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Istituto Statale “Regina Margherita” – Palermo

Liceo Musicale – Corso di Storia dell’Arte – prof. Michele Bellanti

Il rapporto tra artisti e committenti nel XV secolo


Di Laura Corchia
Tratto da http://restaurars.altervista.org/il-rapporto-tra-artisti-e-committenti-nel-xv-secolo/

Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Abbiamo da un lato un pittore che
faceva il quadro e, dall’altro, qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione e
decideva in che modo usarlo.

Beato Angelico, Angelo annunciante.

Nel 1400 la pittura era essenzialmente su commissione. Tra pittore e committente si stipulava un con-
tratto legale nel quale erano indicate le modalità di esecuzione, di pagamento e di consegna. Le opere già
pronte si limitavano invece a cassoni nuziali e Madonne. Un dipinto può essere considerato come il riflesso
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della vita socio-economica, dal momento che il suo stile appare fortemente influenzato dalle disposizioni del
committente. Borso d’Este, ad esempio, riteneva opportuno pagare i dipinti a piede quadrato e, di conseguenza,
otteneva opere molto diverse da quelle ottenute da coloro che davano un peso maggiore ai materiali usati e al
tempo impiegato dal pittore.
I committenti richiedevano dei dipinti sulla base di molteplici motivazioni. Giovanni Rucellai, mer-
cante fiorentino arricchitosi con l’usura, possedeva opere di maestri come Veneziano, Lippi, Uccello e Ver-
rocchio. Egli era spinto dal desiderio di possedere oggetti di qualità e dalla necessità di trovare una forma di
riparazione per aver guadagnato con il prestito di denaro.
Nel XV secolo il mercato dell’arte era dunque molto diverso rispetto a come si presenta oggi. Nella
nostra società, i pittori dipingono ciò che ritengono opportuno e solo dopo vanno alla ricerca di un acquirente.
Nel 1457 Filippo Lippi dipinse per Giovanni di Cosimo de’ Medici un trittico destinato in dono al re Alfonso
V di Napoli. Dal momento che il committente si trovava spesso fuori città, il pittore si manteneva con lui in
contatto epistolare. Una missiva di quell’anno reca lo schizzo del trittico secondo il progetto concordato: a
sinistra un San Bernardo, al centro un’adorazione del Bambino, a destra un san Michele. La cornice appare
disegnata in modo più chiaro.
Nel XV secolo, le commesse dei privati erano sovente destinate a luoghi pubblici e solitamente un pittore
veniva assunto e controllato da una persona o da un piccolo gruppo. I principali obblighi contrattuali erano
riassunti nei documenti legali: a volte si trattava di veri e propri atti redatti da un notaio, altre volte si scrivevano
dei promemoria meno elaborati che dovevano essere tenuti da entrambe le parti. Non c’erano dei contratti che
si possano definire tipici perché non c’era una forma fissa nemmeno all’interno di una stessa città. Domenico
Ghirlandaio e il priore dello Spedale degli Innocenti stipulano nel 1488 un contratto per l’Adorazione dei Magi,
tutt’oggi conservata all’interno della struttura. Questo contratto può essere considerato abbastanza tipico
dell’epoca, in quanto contiene i tre temi principali di questo tipo di accordi:
1 specifica ciò che il pittore deve dipingere sulla base di un disegno concordato;
2 stabilisce i modi e i tempi di pagamento da parte del committente e i termini di consegna che il pittore
deve rispettare;
3 insiste sul fatto che l’artefice debba usare colori di buona qualità, soprattutto oro e azzurro ultramarino.
Come si evince da questo contratto, solitamente committente e pittore prendevano accordi sulla base di un
disegno preliminare e, talvolta, venivano elencate le figure che dovevano essere rappresentate. Il pagamento
veniva effettuato spesso a rate e, talvolta, le spese del pittore erano distinte dal suo lavoro. Filippino Lippi, ad
esempio, ricevette dal cardinal Carafa 2000 ducati per il suo apporto personale, mentre assistenti e azzurro
ultramarino furono pagati a parte. Solitamente la somma concordata non era rigida, il pittore poteva rinegoziare
il contratto e, se non si riusciva a raggiungere un accordo, potevano intervenire altri pittori in qualità di arbitri.
Nel contratto stipulato dal Ghirlandaio è evidente la preoccupazione del committente per quanto riguarda l’uti-
lizzo dell’azzurro ultramarino. Si tratta di un pigmento tra i più pregiati, proveniente dalla polvere di lapislaz-
zuli. Ne esistevano di diverse qualità e i committenti specificavano sovente la qualità desiderata (1, 2 o 4 fiorini
l’oncia). Questo colore veniva utilizzato per connotare le figure principali ma, a volte, si ritrova in particolari
piuttosto interessanti: nel pannello del Sassetta raffigurante San Francesco rinuncia ai suoi beni, l’abito rifiu-
tato dal Santo è una tunica di azzurro ultramarino. Negli affreschi raffiguranti la Vita della Vergine eseguiti da
Gherardo Starnina in Santo Stefano a Empoli, per Maria è usata la qualità di azzurro ultramarino da 2 fiorini
l’oncia, mentre per il resto ci si affida ad una qualità più scadente.
Altri artisti percepivano dai committenti uno stipendio. Un caso ben documentato è quello di Andrea
Mantegna, assunto dai marchesi Gonzaga di Mantova e pagato per dipingere affreschi, pannelli e per svolgere
mansioni di varia natura. Si tratta di una posizione abbastanza singolare rispetto a quella dei grandi pittori del
Quattrocento.
Nel corso del secolo si assiste a graduali cambiamenti nei contratti: mentre i colori preziosi perdono il
loro ruolo di primo piano, la richiesta di abilità pittorica assume maggiore rilievo.
Nel corso del secolo si parla sempre meno nei contratti di oro e di azzurro ultramarino. L’oro viene sempre
più riservato alla cornice e l’impiego dell’azzurro ultramarino assume un ruolo marginale. Si tratta di una
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tendenza che sconfina oltre l’ambito artistico e che investe anche altri ambiti. Il cliente sta gradualmente ab-
bandonando le stoffe dorate e sgargianti in favore del più serio nero di Borgogna.
Per quanto concerne i dipinti, il committente sposta la sua attenzione sull’abilità tecnica del pittore.
Un artista come Leon Battista Alberti, nel suo trattato Della Pittura, invitava gli artefici a rappresentare gli
oggetti d’oro non con l’oro, ma attraverso un’abile applicazione del giallo e del bianco.
Un dipinto veniva pagato in base a due elementi: materiali e manodopera. Giovanni d’Agnolo de’
Bardi commissionò a Botticelli una pala d’altare destinata alla cappella di famiglia e, dal contratto stipulato il
3 Agosto 1485, si evince che il pittore ricevette 35 fiorini per il suo “pennello”, ovvero per la sua manodopera,
e una somma a parte per i materiali impiegati.
Il cliente aveva a disposizione vari modi per trasferire il suo denaro dall’oro al pennello. Poteva ri-
chiedere sullo sfondo dei paesaggi invece della doratura, oppure poteva attribuire un valore notevolmente
diverso al tempo del maestro rispetto ai suoi assistenti. Un esempio di tale clausola compare nel contratto
stipulato tra Beato Angelico e papa Nicola V. Una registrazione contabile conservata nell’archivio Vaticano
indica chiaramente le tariffe dei quattro artefici: 200 fiorini all’anno per Beato Angelico e 108 fiorini da ripar-
tire agli aiuti.
Se una parte spropositata del dipinto era eseguita direttamente dal maestro si poteva pagare ovviamente
molto di più. È ciò che accade nel contratto relativo alla Madonna della Misericordia di Piero della Francesca.
In genere, possiamo dire che il cliente conferisce ora il lustro al suo dipinto chiedendo l’intervento del maestro
in persona. Esistevano comunque committenti, come Borso d’Este, che risultavano in stridente contrasto con
le abitudini commerciali dell’epoca ma, in generale, i clienti di fine secolo erano più sensibili all’abilità del
pittore di quanto lo fossero nel 1410.
I contratti dell’epoca tacciono su un aspetto molto importante: non indicano con quali specifiche ca-
ratteristiche dovesse manifestarsi l’abilità, né cosa si dovesse riconoscere come marchio a garanzia dell’abile
pennellata. Poche descrizioni del Quattrocento danno conto dell’abilità dei pittori e non possono dunque essere
considerate come rappresentative di un’opinione collettiva sufficientemente ampia.
Un resoconto genuino può essere considerato il promemoria redatto da un agente fiorentino e indiriz-
zato al duca di Milano. Nel documento sono elencate le caratteristiche dei pittori che a Firenze andavano per
la maggiore: Botticelli, Lippi, Perugino e Ghirlandaio. Di ogni pittore venivano elogiate le qualità e le relative
specializzazioni. Nel documento emerge una sostanziale differenza tra pittura ad affresco e pittura su tavola e,
soprattutto, i pittori vengono considerati come individui in concorrenza tra loro e dotati di un carattere proprio.
Questo resoconto, nonostante lo sforzo di elencare le diverse qualità di ogni artista, utilizza espressioni quali
“aria virile”, “aria dolce”, “aria angelica”, “bona aria” e “proportione” che hanno un significato diverso rispetto
a quello che potremmo attribuire oggi. Pittori, committenti e pubblico appartenevano a una cultura molto di-
versa dalla nostra e, di conseguenza, avevano un differente modo di guardare i dipinti. Questo diverso approc-
cio alla pittura determina, in sostanza, lo stile delle opere.

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