Il singolo evento storico che più di ogni altro ha dato impulso a questo processo è stato l’invenzione
e l’affermazione della stampa (➔ editoria e lingua). Ciò è vero in tutti i paesi dell’Europa
occidentale, ma lo è particolarmente in Italia, dove il fattore stampa ha supplito la mancanza
dell’altro potente fattore oggettivo che nelle monarchie nazionali spingeva per il conguaglio e la
codificazione della norma: e cioè lo Stato, con la sua forza centripeta, con la sua capacità di
irradiare il modello linguistico della capitale (Parigi, Londra, Madrid, ecc.) all’intero territorio,
attraverso i legami economici, amministrativi, culturali che collegavano la provincia alla capitale.
Nell’Italia del Cinquecento, policentrica e sotto dominazione straniera, è la stampa che agisce come
motore di unificazione linguistica, perché fa cadere i confini di diffusione del libro manoscritto, che
coincidevano con quelli delle lingue di ➔koinè regionali, impone che il mercato unificato del libro
si estenda sull’intero territorio «dove il sì suona», e con ciò obbliga il volgare di «sì» a diventare
lingua italiana (Trovato 1991; Richardson 2004) (➔storia della lingua italiana).
A distanza di una trentina d’anni l’uno dall’altro, due eventi traumatici cambiano la condizione
politica della Penisola e la sua percezione da parte delle classi dirigenti e degli uomini di cultura
italiani: la discesa di Carlo VIII (1494) e il Sacco di Roma (1527). La discesa di Carlo VIII, che
quasi senza colpo ferire si impadronisce dell’Italia, squarcia l’illusione di chi credeva di vivere
ancora nel quattrocentesco equilibrio di potere degli autonomi Stati italiani, e rende evidente che
l’Italia è alla mercè delle potenze straniere. Il Sacco di Roma, con i lanzichenecchi di Carlo V che
fanno scempio del centro del cattolicesimo, ha una risonanza simbolica enorme. Un’altra trentina di
anni più tardi, il trattato di Cateau-Cambrésis (1559) sancisce definitivamente il dominio spagnolo,
diretto o indiretto, su tutta la Penisola, esclusa la Repubblica di Venezia. Il sistema policentrico
dell’Italia del Quattrocento, nel quale era fiorito lo straordinario sviluppo economico, mercantile,
culturale, letterario e artistico dell’Italia, è distrutto. L’egemonia culturale dell’Italia in Europa
persiste per molti decenni dopo che le sue basi materiali sono state spazzate via.
L’Italia ha una tradizione letteraria illustre inarrivabile, che si riassume in volgare nei nomi di ➔
Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio e in latino nel movimento umanistico,
fondato dallo stesso Petrarca, che ha rinnovato la cultura di tutta l’Europa. Il prestigio linguistico
dell’italiano, che consegue a quello letterario, è altrettanto vivo, mentre politicamente l’Italia non
esiste. La soluzione normativa vincente della ➔ questione della lingua, classicistica e rifuggente
dall’uso vivo, affonda le sue radici in questa combinazione tipicamente italiana di eccellenza
letteraria e irrilevanza politica.
Il Concilio di Trento (1545-1563) ha effetti diretti sulla storia linguistica perché, vietando la
traduzione in volgare della Scrittura e della liturgia, fa mancare un importantissimo impulso, attivo
invece nei paesi protestanti, all’alfabetizzazione volgare di massa e al conguaglio linguistico su
scala nazionale (Librandi 1993; ➔ Chiesa e lingua). Che nello stesso anno 1525 il cardinale ➔
Pietro Bembo (1470-1547) pubblichi le Prose della volgar lingua e Martin Lutero (1483-1546) La
Messa tedesca è emblematico dei modi opposti in cui l’italiano e il tedesco conseguono la propria
standardizzazione, e più in generale dei diversi destini linguistici e civili dei due paesi.
Le principali ‘agenzie’ che nel corso del Quattrocento, in ambito extraletterario, operano
espandendo gli ambiti di uso del volgare, con ciò consolidandolo, sono le cancellerie degli Stati
regionali, intese nel senso più comprensivo di apparati legislativi, governativi, amministrativi e
giudiziari interni allo Stato, e di ambascerie e uffici per le relazioni diplomatiche (➔ cancellerie,
lingua delle); la Chiesa e i movimenti religiosi, produttori e consumatori di scritture devozionali e
propagatori di educazione linguistica orale al popolo attraverso la predicazione (➔ predicazione e
lingua); i mercanti (➔ mercanti e lingua) e, collegati ad essi da un’affine identità culturale, gli
artigiani e i tecnici, anch’essi portatori di una cultura esclusivamente volgare, quella delle «scuole
di abbaco» che tramandano di generazione in generazione l’alfabetizzazione in volgare (Tavoni
1992: 21-55).
Le azioni linguistiche compiute da ognuna di queste agenzie sono molto diverse. Le cancellerie
sono formate da notai e umanisti (➔ notai e lingua), dotati di cultura latina, spesso alta, e a volte
essi stessi rimatori o comunque scrittori di cose letterarie in volgare. Quando si trovano a scrivere
lettere o relazioni o atti ufficiali in volgare, si tratta di un volgare al livello più alto di conguaglio sul
modello del latino e/o del toscano. La scrittura delle cancellerie è la punta più avanzata della
smunicipalizzazione del volgare in ambito extraletterario. All’effetto prodotto dalla cultura degli
scriventi si somma, nel caso della corrispondenza diplomatica, quello del tendenziale
avvicinamento alla lingua dell’interlocutore: per cui la lingua di koinè lombarda, o emiliana, o
generalmente padana, che ha nelle scritture cancelleresche la sua più ampia documentazione, è a sua
volta aperta a conguagli interregionali quando si indirizzi a uffici nelle cancellerie di Roma, di
Urbino o di Napoli (ricchissima la documentazione di Venezia; Tomasin 2001). Si assiste, nel corso
del Quattrocento e del Cinquecento, in corrispondenza al consolidamento degli Stati regionali, a una
esplosione di scrittura amministrativa, una vera e propria presa di controllo del territorio attraverso
la scrittura, che contribuisce all’espansione e al consolidamento dell’uso del volgare (Petrucci
1993b).
Le scritture agiografiche o le laudi che circolano per tutta la Penisola all’interno di movimenti
penitenziali come l’Osservanza, di registro inferiore, sono aperte a contatti con il latino della Chiesa
ma non con la tradizione letteraria volgare, e dunque danno luogo a forme di conguaglio
interregionale indifferenti al prestigio del toscano. Lo stesso vale per i predicatori itineranti, che
dovevano necessariamente sviluppare la capacità di farsi capire ovunque, e talvolta svolgevano
un’azione di vera acculturazione in volgare, talvolta puntavano più alla popolarità e giocosità,
sviluppando anche forme giullaresche di mescidazione col latino (Coletti 1983).
Il Quattrocento è segnato dall’egemonia del movimento umanistico, che esalta il latino e deprime il
volgare come lingua di cultura. Solo gli umanisti operanti a Firenze, dato che le Tre Corone
trecentesche, Dante, Petrarca e Boccaccio, sono sentite come un patrimonio patriottico, si misurano
con esso dando vita a un umanesimo volgare che ha i suoi prodromi in ➔ Leon Battista Alberti
negli anni Trenta-Quaranta e culmina con Cristoforo Landino e ➔ Angelo Poliziano alla corte di
Lorenzo il Magnifico negli anni Settanta-Ottanta. Beninteso, il volgare continua a essere usato in
tutte le occasioni della vita reale, e anzi il suo uso scritto si espande in ambito commerciale,
amministrativo, religioso, pervadendo la società.
La battuta d’arresto riguarda solo la cultura alta, la lingua letteraria. Qui il prestigio del latino
rinnovato dalla riscoperta dei classici, che dall’Italia si espande in tutta Europa, schiaccia quello del
volgare, che per gli umanisti più oltranzisti non è altro che la varietà bassa, non grammaticale, del
latino (Tavoni 1992: 57-83). In questo stesso periodo nascono anche esperimenti linguistici che si
possono considerare a cavallo tra latino e volgare come il ➔ latino macaronico e la lingua
pedantesca (➔ pedantesca, lingua).
La crisi del volgare nel Quattrocento consiste nella sua polimorfia regionale, nella sua mancanza di
codificazione, insomma nel suo essere lasciato a sé stesso, in uno stato di dispersione, di inferiorità
rispetto al latino e di disinteresse da parte dei letterati. Il quadro cambia nel giro di pochi decenni a
cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, in parte per effetto della stampa che moltiplica i lettori, in
parte per altre cause non ben chiare, tanto che dagli anni Venti-Trenta del Cinquecento il volgare
imbocca una strada ascendente, attira grandi scrittori in versi e in prosa e catalizza un interesse
teorico addirittura ipertrofico, con produzione di centinaia di grammatiche e di trattati in sua difesa,
che mobilitano i più grandi letterati del secolo, mentre quelli del secolo precedente erano rimasti
ammaliati dal latino (Trovato 1994). Nel corso di questo processo, gradualmente il volgare diventa
l’italiano. Il nome da dare alla lingua – volgare, fiorentino, toscano, italiano – è il tema canonico
della questione della lingua ai suoi esordi, ed è il portato del policentrismo culturale e linguistico e
della mancanza di unità politica della Penisola. Fatto sta che il volgare polimorfo del Quattrocento
si trasforma, nel giro di un secolo, nell’italiano unificato del secondo Cinquecento: unificato dalla
teoria bembiana, dalla prassi editoriale, dalla generale convergenza dei letterati sul modello dei
grandi trecentisti.
La progressiva affermazione del volgare a scapito del latino va di pari passo con la sua
codificazione, ovvero con la sua trasformazione in italiano, che lo fa assurgere a lingua di pari
regolarità e pari dignità. Le accademie, che sorgono dalla metà del Cinquecento in poi, sono
l’istituzione emblematica del nuovo statuto culturale conquistato dall’italiano. Da quel momento in
poi il latino regredì, perse sempre più ambiti d’uso a vantaggio dell’italiano, ma non si deve
dimenticare che restò ancora per secoli, in tutta Europa e anzi ormai in tutto il mondo, la lingua
internazionale della scienza, dell’università, della Chiesa e anche della formazione delle classi
dirigenti (basti pensare alla Ratio studiorum dei Gesuiti), e che il numero di testi scritti in latino fra
il XVI e il XVIII secolo è un multiplo di quelli scritti nell’antichità classica (Olschki 1922;
Marazzini 1993: 19-42; Giovanardi 1994; Waquet 2004).
In Toscana il volgare letterario si identifica con la lingua materna degli scrittori. Nella prosa, i Libri
della famiglia di Leon Battista Alberti e la Vita civile di Matteo Palmieri (1406-1475), dediti a
teorizzare un modello politico fondato sull’economia mercantile, rappresentano una sublimazione
umanistica di scritture quali i libri di famiglia, nei quali si sedimentava la memoria e l’etica delle
grandi famiglie di mercanti. In particolare Alberti è una straordinaria figura mista di umanista-
artista, che tenta invano, attraverso varie iniziative militanti, di legittimare la lingua viva dei ceti
operosi presso l’ambiente umanistico. La prosa della Famiglia assume in presa diretta il fiorentino
quattrocentesco, notevolmente diversificatosi da quello ‘classico’ del primo Trecento (articolo el,
forme verbali come disputaréno, trovorno, ecc.: cfr. § 8), iniettandovi un alto tasso di latinismo,
così nel lessico e nella fonetica (occecato, elimata, polita, ecc.) come nella sintassi e nelle figure di
costruzione (infinitive come «dicono non poter credere», iperbati come «la nostra oggi toscana»),
con un singolare disinteresse per il modello delle Tre Corone.
La poesia narrativa in ottave sviluppa una linea popolaresca nella quale la naturalità del fiorentino si
esalta. Così nel poema cavalleresco Morgante di Luigi Pulci (1460-1470 circa): lessico basso,
comico, espressionistico, gergale (truogo «trogolo», scuffiare «sbruffare», ciuffalmosto
«ubriacone»); fonomorfologia popolare quattrocentesca (avàno «avevamo», impazzerebbono
«impazzirebbero»). Nel circolo di Lorenzo il Magnifico si produce una poesia ‘dialettale riflessa’ in
ottave, la Nencia da Barberino (prima del 1470) che ostenta fonetica rusticale-popolaresca
(migghiaio «migliaio», capegli «capelli», drento «dentro»). Ed è ben significativo che la poesia
volgare iperdotta del filologo umanista Angelo Poliziano, le Stanze per la giostra (prima del 1480),
innesti, in un tessuto di raffinate allusioni letterarie, non solo forme latineggianti (condutto, auro :
lauro : tesauro, iulio) ma anche forme fiorentine contemporanee, popolari, come gli per «le», suo
indeclinabile, dua per «due» (Tavoni 1992: 175-205).
Nelle corti del Nord (Ferrara, Bologna, Milano, Mantova, ecc.), del Centro (Urbino), del Sud
(Napoli) si sviluppa invece, sul terreno privilegiato della poesia, particolarmente quella lirica, una
dialettica fra tre ingredienti linguistici: il volgare locale, il modello latino e il modello toscano,
quest’ultimo a sua volta divaricato fra toscano trecentesco e toscano vivo contemporaneo. È la
stessa dialettica che, sul piano della lingua di comunicazione, si sviluppa nell’ambito delle
cancellerie, contigue a quelle stesse corti signorili, ma che sul piano della lingua poetica viene
portata più avanti, verso esiti più smunicipalizzati (Tavoni 1992: 47-57; 85-105). Due autori sono
emblematici di questo processo: a Ferrara, ➔ Matteo Maria Boiardo, a Napoli Jacopo Sannazaro. Il
primo, passando dalla scrittura privata dell’epistolario alla poesia narrativa dell’Orlando
innamorato e alla poesia lirica degli Amorum libri, presenta un sempre più forte abbandono di
forme padane come gionto «giunto», lanza «lancia», tuto «tutto». Il secondo, nella ventennale
rielaborazione dell’Arcadia (‘romanzo’ composto di egloghe e di prosa), dal 1480 circa al 1504,
riduce il tasso originario di plurilinguismo e pluristilismo a vantaggio di una omologazione
classicistica che sarà compiutamente teorizzata, vent’anni più tardi, nelle Prose della volgar lingua
di Pietro Bembo (cfr. § 6), che prescrivono l’imitazione di Petrarca in poesia e di Boccaccio in
prosa (Tavoni 1992: 227-249, 311-331).
Le Prose rappresentano idealmente il discrimine fra l’età del volgare e l’età dell’italiano. La ricetta
bembiana, che era già anticipata dalla prassi editoriale, trova l’adesione di grandi letterati che ne
corroborano il successo. È emblematico il caso di ➔ Ludovico Ariosto, che dopo le edizioni 1516 e
1521 dell’Orlando furioso (già molto ‘de-padanizzate’ rispetto all’Orlando innamorato), licenzia
l’edizione 1532 in veste linguistica del tutto ‘bembizzata’. Nel 1530 escono le Rime dello stesso
Bembo e quelle del Sannazaro, modelli di petrarchismo linguistico ortodosso. E fin dal 1526 le
Stanze del Poliziano erano state pubblicate rimuovendo le forme fiorentine quattrocentesche
(Trovato 1994: 75-132).
Un altro settore nel quale si misura il progresso della lingua italiana nel Rinascimento è quello della
scienza e della tecnica.
Per tutto il Quattrocento e il primo Cinquecento si dispiega ancora la «scienza volgare», nel senso
del «sapere di mestiere» (Maccagni 1993) di artisti, artigiani e tecnici vari (dalla meccanica
all’idraulica all’agrimensura alla cartografia, ecc.) di formazione puramente empirica, altrettanto
privi di teoria scientifica che di educazione letteraria. Il sommo rappresentante di questa tradizione
si può considerare ➔ Leonardo da Vinci, «omo sanza lettere». Un secolo più tardi ➔ Galileo
Galilei, fondatore della fisica moderna e professore universitario a Pisa e Padova, rinunciò al latino
lingua internazionale della scienza per scrivere in volgare il Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo (1632), lasciando l’esempio di una prosa razionale di mirabile architettura e la prova
della piena capacità di argomentazione scientifica posseduta dall’italiano (Marazzini 1993: 55-65).
La ➔questione della lingua, cioè la secolare discussione su quale dovesse essere il modello della
lingua letteraria, è tipicamente italiana: un profluvio di soggettività determinato dalla mancanza di
unità politica, cioè di quei fattori oggettivi che negli Stati nazionali imponevano con la forza delle
cose il modello linguistico della capitale.
All’inizio del Cinquecento si fronteggiavano la teoria cortigiana (➔ cortigiana, lingua), poi detta
anche italianista, che auspicava un conguaglio fondato sugli usi della conversazione civile nelle
varie corti italiane; le teorie fiorentiniste o toscaniste, che identificavano la lingua letteraria
esistente nell’uso vivo fiorentino o toscano (un illustre esponente è ➔ Niccolò Machiavelli); e la
teoria bembiana (cfr. § 4), classicistica, che imponeva l’imitazione linguistica rigorosa dei grandi
modelli trecenteschi, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (Vitale 1978: 39-153).
Non deve essere sottovalutata l’enorme produzione scrittoria rappresentata dalle lettere dei mercanti
del Quattrocento e da altre scritture dei ceti artigianali che coi mercanti condividevano la
formazione esclusivamente volgare delle scuole d’abbaco. Ma questa lingua volgare di carattere
pratico viene tenuta fuori dalla codificazione cinquecentesca, strettamente letteraria.
Da allora in poi, le scritture dei semicolti e degli incolti appaiono decisamente marginali: per es., i
quaderni di Maddalena pizzicarola trasteverina del primo Cinquecento, del mugnaio friulano
Menocchio, i diari di un prete dell’Appennino emiliano: tutte esili tracce che preludono all’exploit,
fra Ottocento e Novecento, del cosiddetto ➔ italiano popolare (D’Achille 1994; Trovato 1994: 32-
44; Marazzini 1993: 42-54).
L’esigenza di rendere pienamente fonetica l’➔ortografia del volgare introducendo caratteri distinti
per e e o aperte e chiuse, u e v, c e g palatali e velari, è già nell’antesignana Grammatica della
lingua volgare (1437) di Leon Battista Alberti; e l’ortografia è poi, logicamente, il primo settore nel
quale l’avvento della stampa pone un’esigenza di standardizzazione, con la proposta di riforma
ortografica avanzata nel 1524 dal letterato vicentino ➔ Gian Giorgio Trissino e le immediate
risposte di parte toscana.
I vari tentativi di riforma su base fonetica che si susseguirono fino agli anni Ottanta restarono però
lettera morta, e il sistema ortografico dell’italiano si assestò sulla norma ancor oggi in vigore,
imperfettamente fonetica e ragionevolmente economica, perché evita di imporre decisioni
ortoepiche in punti critici in cui le pronunce regionali dell’italiano divergono (Maraschio 1993:
173-227).
La fonetica e la morfologia che si impongono con la svolta bembiana sono quelle fiorentine del
Trecento, scartando le forme fiorentine quattrocentesche o latineggianti o toscane periferiche:
dittongazione toscana tipo cuore piuttosto che monottongazione latineggiante o poetica tipo core,
anche dopo nessi consonantici come in prieghi, truova; anafonesi fiorentina punto e lingua, non
ponto e lengua; i protonica fiorentina tipo migliore, ritorno; preposizione di e non de; er atona
fiorentina, non ar, in meraviglia, cercherò; plurali le torri non le torre; articolo il-i non el-e’; due
non duo; mio declinabile (mie, miei, ecc.) non mia indeclinabile. Morfologia verbale ‘classica’, non
la pletora di forme fiorentine argentee (di origine toscana occidentale o sud-orientale) come
portono, amorono, furno, arebbono «avrebbero», ecc.; prima persona plurale del presente in -iamo
(forma innovativa, analogica sul congiuntivo): amiamo, non amemo; prima persona singolare
dell’imperfetto in -a (forma etimologica, contro la forma analogica innovativa in -o): amava, non
amavo (Manni 1994; Trovato 1994: 75-121). Come si vede, si tratta nella maggioranza dei casi
delle forme in uso ancor oggi.
Nella sintassi, ridimensionata l’invadenza oltranzistica del modello latino riscontrabile nella prosa
di Leon Battista Alberti e di altri umanisti volgari, prevale tuttavia il modello dell’ampio e sostenuto
periodare boccacciano, a sua volta esemplato da Cicerone: modello promosso dal Bembo, a
cominciare dalla sua propria prosa degli Asolani (1505, 1530).
9. Il lessico
Nei due secoli qui trattati gli ambiti d’uso del volgare si estendono e di conseguenza il lessico si
amplia, attraverso vari canali. Da parte degli scriventi toscani si ha un ininterrotto ricorso alla
propria competenza nativa, che porta a legittimare nell’uso scritto, via via che ne insorga la
necessità, il patrimonio orale popolare.
In età umanistica entrano latinismi in quantità, e anche quando dopo Bembo prevale un filtro a
tutela dell’autonomia del volgare, il ricorso al latino rimane insostituibile, determinando fra l’altro
la coesistenza di ➔ allotropi, doppioni costituiti da una forma popolare e una forma dotta risalenti
alla stessa base latina (Scavuzzo 1994). Il lessico autorizzato dai grandi trecentisti, Petrarca e
Boccaccio (Dante appare censurabile nella sua escursione stilistica verso il basso) viene riusato in
modo preferenziale. La scelta per il lessico trecentesco viene sancita sul piano lessicografico (➔
lessicografia) dal Vocabolario degli Accademici della Crusca (prima ed. 1612), che fu per secoli
l’autorità indiscussa in fatto di lingua e anzitutto di lessico, all’insegna del motto «il più bel fior ne
coglie» che ne definisce bene il programma selettivo-discriminatorio (Marazzini 1993: 169-192).
Ma intanto in italiano entrano numerosi forestierismi, dalle lingue iberiche per via dell’egemonia
spagnola su gran parte dell’Italia (D’Agostino 1994; ➔ ispanismi), dal francese (Morgana 1994; ➔
francesismi), dal tedesco (Arcamone 1994; ➔ germanismi) e anche, grazie ai viaggi e alle
esplorazioni geografiche, da lingue esotiche (Mancini 1994; ➔ orientalismi).
La lingua italiana, forte della sua tradizione letteraria illustre, gode di grande prestigio in Europa,
dove si avvia a essere la lingua internazionale della musica e dell’arte (➔immagine dell’italiano). I
teorici italiani della lingua, come Pietro Bembo o ➔ Baldassarre Castiglione ereditano
l’autorevolezza degli umanisti italiani e appaiono punti di riferimento per teorie e azioni a sostegno
delle lingue nazionali che si sviluppano in tutte le monarchie europee.