’unica vera differenza era il futuro della città di Fiume. Sin
dall’ottobre 1914, infatti, essa era stata posta dal governo italiano al di fuori della linea necessaria al
Regno per ottenere la sicurezza strategica a oriente. Per essa, in nome della sua “italianità”, si
sarebbe richiesto allo Stato sotto la cui sovranità sarebbe ricaduta, uno statuto di autonomia 68.

61
Benco, Il Piccolo, cit., p. 215; v. anche Valiani, La dissoluzione, cit., p. 114, n. 79.
62
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 134.
63
I confini naturali d’Italia, memoriale anonimo (ma di Ara e Salata), marzo 1915, ASMAE, CS, b. 221. F. 1326.
64
Ivi, p. 1.
65
Ivi, p. 40.
66
Il tema della nazionalità nel processo di completamento dell’unità nazionale in P. Pastorelli, Il principio di
nazionalità nella politica estera italiana in Id., Dalla prima, cit., pp. 199-225.
67
I confini naturali, cit., pp. 84-85.
68
Su questo v. P. Pastorelli, Fiume e il Patto di Londra in Dalla prima, cit., pp. 44-53, in particolare p. 47.

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10

Salata, però, non fu, come alcuni hanno sostenuto, un «consigliere ascoltato» 69 del governo
italiano nel momento della redazione della lista delle rivendicazioni da presentarsi all’Intesa. Al
contrario, il «consigliere ascoltato» forse fu Teodoro Mayer che, però, utilizzò i materiali
predisposti da Salata per i suoi contatti politici e la propaganda. Senza dubbio a questa capacità di
penetrazione del fondatore de Il Piccolo non fu estranea la sua influenza come uomo dei media 70;
ma anche la sua duratura presenza ai vertici della massoneria italiana 71.
Il legame con Mayer, però, consentì a Salata di inserirsi nei ranghi della classe dirigente
italiana. Quest’ultimo, presentato a Salandra come «un buon patriota […] un po’ leggero», ma con
«grande dimestichezza con le Autorità austriache» 72, fu reclutato, al momento dell’ingresso del
conflitto presso il Segretariato per gli Affari Civili del Comando Supremo. Questo avrebbe dovuto
essere l’organismo responsabile dell’amministrazione provvisoria delle terre liberate dal nemico
grazie alle operazioni militari 73. Per questa ragione gli irredenti, su impulso di Mayer, cercarono di
entrarvi: essi, al momento dell’occupazione, avrebbero potuto rappresentare una classe dirigente
“italiana” alternativa a quella austriaca, ma già radicata nei territori liberati 74.
Mayer fece molte pressioni perché numerosi irredenti fuorusciti fossero inseriti nei ranghi del
Segretariato. Ciò dette l’impressione a Salandra –principale terminale di queste azioni- che l’ex
direttore de Il Piccolo fosse «un po’ troppo preoccupato di avere la haute main a Trieste e di
mettere su soltanto uomini suoi»75. I tentativi di Mayer ebbero un certo successo. Oltre a Salata,
infatti, furono chiamati a far parte di questo organismo figure come Camillo Ara, Cesare Piccoli 76,
Giorgio Pitacco 77. A completare il quadro filo-irredentista assunto dal Segretariato fu il diplomatico
Carlo Galli in qualità di vice segretario generale 78. Questi aveva intrattenuto con Salata ottimi
rapporti quando, all’inizio del 1915, era stato inviato a Trieste con l’incarico di svolgere una
missione per riferire sull’opinione dell’irredentismo croato e sloveno in merito all’eventualità di un

69
G. Stefani, Francesco Salata, «Pagine Istriane», 1° novembre 1950 poi ripreso in maniera diversa da Monteleone, La
politica dei fuoriusciti, cit., p. 56 e Capuzzo, Un Commis d’Etat, cit., p. 248.
70
Un paragone, su questo piano, potrebbe essere fatto con Olindo Malagodi. La sua confidenza con la classe dirigente
italiana è rivelata da O. Malagodi, Conversazioni della guerra 1914-1919, Ricciardi, Milano-Napoli 1960.
71
F. Conti, Storia della massoneria italiana. dal Risorgimento al fascismo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 225; 255.
72
Appunti fatti arrivare da Teodoro Mayer all’on. Salandra, 12 maggio 1915 in Archivio Salandra di Lucera, C-1-7,
Lettere ricevute dall’on. Salandra dal gennaio a tutto maggio 1915, n. 176.
73
Un profilo di questo organismo di nuova istituzione in Capuzzo, Dal nesso asburgico, cit., pp. 16-19.
74
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 140-145.
75
Salandra a Sonnino, 28 maggio 1915, Carteggio 14-16, d. 334; v. anche Martini, Diario, cit., p. 482.
76
Avvocato triestino, dirigente del partito liberal-nazionale.
77
Già deputato al Parlamento di Vienna; v. Pitacco, Passione adriatica, cit.
78
V. Sommella, Un console in trincea. Carlo Galli e la politica estera dell’Italia liberale, Rubbettino, Soveria
Mannelli, p. 261. Segretario Generale era Agostino D’Adamo, la sua nomina in Salandra a Sonnino, 28 maggio 1915,
cit.

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conflitto tra Italia e Austria-Ungheria 79. Tra i due –responsabili all’interno del Segretariato di due
settori diversi: politico Galli, amministrativo Salata- si stabilì un rapporto di amicizia e stima
reciproca che sarebbe durato fino alla fine della vita dell’ex irredento 80. Così il diplomatico
ricordava il collega del Segretariato:
Il Salata è uomo di incomparabile valore. E’ sotto tutti i rispetti di gran lunga superiore ai suoi
conterranei che egli supera per vivacità di ingegno, per vasta cultura, per sicuro senno politico, ma non
possiede ancora sufficiente autorità personale. Molti anzi lo discutono. A torto 81.

Probabilmente l’ex giornalista doveva questa sua mancanza al ruolo assegnatogli che lo
teneva un po’ in ombra: era, infatti, considerato un «mezzemaniche» 82; ma anche al suo carattere
prudente che qualche volta sembrava fargli difettare una dote molto importante per chi aveva scelto
la vita politica: il carisma 83.
Nondimeno, dopo due anni di permanenza nel Segretariato, le cui attività dipesero fortemente
dall’andamento delle operazioni militari, arrivò l’opportunità per emergere nuovamente. La svolte
rappresentate dalla sconfitta di Caporetto, dall’insediamento del governo Orlando, dalla sostituzione
di Cadorna 84 e, sul piano generale, dallo scoppio della rivoluzione bolscevica e dalla pubblicazione
dei quattordici punti di Wilson rappresentarono un tornante decisivo anche per l’impegno di Salata
al Comando Supremo. Il 12 gennaio Salata si trovava a Roma per questioni d’ufficio. Teodoro
Mayer lo convocò proponendogli «in grande segretezza» 85 di redigere un lavoro
serio, non letterario, ma pratico, sui nostri confini orientali, dal punto di vista storico, militare,
etnografico, politico ed amministrativo, prendendo in esame tutte le eventualità massime, minime ed
intermedie 86.

Questo incarico -«da tenersi riservato»- avrebbe consistito nel «mettersi a disposizione del
governo o di singoli suoi membri solo al momento in cui si fiutasse della possibilità di trattative di

79
Ivi, pp. 199-200; C. Galli, Diarii e lettere. Tripoli 1911 Trieste 1918, Sansoni, Firenze 1951, p. 236; Riccardi,
Francesco Salata, cit., pp. 146-148.
80
Cfr. Salata a Galli, 26 ottobre 1943, ASMAE, CS, b. 144, f. 886.
81
Galli, Diarii, cit., p. 310.
82
Salata, Una mia passione, cit. Sulle competenze dell’Ufficio guidato da Salata v. Capuzzo, Un commis d’Etat, cit.,
pp. 248-249.
83
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 138.
84
Su questi avvenimenti v., tra l’altro, l’insostituibile P. Melograni, Storia politica della Grande guerra, Laterza,
Roma-Bari 1969, pp. 389-458; L. Albertini, Venti anni di vita politica, parte seconda, L’Italia nella guerra mondiale,
vol. II, Dalla dichiarazione di guerra alla vigilia di Caporetto (maggio 1915-ottobre 1917), Zanichelli, Bologna 1952,
pp. 590-597 e vol. III, Da Caporetto a Vittorio Veneto (ottobre 1917-novembre 1918), Zanichelli, Bologna 1953, pp. 1-
56; L. Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni dell’Italia con l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Morcelliana,
Brescia 1992, pp. 535-582; D. Veneruso, La Grande Guerra e l’unità nazionale. Il ministero Boselli, SEI, Torino 1996,
pp. 290-388; Dal Piave a Versailles, a cura di D. Burigana e A. Ungari, Stato maggiore dell’Esercito, Roma 2020.
85
Minuta di lettera di Salata a D’Adamo, 13 gennaio 1918, ASMAE, CS, b. 287, f. 2040. Le sottolineature sono nel
testo. V. anche Capuzzo, Un commis d’Etat, cit., pp. 250-251.
86
Salata a D’Adamo, 13 gennaio 1918, cit.

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pace o di nuovi accordi con gli alleati»87. Mayer aveva chiarito non essere una sua iniziativa
personale. La richiesta, infatti, proveniva direttamente «da un ministro di [sua] conoscenza» al
quale questo materiale «sarebbe [stato] molto gradito per non dire indispensabile» 88.
La situazione politica all’interno dell’Intesa, infatti, era mutata in poche settimane. La
rivoluzione russa aveva prodotto uno sbandamento. Una delle prime azioni di natura internazionale
dei bolscevichi era stata la pubblicazione di tutti gli impegni presi dal governo zarista con gli alleati,
tra cui anche il Patto di Londra 89. Da ciò era derivato un progressivo mutamento di accenti nelle
parole dei leader dell’Intesa. Prima il primo ministro britannico, Lloyd George 90 e poi il presidente
USA, Wilson, con i suoi famosi quattordici punti 91 sembravano aver messo in discussione, quasi
definitivamente, le aspettative italiane così come erano state disegnate nel patto di Londra.
L’impressione del governo italiano, in particolare di Sonnino, per tutto ciò, era stata
«penosissima» 92. Il ministro sentiva minacciate quelle promesse acquisizioni che erano state
all’origine della decisione italiana di entrare nel conflitto 93.
Era proprio il ministro degli Esteri, con tutta probabilità, all’origine della richiesta di una
documentazione che fondasse storicamente le aspirazioni italiane alla frontiera nord-orientale 94. Al
di là di ciò, sotto il profilo biografico, per Salata si apriva una stagione che lo avrebbe messo a
contatto direttamente con le esigenze più vitali della politica estera italiana. L’importanza
dell’incarico -nonostante la sorpresa di Salata di vedere la propria vita direttamente influenzata da
grandi eventi della politica internazionale 95- è testimoniata dall’autorizzazione che ricevette dal suo
capo, D’Adamo, a trasferire la sua residenza da Padova, sede del Comando Supremo dopo la ritirata
di Caporetto, a Roma 96.
L’esito del lavoro di Salata fu un lungo memoriale dal titolo Il confine orientale e la
convenzione di Londra 97. In esso, a partire dalle diverse versioni del patto di Londra che erano state

87
Ibidem.
88
Ibidem.
89
Su questo, per tutti, A. Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli, Milano 1968, pp. 83-84.
90
D. Lloyd George, Memorie di guerra, Mondadori, Milano 1938, vol. III, pp. 52-53.
91
Su questo e sul quadro generale della politica americana in quel momento v. J. B. Duroselle, Da Wilson a Roosevelt.
La politica estera degli Stati Uniti dal 1913 al 1945, Cappelli, Bologna 1963, pp. 141-144.
92
Imperiali a Sonnino, 6 gennaio 1918, DDI, serie V, vol. X, d. 37.
93
Sonnino a Imperiali, 8 gennaio 1917, ivi, d. 61. Uno sguardo più complessivo alle scelte del ministro degli Esteri
italiano in L. Riccardi, Sidney Sonnino e la politica estera italiana nell’ultimo anno di guerra: alcuni elementi e
questioni in Dal Piave a Versailles, cit., pp. 321-342.
94
Questa è l’ipotesi che fa Capuzzo, Un Commis d’Etat, cit., p. 251 basandosi anche su S. F. Romano, Liberalnazionali
e democratici sociali di fronte al problema della nazionalità a Trieste nel 1918. Il movimento nazionale a Trieste nella
prima guerra mondiale. Studi e testimonianze, a cura di G. Cervani, Del Bianco, Udine 1968., p. 212.
95
Salata a D’Adamo, 13 gennaio 1918, ASMAE, CS, b. 287, f. 2040.
96
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 175.
97
Manoscritto di Salata, s.d., Il confine orientale e la convenzione di Londra, ASMAE, CS, b. 221, f.1327.

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pubblicate dagli organi di stampa internazionali, si facevano alcune «osservazioni» 98 sulle linee che
si sarebbero dovute difendere in caso della riapertura del negoziato con gli alleati. Quella
«massima» avrebbe dovuto includere Fiume, con Sussak, anche «senza seguire rigorosamente il
confine geografico» 99. Le altre due, evidentemente, avrebbero dovuto essere seguite in caso di
scenario politico avverso. Entrambe rispondevano a due criteri: strategico ed etnico. La «minima»
sarebbe dovuta partire dal Monte Maggiore –elemento strategico considerato imprescindibile- e
scendere seguendo il confine amministrativo tra il distretto di Pisino e quello di Volosca fino a
distaccarsene per toccare il mare sul canale di Fianona 100. La linea «intermedia» invece -sempre
partendo dal Monte Maggiore, anche se da un punto un po’ più a nord- sarebbe arrivata al mare a
metà strada tra Abbazia e Laurana. Le rinunce, comunque, sebbene rappresentassero un
arretramento rispetto al dettato del Patto di Londra, avrebbero favorito una maggiore compattezza
etnica della nuova regione italiana vista l’esclusione dai suoi confini di alcuni comuni a
maggioranza slava 101.
Il lavoro fu evidentemente apprezzato dal terminale politico cui era indirizzato, Sonnino,
tant’è che l’ex giornalista istriano fu indotto da Mayer a trasferirsi definitamente a Roma, sempre
nei ranghi del Segretariato, ma con «incarichi nuovi» 102. Questi consistevano nella produzione
costante di materiale informativo -«per chi Ella sa» 103- su tutte le numerose questioni inerenti al
confine orientale sempre nella prospettiva di un possibile negoziato in materia con i governi alleati.
Ma, probabilmente, sarebbe stato utile a Sonnino anche per avversare quella crescente corrente
dell’opinione pubblica, facente capo al direttore del Corriere della Sera, Albertini, che proponeva
un accordo con le nazionalità slave nella prospettiva della distruzione dell’impero asburgico104.
Questa attività, che proseguì fino alla fine del conflitto, rivelò dunque la capacità di Salata di
fungere da «consulente tecnico» in materie su cui il governo avrebbe dovuto prendere importanti
decisioni politiche. Va tenuto presente, però che l’ «oggettività» 105 di questo lavoro era
completamente ispirata all’ideologia e alla pratica politica liberal-nazionale. E, questo,

98
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 176.
99
Il confine orientale, cit., p. 16. Su Fiume fino alla fine della prima guerra mondiale, tra l’altro v. A. Ercolani, Da
Fiume a Rijeka. Profilo storico-politico dal 1918 al 1947, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 21-76; R. Pupo,
Fiume città di passione, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 3-55.
100
Ivi, p. 18.
101
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 177.
102
Salata a D’Adamo, 3 aprile 1918, ASMAE, CS, b. 266, f. 1785.
103
Mayer a Salata, 31 marzo 1918, ivi.
104
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 181-183. Su questo v., tra l’altro, Valiani, La dissoluzione, cit., pp. 297-384; G.
Salvemini, Il congresso di Roma in Id., Dalla guerra mondiale, cit., pp. 179-182; Albertini, Da Caporetto, cit., pp. 233-
278. Le reazioni di Sonnino anche in Riccardi, Sidney Sonnino e la politica estera italiana nell’ ultimo anno, cit., pp.
335-337.
105
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 180

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probabilmente era parte importante del disegno di Mayer: impedire, per quel che si poteva,
l’affermazione di una politica rinunciataria sostenendo l’azione di Sonnino e, dunque, la
realizzazione dei propositi inscritti nel Patto di Londra.

La conferenza della pace: il «memoriale Barzilai»


I mesi successivi alla fine del conflitto furono densi di «soddisfazioni eccezionali» 106 per
Salata. La permanenza a Roma, infatti, gli consentì una politica di «contatti» 107 che
progressivamente favorirono la sua posizione personale nei confronti dei livelli più alti del governo
e della politica 108. La nomina a vice segretario generale del Segretariato, in realtà sembrò arrivare
tardivamente. L’ex giornalista istriano, infatti, aveva cominciato a percorrere un itinerario che lo
avrebbe portato lontano da un semplice, sebbene di grande rilievo, posto nell’Amministrazione. A
fine anno 1918, infatti, fu nominato dal presidente del Consiglio, Orlando, suo consigliere per le
questioni adriatiche 109. Questo lo spinse, anche per le pressioni che Orlando stesso fece in questo
senso, ad abbandonare definitivamente il Segretariato 110.
Fatto ancor più interessante è che Salata fu l’unico esponente dell’irredentismo ad essere
chiamato a far parte della delegazione italiana in partenza per Parigi per partecipare, dal 18 gennaio
1919, alla Conferenza della pace. Le sue mansioni, però, non avevano carattere diplomatico. Egli
doveva fare ciò che aveva fatto nell’ultimo anno di guerra: produrre materiali fondati storicamente
che potessero sostenere i delegati italiani nelle loro discussioni con i rappresentanti delle altre
potenze vincitrici 111. Questa sua posizione, sebbene secondaria rispetto ai delegati “politici”, lo rese
però il terminale di quell’azione di lobbying che, per tutta la durata della conferenza, fu svolta dagli
irredentisti. Questi, infatti, speravano –forse sopravvalutando il ruolo del loro ex-compagno- di
potersi avvantaggiare della posizione di Salata 112.

106
Ilda Salata a Francesco Salata, 28 dicembre 1918, ASMAE, CS, b. 213, f. 1244.
107
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 187.
108
Cfr. Zupelli a Salata, 21 settembre 1918, ASMAE, CS, b. 247, f. 1608; come anche Salandra a Salata, 20 giugno
1918, ivi, b. 282, f. 1984.
109
Capuzzo, Un Commis d’Etat, cit., p. 256.
110
Il quadro generale della politica estera italiana nel periodo tra la fine delle ostilità e l’inizio della Conferenza della
pace in M. G. Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della
grande guerra, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981.
111
Sulla conferenza della pace, il cui andamento non possiamo approfondire v., per tutti, i recenti G. Bernardini, Parigi
1919. La Conferenza di pace, il Mulino, Bologna 2019; P. Soave, Una vittoria mutilata?. L’Italia e la Conferenza di
Pace di Parigi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020; a entrambi si rinvia per la monumentale bibliografia.
112
Alcuni esempi, in merito alla sorte della Dalmazia, in Ghiglianovich a Salata 10 gennaio 1919, ASMAE, CS, b. 231,
f. 1434 e Linee di Confine, promemoria di Ghiglianovich, 7 febbraio 1919, ivi, b. 226, f. 1384.

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Va detto che la sua attitudine verso l’Adriatico non lo rese popolare presso gli irredentisti di
altri territori ex-asburgici. Ettore Tolomei, leader degli italiani di Alto Adige, anche lui presente a
Parigi per esercitare pressioni sulla delegazione italiana, ricordava:
V’è Salata, che delle cose adriatiche si occupa, le altre ripone elegantemente in teche. La questione
dell’Alto Adige non la conosce e non la sente. Proviene, come si vede, dagli uffici di D’Adamo. La spirituale
arguzia mascherando il difetto di spina dorsale, oppone alle volontà fattive maggiore ostacolo che non
farebbe un aperto diniego 113.

In qualsiasi modo, comunque, la sua azione si inserì in un momento assai difficile per la
politica estera italiana. E’ stato molto ben scritto:
Alla Conferenza della pace di Parigi, quindi, francesi e britannici decisero di ridiscutere e di
rinegoziare quanto previsto dal patto di Londra, ritenendo che le condizioni internazionali fossero talmente
mutate con la fine della guerra da rendere il trattato superato114.

Ad aggravare questo stato di cose vi era anche la posizione americana incardinata nel nono
punto del famoso documento di Wilson. Lì si negava l’opportunità di concedere all’ Italia il confine
strategico, soprattutto in Venezia Giulia. La diplomazia di Washington, infatti avrebbe optato per
«una rettifica […] secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili» 115.
Salata, dunque, fu coinvolto in una serie di riunioni “tecniche” attraverso cui si sarebbe
dovuta definire la posizione italiana da contrapporre a quella degli alleati. Dal 25 gennaio 1919 fu
affiancato al delegato Salvatore Barzilai. Questi -repubblicano di origini triestine già ministro nel
gabinetto Salandra, «esule irredento, interlocutore preferito dell’emigrazione adriatica e portavoce
specifico degli interessi triestini 116- era stato invitato da Orlando di redigere un memoriale
concernente le rivendicazioni territoriali italiane 117. Indubbiamente questo fu l’incarico più
importante che ricevette in quella circostanza. Il 7 febbraio, quando fu completato il lavoro, ne
emerse un’approfondita analisi delle questioni di natura storica, etnica e strategica che erano alla
base delle aspirazioni italiane. Talmente ben fatto, sostenne Salandra, altro delegato italiano alla

113
E. Tolomei, Memorie di vita., Garzanti, Milano 1948, p. 405. Sulla figura di Tolomei v., Un nazionalista di confine.
Die Grenzen des Nationalismus, a cura di S. Benvenuti e C.H. von Hartungen, Museo storico di Trento, Trento1998; v.
anche M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Laterza, Roma-Bari 1968 [1° ed. 1967], pp. 64-
65.
114
Monzali, Gli italiani di Dalmazia, cit., p. 136.
115
Punto IX dei Quattordici Punti di Wilson.
116
Pupo, Fiume, cit., p. 58.
117
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 194. Soave, Una vittoria mutilata?, cit., p. 82. Sul ruolo che Barzilai ebbe in quel
frangente v. V. E. Orlando, Memorie (1915-1918), cura di R. Mosca, Rizzoli, Milano 1960, p. 380; S. Barzilai, Luci e
ombre del passato. Memorie di vita politica, Treves, Milano 1937, p. 192; E. Falco, Salvatore Barzilai. Un
repubblicano moderno tra massoneria e irredentismo, Bonacci, Roma 1996, p. 262.

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16

Conferenza della Pace, che pur essendo stato attribuito a Barzilai, era evidente che il vero autore
della «memoria» era Salata 118.
Il contenuto, infatti, lasciava trasparire in maniera abbastanza evidente l’impronta politico-
ideologica dei liberal-nazionali del Litorale asburgico. Il primo obiettivo del lavoro dell’ex deputato
istriano fu quello di dimostrare come nelle aspirazioni dell’Italia non vi fosse alcuna traccia di
imperialismo. Questa accusa era stata formulata a causa dell’inserimento «di un certo numero di
cittadini di lingua e di origine diversa dalla nostra [italiana]» 119. Il testo, notava, però, che questo
«fenomeno» era comune anche alle altre potenze vincitrici che si erano viste attribuire annessioni;
ma, per ciò che riguardava l’Italia, in misura assai minore: solo il 3,53% del totale della
popolazione. Ben altre dimensioni raggiungevano la Polonia (41.4%), la Cecoslovacchia (30.07%),
la Romania (17.75%) e la Jugoslavia (11.01%). Anche la stessa Francia, sebbene su una scala ben
più contenuta, si sarebbe ritrovata con un 4.11% di popolazioni alloglotte 120.
Per ciò che riguardava il confine orientale, il memoriale ribadiva le richieste inscritte nel patto
di Londra aggiungendovi, però la città e il distretto di Fiume. La nascita dello Stato degli slavi del
sud indipendente e unitario, infatti, aveva mutato profondamente la questione dell’egemonia italiana
sull’Adriatico; e con essa i rapporti con la nuova Jugoslavia 121. Le motivazioni della richiesta, oltre
che strategiche, erano di natura storico-culturale. Erano, quelle, terre dove «ad ogni passo dal mare
dal monte, i segni di Roma e di S. Marco si accorda[vano] ancor sempre con la vita della
popolazione». Il cui «spirito e costumi» erano «prevalentemente italiani». La presenza di elementi
estranei alla tradizione italiana era dovuta a «infiltrazioni straniere» che ne avevano «screziato la
composizione etnica» 122.
Ritornava con forza il tema della prevalenza culturale italiana nella Venezia Giulia fondata
sulle origini storiche. Era questo il sottofondo su cui si era basata la politica liberal-nazionale nei
confronti degli slavi negli anni dell’impero: la sostanziale assimilazione progressiva che era
avvenuta di questi ultimi all’elemento italiano, più forte culturalmente e più evoluto

118
A. Salandra, I retroscena di Versailles, a cura di G. B. Gifuni, Pan, Milano 1971, p. 70. Il testo è Le rivendicazioni
dell’Italia sulle Alpi e nell’Adriatico, ASMAE, CS, b. 246, f. 1595; v. anche Les revendications de l’Italie sur les Alpes
e dans l’Adriatique, s.d., DDI, serie VI, vol. II, dd. 574; 787. Su questo v. anche Monzali, Gli italiani di Dalmazia, cit.,
p. 138; M. Cattaruzza, L’Italia e la questione adriatica. Dibattiti parlamentari e panorama internazionale (1918-1926),
il Mulino, Bologna 2014, p. 35. Non concorda R. Pupo,: «[Era] Barzilai il vero esperto delle questioni giuliane, [fu] alla
sua penna che si [dovette] largamente la memoria italiana», Id., Fiume, cit., p. 58.
119
Le rivendicazioni dell’Italia, cit., p. 1.
120
ASMAE, CS, b. 250, f. 1646.
121
Un punto di osservazione di parte jugoslava in I.J. Lederer, La Jugoslavia dalla Conferenza della Pace al Trattato
di Rapallo, Il Saggiatore, Milano 1966, in particolare, tra l’altro, le pp. 99-103.Sui precedenti v. V. G. Pavlović, De la
Serbie vers la Yougoslavie. La France e la naissance de la Yougoslavie 1878-1918, Institute des Etude Balkanique,
Belgrado 2015.
122
Le rivendicazioni dell’Italia, cit., p. 4.

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economicamente e socialmente. La fucina di questo processo erano stati i «centri abitati costieri» 123.
Questi, infatti, avevano dominato «la vita morale e materiale di tutta la regione [la Venezia
Giulia]». Dunque
[…] non può essere riconosciuto se non all’Italia il possesso totale della regione non solo per le
ragioni superiori della sua difesa orientale, della storia, della civiltà, ma anche più propriamente per le leggi
dell’economia del paese e per il benessere stesso della sua popolazione senza differenza di nazionalità124.

E’ sicuramente da attribuire a Salata la valorizzazione dell’impegno politico che gli italiani


d’Istria riversarono nelle Diete provinciali. Questi organismi, infatti, erano stati caratterizzati dalla
presenza maggioritaria di deputati italiani. La loro storia, dove si era formata la capacità
amministrativa della classe dirigente di lingua italiana del Litorale austriaco, era da ritenersi
assolutamente rappresentativa della realtà socio-politica della regione. Essa dimostrava che
[…] o gli italiani [erano], contro le statistiche ufficiali, la grandissima maggioranza della popolazione,
oppure che parte notevole degli slavi, malgrado le pressioni governative e le agitazioni avversarie,
riconosce[va] la superiorità italiana, la necessità e l’utilità della convivenza con l’elemento italiano, ne
parla[va] la lingua e ne accetta[va] il programma politico del quale mai gli italiani [avevano] fatto mistero
neppure nel campo amministrativo 125.

Ragionamento indubbiamente capzioso, ma che aveva per obiettivo di mostrare come anche
l’annessione di popolazioni slave non avrebbe prodotto una situazione di dominio etnico di una
minoranza su una maggioranza.
Il sostegno alle tesi integraliste di Sonnino si vedeva anche per come il memoriale trattava la
questione della Dalmazia. Gli estensori del documento, infatti, richiedevano un mutamento del
confine meridionale indicato dal Patto di Londra. Da Capo Planka, infatti si sarebbe dovuto arrivare
a includere anche la città di Spalato «organo vitale dell’economia del resto della Dalmazia già
assegnato all’Italia» 126. Questo allargamento, il cui conseguimento appariva assolutamente
improbabile, era stato voluto probabilmente dagli estensori per «riservarsi una certa flessibilità sulla
questione dalmata per rafforzare la propria posizione su Fiume» 127. Naturalmente la paternità
politica di questo documento, come quella dei molti altri predisposti nelle settimane successive a
sostegno delle tesi italiane, non era di Salata 128. Nondimeno questi poté influenzare con la sua
cultura e le sue esperienze politiche le posizioni negoziali della delegazione italiana. E’ stata
menzionata supra 129 la corrispondenza tra l’esponente irredentista dalmata Roberto Ghiglianovich e

123
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 196.
124
Le rivendicazioni dell’Italia, cit. p. 5.
125
Ivi, p. 6.
126
Ivi, p. 7.
127
Soave, Una vittoria mutilata?, cit., p. 82.
128
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 197-203.
129
V. supra, n. 112.

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Salata stesso. Senza dubbio il suo contenuto, quantomeno in parte, si riversò nel «memoriale
Barzilai» quanto anche in tutti i lavori che in seguito l’ex deputato istriano eseguì per Orlando e
Sonnino. Questa, forse, è la testimonianza più convincente che l’impegno di Salata andò ben oltre la
«preziosa collaborazione» 130 con Barzilai. Il memorandum fu «preparato in effetti da Francesco
Salata» 131. Al di là della collaborazione con Barzilai, dunque, Salata fu utilizzato dal presidente del
Consiglio per la preparazione anche di altri materiali relativi al negoziato sulla questione
adriatica 132. Questo fu il principale contributo che questi dette a quella che è stata chiamata «la
difesa della Vittoria» 133.
In quanto semplice addetto alla delegazione italiana a Parigi, l’ex deputato istriano ne seguì le
difficili sorti. Il 27 aprile 1919, al momento della decisione di Orlando di abbandonare i colloqui,
partecipò, sulla via di Roma, a numerosi colloqui di natura politica con il presidente del Consiglio,
A questi, secondo Attilio Tamaro, Salata avrebbe consigliato di presentarsi al Parlamento
dimissionario; poi, dopo il voto favorevole dell’assemblea, avviare la sua sostituzione con
Scialoja 134. Ma questo era solo un pourparler in un drammatico momento politico in cui, con tutta
evidenza, Salata avrebbe potuto avere solo un ruolo di spettatore privilegiato.
Nel complesso, con il passare degli anni, la storiografia italiana, meno attratta politicamente
dalle questioni di ordine nazionale, ha criticato alquanto aspramente la “visione” con cui il governo
italiano operò nel corso della Conferenza di Parigi. Pupo, ad esempio, in essa ravvisa
[…] la conferma della contraddizione fondamentale della politica estera del regno sabaudo, che a
parole aspira[va] al rango di grande potenza ma alla prova dei fatti rifugg[iva] da ogni responsabilità globale
e si comporta[va] allo stesso modo delle nuove e grintose medie potenze dell’Europa orientale e balcanica
che sgomita[vano] per accaparrarsi fazzoletti di terra ed ogni problema riconduc[evano] alla dimensione dei
propri contenziosi 135.

Fatto salvo il fatto che «il confine nord-orientale e la questione adriatica» 136 fossero le
«priorità italiane» in quella fase di trattative, questa interpretazione, con qualche nuance, non ha
incontrato un consenso unanime. Sia riguardo la costituzione della Società delle Nazioni, creatura

130
Barzilai, Luci e ombre, cit., p. 192.
131
Pastorelli, La politica estera italiana, cit., p. 77.
132
Un esempio in Relazione del presidente del Consiglio, Orlando, 14 aprile 1919, DDI, serie VI, d. 195.
133
G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista, Laterza, Roma-Bari 1968, p. 5
134
A. Tamaro, Vent’anni di storia 1922-1943, Tiber, Roma 1953, p. 51. Sull’attendibilità di questa ricostruzione
dissente R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, 3 voll., il
Mulino, Bologna 1991-2012, vol. I, p. 415, n. 180.
135
Pupo, Fiume, cit., p. 58.
136
Soave, Una vittoria mutilata?», cit., p.77.

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prediletta del presidente Wilson 137; come anche proprio verso i Paesi di quell’Europa orientale
menzionata come paragone alla politica dell’Italia stessa 138.
La nomina di Francesco Salata a prefetto del Regno, comunque, avvenuta proprio poche
settimane prima, nel corso delle discussioni parigine, lo inserì stabilmente nell’amministrazione
italiana. Ciò gli dava una qualche certezza economica 139 evitando così di vedere le proprie sorti
personali e familiari completamente dipendenti dalle mutevolezze della politica. Ma sarebbe stata
proprio quest’ultima a determinare le svolte successive della sua vita. La crisi del gabinetto Orlando
e la successione a Nitti, paradossalmente, gli avrebbero consentito di operare nuovamente nel
campo dell’azione internazionale dell’Italia.

Con Nitti: l’Ufficio Centrale per le Nuove Provincie


L’avvento di Francesco Saverio Nitti alla presidenza del Consiglio rappresentò una svolta per
la politica italiana. Arrivava al potere, infatti, uno degli oppositori storici di Sonnino: «Io
rappresentavo», ha scritto lo statista lucano nelle sue memorie, «proprio il contrario di ciò che si era
contato di fare con l’azione italiana» 140. Per giunta alla guida della Consulta fu chiamato un altro
«anti-sonniniano» storico: Tommaso Tittoni 141 Anche sul piano del governo delle terre irredente
l’arrivo di Nitti al governo rappresentò un tornante decisivo. Il 4 luglio 1919, infatti, fu decretata la
nascita dell’Ufficio Centrale per le Nuove Provincie. A questo nuovo organismo
dell’Amministrazione centrale era demandato il compito –in collegamento con il Commissari
generali civili delle singole province e coadiuvato da Commissioni Consultive regionali e
centrale 142- di “governare” il passaggio all’Italia delle regioni e popolazioni che erano state
sottoposte alla sovranità asburgica 143. Esso avrebbe dovuto gestire il passaggio

137
I. Garzia, L’Italia e le origini della Società delle Nazioni, Bonacci, Roma 1995
138
F. Caccamo, L’Italia e la «nuova Europa». Il confronto sull’Europa orientale alla conferenza di pace di Parigi
(1919-1920), Luni, Milano 2000.
139
Il decreto di nomina è in ASMAE, CS, b. 196, f. 1094.
140
F. S. Nitti, Rivelazioni. Dramatis Personae, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1948, p. 531; sull’avvento del
governo Nitti v. Vivarelli, Storia delle origini, vol. I, pp. 460-470; v. sul personaggio v. F. Barbagallo, Francesco S.
Nitti, UTET, Torino 1984; sulla politica estera italiana nel periodo v. L. Micheletta, Italia e Gran Bretagna nel primo
dopoguerra, Jouvence, Roma 1997, pp. 19-21; sempre sulla politica estera di Nitti v. E. Serra, Nitti e la Russia, Dedalo,
Bari 1975; P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli, Milano 1959; F. Canale Cama. Quella pace
che non si fece. Francesco Saverio Nitti e la pace tra Europa e Mediterraneo (1919-1922), Rubbettino, Soveria
Mannelli 2020.
141
Su Tittoni v. F. Tommasini, L’Italia alla vigilia della guerra. La politica estera di Tommaso Tittoni, 5 voll.,
Zanichelli, Bologna 1934-1941.
142
Capuzzo, Dal nesso asburgico, cit., p. 77.
143
Sui problemi dell’occupazione nel Trentino, Sud Tirolo, Venezia Giulia e Dalmazia v. A. Di Michele, L’Italia in
Austria; da Vienna a Trento e R. Pupo, Attorno all’Adriatico: Venezia Giulia, Fiume e Dalmazia in La vittoria senza
pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, a cura di R. Pupo, Laterza, Roma-Bari 2014, pp.

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dall’amministrazione militare del Segretariato a quella civile. Alla sua creazione dette un contributo
determinante lo stesso Salata che, nel mese di ottobre 1918, era stato incaricato da Orlando di
cominciare a disegnarne il profilo politico-giuridico 144. Da questo studio preliminare, realizzato in
collaborazione con Carlo Galli, Camillo Ara ed Enrico Palmieri 145 venne tratto il testo del decreto
istitutivo del nuovo organismo 146. Francesco Salata -pur provenendo dall’entourage dei «nemici»
Orlando e, soprattutto, Sonnino- fu chiamato alla guida dell’Ufficio Centrale. Le motivazioni di
questa decisione di Nitti possono essere senz’altro individuate nelle conoscenze ambientali e
tecniche dell’ex-irredento. Il suo scarso peso politico, in aggiunta, era una garanzia di affidabilità e
dipendenza dal governo in carica. Salata, infatti, aveva ormai assunto il profilo di alto burocrate,
ligio alle disposizioni del vertice politico, indipendentemente dal suo colore parlamentare 147.
L’istituzione di questa nuova branca dell’Amministrazione, la cui azione di natura interna
esula dal nostro studio, però, merita qualche osservazione. La prima è senz’altro lo spirito con cui
Salata intese informare il suo lavoro. Esso lo spingeva a ritenere «una necessità assoluta» 148 il
rispetto della tradizione autonomistica che questi territori avevano sperimentato sotto
l’amministrazione asburgica. Le nuove province non potevano essere “invase”; bensì andava
adattata la loro cornice legislativa a quella del Regno; e questa sintesi tra passato asburgico e
presente italiano avrebbe prodotto «molti istituti politici e sociali» che avrebbe potuto divenire un
«utile studio sperimentale per riforme nel Regno» 149. In buona sostanza il presidente del Consiglio
riteneva di volere
mostrare coi fatti ai nostri nuovi concittadini che contro ogni tendenza livellatrice o assorbente,
l’Italia intende sì di risolvere sollecitamente e razionalmente i loro problemi e di attuare un organico
programma di azione civile, amministrativa ed economica; ma che vuole anche rispettare le loro leggi, le
loro condizioni speciali, i loro usi, le loro tradizioni 150.

Un programma nazionale sì, ma anche fortemente venato di liberalismo. Questo era l’intento
con cui Nitti aveva inteso dare vita a questa nuova struttura politico-amministrativa che avrebbe
dovuto rispondere a criteri di efficienza burocratica in linea con i suoi propositi politici generali; ma
–in sintonia con il pensiero di Salata- anche rappresentare lo strumento per realizzare un’annessione

3-160; v. anche A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia 1918-1919,
LEG, Gorizia 2000.
144
F. Salata, Per le Nuove Provincie e per l’Italia. Discorsi e scritti con note e documenti, Stabilimento per
l’Amministrazione della Guerra, Roma 1922, p. 358; Capuzzo, Dal nesso asburgico, cit., pp. 76-77.
145
Quest’ultimo era un collaboratore del Segretariato.
146
Cfr. Decreto Luogotenenziale n. 1081, 4 luglio 1919, col quale è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri un Ufficio Centrale per le Nuove Provincie del Regno, G.U., 7 luglio 1919. Su lavoro di Salata per predisporre
il decreto v. Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 209-214.
147
Riccardi, ivi, p. 214.
148
Appunti illustrativi, s.d., di Salata, ASMAE, CS, b. 268, f. 1896.
149
Ivi, p. 5.
150
Circolare del PCM, 26 luglio 1919 in Salata, Per le Nuove Provincie, cit., pp. 285-287.

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«democratica» e non quello di un «ufficio che amministra delle Colonie» 151. In conclusione l’azione
legislativa e amministrativa si sarebbe dovuta orientare seguendo la prassi di «essere persuasi che
quello che si vuole sostituire è migliore di quello che si abolisce» 152.

Salata e la questione di Fiume: missione ad Abbazia


La nomina alla guida dell’Ufficio Centrale per le Nuove Provincie, però, non consegnò Salata
soltanto a un’attività di «mezzemaniche», sebbene di grado elevato. La competenza che aveva
mostrato nel corso dei mesi trascorsi a Parigi risultò immediatamente utile al nuovo governo. Nei
primi giorni del mese di giugno del 1919 il negoziato adriatico era continuato senza alcun esito. La
proposta dell’eventuale creazione di uno Stato libero di Fiume si era arenata sull’incompatibilità
delle rispettive posizioni sui suoi confini 153.
Dopo la pausa della firma del trattato di pace con la Germania e la caduta del gabinetto
Orlando, Tittoni intendeva riprendere l’iniziativa sul tema dell’Adriatico su basi diverse:
«dissipazione delle illusorie speranze di piegare gli alleati ad accettare il programma integrale delle
nostre rivendicazioni» 154. Nitti, per giunta, sottolineava la responsabilità del precedente esecutivo
nella creazione di una situazione politicamente molto complicata 155. Tittoni, dunque, si mise al
lavoro per elaborare una proposta che, seppur difendendo gli interessi italiani, potesse incontrare il
consenso degli alleati. Il 14 luglio richiese la collaborazione di Salata 156. Nonostante le resistenze
manifestate dall’ex irredento a causa della necessità di dedicarsi con continuità al lavoro
dell’Ufficio Centrale 157, il viaggio fu ritenuto indispensabile 158.
Appena arrivato a Parigi, il 17 luglio gli fu immediatamente affidata la responsabilità di
preparare un progetto per la costituzione dello Stato libero di Fiume 159. Il progetto prevedeva un
ridimensionamento delle dimensioni dello Stato libero di Fiume, soprattutto per ciò che riguardava
l’Istria orientale; ma soprattutto – e qui si vedeva la mano di Salata- si faceva presente come l’isola

151
Verbale della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’ordinamento delle amministrazioni di Stato e sulle
condizioni del personale. Audizione del sen. Francesco Salata, 14 luglio 1921, ASMAE, CS., b. 267, f. 1812, p. 5.
152
Ivi, p. 8.
153
Cfr. Clemenceau, Lloyd George, Wilson a Orlando, 7 giugno 1919 e Orlando a Clemenceau, Lloyd George, Wilson,
9 giugno 1919, DDI, serie VI, dd. 737, 753; L. Aldrovandi Marescotti, Nuovi ricordi e frammenti di diario per far
seguito a Guerra diplomatica (1914-1919), Mondadori, Milano 1938, pp. 55-57; Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 37-
38; Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 222.
154
Alatri, ivi, p. 80.
155
Ibidem. Cfr., Canale Cama, Quella pace, cit., p. 30.
156
Nitti a Salata, tel 4043, s.d. (ma è il 14 luglio 1919), ASMAE, CS, b. 193, f. 1069.
157
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 223.
158
Flores alla prefettura di Padova, 16 luglio 1919, ASMAE, CS, b. 193, f. 1066.
159
Progetto per lo Stato libero di Fiume redatto da Salata per incarico di Tittoni e Scialoja, 17 luglio 1919, all. a DDI,
serie VI, vol. IV. d.138. Vittorio Scialoja, dopo la fine del gabinetto di Orlando, era stato nominato delegato presso alla
Conferenza della pace.

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di Cherso avrebbe dovuto essere assegnata al Regno «formando con Lussin un tutto geografico con
l’Istria, [era] parte integrante indispensabile del sistema economico e strategico di Pola» 160. La
proiezione adriatica per Fiume sarebbe stata garantita dal possesso di isole come Veglia e «al caso»
Arbe. Oltre alla «neutralizzazione» dell’«immaginario» 161 Stato di Fiume, Salata affrontò il tema
della struttura del governo fiumano all’interno della quale avrebbe dovuto essere garantita la
maggioranza all’elemento italiano 162. Sulla base di questo piano venne affrontata la trattativa con
gli alleati che, alla fine di agosto, anche dopo la presentazione di un’ulteriore proposta italiana,
approdò a un esito negativo 163. Nello stesso periodo Salata, tra Parigi e Roma, fu utilizzato come
consulente su altre questioni di natura adriatica sulle quali Tittoni era non poco in difficoltà 164.
La questione di Fiume –che qui naturalmente non possiamo affrontare- monopolizzò, nei
mesi successivi, la politica del governo italiano. L’occupazione che D’Annunzio fece della città, il
12 settembre 1919, fu un vero terremoto sia sul versante interno quanto su quello internazionale165.
Questi eventi coinvolsero anche Salata nella sua qualità di responsabile dell’Ufficio Centrale delle
Nuove Provincie e principale consulente del governo nelle questioni inerenti l’Adriatico. Fino
all’occupazione l’ex-irredento era stato impegnato soprattutto per ciò che riguardava la soluzione
del problema della valuta che circolava nell’ex città portuale ungherese 166.
All’inizio di ottobre fu chiamato da Nitti affinché si occupasse anche del versante politico. Fu
incaricato di una missione in cui avrebbe dovuto –previo un aggiornamento sulla situazione da farsi
con il generale Badoglio- prendere «contatto con i principali cittadini di Fiume» avvalendosi
«dell’intima amicizia che a molti di essi lo lega[va] e dell’influenza personale che [avrebbe potuto]

160
Ibidem. E aggiungeva: «A Cherso come a Lussin tutte le amministrazioni comunali furono sempre […] in mano
degli italiani.
161
Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., p. 36.
162
Ibidem. Orlando, in precedenza, per cercare di sbloccare il negoziato con i francesi, aveva accettato che il quinto
rappresentante fosse espresso da tutto lo Stato di Fiume dove la maggioranza della popolazione era di origine slava, cfr.
S. Crespi, Alla difesa d’Italia in guerra e a Versailles (Diario 1917/1919), Mondadori, Milano 1937, pp. 613-614.
163
Il negoziato in Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., pp. 33-37
164
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 226-227.
165
Su Fiume v., tra l’altro, F. Gerra, L’impresa di Fiume, 2 voll., Longanesi, Milano 1974; R. De Felice, Mussolini il
rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino 1965; M. A. Leeden, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Roma-Bari, 1975; N.
Valeri, Da Giolitti a Mussolini, Garzanti, Milano 1967; N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, UTET,
Torino 1995, pp. 192-200; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007, pp. 147-
159; Ead., L’Italia e la questione adriatica, cit., pp. 61-101; Pupo, Fiume, Laterza, cit., pp. 86-146; i primi riflessi
internazionali in Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., pp. 45-52; Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 185-354; Nitti,
Rivelazioni, cit., pp. 326-341; P. Badoglio, Rivelazioni su Fiume, Donatello De Luigi, Roma 1946; sulla successiva
costituzione della Reggenza del Carnaro, La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di Gabriele
D’Annunzio, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1973.
166
Cfr. Regolazione della valuta austro-ungarica nella Venezia Giulia e nella Venezia Tridentina. Controprogetto, s.d.
(ma è dell’ottobre 1919), ASMAE, CS, b. 238, f. 1514; il ruolo di Salata in Comunicato, ivi, b. 193, f. 1072; v. anche
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 235-237.

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esercitare su di loro» 167. Egli, continuava il presidente del Consiglio comunicando l’arrivo di Salata
al Comando Supremo di Udine, aveva «eccezionale competenza in quanto riguarda[va] la questione
di Fiume» 168; oltre essere persona di sua fiducia, al corrente di tutti i dettagli della spinosa
controversia 169.
La base diplomatica su cui Salata avrebbe dovuto fondare la propria azione era stata
concordata in una riunione tra Nitti e Tittoni. Questa sarebbe stata la linea del governo italiano:
I – In nessun caso Fiume sar[ebbe stata] più jugoslava
II – La continuità del territorio [sarebbe stata] assicurata dallo stato cuscinetto
III – La citta di Fiume o [sarebbe stata] italiana o [sarebbe stata] libera con statuto speciale che
[avrebbe dato] poteri e garanzie maggiori di quelle di Maria Teresa 170.

Con questo viatico, accompagnato dal generale Grazioli, personalità alquanto gradita ai
fiumani per il suo recente passato 171. Arrivato a Udine, il 3 ottobre, si riunirono immediatamente
con Badoglio per elaborare una strategia comune. «L’accordo fra i tre fu completo» 172 anche se il
generale piemontese, che era Commissario straordinario militare straordinario della Venezia Giulia,
non nascose qualche fastidio verso il «moltiplicare di questi invii» di personalità da Roma. Egli,
infatti, intravedeva il rischio che queste «interferenze e inframettenze» potessero danneggiare la sua
opera e, in definitiva, l’esclusività del suo ruolo 173.
Nondimeno Salata cominciò la sua missione. Si spostò immediatamente a Trieste dove
incontrò il Commissario generale civile, Augusto Ciuffelli. Dal colloquio con questi trasse
un’impressione ottimistica: «l’ambiente [andava] orientandosi verso [una] soluzione
transazionale» 174. Il 4 ottobre arrivò ad Abbazia. Incontrò l’ultimo deputato di Fiume al parlamento
ungherese, Andrea Ossoinak, prima a quattr’occhi, poi in compagnia del sindaco della città,
Antonio Vio. A questi presentò il piano del governo riguardo alla creazione di uno Stato libero in
cui l’influenza italiana fosse stata garantita; oltre alle necessarie concessioni in materia di
autonomia per l’agglomerato urbano, riconoscendovi così la prevalenza italiana 175. I due,

167
Nitti a Badoglio, 2 ottobre 1919 in Badoglio, Rivelazioni, cit., p. 193; v. anche Nitti a Badoglio, 2 ottobre 1919, DDI,
serie VI, vol. IV, d. 528.
168
Ibidem.
169
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 237.
170
Appunto manoscritto in ASMAE, CS, b. 270, f. 1848; v. anche Nitti a Badoglio, 30 settembre 1919 in Badoglio,
Rivelazioni, cit., pp. 186-187.
171
Era stato comandante del Corpo di occupazione interalleato di Fiume fino alla spedizione dannunziana, v. L. E.
Longo, Francesco Saverio Grazioli, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1989, in particolare le pp. 221-301.
172
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 250. Questo era anche l’esplicita volontà di Nitti, v. Nitti a Badoglio, 4 ottobre
1919, DDI, serie VI, d. 544.
173
Cfr., Badoglio, Rivelazioni, cit., p. 66; Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 251.
174
Tel. di Salata a Nitti, 4 ottobre 1919, ASMAE, CS, b. 244, f. 1576.
175
Tel. di Salata a Nitti, 4 ottobre 1919, ivi.

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naturalmente, si dissero indisponibili a negoziare senza l’avallo di D’Annunzio 176. Anche se non
nascosero la loro apertura a «discutere accademicamente e segretamente proposte nell’intesa che
quando risultassero accettabili si sarebbe da loro cercato [il] modo [di] proporre [un] quesito a
D’Annunzio» 177.
Raccolta questa parziale disponibilità, Salata avrebbe dovuto affrontare lo scoglio più
importante: l’incontro con il capo di gabinetto del Comandante, il suo vecchio conoscente Giovanni
Giuriati. Questi, esplicitamente autorizzato dal suo capo 178, arrivò ad Abbazia il 5 ottobre. Non è
improbabile che, di fonte a un rifiuto del maggiore Giuriati di avviare trattative, il governo si
sarebbe orientato verso un tentativo di dividere i fiumani da D’Annunzio provando ad attirarne
alcuni in una trattativa segreta 179. Tutto, dunque, dipendeva dall’atteggiamento che avrebbe assunto
il rappresentante dei legionari.
Il colloquio ebbe luogo la mattina del 5 ottobre. Giuriati, nei suoi ricordi 180, racconta che
Salata avrebbe ammesso che la marcia su Fiume aveva raggiunto qualche obiettivo, tra cui quello di
far accettare agli alleati il riesame della questione: «ma non bisognava voler stravincere. Né Wilson,
né gli alleati avrebbero mai consentito all’annessione»; e, dunque, sarebbe stato opportuno «studiare
una soluzione di compromesso» 181. A questo fine mostrò al suo interlocutore quello che poi questi
avrebbe chiamato «il progetto Salata». Giuriati lo percepì come la formazione di uno Stato
indipendente organizzato come una federazione di quattro mini-stati. Era questa, in effetti, la
proposta del governo di Roma dove si sarebbe voluto “distrettualizzare” lo Stato libero di Fiume per
salvaguardare la presenza italiana nelle parti dell’ex corpus separatum in cui essa era prevalente.
L’intento politico, dunque, era quello di trovare un compromesso tra l’annessionismo dannunziano
e il proposito degli alleati, animato da Wilson, di danneggiare la Jugoslavia 182. Secondo i suoi
ricordi il «maggiore» avrebbe sdegnosamente rifiutato sostenendo come la politica di D’Annunzio
aveva come obiettivi «il riesame totale della questione adriatica», che comprendeva anche la
Dalmazia, e «l’abbattimento di Nitti»183.
In realtà l’andamento dell’incontro fu più articolato. Giuriati si era presentato ad Abbazia
esordendo con le parole di stima che D’Annunzio aveva pronunciato sulla persona di Salata

176
Ibidem; v. anche Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 260.
177
Salata a Nitti, 4 ottobre 1919, cit.;
178
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 260.
179
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 239.
180
G. Giuriati, Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Sansoni, Firenze 1954, pp. 90-91.
181
Ivi, p. 90.
182
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 240.
183
Giuriati, Con D’Annunzio, cit., p. 91.

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autorizzando così il colloquio tra i due 184. Di fronte a un’esplicita richiesta dell’inviato di Nitti, il
capo di gabinetto si era detto disposto a chiedere al Comandante di «tollerare» che i rappresentanti
del Consiglio Nazionale di Fiume avviassero contatti diretti con il governo di Roma, purché i loro
esiti fossero sottoposti alla sua «approvazione». A questo punto Salata avrebbe sottoposto
all’interlocutore il suo progetto sulla sistemazione di Fiume. Giuriati –contrariamente a quanto ha
lasciato scritto- manifestò «evidente favorevole impressione», anche se –un po’
contraddittoriamente- mantenne ferma la pregiudiziale dell’annessione di Fiume all’Italia. Il
processo di riavvicinamento avrebbe dovuto essere guidato degli esponenti del Consiglio Nazionale
il quale se ne sarebbe assunto la responsabilità politica. Naturalmente il progetto sarebbe stato
dichiarato «accettabile» solo dopo un «doveroso omaggio» alle opinioni di D’Annunzio 185.
D’Annunzio fu, però, irremovibile. A Giuriati disse di non voler consentire alcuna trattativa
diretta tra i fiumani e il governo italiano 186. Il capo di Gabinetto tornò ad Abbazia il 6 ottobre per
riferirne a Salata. Questi disse che, in questa maniera, D’Annunzio avrebbe dovuto negoziare
direttamente con Roma. Giuriati replicò che il Comandante avrebbe detto: «Con Nitti non tratto».
Fu questa espressione, probabilmente, ad attenuare –e di molto- il forse eccessivo ottimismo con cui
il presidente del Consiglio aveva accolto le notizie provenienti da Abbazia 187. Nitti fece presente a
Salata quale fosse, in quel momento la linea d’azione che Tittoni stava tenendo nei confronti degli
alleati in merito a Fiume:
1°) Statuto speciale per Fiume. 2°) Concessione all’Italia di una striscia lungo il litorale che assicuri
continuità territoriale. 3°) Concessione all’Italia anche dell’isola Lagosta. Credo insistendo in questi tre punti
si avrà il massimo che si può ottenere 188.

La ricostruzione di Nitti della linea d’azione italiana, però, non riusciva a nascondere le
difficoltà in cui il governo si trovava anche sul piano internazionale.
Tuttavia Salata non si rassegnò. Con fare diplomatico, nel tentativo di superare l'impasse,
propose di avviare uno «scambio di idee amichevole» tra loro due che, però, sarebbe rimasto del
tutto informale «salvo in caso di accordo tramutare trattative in ufficiali» 189. Anche questa avance,
però, non fu accolta da D’Annunzio. Questi, infatti, era furioso per la censura che il governo aveva
imposto alle comunicazioni provenienti da Fiume. In questa maniera, temeva il Comandante, la
questione del destino della città adriatica avrebbe rischiato l’oscuramento 190. Fu in quel passaggio

184
Tel. di Salata a Nitti, 5 ottobre 1919, ASMAE, CS, b. 244, f. 1576.
185
Ibidem.
186
Minuta di tel. di Salata a Nitti, s.n., 6 ottobre 1919, ivi.
187
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 261 e n. 43; Nitti a Salata, 6 ottobre 1919, DDI, Serie VI, vol. IV, d. 560.
188
DDI, ivi.
189
Salata a Nitti, 7 ottobre 1919, DDI, serie VI, vol. IV, d. 561.
190
Ibidem.

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del colloquio che Salata, probabilmente per indurre un ripensamento, rese noto a Giuriati il testo di
un telegramma di Nitti a Badoglio nel quale si manifestava la preoccupazione del governo sulla
crescente intransigenza degli alleati sulla questione di Fiume e il conseguente isolamento
internazionale dell’Italia 191.
Salata -pur cercando di addolcire la pillola a Nitti dicendo che i contatti con gli esponenti del
Consiglio nazionale erano ancora attivi- dovette incassare la sconfitta.
L’ex-deputato istriano aveva perseguito la strada di cercare di isolare D’Annunzio da una
parte degli attivisti fiumani. Ma, per ottenere ciò, era necessario
Dare forma concreta assicurazione che condizioni essenziali siano state accettate da alleati e associati.
Con sola assicurazione che Governo sta trattando o fa sforzi per conseguire adesione conferenza non basta né
ad indurre Consiglio Nazionale porre a D’Annunzio dilemma decisivo né a staccare da lui parte più sana
truppe regolari 192.

Per proseguire le trattative, insomma, non erano sufficienti i buoni propositi, «ma occorreva
ottenere dagli alleati precise garanzie» 193. Si darebbe dovuto richiedere:
primo: posizione speciale Fiume entro lo Stato libero; secondo: sue prerogative statali; terzo:
Commissione di Governo Stato Libero con due italiani e uno fiumano su cinque membri; quarto:
amministrazione porto e ferrovia da parte stessa Commissione Governo; quinto: gendarmeria propria dello
Stato libero e polizia speciale propria per Fiume 194.

A queste condizioni, naturalmente, si sarebbe dovuta aggiungere l’imprescindibile contiguità


tra il territorio italiano e il nuovo Stato di Fiume 195. A parere di Salata, se queste condizioni non
fossero state realizzate, «non c’era da farsi illusioni sulla possibilità di far sollevare il problema dal
Consiglio Nazionale contro D’Annunzio» 196.
Le sollecitazioni di Salata, però, non ricevettero risposta da parte di Roma. L’ex irredento,
dunque, si rese conto che la missione era conclusa e, sempre in compagnia del generale Grazioli,
fece ritorno a Roma 197. Qui, il 10 ottobre, entrambi ebbero con Nitti un colloquio che pose
definitivamente fine a questa iniziativa 198. Il capo dell’Ufficio Centrale per le Nuove Provincie,
anche se da comprimario, continuò a essere coinvolto nei tentativi di risoluzione della questione
fiumana. Fu inviato da Nitti a Udine per consegnare a Badoglio un memoriale –anche questa volta
denominato «progetto Salata»- nell’imminenza di un suo incontro con il Comandante che sarebbe

191
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 261. Salata a Nitti, 7 ottobre 1919, cit.
192
Tel. di Badoglio a Nitti, 7 giugno 1919, ASMAE, CS, b. 244, f. 1576; il testo era probabilmente di mano di Salata.
193
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 264-265.
194
Badoglio a Nitti, 7 giugno 1919, cit.
195
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 242.
196
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 264.
197
Tel. di Salata a Nitti, 8 ottobre 1919 e di Nitti a Salata, 8 ottobre 1919, ASMAE, CS, b. 244, f. 1576; v. anche Nitti a
Salata, 8 ottobre 1919, DDI, serie VI, vol. IV, d. 571.
198
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 267.

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dovuto avvenire nei giorni seguenti 199. Il generale, però, si lamentava del fatto che le proposte
governative mancassero di quel suggello internazionale –l’accettazione da parte degli alleati- che
era la condicio sine qua non dell’eventuale successo del negoziato 200. Lo stesso Nitti, infatti, si
rendeva conto quanto esse fossero «aleatorie» 201. Salata, forse in adempienza ad ordini ricevuti a
Roma, insistette con Badoglio perché accedesse lo stesso al colloquio con D’Annunzio. L’ex
irredento, infatti lo convinse
[…] circa il valore delle singole assicurazioni e l’impossibilità di attendere la risoluzione definitiva di
Parigi, la quale sarebbe stata facilitata qualora l’incidente di Fiume fosse stato regolato 202.

E’ noto come il fallimento del segmento di negoziato adriatico tra Badoglio e D’Annunzio fu
generato anche da questa carenza di fondo delle proposte di Roma. La speranza di Tittoni, immerso
nel negoziato parigino, che «D’Annunzio e i fiumani se ne accontent[assero]» 203, grazie anche
all’azione di Badoglio coadiuvato da Salata, non si realizzò. Il governo italiano, ancora una volta,
scontava la debolezza della sua posizione diplomatica associata alla fragilità della situazione
politica interna.
Qual era il giudizio di Salata sul progetto di cui lui stesso era stato incaricato? Indubbiamente
non coincideva con la sua visione di confine orientale. Il punto fondamentale di dissenso –sempre
mascherato da espressioni di grande rispetto verso le direttive del governo- era relativo alla sorte
dell’isola di Cherso. E’ noto come la proposta italiana aveva dovuto tenere conto della volontà degli
alleati di inserirla nei confini dell’istituendo Stato libero di Fiume 204. Per impedire ciò, Salata intese
fare qualcosa nel corso del suo negoziato con Giuriati. Propose a Nitti di scambiare l’inserimento
della sua isola natale nei confini italiani con la rinuncia della proposta acquisizione dell’isola
dalmata di Lagosta 205 . Le ragioni erano sentimentali; ma Salata le traduceva in termini politici: il
possesso di Cherso si sarebbe giustificato «per ragione strategica verso Pola quanto per interessi
economici»; come anche le «ragioni nazionali che difficilmente si [sarebbero potute] far valere per
Lagosta» 206. Nitti, però –ma questo ci dice qualcosa sulla considerazione che aveva per le opinioni

199
Nitti a Badoglio, 14 ottobre 1919, DDI, Serie VI, vol. IV, d. 597; v. anche Nitti a Tittoni, 14 ottobre 1919, ivi, d.
598.
200
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 244.
201
Nitti a Tittoni, 20 ottobre 1919, DDI, serie VI, vol. IV, d. 621.
202
Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 277; v. anche di minuta di tel. di Salata a Nitti, 19 ottobre 1919, ASMAE, CS, b.
241, f. 1543.
203
Tittoni a Nitti, 26 ottobre 1919, DDI, serie VI, vol. IV, d. 671.
204
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 243.
205
Minuta di tel. di Salata a Nitti, 7 ottobre 1919, ASMAE, CS, b. 244, f. 1576.
206
Ibidem.

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del suo collaboratore “adriatico”- metaforicamente, allargò le braccia: si impegnò a comunicare la


proposta a Tittoni, a Parigi: «ma ella sa come la nostra volontà non basti» 207 .

Con Giolitti e Sforza a Rapallo: Salata e il negoziato italo-jugoslavo per il confine orientale
«Pertanto l’indirizzo della politica estera italiana rimane immutato» 208. Con questa frase, un
po’ laconicamente, Tittoni comunicava alla rete diplomatica italiana le sue dimissioni dalla
Consulta dove sarebbe stato sostituito da Vittorio Scialoja. Questi era un «liberale conservatore in
buoni rapporti con gli ambienti nazionalisti»209. Tale atto fu il suggello finale del fallimento della
politica italiana nel negoziato di Parigi con gli alleati. La scelta del politico romano era tesa a
salvaguardare la propria posizione personale e, quindi, precostituirsi un alibi verso gli effetti della
sua politica «condott[a] con quel tanto di leggerezza o spregiudicatezza da far finire l’Italia
nell’isolamento e nell’ostilità manifesta degli alleati» 210.
Va detto che anche il successore non ottenne risultati positivi. Il prosieguo dell’azione del
governo, in questo campo, infatti, non approdò ad alcun esito. Il «compromesso Nitti», elaborato
dal presidente del Consiglio italiano insieme al premier britannico Lloyd George, all’inizio del
1920, dopo una più restrittiva proposta alleata 211, era alquanto lontano dal Patto di Londra. La
creazione dello Stato libero di Fiume, così come era stata lì concepita, era al tempo stesso una
limitazione delle aspirazioni di Roma in Istria come anche fortemente punitiva per i cittadini italiani
dell’antico corpus separatum 212. E, per quanto riguarda Salata, essa comprometteva l’appartenenza
dell’isola di Cherso al Regno d’Italia. Il capo dell’Ufficio per le Nuove Province, come anche altri
irredentisti italiani, come i dalmati 213, manifestavano perplessità – se non scoramento- di fronte alle
condizioni accettate da Nitti.
Il confine d’Italia –scrisse- si fermerà proprio dinanzi alla casa dove son nato e al cimitero dove
riposano i miei genitori. L’unico irredento che ha potuto essere al servizio del Gov[erno] d’Italia durante le
tratt[ative] della pace avrà in premio delle sue fatiche questo eterno esilio 214.

207
Trascrizione di tel. di Nitti a Salata, 8 ottobre 1919, ivi.
208
Tittoni a tutte ambasciate, 25 novembre 1919, DDI, serie VI, vol. IV, d. 792.
209
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 161.
210
Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., p. 91; sulle dimissioni di Tittoni v. anche Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., pp.
354-360.
211
Il testo in: Notes of a Meeting of the haeds of Delegations of the British, Franch and Italian Governments, 14
gennaio 1920, Documents of British Foreign Policy (DGFB), Serie I, vol. II, d. 72.
212
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 246-247.
213
Sulla questione della cessione della Dalmazia alla Jugoslavia, su cui non possiamo soffermarci, v. Monzali, Italiani
di Dalmazia, cit., pp. 146-166.
214
Appunto manoscritto di Salata, ASMAE, CS, b. 200, f. 1126.

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Nitti cercò di lenire i suoi sentimenti scrivendogli da Parigi di «aver fatto tutto quanto
poteva» 215 e di aver fatto sempre presente agli alleati la necessità di inserire l’isola adriatica nei
confini alleati. Lo stesso presidente del Consiglio, tornato a Roma, ebbe un colloquio con l’ex
irredento dove lo richiamò ad assumere lo stesso atteggiamento di Garibaldi quando era stato
costretto ad accettare la cessione della sua città natale, Nizza 216. Ma ciò non attenuò il dissenso del
suo interlocutore:
[…] ma io non sono Garibaldi e non ho visto l’utilità della rinunzia. Gli è che siamo proprio dinanzi a
alla violenza di chi crede ormai di poterci strappare con lo spettro della fame ogni concessione 217.

Al di là del risentimento per i risultati dell’azione del presidente del Consiglio, però, appare
evidente come Salata condividesse i presupposti economici della sua politica: l’Italia non avrebbe
potuto sperare di risolvere la grave crisi sociale che l’attanagliava senza la solidarietà degli alleati.
E’ stato altresì notato che la trattativa sul confine orientale fu affrontata dal gabinetto Nitti con un
certo grado di impreparazione e di «incapacità» 218. Soltanto il successivo rifiuto del governo
jugoslavo 219, determinato anche, ma non solo, dalla volontà di ottenere la sovranità su Zara 220 fece
naufragare il compromesso. E Salata, con ogni probabilità, condivise l’opinione di Giolitti che,
osservando l’esito del negoziato, lo definì «una fortuna» 221.
Nelle settimane successive, la mancata ratifica da parte del Senato americano del trattato di
Versailles determinò una nuova situazione internazionale 222. Da quel momento Belgrado dovette
scontare una drastica riduzione della sua capacità negoziale in larga parte fondata sull’appoggio del
presidente USA 223. La linea Wilson 224 –unica proposta di confine che la delegazione jugoslava
aveva trovato accettabile 225- si allontanava.
Tutti i tentativi di arrivare a una soluzione fallirono. Gli alleati, riuniti a Sanremo nell’aprile
del 1920, ritennero che la versione ulteriormente aggiornata del «compromesso Nitti» andasse
nuovamente sottoposta al governo jugoslavo 226, con altissime probabilità di fallimento. In quel
frangente Nitti si mostrò definitivamente propenso a chiudere la questione adriatica con questa

215
Nitti a Flores (da trasmettere a Salata), 16 gennaio 1920, ivi, b. 234, f. 1477.
216
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 248.
217
ASMAE, CS, b. 200, f. 1126, cit.
218
Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., p. 109.
219
Lederer, La Jugoslavia, cit., pp. 309-312.
220
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 162;
221
G. Giolitti, Memorie della mia vita, Treves, Milano 1922, p. 571.
222
V., per tutti, Duroselle, Da Wilson a Roosevelt, cit., p. 175.
223
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 250.
224
DGFB, Serie I, vol. II, d. 72, cit., Appendice 3.
225
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 250.
226
Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., pp. 171-172.

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soluzione «come base» 227. Essa non era ritenuta una «buona soluzione», ma era «meglio che niuna
soluzione» 228. Non fu possibile, però, alcun confronto diretto tra le delegazioni dei due Paesi
interessati a causa della crisi del gabinetto jugoslavo. Così come il colloquio diretto tra Scialoja e la
delegazione del governo di Belgrado –composta da Pasic e Trumbic- iniziato l’11 maggio 1920, a
Pallanza, non poté proseguire 229. Un voto parlamentare, infatti, aveva costretto Nitti a presentare le
dimissioni del governo 230.
In questo lasso di tempo Salata non interruppe le sue pressioni perché l’isola di Cherso fosse
inserita nei confini italiani 231. Il risultato più congruo l’ottenne con il ministro della Marina, Sechi.
Questi, di fronte alle insistenze dell’ex irredento, il 5 maggio, stabilì una scala di priorità in merito
alle rinunzie da fare nell’Adriatico. Le isole contestate erano tre: Cherso, Lissa e Lagosta. Per il
senatore sardo si sarebbe potuto negoziare soltanto sulle ultime due 232. Con questo viatico era stato
chiamato da Nitti a collaborare con Scialoja nell’interrotto convegno italo-jugoslavo di Pallanza233.
Nel complesso, però, Salata interpretò questi continui rinvii in maniera ottimista. Il tempo, infatti,
sembrava congiurare a favore delle aspirazioni italiane. «Di fronte a ciò che sta[va] succedendo in
Iugoslavia» egli riteneva «se non vantaggiosa, almeno non pericolosa una dilazione» 234. E questo
ragionamento, forse, avrebbe potuto applicarsi anche alla situazione politica italiana. Con il passare
dei giorni cominciò a convincersi che si sarebbe riuscito a salvare «definitivamente» le amate
«Cherso ed Ossero» 235.
La caduta di Nitti aprì la strada al ritorno di Giolitti al potere che dette vita al suo quinto
governo 236. Alla Consulta chiamò colui che era stato sottosegretario con Tittoni e Scialoja, il
diplomatico Carlo Sforza 237. Questi, sin dalla fase di costituzione del governo, chiarì quale sarebbe
dovuta essere la linea da tenere nei confronti della Jugoslavia: «non transigere sulle nostre frontiere

227
Tel. di Nitti al Re, Luzzatti, Sforza, 25 aprile 1920, Archivio Luzzatti (AL), b. 63, f. «Nitti Francesco Saverio».
228
Tel. di Nitti al Re, Luzzatti, Sforza, 25 aprile 1920, ivi.
229
Sui colloqui v. Alatri, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 460-470; v. anche Documenti diplomatici presentati al Parlamento
italiano dal ministro degli Esteri Sforza. Negoziati diretti fra il governo italiano e il governo serbo-croato-sloveno per
la pace adriatica, Camera dei Deputati, Roma 1921 (LV), dd. 1-2.
230
Appunto di Salata, 11maggio 1920, ASMAE, CS, b. 231, f. 1432.
231
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 252-253.
232
Appunto di Salata, ASMAE, CS, b. 211, f. 1222.
233
Scialoja a Nitti, 11 maggio 1920, ivi, f. 1432.
234
Francesco Salata a Ilda Salata, 25 aprile 1920, ivi, b. 257, f. 1705. La situazione interna jugoslava in J. Pirjevec, Il
giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992. Storia di una tragedia, nuova ERI, Torino 1993, pp. 15-31; uno sguardo più
complessivo in I. Banac, The National Question in Yugoslavia. Origins, History, Politics, Cornell University Press,
New York 1988.
235
Francesco Salata a Ilda Salata, 12 maggio 1920, ivi, b. 202, f. 1140.
236
Su questo passaggio v., tra l’altro, Tranfaglia, La prima guerra mondiale, cit., pp. 209-234; Giolitti, Memorie, cit.,
pp. 553-615; N. Valeri, Giolitti, UTET, Torino 1971, pp. 287-288; Vivarelli, Storia delle origini, vol. II, cit., pp. 569-
592.
237
Sulle opinioni di Tittoni v. Tittoni a Giolitti, 10 giugno 1920 in Giovanni Giolitti. Al governo, in parlamento, nel
carteggio, III, Il carteggio, t. II (1906-1928), a cura di A.A. Mola e A. G. Ricci, Bastogi Editrice, Foggia 2010, d. 913.

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naturali», ma anche far comprendere a Belgrado la necessità di una politica di amicizia con l’Italia
per contrapporsi al pericolo di una restaurazione asburgica 238. In accordo con Giolitti, volle separare
la questione dei confini orientali da quella dell’annessione di parte della Dalmazia, ritenendo la
prima imprescindibile da qualsiasi altra considerazione 239. Il nuovo gabinetto, dunque, intese
abbandonare la linea precedente giudicandola eccessivamente rinunciataria 240.
Per realizzare ciò fu messo in campo un nuovo attivismo sullo scenario europeo. Sforza
incontrò, il 17 e 21 luglio 1920, a margine della conferenza di Spa, il suo omologo jugoslavo,
Trumbic, che manifestò il desiderio di addivenire a un accordo amichevole 241. E’ stato giustamente
scritto che Sforza voleva cogliere il momento favorevole per raggiungere un risultato positivo per
l’Italia; in quanto «buon conoscitore delle terre asburgiche e dei Balcani» era «consapevole delle
divisioni esistenti in seno al neonato Stato jugoslavo, e soprattutto della contrapposizione fra croati
e serbi» 242.
Ma i passi decisivi furono quelli di Giolitti. Il presidente del Consiglio, insieme a Sforza,
riteneva che la strada per chiudere la questione adriatica passasse attraverso un miglioramento
radicale delle relazioni con gli alleati dell’Intesa. Ed essa fu tra gli argomenti affrontati
nell’incontro che il politico piemontese ebbe con Lloyd George, il 22-23 agosto a Lucerna. Da
questi Giolitti ricevette «parole di generico appoggio» 243, ma anche la promessa di «fare pressioni
su Belgrado per facilitare l’accordo» 244. L’«aiuto determinante» 245, però, venne dalla Francia. Nel
suo incontro con Giolitti, il nuovo presidente del Consiglio, Millerand, si mostrò apertamente
«disposto a sostenere le tesi italiane» sulla frontiera con la Jugoslavia. «La linea Wilson e quella
Nitti erano inaccettabili e insoddisfacenti»:
L’Italia [avrebbe dovuto] rivendicare il confine sul Monte Nevoso per ragioni strategiche. In Dalmazia
[Giolitti] era pronto a grandi concessioni, ma non poteva disinteressarsi della sorte degli italiani di Zara;
irrinunciabili erano le isole di Cherso, Unie, Lussino e Pelagosa 246.

238
C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Mondadori, Roma 1944, p. 92; per un interpretazione v. A.
Brogi, Il Trattato di Rapallo del 1920 e la politica danubiano-balcanica di Carlo Sforza, «Storia delle relazioni
internazionali», 1, 1989, pp. 3-46; su Sforza v. L. Zeno, Ritratto di Carlo Sforza, Le Monnier, Firenze 1975; G.
Giordano, Carlo Sforza, vol. I, La diplomazia 1896-1921 e vol. II, La politica 1922-1952, F. Angeli, Milano 1987 e
1992.
239
M. G. Melchionni, La politica estera di Carlo Sforza 1920-1921, «Rivista di Studi Politici Internazionali», 36, 1969.
pp. 547-548; Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 258.
240
Melchionni, ivi.; L. Riccardi, Le trattative italo-jugoslave per il trattato di Rapallo nel diario di Francesco Salata
(20 settembre-5novembre 1920), «Storia contemporanea», 1/1996, pp. 129-149, in particolare p. 131.
241
Sforza a Galanti, 21 luglio 1920, LV, d. 13; v. anche Lederer, La Jugoslavia, cit., p. 338.
242
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 167.
243
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 259.
244
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 169. Le conversazioni di Lucerna in DBFP, VIII, dd. 87-89; v. anche
Micheletta, Italia e Gran Bretagna, cit., p. 241.
245
Micheletta, ivi.
246
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 169.

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Di ciò, naturalmente, fu edotto il governo di Belgrado 247.


In questo quadro, naturalmente, avrebbe trovato soluzione anche la questione di Fiume, frutto
avvelenato della crisi politico-sociale dell’immediato dopoguerra. Questo sforzo diplomatico va
inquadrato nella complessa situazione che il governo Giolitti aveva ereditato, sia sul piano interno
che su quello internazionale. Sul primo aspetto, l’anziano statista piemontese si trovò ad affrontare
«la calda estate del 1920» 248: sfociata nell’occupazione delle fabbriche all’inizio di settembre249,
avrebbe, però, segnato «la sconfitta dell’estremismo rosso» 250. Sotto il profilo internazionale
Giolitti e Sforza avevano cercato di trovare una soluzione all’intricata questione della presenza
italiana in Albania. Decisero di avviare un negoziato con i capi albanesi che si erano ribellati
all’occupazione 251. A questa fu posto fine con il Trattato di Tirana del 2 agosto da cui sarebbe
dovuta scaturire una nuova stagione delle relazioni con il piccolo Stato balcanico 252.
Non c’è dubbio che Salata aveva sufficienti informazioni per comprendere come, per ciò che
riguardava la questione adriatica, fosse cambiata la direzione del vento. Egli comprese che era un
momento decisivo sia per il destino delle nuove province orientali quanto per la sua carriera. In quei
frangenti approfittò del «canale privilegiato» 253 che nei mesi precedenti aveva aperto con il
Ministero della Guerra, in quel momento guidato da Ivanoe Bonomi 254. Questi condivideva con i
vertici delle Forze Armate l’opinione che il confine predisposto dal Patto di Londra fosse l’unica
linea che avesse «valore militare» 255.
Il 4 ottobre 1920 il ministro della Guerra -in vista della sua designazione a secondo
plenipotenziario nel negoziato con i rappresentanti jugoslavi- si recò nella Venezia Giulia per
rendersi conto di persona «dell’importanza decisiva attribuita al confine orientale» 256. Ne tornò
convinto delle sue posizioni. Salata lo persuase a proporre di far divenire la «linea di confine Monte
Re-Monte Nevoso» un caposaldo e «quasi la pregiudiziale» delle future trattative 257. Gli espose
anche, incontrando il consenso del suo interlocutore, quale avrebbe dovuto essere la strategia

247
Lederer, La Jugoslavia, cit., p. 342-343.
248
La definizione è di F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla grande Guerra al fascismo, 1918-1921,
UTET, Torino 2009, p. 241.
249
Su questo, tra l’altro, v. il classico, P. Spriano, L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Einaudi, Torino
1964; v. anche Vivarelli, Storia delle origini, vol. II, cit., pp. 592-645.
250
L’espressione è di I. Bonomi, La politica italiana dopo Vittorio Veneto, Einaudi, Torino 1953, p. 134.
251
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 169-170.
252
Sul complesso della politica albanese dell’Italia v. P. Pastorelli, L’Albania nella politica estera italiana 1914-1920,
Jovene, Bari 1970.
253
Riccardi, Francesco Salata, cit., p. 260, n. 239.
254
V., tra l’altro, I. Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto 1870-1918, Einaudi, Torino 1946; Id.,
La politica italiana dopo Vittorio Veneto, cit.
255
Promemoria di Bonomi a Giolitti e Sforza, agosto 1920, ASMAE, CS, b. 271, f. 1856.
256
Riccardi, Le trattative, cit., p. 140.
257
Id., Francesco Salata, cit., p. 261.

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italiana in caso di fallimento del negoziato: in caso di rifiuto jugoslavo si sarebbe dovuto procedere
immediatamente all’annessione della Venezia Giulia -«comprese le isole di Cherso e Lussino»-
prevista dal Patto di Londra 258.
In quella fase preliminare sembrarono manifestarsi due diversi comportamenti da parte di
Giolitti e Sforza. Il primo aveva un atteggiamento «ondivago» e sembrava optare per una scelta
dilatoria che spostasse più in là il negoziato. L’altro, invece, appariva più determinato. Allo stesso
Salata, in un colloquio, il 19 ottobre 1920, disse chiaramente di essere «risoluto a dare le dimissioni
qualora Giolitti dovesse opporsi a dare corso alle trattative» 259. In realtà anche il presidente del
Consiglio voleva arrivare a una soluzione positiva della controversia. Egli autorizzò l’inizio delle
conversazioni, ma tenne sempre fisso lo sguardo sulle contemporanee elezioni del presidente degli
Stati Uniti. In caso di vittoria del candidato democratico Cox, infatti, sarebbe stato probabile un
ritorno alla politica fin lì condotta da Wilson. Ma il successo dell’isolazionista repubblicano
Harding –con il suo slogan Back to normalcy- escluse ogni possibilità per gli USA di tornare a
interpretare nuovamente un qualche ruolo nella vicenda del confine orientale italiano 260.
Sforza e Bonomi agirono sul presidente del Consiglio perché si arrivasse a una definizione del
quid faciendum in caso di fallimento del negoziato. Il secondo predispose un promemoria in cui
esponeva le posizioni oltre le quali l’Italia non avrebbe potuto arretrare. Esse soddisfecero Salata:
E’ il risultato –scriveva il 27 ottobre- dei nostri colloqui: linea Monte maggiore, continuità territoriale,
Fiume Stato libero, Cherso e Lussino con isole minori, Pelagosa, Lissa o Lagosta, Zara città libera, garanzie
per italiani Dalmazia ecc. 261

Queste proposte avevano lo scopo di cautelarsi di fronte a una reazione negativa dell’opinione
pubblica di fronte all’esito della trattativa. Giolitti, ironicamente, le definì «un paracadute» 262. In
questo contesto Bonomi e Sforza chiesero a Salata di prendere parte all’imminente conferenza italo-
jugoslava la cui sede era stata stabilita a S. Margherita Ligure. C’era bisogno di un “tecnico” che,
nello stesso tempo, avesse opinioni favorevoli ad una soluzione ispirata al Patto di Londra. In
questo senso, con un pizzico di millanteria, lo storico istriano poteva scrivere ad Antonio Mosconi,
commissario generale civile della Venezia Giulia, di avere accettato di far parte della delegazione
proprio perché il governo aveva accettato la «linea del Nevoso» 263. Queste, infatti, furono le
risoluzioni prese nel corso di una riunione ministeriale, cui Salata prese parte, che ebbe luogo pochi
giorni prima della Conferenza:

258
Id., Le trattative, cit., p. 142.
259
Ivi, p. 144.
260
Sulle elezioni presidenziali del 1920 v. per tutti Duroselle, Da Wilson a Roosevelt, cit., pp. 209-211.
261
Riccardi, Le trattative, cit., p. 146.
262
Ibidem.
263
Tel. n. 4313-8/4 di Salata a Mosconi, 16 ottobre 1920, ASMAE, CS, b. 271, f. 1860.

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Monte Nevoso, linea di confine verso nordovest (Idria tenere), contiguità territoriale con Fiume
esclusa Castua (schizzi preparerà Badoglio) regime porto e ferrovie; ferrovia event[ualmente] da costruire
Gottschee Delnice; Dalmazia, Sebenico, isole, concludendo con Zara e Nin od un isola (Lissa o Lagosta) 264.

Con questa base di lavoro la delegazione italiana si accostò al negoziato che si svolse a S.
Margherita dall’8 al 12 novembre 1920 che si concluse con la firma del trattato italo-jugoslavo di
Rapallo che chiuse la questione adriatica. Non affronteremo, naturalmente, il complesso della
trattativa, ma si cercherà di individuare quale fu il ruolo di Salata nel suo svolgimento 265.
Dall’angolo visuale dell’ex-irredento appariva uno Sforza profondamente determinato ad
arrivare a una conclusione in linea con le aspettative del governo italiano: linea di confine sul
Monte Nevoso, annessione di Zara e continuità territoriale con lo Stato libero di Fiume 266. Per
raggiungere questi scopi, Sforza non esitò a imporre le proprie condizioni con tale «durezza» che
gli jugoslavi ebbero la sensazione di trovarsi di fronte a veri e propri ultimatum 267. Nel corso del
negoziato Salata ebbe un ruolo tutt’altro che passivo: fece da tramite tra le due delegazioni; ebbe
anche il compito di far intendere al ministro degli Esteri jugoslavo, Trumbic, che l’Italia non aveva
alcuna intenzione di recedere dalle proprie posizioni. L’ex deputato irredento, infatti, doveva essere
in qualche modo temuto dai suoi interlocutori slavi i quali ritenevano essere «le richieste italiane
[…] influenzate da Salata che agiva per interesse personale» 268. La sua origine istriana e il suo
passato irredentista, evidentemente, non ispiravano alcuna fiducia. Infatti i delegati jugoslavi
raccomandarono al loro ministro di «parlare direttamente con Sforza evitando Salata» 269.
Lo stesso capo dell’Ufficio per le Nuove Province, però, fu incaricato di affrontare con lo
stesso Trumbic alcune questioni delicate come il possesso di Cherso e la delimitazione dei confini
di Zara 270. A proposito della cessione sua isola natale disse che, a causa della sua composizione
etnica maggioritariamente italiana, era «per noi [Italia] inaccettabile» 271. Nella conversazione con il
ministro jugoslavo –di nazionalità croata- emersero tutte le asprezze antiasburgiche che avevano
contraddistinto la sua azione politica giovanile. Di fronte al “nemico” non si potevano tacere i
postulati fondamentali delle aspirazioni di una generazione di irredentisti italiani. Grazie alle scelte

264
Riccardi, Le trattative, cit., p. 148.
265
Una sintesi in Cattaruzza, L’Italia e la questione adriatica, cit., pp. 107-109; Ead., L’Italia e il confine orientale, cit.,
pp. 159-164; una ricostruzione retrospettiva in M. Bucarelli, Mussolini e la Jugoslavia (1922-1939), Graphis, Bari
2006, pp. 12-13.
266
Riccardi, Francesco Salata, il Trattato di Rapallo e la politica estera italiana verso la Jugoslavia all’inizio degli
anni Venti, «Quaderni giuliani di storia», 2/ 1994, pp. 75-91, in particolare le pp. 87-89.
267
Intercettazioni microfoniche N° 3 e N° 5 (Saletta Jugoslava), 8 e 10 novembre 1920, ASMAE, CS, b. 264, f. 1771.
268
Intercettazione microfonica N° 4 (Saletta Jugoslava), ivi.
269
Intercettazione microfonica N° 5, cit.
270
Riccardi, Francesco Salata, cit., pp. 265-266.
271
Intercettazione microfonica N° 5, cit.

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di Sforza, dunque, questi assunti erano diventati parte integrante del programma di politica estera
del nuovo governo.
Più complessa fu la questione della delimitazione di Zara. La resistenza jugoslava fu
maggiore. Nel corso della stessa conversazione, il 10 novembre, Salata fece presente la volontà
italiana di pretendere l’annessione di Zara con l’isola di Lagosta, cedendo in cambio Lissa. Trumbic
intendeva limitare l’annessione della città dalmata strettamente all’agglomerato urbano. Salata fu
netto:
[…] se Zara dovesse essere amputata da un territorio più o meno ristretto, essa non potrebbe vivere.
Una città non può vivere senza acqua, senza cimitero [manca] d’altronde noi non possiamo acconsentire alla
cessione di Zara, occorre che Zara italiana resti tale, perché a Zara non è possibile abbassare la nostra
bandiera una volta innalzata 272.

La questione si concluse il pomeriggio successivo, l’11 novembre, dopo un nuovo colloquio


tra Salata e Trumbic. Il rappresentante italiano, di fronte all’insistenza del suo interlocutore, calò sul
tavolo della trattativa la questione di Porto Baros, prosecuzione del litorale della città di Fiume,
popolato maggioritariamente da croati e rivendicato dalla Jugoslavia. L’Italia avrebbe potuto
negoziare la sua cessione se «ci cederete sul punto di Zara» 273. Le ore che seguirono furono molto
concitate per la delegazione serbo-croata-slovena. Si alternavano propositi di rottura con
manifestazioni di cedevolezza. La delegazione di Belgrado intuì l’isolamento internazionale che
sarebbe derivato da una interruzione delle trattative. L’Italia aveva una posizione diplomatica
migliore. Il problema era l’opinione pubblica interna di fronte alla quale si decise di giustificarsi
con la propria debolezza: «noi dovremo dire che siamo stati costretti a cedere» 274.
L’arrivo di Giolitti a Santa Margherita, l’11 novembre 275, in omaggio alla presenza del suo
omologo jugoslavo, Vesnic, segnò l’inizio del tratto finale del negoziato. Il giorno successivo fu
firmato il Trattato di Rapallo. Il disegno di Sforza e Giolitti di ottenere «una frontiera terrestre
sicura che non poteva essere [… ] una semplice correzione della linea Wilson» 276 fu in gran parte
realizzato. Lo Stato Libero di Fiume, grazie al confine comune con il Regno, ne diveniva
sostanzialmente una dependance in quanto nasceva «senza ingerenze o controllo della Società delle
nazioni» 277. Ma fu in Dalmazia che fu operata la più vistosa correzione del Patto di Londra: lì
soltanto la città di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa furono annesse al Regno d’Italia. Comunque

272
Ibidem. V. anche Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 174.
273
Intercettazione microfonica N° 8, ASMAE, CS, b. 264, f. 1771.
274
Intercettazione microfonica N° 9, ivi.
275
Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 175.
276
Giolitti, Memorie, cit., p. 579. Il testo del trattato di Rapallo è in Toscano, Il Patto di Londra, cit., pp. 211-216.
277
Giolitti, ivi.

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per Salata la missione era compiuta. Il 12 novembre poteva inviare due telegrammi ai municipi di
Cherso e di Ossero annunziando la loro definitiva inclusione nei confini italiani 278.
Il ruolo che Salata ebbe nella trattativa adriatica gli fu riconosciuto pubblicamente, pochi
giorni dopo, con la sua nomina a senatore del Regno 279. Insieme a lui, nella stessa tornata, furono
chiamati al laticlavio altri esponenti dell’irredentismo giuliano e dalmata 280. Nondimeno settori
rilevanti di questo ambiente non accolsero con soddisfazione il Trattato di Rapallo. Le critiche si
appuntarono soprattutto sull’esclusione di Porto Baros dallo Stato Libero di Fiume 281. Da alcuni la
responsabilità di questa cessione fu attribuita anche a Salata, «un tiepido patriota pieno di
ambizione» 282. Ma, in realtà, la sua vicenda politica e umana sembra averlo mostrato sotto una luce
ben diversa.

278
Salata al Municipio di Cherso e Salata al Municipio di Ossero, 12 novembre 1920, ASMAE, CS, b. 200. F. 1146.
279
Giolitti a Salata, 16 novembre 1920, ivi, b. 260, f. 1736.
280
Si trattava di Felice Bennati, Camillo Chersich, Roberto Ghiglianovich, Luigi Ziliotto ed Ercolano Salvi.
281
La sua cessione alla Jugoslavia venne disposta con uno scambio di lettere tra Sforza e Trumbic, v. Lederer, La
Jugoslavia, cit., p. 354. La ratifica parlamentare del Trattato di Rapallo, ebbe luogo alla Camera il 24-27 novembre
1920 e al Senato i successivi 15-17 dicembre, in Cattaruzza, L’Italia e la questione adriatica, cit., p. 109 e ss.
282
Notiziario speciale, ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisioni Affari
Gnerali e Riservati, «Agitazione pro Fiume e Dalmazia», b. 5, f. 9.

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