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ISLAMOCHRISTIANA 38 (2012) 21–33

VALERIO POLIDORI*

L’IDEA DI “UOMO” E “PERSONA UMANA” IN ETà PATRISTICA


DUE ANTROPOLOgIE A CONfRONTO

SUMMARY: The paper focuses on some anthropological aspects in the Christian East and West in the so–
called patristic period. from the III century onwards, we observe a gradual shift of the Latin
ecclesiastical authors away from the optimistic greek anthropology based on the concept of theōsis
(divinisation) to another view strongly influenced by the idea of original sin and its consequences
on human nature. Over the centuries, this divergence has led to a real rupture between East and West
with a heavy impact on ecumenical dialogue, which continues to this day.

Introduzione
Secondo quanto diffusamente ritenuto, la cultura classica non è riuscita ad espri-
mere una vera antropologia1 basata sul concetto di “persona umana” per diversi mo-
tivi: da una parte la concezione ciclica del tempo e della natura, con il conseguente
impatto deterministico sulla storia dell’uomo, dall’altra l’idea tradizionale del de-
stino, elementi che di fatto annullano la libertà personale e storica dell’uomo ren-
dendo difficile, se non impossibile, far emergere la dimensione autenticamente
umana della persona2.
Quando il Cristianesimo irrompe nella cultura mediterranea per divenirne il
nuovo motore, sovverte – non senza conservarne alcuni elementi – il suo frammentato
paradigma antropologico proponendone uno nuovo il cui sviluppo, tutt’altro che li-

* Valerio Polidori, master’s degree in patristic philology (Università di Roma “La Sapienza”), PhD
in oriental liturgy (Pontificio Istituto Orientale), is a member of the Liturgical Commission for the
translation of the Divine Office (Administration of the churches in Italy, Moscow Patriarchate) and a board
member of “Studi sull’Oriente Cristiano”.
1
Per una rapida rassegna degli studi sull’antropologia del mondo classico mediterraneo si veda A.
Barnard – J. Spencer (eds.), Encyclopedia of social and cultural anthropology, Routledge, London – New
York 20023, pp. 150–152.
2
C. Sepe, Persona e storia. Per una teologia della persona, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1990,
pp. 14–50.
22 V. Polidori [2]

neare, si svolge soprattutto nella fase centrale della cosiddetta “età patristica”3, per
giungere a una completa maturazione solo in tarda età medievale.
Considerata la vastità dell’oggetto di studio, il presente contributo si limita ad
offrire una panoramica generale per delineare e circoscrivere l’argomento nelle sue
due principali declinazioni, mettendo a fuoco alcuni temi centrali come quello della
divinizzazione e della relazione tra la natura umana e la dottrina del peccato originale,
con opportuni rimandi in apparato alle monografie sui singoli autori o aspetti partico-
lari.

Premesse
Sullo sfondo della nascente antropologia cristiana c’è prevedibilmente la Sacra
Scrittura4, e nella fattispecie:
1. Il racconto genesiaco della creazione (gn 1,26; 2,7) e della caduta (gn 3), e la
ripresa dei medesimi temi nella letteratura sapienziale (Sap 2,23; Sir 17,1–14)5;
2. il tema pre–paolino di Cristo come modello archetipale dell’umanità (e.g.
1Cor 15,49; 2Cor 3,18; Rom 8,29; fil 3,21)6;
3. Il tema paolino della bi– o tri–partizione strutturale dell’uomo in termini di
σάρξ (carne)7, σῶμα (corpo)8, ψυχή (anima)9, νοῦς (intelletto)10, πνεῦμα (spirito)11;

3
Tale definizione, che risale alla metà del XVII secolo e oggi trasversalmente rigettata
dall’accademia, convenzionalmente abbraccia il periodo cristiano fino all’opera di Beda in Occidente e
giovanni Damasceno in Oriente, g.M. Vian, Bibliotheca divina: filologia e storia dei testi cristiani, Studi
superiori, Carocci, Roma 2001, p. 18.
4
Per il retroterra biblico dell’antropologia in età patristica, si veda pure V. grossi, Lineamenti di
antropologia patristica, Borla, Roma 1983, pp. 16–25; B. Degòrski, “Visioni antropologiche dei Padri”,
in B. Moriconi (ed.), Antropologia cristiana, Città Nuova, Roma 2001, pp. 373–414, pp. 374–376.
5
Per un approccio trasversale e non eccessivamente impegnativo alla lettura e alla rilettura dei
primi tre capitoli di genesi si può vedere K.E. Kvam, L.S. Schearing e V.H. Ziegler, Eve and Adam: Je-
wish, Christian, and Muslim Readings On Genesis and Gender, Indiana University Press, 1999. Per le dif-
ficoltà e i diversi approcci ermeneutici al libro di gen si veda senz’altro R. Hendel (ed.), Reading Gene-
sis. Ten Methods, Cambridge University Press, Cambridge 2010.
6
Su questo aspetto si veda, tra le pubblicazioni recenti, g.D. fee, Pauline christology: an exegeti-
cal–theological study, Hendrickson Publishers, Peabody 20072, pp. 115–119; 182–183; 251.
7
gal 5,19–21; 1Cor 3–5.
8
1Cor 15,44; 5,3.
9
Ad es. 1Cor 2,14–15 e il concetto di ψυχικὸς ἄνθρωπος (uomo psichico) frapposto tra l’uomo
‘carnale’e quello ‘spirituale’. Tale tripartizione, mutatis mutandis, diventerà il Leitmotif di varie forme di
gnosticismo, f. Carcione, Le eresie. Trinità e Incarnazione nella Chiesa antica, Edizioni Paoline, Roma
1992, p. 40.
10
Rom 7,23; 12,2; 1Cor 14,14–15.
11
1Tes 5,23; Rom 8,2–8. In generale sull’antropologia paolina in chiave dualista si veda il classico
R.H. gundry, Sōma in biblical theology with emphasis on pauline anthropology, Society for New Testa-
ment Studies – Monograph series 29, Cambridge University Press, Cambridge 1976. Ancora, sul corpo si
veda pure il più recente K.O. Sandnes, Belly and Body in the Pauline Epistles, Society for New Testament
[3] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 23

4. Il tema paolino dell’adozione (gal 4,4–6; Rom 8,14–16; cfr. Sal 82,6–7)12 e
della caduta (Rom 5,12–19);
5. Il tema paolino dell’unione con Cristo (e.g. 1Cor 6,15.17.19; Rom 8,9–11) e
più in generale quello dell’unione con la natura divina (2Pt 1,4)13.
Considerata l’estrema eterogeneità dei motivi sottesi a questi testi, è chiaro che
la nascente antropologia cristiana si prestasse a diversi possibili sviluppi, a seconda
che l’accento fosse posto su un tema piuttosto che un altro.
È ormai, ad esempio, un topos storiografico che in ambiente alessandrino, più
influenzato dalla cultura platonica, maggior interesse fu profuso sull’aspetto razio-
nale dell’uomo e sull’idea di Cristo come suo archetipo; in quello asiano–antiocheno,
viceversa, sull’unità corpo–spirito14. In questa primissima fase sono pressoché assenti
commentatori occidentali a motivo del ritardo della nascita di una intellighenzia cri-
stiana in centri pur importanti come Roma e, in minor misura, Cartagine rispetto alle
metropoli orientali15.
già in pieno II secolo, dunque, si possono rintracciare in nuce i germi di quella
futura antropologia cristiana bifronte, una orientale fortemente ancorata a idee di ma-
trice platonica e stoica, e una occidentale che utilizza gli stessi temi riallacciandoli in
parte alle vestigia della antica scuola antiochena e soprattutto collocandoli in un di-
verso orizzonte ermeneutico fondato su sviluppi propri e originali della riflessione
teologica trinitaria.

Cristianesimo Orientale
Sin dagli esordi della letteratura patristica, l’Oriente Cristiano mostra una spic-
cata propensione a formulare un’antropologia che assuma i temi biblici orientandoli

Studies – Monograph series 120, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Sull’opposizione, infine,
tra “carnale” e “spirituale” si veda, ad esempio, C.S. Keener, “‘fleshly’ versus Spirit. Perspectives in Ro-
mans 8,5–8”, in S.E. Porter (ed.), Paul: Jew, Greek, and Roman, Pauline Studies 5, Brill, Leiden – Boston
2008, pp. 211–230.
12
A mero titolo esemplificativo, un recente lavoro sul tema è T.J. Burke, “Adopted as Sons
(υἱοθεσία): The Missing Piece in Pauline Soteriology”, in Porter, Paul: Jew, Greek, and Roman, pp. 259–
288.
13
Sulla divinizzazione e la “cristificazione” del NT si può vedere la recente sintesi offerta da P.M.
Collins, Partaking in Divine Nature: Deification and Communion, T&T Clark, London – New York 2010,
pp. 41–44.
14
S. Döpp e W. geerlings, Dizionario di Letteratura Cristiana antica, Urbaniana University Press
e Città Nuova, Roma 2006, pp. 754–755. È in questa fase, verso la metà del II secolo, che nasce pure una
diversa esegesi del sintagma “immagine e somiglianza”. Per la scuola antiochena si veda, ad es., Diodoro
di Tarso, In Gn 1,26, Pg 33, 1564. Per quella alessandrina Origene, De Principiis, 3,6,1.
15
I motivi risiedono in parte nelle direttrici di diffusione del Cristianesimo, in parte nel panorama
culturale del mondo antico, il cui asse era piuttosto spostato verso l’oriente ellenizzato, C. Scarre, The
Penguin historical atlas of ancient Rome, Penguin Historical Atlases, London 1995, pp. 124–125; A. Kal-
dellis, Hellenism in Byzantium. The Transformations of Greek Identity and the Reception of the Classical
Tradition, Cambridge University Press, Cambridge – New York 2007, pp. 51–61.
24 V. Polidori [4]

all’idea di fondo che l’uomo, essendo creato a immagine di Dio, non può che avere
una vocazione alla partecipazione alla sua divinità. Nasce dunque, pur con diverse
possibili declinazioni nelle sue formulazioni iniziali, ciò che si suole chiamare “dot-
trina della divinizzazione”16.
Sebbene le prime inarticolate espressioni di tale idea possano rintracciarsi già
nell’epistolario di Ignazio di Antiochia17, l’iniziatore di questo filone sembra essere
giustino, secondo cui l’uomo è per natura una creatura razionale e contemplativa18 la
cui vocazione è quella di partecipare dell’immortalità e della vita di Dio19.
Pochi anni dopo, il suo discepolo Taziano ritiene che l’uomo abbia una struttura
tripartita costituita da un corpo, uno spirito materiale (ψυχή) e uno spirito immate-
riale (πνεῦμα) che ne costituisce propriamente l’“immagine e somiglianza” di Dio20.
È attraverso questo spirito immateriale, difficilmente distinguibile dallo stesso Spirito
di Dio21 che l’uomo può partecipare alla vita divina e ottenere l’immortalità22. In que-
sta prima fase, dunque, si possono apprezzare i prodromi di un’antropologia che, sep-
pur condizionata ora da elementi platonici (giustino) ora gnostici (Taziano), va ricer-
cando strade nuove man mano che riflette sulla Scrittura e su se stessa, ma non ancora
in grado di produrre una vera alternativa presso le élites intellettuali pagane.
Si può ben dire che la dottrina della divinizzazione, con la sottostante antropolo-
gia ad essa connessa, giunga a una prima compiuta formulazione alla fine del II se-
colo nell’opera di Ireneo. Partendo sempre dal concetto di immagine e somiglianza23
e da una solida formazione greca che tradizionalmente identificava l’immortalità
come il principale carattere della divinità24, per il vescovo di Lione l’uomo è sempre
stato mortale per natura, dal momento che l’immortalità la ottiene per partecipazione

16
fondamentale introduzione al tema è il recente N. Russel, The Doctrine of Deification in the Greek
Patristic Tradition, Oxford University Press, 2004, il quale offre anche un inquadramento sui prodromi di
tale dottrina nel mondo pagano e giudaico.
17
L’unione con Dio conduce alla partecipazione in lui, cfr. Trall. 11.2; Eph. 4.2, sicché i cristiani
possono dire di “avere Dio in loro”, Rom. 6.3. L’approccio di Ignazio, tuttavia, è più di tipo ecclesiologico
che metafisico. In compenso nel vescovo di Antiochia si può intravedere un’antropologia secondo cui la
piena realizzazione dell’umanità sta nel liberarsi dall’oppressione della carne attraverso la testimonianza
(martirio): «Non abbandonate al mondo né seducete con la materia chi vuol essere di Dio. Lasciate che ri-
ceva la luce pura; là giunto sarò uomo», Rom. 6.2.
18
«Infatti [Dio] in principio ha creato il genere umano dotato di ragione e capace di scegliere libe-
ramente la verità e di far bene, per cui non c’è alcuna scusante per tutti gli uomini dinanzi a Dio: sono nati,
infatti, razionali e contemplativi» (Apologie, I,28,3).
19
Apologie, I,10,2–4.
20
Orat. 12.1. Che sia la componente immateriale dell’uomo a costituire l’immagine di Dio è il fon-
damento della cosiddetta dottrina dell’“uomo interiore”, di chiara ispirazione paolina (2Cor 4,16; Rm
7,22) e che giunge a maturità con Origene, Degòrski, “Visioni antropologiche dei Padri”, pp. 387–391.
21
Cfr. Orat. 15.1.
22
Orat. 7.1; 13.1.
23
Adversus Haereses, 5,3–13; 3.22.1.
24
Cfr. Timeo, 41d.
[5] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 25

alla natura di Dio25. Conseguentemente il Verbo di Dio è diventato uomo affinché


l’uomo potesse “cristificarsi”26 anticipando così il famoso motto attribuito ad Atana-
sio secondo cui il Verbo «si è fatto uomo affinché noi potessimo essere fatti Dio
(θεοποιηθώμεν)»27, sicché il compimento dell’immagine e somiglianza risiede pro-
prio in questa assimilazione a Cristo28. Tale divinizzazione è resa possibile dal legame
ontologico tra la natura umana e quella divina che la stessa incarnazione ha determi-
nato29.
Nel corso del III secolo la dottrina della divinizzazione trova altri teorizzatori
soprattutto in Clemente Alessandrino30 e Origene31 mentre si va gradualmente for-
mando un vocabolario tecnico cui tuttavia non tutti gli autori attingono con sistemati-
cità32.
È senz’altro il contributo dei Padri Cappadoci a portare a maturazione l’antro-
pologia dei maestri alessandrini. Sebbene sia gregorio di Nazianzo a coniare il ter-
mine theōsis33 che così tanta fortuna avrà in seguito, è forse il più meditativo grego-
rio di Nissa ad offrire la riflessione più sistematica sul tema della divinizzazione34.
In diverse sue opere, come il De instituto christiano e il De vita Moysis, il Nis-
seno descrive il percorso a ritroso dell’anima umana nella sua ascesa verso Dio che,
attraverso un processo ascetico e catartico, arriva a percepire l’infinità di Dio in ma-
niera completamente apofatica, secondo uno schema che poi diverrà un locus classi-
cus in cui alla massima oscurità corrisponde la massima conoscenza35. Ciò è possibile
perché l’uomo è buono per natura in quanto immagine di Dio:
«Se uno, dopo aver per un poco allontanato il proprio pensiero dalle cure del corpo, ed essersi sot-
tratto alla servitù delle passioni e alla stoltezza, contempla con sincera e franca riflessione la pro-
pria anima, vedrà con chiarezza, nella natura di essa, l’amore di Dio per noi e il disegno della sua
creazione. Troverà con una tale indagine che la spinta del desiderio al bello e al buono è consu-
stanziale e connaturale all’uomo e che il puro e felice amore di quell’immagine intellettuale beata

25
Adv. 2.34.4; 3.20.1.
26
Cfr. 3.10.2, 3.16.3, 3.18.7, 3.19.1, 3.20.2, 4.33.4, 5.Pr.1.
27
De incarnatione, 54; Pg 25,192.
28
Ibid., 4.38.4.
29
Ibid., 3.19.1.
30
Prot. 1.8.4.
31
Cels. 3.28: Orat. 27,13.
32
D.A. Keating, Deification and Grace, Sapientia, Naples, fL 2007, pp. 8–9.
33
Or. 4.71 (SC 309 [Paris 1983]) cfr. B. Maslov, “The Limits of Platonism: gregory of Nazianzus
and the Invention of theōsis”, in Greek, Roman, and Byzantine Studies 52 (2012) 440–468. Questo recen-
tissimo studio ridimensiona la matrice platonica del concetto di divinizzazione in favore di quella stoica.
34
In ambiente egiziano si apprezza una continuità ideale, sotto il profilo antropologico, tra Cle-
mente e Origine e le più grandi figure del IV secolo, soprattutto Atanasio e Didimo il Cieco, oltre all’ap-
porto di altre figure–ponte tra il pensiero cappadoce e quello alessandrino come Evagrio Pontico. Nei se-
coli successivi fu proprio la linea più mistica sviluppata da quest’ultimo ad avere una notevole fortuna nel
resto dell’Impero, soprattutto attraverso l’opera di Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore.
35
Cfr. De vita Moysis, 2.183, 187, 274.
26 V. Polidori [6]

di cui l’uomo è imitazione, è strettamente legato alla natura. Ma qualche errore di queste cose vi-
sibili e sempre transeunti, attraverso una passione irrazionale e un amaro piacere, ingannando
l’anima spensierata e indifesa a causa dell’indolenza, la trascina ad una terribile malvagità, gene-
rata dai piaceri della vita e generante a sua volta la morte per coloro che la amano»36.

gregorio di Nissa usa termini mutuati dalla speculazione trinitaria (natura, con-
sustanziale, connaturale) per descrivere la natura dell’uomo e, anzi, si può affermare
che tutta la sua antropologia è basata sulla riflessione trinitaria37. L’uomo è per natura
tendente “al bello e al buono” e sono le passioni irrazionali (platonicamente legate al
corpo) la causa della sua rovina. Si noti che anche qui è assente ogni riferimento ad un
ruolo del peccato adamico nella caduta dell’uomo: gregorio di Nissa si è già liberato
del mythologoumenon genesiaco per afferrare la sostanza strutturale del problema an-
tropologico38, che interpreta con categorie tipicamente platoniche.
Il nisseno è pure consapevole sia dell’infinita distanza che esiste tra creatura e
creatore39 sia dell’identità tra la natura umana e quella assunta da Cristo nella sua
umanità. Per questo la vera natura umana è quella di Cristo, e il nesso tra antropolo-
gia e cristologia (e di lì teologia trinitaria) diventa ineludibile. La “cristificazione”,
tuttavia, non avviene solo per μίμησις40, ma per una vera e propria partecipazione a li-
vello ontologico, di qui il ruolo chiave del termine φύσις per esprimere lo stesso con-
cetto che in teologia trinitaria si soleva designare con οὐσία41. In ultima istanza, dun-
que, è la natura umana di Cristo, da cui si effonde nell’uomo l’unità e la semplicità
proprie della natura di Dio, a dare accesso all’uomo alla pericoresi trinitaria.
È principalmente nell’Ad Ablabium che si manifesta l’uso di φύσις e
ὑπόστασις indifferentemente per la Trinità e per l’uomo: come nella Trinità non ci
sono tre dèi, analogamente non si può parlare di molte umanità, ma di un’unica natura
umana42. Viceversa, mentre l’attività della Trinità è unica, nell’uomo è presente un’at-
tività (ἐνεργεία) per ogni individuo. Inoltre:
«Il singolo uomo è circoscritto da una certa quantità corporea e la misura della sua concreta indi-
vidualità (ὑπόστασις) è per lui la dimensione che corrisponde esattamente all’apparenza esterna
del corpo»43.

36
De Instituto Christiano 40,1–10, in R. Cantore, “Eros in gregorio di Nissa. Una forma dell’agape
effetto della trasformazione dell’epithymia dopo la tenebra luminosa”, in Bollettino della Badia Greca di
Grottaferrata III s. 8 (2011) 51–70, pp. 53–54.
37
g. Maspero, Trinity and Man, Vol. 86. Supplements to Vigiliae Christianae, Brill, Leiden – Bo-
ston 2007, p. 67.
38
In De hominis opificio, 16 il Nisseno così descrive gn 3: «Il racconto della Scrittura intorno alla
creazione dell’uomo attraverso l’indeterminato dell’indicazione (scil. “uomo”) indica tutta l’umanità.
[…] Il nome dato all’uomo creato non è singolo, ma universale, della natura.»
39
Contra Eunomium I,171,4–172,3 (Ed. W. Jaeger).
40
De Beat. VII/2, 159,13–19.
41
Maspero, Trinity and Man, p. 26.
42
Ad Ablab. 40,24–41.
43
De Hom. Pg 44,185BC.
[7] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 27

In questa analogia, se la figura esteriore (sensibile) è ciò che costituisce l’indivi-


dualità (ipostasi) dell’uomo, l’intelletto – per sua natura insondabile – è ciò che me-
glio individua la natura umana, sicché si può affermare che tanto la natura divina
quanto quella umana siano sostanzialmente inconoscibili44. Il fondamentale ottimi-
smo della prospettiva antropologica del Nisseno trova qui un’altra conferma: se, in-
fatti, la natura umana fosse conoscibile, se, cioè «la natura dell’immagine si potesse
comprendere e il prototipo fosse al di sopra della comprensione (ὑπὲρ κατάληψιν),
questa contraddizione proverebbe lo scadimento dell’immagine»45.
Cirillo di Alessandria sviluppa, sulla scia di Ireneo e di Atanasio, soprattutto il
tema della partecipazione alla vita divina. Poiché l’uomo è un essere derivato, o com-
posto, un amalgama di elementi che provengono tutti da Dio che è invece assoluta-
mente semplice46, è fondamentale per lui riscoprire la propria natura incorruttibile at-
traverso la partecipazione alla vita di Dio:
«L’immagine del figlio di Dio è stata impressa su di noi facendoci nella sua stessa forma e impri-
mendo attraverso il proprio Spirito l’illuminazione come un’immagine divina su coloro che cre-
dono in Lui, sicché anch’essi possono ora essere chiamati “dèi” o “figli di Dio” proprio come lui»47.

Sempre nel Commentario al Vangelo di giovanni, Cirillo descrive l’uomo come un


“essere vivente razionale composto di anima e di carne terrena e mortale”48 in cui l’origi-
naria partecipazione all’incorruttibilità data dalla natura divina può essere restaurata
(dopo la caduta dei progenitori) solo attraverso l’“unione ineffabile con la Parola che dà
vita a ogni cosa”49. In questo senso la sua antropologia non fa altro che riproporre l’eterna
tensione tra natura e grazia come paradigma del rapporto divino–umano50, risultando
complessivamente meno brillante di quella di gregorio di Nissa.

Al termine di questo percorso antropologico dell’Oriente cristiano si possono ricor-


dare almeno gli Ambigua di Massimo il Confessore, un’opera che si situa alle vette della
teologia orientale. Secondo Massimo, l’uomo ha, sia nella sua origine che nel suo destino
finale (la divinizzazione), un principio innato di bene che è Dio stesso, dal quale egli trae
la sua esistenza. Mediante la libera adesione alla grazia santificante di Dio, l’uomo può
realizzare la sua partecipazione alla vita divina realizzando così pienamente la sua uma-
nità:

44
«Poiché, dunque, tra le proprietà da considerarsi nella natura divina è l’inconoscibilità dell’essenza,
è necessario che anche in ciò l’immagine abbia somiglianza con l’archetipo» (De hominis opificio, 11).
45
Ibid.
46
Potrebbe in questo apparire uno Scolastico ante litteram, ma un certo dualismo tra corpo e anima
che solca trasversalmente la sua opera è di chiara matrice platonica, con ampi riflessi sulla sua soteriolo-
gia.
47
In Jo. 1.14 (1:103.10, Ed. P.E. Pusey).
48
σύνθετον δὲ ὅμως ζῷον ὁ ἄνθρωπος, ἐκ ψυχῆς δηλονότι καὶ τῆς ἐπικήρου ταυτησὶ καὶ
γηΐνης σαρκός.
49
In Jo. 1.14 (1:138–39).
50
Si veda, ad es. In Jo. 1.6–7 (1:90).
28 V. Polidori [8]

«Ogni uomo che partecipa della virtù nella ferma disposizione della sua anima, senza dubbio par-
tecipa a Dio, che è la sostanza delle virtù in quanto per libera decisione coltiva nobilmente il seme
del bene secondo natura e mostra che l’inizio è identico alla fine e la fine all’inizio, o piuttosto, il
medesimo è l’inizio e la fine. In tal modo costui è veritiero difensore di Dio, poiché lo scopo, che
è in Dio, si crede che sia il principio e la fine di ogni cosa: è il principio, in quanto ogni cosa
prende da Dio, oltre all’essere, anche ciò che è buono per natura secondo la partecipazione; è la
fine, in quanto, conforme a tale partecipazione, per libera decisione e per volontà compie con im-
pegno la lodevole corsa che senza errore lo conduce verso la fine, per cui egli diviene Dio. Riceve
da Dio l’essere Dio, poiché a quello che per natura è bello secondo l’immagine aggiunge per li-
bera scelta anche l’assimilazione ottenuta mediante la virtù, grazie all’ascesa e all’affinità con il
proprio principio, che sono innate in lui. E quindi si compie anche in lui la parola dell’apostolo,
che dice: “In lui, infatti, noi viviamo e ci muoviamo e siamo”»51.

Si vede, dunque, come per il cristianesimo orientale l’uomo sia innanzitutto


“icona di Dio”52 e come tale non possa essere orientato verso il male. In quest’ottica
si comprende meglio anche il diverso approccio al tema della caduta dei progenitori e
al peccato in generale. Quest’ultimo, infatti, si configura di norma come un atto voli-
tivo più che come una condizione ereditata, tanto che giovanni Crisostomo può a ra-
gione sostenere che «Anche per la carne è giusto pensare che faccia questo o quello a
seconda della decisione dell’anima, non secondo una propria intrinseca natura»53.
L’antropologia orientale e questa particolare visione del peccato sono dunque intrin-
secamente connesse come lo sono l’adam genesiaco, creato a immagine di Cristo per
elevarsi sino al suo archetipo, e il Verbo che si amalgama ipostaticamente in lui mani-
festandosi nella storia come Dio–uomo54, sicché nell’ottica orientale motivo dell’in-
carnazione non è la salvezza dal peccato originale, ma la restaurazione di questo rap-
porto iconico tra Dio e l’uomo: se, infatti, l’incarnazione fosse conseguenza del pec-
cato adamico, l’azione salvifica di Cristo si ridurrebbe ad un mero accidente storico,
mentre Cristo è Salvatore indipendentemente e precedentemente al peccato, poiché in
quanto archetipo dell’uomo egli realizza ab aeterno la vetta ontologica di ogni perfe-
zione. Questa visione, peraltro, non esclude l’orizzonte escatologico annullandolo in

51
Ambiguum 7, 1084A. Sul medesimo tema si veda pure Ibid., 1076–1076C. La tendenza nella
mentalità orientale, specialmente nel medioevo, a identificare il punto di partenza con quello di arrivo
sembra avere un riflesso nell’evoluzione degli uffici liturgici, i quali tendono a terminare con le stesse
modalità con cui iniziano, R. Taft, «How Liturgies grow: The Evolution of the Byzantine “Divine
Liturgy”», in Orientalia Christiana Periodica XLIII (1977) 8–30, p. 30.
52
g.S. Romanidis, Il peccato originale secondo S. Paolo, Asterios, 2006, p. 14. Origene e Basilio,
commentando la relazione iconica tra l’uomo e il suo Creatore, distinguono tra “immagine” e “somi-
glianza”: la prima consiste nel ricevere l’essere a immagine di Dio, la seconda nel realizzare questa somi-
glianza e attualizzarla mediante il libero uso della volontà. Così, “cristificandosi” l’uomo incarna propria-
mente la sua natura.
53
In Rom., 11,3, ribadito in 13,6. Altrove (ibid., 13,2) insisterà sul fatto che “corpo e anima sono
opera di Dio, mentre l’intenzione viene da noi ed è un moto che possiamo condurre nella direzione che de-
sideriamo”.
54
Cfr. O. Clément, Teologia e poesia del corpo, Piemme, Casale Monferrato 1997, 126–128; 134–
138.
[9] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 29

quello ontologico, bensì lo integra e lo compenetra: essendo l’umanità concepita


come un tutt’uno, l’incarnazione del Verbo ipso facto la divinizza55.

Cristianesimo Occidentale
Nonostante alcuni inveterati topoi storiografici, anche l’Occidente conosce i
medesimi temi dell’Oriente cristiano. Qui il signifero della teo–antropologia che lega
indissolubilmente incarnazione e creazione dell’uomo fu senz’altro Ilario di Poitiers56
che, seguendo evidentemente le orme di Atanasio, può dire: «Dio il Verbo divenne
carne affinché attraverso la sua Incarnazione la nostra carne potesse arrivare al-
l’unione con Dio la Parola»57. Tuttavia non sembra essere questa la linea che prevarrà
in Occidente, almeno a giudicare la sterminata opera di Agostino e, in misura minore,
di Ambrogio.
Sebbene, infatti, anche in Agostino siano rappresentati i grandi temi antropolo-
gici tipici dell’Oriente Cristiano come quello dell’uomo come immagine di Dio58 e
come originariamente buono e libero59 nel grande Ipponate è maggiormente radicata
una visione più pessimista sull’uomo, già peraltro ben attestata in Occidente almeno
dal III secolo60 e che diventerà praticamente l’unica declinazione antropologica possi-
bile nel medioevo latino a causa della pressoché totale egemonia agostiniana nelle let-
ture patristiche medievali61.

55
Che attraverso l’incarnazione del Verbo la natura umana sia assunta da quella divina e dunque
divinizzata è un topos della patristica orientale: si veda, ad es., gregorio di Nissa, Pg 45, 65D o Massimo
il Confessore Ep. 12, 468C. Su quest’ultimo e sulla riflessione intorno alla natura umana assunta da Cristo,
si può vedere anche D. Bathrellos, Person, Nature, and Will in the Christology of Saint Maximus the
Confessor, Oxford University Press, 2004, pp. 99–128, 148–174.
56
Ma si deve ricordare che le opere più significative di Ilario sono state composte durante il suo esi-
lio in Asia minore, durante il quale egli venne a contatto con la migliore cultura greca, M. Weedman, The
Trinitarian Theology of Hilary of Poitiers, a cura di J. den Boeft et al. Supplements to Vigiliae Christianae
89, Brill, Leiden – Boston 2007, pp. 4–13. Per l’antropologia di Ilario si veda J. Doignon, « “Apeuré par la
condition humaine” (Hilaire de Poitiers, In Psalmum 118,15,5) », in Studia Patristica 23 (1989) 119–126.
57
De Trinitate, I,11. In termini analoghi si esprime anche Onorio di Autun, Libellus octo questio-
num, PL 172,1185–1192. Anche in Agostino è rappresentato, seppur forse in modo più marginale, il tema
del “divenire dèi partecipando di Dio”, ad es. De Civitate Dei, 22, 30.4.
58
De Civitate Dei, 8,23.2; 16,6.1; 19,15.
59
Ibid., 22,1–2.
60
«… si pensi alla condanna divina che, all’origine del mondo e del genere umano ha ricevuto
Adamo […] Siamo tutti legati e stretti dal vincolo di questa condanna», Cipriano, De bono patientiae, 11.
Espressioni di questo tenore, che pure si possono ritrovare anche nel corpus tertullianeo, sembrano smen-
tire l’affermazione secondo cui una chiara dottrina del peccato originale non fosse attestata in occidente
prima della sua formulazione agostiniana, cfr. Tertulliano, Il Battesimo (a cura di P.A. gramaglia), Edi-
zioni Paoline, Roma 1979, p. 89.
61
M.W.f. Stone, “Augustine and medieval philosophy”, in The Cambridge Companion to Augu-
stine (N.K. Eleonore Stump [ed.]), Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 253–266, p. 253. Il
saggio illustra anche l’ampia difformità e spesso la scarsa aderenza al pensiero di Agostino nel cosiddetto
agostinismo medioevale.
30 V. Polidori [10]

Alla base dell’antropologia agostiniana c’è senz’altro una visione dualista, ere-
ditata dalla sua cultura platonica, secondo cui l’uomo è un composto di anima e
corpo62, con una teorica e originale predominanza dell’aspetto spirituale e immate-
riale su quello materiale63. Su questa idea si innestano in Agostino altri elementi: il
primo riguarda la sorte dell’uomo dopo la caduta di Adamo, sulla cui storicità l’ippo-
nate si interroga meno dei suoi colleghi orientali più propensi ad allegorizzare gn 3 e
collocarlo in un orizzonte metastorico. Si ritrova, dunque, in Agostino l’idea che l’in-
tero genere umano proviene da Adamo64 e da questi eredita una giusta condanna65. Il
peccato adamico si configura così nella visione agostiniana come una condizione66
non solo patologica e innata, in quanto trasmessa per propagazione67, ma così deter-
minante da essere in grado essa stessa di mutare la natura dell’uomo68:
«È stata istituita la rigenerazione, perciò, solo perché era corrotta la generazione, tanto che per-
sino chi è nato da un matrimonio legittimo può dire: Nelle iniquità sono stato generato e nei pec-
cati mi ha concepito mia madre (Ps 50,7). Non ha detto: “Nell’iniquità o nel peccato”, pur poten-
dolo dire correttamente, ma ha preferito parlare di iniquità e di peccati, poiché anche in quel-
l’unica colpa, che ha raggiunto tutti gli uomini e che è talmente grave da determinare la trasfor-
mazione della natura umana, piegandola alla necessità della morte, si riscontrano, come sopra ho
esposto, numerosi peccati; anche quelli dei genitori, fra l’altro, che non possono trasformare a tal
punto la natura, vincolano pur sempre i figli con l’ipoteca della colpa, se non interviene la gratuità
della grazia e la divina misericordia»69.

62
De civitate Dei, 5,11; 13,2,10; 13,24.2; 14,4.2,5; 19,3.1; 19,4.5; 21,10.1.
63
Ibid., 14,22. Nel De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum 1,4,6 l’Ipponate
non risponde alla domanda su cosa sia l’uomo, se un composto di anima o corpo o solamente anima, la-
sciando intravedere che non riesce a superare completamente il platonismo. Anche per Ambrogio il corpo
è uno strumento dell’anima, cfr. Exam. 6,7,42; 6,6,39, In ps. 118,10,10.
64
De Civ. Dei, 16,8.1–2.
65
Ibid., 11,22.
66
De pecc. merit. et remis., 1.9.9–1.12.15.
67
W. E. Mann, “Augustine on evil and original sin”, in The Cambridge Companion to Augustine (a
cura di N. K. Eleonore Stump), Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 40–48, p. 47. In Ago-
stino, inoltre, sembra presente l’idea di matrice encratita che la trasmissione del peccato avvenga per via
dell’atto sessuale connesso alla procreazione cfr. Ep. 164,7,19, formulazione ripresa ampiamente in se-
guito, ad es., Leone Magno, Ser. in Nativ. Domin. I, II, V.
68
Tali idee non sono totalmente estranee al mondo greco. Ad es., Cirillo di Alessandria (In Rom.
2,5) parla del peccato contratto dall’umanità nei termini di “malattia” e “morbo”, che si trasmette da un
individuo all’altro per generazione, e che «a causa della debolezza della natura, nessuno evidentemente
era in grado di divenire giusto» (Ibid., 5). Tuttavia altrove (Ibid. 7) anch’egli, allineandosi alla maggio-
ranza dei padri greci, insiste sul fatto che il peccato è inestricabilmente connesso al libero arbitrio. Anche
Origene in alcuni punti (Homiliae in Lucam, 14,3–55; Commentarii in Ep. ad Rom., 5,9) sembra intendere
il peccato allo stesso modo che sarà poi di Agostino, ma attribuisce le macchie (sordes) contratte alla na-
scita per la contaminazione con la carne anche a Cristo; su quest’ultimo tema, piuttosto complesso, si
veda ad es., il classico, recentemente ristampato f.R. Tennant, The Sources of the Doctrines of the Fall
and Original Sin, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 301 sgg.
69
Enchiridion de Fide, Spe et Charitate, 13,46.
[11] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 31

Ciò che emerge nel corpus agostiniano è una permanente tensione tra l’idea di
uomo creato buono per natura ma che tuttavia inspiegabilmente orienta la sua volontà
al male70. Non a caso nell’esegesi di gn 3 mentre gli autori orientali, seppur con auto-
revoli eccezioni71, tendono perlopiù ad attribuire la responsabilità del peccato di
Adamo all’influenza ab extra del serpente–Satana, per Agostino si fa strada l’idea che
indipendentemente dall’opera del tentatore l’uomo avrebbe comunque peccato72.
Dal momento in cui il peccato adamico è in grado di corrompere la stessa natura
fino a rendere l’umanità una “massa dannata”73 non stupisce la posizione di Agostino
nei confronti dei bambini morti senza il battesimo:
«La concupiscenza dunque, che risiede nelle membra del corpo di questa morte come legge del
peccato, è in tutti i bambini fin dalla nascita. Nei bambini battezzati perde il reato e rimane per es-
sere combattuta in avvenire; se essi muoiono prima dell’età del combattimento, non comporta per
loro nessuna condanna. Nei bambini non battezzati la concupiscenza continua ad essere reato e li
conduce alla condanna come figli d’ira, anche se muoiono da piccoli»74.

Tale concezione, accettata poi dal 15° Sinodo di Cartagine (A.D. 418)75, costi-
tuirà la base per la successiva teoria del limbo76, ancor oggi in auge come ipotesi teo-
logica77.
In conclusione, per Agostino l’uomo adamico era buono per natura, ma la con-
danna scaturita dal peccato ha corrotto tale natura talché per riguadagnare la condi-
zione pristina l’unico mezzo di cui l’uomo può disporre è la grazia divina78 visto che
non è neanche più completamente libero di orientare la sua libertà a causa dell’igno-
ranza e la debolezza provocate dalla caduta dei progenitori79.

Uomo e persona
Il discorso sulla natura dell’uomo e la sua libertà, soprattutto l’idea che in Ago-
stino sta alla sua base e cioè l’unità dell’uomo in Adamo, può essere meglio compreso
alla luce della creazione di un vocabolario tecnico che nello stesso periodo la contro-

70
Cfr. ad es. De nat. boni c. Man., 36 con De lib. arb., 2.20.54.
71
Ad es. Efrem Siro, In Gen., 2,16.
72
De Civ. Dei, 14,13; De Fide et Symbolo, 4,6.
73
De Civ. Dei, 21,12.
74
De Peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, II, 4,4 (trad. Nuova Biblioteca
Agostiniana, ed. Città Nuova). Analoga posizione nel De Civ. Dei, 16,27 e in Ep., 157,3,18.
75
Can. 2: «…anche i bambini, che non abbiano potuto ancora commettere peccato alcuno in se
stessi, tuttavia vengono veracemente battezzati per la remissione dei peccati, acciocché mediante la rige-
nerazione venga in essi purificato quanto essi attraverso la generazione hanno contratto» (Denz. 223).
76
Cfr. Denz. 2626.
77
Nell’incipit del documento della Commissione Teologica Internazionale “La speranza della sal-
vezza per i bambini che muoiono senza battesimo”, approvato nel gennaio 2007 si precisa che quella del
limbo «rimane un’ipotesi teologica possibile».
78
De Civ. Dei, 15,1.2.
79
De lib. arb., 3.18.52.
32 V. Polidori [12]

versia trinitaria fornisce all’antropologia cristiana80 in via di sistematizzazione per ri-


flettere su se stessa.
È soprattutto la lunga diatriba sul significato del binomio hypostasis/persona
sviluppatasi soprattutto tra il Concilio di Nicea (A.D. 325) e quello di Costantinopoli
(A.D. 381)81 a costituire il terreno di questa riflessione, e anche in questo caso
l’Oriente e l’Occidente sembrano, a grandi linee, imboccare strade diverse.
In generale in Occidente la teologia trinitaria risulta improntata maggiormente
sul sottolineare unicità della sostanza, non ultimo per l’oggettiva povertà del latino fi-
losofico rispetto al greco:
«Per parlare dell’ineffabile, affinché potessimo esprimere in qualche modo ciò che in nessun
modo si può spiegare, i nostri greci hanno usato questa espressione: una essenza, tre sostanze; i
Latini invece: una essenza o sostanza, tre Persone, perché, come abbiamo già detto, nella nostra
lingua, cioè in latino, “essenza” e “sostanza” sono correntemente considerate sinonimi»82.

L’ipponate, che altrove83 confessa di non padroneggiare affatto la lingua greca,


dimostra di non aver chiaro quello slittamento semantico del lessema ὑπόστασις che,
come si è visto, nella sponda orientale del mediterraneo si era determinato nella se-
conda metà del IV secolo grazie all’opera dei cappadoci tale che ora esso non desi-
gnava più la sostanza84 ma l’individualità di una sostanza:
«I greci, è vero, se volessero, potrebbero chiamare i Tre prosopa: tre persone, come chiamano le
tre ipostasi: tre sostanze. Ma hanno preferito questa espressione, che forse è più conforme alla na-
tura della loro lingua. D’altra parte per le ”persone” le cose stanno allo stesso modo che per la
“sostanza”, perché per Dio essere ed essere persona non sono cose diverse, ma assolutamente la
stessa cosa»85.

Questo che difficilmente si può descrivere altrimenti che un esiziale pasticcio


terminologico, potrebbe forse costituire una delle chiavi di lettura per decifrare la so-
vrapposizione dei concetti di “sostanza” e “persona” che Agostino mostra a livello
antropologico. Dal momento, infatti, che non è in discussione l’evidenza di realtà sto-
rica del racconto di gn 3, la conseguenza pratica di tale disordine semantico è quella
di ritrovarsi a descrivere un’umanità afflitta da una sorta di virus contratto dai proge-

80
Sorvolerò in questa sede sul classico topos agostiniano dell’uomo costituito strutturalmente in
analogia alla Trinità, sulla cui importanza i manuali hanno fin troppo insistito ma che a mio avviso non
aggiunge nulla a quanto già detto sin qui. Per una rapida e recente sintesi sul tema si può vedere B. Mondin,
Storia della Metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998, Vol. II, pp. 184–189.
81
M.C. Steenberg, Of God and Man. Theology as Anthropology from Irenaeus to Athanasius, T&T
Clark, London – New York 2009, pp. 115–127. Steenberg, tuttavia, sostiene che il riflesso antropologico
della terminologia trinitaria post–nicena, diventi influente solo a partire da Cirillo di gerusalemme.
82
De Trin., 7,4,7.
83
Confessioni, I, 13.20.23.
84
E.g. Aristotele, De mundo, 395a.30 (Ed. Lorimer); Teofrasto, De sensu et sensibilibus, CP 5.16.4
(Ed. Diels).
85
De Trin., 7,6,11.
[13] “Uomo” e “persona umana” in età patristica 33

nitori e che ha riguardato non la loro persona ma la loro sostanza, e dunque la so-
stanza comune all’intero genere umano.

Conclusioni
Anche solo da questa rassegna, fin troppo sintetica per selezione di autori e
temi, sembra emergere un diverso approccio all’idea di “uomo” e “persona umana”
negli scrittori ecclesiastici orientali e occidentali. Tali differenze si snodano secondo
un asse binario: da una parte l’imperfetta corrispondenza tra il lessema greco
ὑπόστασις e il latino “persona”, emersa a margine delle dispute trinitarie della fine
del IV secolo, può aver condotto gli autori occidentali a sovrapporre il portato antro-
pologico di “sostanza” e “ipostasi–persona”. In quest’ottica, ad esempio, va situata
l’affermazione agostiniana che tutto ciò che predichiamo di Dio riguarda la so-
stanza86. Tale concetto, trasposto in termini antropologici, porta inevitabilmente al-
l’idea che “tutti gli uomini sono uno in Adamo” e dunque ne ereditano la natura cor-
rotta.
Parallelamente si sviluppa in Occidente un’antropologia – e conseguentemente
una soteriologia – pensata secondo categorie giuridiche che si declinano spesso in an-
tinomie (ad esempio “natura” e “grazia”, o “peccato” e “colpa”, distinzione comple-
tamente sconosciuta all’Oriente cristiano), destinata fatalmente ad aprire le porte a
nuovi e inaspettati sviluppi sia teologici (peccato originale “originante” e “originato”)
che ecclesiologici (indulgenze) e spalancare un abisso di incomunicabilità che tuttora
sperimentiamo tra quelli che, forse con eccessiva disinvoltura, sono stati chiamati “i
due polmoni” della Chiesa: di fatto il persistere di due approcci antropologici così di-
versi tra loro costituisce un problema nel dialogo ecumenico non meno serio di quello
relativo al primato petrino o alla processione dello Spirito Santo, del quale si deve
prendere atto con serietà. In questo, come in molti altri temi, è la ricerca storica con-
dotta con acribia il necessario punto di partenza per ripensare l’unità dei cristiani
senza ideologismi.

RÉSUMÉ

L’article traite de quelques aspects anthropologiques dans l’Orient et l’Occident chrétiens au cours
de ce que l’on a appelé la période patristique. à partir du IIIe siècle, on observe chez les auteurs
ecclésiastiques latins un glissement progressif de l’anthropologie grecque optimiste basée sur le concept
de theōsis (divinisation) vers une autre conception largement influencée par l’idée du péché originel et de
ses conséquences pour la nature humaine. Au cours des siècles, cette divergence a conduit jusqu’à une
véritable rupture entre l’Orient et l’Occident, conditionnant encore aujourd’hui le dialogue œcuménique.

86
De Trin., 5,3,4.

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